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Università di Firenze Corso di Laurea in Economia Aziendale Prof. Andrea Marescotti - 1 - 2. AGRICOLTURA E SISTEMA AGRO-ALIMENTARE Giovanni Belletti, Andrea Marescotti 1. AGRICOLTURA E SVILUPPO ECONOMICO ................................................................................ 2 1.1. I CAMBIAMENTI DELLAGRICOLTURA ................................................................................................. 2 1.2. L’AGRICOLTURA NELLA FASE DELLA MODERNIZZAZIONE .................................................................. 2 1.3. SCOMPONIBILITÀ E DIVISIBILITÀ DEI PROCESSI E IL CONTOTERZISMO................................................. 9 1.4. LA NASCITA DEL SISTEMA AGROALIMENTARE MODERNO ................................................................. 15 1.5. OMOLOGAZIONE E SCONNESSIONI AGRICOLE ................................................................................... 18 1.6. I MARGINI DISTRIBUTIVI ................................................................................................................... 20 2. CARATTERISTICHE DEL SISTEMA AGRO-ALIMENTARE ................................................... 28 2.1. IL SISTEMA AGRO-ALIMENTARE (E AGRO-INDUSTRIALE) .................................................................. 28 2.2. L’ARTICOLAZIONE ORIZZONTALE DEL SISTEMA AGRO-ALIMENTARE: I SETTORI DI ATTIVITÀ ................................................................................................................................................. 31 2.3. L’ARTICOLAZIONE VERTICALE DEL SISTEMA AGRO-ALIMENTARE: LA FILIERA ................................. 32 2.4. I BILANCI DI APPROVVIGIONAMENTO................................................................................................ 38 2.5. L’ANALISI DEL SISTEMA AGRO-ALIMENTARE................................................................................... 40 2.6. MERCATO CONCORRENZIALE E MONOPOLIO. CONCORRENZA MONPOLISTICA, OLIGOPOLIO ............. 52 3. L’EVOLUZIONE DEL SISTEMA AGRO-ALIMENTARE ........................................................... 57 3.1. L’EVOLUZIONE DEI CONSUMI ALIMENTARI E LE NUOVE TENDENZE DEL CONSUMATORE .................. 57 3.2. LO SVILUPPO DELLINDUSTRIA DI TRASFORMAZIONE ....................................................................... 68 3.3. L’AVVENTO DELLA MODERNA DISTRIBUZIONE ................................................................................. 71 3.4. I PRODOTTI A MARCA COMMERCIALE (“PRIVATE LABELS”) .............................................................. 80 3.5. REAZIONI E ATTEGGIAMENTI STRATEGICI DELLINDUSTRIA ALIMENTARE E DELLE IMPRESE AGRICOLE ................................................................................................................................................ 84 3.6. IL MODELLO DI PRODUZIONE AGRO-ALIMENTARE............................................................................. 93 4. VERSO UN NUOVO MODELLO: QUALITÀ E NUOVI RAPPORTI AGRICOLTORI-CONSUMATORI ..................................................................................................... 106 4.1. L’ASCESA DI UN NUOVO MODELLO DI PRODUZIONE E DI CONSUMO AGRO-ALIMENTARE................. 106 4.2. IL RECUPERO DEI RAPPORTI DIRETTI AGRICOLTURA-CONSUMO: LE FILIERE CORTE......................... 112 4.3. L’ESTENSIONE DELLATTIVITÀ AGRICOLA VERSO NUOVE ATTIVITÀ ............................................... 124 SINTESI .................................................................................................................................................. 137 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ...................................................................................................... 140

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Università di Firenze Corso di Laurea in Economia Aziendale Prof. Andrea Marescotti

- 1 -

2. AGRICOLTURA E SISTEMA AGRO-ALIMENTARE

Giovanni Belletti, Andrea Marescotti 1. AGRICOLTURA E SVILUPPO ECONOMICO ................................................................................ 2

1.1. I CAMBIAMENTI DELL ’AGRICOLTURA ................................................................................................. 2

1.2. L’ AGRICOLTURA NELLA FASE DELLA MODERNIZZAZIONE .................................................................. 2 1.3. SCOMPONIBILITÀ E DIVISIBILITÀ DEI PROCESSI E IL CONTOTERZISMO................................................. 9

1.4. LA NASCITA DEL SISTEMA AGROALIMENTARE MODERNO ................................................................. 15 1.5. OMOLOGAZIONE E SCONNESSIONI AGRICOLE ................................................................................... 18

1.6. I MARGINI DISTRIBUTIVI ................................................................................................................... 20 2. CARATTERISTICHE DEL SISTEMA AGRO-ALIMENTARE .... ............................................... 28

2.1. IL SISTEMA AGRO-ALIMENTARE (E AGRO-INDUSTRIALE) .................................................................. 28 2.2. L’ ARTICOLAZIONE ORIZZONTALE DEL SISTEMA AGRO-ALIMENTARE : I SETTORI DI

ATTIVITÀ ................................................................................................................................................. 31

2.3. L’ ARTICOLAZIONE VERTICALE DEL SISTEMA AGRO-ALIMENTARE : LA FILIERA ................................. 32

2.4. I BILANCI DI APPROVVIGIONAMENTO ................................................................................................ 38

2.5. L’ ANALISI DEL SISTEMA AGRO-ALIMENTARE ................................................................................... 40

2.6. MERCATO CONCORRENZIALE E MONOPOLIO. CONCORRENZA MONPOLISTICA, OLIGOPOLIO ............. 52 3. L’EVOLUZIONE DEL SISTEMA AGRO-ALIMENTARE ....... .................................................... 57

3.1. L’ EVOLUZIONE DEI CONSUMI ALIMENTARI E LE NUOVE TENDENZE DEL CONSUMATORE .................. 57 3.2. LO SVILUPPO DELL’ INDUSTRIA DI TRASFORMAZIONE ....................................................................... 68 3.3. L’ AVVENTO DELLA MODERNA DISTRIBUZIONE ................................................................................. 71

3.4. I PRODOTTI A MARCA COMMERCIALE (“PRIVATE LABELS”) .............................................................. 80 3.5. REAZIONI E ATTEGGIAMENTI STRATEGICI DELL’ INDUSTRIA ALIMENTARE E DELLE IMPRESE

AGRICOLE ................................................................................................................................................ 84

3.6. IL MODELLO DI PRODUZIONE AGRO-ALIMENTARE ............................................................................. 93 4. VERSO UN NUOVO MODELLO: QUALITÀ E NUOVI RAPPORTI AGRICOLTORI-CONSUMATORI ..................................................................................................... 106

4.1. L’ ASCESA DI UN NUOVO MODELLO DI PRODUZIONE E DI CONSUMO AGRO-ALIMENTARE ................. 106 4.2. IL RECUPERO DEI RAPPORTI DIRETTI AGRICOLTURA-CONSUMO: LE FILIERE CORTE ......................... 112 4.3. L’ ESTENSIONE DELL’ATTIVITÀ AGRICOLA VERSO NUOVE ATTIVITÀ ............................................... 124

SINTESI .................................................................................................................................................. 137 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ......................... ............................................................................. 140

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2. Agricoltura e sistema agro-alimentare

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1. Agricoltura e sviluppo economico

1.1. I cambiamenti dell’agricoltura

Il processo di sviluppo dell'agricoltura nelle economie avanzate segue percorsi non sempre chiari e univoci. La trasformazione dell'economia, la crescente apertura dei mercati, l'introduzione di innovazioni hanno portato l'agricoltura a mutare aspetto e funzioni nel tempo e nello spazio, dando origine a modelli di sviluppo originali così come ad originali e diverse modalità di integrazione all’interno nel sistema economico e della società.

Negli ultimi decenni nelle economie avanzate il settore agricolo ha subito una rapida accelerazione del suo processo evolutivo, che ha comportato da un lato una forte contrazio-ne del numero di aziende agricole presenti sul territorio, e dall’altro un cambiamento della natura e dell’organizzazione dei processi produttivi attivati, con una progressiva espulsione di fasi del processo produttivo “tradizionale”, e contemporaneamente all’acquisizione di nuove fasi e funzioni, in un processo di “frantumazione” e “ricom-posizione” di attività, attivando e disattivando relazioni a livello locale e a livello glo-bale.

Questo processo di ristrutturazione dell’azienda agricola e del settore nel suo complesso è stato accompagnato, assecondato, stimolato, talvolta ritardato, dalle politi-che agricole messe in atto dall’operatore pubblico ai vari livelli. In questo contesto un ruolo di primo piano negli ultimi cinquant’anni è stato giocato in Europa dalla Politica Agricola Comunitaria (Pac) che, sia per l’importanza “economica” delle risorse destina-te al settore agricolo, che per la sua innegabile importanza “politica” nell’ambito del processo di costruzione di un’Europa unita, ha infatti inciso profondamente sui cam-biamenti strutturali dell’agricoltura.

Certamente il cambiamento più evidente risiede, ad una prima lettura, nella per-dita di “peso” economico, sociale e anche politico che il settore agricolo esercita all’interno del sistema socio-economico. Se ripercorriamo le principali tappe del cam-mino che ha condotto il settore agricolo ad assumere l’attuale configurazione struttura-le, organizzativa ed istituzionale, è possibile renderci conto delle grandi trasformazioni che il settore agricolo, e le aree rurali più in generale, hanno affrontato, e delle conse-guenze che tali trasformazioni hanno prodotto sull’organizzazione del lavoro e delle professionalità richieste non solo dal settore agricolo, ma dall’insieme delle attività che intorno ad esso ruota.

In sostanza negli ultimi cinquant’anni l’agricoltura ha visto trasformare profon-damente i propri caratteri strutturali e assetti organizzativi, sia a livello di singola azienda/impresa che a livello di settore agricolo e di sistema agro-industriale. Di pari passo con cambiamenti più generali che hanno interessato il sistema economico e la società, sono mutate, seppur con livelli e ritmi differenziati tra tipologie aziendali e aree territoriali, le modalità di connessione delle imprese agricole sia con gli altri operatori che a vario livello concorrono alla realizzazione dei prodotti agro-industriali per il mercato finale (settore fornitore di input, trasformazione di prodotti agricoli, commercializza-zione e distribuzione, servizi, operatore pubblico), sia le modalità di interrelazione dell’impresa agricola a livello territoriale, a causa del modificarsi delle strutture econo-miche e istituzionali delle aree rurali.

1.2. L’agricoltura nella fase della modernizzazione

Il grande cambiamento dell’agricoltura e nelle aree rurali può dirsi procedere – o comunque subire una fortissima accelerazione - dalla fine degli anni ’50 dello scorso secolo. Fino a quel momento infatti l’agricoltura era il settore dominante delle aree rurali, contrapposto ad un settore industriale assoluto protagonista nelle aree urbane. La con-trapposizione rurale-urbano era quindi coincidente con quella agricoltura-industria, ma an-che arretratezza-modernità, tradizione-progresso. La città assumeva il ruolo di motore di sviluppo non solo del sistema economico, ma anche di quello culturale, mentre

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l’agricoltura (e dunque le aree rurali) giocavano un ruolo di servizio alla crescita del settore industriale e urbano.

Negli anni ’60 il tumultuoso processo di (re-)industrializzazione dei sistemi economici induce un rapido cambiamento: le città (le industrie) drenano risorse finanziarie e so-prattutto umane dalle aree rurali (esodo agricolo e rurale), le più marginali e svantag-giate delle quali subiscono diffusi fenomeni di spopolamento, con gravi conseguenze economiche, sociali, culturali e ambientali. Questi fenomeni portano a considerare in modo crescente le aree rurali come “aree problematiche” in quanto arretrate o a rischio di arretratezza, oggetto di specifici bisogni che non sono semplicemente quelli dello svi-luppo dell’attività agricola: la senilizzazione della popolazione, la carenza di servizi di prima necessità, il degrado ambientale e paesaggistico nonché sociale e culturale sono i problemi che assumono un crescente rilievo all’attenzione dei policymakers.

L’attenzione e gli sforzi erano riposti nel garantire il sostegno al processo di indu-strializzazione, nell’ambito del più generale sforzo di “modernizzazione” del sistema economico (e sociale). Puntare sull’industria e adottare in tutti i settori dell’economia i principi base del modello di sviluppo industriale (sistema di fabbrica, specializzazione, economie di scala, tecnologie capital-intensive, etc.) appariva chiaramente come la chiave del “progresso” della nazione.

In questo periodo si assiste dunque anche alla massima diffusione del modello della “modernizzazione” in agricoltura (“produzione di massa”), che implica una parti-colare organizzazione delle attività all’interno dell’impresa agricola, con la crescente introduzione di innovazioni tecnologiche di tipo capital-intensive e con lo sviluppo delle attività industriali connesse all’attività agricola (settori fornitori di input e della tra-sformazione e commercializzazione di prodotti agricoli).

La necessità di “modernizzare” l’agricoltura, ovvero di incorporare i principi del-la industrializzazione fordista all’intero dei processi produttivi agricoli e delle modalità organizzative delle imprese agricole, si inserisce nel più generale modello di sviluppo economico perseguito in questo periodo, che si basava essenzialmente sull’adozione di tecniche e modalità organizzative “industriali” tipiche della produzione di massa, e sul potenziamento del settore industriale, unico capace di trainare la crescita dei sistemi economici e, per tale via, di indurre benessere nella popolazione.

In effetti la maggior parte degli studiosi, constatando come la continua perdita di importanza del settore agricolo sia caratteristica della crescita delle moderne economie industriali, ha per molto tempo ritenuto che il processo di crescita dovesse necessariamente passare attraverso una progressiva “marginalizzazione” del settore agricolo (il cui peso ecces-sivo all'interno del sistema economico non costituiva che un ostacolo) a vantaggio del settore industriale, il quale appariva dunque il solo capace di far crescere l'economia a tassi sostenuti.

Pertanto le strategie di sviluppo pro-poste hanno poggiato per molto tempo su di una concentrazione degli investimenti nel settore industriale, sulla creazione di una massa di lavoratori dotati di adeguata for-mazione professionale, nonché su di un mi-glioramento continuo delle tecniche produt-tive impiegate nel settore industriale, mentre lo "sviluppo" sarebbe stato raggiunto auto-maticamente con la crescita1.

Il settore industriale, attraverso la divi-sione del lavoro, l’aumento della dimensione degli impianti e delle imprese e la meccanizzazione delle operazioni, garantiva ritmi di

1 Nonostante siano spesso usati come sinonimi, è opportuno distinguere tra il concetto di crescita (growth) e quello di sviluppo (development): il primo termine fa riferimento alle sole variabili di natura economica (produzione, consumi, occupazione, redditi, ecc.), ed é riferito ad un aumento dell'entità delle stesse, men-tre il secondo ha un significato più ampio e tiene conto anche di variabili connesse alle condizioni sociali, culturali, politiche del paese in esame, evidenziando in misura maggiore gli effetti della crescita sul benes-sere dei singoli cittadini [Hogendorn, 1990; Volpi, 1994].

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aumento della produttività del lavoro fino ad allora impensabili. Al contrario, per le caratteristiche specifiche dei processi produttivi e per la struttura sociale e dei diritti di proprietà, il settore agricolo permaneva in una situazione di stagnazione e scarsa reat-tività agli stimoli dell’innovazione tecnologica

I paesi la cui l’industria cresceva più rapidamente beneficiavano dei più alti livel-li di ricchezza. E’ naturale che l’obiettivo del modello di sviluppo economico dovesse poggiare sullo stimolo alla crescita ulteriore del settore industriale, la quale avrebbe beneficiato l’intera società. All’agricoltura era dunque riservato un ruolo di puro sup-porto, in particolare di fornitura di fattori di produzione (in particolare lavoro) e pro-duzione di alimenti a prezzi contenuti per facilitare la compressione dei salari reali del settore industriale e, per tale via, l’accumulazione di capitale e il reinvestimento dei profitti.

Relazione tra PIL pro-capite e incidenza percentuale dell’agricoltura sul PNL

L’industria era il settore che poteva garantire maggiori aumenti di produttività

delle risorse e dei profitti, grazie all’adozione dei principi base della modernizzazione: - perseguimento di economie di scala (fabbriche ed impianti industriali di

grandi dimensioni); - introduzione della meccanizzazione (sostituzione del lavoro con capitale/

macchine); - divisione del lavoro e specializzazione delle operazioni; - regolarità e standardizzazione della produzione. La crescita del settore industriale avrebbe beneficiato tutta la popolazione. Se in-

fatti nella fase di avvio del processo di industrializzazione le disuguaglianze sociali avrebbero potuto aumentare, nel tempo i ritmi di crescita della produzione industriale avrebbero raggiunto tutte le classi sociali, col cosiddetto effetto “sgocciolamento” (trickle-down).

Dato per scontato il ruolo guida del settore industriale, lo scontro teorico si spo-stava su di un ventaglio di questioni strategiche più o meno decisive: occorreva privi-legiare l'adozione di tecniche produttive industriali ad alta o bassa intensità di mano-dopera? Nelle prime fasi della crescita era da preferire l'industria pesante (tipicamente la produzione di beni di investimento) o leggera (produzione di beni di consumo)? La crescita economica doveva scaturire e trasmettersi al sistema dalla concentrazione degli investimenti in pochi "poli" di sviluppo localizzati territorialmente (aree geografiche, settori economici) o procedere invece da investimenti di dimensione più limitata ma diffusi su tutto il territorio e in tutti i settori (investimenti "a pioggia")?

Dunque, nell'evoluzione del pensiero economico, la fiducia riposta nelle capacità e nei possibili contributi che il settore agricolo era in grado di fornire al processo di crescita era andata in pratica diminuendo in linea con l'effettivo contributo di questo settore all'e-conomia dei paesi avanzati in termini di occupazione e di valore aggiunto: l'agricoltura

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veniva sempre più relegata al ruolo di fornitrice di manodopera a buon mercato agli altri settori, e di produttrice di alimenti a prezzi decrescenti per l'intero sistema economico. Si trattava dunque di un ruolo passivo, di "serbatoio" di risorse a cui dovevano attingere gli altri settori, e non già di un ruolo attivo, di "motore" della crescita [Gorgoni, 1983].

Accoltane la validità universale, il modello di crescita e di sviluppo occidentale basato sull'industrializzazione é stato poi esteso anche ai problemi delle economie arre-trate e prevalentemente agricole, i quali venivano liquidati abbastanza semplicistica-mente: se la chiave di volta della crescita consisteva nel promuovere l'industrializza-zione, sarebbe stato sufficiente che questi paesi si dotassero di un apparato industriale di base capace poi, raggiunto un minimo livello di accumulazione, di procedere auto-nomamente tramite autofinanziamento e reinvestimento dei profitti realizzati nell'in-dustria. Considerato poi che si procedeva dall'assunto che nei paesi poveri il sistema economico non fosse “per il momento” in grado di svilupparsi a partire soltanto dalle risorse e capacità locali, non restava altro da fare che iniettare capitali, tecnologie e co-noscenze dall'esterno in modo tale da costituire nel paese ricevente un capitale minimo di partenza e un tasso di produttività che, consentendo il superamento dello "zoccolo" iniziale, fosse in grado di garantire un saggio positivo di crescita economica senza ne-cessità di ulteriori apporti2.

In questo periodo di ottimismo generalizzato, in cui si registrava un effettivo for-te aumento del tasso di crescita delle economie dei paesi industrializzati, si riteneva che la ricchezza, il possesso dei beni, la progressiva liberazione dal lavoro (quanto me-no da quello più pesante) fossero a portata di mano dell'umanità: pochi mettevano in dubbio il fatto che, una volta avviata, la crescita divenisse automatica e si autoriprodu-cesse diffondendosi tra le nazioni e tra le classi sociali inferiori. Non sarebbe stato dun-que necessario preoccuparsi di problemi di equità, di redistribuzione del reddito tra le classi sociali, di povertà: la crescita si sarebbe trasmessa, con effetto "sgocciolamento" (trickle-down), dalle classi superiori fino a quelle inferiori, e dunque la crescita avrebbe condotto automaticamente allo "sviluppo" [Volpi, 1991].

Box – la crescita a stadi nel modello di Rostow

All'interno della letteratura sulla crescita economica assume un particolare rilievo, sia per la base empiri-ca su cui poggia, sia per l'importanza che ha avuto nel dibattito scientifico, la teoria di Rostow [1962] de-gli "stadi di sviluppo", che può essere inserita all'interno della scuola della modernizzazione e, anzi, ne rappresenta una delle più note elaborazioni. Secondo questa teoria ogni società può essere collocata in una delle seguenti cinque categorie, che rappre-sentano altrettanti stadi di sviluppo:

I) società tradizionale: è il gradino iniziale nel sentiero di crescita. La società é fondata sul settore prima-rio, il quale contribuisce con più del 50% alla formazione del reddito nazionale e occupa più del 70% degli attivi; la mancanza di "tecnica moderna" limita le possibilità di aumento della produttività dei fattori im-piegati in agricoltura e di conseguenza l'espansione della produzione agricola. La maggior parte della popolazione vive ad un livello di sussistenza. Esempi di questa fase sono indicati da Rostow nella Europa medievale, e nella Cina dinastica. Oggi numerosi Pvs (o regioni di essi) potrebbero essere collocati in que-sto stadio di sviluppo; II) fase di transizione: in questa fase si sviluppano le condizioni preliminari per la fase successiva del de-collo; l'agricoltura assume qui un ruolo fondamentale, ancorché passivo, sia nel produrre nutrimento per gli altri settori, sia nel fornire, attraverso le esportazioni, preziosa valuta straniera per importare tecnolo-gia. Inoltre il forte impegno dell'operatore pubblico, necessario per sostenere la nascita e lo sviluppo dell'industria manifatturiera e dei trasporti, è sostenuto in gran parte tramite le imposte fondiarie. Questa fase, durante la quale l'agricoltura è chiamata al suo massimo sforzo per produrre risorse per la costru-zione del settore "avanzato", è spesso caratterizzata da gravi perturbazioni sociali e politiche, con frequen-ti avvincendamenti al potere e con la presenza di regimi dittatoriali che mirano ad ottenere il massimo rendimento dal fattore lavoro e comprimere i consumi. Secondo Rostow in molti casi questa fase é stata raggiunta dai Paesi non in maniera autonoma, ma grazie all'apporto di capitali e tecnologie da parte di paesi stranieri più avanzati, mentre altri paesi hanno invece raggiunto questa fase grazie alla possibilità di sfruttare nuove risorse naturali interne, come ad esempio è stato in passato il caso degli Stati Uniti, del Canada e dell'Australia, ed oggi di molti dei paesi esportatori di petrolio [Ferro, 1988]; III) fase di decollo ("take-off"), in cui il notevole aumento degli investimenti fa sorgere e crescere nuove industrie; in essa viene raggiunto in pratica quel saggio minimo di accumulazione di capitale nel settore

2 Evidentemente questo approccio forniva ai paesi avanzati (industrializzati) anche una buona giustifica-zione della prosecuzione dell’assistenza e dell’aiuto - e più in generale di intervento - sulle economie dei paesi poveri, molti dei quali (soprattutto in Africa e in Asia) avevano raggiunto l’indipendenza “politica” solo da pochi anni.

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industriale a partire dal quale si innesca un processo di crescita cumulativa autoalimentata. Il reinvesti-mento dei profitti nel settore industriale è reso possibile anche dalla scarsa possibilità di impieghi alterna-tivi in settori diversi. La caratteristica più importante di questa fase è che la quota degli investimenti netti (al netto cioè degli ammortamenti) rispetto al reddito nazionale raggiunge il 5-10% o più, inducendo uno sviluppo del settore industriale che fa da traino al resto dell'economia [Hettne, 1986]. L'agricoltura inizia a perdere il suo ruolo centrale per cederlo all'industria. Tra le condizioni indispensabili all'avvio di questa fase troviamo il trasferimento di capitali dall'agricoltura agli altri settori e la presenza di élites politiche nazionalistiche e illuminate; IV) fase di maturità: questa fase si caratterizza per la presenza di industrie ad alto contenuto tecnologico, da una sempre maggiore integrazione dell'economia nel sistema del commercio internazionale e dallo stabilizzarsi del livello degli investimenti intorno al 10-20% del PNL. L'esodo agricolo continua a ritmi sostenuti andando ad innalzare il grado di urbanizzazione della società, mentre si sviluppa il settore se-condario ed in particolare il settore terziario; V) fase dei grandi consumi di massa: il sistema economico, dopo aver provveduto al soddisfacimento dei bisogni essenziali della collettività - individuabili schematicamente in alimentazione, abitazione e vestia-rio - rivolge la propria attenzione verso la produzione di beni di consumo durevoli di massa. Il settore pubblico interviene per garantire l'occupazione e combattere la disoccupazione, gli infortuni e le malattie e l'agricoltura assume un ruolo sempre più secondario all'interno del sistema economico.

Al di là della quinta fase, secondo Rostow, non é possibile prevedere l'evoluzione del sistema economico e quindi ipotizzare altri stadi di sviluppo. In sintesi il modello di Rostow vede lo sviluppo come processo evolutivo continuo; esso tuttavia resta un modello puramente descrittivo, e solo occasionalmente si sofferma ad analizzare i meccanismi attraverso i quali il passaggio da una fase all'altra può avvenire. Tuttavia è esplicito nel modello il ruolo di fondamen-tale importanza che il settore agricolo deve svolgere per permettere all'intero sistema economico di "de-collare", anche se al settore agricolo viene affidato soprattutto un ruolo passivo.

Box – il modello di Lewis

Il modello di Lewis [1954] é un tentativo di illustrare il ruolo che il settore rurale e agricolo riveste nel processo iniziale di accumulazione di capitale per l'industria, e le modalità secondo cui avviene il trasfe-rimento di manodopera da un settore all'altro dell'economia: la descrizione di questo processo può coin-cidere all'incirca con l'illustrazione del meccanismo attraverso il quale il sistema economico può crescere durante la fase di "decollo" individuata da Rostow. Gli studi di Lewis, che fanno parte della scuola della modernizzazione, dettero inizio al filone dei "model-li dualistici" [Gorgoni, 1983], i quali ipotizzavano l'esistenza di uno stretto dualismo settoriale all'interno dell'economia: ad un settore moderno, dinamico e capitalista, si contrappone un settore tradizionale, arre-trato e pre-capitalistico, la cui produzione è destinata non al mercato ma prevalentemente all'autoconsu-mo. Le differenze tra i due settori sono riscontrabili soprattutto nei diversi criteri operativi che stanno alla base delle scelte imprenditoriali: mentre le imprese del settore avanzato (tipicamente identificato e coincidente coll settore industriale) hanno come obiettivo principale la massimizzazione dei profitti, nel settore tradizionale (tipicamente il settore agricolo, anche se può esservi ricompreso il settore dell'artigia-nato e del piccolo commercio) prevale l'impresa familiare-contadina, il cui obiettivo consiste piuttosto nel raggiungimento di un sufficiente livello di occupazione e di reddito all'interno del nucleo familiare, ne-cessario almeno per la reintegrazione della forza-lavoro impiegata, e nel raggiungimento della sicurezza alimentare. Lewis riferisce la sua analisi a sistemi economici caratterizzati dall'assenza di relazioni con l'estero (eco-nomia "chiusa"), e sostiene che durante il processo di crescita dell'economia al settore agricolo compete il compito di fungere da "serbatoio di manodopera" per il settore dinamico: infatti, una volta raggiunto un sufficiente livello di accumulazione di capitale, il settore moderno può espandersi sempre di più utiliz-zando quantità aggiuntive di manodopera a basso costo provenienti dal settore tradizionale. Nel modello riveste importanza centrale l'ipotesi, avvalorata da numerosi studi empirici, dell'esistenza di disoccupazione nascosta nel settore agricolo. Sostenere che esiste disoccupazione nascosta significa af-fermare che la produttività marginale del lavoro all'interno del settore tradizionale è molto prossima allo zero, e che dunque il settore arretrato (che per comodità di esposizione sarà d'ora innanzi identificato col settore agricolo) impiega in misura eccessiva il fattore lavoro e, conseguentemente, tende a sottoremune-rarlo nella media. Durante tutta la fase di espansione del settore moderno (o industriale, o "capitalistico") il lavoro non é dunque un fattore produttivo raro, e la funzione di offerta di lavoro é infinitamente elasti-ca rispetto ai tassi correnti di salario in esso vigenti. In altri termini, il saggio di salario é prefissato duran-te tutto il corso del processo di trasferimento di manodopera dai due settori: esso non deriva dall'entità della produttività marginale dei due settori ma, secondo Lewis, è dato dal "livello medio di sussistenza" nel settore arretrato e dunque dalle condizioni di produzione e remunerazione (oltre che più in generale dalle condizioni di vita) proprie del settore agricolo. Le altre ipotesi (complementari alla precedente) che stanno alla base del modello di Lewis si riferiscono alla omogeneità del fattore lavoro, alla maggior produttività presente nel settore capitalistico, e al fatto che i profitti realizzati nel settore industriale sono totalmente risparmiati e interamente reinvestiti al suo interno, mentre nullo é il risparmio e l'investimento netto nel settore agricolo. A queste condizioni, una volta innescato il processo di crescita, si verifica un trasferimento di manodope-ra dal settore arretrato (agricoltura) a quello avanzato (industria). Nella figura OS è il reddito di sussistenza e OW il livello medio dei salari del settore dinamico; la diffe-renza WS è giustificata dalla necessità di coprire il "costo psicologico di trasferta" dei contadini e la diffe-renza tra il costo della vita nelle città e quello nelle aree rurali. La curva Pmg1 mostra l'andamento della produttività marginale monetaria del fattore lavoro nel settore industriale ad un dato momento 1 di par-tenza; l'area WN1Q1 rappresenta dunque il profitto che, essendo totalmente reinvestito internamente al settore industriale stesso, porterà ad un aumento della dotazione (stock) di capitale, e farà spostare verso

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l'alto la curva della produttività marginale del lavoro (Pmg2, Pmg3, ecc.), permettendo l'impiego di un maggior quantitativo di manodopera (N2, N3, ecc.) che verrà dunque assorbita dal settore agricolo. Considerata poi la particolare condizione di sottoccupazione presente nel settore agricolo (produttività marginale del lavoro in agricoltura uguale a zero, come in La1, La2 e La3 nella figura), il trasferimento del fattore lavoro da un settore all'altro può avvenire senza che si abbia una parallela diminuzione della pro-duzione agricola e, dunque, senza che si pongano problemi di fornitura di alimenti ai nuovi salariati in-dustriali. Solamente quando il settore moderno avrà assorbito tutta la manodopera agricola disoccupata e sottoccupata si avrà la fine della dualità settoriale (anche se potrà certamente restare un dualismo tecno-logico, ovvero la presenza di un diverso rapporto capitale-lavoro nei due settori): a questo punto infatti anche l'agricoltura sarà costretta ad attenersi a criteri capitalistici (in quanto l'offerta del fattore lavoro non risulta più illimitata), e perderà così le proprie caratteristiche di "settore arretrato" e la sua funzione di "serbatoio"; solo allora il livello generale dei salari potrà iniziare la sua crescita allontanandosi dal livel-lo di sussistenza.

INDUSTRIA AGRICOLTURA

produzione

lavorolavoro

Li1 Li3Li2 La3 La1La2O

S

W

N1

N2

N3

produttivitàmarginale agricola

Pmg1 Pmg2Pmg3

profittoQ1 Q2 Q3

Passando ad esaminare un'economia "aperta", cioè l'economia di un paese inserita nel contesto interna-zionale, Lewis afferma soltanto che il numero di lavoratori assorbiti dall'industria potrà raggiungere livel-li più elevati, sia perchè ai lavoratori nazionali si potranno aggiungere quelli immigrati da altri paesi, sia perchè di fronte alla caduta del saggio interno di profitto conseguente all'aumento dei salari reali al di so-pra del livello di sussistenza (fase "monosettoriale" dell'economia) si potrà registrare un'esportazione di capitali in altri sistemi economici, ed il processo di assorbimento di lavoro potrà dunque continuare in un altro sistema economico. Il modello di Lewis ha dato origine a numerosi altri modelli fondati sul trasferimento della manodopera agricola eccedentaria che ne hanno perfezionato alcuni aspetti. Altrettanto numerose sono state tuttavia le critiche, parziali o totali, alle ipotesi di base su cui il modello di Lewis é fondato. Le perplessità sorgono soprattutto a proposito delle effettive possibilità di una crescita armonica ("bilanciata") dei due settori dell'economia, requisito indispensabile per lo sviluppo, e anche preoccupazione principale degli econo-misti di questo periodo [Throsby, 1989]. Il settore agricolo (o comunque il settore arretrato, non capitali-stico) incontra infatti problemi nel fornire alimenti ai salariati del settore capitalistico, poichè se anche la partenza di lavoratori dal settore agricolo ha l'effetto di innalzare il livello di produzione pro-capite di quelli rimasti, ciò si può tradurre in un aumento del consumo (o, meglio, dell'autoconsumo) da parte di questi ultimi e quindi in una mancata vendita delle eccedenze di prodotto ai lavoratori degli altri settori. Si consideri inoltre che, soprattutto nelle prime fasi dello sviluppo, i collegamenti fisici tra il settore tradi-zionale e quello dinamico (che spesso coincidono con i collegamenti tra mondo rurale e mondo urbano) possono essere non ancora sviluppati in maniera sufficiente a garantire l'approvvigionamento alimentare degli occupati nell'industria. Si rileva poi la difficoltà che il settore capitalistico può incontrare nel collocare i propri prodotti sul mer-cato, dal momento che ci si trova in economia chiusa (quindi nell'impossibilità di usufruire della doman-da estera) e nelle fasi iniziali dell'industrializzazione, caratterizzate dall'assenza di altre industrie con cui scambiare gli output e dall'insufficienza dei mercati di sbocco (ovvero dall'insufficiente potere di acquisto complessivo dei consumatori) [Volpi, 1991]. Il modello infatti si sofferma a descrivere esclusivamente i meccanismi di crescita del capitale fisso, tralasciando di prendere in esame l'aspetto di mercato: ma nel momento in cui all'output del settore dinamico vengono a mancare gli sbocchi di mercato, cessano anche gli stimoli al reinvestimento dei profitti e il processo si arresta.

Appare poi eccessivamente semplicistica la classificazione dualistica in settore arretrato e settore moder-no: ben difficilmente infatti un settore sarà completamente arretrato o completamente dinamico al suo interno, ed anzi nella maggior parte dei casi saranno presenti differenziazioni interne a ciascun settore anche di notevole entità [Gorgoni, 1983]. Il modello di Lewis non dedica neppure molto spazio alla risoluzione di quello che costituiva il problema fondamentale dei modelli di sviluppo di quel periodo, e cioè il modo in cui il sistema economico poteva liberarsi dai vincoli che si frapponevano al raggiungimento del sentiero di crescita: in pratica Lewis as-sume che il settore industriale abbia già innescato il processo di crescita, superando l'impasse della soglia minima di accumulazione di capitale e i problemi connessi ai meccanismi disponibili per l'estrazione di surplus dal settore agricolo.

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Affinché il settore agricolo potesse assolvere il suo ruolo di produzione di ali-menti a basso costo occorreva aumentare la produttività delle risorse. L’aumento della produttività poteva essere raggiunto grazie all’adozione di un Modello di Produzione Agricolo che sposasse appieno i principi della modernizzazione (o industrializzazione dei processi) anche nei processi produttivi dell’agricoltura (modernizzazione agricola).

Il Modello di Produzione Agricolo (MPA) nel periodo della modernizzazione

MPA: modalità con cui sono organizzate e svolte le attività inerenti il processo produttivo agricolo

Caratteristiche:

o specializzazione e semplificazione degli ordinamenti produttivi aziendali (disattivazione e destrutturazione delle imprese agricole)

o Maggiori relazioni con il mercato dei fattori (acquisto di macchine agricole, sementi, fertilizzanti, etc.), dei prodotti (cessione dei pro-dotti all’industria di trasformazione, centri di stoccaggio, distribu-zione commerciale, grossisti, ecc.) e dei servizi (contoterzismo, assi-stenza tecnica, credito, formazione, ecc.)

o Ricerca di economie di scala tramite aumento capitale fondiario e agrario. Aumento della dimensione economica delle imprese e (scomparsa dal mercato!) delle piccole imprese

o Impiego di tecnologie capital-intensive per l’aumento della produt-tività dei fattori

Le funzioni del settore agricolo nell'economia nel periodo della modernizzazione

1) aumentare l'offerta di prodotti alimentari, al fine di soddisfare la domanda in quantità e qualità della popolazione. Le quantità prodotte devono essere offerte a prezzi sempre più bassi in modo da rendere accessibili i prodotti alimentari anche agli strati più poveri della società; inoltre l'aumento dell'offerta indotto dal progresso tecnologico, nella misura in cui si trasmette in una diminuzione dei prezzi agricoli, conduce ad un aumento del reddito reale dei lavoratori degli altri settori, garan-tendo un adeguato saggio di accumulazione del capitale industriale e rendendo possibile l'aumento del consumo e del risparmio.

2) produrre alcune materie prime per il settore agro-industriale (ad esempio caucciù, cotone, legname), contribuendo allo sviluppo di altre attività collegate a monte e a valle e creando così occupazione e nuova ricchezza;

3) creare un flusso di esportazioni che permette di finanziare l'acquisto dall'estero di mezzi di produ-zione o di prodotti alimentari. Anche per le economie dei paesi avanzati, il contributo del settore agricolo alla bilancia commerciale può raggiungere livelli elevati, soprattutto se nel settore agricolo si ricomprende non solo l'agricoltura in senso stretto ma anche l'attività di trasformazione e com-mercializzazione collegata a valle;

4) cedere forza-lavoro al settore extra-agricolo, tanto che, soprattutto nelle prime fasi del processo di crescita economica, tale settore è spesso considerato soltanto come "serbatoio di manodopera". Si fa notare infatti come nell'agricoltura siano presenti fenomeni di sottoccupazione e disoccupazione nascosta e che quindi é possibile liberare manodopera da questo settore senza causare nel con-tempo una diminuzione della produzione complessiva, reimpiegandola in maniera produttiva nel settore industriale e contribuendo così al processo di accumulazione del capitale industriale;

5) formare capitale e trasferirlo verso gli altri settori: come nel caso della cessione di forza lavoro, la sua rilevanza decresce tuttavia col procedere dello sviluppo stesso, in dipendenza della diminuzio-ne del peso dell'agricoltura nel PNL, fino a diventare poco significativa nelle economie avanzate. Gli strumenti attraverso i quali si opera questo trasferimento sono principalmente la creazione di risparmio extra-agricolo e il trasferimento di reddito diretto tra i settori. Il primo strumento opera attraverso l'aumento del reddito reale extra-agricolo derivante dalla diminuzione dei prezzi dei ge-neri alimentari; il secondo può agire sia tramite la libera iniziativa dei risparmiatori e degli investi-tori che per mezzo dell'azione governativa la quale, con opportune forme di redistribuzione, può far sì che il sostegno pubblico all'agricoltura risulti inferiore ai prelievi di carattere tributario e non tributario operati su di essa;

6) fornire un mercato di sbocco per i prodotti del settore extra-agricolo: lo sviluppo delle relazioni in-tersettoriali non é ovviamente caratteristica esclusiva del settore agricolo (qualsiasi settore si svi-luppi più rapidamente degli altri agisce da "locomotiva" per l'intera economia) ma, considerato che nella maggior parte dei casi é l'agricoltura il primo settore che compare sulla scena economica, é chiaro che spetta in modo particolare ad essa il ruolo di guida nelle fasi iniziali. L'accresciuto potere d'acquisto che può derivare dall'aumento di produzione del settore agricolo si riflette dunque in un aumento della domanda verso gli altri settori, sia di beni di consumo che di mezzi tecnici e beni di investimento.

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Anche le imprese agricole dovevano dunque introdurre tecnologie capital-intensive (meccanizzazione in primis), aumentare le dimensioni economiche (economie di scala), specializzarsi su un numero di operazioni e processi più contenuto (semplificazione degli ordinamenti produttivi), e orientarsi sempre più al raggiungimento di obiettivi di massimizzazione dei profitti e delle rese (criteri di conduzione capitalistici). Le imprese che non riuscivano ad introdurre i principi della modernizzazione avrebbero quindi abbandonato (dovuto abbandonare) il settore, liberando in questo modo risorse utili per lo sviluppo degli altri settori e/o attività (quindi anche altre imprese agricole più “moderne”) a produttività più alta [Johnson, 1975 e 1993].

In questo modo il settore agricolo era indirizzato su di un unico percorso / moda-lità di fare impresa, ispirato ai criteri industriali e omogeneo (cioè non differenziato) a seconda dei prodotti, dei territori, delle capacità imprenditoriali, etc.

Il trasferimento di risorse avveniva grazie ai differenziali di produttività del la-voro tra settore agricolo e settore industriale (vedi box Modello di Lewis) e in gran parte riguardava il trasferimento di lavoro e, in misura minore, di capitali. Bassa era invece la mobilità del fattore terra / capitale fondiario.

Le specificità agricole erano dunque interpretate come vincolo da eliminare al più presto sia per quanto riguarda i processi produttivi, che dovevano essere scientifi-cizzati, sia per le forme di conduzione che per i prodotti.

1.3. Scomponibilità e divisibilità dei processi e il contoterzismo

Fino ad ora abbiamo considerato il processo produttivo agricolo in senso stretto, vale a dire limitato alla fase di raccolta del prodotto vegetale o animale, e visto come una successione di operazioni definita una volta per tutte senza che fosse possibile una soluzione di continuità tra le varie fasi del processo stesso. Rimovendo questi due vin-coli, introduciamo i concetti di scomponibilità e di divisibilità del processo produttivo elementare. Applicheremo tali concetti all’interpretazione dell’organizzazione dei pro-cessi produttivi agricoli e, più in generale, dei processi produttivi agro-alimentari. L’argomento è di grande importanza, in quanto i profondi processi di trasformazione dell’agricoltura e del sistema agro-industriale trovano la propria base tecnica nella scomponibilità e nella divisibilità del processo produttivo agricolo.

Scomponibilità e divisibilità nei processi produttivi agricoli

La scomponibilità del processo produttivo consiste nella possibilità di identificare all’interno del processo stesso una pluralità di componenti, corrispondenti a differenti fasi di la-vorazione o alla produzione di semilavorati, caratterizzate dal fatto che l’output di una compo-nente entra come input in una componente successiva, nonché dal fatto di poter essere attivate separatamente l’una dall’altra, anche (eventualmente) da unità produttive diverse e in luoghi diversi.

Con riferimento ai processi produttivi agricoli e agro-alimentari, la scomponibili-tà costituisce la base tecnica di due importanti fenomeni:

- la specializzazione delle imprese per fasi - la disattivazione delle imprese agricole. La scomponibilità del processo produttivo consente una specializzazione delle

imprese per fasi in quanto grazie ad essa un’unica sequenza di operazioni può essere scomposta in più catene di operazioni indipendenti. Con particolare riferimento ai pro-cessi produttivi agricoli ciò si può verificare [Polidori, 1996]:

a) una scomponibilità propria quando è possibile identificare all’interno del pro-cesso produttivo delle fasi di produzione che corrispondano a prodotti semi-lavorati facilmente trasferibili. In agricoltura ciò avviene per molte produzioni vegetali oggetto di trasformazione, per alcune produzioni zootecniche (ad esempio negli allevamenti da carne: svezzamento, ingrasso e finissaggio dei vitelloni), ma anche nel caso di alcune produzioni vegetali (produzioni vivai-stiche, semenzaio-piantina-trapianto-prodotto finito);

b) una terziarizzazione, quando alcune operazioni “di servizio” costituiscono unità inseparabili tra loro ma separabili dalle altre. In questo caso non si ha

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trasferimento di un semilavorato, ma di un servizio. E’ il caso ad esempio di alcuni servizi di tipo meccanico (mietitrebbiatura), che grazie anche al pro-gresso tecnologico possono essere svolte da unità specializzate (le imprese di contoterzismo meccanico);

c) una scomponibilità impropria, quando non si verifica un immediato trasferi-mento nello spazio di un prodotto autonomo o di un servizio. In sostanza il processo produttivo rimane unitario, ma nella sua gestione di succedono due (o più) figure imprenditoriali diverse. In agricoltura ciò è evidenziato dal fatto che il compenso per l’imprenditore che ha portato avanti la produzione fino alla cessione comprende anche la remunerazione del capitale fondiario dal momento della cessione a quello della raccolta. Esempi sono la vendita di erba o bosco “in piedi”, la raccolta di frutta e ortaggi da parte degli acquirenti, la vendita di frutta “a mazza secca”.

La scomponibilità del processo produttivo agricolo consente una disattivazione dell’azienda agraria, vale a dire l’affidamento all’esterno dell’azienda dello svolgimen-to di un numero crescente non solo di operazioni precedenti e successive la produzione agricola in senso stretto (ad esempio la produzione delle sementi o dei foraggi per l’alimentazione del bestiame per quanto riguarda le operazioni “precedenti”, la con-servazione dei prodotti in attesa della vendita per quanto riguarda le operazioni “suc-cessive”), ma anche di operazioni colturali vere e proprie. Ciò può ridurre la necessità da parte dell’azienda agraria di disporre internamente di alcuni fattori fondo, provo-cando dunque una destrutturazione dell’azienda agraria stessa.

La divisibilità del processo produttivo agricolo consiste invece nella possibilità di at-tivare il processo stesso per frazioni o per multipli, senza che ciò comporti delle perdite di effi-cienza o addirittura consentendo di conseguire vantaggi di efficienza: si parla anche di libertà di scala. In sostanza la divisibilità consente di attivare ogni fase con la sua scala più efficiente in relazione alla divisibilità dei fattori fondo richiesti dalla produzione. Ciò pone le basi per lo sfruttamento di economie di scala conseguenti all’introduzione di innovazioni tecnologiche in alcune fasi del processo.

La effettiva praticabilità (economica) della scomposizione di un processo produt-tivo in diverse fasi dipende anche dalla divisibilità di questo processo.

Sotto il profilo tecnico i processi produttivi delle coltivazioni (produzioni vegetali) e degli allevamenti sono caratterizzati da una elevata libertà di scala, il che consente all’imprenditore un ampio margine di libertà nell’organizzazione della produzione.

Scomponibilità propria (trasferimento di un “semilavorato”)

orticole; tabacco semenzaio - piantina � piantina - prodotto finito

azienda A azienda B

prodotti vivaistici costituzione pianta � accrescimento

azienda A azienda B

bovini da carne

riproduzione e

svezzamento

� ingrasso � finissaggio

azienda A azienda B azienda C

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Terziarizzazione (trasferimento di un servizio)

azienda A aratura semina ..... stoccaggio

azienda B Mietitreb-

biatura

Scomponibilità impropria

spinacio: raccolta a

cura del trasforma-

tore

coltivazione

raccolta meccanica da parte

dell’industria

frutta: vendita a

mazza secca

coltivazione

raccolta a cura

del commerciante

Divisibilità e scomponibilità

� coltivazione azienda agricola A

semina � coltivazione azienda agricola B

� coltivazione azienda agricola C

coltivazione azienda agricola A �

coltivazione azienda agricola B � mietitrebbiatura

coltivazione azienda agricola C �

Il contoterzismo

Il contoterzismo passivo è il ricorso, da parte dell’azienda agricola, all’acquisto di servizi (in particolare servizi meccanici) sul mercato da altre aziende (agricole o non). Nel 2000, secondo il Censimento Istat dell’agricoltura italiana, le imprese che si avvalgono del contoterzismo fornito da altre aziende agricole, da organismi associativi e da imprese di esercizio e noleggio sono 852.833 (57 su 100 imprese utilizzatrici di mezzi meccanici).

Il contoterzismo attivo riguarda invece le aziende che svolgono servizi per conto

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di altre aziende. Nel 2000 le imprese agricole che hanno utilizzato i propri mezzi mec-canici in altre aziende agricole sono 22.279, pari al 2,0% delle aziende agricole proprie-tarie di mezzi meccanici.

Il fenomeno è in fortissima crescita anche relativamente all'agricoltura italiana, anche se in maniera disomogenea secondo:

- le aree territoriali (le aziende di pianura lo utilizzano in misura maggiore ri-spetto alla collina e alla montagna);

- le colture (il ricorso al contoterzismo è maggiore ad esempio per le colture estensive, quali i cereali);

- le tipologie aziendali. Il contoterzismo proprio riguarda l’acquisizione o la vendita di servizi meccanici

da parte di aziende agricole. Il contoterzismo improprio è svolto da aziende non agri-cole, talvolta specializzate nella fornitura di servizi meccanici.

Inizialmente al contoterzismo erano stati attribuite valenze negative circa gli ef-fetti sull'agricoltura, in quanto percepito come elemento di velocizzazione della margi-nalizzazione delle aziende agricole. In realtà vi sono vantaggi e svantaggi, i cui pesi va-riano in funzione della realtà esaminata, della tipologia aziendale, dell'intensità e del tipo di ricorso al contoterzismo.

Tra i vantaggi è possibile elencare: - la maggior flessibilità operativa consentita all’azienda; - l’agevolazione della diffusione di innovazioni all’interno dei processi produt-

tivi agricoli e la razionalizzazione dell’uso delle risorse interne; - l'avvicinamento al mercato delle materie prime e dei prodotti, e la diffusione

di nuove colture (girasole, soia) che richiedono altrimenti alti costi informativi e di mercato;

- il mantenimento in vita di aziende marginali e tradizionali, favorendo il part-time.

Tra gli svantaggi possiamo considerare invece: - la minore mobilità fondiaria e l'autoriproduzione di condizioni strutturali

anomale; - l’orientamento verso una utilizzazione del suolo con caratteri estensivi ed al-

tamente meccanizzati; - lo stimolo all’adozione di forme di lavoro precario per le punte stagionali di

utilizzo del parco macchine.

La diffusione del contoterzismo può essere spiegata da numerosi fattori e inter-

pretazioni teoriche[Gregari, 1991]. 1. Lo sfruttamento dei rendimenti di scala. Il modello di Stigler [1951] interpreta

l’impresa come “fascio di attività separabili”, che presenta tante funzioni di costo quante sono le attività svolte. Alcune di queste funzioni di costo preve-dono rendimenti crescenti, altri decrescenti, altri prima decrescenti poi crecen-ti rispetto alle quantità di output prodotto. Se un dato servizio (per esempio la mietitrebbiatura) è caratterizzato da un andamento decrescente dei costi uni-tari di produzione (economie di dimensione), potrebbe essere conveniente che una sola impresa si specializzi nella produzione ed erogazione del servizio (di mietitrebbiatura), sostenendo così costi notevolmente inferiori rispetto a quelli che ciascuna impresa singolarmente dovrebbe affrontare se le operazioni di

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mietitrebbiatura fossero svolte internamente e dunque con una scala dimen-sionale inferiore. Per l’impresa è dunque conveniente delegare a terzi una fun-zione produttiva (quindi ricorrere all’acquisto di servizi, cioè al contoterzi-smo) quando è possibile, per quel dato livello di attività, accedere allo stesso servizio acquistandolo sul mercato ad un prezzo inferiore a quello che coste-rebbe all'impresa. Questo accade quando le la dimensione del mercato rag-giunge un livello minimo oltre il quale diventa economico per un'impresa specializzarsi su quella particolare attività e realizzare economie di dimensio-ne grazie ai maggiori volumi.

2. Spiegazione tecnologica e modello fondi e flussi. Il ricorso al contoterzismo (sia passivo che attivo) risponde alla esigenza di ridurre i tempi d’ozio dei fat-tori fondo (es. macchine per la raccolta), data l’impossibilità di attivare proces-si produttivi in linea in agricoltura. In questo caso, dunque, soprattutto nel ca-so di fattori fondo specializzati, ricorrere al mercato per l’acquisto del servizio rinunciando alla presenza del fattore fondo all’interno dell’azienda, oppure cedere il servizio del fattore fondo aziendale ad altre aziende per aumentarne il suo livello di utilizzo.

3. Spiegazione transazionale e teoria dei costi di transazione. La scelta di inter-nalizzare (make) o esternalizzare (buy) una determinata attività produttiva deriva dall'esistenza, oltre che dei costi di produzione, dei costi di transazione, ovvero dei costi d'uso del mercato (predisposizione contratti, controllo dell'e-secuzione e del rispetto dei parametri previsti, riformulazione del contratto nel tempo, ecc.). Potrebbe dunque essere non conveniente ricorrere all’acquisto sul mercato quando il costo d’uso del mercato stesso più il prezzo di acquisto del servizio prestato dal contoterzista supera i costi interni di pro-duzione dell’operazione stessa.

I vincoli alla scomponibilità e alla divisibilità del processo produttivo agricolo

Rispetto a quanto accade in altri settori produttivi, in agricoltura la scomponibili-tà e la divisibilità del processo produttivo è molto più limitata per un insieme di motivi e di fattori molto complesso. Seppur solamente in via schematica i vincoli alla scompo-nibilità e divisibilità del processo produttivo agricolo possono essere raggruppati in due grandi categorie: vincoli di ordine tecnico e vincoli di ordine economico-gestionale.

I vincoli di ordine tecnico derivano dai caratteri dei processi produttivi agricoli che sono già stati analizzati. E’ opportuno comunque ricordare i seguenti vincoli:

- il vincolo centrale alla scomponibilità è costituito dalla stagionalità del pro-cesso produttivo agricolo, che riguarda non solamente le coltivazioni (epoca di semina, periodo di sviluppo, epoca di raccolta ecc.) ma anche le produzioni zootecniche (ad esempio cicli riproduttivi degli animali). Dalla stagionalità, e in particolare dal vincolo concernente le date di inizio del processo produttivo (la semina del prodotto x deve avvenire nel periodo dell’anno t in cui le varia-bili climatiche e meteorologiche assumono determinati caratteri), deriva come si è visto in precedenza la necessità di organizzare la produzione agricola atti-vando i processi produttivi in parallelo o in maniera congiunta, e la preclusio-ne della possibilità di attivare i processi produttivi in linea (cioè attivando suc-cessivamente processi produttivi dello stesso tipo con una opportuna sfasatu-ra temporale). Ciò rende molto difficoltosa l’eliminazione dei tempi d’ozio dei fattori “fondo” (la terra, i lavoratori, le macchine, ecc.), e dunque rende scar-samente praticabile una specializzazione delle imprese su una determinata fa-se del processo. In sostanza la specializzazione per fasi delle imprese nei pro-cessi produttivi agricoli è limitata dalla difficoltà di utilizzare in modo econo-micamente efficiente i fattori fondo. La concreta possibilità di specializzazione delle imprese dipende dal bilanciamento dei vantaggi conseguibili con la spe-cializzazione con i costi derivanti dalla inattività dei fattori fondo (la quale tende ad aumentare quanto più un fattore fondo è specializzato): ciascuna uni-tà di produzione può bilanciare i costi di inattività svolgendo una molteplicità di attività specializzate (ciascuna delle quali funzionale alla realizzazione di

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un determinato processo) accomunate da un’unica matrice tecnologica. E’ questo ad esempio il caso delle aziende specializzate nella produzione di pian-tine da trapianto, che possono realizzare più tipi di piantine con epoche di produzione differite.

- la centralità del fattore terra e del capitale fondiario: le fasi vegetative delle colture sono strettamente legate alla terra in cui il ciclo produttivo è stato av-viato e dunque difficilmente trasferibili (salvo alcune parziali eccezioni, quali ad esempio il trapianto di piantine prodotte da aziende specializzate o auto-prodotte, in luogo della semina diretta in pieno campo);

- vanno però ricordate le specificità della zootecnia intensiva rispetto alle col-tivazioni vegetali e agli allevamenti allo stato brado. Il processo produttivo zootecnico è infatti altamente scomponibile, e in effetti in esso si riscontra la presenza di imprese specializzate nelle diverse fasi (selezione, riproduzione, ingrasso ecc.). L’innovazione genetica ha consentito di eliminare molti degli inconvenienti derivanti dalla separazione tra l’animale e l’ambiente originario, riducendo la portata delle interazioni dell’animale con il proprio ambiente originario (il quale ne determina le rese, la qualità della carne, il livello di morbilità ecc.);

- per quanto concerne nello specifico la divisibilità, la possibilità tecnica di atti-vazione del processo produttivo per frazioni o per multipli è fortemente limi-tata nel caso delle coltivazioni dalla presenza di alcuni vincoli:

* verso il basso (vincoli di scala minima), legati ad esempio alla utilizza-zione di macchine specializzate, funzionali alla meccanizzazione inte-grale di certe colture: in questi casi il processo produttivo deve essere attivato con una dimensione tale da compensare i costi fissi di tali mac-chine;

* verso l’alto (vincoli di scala massima), ad esempio in processi produt-tivi caratterizzati da un impiego di lavoro molto elevato e temporal-mente concentrato (ad esempio alcune produzioni orticole e floricole): in questi casi il vincolo è costituito dalla disponibilità limitata del fatto-re lavoro dotato delle caratteristiche richieste, ma anche dalla difficoltà ad organizzare l’attività di un elevato numero di lavoratori qualora questo fosse disponibile.

Tra i vincoli di ordine economico-gestionale possono invece essere richiamati: - l’esistenza di costi transazionali nella realizzazione degli scambi tra operatori

diversi: il mercato non funziona a costo zero, e i costi necessari per il coordi-namento tra gli operatori possono essere più elevati che dei vantaggi conse-guibili da una scomposizione del processo produttivo e della conseguente specializzazione delle imprese;

- il fatto che l’entità dei costi di trasporto, di conservazione ecc. (ferma restando l’esistenza di opportunità tecnologiche che consentano la scomponibilità del processo di produzione), possa essere superiore alle economie di scala conse-guibili grazie alla specializzazione per fasi. Sotto questo profilo va segnalata la differenza esistente tra prodotti deperibili (ad esempio il pomodoro fresco de-stinato alla lavorazione industriale), prodotti di prima trasformazione (ad esempio il concentrato di pomodoro, semilavorato ottenuto dal pomodoro fre-sco che può essere conservato abbastanza agevolmente e trasportato anche a lunghe distanze) e prodotti di seconda trasformazione;

- l’ampia libertà di scala esistente sotto il profilo tecnico per i processi produt-tivi zootecnici è limitata dall’esistenza di vincoli di tipo economico. Infatti nel caso degli allevamenti non bradi, la rilevanza dei costi fissi (manufatti, attrez-zature, personale altamente specializzato, ecc.) necessari per una conduzione efficiente impone dei significativi vincoli di scala minima [Pomarici, 1996]. A conferma di ciò l’evoluzione strutturale di alcuni comparti zootecnici (bovino da carne, avicolo, suinicolo) evidenzia un netto bipolarismo tra un numero molto ristretto di aziende di grandi dimensioni che controllano la quasi totali-tà del mercato al consumo, e un numero molto elevato di piccolissimi alleva-

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menti prevalentemente orientati all’autoconsumo. - l’esistenza, nell’ambito delle attività agricole, di notevoli problemi di controllo

del fattore lavoro, che derivano sia dal fatto che il lavoro agricolo risulta mol-to disperso sotto il profilo localizzativo (non concentrato in un unico capan-none) e caratterizzato specie rispetto ad alcune attività da connotati di forte ar-tigianalità (il rapporto tra uomo e processo produttivo non può essere age-volmente codificato una volta per tutte). Ciò fa sì che i risultati del lavoro non sono direttamente controllabili come spesso accade nel processo industriale anche a causa dell’interferenza di fattori esogeni (quali appunto gli effetti del clima). Tutto ciò favorisce la possibilità di comportamenti opportunistici da parte del lavoratore agricolo, i quali sono difficilmente identificabili e sanzio-nabili da parte del datore di lavoro.

1.4. La nascita del sistema agroalimentare moderno

La necessità di specializzarsi e di aumentare le dimensioni dell’attività porta ad un radicale cambiamento dell’organizzazione delle imprese agricole, reso possibile an-che, dalle particolarità assunte dalle politiche di sostegno dei prezzi e dei mercati.

L’aspetto più rilevante di questi cambiamenti può essere identificato nella pro-gressiva specializzazione per fase dell’attività delle aziende agricole, che ha portato a fenomeni di destrutturazione e disattivazione aziendale. La crescente “cessione di atti-vità” (disattivazione) all’esterno dell’azienda agricola ha infatti portato alla dismissio-

ne di strutture aziendali (destrutturazione). Le attività disat-tivate dal settore agricolo vengono “attivate” in misura cre-scente da aziende esterne al settore (aziende di produzione di mezzi tecnici e macchine agricole, aziende trasformazione e distribuzione, aziende di erogazione di servizi, etc.). L’enorme sviluppo dei settori della trasformazione e distribu-zione alimentare, così come la forte diffusione delle attività di contoterzismo [Fanfani, 1989; Fanfani e Pecci, 1991; Salvini, 1993 e 1995], sono tra le tendenze più evidenti di questa evo-luzione.

In particolare in questo periodo le imprese sono orien-tate al raggiungimento del massimo profitto agendo sul lato dei costi, mediante la realizzazione di economie di dimensione, l’intensificazione della produzione e delle rese produttive. Questo particolare orientamento strategico e organizzativo viene

spinto anche dalle particolarità assunte dalla politica agricola comunitaria, che in que-sto periodo tende a privilegiare politiche di sostegno dei redditi agricoli attraverso so-stegni al prezzo dei prodotti e alla commercializzazione, e quindi “accoppiati” al livello delle quantità prodotte.

La ricerca delle economie di dimensione comporta, a livello organizzativo, una crescente specializzazione sia di tipo orizzontale, raggiungibile tramite una semplifica-zione degli ordinamenti colturali (riduzione del numero e tipologia di colture), che di tipo verticale, tramite una cessione di fasi del processo produttivo all’esterno.

Parallelamente all’espulsione di fasi del processo produttivo agricolo all’esterno dell’ambito aziendale, si verifica anche un cambiamento nelle caratteristiche dei settori a monte e a valle della fase agricola, in cui si as-siste ad importanti fenomeni di concentrazione e indu-strializzazione delle attività e, negli anni più recenti, una forte ascesa del ruolo della moderna distribuzione nel dettare i ritmi del cambiamento dell’intero sistema agro-industriale.

In questa fase, le grandi industrie alimentari sono i soggetti più importanti, in-fluenzando profondamente l’introduzione di nuove tecniche produttive e imponendo

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standard di qualità ai loro fornitori. L’impatto di questo processo è stato largamente negativo per tutti quei sistemi

produttivi tradizionali basati su circuiti di consumo locali e tecniche tradizionali e/o che mal si prestavano all’introduzione dei principi della modernizzazione e della indu-strializzazione dei processi produttivi.

Mentre le produzioni della zootecnia bovina da carne e da latte, ad esempio, su-biscono in questo periodo un processo di concentrazione territoriale e dimensionale delle aziende di allevamento, le produzioni dislocate nelle aree marginali (in special modo di montagna) tipicamente più estensive e più difficilmente meccanizzabili e “in-grandibili” vengono seriamente minacciate di estinzione, e vedono rapidamente dimi-nuire il loro numero. Tutti quei sistemi produttivi agricoli legati alla realizzazione di prodotti tradizionali, che dunque mal si adattavano alle strategie o alla tecnologia delle grandi aziende, sono sottoposti ad una fortissima pressione competitiva sul lato dei co-sti di produzione, e molti agricoltori sono costretti a chiudere e ad abbandonare non solo il settore agricolo, ma anche le zone rurali.

In alcuni comparti, come quelli della produzione di latte fresco, carne bovina e pomodori per la trasformazione, la modernizzazione ha permesso la diffusione di tec-niche avanzate di produzione e la tendenza verso la de-territorializzazione delle ope-razioni produttive e standardizzazione dei fattori, dei processi produttivi e dei prodotti intermedi e finali.

In altre industrie, come quelle del vino e del formaggio, una forte identità regio-nale del prodotto, (come nel caso del prosciutto di Parma o del Parmigiano-reggiano) ha impedito la standardizzazione delle produzioni, favorendo lo sviluppo di sistemi di produzione localizzata su piccola scala.

La modernizzazione e l’organizzazione dell’impresa agricola

Impresa agricolaImpresa agricola

Esternalizzazione produzione fattoriEsternalizzazione produzione fattori

Semplificazione ordinamenti produttivi

Semplificazione ordinamenti produttivi

Espulsione di attività non

agricole

Espulsione di attività non

agricole

Esternalizzazione trasformazione e/o distribuzione prodotti

Esternalizzazione trasformazione e/o distribuzione prodotti

Di fatto, un mercato fondiario rigido e l’alta densità demografica non hanno la-

sciato spazio per una crescita significativa delle aziende agricole in termini di dimen-sioni e le famiglie di agricoltori hanno sfruttato la possibilità di ulteriori fonti di reddito da lavori agricoli part-time e dalla diversificazione delle attività, utilizzando anche le relazioni sociali all’interno della comunità di appartenenza per perseguire l’integrazione attraverso ampi insiemi di accordi di tipo cooperativo.

Al cambiamento dell’articolazione del processo produttivo tra aziende e tra terri-tori ha certamente contribuito anche l’evoluzione dei mercati, su cui un peso determi-nante riveste l’evoluzione dei trasporti e delle comunicazioni. La crescente apertura dei mercati (la globalizzazione) ha ampliato le possibilità di produzione e/o commercializ-zazione delle aziende, aumentando in tal modo le pressioni competitive e la velocità di cambiamento.

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2. Agricoltura e sistema agro-alimentare

Prof. Andrea Marescotti 17

Il Modello di Produzione Agro-alimentare (MPAA) nel periodo della modernizzazione

MPAA: modalità con cui sono organizzate e svolte le attività inerenti la pro-duzione agricola, la trasformazione dei prodotti agricoli, la distribuzione

commerciale, e tutte le attività ausiliarie e complementari e attività inerenti il processo produttivo agro-industriali

Caratteristiche

o specializzazione produttiva (attivazione di un numero contenuto di pro-cessi)

o standardizzazione delle produzioni (output omogenei e non differenziati destinati ad un mercato di massa)

o specializzazione e divisione del lavoro, attivazione dei processi in linea o Ricerca di economie di scala tramite aumento degli investimenti materiali

(impianti, strutture) o Impiego di tecnologie capital-intensive per l’aumento della produttività

dei fattori. Sostituzione di lavoro con capitale (tecnologie capital-intensive)

Allo stesso tempo anche il profilo del consumatore in questo periodo appare coe-

rente con il modello di produzione. Un consumatore orientato prevalentemente al con-sumo di prodotti alimentari standardizzati, non attento a particolari requisiti di qualità e differenziazione dei prodotti acquistati e consumati. Siamo cioè nella fase dei “con-sumi di massa”.

Box – industrializzazione dei processi agro-alimentari nella macellazione delle carni

“I macellatori sono stati i primi industriali ad impiega-re con successo le tecniche della produzione di massa, la divisione del lavoro, e la catena di montaggio nei processi produttivi, divenendo, nel ventesimo secolo, un modello per l’industria automobilistica e per tutti gli altri settori industriali. Questo metodo di organiz-zazione razionale, che pone l’enfasi sulla velocità, l’efficienza e l’utilità applicate alla produzione della carne e alla gestione degli uomini, ha contribuito a creare le condizioni per l’emergere di un nuovo com-plesso bovino, dotato di tutti i caratteri fondamentali della moderna produzione industriale. La vita indu-striale del ventesimo secolo è cominicata con l’introduzione della catena di smontaggio nei macelli di Chicago della Union Stock Yards” [Rifkin, 2001 p.135]

La specializzazione orizzontale e verticale che si verifica all’interno

dell’organizzazione dell’impresa agricola (vedi figura La modernizzazione e l’organizzazione dell’impresa agricola) crea evidentemente la necessità di “ricompattare” il processo produttivo attraverso relazioni di input-output, ovvero all’interno del na-scente sistema agro-alimentare, che nel caso del settore agricolo hanno portato a situa-zioni di inferiorità contrattuale e di dipendenza da grandi imprese e, più in generale, da centri decisionali esterni (sistemi di assistenza tecnica e di ricerca, servizi di svilup-po, formazione professionale, industrie fornitrici di fattori, imprese di contoterzismo, imprese acquirenti, sistema bancario, ecc.).

Evidentemente i principi della modernizzazione e della industrializzazione dei processi ovviamente si applicano a fortiori (anzi, derivano proprio da essa. Vedi Box) anche sull’industria che produce fattori di produzione per l’agricoltura, sull’industria agro-alimentare e sulla distribuzione commerciale, ovvero sugli altri settori che com-pongono il sistema agro-alimentare.

La specializzazione produttiva, la divisione del lavoro, l’aumento della dimen-sione degli impianti, la meccanizzazione e l’uso di tecniche labour-saving sono i prin-cipi fondamentali che si applicano a tutte le imprese agro-alimentari.

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2. Agricoltura e sistema agro-alimentare

Prof. Andrea Marescotti 18

1.5. Omologazione e sconnessioni agricole

Questo orientamento strategico ha allentato gradualmente i legami dell’impresa col territorio: le relazioni con gli altri attori del sistema avvenivano infatti soprattutto lungo la filiera e con centri decisionali collocati a grande distanza dai luoghi di produ-zione; la scarsa territorialità delle relazioni ha così condotto ad una perdita di specifici-tà nel capitale fisico e umano, ed un crescente processo di omologazione nelle tecniche, nelle pratiche, nella cultura d’impresa, nel capitale sociale, aggravato dalla scarsa at-tenzione prestata dalle politiche agricole, ma in primis dai cittadini e dai consumatori, ai livelli qualitativi raggiunti dalle produzioni ottenute e dai processi impiegati.

L’inserimento dell’impresa agricola nel moderno sistema agro-alimentare è stato dunque letto come processo di omologazione dell’agricoltura, come destrutturazione e disattivazione di processi interni, come incorporamento e istituzionalizzazione dell’impresa.

Si trattava dunque di un modello di sviluppo esogeno, i cui principali caratteri possono essere riassunti nel prospetto seguente (Lowe, 2003).

Caratteri principali del modello di sviluppo esogeno

Principio-chiave economie di scala e concentrazione

Forza dinamica poli di sviluppo urbano

Funzioni del settore agricolo produzione alimenti, cessione forza lavoro

Problemi del settore agricolo bassa produttività, marginalizzazione

Focus industrializzazione e specializzazione dell’agricoltura

incoraggiamento alla mobilità del lavoro e del capitale dall’agricoltura

Il modello di sviluppo esogeno in agricoltura è stato largamente implementato

nelle economie dei paesi sviluppati, ma al tempo stesso è stato oggetto, soprattutto in tempi recenti, a numerose critiche.

1) La prima critica riguarda il fatto che il modello di sviluppo esogeno genera uno sviluppo agricolo dipendente dall’esterno, tanto dai sostegni normativi e finanziari accordati dall’operatore pubblico ai vari livelli, che da agenti dei servizi di sviluppo, della ricerca e della formazione, la maggior parte delle volte operanti a notevole distanza dai luoghi “fisici” in cui si svolge l’attività produttiva agricola.

2) La seconda critica riguarda le distorsioni che tale modello può generare nel favorire, a causa dei differenziali di produttività esistenti, alcuni settori / filie-re agro-industriali, e/o alcune tipologie di imprese (le imprese professionali, la grande dimensione) e/o alcune aree territoriali (quelle che dispongono di fattori di produzione qualitativamente migliori).

3) La terza critica vede nel modello di sviluppo esogeno un pericolo per la per-manenza di differenze ambientali e culturali tra le aree geografiche; un perico-lo che deriva dalla tendenza alla omologazione e standardizzazione dei pac-chetti tecnologici utilizzati, e dalla selezione dei fattori che mostrano la più elevata produttività.

4) Infine lo sviluppo esogeno assegna a centri decisionali esterni al settore agri-colo il potere di dirigere le traiettorie di sviluppo dell’agricoltura, decidendo-ne le strategie e le azioni, mentre le imprese agricole vengono relegate a sem-plici esecutrici di decisioni altrui. Una crescente delega all'esterno delle deci-sioni imprenditoriali, e quindi dell'imprenditorialità. La crescente interrela-zione dell'impresa agraria con le istituzioni presenti sul territorio (altre impre-

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2. Agricoltura e sistema agro-alimentare

Prof. Andrea Marescotti 19

se della filiera, banche, centri di assistenza tecnica, istituzioni pubbliche) fini-sce, oltre che con l'esternalizzare funzioni e attività, con l'esternalizzare anche le decisioni, che vengono appoggiate all'esterno, ad altri operatori3.

Lo sviluppo esogeno implica dunque una progressiva dipendenza dell’agricoltura da centri decisionali esterni al settore agricolo stesso. In questo proces-so l’agricoltura perde progressivamente la propria specificità – cioè le caratteristiche che lo rendevano un settore “particolare” in rapporto agli altri settori – in vari modi: “Lo sviluppo della tecnologia basata sulla scienza si materializza attraverso la crescente decon-testualizzazione o indipendenza dei differenti processi di produzione da quei fattori che inizial-mente avevano composto la sua località e diversità: questo significa che l’agricoltura è in modo crescente sconnessa da questi elementi strutturanti che inizialmente avevano introdotto la speci-ficità stessa.” [Van der Ploeg, 1993, p.476]. Quali sono queste “sconnessioni”?

1) La prima sconnessione riguarda il processo di produzione dalla terra, dai vin-coli naturali e dalle leggi dell’ecologia: i fertilizzanti, le materie prime, non so-no più derivati (solo) dall’ecosistema locale, ma sono invece prodotti e conse-gnati dall’agri-business e prodotti altrove. Aumentano dunque i consumi in-termedi aziendali di origine esterna non solo all’azienda, ma anche al luogo di produzione.

2) La seconda sconnessione interessa la forza lavoro e le competenze: in passato le conoscenze erano frutto di esperienze e di contatti locali, oggi l’art de la lo-calité non è più fondamentale, e le conoscenze provengono sempre più dall’esterno del territorio e dall’ambito locale di attività, codificate e omologa-te in “pacchetti” di assistenza tecnica e di servizio [Benvenuti, 1982.a], o in-corporate nei fattori di produzione anch’essi provenienti, come visto, dall’esterno. In questo modo si perdono le conoscenze tramandate oralmente e con la pratica locale di generazione in generazione, adattate alle peculiarità e specificità dell’ambiente e della cultura locale, a vantaggio di una conoscenza uniforme introdotta dall’esterno e tramite agenti esterni [Benvenuti, 1982.a, 1982.b e 1985; Van der Ploeg, 1986; Vellante, 1986]. Aumenta contemporanea-mente anche il grado di “scientifizzazione” della conoscenza, e dunque au-mentano i bisogni formativi e le competenze degli imprenditori e dei lavorato-ri agricoli in ogni mansione e attività, con riflessi importanti sulla domanda di formazione e assistenza tecnica, e sulle tipologie di operatori di supporto ri-chiesti dall’agricoltura moderna. L’aumento della complessità delle operazio-ni, unitamente alla necessità di disporre di pacchetti integrati di fattori, induce una ulteriore specializzazione delle attività di impresa in poche fasi, e la dele-ga delle fasi e dei processi produttivi più complessi e “industrializzati” all’esterno, provocando una riorganizzazione delle attività di impresa e del la-voro.

3) La terza sconnessione è quella dei processi di produzione agricoli dalla speci-ficità dei prodotti finali, o prodotti destinati direttamente al consumo (diven-ta meno importante la “qualità” del prodotto realizzato dall’agricoltura, in quanto sempre più mediato dall’industria di trasformazione ecc.). L’aumento della complessità delle relazioni input-output lungo la filiera, l’allontanamento dal territorio, l’omologazione delle tecniche e dei saperi e la crescente dipendenza da centri decisionali esterni situati fuori dalla località di produzione porta all’allontanamento dell’imprenditore agricolo dal contatto diretto con il mercato finale e con le esigenze del consumatore. Le relazioni agricoltura-società, siano esse attivate attraverso il prodotto che attraverso pratiche di comunicazione [Brunori et alii, 2003], sono mediate in misura cre-

3 L'insieme di questi operatori è definito TATE (Technological Administrative Task Environment) ed è compo-sto da industrie agrarie, banche, sindacati, servizi di assistenza tecnica, scuole agrarie, agenzie commercia-li, tende a far scomparire strutturalmente la possibilità di uno sviluppo dell’imprenditorialità individuale in agricoltura, ed è assimilabile ad una nuova “struttura”, o istituzione”, invisibile. L’inserimento dell’impresa agricola nel più ampio reticolo organizzativo che ruota attorno al concetto di sistema agroa-limentare produce un disciplinamento del comportamento professionale individuale, una crescente rigidi-tà direzionale sia dell'intero sistema che delle aziende agrarie e nuove forme di controllo sociale sul com-portamento professionale dei produttori.

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scente da altri attori, siano essi operatori di mercato (industria di trasforma-zione, dettaglio tradizionale, mercati all’ingrosso, grande distribuzione orga-nizzata) che di rappresentanza (organizzazioni professionali agricole, partiti politici), o semplicemente veicoli comunicativi (quotidiani, riviste specializza-te, mass media).

4) Infine una quarta sconnessione è dovuta alla scomparsa della famiglia come elemento centrale di riferimento per la definizione della direzione, del ritmo e del tempo del processo di sviluppo agricolo. Le modifiche intervenute nell’organizzazione della famiglia anche nelle aree rurali, la riduzione del numero medio di componenti del nucleo familiare, la possibilità di ricorrere a mercati del lavoro distanti dal luogo di residenza, il cambiamento delle abitu-dini e dei valori, la stessa “appetibilità sociale” del lavoro agricolo, hanno nel tempo fortemente ridotto il ruolo della famiglia nell’allocazione delle risorse aziendali a vantaggio di una gestione di impresa più moderna, ma meno lega-ta dai vincoli familiari.

La questione delle conseguenze del crescente inserimento dell’agricoltura nelle logiche moderne interessa il dibattito sul ruolo e sulle funzioni dell’agricoltura nel si-stema economico, e in particolare all’interno dell’emergente sistema agro-alimentare. In questo senso si possono schematicamente individuare due posizioni analitiche.

- La prima vede positivamente il fenomeno: l’agricoltura come settore che si modernizza con il resto del sistema agro-industriale, trainato da esso. Questa valutazione rispecchia la visione dell’industrializzazione dell’agricoltura (oc-cidentale) associata anche ai possibili effetti positivi per l’umanità intera, la fi-ducia nel progresso tecnico, che porta ad analizzare gli strumenti della mo-dernizzazione (meccanizzazione, incremento rese, aumento della dimensione aziendale e - per quanto concerne in particolare il sistema agro-alimentare - ad esempio l’integrazione verticale per contratto) in chiave di vantaggi competi-tivi.

- La seconda posizione analitica invece interpreta il cambiamento negativamen-te, in quanto l’agricoltura è vista come settore che soffre di una qualche arre-tratezza e mal si adegua ai ritmi di sviluppo dei settori a monte e a valle ad es-sa collegati. Nascono da qui i problemi dell’autonomia decisionale [Benvenuti 1982.a e 1982.b; Van der Ploeg, 1986 e 1993], ma soprattutto dell’inferiorità del potere contrattuale nei confronti delle controparti [Malassis, 1992; Malassis e Ghersi, 1995]. Secondo questa chiave di lettura si assiste ad uno “sgretolamen-to” della funzione imprenditoriale “vera” che consiste essenzialmente nella scelta dei prodotti e nella loro sostituzione nell'ordinamento.

1.6. I margini distributivi

Per mercato non si deve soltanto intendere il luogo dell'incontro della domanda e dell'offerta ma, in un’accezione più ampia, anche tutto quel complesso di attività di-stributive e di trasformazione che rendono possibile alla produzione agricola di giun-gere ai consumatori e di essere da loro consumata.

Come si è visto, tali attività, con il procedere dello sviluppo economico e con la specializzazione produttiva che da questo consegue, tendono sempre più ad essere se-parate dalla produzione agricola in senso stretto e ad essere svolte da operatori appar-tenenti ai settori secondario e terziario; la funzione di collegamento tra offerta alla pro-duzione e domanda al consumo che tali operatori svolgono è remunerata dal “margine distributivo” [Cecchi, Cianferoni, Pacciani, 1991].

La funzione di collegamento svolta dal settore della commercializzazione può es-sere ricondotta a due distinte tipologie:

- funzione di “scoperta” del prezzo; - funzione di commercializzazione fisica. Mentre la seconda sarà esaminata in maniera più approfondita in seguito, qui è

oggetto di attenzione il processo mediante il quale gli operatori di mercato addivengo-no alla definizione dei prezzi di scambio all'azienda e al dettaglio; di tale processo è

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necessario cogliere i riflessi sull'analisi della domanda e dell’offerta condotta in prece-denza (ove, come si ricorderà, si ipotizzava la presenza di un canale diretto tra produ-zione e consumo) e di conseguenza sui redditi agricoli.

L'analisi in questa sede si soffermerà in particolare sui margini di distribuzione e con un riferimento specifico ai prodotti di difficile conservazione, quei prodotti cioè che necessitano di giungere al consumatore in tempi brevi per poter essere utilizzati allo stato fresco. Le considerazioni qui svolte saranno quindi direttamente riferibili alla di-stribuzione dei prodotti freschi, e solo per analogia eventualmente applicabili al caso dei prodotti conservabili e di quelli trasformati. E' infatti soprattutto per i prodotti de-peribili che appaiono valide le ipotesi di una offerta altamen-te indifferenziata, oltre che molto rigida nel brevissimo e breve periodo, e di una do-manda parimenti rigida; ipo-tesi che consentono cioè una sostanziale assimilabilità del modello a quello teorico di concorrenza perfetta e che ad evidenza non sono sempre del tutto applicabili per i pro-dotti conservabili (in rapporto ai quali la possibilità di stoc-caggio modifica soprattutto le caratteristiche della funzione di offerta) e ancor meno per i prodotti della industria di trasformazione (i quali invece sono spesso oggetto di politiche di differenziazione nei confronti dei consumatori, oltre che facilmente conser-vabili, e quindi possono essere in qualche misura assimilati ai prodotti industriali del tipo convenience goods).

Per semplicità si ipotizzi che il prodotto agricolo giunga al consumatore passan-do dall'azienda agricola a un grossista e da questi a un dettagliante. In questo schema molto semplificato è possibile quindi individuare tre mercati: un mercato alla produ-zione (ove si realizza il collegamento fisico-economico agricoltore-grossista), un merca-to all'ingrosso (grossista-dettagliante) e uno al consumo (dettagliante-consumatore).

In un'ottica di breve periodo, si può ritenere che il processo di formazione del prezzo si snodi in senso contrario a quello della distribuzione fisica della merce. Infatti, essendo nel periodo breve l'offerta dei produttori considerabile come un dato e così pure quella degli intermediari4, il prezzo sarà in ultima analisi determinato dalla do-manda finale. Saranno dunque i dettaglianti (e l'industria di trasformazione) che per primi stimeranno la quantità e qualità dei prodotti domandati dai consumatori e il prezzo che questi ultimi saranno disposti a pagare e, una volta stabilito il loro margine di remunerazione, effettueranno le loro richieste ai grossisti; si determinerà così il prezzo all'ingrosso , dato da:

prezzo all’ingrosso = prezzo (stimato) al dettaglio - margine di dettaglio.

Nel caso in cui prezzo richiesto dal grossista e prezzo offerto dal dettagliante non coincidano, sarà soprattutto il primo a dovere adeguare le proprie richieste in quanto si suppone che egli abbia già effettuato gli acquisti dagli agricoltori e che abbia necessità di vendere quanto acquistato. Un meccanismo simile opererà nei rapporti tra produtto-re e grossista, e quindi il prezzo alla produzione sarà dato da:

prezzo alla produzione = prezzo (stimato) all'ingrosso - margine all'ingrosso.

4 Gli agricoltori infatti soltanto per livelli di prezzo estremamente bassi (e difficilmente raggiungibili nella realtà a causa delle varie forme di sostegno pubblico dei prezzi) rinunceranno a portare a termine o racco-gliere la produzione avviata; gli intermediari da parte loro non desiderano o non sono in grado di detenere scorte e quindi sono disposti a vendere quanto hanno acquistato dagli agricoltori a qualsiasi prezzo, oppu-re soltanto per livelli molto bassi si potranno assumere l'onere della conservazione.

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E' attraverso questo meccanismo a ritroso (in cui il prezzo di ogni fase è funzione del prezzo atteso della fase immediatamente a valle e del margine richiesto dall'opera-tore in essa presente) che la domanda finale si incontra con l'offerta del settore agricolo; meccanismo che per forza di cose si realizzerà attraverso approssimazioni successive, in quanto i soggetti in esso impegnati non effettueranno sempre previsioni esatte e po-tranno, seppure per periodi di durata variabile a seconda della deperibilità del prodot-to e della propria situazione, trattenere presso di sé il prodotto stesso.

In questo contesto appare evidente come ai mercati all'ingrosso, nei quali secon-do le teorie più tradizionali si determinerebbe il prezzo di riferimento su cui si base-rebbero poi i prezzi alla produzione e al consumo, non competa che una funzione di scoperta del prezzo (cioè di valutazione preventiva delle condizioni di domanda e di offerta) e non anche di effettiva determinazione, in quanto centrale viene ad essere il mercato al consumo. In esso si vengono infatti ad incontrare la domanda finale (che non è influenzata dai commercianti e dal livello dei margini da essi stabiliti, in quanto essa ha caratteri di elevata rigidità) e l'offerta di mercato (che nel brevissimo periodo non è soggetta al controllo dei produttori); si può quindi affermare che in ogni momen-to commercianti e agricoltori non influiscono direttamente sul prezzo al consumo che risulta pertanto essere formato in condizioni di concorrenza pura [Lugli, 1981].

A questo punto vengono considerati i rapporti intercorrenti tra prezzi agricoli al

consumo e alla produzione; si passerà poi ad esaminare quali sono le modalità della fissazione dei margini da parte degli intermediari commerciali e le ripercussioni che tali modalità hanno sull'offerta e sui redditi agricoli.

Il prezzo al consumo (Pc) può essere scisso in due componenti, prezzo al produt-tore (Pp) e margine distributivo (m), di modo che avremo:

Pc = Pp + m.

Quindi la curva della domanda alla produzione sarà data da:

Dom (prod) = Dom (cons) - M.

Parallelamente, l'offerta sul mercato al consumo sarà ottenuta sommando a quel-la sul mercato alla produzione i margini distributivi; pertanto si avrà:

Off (cons) = Off (prod) + M .

La situazione che si viene a determinare è quindi rappresentata in figura I margini di distribuzione, costruita ipotizzando l’esistenza di un margine unitario fisso per ogni unità di prodotto. Dal fatto che il prezzo di mercato è determinato in condizioni di con-correnza (dall'incontro della domanda e offerta al consumo) non si può automatica-mente dedurre che lo stesso accada per il prezzo al produttore (che è quello che inte-ressa nella nostra trattazione e che è determinato dall'incontro della domanda e offerta alla produzione), in quanto quest'ultimo come è evidenziato in figura sarà determinato anche dal comportamento del settore distributivo.

Una necessaria considerazione preliminare riguarda il fatto che il livello assoluto del margine e il suo peso percentuale sul prezzo al produttore, che pure raggiunge spesso livelli molto elevati e ha in genere manifestato negli ultimi decenni una conti-nua tendenza alla crescita5, non può essere, come invece spesso accade, assunto come un indicatore di efficienza dei mercati. Infatti si è visto come sia la stessa evoluzione delle modalità di consumo che comporta lo svolgimento di funzioni di commercializ-zazione sempre più complesse le quali ovviamente devono trovare remunerazione nei margini. Questi ultimi devono quindi "coprire" i costi sostenuti dagli intermediari (co-sti che possono essere per l'acquisto di beni e servizi oppure connessi agli errori com-

5 Uno studio condotto da Cannata e Olini relativo ai beni “a prezzo libero” in Italia nel periodo 1971-1984 [Cannata e Olini, 1988] mostra come in realtà nel procedere ad un'analisi sugli andamenti dei margini di intermediazione commerciale nel lungo periodo sia necessario operare distinzioni tra diverse categorie di prodotti; il trend di lungo periodo dei margini è infatti anche di segno negativo per alcuni prodotti (in par-ticolare pesci, derivati del latte e uova), stazionario per altri (derivati dei cereali, patate) e positivo per altri ancora (carni non bovine, bevande alcoliche, caffè, e soprattutto ortaggi e legumi).

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piuti nello svolgimento della funzione di "scoperta" del prezzo) oltre che un saggio di profitto "normale": in tal caso il valore del margine, remunerando un effettivo contribu-to al processo produttivo, può essere considerato "equo", e gli agricoltori non possono essere per questo motivo danneggiati6.

I margini di distribuzione

P

Q

DpDc

Sc

SpA

B

E' dunque in altri modi che il comportamento del settore distributivo esercita un

effetto negativo sui prezzi ricevuti dagli agricoltori e sui loro redditi, contribuendo alla sottoremunerazione delle risorse impiegate. Si possono infatti individuare tre ordini di conseguenze negative, tutte in qualche modo collegate tra loro e riconducibili alle mo-dalità seguite dagli operatori commerciali nella fissazione dei margini durante il pro-cesso di scoperta del prezzo sopra descritto [Cecchi, Cianferoni, Pacciani, 1991].

A) Un primo effetto negativo si ha quando la presenza del margine distributivo provoca una differenziazione fra le elasticità delle curve di domanda alla produzione (Ep) e al consumo (Ec), e in particolare quando la prima vede accentuate le proprie ca-ratteristiche di rigidità.

Il tipo di margine applicato dal settore distributivo su ciascuna singola unità di produzione può essere schematicamente ricondotto nell'ambito di quattro categorie:

a) margine direttamente proporzionale al prezzo al consumo b) margine fisso c) margine inversamente proporzionale al prezzo al consumo d) margini combinazioni dei precedenti. Nella figura Il margine proporzionale (a), fisso (b), inversamente proporzionale (c) è

possibile vedere la struttura delle curve di domanda alla produzione e al consumo nei primi tre casi. L'elasticità della domanda alla produzione non risulta modificata dalla presenza del margine soltanto quando quest'ultimo è riconducibile al tipo a)7. Nei casi restanti, la presenza del margine avrà come conseguenza Ec > Ep 8. Si tratta quindi di

6 Nel medio-lungo periodo il livello assoluto dei margini distributivi è determinato da altri fattori, tra cui i preminenti sono il progresso tecnologico (che influenza la produttività del settore) e il livello generale dei salari. Questi due fattori però agiscono normalmente sul margine in direzione opposta: il progresso tecno-logico nel settore della commercializzazione tende infatti a far diminuire i costi di produzione; nel con-tempo esso comporta un aumento dei salari (in quanto si suppone che il livello dei salari si muova in linea con l'andamento della produttività del settore), e quindi un aumento dei costi di produzione stessi [Hallet, 1983]. 7 Il confronto tra elasticità della curva di domanda alla produzione e al consumo può in questo caso essere operato tramite il confronto tra le proiezioni sull'asse delle ascisse (Q) di un generico punto C. Data una certa quantità, il rapporto AB/AO relativo alla curva di domanda alla produzione (fig.25.a) sarà necessa-riamente uguale a quello della curva di domanda: pertanto si avrà: Ec= Ep. 8 Si ricordi come il valore dell'elasticità sia determinabile come il rapporto tra la "posizione" di un punto sulla curva (espressa dal rapporto tra P e Q) e la derivata della curva stessa in quel punto (dP/dQ). Ad esempio nel caso di margine fisso le derivate delle due curve di domanda riferite ad una stessa quantità hanno ugual valore, e il calcolo delle elasticità può dunque essere eseguito facendo semplicemente riferi-mento alla "posizione": quindi, data una certa quantità, avrà un'elasticità maggiore la curva che si trova

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vedere che tipo di margine è attendibile riscontrare nella realtà.

Il margine proporzionale (a), fisso (b), inversamente proporzionale (c)

Dc

P

Qo

(a)

Dc

P

Qo

(b)

Dc

P

Qo

(c)

Dp

DpDp

a b

c

Solitamente i margini effettivamente applicati dalla commercializzazione sono ri-

conducibili ad una combinazione intermedia tra il tipo fisso e quello direttamente pro-porzionale (vedi figura I margini di distribuzione proporzionali al prezzo), in quanto il co-sto unitario del servizio reso comprende due componenti (vedi figura componenti dei co-sti di distribuzione):

- una componente variabile, riconducibile alla presenza di costi fissi aziendali di struttura (magazzini, automezzi, ecc.), che si ripartiscono sull'intera quantità commercializzata. In questo caso l'incidenza sul prezzo unitario di vendita sa-rà tanto minore quanto maggiori saranno le quantità commercializzate;

- una componente fissa, originata dalla presenza di costi aziendali proporziona-li alle quantità commercializzate (ad esempio costi di imballaggio, trasporti, commissioni variabili ai rappresentanti, ecc.), e che incide sul prezzo unitario di vendita indipendentemente dalle quantità commercializzate.

I margini di distribuzione proporzionali al prezzo

P

Q

Dp

Dc

La non proporzionalità del margine al prezzo di vendita è determinata, oltre che dalla particolare struttura del settore, dalla presenza di tale componente fissa.

Ritson [1977] conduce invece una analisi fondata sull'andamento della curva dei costi dell'intero settore della commercializzazione. La presenza di un margine costante, infatti, implicherebbe l'esistenza di una curva di offerta del servizio commerciale (data

più "lontana" dall'origine (cioè la curva di domanda al consumo).

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dalla differenza tra domanda al consumo e domanda alla produzione) perfettamente elastica al prezzo, e un margine inversamente proporzionale una curva dei costi cre-scente al crescere della quantità di servizio commerciale. L'autore sembra così esclude-re la possibilità di una curva dei costi decrescente: soltanto una curva di questo tipo potrebbe essere compatibile con un margine del tipo "a". Tale possibilità è preclusa dal-le caratteristiche di frammentazione del settore commerciale, che non consentirebbero ad esso di beneficiare di economie di scala, e non sembra essere conseguibile neppure mediante la modernizzazione del settore9.

Le componenti dei costi di distribuzione: Costi fissi (Cf) e Costi variabili (Cv)

Da queste due spiegazioni (che a ben vedere risultano tra loro collegate) conse-

gue che, per ogni livello di produzione, il valore dell'elasticità della domanda al livello della azienda agricola (quindi del produttore) sarà minore a quella della domanda del consumatore finale. La situazione che era stata delineata nel primo paragrafo del capi-tolo precedente risulta dunque ulteriormente aggravata: infatti un eventuale aumento della produzione agricola comporterà una diminuzione dei prezzi alla produzione re-lativamente maggiore di quella dei prezzi al consumo, e quindi una contrazione ancora più marcata dei ricavi del settore agricolo.

B) Un secondo effetto negativo è causato dal fatto che gli intermediari godono di un maggior “potere contrattuale” rispetto agli agricoltori. Ciò consente loro un notevo-le grado di arbitrarietà nella fissazione del livello del margine e quindi, stante il proces-so “a ritroso” di formazione del prezzo, una compressione del compenso pagato al produttore. Si può così affermare che “i prezzi all'origine sono ... il risultato dell'opera-re congiunto di forze proprie della concorrenza pura e imperfetta”10. Tale potere con-trattuale permette inoltre al settore della commercializzazione di non adeguare il prez-zo del servizio reso (cioè il margine) ai costi effettivamente sostenuti, accentuando la

9 Infatti la modernizzazione del settore (che si realizza mediante aumento della dimensione media delle imprese, sviluppo della grande distribuzione organizzata, maggiore razionalità ed efficienza nell'uso delle risorse, ecc.), pur comportando una diminuzione dei costi connessa alla razionalizzazione del sistema di-stributivo e un aumento della produttività, non permette una diminuzione del costo unitario del servizio all'aumentare delle quantità commerciate in quanto le economie di scala realizzatesi vengono assorbite dalla necessità di sostenere nuovi costi (pubblicità, campagne promozionali, oneri previdenziali per il per-sonale dipendente, una maggiore incidenza fiscale rispetto alle piccole aziende, ecc.) che permettano a queste grandi aziende di acquisire e mantenere le quote di mercato necessarie alla loro elevata dimensione [De Fabritiis, 1974]. 10 Tratto da Lugli [1981]. Cfr. inoltre Thomsen e Foote [1952].

$

Q

Ct

Cf

Cv

Q1

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2. Agricoltura e sistema agro-alimentare

Prof. Andrea Marescotti 26

componente di fissità dei margini11. C) Un terzo effetto negativo, dovuto anch'esso al potere contrattuale della distri-

buzione, è causato dal comportamento “asimmetrico” del settore nel fissare i margini di fronte a variazioni dei prezzi al consumo. Si constata infatti che è [Lugli, 1981; Hal-let, 1983; De Stefano, 1985]:

- quando i prezzi al consumo diminuiscono (ad esempio nei momenti di satura-zione della domanda) il margine si riduce leggermente in termini assoluti, ma aumenta la propria incidenza percentuale sul prezzo al consumo stesso (con una conseguente compressione del prezzo al produttore);

- quando i prezzi al consumo aumentano anche l'entità del margine aumenta; in questo caso è però difficile stabilire a priori se aumenta in maniera più, meno o perfettamente proporzionale.

L'elevato potere contrattuale fa anche sì che nel caso di diminuzione dei prezzi al consumo il settore di intermediazione possa “scaricare” sugli agricoltori ogni eventuale calo dei ricavi complessivi, e nel contempo, non appena i prezzi volgono al rialzo, au-mentare il proprio “prelievo”. Da ciò si comprende come le strutture di commercializ-zazione possano alla lunga causare seri scompensi nei redditi degli agricoltori, attri-buendo invece al settore distributivo una porzione crescente della aumentata spesa dei consumatori.

Il comportamento asimmetrico dei margini ha ad evidenza conseguenze anche in ordine alla variabilità dei prezzi al produttore, accentuandone le fluttuazioni verso il basso rispetto a quanto accadeva in assenza del settore distributivo; se si ipotizza vali-do il modello decisionale descritto nel teorema della ragnatela, si comprende come il comportamento in esame possa avere riflessi prolungati nel tempo e amplificare la va-riabilità dei prezzi agricoli, pur non essendone l'unica causa [Lugli, 1981].

Le considerazioni finora svolte sulle conseguenze della presenza dei margini de-vono essere generalizzate ed estese al fine di comprendere gli effetti di una variazione del livello assoluto dei margini sui produttori agricoli e sui consumatori. A tale scopo si rende opportuno spingere l'analisi anche in periodi di tempo diversi dal breve, quando tali variazioni possono essere determinate non solo dalla discrezionalità degli intermediari ma anche da variazioni nel costo dei fattori (e del lavoro in particolare) e dall'introduzione di innovazioni (sia tecnologiche che organizzative).

In termini generali si può affermare [De Meo, 1984; Hallett, 1983] che i benefici di una diminuzione dei margini (qualunque ne sia l'origine) si ripartiscano tra produttori e consumatori in misura inversamente proporzionale alle elasticità delle rispettive cur-ve di offerta alla produzione e curva di domanda al consumo12. Simmetricamente, nel caso di aumento dei margini, il maggior onere sarà sostenuto dalla categoria che pre-senta la curva più rigida.

Considerato che l'elasticità della curva di offerta varia al variare del periodo di tempo considerato (si ricordi il modello di Nerlove), l'effetto della variazione del mar-gine sul settore agricolo assumerà una diversa entità nel tempo.

Ad esempio un aumento dei margini (che si può verificare in dipendenza di un aumento dei costi degli input o di un peggioramento dell'efficienza della commercia-lizzazione) comporta un abbassamento della curva della domanda alla produzione (in quanto nel breve periodo la domanda al consumo è data): il primo impatto, essendo nel brevissimo periodo la curva di offerta completamente rigida, consisterà dunque in una diminuzione del prezzo pagato al produttore esattamente pari all'entità dell'au-mento del margine. Con il passare del tempo la curva di offerta alla produzione diven-ta progressivamente più elastica, e dunque l'onere derivante dall'incremento del mar-gine si ridurrà per i produttori e aumenterà per i consumatori.

Nel caso di diminuzione del margine, la situazione sarà opposta a quella appena

11 Grazie alle imperfezioni di mercato le economie di scala derivanti dalla ripartizione dei costi fissi su un accresciuto numero di unità commercializzate si traducono in un aumento degli extra-profitti. 12 Si noti come una diminuzione dei margini conseguente a una diminuzione dei costi di commercializza-zione può verificarsi soltanto in assenza di posizioni monopolistiche all'interno del settore (oppure quan-do, pur essendo presente un monopolista, quest'ultimo per qualche motivo - ad esempio per garantirsi un approvvigionamento presso i produttori - decida di rinunciare ad assorbire le diminuzioni dei costi di commercializzazione), oppure ancora in dipendenza di interventi pubblici a ciò finalizzati.

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2. Agricoltura e sistema agro-alimentare

Prof. Andrea Marescotti 27

delineata: quindi saranno i produttori a essere inizialmente favoriti, mentre andrà au-mentando con il tempo il vantaggio dei consumatori.

Da quanto finora detto, si comprende come i margini siano necessari per garanti-re la disponibilità di alimenti ai consumatori nelle modalità da essi richieste, e pertanto il settore distributivo non deve essere semplicisticamente colpevolizzato degli effetti che induce sul settore agricolo. Peraltro la distribuzione non origina il “problema agri-colo” (bassi livelli di reddito, variabilità dei prezzi, ecc.) ma semplicemente lo aggrava, accentuando gli effetti negativi derivanti dal comportamento della domanda al consu-mo e dell'offerta alla produzione.

Non si può comunque non tenere conto che molto spesso i margini nascondono una forte componente speculativa, resa possibile dalla posizione di maggior potere contrattuale detenuta da trasformatori e distributori. Diventa allora auspicabile che l'o-peratore pubblico e gli stessi agricoltori operino affinché tale componente speculativa possa essere ridotta o rimossa. A questo fine l'operatore pubblico deve in particolare incentivare la concorrenza nel settore distributivo: tale obiettivo può essere raggiunto non solo favorendo il processo di sostituzione tra piccola e grande distribuzione (que-st'ultima infatti è maggiormente in grado di aumentare l'efficienza del settore), ma an-che sviluppando la concorrenza tra imprese private di distribuzione e cooperative sia di produttori che di consumatori e, più in generale, migliorando il livello di informa-zione degli operatori presenti sul mercato.

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2. Agricoltura e sistema agro-alimentare

Prof. Andrea Marescotti 28

2. Caratteristiche del sistema agro-alimentare

2.1. Il sistema agro-alimentare (e agro-industriale)

Nelle economie dei paesi sviluppati l'agricoltura è soggetta a pressioni e condi-zionamenti sempre più intensi da parte dei settori con cui instaura legami dialettici. Il crescente inserimento delle imprese agricole sul mercato (dei fattori e dei prodotti) e l'aumento e la complessità delle relazioni da esse intrattenute fa sì che alcune delle più importanti pressioni al mutamento dell'agricoltura derivino proprio dai settori "a mon-te" (fornitori di input) e "a valle" (trasformazione e distribuzione dei prodotti) con cui

l'impresa agricola intrattiene rapporti di scambio. Le funzioni più tradizionali vengono in parte sostituite da altre funzioni, di carattere sempre più spesso immateriale, volte a migliorare la capacità di adeguamento della fase agricola alle altre compo-nenti del sistema13.

Quanto è stato illustrato in precedenza evidenzia come ciò che accade all'interno dell'agricoltura e delle aziende agrico-le deve essere valutato, interpretato e spiegato alla luce della re-te di interdipendenze che collegano ai vari livelli i soggetti ope-

ranti all'interno del modello di produzione agro-alimentare, e tra quest'ultimo e il mo-dello di consumo agro-alimentare.

Di fronte all’insufficienza degli approcci tradizionali, basati sulla categoria anali-tica di "settore", emerge dunque la necessità di disporre di approcci basati su concetti alternativi, che possano rendere conto della crescente complessità e interdipendenza dei pro-cessi produttivi (sia sotto il profilo tecnico che economico), nonché dell'effettivo ruolo svolto dal settore agricolo nei sistemi economici nazionali e locali.

In effetti il settore agricolo, che ha visto perdere la propria importanza all’interno dei sistemi economici moderni, diviene la base sulla quale trova almeno in parte giusti-ficazione l'esistenza di un numero crescente di attività economiche sia a monte che a valle dello stesso; sarebbe dunque riduttivo valutare l'importanza dell'agricoltura so-lamente sulla base di quanto accade al suo interno.

L’Agro-Alimentare o agribusiness raccoglie nell'ambito di un'unica unità d’indagine tutto l'insieme delle attività incentrate sulle materie prime d’origine agrico-la, le quali esercitano un ruolo cen-trale nello strutturare l'agricoltura e nel condizionare i comportamenti delle imprese agricole.

Il concetto di agribusiness na-sce (non a caso) negli Stati Uniti dalle osservazioni degli economisti (agrari) Davis e Goldberg. L'obiet-tivo di Davis [1956] e di Davis e Goldberg [1957] era quello di ren-dere conto della crescente interdi-pendenza dell’agricoltura col setto-re a monte e a valle, e di “evitare che le difficoltà legate al passaggio dell'agricoltura dalla società rurale tradizionale alla società industriale non comportasse interventi troppo importanti dello

13 Una costante di tale processo è la progressiva espropriazione che il settore agricolo subisce rispetto ad una gran parte delle funzioni tradizionalmente svolte al suo interno, la cui manifestazione più evidente - anche sotto il profilo macroeconomico - è la diminuzione dell'incidenza del valore aggiunto che compete al settore agricolo rispetto al prezzo finale dei beni agro-industriali.

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2. Agricoltura e sistema agro-alimentare

Prof. Andrea Marescotti 29

Stato” [Combris e Nefussi, 1984]. Secondo Davis e Goldberg [1957] agribusiness è l'in-sieme dell'agricoltura (farming) e di tutte le attività che si situano a monte (farm sup-plies) e a valle di essa (processing e distribution). Agroalimentare è l’insieme composto dal settore agricolo (farming) e delle attività a valle di traformazione per ottenere pro-dotti alimentari (food processing), mentre agro-industriale, nella definizione di questi due studiosi, è l’insieme del settore agricolo (farming) e delle attività a valle di trasfor-mazione per ottenere prodotti non alimentari (fiber processing).

Nel corso del processo di trasferimento di funzioni al proprio esterno, l'agricoltu-ra da settore a domanda finale diventa settore a domanda derivata, con il crescente ruolo dell'industria e della distribuzione. In altri termini, gli agricoltori non hanno più a che fare con la domanda del consumatore finale, ma con la domanda espressa dai clienti intermedi quali le industrie di trasformazione o le imprese di distribuzione e commercializzazione. In ogni modo, nella lettura di Davis e Goldberg, l'agricoltura re-sta il settore centrale da un punto di vista analitico, ossia il punto di osservazione privi-legiato [Corsani, 1986; Iacoponi, 1994]. L’identificazione e la ricostruzione del sistema agribusiness nasce sempre dall’agricoltura, dalla produzione di merci del settore agrico-lo.

Il concetto di agribusiness viene ripreso da altri studiosi in altri Paesi avanzati, Paesi cioè in cui già si manifestavano gli effetti della destrutturazione e disattivazione dell'attività agricola nei confronti dei settori a monte e a valle, svolgenti fasi fino ad al-lora svolte all'interno dell'azienda agricola. L'uso del concetto e delle metodologie di analisi, tuttavia, fu il riflesso dei diversi atteggiamenti “culturali” che permeavano i Paesi e gli Autori14.

Il sistema agro-alimentare

Sistema agro-industriale

AGRICOLTURA

Concentrazione, conservazione, prima commercializzazione

Distribuzione intermedia

Industria di trasformazione

Autoconsumi

Industrie fornitrici di fattori

ATTIVITA’

AUSILIARIE

Credito,

assistenza tecnica

e fiscale,

formazione

professionale,

informazione, ecc.

Distribuzione finale

Consumi domestici Consumi extra-domestici

Ristorazione privata e collettiva

Sistema agro-alimentare

AGRICOLTURA

Concentrazione, conservazione, prima commercializzazioneConcentrazione, conservazione, prima commercializzazione

Distribuzione intermediaDistribuzione intermedia

Industria di trasformazioneIndustria di trasformazione

AutoconsumiAutoconsumi

Industrie fornitrici di fattoriIndustrie fornitrici di fattori

ATTIVITA’

AUSILIARIE

Credito,

assistenza tecnica

e fiscale,

formazione

professionale,

informazione, ecc.

ATTIVITA’

AUSILIARIE

Credito,

assistenza tecnica

e fiscale,

formazione

professionale,

informazione, ecc.

Distribuzione finaleDistribuzione finale

Consumi domesticiConsumi domestici Consumi extra-domesticiConsumi extra-domestici

Ristorazione privata e collettivaRistorazione privata e collettiva

Sistema agro-industriale

AGRICOLTURA

Concentrazione, conservazione, prima commercializzazione

Distribuzione intermedia

Industria di trasformazione

Autoconsumi

Industrie fornitrici di fattori

ATTIVITA’

AUSILIARIE

Credito,

assistenza tecnica

e fiscale,

formazione

professionale,

informazione, ecc.

Distribuzione finale

Consumi domestici Consumi extra-domestici

Ristorazione privata e collettiva

Sistema agro-alimentare

AGRICOLTURA

Concentrazione, conservazione, prima commercializzazioneConcentrazione, conservazione, prima commercializzazione

Distribuzione intermediaDistribuzione intermedia

Industria di trasformazioneIndustria di trasformazione

AutoconsumiAutoconsumi

Industrie fornitrici di fattoriIndustrie fornitrici di fattori

ATTIVITA’

AUSILIARIE

Credito,

assistenza tecnica

e fiscale,

formazione

professionale,

informazione, ecc.

ATTIVITA’

AUSILIARIE

Credito,

assistenza tecnica

e fiscale,

formazione

professionale,

informazione, ecc.

Distribuzione finaleDistribuzione finale

Consumi domesticiConsumi domestici Consumi extra-domesticiConsumi extra-domestici

Ristorazione privata e collettivaRistorazione privata e collettiva

In particolare il concetto di agribusiness viene accolto ed elaborato ulteriormente

in Francia alla fine degli anni '60, dove gli studiosi - in particolare Louis Malassis [Ma-lassis, 1992] che può essere considerato il padre dell’economia agro-alimentare moder-na - utilizzano il termine complesso o sistema agro-alimentare (SAA)15, definendolo

14 In Francia, ad esempio, “La questione essenziale è di sapere come l'inserimento crescente dell'agricoltura nei circuiti commerciali possa realizzarsi, senza comportare una sottomissione totale dell'agricoltura agli imperativi dell'industria” [Combris e Nefussi, 1984, p.23]. Questa accezione è volta ad impedire che gli squilibri di potere contrattuale tra fasi contigue lungo la filiera possano riflettersi in una penalizzazione eccessiva del settore debole, cioè l'agricoltura. 15 I termini di complesso e di sistema, qui utilizzati come sinonimi, riflettono in realtà differenze sostanziali a livello di tipologia di collegamento tra le attività agro-alimentari a cui si riferiscono: il termine complesso

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2. Agricoltura e sistema agro-alimentare

Prof. Andrea Marescotti 30

come quell'insieme di attività che, all'interno di una data realtà socio-territoriale ed in un determinato momento storico, concorrono al soddisfacimento della funzione di alimentazione della popolazione.

L’impiego del termine “agro-alimentare” sta a significare che Malassis incentra l’attenzione non tanto sul settore agricolo, quanto sulla “fuzione di alimentazione”, per cui il sistema agro-alimentare è “tutto quanto concorre alla funzione di alimentazione di un Paese”. L’ottica, se vogliamo, è valle vs monte e non viceversa. Così Malassis dà anche avvio agli studi sistemici: “Inizialmente il problema che egli si è posto è stato quello dell'inserimento dell'agricoltura nello sviluppo economico. Lavorando in tal senso successiva-mente il suo interesse si è spostato sulle questioni dell'industrializzazione dell'alimentazione e quindi dall'agricoltura all'insieme di attività che concorrono al soddisfacimento della domanda alimentare. Questo insieme è definito «complesso agro-alimentare»” [Corsani, 1986, p.109].

Il concetto di agro-alimentare assegna una posizione centrale alla fase del con-sumo (al modello di consumo agro-alimentare), che non viene ritenuta esogena al si-stema ma una sua parte integrante e anzi dominante. Il settore agricolo viene sì consi-derato come un settore di base e, pur se parzialmente, insostituibile (si pensi all'evolu-zione delle biotecnologie), ma su di esso tende a prevalere la sovrastruttura industriale e commerciale che diviene sempre più dominante, in termini di addetti, di valore ag-giunto, di capacità di interpretazione delle esigenze del consumo, di potere decisionale, e così via.

Le articolazioni del sistema agro-alimentare

Articolazione VERTICALE

(FILIERA) Articolazione ORIZZONTALE (SETTORE)

FILIERA OLIVICOLA

FILIERA VITICOLA

FILIERA FRUMENTO

FILIERA ORTOFRUTTA

FRESCA

PRODUZIONE FATTORI

industria meccani-ca, chimica, se-mentiera, ecc.

industria meccani-ca, chimica, se-mentiera, ecc.

industria meccani-ca, chimica, se-mentiera, ecc.

industria meccani-ca, chimica, se-mentiera, ecc.

AGRICOLTURA olivicoltura Viticoltura frumenticoltura ortofrutticoltura 1° INGROSSO E CONDIZIONAMEN-TO

raccoglitori, commercianti

raccoglitori, grossisti,

import-export

Commercianti, stoccatori

raccoglitori, grossisti,

mercati alla pro-duzione, ecc.

............

............ ............ ............

............

............ ............ ............

............

............ 1° TRASFORMAZIONE

molitura vinificazione Molitura condizionamento

2° INGROSSO grossisti Grossisti Grossisti grossisti 2° TRASFORMAZIONE

raffinazione, miscelazione,

confezionamento

invecchiamento, imbottigliamento

panificazione, pastificazione

IV gamma V gamma

............

............ ............ ............

............

............ ............ ............

............

............ DISTRIBUZIONE FI-NALE

vendita diretta, GDO, HORECA, piccolo dettaglio,

vendita diretta, GDO, HORECA, piccolo dettaglio,

vendita diretta, GDO, HORECA, piccolo dettaglio,

vendita diretta, GDO, HORECA, piccolo dettaglio,

ATTIVITA' AUSILIARIE

credito, formazio-ne, trasporti, ser-

vizi vari

credito, formazio-ne, trasporti, ser-

vizi vari

credito, formazio-ne, trasporti, ser-

vizi vari

credito, formazio-ne, trasporti, ser-

vizi vari CONSUMO M O D E L L I D I C O N S U M O A L I M E N T A R E OUTPUT oli d'oliva vini Pane, pasta, ortofrutta fresca

Il sistema agro-industriale ricomprende invece al suo interno anche tutte quelle

attività agricole e legate direttamente e indirettamente all’agricoltura, il cui ruolo non è

implica una semplice aggregazione di tali attività, mentre il termine sistema presuppone una interazione molto stretta tra le stesse.

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2. Agricoltura e sistema agro-alimentare

Prof. Andrea Marescotti 31

rivolto al soddisfacimento della funzione di alimentazione; ad esempio produzione di semilavorati per l’industria chimica da materie prime vegetali, legno, ecc.

Il sistema agro-alimentare (e dunque anche quello agro-industriale) può essere articolato sia in senso orizzontale che in senso verticale (figura Le articolazioni del siste-ma agro-alimentare):

- in senso orizzontale si evidenziano le funzioni svolte nell'ambito del sistema, e gli operatori e i settori di attività tra cui queste sono articolate;

- in senso verticale si evidenziano gli insiemi degli agenti e delle attività (“filie-re”) che concorrono alla produzione di un determinato prodotto finale e semi-lavorato (filiere di prodotto) o che intervengono su una determinata materia prima agricola (filiere di produzione).

2.2. L’articolazione orizzontale del sistema agro-alimentare: i settori di attività

L'articolazione del sistema agro-alimentare (SAA) in senso orizzontale porta ad evidenziare l'insieme degli operatori e dei settori di attività cui sono riconducibili tut-te le operazioni inerenti:

a) la produzione da parte delle aziende agricole di beni destinati all'alimentazio-ne (coltivazione e allevamento);

b) la produzione e la distribuzione dei fattori necessari a tale componente "ali-mentare" dell'agricoltura (sia consumi intermedi che beni di investimento che servizi);

c) una serie di funzioni svolte nella fase di primo ingrosso che costituiscono l’interfaccia tra l’agricoltura e i settori della trasformazione e/o della distrbu-zione finale; tra tali funzioni devono essere sottolineate:

- la concentrazione dell'offerta agricola: essendo la produzione agricola in genere molto dispersa sia sotto il profilo territoriale che temporale, è necessario aggregare i prodotti di una stessa categoria merceologica provenienti dalle diverse aziende, fino a raggiungere una "massa critica" che renda conveniente avviare le successive operazioni;

- la standardizzazione e la normalizzazione della produzione, mediante cui si formano delle partite di prodotti agricoli il più possibile omogenee sotto il profilo qualitativo (ovviamente varietà e cultivar, ma anche for-ma, dimensione, aspetto, grado di maturazione, contenuto zuccherino, ecc.): in questo modo le transazioni commerciali vengono rese più sem-plici e più efficienti (contrattazioni su descrizione), i compiti della distri-buzione vengono agevolati, si può migliorare l'informazione dei consu-matori. La standardizzazione può essere effettuata sulla base di diversi parametri, i quali possono essere stabiliti contrattualmente tra le parti o tra loro associazioni, oppure prefissati da leggi (sia nazionali che comu-nitarie) o da usi e consuetudini locali. Alla standardizzazione si aggiun-ge poi l'azione di controllo e tutela della qualità svolta dall'operatore pubblico.

Tali funzioni potrebbero essere svolte direttamente al livello della produzione agricola (mediante idonee forme associative: cooperative, associazioni dei produttori) con una notevole semplificazione dei canali commerciali e una minimizzazione dei relativi costi; allo stato attuale esse vengono invece svolte in parte ancora significativa da operatori "intermediari" il cui livello di evolu-zione tecnica, commerciale e imprenditoriale si diversifica nel tempo, nello spazio e per categorie di prodotti.

d) lo stoccaggio dei prodotti agricoli non (ancora) trasformati, che ha come obiet-tivi essenziali la regolarizzazione nel tempo di produzioni stagionali (ed è in questo caso in genere svolto da imprese private miranti a valorizzare la vendi-ta del prodotto agricolo e a ottenere così prezzi più alti) e la regolarizzazione dei mercati di vendita tramite il controllo dell'offerta (svolto in genere da or-ganismi pubblici, ma anche da organizzazioni professionali degli agricoltori);

e) la (eventuale) trasformazione dei prodotti agricoli in prodotti - semilavorati o

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2. Agricoltura e sistema agro-alimentare

Prof. Andrea Marescotti 32

finiti - destinati al consumo alimentare sia in maniera diretta (beni destinati direttamente all'alimentazione umana) che in maniera indiretta (beni destinati indirettamente all'alimentazione umana, vale a dire prevalentemente alimenti per il bestiame);

f) la commercializzazione dei prodotti dell'agricoltura e dei beni di derivazione agricola;

g) le attività di importazione ed esportazione ai vari livelli della filiera (materie prime, semilavorati, prodotti finiti);

h) le attività di trasporto, il cui ruolo è sempre più determinante nel garantire gli approvvigionamenti delle imprese e il collocamento dei loro prodotti, che tendono ad avvenire a sempre più ampie distanze;

i) tutte le altre attività ausiliarie a quelle esaminate, quali credito, assicurazio-ne, intermediazione, ecc.

l) la ristorazione, sia istituzionale che commerciale; m) il consumo finale; n) le attività di regolazione svolte a vario livello dall'operatore pubblico, dalla

gestione degli scambi con l'estero, alla fissazione di prezzi massimi al consu-mo e minimi alla produzione, alle concessioni di credito agevolato, alle rego-lamentazioni sulla qualità dei prodotti, al rilascio di licenze di commercio da parte dell'autorità amministrativa;

o) le attività di regolazione svolte dalle diverse organizzazioni economiche di alcune categorie di produttori che si possono venire a costituire nell'ambito del sistema (ad esempio associazioni di produttori agricoli o degli industriali).

2.3. L’articolazione verticale del sistema agro-alimentare: la filiera

La definizione di filiera I fenomeni generali che interessano consumi, sistema distributivo e industria

alimentare di trasformazione si manifestano con intensità diverse e con caratteri propri e dipendenti rispetto a ogni specifico prodotto e materia prima agricola, tenuto conto anche della tipologia e della natura specifica degli stessi (grado di deperibilità, possibi-lità di differenziazione, ecc.) e della natura dei processi produttivi che richiede.

Particolarmente utile per cogliere nella loro concretezza i fenomeni ricordati è al-lora l'articolazione del sistema agro-alimentare in senso verticale, la quale porta ad evidenziare le cosiddette “filiere”, vale a dire l'insieme di tutte le attività (e dei relati-vi operatori e settori) che concorrono alla produzione di un determinato prodotto fina-le o, alternativamente, che intervengono su una determinata materia prima agricola.

La filiera è dunque una sezione verticale del sistema agro-alimentare o agro-industriale operata in riferimento ad un prodotto (materia prima agricola, semilavora-to, prodotto finito) o una categoria di prodotti, e una data area geografica. Avremo ad esempio la filiera della carne bovina in Italia, la filiera olivicola in Spagna, la filiera or-tofrutta in Toscana, la filiera della pera in provincia di Cuneo, la filiera latte nell’Unione Europea.

La spaccatura verticale del sistema agro-alimentare così operata identifica e isola un “luogo economico virtuale”, la filiera appunto, all’interno del quale si realizzano le relazioni orizzontali e verticali di carattere mercantile e non mercantile tra le unità produttive (imprese, associazioni di produttori, ecc.) e gli altri agenti (operatore pub-blico, enti di normazione, ecc.) coinvolti nel processo di produzione.

E’ possibile distinguere due diverse accezioni di filiera in base alle modalità se-guite per la sua identificazione:

a) filiera di prodotto (output-input), ove il fattore aggregante della filiera è costi-tuito appunto da un determinato prodotto finale, o da una categoria di pro-dotti finali. Essa dunque raccoglie tutte le attività che concorrono alla produ-zione di un prodotto finale (ma eventualmente anche intermedio), a partire dalla produzione delle materie prime e dei beni di investimento nella fase a monte, fino alla commercializzazione e al consumo del prodotto considerato. La ricostruzione della filiera avviene dunque secondo la direzione "valle-

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2. Agricoltura e sistema agro-alimentare

Prof. Andrea Marescotti 33

monte", identificando l’output e risalendo per capire e analizzare i vari settori che hanno concorso alla sua realizzazione fornendo fattori di produzione (in-puts);

b) filiera di produzione (input-output), che raccoglie l'insieme delle attività svol-te in fasi successive su una determinata materia prima, fino al livello della sua utilizzazione finale (o, più spesso, delle sue molteplici utilizzazioni finali), nonché delle attività necessarie alla realizzazione della materia prima stessa. La ricostruzione della filiera avviene in questo caso secondo la direzione "monte-valle".

La filiera come tranche verticale del sistema agro-alimentare

AGRICOLTURA

Concentrazione, conservazione, prima commercializzazioneConcentrazione, conservazione, prima commercializzazione

Distribuzione intermediaDistribuzione intermedia

Industria di trasformazioneIndustria di trasformazione

AutoconsumiAutoconsumi

Industrie fornitrici di fattoriIndustrie fornitrici di fattori

ATTIVITA’

AUSILIARIE

Credito,

assistenza tecnica

e fiscale,

formazione

professionale,

informazione, ecc.

ATTIVITA’

AUSILIARIE

Credito,

assistenza tecnica

e fiscale,

formazione

professionale,

informazione, ecc.

Distribuzione finaleDistribuzione finale

Consumi domesticiConsumi domestici Consumi extra-domesticiConsumi extra-domestici

Ristorazione privata e collettivaRistorazione privata e collettiva

In entrambi i casi la filiera è costituita da un segmento verticale del sistema agro-

alimentare che raccoglie una concatenazione di agenti (e relativi settori) e di operazioni disso-ciabili, separabili e collegate tra loro da legami di carattere tecnico, commerciale e finanziario.

L’approccio di filiera permette di delineare la struttura e il funzionamento delle singole tranches verticali del sistema agro-alimentare e agro-industriale, cogliendo dunque le specificità relative a ciascun prodotto o categoria di prodotti in riferimento al collegamento con le utilizzazioni intermedie e finali cui esso può essere destinato, superando in questo modo il tradizionale approccio di settore, e permettendo invece per tale via di analizzare il posizionamento del settore agricolo all'interno delle singole filiere, nonché quello di queste ultime all'interno del quadro competitivo complessivo.

«L'approccio di filiera, consentendo un esame “verticale” dei processi produttivi effettuato mediante la delineazione congiunta della struttura macroeconomica, delle “istituzioni economiche” (imprese, mercati, rapporti contrattuali) e degli aspetti più propriamente produttivi (livelli tecnologici, flussi di interscambio, strategie operative), risulta preliminare alla verifica non solo della possibilità di effettuare l'analisi di filiera, ma più in generale dell'esistenza dei prerequisiti richiesti dalle unità di indagine che si pongono come obiettivo il (parziale) superamento della categoria concettuale di “setto-re”, consentendo anche di orientare la scelta tra le diverse metodologie applicabili.» [Belletti, Giancani, Marescotti e Scaramuzzi, 1994].

La filiera rappresenta dunque l’ambiente operativo in cui gli agenti operanti ai vari livelli o fasi del processo produttivo del bene oggetto di analisi elaborano e realiz-zano le proprie strategie; per questo motivo l’analisi di filiera esalta una visione verti-cale delle relazioni tra imprese, e costituisce uno strumento privilegiato per la com-prensione dei meccanismi di coordinamento tra le imprese coinvolte in relazioni di in-put-output.

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2. Agricoltura e sistema agro-alimentare

Prof. Andrea Marescotti 34

Filiera di produzione e di prodotto

FILIERA DI PRODUZIONE

LATTE BOVINOLATTE BOVINO

Aziende con bovini da latte

Coop. Raccolta e trasporto

PASTORIZZAZIONE

Centrali del latte, latterie private e

coop.

CASEIFICAZIONE

Caseifici privati e coop.

DISTRIBUZIONE

CONSUMICONSUMI

latteAlimentazione

animale

siero

Aziende suinicole

Formaggio Ricottta

burro

Latte fresco e UHT,

yoghurt

Aziende con bovini da latte

Coop. Raccolta e trasporto

PASTORIZZAZIONE

Centrali del latte, latterie private e

coop.

CASEIFICAZIONE

Caseifici privati e coop.

DISTRIBUZIONE

CONSUMICONSUMI

latteAlimentazione

animale

siero

Aziende suinicole

Formaggio Ricottta

burro

Latte fresco e UHT,

yoghurt

FILIERA DI PRODOTTO

LATTE ALIMENTARELATTE ALIMENTARE

DISTRIBUZIONE

Latte alimentare

PASTORIZZAZIONE

Centrali del latte, latterie private e

coop.

Aziende con bovini da latte

Coop. Raccolta e trasporto

CONSUMICONSUMI

DISTRIBUZIONE

Latte alimentare

PASTORIZZAZIONE

Centrali del latte, latterie private e

coop.

Aziende con bovini da latte

Coop. Raccolta e trasporto

CONSUMICONSUMI

Gli obiettivi dell’analisi di filiera L'identificazione e lo studio di una filiera richiede in via preliminare la definizio-

ne delle finalità dell'analisi (da cui consegue la scelta tra l'approccio di filiera di pro-duzione oppure di prodotto e l’individuazione degli aspetti da porre al centro dell’attenzione), l'esatta definizione dell'oggetto della filiera, e la definizione dello spa-zio geografico e del periodo temporale da prendere in considerazione.

E’ infatti importante sottolineare che la filiera non è un qualcosa di concreto, ma è una costruzione ad hoc effettuata in base ad esigenze specifiche.

"L'approccio sistemico non ha una metodologia, ma tante metodologie diverse che cambiano in funzione della dimensione dell'aggregato sociale oggetto di studio" [Iacoponi, 1994, p.14]. Prendendo spunto da questa considerazione è stato proposto il concetto di filiera pertinente [Jacquemin e Rainelli, 1984], vale a dire quella filiera de-terminata dall'osservatore in modo tale di consentirgli di far luce sui propri comporta-menti, di impostare le proprie strategie, di consentire di giudicare la qualità dei risulta-ti ottenuti, ecc.

L’obiettivo generale dell’analisi di filiera consiste nell’individuare ed interpretare la struttura e le relazioni tra imprese accomunate dal fatto di operare su di una deter-minata materia prima (filiera di produzione) o per la realizzazione di un dato prodotto (filiera di prodotto), privilegiando un’ottica "verticale".

I risultati dell’analisi di filiera possono consentire di raggiungere obiettivi speci-fici, che consistono in particolare:

- per gli operatori privati: poter impostare strategie individuali o collettive (valu-tazione dei mercati effettivi e potenziali, dello stato della concorrenza, dell'esi-stenza e dell'entità di barriere all'entrata e all'uscita, ecc.);

- per gli operatori pubblici, ai vari livelli: poter impostare interventi volti ad rego-lare e/o agevolare le transazioni, o a stimolare la realizzazione di particolari produzioni o l'adozione di processi produttivi, o a correggere distorsioni nei rapporti tra imprese e tra di esse e i consumatori.

Le fasi dell’analisi di filiera

L’analisi di filiera si realizza poi attraverso vari passaggi (cui sottostanno varie interpretazioni del concetto di filiera stesso).

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Prof. Andrea Marescotti 35

Fase Azioni Definizione e identificazione

o Filiera di prodotto o di produzione o spazio geografico o periodo storico o larghezza (frumento tenero, frumento, cereali) o lunghezza (quali fasi ricomprendere).

Descrizione o Tipologia delle imprese nei diversi settori e altri attori o Operazioni tecniche (fasi del processo produttivo) o Tecnologia (coesistenza di tecnologie diverse) o Canali di distribuzione (i “percorsi fisici” del prodotto) o Quantificazione dei flussi tra le varie fasi della filiera o Sub-filiere (prodotto/tecnologia) o Normativa e politiche

Analisi del fun-zionamento

o Strategie relazionali degli agenti (cooperazione e con-flitti verticali e orizzontali)

o Rapporti di potere e dominanza o Ripartizione del valore aggiunto o Costruzione della qualità o Individuazione dei centri di regolazione della filiera

Azioni correttive e politiche

o Individuazione degli interventi migliorativi

1) Identificazione della filiera La base di partenza per l’analisi di una filiera è costituita dalla identificazione della sequenza di operazioni che conducono dalla materia prima al prodotto fini-to (o viceversa, nel caso di una filiera di prodotto), il quale risulta così considera-to esclusivamente come il risultato di un processo tecnologico, o di più processi tecnologici che possono coesistere in relazione ad un determinato prodotto (sub-filiere tecnologiche). Ovviamente dovrà essere identificato la materia prima / prodotto intermedio / prodotto finito oggetto di analisi, l’area geografica cui faremo riferimento (mon-do? Unione Europea? Italia? ecc.), il periodo storico e l’anno di riferimento, la “larghezza” della filiera - se cioè la ricostruzione interessa una intera categoria di prodotti, come ad esempio i cereali, o alcune specie, come ad esempio il frumen-to, o addirittura il frumento duro di una certa varietà – e la “lunghezza” della fi-liera, vale a dire il numero di fasi / settori che è opportuno ricomprendere nell’analisi.

Le sub-filiere grano duro e grano tenero nella filiera di produzione “frumento”

FRUMENTICOLTURA

Concentrazione, conservazione, prima commercializzazione

Industria molitoria

Industrie fornitrici di fattori

Distribuzione finale

Consumi domestici Consumi extra-domestici

Ristorazione privata e collettiva

Industria

mangimistica

Industria

pastaria

Industria

panificazioneIndustria

dolciaria

Sub-filierafrumento tenero

Sub-filierafrumento tenero

Sub-filierafrumento duro

Sub-filierafrumento duro

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2. Agricoltura e sistema agro-alimentare

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2) Descrizione della filiera La seconda fase è relativa alla descrizione della struttura della filiera nelle sue di-verse componenti ed eventuali sub-filiere. Si tratta di individuare come le diverse operazioni sono distribuite tra i diversi agenti economici che operano nell’ambito della filiera. In questo modo è possibile anche individuare la presenza di even-tuali "nodi tecnologici", vale a dire le fasi tecniche che la filiera considerata ha in comune con altre filiere, oppure da cui/verso cui si hanno flussi di prodotti e/o sottoprodotti. Particolare rilevanza assumono:

a) le caratteristiche delle imprese che partecipano al processo produttivo agro-alimentare e dei mercati in cui operano; numero, dimensione, redditività, evoluzione nel tempo, situazioni di monopolio o oligopolio.

a) la ricostruzione dei canali di distribuzione del prodotto, vale a dire dei percorsi fisici che il prodotto segue per arrivare fino al consumatore finale. Anche sotto questo aspetto è necessario individuare la pluralità dei canali di di-stribuzione esistenti nell’ambito di ciascuna filiera, vale a dire delle diverse sub-filiere commerciali presenti. Una volta identificati i diversi canali di di-stribuzione, è necessario individuare i soggetti che intervengono nella commercializzazione del prodotto ai vari livelli della filiera, e analizzare dei mercati nell'ambito dei quali gli scambi intra-filiera si realizzano.

b) la ricostruzione e valutazione dei flussi tra le diverse fasi e i diversi agenti che fanno parte della filiera (o delle varie sub-filiere), tanto dei flussi di caratte-re fisico che monetario. Tale ricostruzione deve contribuire a valutare l’importanza relativa assunta nell’ambito della filiera da parte delle diverse imprese e tipi di imprese (ad esempio artigianali, industriali, cooperative, ecc.), dalle diverse tecnologie e dalle diverse tipologie di canali di distribu-zione, dai flussi di import-export, ecc. Essa deve altresì identificare la strut-tura dei comparti coinvolti nelle differenti fasi della filiera.

c) la ricostruzione della normativa relativa alle varie fasi della filiera, al fine di cogliere i condizionamenti che essa esercita sulla struttura e/o il funziona-mento delle diverse fasi della filiera, i vincoli che essa pone al comporta-mento dei diversi agenti, ecc.

L’identificazione dei flussi nella filiera di produzione “caffè verde de Jarabacoa (Rep.Dominicana)

3) Analisi del funzionamento Una volta identificata ed analizzata la struttura della filiera, è possibile procedere all’analisi del suo funzionamento interno, ovvero della “filiera in movimento”.

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L’analisi dei meccanismi di funzionamento della filiera risulta spesso molto com-plessa, ma schematicamente si possono individuare i seguenti passaggi, la cui importanza relativa dipende comunque dagli obiettivi che l’analisi di filiera si pone

a) le strategie relazionali degli operatori (rapporti di cooperazione e di conflitto tra imprese): l’analisi deve interessare sia le relazioni tra gli operatori presenti all’interno di una determinata fase (e dunque delle strategie competitive che essi pongono in essere per migliorare le proprie perfomances), che quelle che si instaurano tra gli operatori presenti in stadi antecedenti o suc-cessivi della filiera, i quali sono legati da relazioni di acquisto-vendita. La strategia delle imprese (in particolare di quelle di maggiori dimensioni)

tende ad esercitare i propri ef-fetti sull’intera filiera, in quanto queste imprese cercano di strutturare secondo le proprie esigenze i mercati e gli altri soggetti in essa operanti, preoccupandosi di pervenire ad una loro gestione per trarne sia vantaggi tecnologici (attra-verso una integrazione delle operazioni e dei processi, un adeguamento dei flussi, una ri-duzione degli stocks, una mi-

gliore qualità globale del prodotto ...), che vantaggi commerciali (attraverso una integrazione degli scambi, una migliore gestione dei mercati, una in-ternazionalizzazione delle condizioni di mercato ...). In sostanza le relazioni tra gli agenti sono costituite da un mix di collaborazione (rispetto ad aspetti quali la gestione della qualità, la tempistica, ecc.) e di competizione (ad esempio rispetto alla definizione del prezzo, della ripartizione dei guada-gni di produttività, ecc.).

b) i rapporti di potere e di dominanza tra gli operatori e la ripartizione del va-lore aggiunto lungo la filiera: le differenti dotazioni strutturali e di risorse (umane, informative, finanziarie, ecc.), le dimensioni operative squilibrate, le particolarità dei processi produttivi svolti, la diversa capacità di controllo sulla tecnologia, fanno sì che spesso i rapporti tra gli agenti posti a diversi livelli della filiera risultino squilibrati e conflittuali. Il processo di concen-trazione a ritmi differenziati che si verifica all’interno del sistema agro-alimentare (vedi oltre) determina differenziali di potere contrattuale lungo la filiera che danno origine a rapporti di potere e dominanza tra imprese e, in alcuni casi, a ripartizioni inique del valore aggiunto generato dalla filie-ra. Il settore agricolo, composto mediamente da numerose ed eterogenee imprese, si trova sempre più confrontato a grandi interlocutori dotati di un maggior potere contrattuale. Per evidenziare nel concreto l’esistenza di eventuali posizioni di dominanza è allora utile analizzare la ripartizione tra i diversi stadi della filiera del valore finale del prodotto, del valore aggiun-to e dei margini lordi, e identificare i presupposti che rendono possibili tali posizioni di dominanza. Parimenti si tratterà di analizzare le strategie di in-tegrazione e di disintegrazione verticale e orizzontale portate avanti dai va-ri agenti, spesso proprio con la finalità di costituire posizioni di dominanza o di costruire delle strategie di risposta al potere contrattuale conquistato da determinati comparti/operatori.

4) Azioni correttive e politiche Come si è visto, finalità ultima dell’analisi di filiera è l’identificazione di strategie e azioni strategiche da parte delle imprese singole e associate, nonché di politiche adeguate da parte dell’operatore pubblico ai vari livelli. La filiera sempre più spesso viene assunta dall’operatore pubblico come ambito

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PRODOTTI SOSTITUTIVI

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di riferimento per l’elaborazione di interventi coordinati di politica industriale che consentano di superare la tradizionale impostazione di tipo settoriale. Un’impostazione delle politiche pubbliche in chiave di filiera consente tra l'altro di individuare i punti deboli che all'interno di una determinata filiera impedisco-no l'espansione globale della stessa, consentendo di mettere a punto interventi più puntuali che mirino ad influenzare in modo mirato gli elementi critici della catena di attività considerata, e quindi di creare, o rinforzare, i poli strategici all'interno della filiera, attorno ai quali gravitano le altre imprese e gli altri settori funzionali della filiera.

Vantaggi e limiti della filiera

L’approcco e l’analisi di filiera si sono rapidamente diffuse anche all’interno dell’economia agro-alimentare, di pari passo con la complessificazione dei processi produttivi e delle strategie degli operatori. Essendo un approccio eclettico e versatile, ma anche di immediata comprensione, le applicazioni sono state numerose. Non solo, ma l’analisi si è arricchita di un bagaglio gergale: spessore, altezza, nodi strategici, stra-tegie di filiera, ecc.

Effettivamente l’analisi di filiera presenta numerosi vantaggi, rivelandosi uno strumento utile per analizzare i rapporti verticali e di coordinamento del processo pro-duttivo in un contesto dato, permettendo di mettere in luce i rapporti di forza e le in-terrelazioni tra imprese a livello verticale. Tuttavia tale approccio non può essere l’unica angolatura di analisi [Fanfani e Montresor, 1994], in quanto non consente di analizzare tutti i comportamenti di impresa, e in particolare gli aspetti legati all’ambiente socioeconomico e istituzionale, così come di comprendere appieno capire l’attività di imprese molto diversificate e globalizzate [Lauret, 1985]. Si rivela utile se gli attori sono specializzati, monoprodotto o prevalentemente orientati ad un prodotto - categoria omogenea di prodotti, altrimenti il noise si fa sentire di più. E l’attività delle aziende agricole è solo raramente un’attività monoprodotto.

Come ogni approccio sistemico, inoltre, anche quello di filiera pone problemi di individuazione dei confini, nonché di isolamento del sistema. Non arriva infine a spie-gare il comportamento dei consumatori [Lauret, 1985].

2.4. I bilanci di approvvigionamento

Cosa sono i bilanci di approvvigionamento Il bilancio di approvvigionamento è un prospetto che evidenzia come si è origi-

nata la disponibilità di una merce e come questa è stata utilizzata per un ambito territo-riale definito ed in un periodo determinato. In particolare il bilancio di approvvigio-namento:

- descrive i livelli nutrizionali di una popolazione (regime alimentare); - è uno strumento per l’analisi economica del mercato delle commodities. L’equazione fondamentale del bilancio di approvvigionamento è la seguente:

FONTI (o Disponibilità) = IMPIEGHI (o Utilizzazioni)

FONTI IMPIEGHI o Produzione interna o Dotazione iniziali di scorte o Importazioni

o Utilizzazioni interne o Esportazioni o Dotazione finale di scorte

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Le Fonti indicano la quantità di quella determinata merce che entra nelle dispo-nibilità della popolazione, ed è formata dalla dotazione iniziale di scorte, dalla quantità della merce prodotta nel Paese nel corso dell’anno, e dalle importazioni realizzate.

Dall’altra parte gli Impieghi indicano il modo con cui le disponibilità ven-gono utilizzate e destinate, ed è composta dai o utilizzazioni interne, dalle esportazioni e da quanto resi-dua a fine periodo (dotazione finale di scorte). La dotazione iniziale delle scorte è evidentemente uguale alla dotazione finale di scorte del periodo precedente.

I dati riportati nel bilancio di approvvigionamento si riferiscono ai flussi della merce di riferimento escludendo gli eventuali derivati: es. nel bilancio di approvvigionamento del grano duro non sarebbe corretto

convertire le esportazioni di pasta in granella equivalente e indicarle come esportazio-ni; invece le ritroviamo nella utilizzazione interna (da parte dell’industria di trasforma-zione).

Bilancio di approvvigionamento del frumento tenero nell’Unione Europea

Nonostante una produzione interna eccedente c’è un ricorso ad importazioni significative per ragioni tecnologiche (le c.d. importazioni “tecniche”).

I limiti del bilancio di approvvigionamento Il bilancio di approvvigionamento considera la denominazione merceologica cui

si riferisce come se fosse totalmente indipendente dalle altre. Bisogna invece ricordare

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che esistono rapporti di sostituzione sia parziale che totale. Alcune commodities, se pur intrinsecamente diverse, sono tra loro sostituibili per determinate utilizzazioni (e se-condo precisi coefficienti tecnici); i bilanci di approvvigionamento delle merci sostitui-bili sono “vasi comunicanti”.

Ad esempio esiste una sostituzionalità quasi totale tra i cereali per gli impieghi foraggeri (senza dimenticare che esistono i cosiddetti PSC = prodotti sostitutivi dei ce-reali); il frumento duro, invece, non ha alternative (comparabili per qualità e caratteri-stiche del prodotto finale) nell’utilizzazione per la produzione di pasta.

L’equilibrio/squilibrio commerciale di una commodity dipende, talvolta, anche dalla situazione commerciale di altre produzioni che interferiscono indirettamente at-traverso eventuali prodotti secondari. È il caso dei semi di soia che, per la trasforma-zione congiunta in olio e farina di estrazione, rendono comunicanti mercati altrimenti separati come gli alimenti zootecnici ed il comparto degli oli e grassi.

Questi rapporti di interdipendenza rendono più complicata la stima delle voci del bilancio di approvvigionamento riferito alla singola merce. Variazioni dei prezzi relativi, combinate con i rapporti di sostituzionalità tecnica esistenti, possono far au-mentare o diminuire in misura sensibile le utilizzazioni di una merce rispetto al perio-do precedente.

2.5. L’analisi del sistema agro-alimentare

Le caratteristiche del sistema agro-alimentare in Italia Negli ultimi decenni il valore della produzione agroalimentare in Italia è cresciu-

to costantemente (vedi figura Valore della produzione agroalimentare 1970 – 2004). In ter-mini reali, nel periodo 1970-2004 la produzione è cresciuta dell’80% anche se, a partire dal 2000, il numero indice mostra una certa stazionarietà.

Nel 2004 la produzione agroalimentare a prezzi correnti superava i 159 miliardi di euro. Per valutare appieno le dimensioni complessive del sistema agroalimentare propriamente detto, cioè di quella componente che nel sistema produttivo soddisfa la domanda alimentare, occorre aggiungere circa 70 miliardi di euro di servizi di ristora-zione (bar, ristoranti e mense) che portano il totale della produzione agroalimentare a 229 miliardi di euro.

Il confronto con il resto del sistema produttivo può invece essere meglio effettua-to utilizzando i dati sul valore aggiunto e sull’occupazione dei settori. Si nota (vedi fi-gura Unità di lavoro e Valore Aggiunto delle componenti del comparto agroalimentare 2005) che il contributo dei tre settori dell’agroalimentare (agricoltura, industria e ristorazio-ne) alla formazione del PIL è sostanzialmente uguale attestandosi tra il 2 e il 2,5%.

Valore della produzione agro-alimentare 1970 – 2004. Numeri indice a prezzi costanti 1970 = 100

Fonte: Rocchi [2007]

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2. Agricoltura e sistema agro-alimentare

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Il confronto con il resto del sistema produttivo può invece essere meglio effettua-to utilizzando i dati sul valore aggiunto e sull’occupazione dei settori. Si nota (vedi fi-gura Unità di lavoro e Valore Aggiunto delle componenti del comparto agroalimentare 2005) che il contributo dei tre settori dell’agroalimentare (agricoltura, industria e ristorazio-ne) alla formazione del PIL è sostanzialmente uguale attestandosi tra il 2 e il 2,5%.

Unità di lavoro e Valore Aggiunto delle componenti del comparto agro-alimentare 2005 – Valori percentuali sul totale dell’economia

Fonte: Rocchi [2007

I valori del sistema agro-alimentare in Italia, 2007

] Fonte: INEA, L’agricoltura Italiana conta, 2008

Il SAA può essere analizzato ricorrendo ai dati della Contabilità Nazionale, che

consentono di ricostruire la formazione del valore dei consumi finali e dell’export, in particolare nel modo con cui si ripartisce tra i vari settori che compongono il sistema agro-alimentare stesso. La figura I valori del sistema agro-alimentare in Italia, 2007 illustra di fatto la catena del valore dell’agroalimentare italiano nel 2007. Per ogni settore il va-

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lore aggiunto (VA) si ottiene come differenza tra l’importo delle vendite ed i costi so-stenuti per servizi, materie prime e semilavorati acquistati dai settori posti “a monte”, ovvero quei settori che forniscono gli input (consumi intermedi). Il valore delle vendite del settore agricolo, ad esempio, è fornito dalla somma dei Consumi Intermedi agricoli (mezzi tecnici correnti e servizi, quali fertilizzanti, sementi, carburanti, ecc.) per 20.723 Mld. di euro e di un Valore Aggiunto dell’agricoltura pari a circa 28 Mld. di euro. Con le informazioni riportate è dunque possibile stabilire quanto i singoli settori incidono sul valore finale del consumo più l’esporto di prodotti agroalimentari.

La figura I consumi intermedi dell’agricoltura in Italia, 2007 indica invece quali sono i settori che forniscono il settore agricolo di fattori produttivi. Oltre alla grande catego-ria “residuale” Altri beni e servizi, si noti l’importanza della componente Mangimi, co-sì come ancora una discreta quota di Reimpieghi (11,7%), ovvero fattori autoprodotti internamente dalle stesse aziende (sementi, fertilizzanti, e in particolare mangimi).

I consumi intermedi dell’agricoltura in Italia, 2007

Fonte: INEA, L’agricoltura Italiana conta, 2008

La catena del valore nella filiera agroalimentare. Valori costanti a prezzi di mercato 2001

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2. Agricoltura e sistema agro-alimentare

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Nella figura La catena del valore nella filiera agroalimentare la “catena del valore” del comparto agroalimentare per gli anni 1991 e 2001 viene posta a confronto. I due isto-grammi fanno pari a 100 il valore dei consumi alimentari nei due anni considerati. Tra i consumi sono compresi sia gli alimenti consumati in famiglia che i pasti consumati fuori casa, utilizzando i servizi di ristorazione che sono inclusi nella fase di distribu-zione del comparto agroalimentare. Ciò che risulta evidente è la forte preponderanza della distribuzione nella suddivisione del valore lungo la filiera. Nel 2001, infatti, quasi la metà del valore dei consumi alimentari rimaneva alle imprese della distribuzione, mentre l’industria alimentare e l’agricoltura percepivano rispettivamente il 30 e il 21% del valore finale. Il grafico mostra inoltre come nel decennio considerato la suddivisio-ne sia evoluta in un senso sfavorevole all’agricoltura, unica componente che ha visto scendere la sua quota di valore [Rocchi, 2007].

Nei prossimi paragrafi analizzeremo alcune delle componenti (settori) più impor-tanti per il funzionamento del sistema agroalimentare.

L’industria agro-alimentare

L’industria alimentare è composta dall’insieme delle imprese del sistema agro-alimentare che assicurano le varie fasi trasformazione delle materie prime agricole fino alla realizzazione di prodotti pronti per essere consumati.

L’industria alimentare è stata oggetto di profonde e continue trasformazioni e pressioni (concentrazione, globalizzazione, de-localizzazione dei processi, rapido au-mento delle innovazioni di prodotto e di processo, etc.) che ne hanno modificato e con-tinuano a modificare caratteristiche e assetti strutturali e organizzativi.

Nel tempo si è assistito ad una progressiva perdita del carattere di artigianalità dei processi produttivi a causa dell’adozione di processi produttivi e organizzazione di tipo industriale.

In Italia, nel suo complesso, l’industria alimentare oggi è formata mediamente da imprese di piccole di-mensioni (con le dovute e rilevanti eccezioni, e con al-cuni “distinguo”), e una forte diversità delle caratteri-stiche a seconda sia dei comparti merceologici e della natura dei processi produttivi e delle tecnologie domi-nanti, sia dell’area territoriale di riferimento.

In Italia nel periodo 1981-2001, stando ai dati del Censimento ISTAT dell’Industria, l’industria alimentare ha visto un aumento del numero delle imprese (+20%) e delle Unità Locali (+21%), a fronte di una riduzione più marcata degli addetti, che si è tradotto in una riduzione del numero medio di addetti per unità locale (da 8,5 nel 1981 a 6,7 nel 2001). 66.636 è il numero delle imprese alimentari censite nel 2001.

Il dato complessivo del numero delle imprese e delle unità locali nasconde tutta-via la presenza di un comparto, Pasticceria e Panetteria, che da solo totalizza il 56% delle imprese, il 34% delle unità locali, e il 34% degli addetti. Di fatto, la crescita fatta registrare nel ventennio 1981-2001 è da imputarsi pressoché esclusivamente al compar-to della Pasticceria e Panetteria. Si tratta di un comparto formato da imprese di piccola e piccolissima dimensione (spesso negozi a conduzione diretta con vendita al pubblico)

Se rivolgiamo l’analisi all’industria alimentare senza il comparto della Pasticceria e Panetteria, il numero medio degli addetti per unità locale supera quello medio dell’Industria Manifatturiera (10 addetti contro 9).

In termini di addetti i comparti più importanti sono quelli legati alla lavorazione dei prodotti della zootecnia (carne, lattiero-caseario), seguiti dall’ortofrutta.

Il numero di addetti per unità locale risente del tipo di tecnologia dominante nel set-tore. Vi sono comparti che necessitano ancora di un consistente apporto del fattore umano, come in alcune operazioni di cernita e confezionamento di prodotti ortofrutti-coli, e altri invece in cui le innovazioni tecnologiche hanno portato verso l’utilizzo di tecnologie ad alta intensità di capitale (industria molitoria e della pastificazione, indu-stria saccarifera, industria delle bevande, etc.)

Naturalmente il numero assoluto di imprese e unità locali risente delle particolari

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caratteristiche del territorio (disponibilità di materie prime) e dalla storia economica propria di ogni paese (facilità di accesso ai porti, dominazione coloniale e legami di approvvigionamento di materie prime, tradizioni di consumo, etc.).

Caratteristiche dell’industria alimentare in Italia: imprese, unità locali e addetti per settore, anno 2001

Imprese Unità Locali Addetti n. % 2001/

1991n. % 2001/

1991n. % 2001/

1991Carni 3672 -2,4 4454 -11,9 57769 3,0Frutta e ortaggi 1933 21,7 2233 22,6 30317 -17,9Oli e grassi 4416 -6,4 4773 -6,0 16216 -15,0Lattiero-caseario 3927 -9,5 4817 -0,7 54936 -6,8Alimenti x animali 607 8,8 787 -0,6 9097 -11,8Granaglie 1966 -26,7 2203 -24,3 12310 -16,3Panet.-Pasticc. 37476 11,3 40124 11,9 154336 5,5Zucchero 14 -6,7 54 -31,6 4360 -24,1Paste alimentari 5250 15,6 5574 15,5 22407 -4,6Vino 1860 -15,6 2162 -13,4 15604 -15,9Acque e analcolici 329 -26,7 438 -24,1 11475 -12,6

Fonte: ISTAT

Distribuzione percentuale degli addetti per classe di ampiezza delle unità di produzione

dell’industria alimentare - 2001

In Italia l’industria alimentare trova un’ampia diffusione territoriale (copertura

territoriale), essendo presente in tutte le regioni. Esiste tuttavia una dicotomia Nord-Sud: al Nord l'industria alimentare incide molto sul totale nazionale in termini di im-prese, valore aggiunto e occupati, ma poco sull'industria manifatturiera del Nord. Vi-ceversa al Sud, l'industria alimentare è molto importante per l'industria meridionale

Si registra inoltre una forte differenziazione e specializzazione tra aree territoriali italiane (legata anche alla diversità delle agricolture regionali e dunque alla disponibili-tà di materia prima per gli approvvigionamenti industriali).

I grossisti e i mercati all’ingrosso

I grossisti costituiscono il legame tra agricoltura e industria/distribuzione, e tra industria e distribuzione/Ho.Re.Ca. (Hotel, Ristoranti, Catering). I grossisti acquistano le merci dai produttori (agricoli o industriali) per rivenderle al dettaglio, ma ci sono anche grossisti che assicurano i rapporti inter-industriali o tra agricoltura e industria. L’attività di un grossista dunque può essere definita come un’attività volta a “lubrifica-

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re” il mercato e gli scambi, concentrando le partite di più fornitori, garantendo una funzione di finanziamento e di conservazione, operando una selezione delle partite e una classificazione per gruppi omogenei, garantendo il rifornimento di altri operatori intermedi o finali. Unica certezza dunque consiste nel fatto che il grossista non vende al consumatore finale.

Nel settore alimentare, le imprese di ingrosso economicamente più rilevanti sono normalmente despecializzate; seguono poi i grossisti di ortofrutta fresca, ovvero pro-dotti pronti al consumo che non necessi-tano trasformazione, dove le stesse impre-se di ingrosso provvedono alla classifica-zione, confezionamento e fornitura dei servizi logistici, particolarmente delicati a causa della natura deperibile di questi prodotti (ortofrutta fresca, ma anche per latte e derivati, carne).

Germania, Francia, Regno Unito, Spagna e Italia sono i paesi più importanti per quanto riguarda il fatturato delle im-prese grossiste. La dimensione economica delle imprese è mediamente più contenu-ta all’interno dei paesi mediterranei (Por-togallo, Spagna, Italia).

Normalmente i paesi dove la moderna distribuzione è più sviluppata mostrano anche imprese all’ingrosso di più rilevante dimensione economica media, e un conse-guente numero inferiore di imprese grossiste: la concentrazione nella distribuzione fi-nale, cioè, porta ad una concentrazione nel settore all’ingrosso. Tuttavia, progressiva-mente, la concentrazione nel settore dell’industria alimentare e nella distribuzione, e lo sviluppo nei sistemi di interfaccia informatici e logistici tra le grandi imprese del siste-ma agro-alimentare, tenderà ad esercitare una pressione alla contrazione del numero dei grossisti [Wijnands, Van der Meulen, Poppe, 2006].

Molto spesso, nel sistema agro-alimentare, le imprese grossiste operano all’interno di strutture collettive, in Italia soprattutto pubbliche, utili per rendere più efficienti i processi di commercializzazione dei prodotti o per fornire maggiori garanzie ai clienti e ai consumatori finali: i mercati all’ingrosso (spesso denominati “mercati an-nonari” o “mercati generali”) sono strutture per la vendita all’ingrosso di prodotti de-peribili (ortofrutta, carni, pesce, ecc.). Fisicamente sono costituiti da una serie di ma-gazzini, di piazzali, di celle frigorifere, di locali destinati alla contrattazione o nei quali vengono prestati i servizi comuni per gli operatori del mercato, situati gli uni accanto agli altri, secondo un progetto unitario, costituendo un’unica struttura integrata.

Accanto alle aree ed alle attrezzature comuni, alcuni operatori grossisti, in genere quelli di dimensioni maggiori, possono usufruire di magazzini stabili all’interno del mercato annonario, pagando un canone di affitto all’ente che gestisce il mercato.

La realizzazione e la gestione dei mercati generali sono affidate nella maggior parte dei casi ai Comuni o, comunque, ad Enti Pubblici, che devono garantire che la fa-se di commercializzazione all’ingrosso dei prodotti oggetto di contrattazione si svolga secondo modalità coerenti all’interesse generale.

Le funzioni dei mercati all’ingrosso sono le seguenti: a) intermediazione: collegamento tra produzione e consumo e coordinamento

degli scambi attraverso una rapida rotazione del prodotto b) assortimento: composizione di assortimenti orizzontali e verticali. Completa-

mento della gamma della merce in vendita attraverso la contrattazione dell’offerta.

c) prezzo: ”scoperta” del prezzo: le contrattazioni nel mercato portano infatti alla formazione del prezzo di mercato (per molti prodotti, non per tutti) e fanno da riferimento per le contrattazioni “fuori mercato”

d) servizi: stoccaggio, assicurazione, imballaggio e confezionamento, trasporto, strutture per la contrattazione (es. aste), listini prezzi, informazione sull’andamento dei mercati

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Le prime 25 imprese di ingrosso alimentare in Europa, 2004

Fonte: Wijnands, Van der Meulen, Poppe [2006]

Le principali tipologie dei mercati all’ingrosso possono essere così individuate [Sbrana e Gandolfo, 2007]:

1. Mercati generali alla produzione: localizzati vicino ai luoghi di produzione (zone agricole per i mercati ortofrutticoli o floricoli, zone di allevamento per i macelli pubblici, porti pescherecci per i mercati del pesce, ecc.). In qualità di offerenti troviamo i produttori (aziende agricole, allevatori, ecc.), le loro coo-perative (che hanno la possibilità di concentrare e diversificare l’offerta, specie quando i produttori sono costituiti da micro-imprese) e – infine – i cosiddetti grossisti raccoglitori, vale a dire operatori commerciali che si presentano sul mercato dopo aver effettuato la necessaria opera di selezione e concentrazione

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delle partite offerte dai piccoli produttori della zona. Gli acquirenti tipici sono rappresentati da imprese all’ingrosso specializzate, che si approvvigionano di questi articoli nelle zone di produzione per collocarli in seguito nelle zone di consumo, in Italia o all’estero.

2. Mercati generali al consumo. Localizzati in prossimità dei grandi centri di consumo (aree metropolitane, zone intensamente abitate, ecc.) e presentano in qualità di offerenti gli stessi operatori all’ingrosso specializzati che agiscono da acquirenti nei mercati alla produzione. Gli acquirenti tipici sono invece co-stituiti dalle imprese commerciali al dettaglio che gestiscono punti di vendita localizzati nella zona di attrazione del mercato. Tra i clienti dei mercati gene-rali al consumo non vi sono solo dettaglianti di tipo tradizionale, ma anche imprese della DO (in diminuzione).

3. Mercati generali di redistribuzione: sorgono in località baricentriche rispetto ad ampi bacini di mercato e molto ben collegate dal punto di vista del sistema dei trasporti. La loro funzione principale, come suggerisce il loro stesso nome, è quella di fare da elemento di collegamento tra le località di produzione e di consumo, con frazionamenti, accorpamenti, ricondizionamenti delle partite a seconda delle esigenze dei differenti mercati da servire. Gli operatori che agi-scono al loro interno sono essenzialmente grossisti specializzati, sia in posi-zione di venditori che di compratori.

4. Mercati generali misti: strutture nelle quali vengono svolte contestualmente le funzioni caratteristiche di più di una delle tipologie di mercati annonari in precedenza ricordati. Nella realtà tutti i mercati annonari sono misti, nel senso che in essi si ritrovano, in misura diversa, le caratteristiche di più tipologie di mercati annonari. Pertanto è corretto parlare di mercati annonari “misti” stric-to sensu solo nel caso in cui tra le diverse funzioni svolte non ve ne sia una net-tamente prevalente, dovendosi altrimenti in maniera più corretta parlare di mercato alla produzione, al consumo o di redistribuzione.

L’evoluzione del sistema agro-alimentare, e in particolare la forte crescita delle imprese della moderna distribuzione, hanno contribuito in larga misura ad evidenziar ei principali fattori di criticità dei mercati all’ingrosso:

- strutture: in molti mercati vi sono notevoli carenze alle strutture, spesso vec-chie e obsolete, localizzate nei centri storici, con carenze nell’accesso e nei pun-ti di sosta, nelle strutture di conservazione e condizionamento, nella capacità di fornire servizi;

- dimensione: dimensioni limitate frenano le possibilità di adeguamento alle esigenze dei mercati moderni, ostacolando il collegamento domanda-offerta;

- concorrenza di nuove strutture: sviluppo di piattaforme logistiche extra-mercato, facenti capo ad Organizzazioni di produttori o alle imprese della moderna distribuzione (Ce.Dis.).

Queste pressioni competitive e carenze strutturali e organizzative hanno fatto sì

che nel corso degli ultimi anni molti mercati abbiano dovuto chiudere (in particolare quelli localizzati all’interno delle aree urbane e di dimensione operativa più contenuta), mentre altri, in particolare i mercati generali all’ingrosso di maggiori dimensioni e loca-lizzati nelle zone più dinamiche del Paese, hanno proceduto ad una ristrutturazione e riorganizzazione, offrendo nuovi servizi anche per le imprese della moderna distribu-zione e interfacciandosi meglio con gli altri operatori e i servizi logistici del sistema agro-alimentare.

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Mercati generali alla produzione e al consumo

A A A A A A A A

Mercato alla produzione

Mercato al consumo

G G

G

D D D D D D CeDis

G G

GGG

La tipologia dei clienti in due mercati italiani all’ingrosso

GROSSISTI48,4%

COMUNITA'2,4%

DETTAGLIANTI33,2%

AMBULANTI13,8%

G.D.O.0,3%

G.D.1,7%

I clienti del mercato ortofrutticolo di Bologna

Grossiti62%

Estero3%

Mercato locale20%

Distribuzione moderna

15%

Clienti del mercato ortofrutticolo di Fondi

(LT)

Clienti del mercato ortofrutticolo di Bologna

La distribuzione al dettaglio

La distribuzione finale al dettaglio è composta dall’insieme delle imprese del si-stema agro-alimentare che assicurano la consegna finale dei prodotti agro-alimentari al consumatore finale. In particolare, le funzioni commerciali servono a superare i gap [Sbrana e Gandolfo, 2007]:

- gap spaziale: trasporto dai luoghi di produzione ai luoghi di acquisto e/o consumo (attività di trasporto);

- gap temporale: trasferimento nel tempo dal momento di produzione al mo-mento in cui il prodotto è richiesto dal consumatore (attività di stoccaggio);

- gap quantitativo: adattamento delle quantità prodotte dai fornitori alle gior-naliere esigenze del consumatore. Gli operatori commerciali frazionano le par-tite fabbricate per renderle disponibili al consumo nelle giuste quantità;

- gap qualitativo: assembla prodotti di qualità e provenienza diversa per ren-derli disponibili al consumatore (assortimento).

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Le più importanti imprese della moderna distribuzione nel mondo

Fonte: Wijnands, Van der Meulen, Poppe [2006] Nel corso degli ultimi decenni la struttura del sistema distributivo al dettaglio nei

paesi avanzati è radicalmente cambiata, a causa soprattutto del fortissimo sviluppo delle imprese della moderna distribuzione, o Grande Distribuzione Organizzata (GDO), oggi in forte espansione anche nei paesi in via di sviluppo.

L’introduzione e il successo delle grandi superfici di vendita si deve sia alle mo-dificazioni della distribuzione territoriale della popolazione (tendenza alla urbanizza-zione), che al cambiamento degli stili di vita e delle abitudini di consumo, nonché alle modalità con cui il lavoro viene organizzato all’interno delle famiglie.

Convenienza (prezzi più contenuti) e velocità degli acquisti sono dunque i fattori che maggiormente hanno inciso nel successo della formula commerciale del libero ser-vizio e dei grandi assortimenti disponibili presso i punti vendita.

La crescita delle imprese della moderna distribuzione ha comportato una paralle-la crisi del piccolo dettaglio tradizionale, più o meno acuta a seconda delle categorie merceologiche e degli ambiti territoriali di riferimento.

Le imprese della GDO possono essere classificate in riferimento a diversi para-metri e aspetti caratteristici, tra cui grado di specializzazione degli assortimenti, tipolo-gia dei punti vendita controllati, grado di internazionalizzazione, autonomia gestionale dei punti vendita.

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Esercizi commerciali alimentari in Italia, 2007

Fonte: INEA, L’agricoltura italiana conta 2008

Grande Distribuzione Organizzata alimentare in Italia per ripartizione territoriale, 2005

Fonte: INEA, L’agricoltura italiana conta 2008

Uno dei criteri più importanti per classificare le imprese della moderna distribu-

zione riguarda il grado di autonomia gestionale dei punti vendita (vedi prospetto For-me aziendali, assetto proprietario e caratteristiche gestionali della moderna distribuzione). Quest’ultimo aspetto è particolarmente importante per comprendere le differenze nelle logiche operative delle imprese della GDO, e l’organizzazione gestionale degli approv-vigionamenti e la politica di marca. Sulla base di questo criterio, il sistema della mo-derna distribuzione può essere diviso in due grandi tipologie:

- grande distribuzione (GD) succursalista e cooperativa, in cui sono ricomprese sia le imprese che gestiscono in maniera unitaria un numero elevato di punti vendita, che sono comunque tutti di proprietà e sotto la direzione gestionale di un’unica impresa (succursalismo, o anche detto negozio a catena), che le cooperative di consumo (come in Italia il sistema Coop). Può essere ricompre-so in questa tipologia anche il commercio indipendente, formato da imprese che operano in maniera individuale ed autonoma sul mercato, senza rapporti di subordinazione o associazione con altre imprese, e che gestiscono un numero limitato di punti vendita, generalmente indicato in 5 punti vendita [Sbrana e Gandolfo, 2007];

- distribuzione organizzata (DO) (o commercio associato), composta da impre-se del dettaglio e/o dell’ingrosso che si organizzano collettivamente – pur ri-manendo indipendenti dal punto di vista gestionale e organizzativo - per far fronte ad alcuni servizi comuni (gestione approvvigionamenti, politica comu-ne di marca e di prodotti a marca, promozione al consumatore, etc.). La DO può essere ulteriormente articolata all’interno e distinta tra: * Unioni Volontarie (UV), promosse da grossisti e dettaglianti che si accorda-

no da un punto di vista operativo al fine di organizzare in comune gli ac-quisti ed alcuni servizi per lo sviluppo delle vendite;

* Gruppi di Acquisto (GA), composte esclusivamente da dettaglianti per lo svolgimento e la centralizzazione di alcune funzioni gestionali ed operative (approvvigionamenti, promozione, marchio comune, etc.)

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La moderna distribuzione dunque è l’insieme delle imprese appartenenti alla di-stribuzione organizzata e alla grande distribuzione, che viene spesso indicato come Grande Distribuzione Organizzata (GDO).

Forme aziendali, assetto proprietario e caratteristiche gestionali della moderna distribuzione

Forma aziendale Assetto proprietario Caratteristiche gestionali DISTRIBUZIONE ORGANIZZATA (DO) UV (DESPAR, SISA) GA (CRAI, CONAD, SIGMA)

Associazioni tra dettaglianti (Gruppi D’Acquisto-GDA) o tra grossisti e dettaglianti (Unioni Volontarie-UV) Acquisti e servizi di vendita in comune Le imprese aderenti mantengono la propria autonomia giuridica e patrimoniale

Struttura organizzativa articolata su tre livelli: 1. il punto vendita 2. il CEDI (centro di distribuzione) 3. la centrale consortile Crescente importanza delle funzioni cen-tralizzate di consulenza di marketing e di supporto finanziario rispetto alla funzio-ne acquisti Nei GDA, l’imprenditorialità è originata dal dettaglio ed è residente nei singoli punti vendita. Nelle UV, l’imprenditorialità è originata dal settore dell’ingrosso ed è concentrata nei CEDI, collegati a livello nazionale in forma consortile

GRANDE DISTRIBUZIONE (SUCCURSALISTA E COOPERATIVA) (GD)

Imprese di elevate dimensioni, operanti con imprese di almeno 6 punti vendita, sotto un’unica pro-prietà (società per azioni in mano privata o cooperativa) e con ge-stione centralizzata

Gruppo strategico in forte espansione, operante per lo più con forme distributive moderne, basate sulle grandi superfici di vendita Nelle Coop approccio etico al mercato nel rispetto della matrice cooperativa

INDIPENDENTI Imprese (per lo più individuali o società a controllo familiare), con non più di 5 punti vendita, non inserite in alcuna forma associati-va

Gestione familiare, scarsa managerialità e forte presenza sul territorio Forme distributive tradizionali

Caratteristiche delle forme distributive delle imprese della moderna distribuzione

Forma distri-butiva

Superficie Assortimento Tecnica di ven-dita

Comportamento d’acquisto

Connotati

Negozio tradizionale

< 200 mq Limitata profondità ed ampiezza

Vendita assistita o al banco

Acquisti integra-tivi

Negozio di prossimità Gestione familiare Orario spezzato

Superette (minimarket)

Tra 200 e 400 mq

Media profondità ed ampiezza Referenze ad alta rotazione

Mista: self servi-ce + banco per i prodotti freschi

Acquisti quoti-diani

Negozio di quartiere Forma evolutiva dei negozi tradizionali

Supermercato Tra 400 e 2.500 mq

Elevata ampiezza Profondità propor-zionale alle dimen-sioni Marche commerciali

Mista: self servi-ce + banco per i prodotti freschi

Acquisti setti-manali

Localizzazione perife-rica o di quartiere. Ampia area d’attrazione. Orario continuato

Ipermercato Sopra i 2500 mq

Multi- specializzazione merceologica

Self service + reparti assistiti

Grandi spese plurisettimanali

Localizzazione perife-rica. Ampi parcheggi. Orario esteso. Collocati nei centri commerciali

Discount Tra 400 e 800 mq

Ampiezza media Profondità molto limitata Marche commerciali o di fantasia

Self service Raramente ban-co per i prodotti freschi

Acquisti setti-manali

Localizzazione perife-rica o di quartiere Prodotti low-price Locali spartani

Centro commerciale

Almeno 10 PV al detta-glio (tra cui un ipermer-cato)

Offerta grocery + offerta non grocery + offerta di servizi non commerciali

Tecniche di vendita della GD e del detta-glio tradizionale specializzato

Filosofia domi-nante: lo shop-ping come atti-vità di impiego del tempo libero

Pluralità di soggetti economici con unita-rietà di gestione delle infrastrutture e servizi comuni

Una formula distributiva introdotta più recentemente, ma operante già da diversi

anni, è quella del discount. Nella sua forma originaria, quella del cosiddetto hard di-scount, il punto vendita ha una superficie tra i 400 e i 600 mq e tende a contenere al massimo i prezzi di vendita al consumatore attraverso una estrema compressione dei

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costi: - di manodopera, riducendo il numero delle operazioni necessarie per la gestio-

ne del punto vendita (riassorbimenti, cassa, etc.) e degli approvvigionamenti; - di arredamento interno al punto vendita, in genere molto “spartani”; - di assortimento, introducendo poche referenze per famiglia di prodotto e non

inserendo prodotti di marca e prodotti freschi. Nonostante il fatto che molte imprese della GDO abbiano nel tempo acquisito an-

che punti vendita discount, spesso non utilizzando comunque la marca commerciale nota ma creandone di nuove, si stanno verificando fenomeni di separazione tra l’organizzazione del discount e quella delle altre tipologie distributive nelle formule multicanale (per esempio Coop Italia che ha creato un’organizzazione acquisti separata per i suoi discount a marchio DiCo).

2.6. Mercato concorrenziale e monopolio. Concorrenza monpolistica, oligopolio

Il mercato può essere definito come il luogo economico (non necessariamente quello fisico) dove si svolge l’attività di scambio dei beni e dei servizi nonché dei fattori produttivi e delle risorse naturali oggetto di consumo da parte dei soggetti economici. E’ nel mercato che si verifica il contatto tra offerta e domanda; tali due componenti poi, sulla base delle caratteristiche di comportamento specifico di ognuna di esse, contri-buiscono attraverso il sistema dei prezzi a determinare la distribuzione del reddito tra i vari soggetti economici e sociali.

In precedenza abbiamo analizzato il comportamento di mercato della domanda e dell’offerta di prodotti agricoli considerandolo assimilabile al funzionamento del mer-cato concorrenziale.

Questo perché il mercato dei prodotti agricoli, pur non presentando tutte le carat-teristiche del mercato concorrenziale, presenta (in generale) due caratteristiche fonda-mentali: l’atomicità dell’offerta (tante piccole imprese) e la relativa omogeneità del prodotto scambiato (non differenziabilità).

Tuttavia è noto come all’interno del sistema agro-alimentare la situazione di al-cuni mercati non presenti le caratteristiche proprie del mercato concorrenziale. Il setto-re dell’industria alimentare, come si vedrà meglio in seguito, presenta livelli di concen-trazione molto elevati, specie in alcuni comparti produttivi. Allo stesso modo, anche il settore della distribuzione commerciale al dettaglio ha registrato incrementi nei livelli di concentrazione molto forti. Inoltre la differenziazione dei prodotti, anche a livello di azienda agricola, è oggi molto più marcata che in passato, sia dal punto di vista delle caratteristiche intrinseche e materiali della materia prima e/o del prodotto intermedio e/o finale, sia per quanto riguarda le tipologie di servizio incorporato nel prodotto, sia infine sotto il profilo degli attributi immateriali e simbolici.

Nell’analisi del mercato è necessario prendere in considerazione le varie tipologie esistenti, intese come “l’insieme delle strutture di un mercato e delle modalità con le quali le imprese vi operano”, ossia il numero degli operatori o delle imprese presenti, il tipo di prodotto, le condizioni di entrata e di uscita nel mercato ed in generale ogni al-tra condizione che influenza il comportamento di mercato delle singole imprese.

Le forme di mercato possono essere classificate facendo riferimento alla struttura ed al comportamento di mercato dei venditori o degli acquirenti.

Con riferimento ai primi analizzeremo la concorrenza perfetta ed imperfetta, il monopolio e l’oligopolio. Per quanto concerne gli acquirenti, data la scarsa casistica applicativa del monopsonio e della concorrenza monopsonistica, concentreremo l’attenzione sull’oligopsonio.

a) concorrenza perfetta

Il modello di concorrenza perfetta si basa su sei fondamentali assunzioni: 1. Esistenza di un numero elevato di imprese in concorrenza tra loro, in modo ta-

le che nessun produttore o acquirente possa influenzare il prezzo e la quantità immessa nel mercato;

2. Assenza di barriere all’entrata o all’uscita, e di ulteriori costi;

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3. Sostanziale omogeneità del prodotto, assunzione necessaria affinché la compe-tizione nel mercato avvenga solo ed esclusivamente in base al prezzo;

4. Dotazione per tutte le imprese della stessa funzione di produzione e della me-desima tecnologia disponibile;

5. Trasparenza del mercato o perfetta informazione degli acquirenti e dei com-pratori sulla situazione di mercato;

6. Assenza di costi di uso del mercato, perché gli scambi fra produttore ed acqui-renti sono spot, vale a dire istantanei.

Per buona parte dei prodotti agricoli originari, cioè non trasformati, vi sono mol-te buone ragioni per supporre che i prezzi si formino in condizioni di mercato assimi-labili alla concorrenza perfetta, in quanto la presenza di prezzi amministrati e di inter-venti limitativi alla quantità da produrre si rileva solo in un esiguo numero di casi. Il singolo agricoltore, come già osservato in precedenza, operando in tale mercato è rele-gato al ruolo di price-taker, cioè non in grado di influire sul prezzo di vendita né modi-ficando il livello globale della produzione (in quanto ciascuna azienda produce solo una piccola parte del prodotto totale) né attraverso la pubblicità (in quanto l’uniformità del prodotto non consente di promozionare le differenze qualitativa).

Tale modello teorico può essere oggetto di alcune considerazioni: - in questa forma di mercato si può raggiungere una situazione di equilibrio an-

che se permangono grandi disuguaglianze nella distribuzione dei redditi, per cui l’efficienza può andare a scapito dell’equità;

- l’equilibrio concorrenziale può dimostrarsi inefficiente in sistemi nei quali prevalgono le economie di scala, beni pubblici (forniti nella stessa quantità a tutti i consumatori, come la difesa nazionale), esternalità di consumo (vantag-gi e svantaggi ottenuti da un consumatore per l’attività di un altro) e di pro-duzione (quando le possibilità di produzione di un soggetto sono influenzate gratuitamente da quelle di un altro);

- nella concorrenza pura il fatto che i beni prodotti siano omogenei non consen-te ai consumatori una larga scelta di prodotti;

- la concorrenza può essere un ostacolo all’innovazione perché in tal modo i possibili guadagni derivanti da un nuovo ritrovato tecnico sono solo transitori e finiscono con avvantaggiare solo l’acquirente del prodotto.

Un esempio pratico del funzionamento di un mercato in concorrenza perfetta può essere da quello dei cereali in quanto caratterizzato da:

- elevata sostituibilità e disponibilità del prodotto a livello mondiale; - definizione delle transazioni presso i luoghi fisici di incontro tra domanda e

offerta: le borse merci che organizzano le vendite secondo regole formali inde-rogabili di svolgimento delle transazioni legate al tempo della contrattazione e alla modalità di vendita che avviene generalmente per descrizione piuttosto che per esposizione

- alto numero di concorrenti; - recente ingresso sullo scenario competitivo di nuovi competitors appartenenti

alle aree in via di sviluppo del pianeta che fondano la loro forza competitiva sull’economie di costo.

b) monopolio

Il monopolio, definito come forma di mercato nella quale opera uno e un solo produttore, nel quale non esistono succedanei al prodotto venduto dalla singola impre-sa, e si rileva la presenza di barriere all’entrata, è l’esatto contrario della concorrenza perfetta.

La determinazione della posizione di equilibrio in monopolio avviene sulla base dell’assunzione che il monopolista massimizzi il profitto, la curva di domanda aggre-gata sia inclinata negativamente e quella dei costi possa assumere qualsiasi forma. Inol-tre, poiché sul mercato esiste una sola impresa, è improbabile che accetti il prezzo di mercato come dato, ma cercherà di determinare autonomamente il livello di prezzo e la quantità di prodotto che gli consentirà di raggiungere il proprio obiettivo. In concreto il monopolista determina l’equilibrio di breve periodo massimizzando il suo profitto, os-sia individuando il punto in cui le funzioni di costo e ricavo marginale sono uguali.

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Tale tipologia di mercato è caratterizzata dal fatto che il produttore è un price-maker o price-setter, in quanto è in grado di determinare il prezzo al quale può vende-re il suo prodotto.

Nel lungo periodo il monopolista ha la possibilità o di espandere il proprio im-pianto oppure di utilizzare quello esistente ad un livello che gli consente di massimiz-zare i profitti. Tuttavia, rispetto alla concorrenza, il monopolio si caratterizza per l’esistenza di barriere all’entrata, per cui egli non è obbligato a raggiungere la scelta ot-tima di produzione, o di allargare la capacità del suo impianto sino al livello produtti-vo di costo medio minimo di lungo periodo; la conseguenza è che anche nel lungo pe-riodo viene prodotta una quantità inferiore ad un prezzo più elevato.

Nella realtà in agricoltura si possono concretizzare situazioni di monopolio loca-le: ciò accade quando si individuano aree limitate, particolarmente favorite da condi-zioni naturali o dalla presenza di determinate infrastrutture nelle quali una sola impre-sa, o un ristretto gruppo di imprese, possono esercitare un effettivo controllo del prez-zo. Più frequentemente la situazione di monopolio viene determinata dalle politiche di intervento in agricoltura, in particolare da quelle di sostegno dei prezzi e di modifiche strutturali.

Un esempio di monopolio in agricoltura è fornito dai Marketing Board, organi-smi nati in Gran Bretagna sotto forma di agenzie di vendita monopolistiche per i pro-duttori agricoli e organismi di controllo dell’offerta. Nel settore ortofrutticolo l’esempio emblematico di applicazione dei marketing board è rappresentato dal New Zeland Kiwi Marketing Board (Nzkmb) – oggi Kiwifruit New Zeland – organismo nato nel 1988 su richiesta degli agricoltori come unico esportatore del kiwi neozelandese e che nel corso degli ultimi anni ha modificato notevolmente il proprio ruolo di controllo sull’intero processo di commercializzazione mediante una politica di riorganizzazione strategica interna che ha anche consentito di aumentare considerevolmente le entrate alla produzione e di reggere la sempre maggiore concorrenza che caratterizza il merca-to ortofrutticolo.

c) concorrenza monopolistica e oligopolio

Le situazioni descritte dai modelli di concorrenza perfetta e di monopolio sono da considerare degli estremi tra i quali si collocano le situazioni reali, poiché nei diversi settori produttivi spesso vi è un numero elevato di imprese, ma non così numeroso da poter affermare che ciascuna di esse controlli una quota infinitesima della domanda globale di mercato come previsto dalla concorrenza perfetta. D’altra parte, pur essendo molto numerose le imprese assumono nel mercato una posizione che, pur essendo tra-scurabile in termini di quota di mercato, permette di acquisire il potere di predetermi-nare prezzi e quantità prodotte in maniera autonoma secondo il meccanismo di forma-zione dei prezzi tipico del monopolio.

Tra le forme di mercato cosiddette “imperfette”, in quanto si collocano tra libera concorrenza e monopolio, va considerato l’oligopolio come struttura nella quale ope-rano più imprese ognuna delle quali è in grado di esercitare la sua influenza sulle va-riabili rilevanti (prezzo e/o quantità) ed è consapevole che anche le altre imprese ope-ranti nel settore possono, attraverso le loro decisioni, esercitare la loro influenza. Il ca-rattere distintivo delle strutture oligopolistiche risiede nella presenza di interazione strategica tra le imprese, condizione assente in monopolio e in concorrenza perfetta, dove gli operatori prendono tutti i prezzi come dati.

In tale tipologia di mercato, dato che le scelte di comportamento di un’impresa sono condizionate da quelle delle altre imprese, non è possibile costruire la propria curva di ricavo senza conoscere quella delle altre imprese, e il criterio del confronto tra ricavo marginale e costo marginale non può più essere adottato per fissare il prezzo di equilibrio. Occorre rifarsi ad altri criteri di fissazione dei prezzi, tra l’altro difficilmente determinabili, a causa di due forze contrastanti che tendono ad influenzarli:

- la prima forza fa sì che le imprese, pur con l’obiettivo comune di massimizzare i profitti, possano operare congiuntamente nella realizzazione del profitto massimo possibile ad un settore (e che si esplica nel fenomeno della collusione o della determinazione di accordi, espliciti o impliciti, tra le imprese di un set-tore per non farsi concorrenza);

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- la seconda induce gli operatori a rompere gli accordi, nella speranza che que-sto possa consentire alla loro impresa profitti più elevati che nel caso della col-lusione.

Tra le forme di mercato classificate in base agli acquirenti è necessario prendere in considerazione l’oligopsonio: tale tipologia di mercato è caratterizzata dall’esistenza di un numero limitato di compratori di un dato bene o servizio di fronte a un numero imprecisato di venditori. L’oligopsonio trova diretto riscontro in diversi comparti dell’agro-alimentare, dove un ristretto numero di industrie raccoglie l’offerta di un gran numero di agricoltori, ed anche per il commercio all’ingrosso dove oggi esistono, sempre a fronte di un gran numero di produttori, solo pochi grandi grossisti che cata-lizzano la quota parte maggioritaria della domanda.

L’altra tipologia di mercato “imperfetta” consiste nella concorrenza monopolisti-

ca o concorrenza imperfetta: in questo caso le imprese producono beni simili ma differen-ziabili tra loro (attraverso la marca, la pubblicità, la fornitura di servizi accessori, ecc.) per cui ogni impresa può contare su una clientela particolare alla quale si può, entro certi limiti, imporre un prezzo (come nel monopolio); inoltre, non vi sono ostacoli all’ingresso sul mercato di altre imprese o comportamenti di tipo collusivo, per cui ogni soggetto è in libera competizione con gli altri (come nel mercato di libera concor-renza)” .

La diversificazione del prodotto e la possibilità di imporre ed influenzare, alme-no nel breve periodo, il prezzo caratterizzano anche il mercato della concorrenza oli-gopolistica dove la concorrenza viene esercitata, anziché tra le singole imprese, tra gruppi più o meno organizzati di imprese.

Alcune considerazioni

Nei settori delle materie prime e della produzione agricola, di norma prevalgono condizioni relativamente vicine alla concorrenza perfetta: non ci sono infatti ostacoli di rilievo all’entrata di nuove imprese, i prodotti sono sostanzialmente omogenei, e le di-mensioni economiche degli operatori sono spesso minuscole.

La situazione è notevolmente diversa nel settore della distribuzione commerciale dei prodotti agricoli, sia al dettaglio sia all’ingrosso, poiché qui la forma di mercato dominante è la concorrenza monopolistica; nel primo caso fattori quali le preferenze degli acquirenti per una data ubicazione del punto di vendita, la scarsa conoscenza delle op-portunità d’acquisto da parte dei consumatori e la differenziazione specifica del pro-dotto fungono da elementi particolari di differenziazione generica del prodotto. Per il commercio all’ingrosso in primo luogo va segnalato come nel settore agricolo l’accesso ai mercati non sia aperto a tutti ma occorrano licenze apposite, nel tempo sempre più blande; secondariamente l’organizzazione dei mercati all’ingrosso esige attrezzature e impianti particolari (ad esempio, magazzini di deposito, celle frigorifere) ed infine esi-ste un’ampia rete di rapporti con i centri di produzione. Tali fattori, che concorrono a rendere difficile l’ingresso sul mercato, sono in grado di spiegare le forti differenze ri-levate tra prezzi al consumatore (prezzi al minuto) e prezzi al produttore (prezzi all’ingrosso), differenze che solo in parte possono essere spiegate con le spese di distri-buzione commerciale, ma che riflettono veri e propri guadagni di tipo monopolistico. In conseguenza dell’introduzione della Legge Bersani che ha ridotto a due, alimentare e non alimentare, le licenze di autorizzazione al commercio, tale situazione è stata rivi-sta e nel corso del tempo è orientata verso una progressiva liberalizzazione.

Se si considera poi la categoria dei generi alimentari contraddistinti da un mar-chio, la maggior parte di essi sono di fatto venduti in condizioni di concorrenza oligo o monopolistica tra le imprese di trasformazione e di distribuzione. Mentre infatti un prodotto come il latte che, venduto all’ingrosso dall’allevatore non viene sostenuto dal-la pubblicità poiché non risulta conveniente (potrebbe essere diverso il caso di vendita diretta al consumatore), un prodotto trasformato, ad esempio il latte nel brick, viene quasi sempre qualificato con un marchio e pubblicizzato perché ciò consente all’industria di trasformazione di imporre prezzi superiori a quelli della concorrenza, data la condizione di mercato imperfetto in cui essa opera.

Dal confronto tra monopolio e libera concorrenza emerge che i prezzi che si for-

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mano in quest’ultima tipologia di mercato o in quelle ad essa vicine sono generalmente più bassi nel lungo periodo, e si configura quindi una situazione di maggiore conve-nienza per il consumatore. Tale considerazione non è tuttavia valida in assoluto poiché i ristretti margini di profitto che la concorrenza perfetta comporta per le imprese impe-disce loro di effettuare quegli investimenti in ricerca e sviluppo necessari per realizzare maggiore valore aggiunto per il consumatore stesso. Questo vale in modo particolare per i prodotti alimentari i quali (a seguito dei nuovi approcci comportamentali riscon-trati recentemente nei consumatori) vengono apprezzati soprattutto per i beni e servizi incorporati (ad esempio le ultime innovazioni di processo e di prodotto) e non solo per la tradizionale componente nutrizionale.

Dal punto di vista dell’agricoltore se c’è scarsa integrazione tra settori produttivi è preferibile operare in condizioni di concorrenza della domanda poiché diversamente, se essa è organizzata da pochi compratori (monopolisti o oligopolisti), risultano più fa-cili le opportunità di sfruttamento di un’offerta normalmente polverizzata. D’altra par-te il prezzo al consumo che si forma in condizioni di concorrenza da parte sia della domanda che dell’offerta è di norma inferiore a quello che prevale nelle condizioni di mercato monopolistico e/o oligopolistico. Anche forme di collaborazione tra segmenti produttivi in grado di contenere al massimo i costi di produzione totali (attraverso per esempio una migliore qualità e continuità dell’offerta da parte dell’agricoltura ed una garanzia di prezzo da parte dell’industria) possono consentire maggiori profitti a tutti gli operatori della filiera agroalimentare.

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3. L’evoluzione del sistema agro-alimentare

3.1. L’evoluzione dei consumi alimentari e le nuove tendenze del consumatore

La motivazione del rinnovato interesse per il fenomeno "consumo" nell'ambito dell'economia agraria risiede nell'evoluzione del moderno sistema agro-alimentare, e nella crescente consapevolezza dell'importanza delle dinamiche dei consumi nel detta-re i ritmi dello sviluppo del sistema e nel tracciarne le linee evolutive. In altri termini il fenomeno consumo appare oggi maggiormente in grado di influenzare (oltre che di es-sere influenzato da) il comportamento degli operatori del sistema economico.

La relativa stazionarietà del tasso di crescita dei consumi alimentari nelle società avanzate e la crescente apertura dei mercati hanno indubbiamente aumentato il livello di concorrenza tra le imprese, inasprendone la lotta per la conquista di spazi di merca-to. Contemporaneamente emerge in tutta evidenza come il consumatore delle società avanzate manifesti bisogni sempre più vari e mutevoli che spingono le imprese alla ri-cerca di nuovi prodotti, dando origine ad una forte dinamicità all'interno delle singole categorie merceologiche.

Tutto questo rende ancora più urgente la necessità di disporre di chiavi di lettura delle attuali dinamiche dei consumi atte a coglierne i possibili riflessi sull'assetto strut-turale, strategico ed organizzativo del sistema delle imprese, tenuto conto anche delle particolarità del consumo alimentare, il quale affianca al momento economico un signi-ficato sociale profondo. Infatti il prodotto alimentare riflette più di ogni altro i valori sociali e culturali dei consumatori, e la sua funzione essenziale e irrinunciabile per la vita umana e l'intimo collegamento che si instaura tra uomo e natura proprio attraver-so il cibo lo rendono un prodotto specifico il cui consumo va a toccare non solo la sfera economica ma anche quelle nutrizionale, edonistica, sociale e simbolica.

Le leggi sociali del consumo alimentare e il modello nutrizionale

Come punto di partenza per l'individuazione e l'analisi delle nuove tendenze dei consumi alimentari è opportuno prendere le mosse dalla comprensione delle grandi trasformazioni storiche e delle loro principali determinanti. In questa prima fase il consumo alimentare verrà considerato sulla base della sola dimensione di "ciò che si acquista" o comunque, relativamente ad alcune informazioni statistiche, a "ciò che si ingerisce"16, facendo dunque astrazione dall'insieme delle attività che precedono e se-guono l'acquisizione del prodotto da parte del consumatore (sul mercato o per auto-produzione).

Verrà dunque analizzata l’evoluzione del modello nutrizionale, ovvero il modo con cui cambiano nel tempo le quantità e la tipologia degli alimenti consumati. Nell'analisi si farà riferimento in via prevalente ai dati sui consumi di fonte ufficiale: sotto un profilo aggregato, considerando tanto gli elementi nutritivi di base che la spe-sa complessiva, e sotto un profilo di maggiore articolazione, considerando tanto le quantità che la spesa rispetto a specifiche categorie di prodotti.

I dati statistici ufficiali si basano da una parte su inchieste condotte presso le uni-tà di consumo, e dall'altra sulla contabilità nazionale. Le indagini Istat sui bilanci fa-miliari17 forniscono una valutazione dei consumi delle famiglie residenti in Italia (escludendo quindi le altre unità di consumo - ad esempio le convivenze permanenti)

16 Nel caso di valutazioni basate sul consumo apparente si farà in realtà riferimento a "ciò che è disponibile per essere ingerito". 17 Dal 1968 l'Istat rileva mediante campionamento i consumi delle famiglie, ovvero i consumi privati costi-tuiti dall'ammontare dei beni e servizi acquistati (o autoconsumati) dalle famiglie per soddisfare i bisogni individuali; dunque la loro copertura non è assoluta. Il confronto tra dati assoluti di anni diversi deve co-munque essere operato con cautela, sia per le diverse dinamiche dei prezzi nei periodi in esame, sia per alcune modifiche apportate nel tempo alla tecnica di campionamento e al raggruppamento di beni e servi-zi in capitoli di spesa.

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anche in relazione ad alcune variabili di base quali la localizzazione geografica, la tipo-logia della famiglia e il reddito familiare. La contabilità nazionale invece fornisce una valutazione indiretta dei consumi di tutti i soggetti presenti all'interno del territorio nazionale basata sul metodo della disponibilità18.

L'analisi delle informazioni statistiche disponibili evidenzia chiaramente l’operare della “legge di Engel”, che vede una tendenziale riduzione dell’incidenza percentuale della spesa alimentare sul reddito dei consumatori. E’ possibile affermare

che oggi il nostro Paese abbia raggiunto la fase del-la sazietà, in cui i bisogni alimentari di base sono ormai, pur se solamente nella media, soddisfatti, e anzi in cui le disponibilità nutritive hanno superato le necessità fisiologiche della popolazione, tanto da determinare fenomeni diffusi di sovralimenta-zione.

Il declino della per-centuale della spesa per consumi alimentari sul totale del reddito avviene attraverso un processo

che porta ad importanti modificazioni. Limitandosi a considerare il passato recente, la fase della sazietà è stata raggiunta attraverso due passaggi distinti, i quali caratterizza-no con una certa uniformità lo sviluppo alimentare dei Paesi ad alto reddito, tanto da consentire la formulazione di un insieme di "leggi sociali del consumo alimentare" che integrano la più nota “legge di Engel” [Malassis e Padilla, 1986].

Evoluzione del modello nutrizionale (leggi sociali del consumo alimentare)

1 Saturazione dei fabbisogni pro-capite energetici e nutri-zionali

forte crescita delle quantità di alimenti consumati, in particolare di cereali, e saturazione dei fabbisogni pro-capite energetici e nutrizionali

2 Arricchimento della dieta Crescita del reddito medio e arricchimento della dieta. Sostituzione calorie vegetali con animali. Contrazione del tasso di crescita dei consumi alimentari

3 Fase di sazietà

Diminuzione dei consumi di carne, oli e grassi; stabile il consumo di cereali, aumenta il consumo di ortaggi e frutta, pesce e bevande non alcoliche. Lenta crescita dei consumi alimentari e stazionarietà della composizione dei consumi per grandi categorie

Un primo passaggio verso la fase della sazietà è quello che conduce alla satura-

zione dei fabbisogni pro-capite energetici e nutrizionali, la quale nel nostro Paese si esaurisce all'incirca nei primi anni '70 [Serre e Venir, 1976]. Il consumo medio giorna-liero di calorie pro-capite, considerato in termini di calorie finali, dopo essere aumenta-to con tassi sostenuti di oltre 700 unità dal 1950 al 1970 (+29%), successivamente è cre-sciuto in misura molto limitata e comunque con un andamento molto contrastato; una situazione del tutto simile è riscontrabile per le proteine. Se dal lato della domanda tale

18 La contabilità nazionale, a differenza dei bilanci familiari, valuta gli autoconsumi ai prezzi al dettaglio invece che ai prezzi alla produzione.

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Alimentari Non alimentari

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passaggio è fortemente connesso alla transizione dallo stadio preindustriale alla diffu-sione della modernizzazione, e alla conseguente crescita del reddito pro-capite, esso è resa possibile dal lato dell'offerta dal forte sviluppo della produzione, in primis agrico-la, oltre che dall'aumento della capacità di approvvigionamento sui mercati internazio-nali. Ciò ha consentito un significativo rafforzamento del potere d'acquisto alimentare, che si è tradotto in una crescita del consumo pro-capite di calorie attuato in larga parte mediante l'aumento del consumo dei prodotti relativamente "poveri", di origine vege-tale. La quota della spesa in beni alimentari e bevande rispetto al totale dei consumi privati interni si mantiene molto elevata: nel periodo 1951-60 l'incidenza risulta supe-riore al 45%, e nel decennio successivo scende solamente al 41% circa.

Una volta soddisfatto il fabbisogno nutritivo di base e raggiunta una stabilizza-zione dei consumi in termini di calorie finali, si attiva una seconda fase in cui si rileva un processo di progressivo arricchimento degli alimenti consumati, che nel secondo passaggio verso la fase della sazietà si concretizza in un sostituzione di prodotti vege-tali con prodotti animali. La crescita dei consumi di prodotti animali - carni e latte e derivati -, insieme a quella dello zucchero, si afferma fin dalla fine degli anni '60 e, fatta eccezione per i primi anni '70 a causa della recessione economica, prosegue fino ai pri-missimi anni '80. Il consumo pro-capite di calorie e proteine tende verso la stabilizza-zione e addirittura manifesta qualche lieve regresso, ma aumenta in maniera molto più consistente che nel passato la copertura di tali fabbisogni da parte dei prodotti di origi-ne animale. L'alimentazione diviene più "ricca" e decisamente più costosa in termini di fabbisogni energetici: uno stesso consumo calorico pro-capite viene infatti soddisfatto impiegando una quantità crescente di calorie iniziali, a causa dell'elevato rapporto di conversione tra calorie vegetali e calorie animali. Ciò non consente comunque di con-tenere il declino tendenziale dell'incidenza della spesa in prodotti alimentari e bevande rispetto ai consumi totali, che nella prima metà degli anni '80 risulta inferiore di circa 16 punti percentuali rispetto agli anni '60. Tale incidenza permane comunque in Italia tuttora più elevata rispetto ad altri Paesi sviluppati.

Una lettura dell’operare della legge di Engel nel mondo

Il processo di arricchimento dei consumi alimentari prosegue negli anni '80, nel

corso dei quali si entra nella fase della sazietà: i consumi di calorie e proteine sono re-lativamente stabili, mentre almeno fino ai primi anni '90 il valore dei consumi alimen-tari continua a crescere anche in termini reali, pur se a ritmi nel complesso abbastanza ridotti e comunque meno che proporzionalmente rispetto al reddito. In tale fase l'ele-mento dominante è quello della staticità relativa, o addirittura del regresso, delle sin-

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gole categorie di consumi considerate dall'Istat e in particolare di quelle che avevano caratterizzato le fasi di sviluppo precedenti; fanno eccezione la categoria degli "Altri prodotti alimentari" e delle "Bevande analcoliche".

Omogeneizzazione e differenziazione nei consumi alimentari

La fase della sazietà può dunque essere considerata un momento di allineamento rispetto alle caratteristiche tipiche delle società avanzate. Come alcuni studi hanno mo-strato [Blandford, 1984; Wheelock e Frank, 1989; Connor, 1994], infatti, la struttura ge-nerale dei consumi alimentari delle società ad alto reddito mostra una tendenza all'at-tenuazione delle differenziazioni esistenti, ovvero una omogeneizzazione ed una con-vergenza delle strutture dei consumi verso un ideal-tipo, pur presentando ogni Paese ritmi di avvicinamento diversi19. Inoltre la tendenza all'omogeneizzazione non solo esi-ste e si manifesta tra i diversi Paesi, ma anche all'interno dei Paesi stessi. In Italia ad esempio, nonostante il permanere di differenziazioni talvolta anche marcate, è possibi-le evidenziare una tendenza alla riduzione delle differenze nella struttura dei consumi alimentari, a testimoniare come gli squilibri territoriali e sociali non rivestono più un ruolo decisivo come in passato. Infatti nel periodo 1975-1993 è riscontrabile una gene-ralizzata riduzione degli scarti delle quantità consumate nelle diverse aree territoriali (Nord-Ovest, Nord-Est, Centro e Sud) dalla media nazionale (in particolare per il pane e la pasta, il pesce, gli oli, il latte e i formaggi, lo zucchero), ed è soprattutto il consuma-tore del Sud a mostrare una forte riduzione dello scostamento dai valori medi naziona-li [Belletti e Marescotti, 1996].

Fonte: INEA, L’agricoltura italiana conta 2008

Analoghe considerazioni possono essere svolte in riferimento ad altre modalità

di ripartizione, ad esempio tra capoluoghi e comuni con più di 50.000 abitanti da una parte e altri comuni dall'altra (proxy delle differenze tra comuni urbanizzati e rurali), e in base al settore di attività del capofamiglia considerando sia la distinzione tra impie-go in agricoltura e in altri settori che quella tra lavoratori dipendenti e indipendenti.

La fase che stiamo attraversando vede dunque una riduzione degli spostamenti tra le diverse categorie di consumo, ed una maggiore uniformità nella composizione a livello territoriale e sociale, oltre che nei confronti delle altre società avanzate. Questo

19 Connor [1994] ad esempio evidenzia come la struttura dei consumi alimentari presente oggi negli Stati Uniti sia una buona proxy di quanto accadrà in Europa Occidentale nei prossimi anni, attribuendo un ruo-lo di rilievo alle compagnie multinazionali del settore e al commercio internazionale nel meccanismo di trasmissione e diffusione dei regimi alimentari.

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non significa che si vada verso una cristallizzazione della struttura ed una diminuzione della dinamicità dei consumi alimentari. Oltre infatti alla semplice considerazione che la struttura attuale possa non rappresentare necessariamente un punto di arrivo20, la tendenza alla omogeneizzazione si riscontra soltanto a livello di superficie, vale a dire di strut-tura agro-nutrizionale (tipologia di beni consumati per grandi categorie di base e tipolo-gia degli apporti nutritivi) [Malassis e Padilla, 1986], il che non comporta invece un ap-piattimento delle modalità con cui questi prodotti vengono consumati, né delle loro ca-ratteristiche "qualitative" (ad esempio in riferimento al rapporto tra calorie agro-industriali e calorie agricole, o al diverso livello di sostituzione tra prodotti banali e prodotti con elevato contenuto di servizio).

Fonte: INEA, L’agricoltura italiana conta 2008

In sostanza il processo di arricchimento dei prodotti consumati non risulta esau-

rito; esso però non si manifesta più con l'incremento di qualche specifica categoria di prodotti, bensì in maniera trasversale, interessando inoltre non più la sola fase agricola ma tutti i livelli della catena produttiva agro-alimentare. Tale arricchimento rispecchia un forte aumento della possibilità di scelta per il consumatore, non solo tra un universo di prodotti che da banali divengono fortemente differenziati, ma anche rispetto alle dimensioni temporale (conservabilità) e spaziale (disponibilità di prodotti non "locali").

Rispetto a tali dinamiche le informazioni statistiche ufficiali sui consumi si rive-lano insufficienti in quanto basate su categorie di prodotti molto ampie e strettamente collegate alla sfera della produzione agricola più che alla loro effettiva modalità di uti-lizzazione finale, determinando una sottovalutazione dell'apporto fornito al prodotto alimentare dall'industria di trasformazione e dal sistema distributivo. La necessità di disporre di una maggiore disaggregazione delle categorie di prodotti alimentari con-sumati può essere in parte soddisfatta integrando i dati ufficiali con quelli relativi alla produzione dell'industria di trasformazione provenienti sia dall'Istat che da altre fonti, nell'ipotesi che gli orientamenti delle imprese operanti sul territorio nazionale siano guidati dall'evoluzione degli orientamenti del consumo interno, ovvero che sia lecito prescindere dalla componente della produzione orientata all'esportazione.

Alla ricerca di nuovi fattori esplicativi delle dinamiche dei consumi alimentari

I brevi cenni forniti circa le principali linee di tendenza presenti nei regimi ali-mentari e di spesa degli attuali paesi sviluppati sono stati sufficienti a mostrare come la staticità e l'omologazione dei consumi siano soprattutto fenomeni di superficie e, in certa misura, solamente apparenti: infatti la dinamicità delle variazioni all'interno delle

20 Ad esempio il processo di sostituzione delle calorie vegetali con le calorie animali potrà, con l'ulteriore innalzamento dei livelli di reddito ma soprattutto con la diffusione di una maggior coscienza ecologica ed informazione, subire anche parziali inversioni di tendenza; ciò tenuto conto anche dalla sua scarsa sosteni-bilità a livello internazionale [Malassis e Padilla, 1986; Malorgio, 1989].

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grandi categorie dei consumi alimentari permane molto elevata, ed anzi risulta aumen-tata nell'ultimo decennio.

In relazione alla interpretazione di tali fenomeni viene diminuendo la rilevanza di-retta dei fattori esplicativi tradizionali, costituiti dai livelli di reddito disponibile reale pro-capite e dalla struttura dei prezzi relativi dei beni. Se infatti l'evoluzione della struttura dei con-sumi alimentari del nostro Paese fino all'incirca agli anni '70 poteva essere interpretata alla luce dei movimenti di tali variabili, le attuali tendenze devono necessariamente trovare supporto interpretativo anche in altri fattori esplicativi. Ciò è vero soprattutto quanto più si voglia considerare l'andamento dei consumi, misurato sia in termini di quantità che di spesa, disaggregato a livelli di analisi più fini, e dunque secondo una prospettiva più confacente a quella del sistema delle imprese [Senauer, Asp e Kinsey, 1992; Connor, 1994]21.

La perdita di rilevanza diretta dei fattori esplicativi tradizionali è in larga parte da riconnettersi al fatto che, raggiunta la "saturazione quantitativa" di consumo indivi-duale e stabilizzatosi il regime alimentare, l'alimentazione tende ad assorbire una quo-ta progressivamente più limitata della spesa totale del consumatore (legge di Engel). Ciò fa sì che, come evidenziato dal marketing, il generico prodotto alimentare solita-mente assuma la natura di convenience good, ovvero a basso valore unitario e ad acqui-sto ripetuto, il che disincentiva il consumatore a dedicare troppe risorse (compreso il tempo) alla ricerca di informazioni e conseguentemente determina una diminuzione della sensibilità al prezzo. Il consumatore tende a formulare degli intervalli di indiffe-renza rispetto al livello del prezzo di acquisto [Caiati, 1993] e ad affidarsi in misura cre-scente al marchio e all'immagine aziendale nella formulazione delle proprie scelte22.

Se il consumatore tende a prestare meno attenzione al prezzo di mercato dei prodotti, esso è comunque molto inte-ressato al loro "prezzo d'uso" [Becker, 1965; Tokoyama e Egaitsu, 1994]: il prezzo viene cioè considerato in senso este-so, vale a dire non solamente come moneta pagata per l'ac-quisto del prodotto, ma come insieme delle risorse impiegate in maniera esplicita e implicita nel processo di acquisizione-elaborazione-ingestione dei beni alimentari. Il prezzo del cibo viene dunque a dipendere da un insieme di situazioni soggettive (ad esempio disponi-bilità di tempo per la preparazione dei cibi, dimensione della famiglia, dotazione di at-trezzature di cucina), che comunque possono almeno in parte essere ricondotte all'a-zione di un insieme di fattori socialmente determinati.

In sostanza il reddito, il prezzo del bene e la struttura dei prezzi relativi possono contribuire a spiegare la maggior parte della variazione della spesa pro-capite delle grandi categorie di alimenti, ma per spiegare le variazioni rispetto a singoli prodotti che incidono solo per un limitato ammontare sul budget del consumatore - in una so-cietà che ha visto drasticamente diminuire la quota di spesa destinata all'acquisto di generi alimentari sul totale dei consumi e del reddito - occorre volgere lo sguardo an-che verso altri fattori, quali ad esempio le caratteristiche demografiche, sociologiche, culturali.

Diviene dunque necessaria una ricongiunzione tra l'attività di mercato svolta dal consumatore rispetto ai prodotti alimentari (acquisto) e l'attività di consumo; quest'ul-tima, che comprende a sua volta un insieme di operazioni e funzioni che assumono a

21 E' proprio quando vengano valutate dal punto di vista delle imprese che le tecniche standard di stima basate su prezzi e reddito presentano diversi limiti, riconducibili soprattutto al fatto che nell'attuale dina-mica dei mercati le necessità di segmentazione del marketing impongono di tener conto di un ventaglio molto ampio di variabili che le tecniche standard invece non permettono in genere di raggiungere. A ciò si aggiunga che, soprattutto nel caso di prodotti innovativi, non sono disponibili serie storiche per effettuare previsioni econometriche [Connor, 1991]. L'insufficienza delle variabili esplicative tradizionali a fini "ope-rativi" è ormai da tempo una consapevolezza del marketing; come afferma Kotler [1976, p.84], "gli operato-ri di marketing in genere hanno scartato il modello economico (quello cioè basato sulla massimizzazione dell'utilità in relazione alle variabili prezzo e reddito, n.d.r.) in quanto semplicistico". 22 Anche nel caso in cui il consumatore sia sensibile al prezzo, aumenta la difficoltà di percezione dello stesso e diminuisce la possibilità di confronto tra beni dotati di differenti caratteristiche qualitative, in quanto gli alimenti diventano insiemi sempre più complessi di diversi "ingredienti" e servizi, e dunque difficilmente classificabili e confrontabili.

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pieno titolo rilevanza economica, non viene infatti considerata direttamente nell'analisi tradizionale.

In questa ottica è necessario porre una crescente attenzione alla varietà e alla variabilità del modo in cui le attività del consumo vengono organizzate e svolte, nei diversi contesti in cui si svolgono. Dunque è necessario approfondire la conoscenza dei cosiddetti "gusti del consumatore", che nella teoria tradizionale erano assunti come variabili "non osservabi-li", e ritenuti costanti nel periodo di tempo oggetto dell'analisi; si tratta cioè di scorpo-rare da questa "scatola nera" un insieme di fattori non-monetari, solo in parte ricondu-cibili a fenomeni misurabili di natura demografica, sociale e culturale23.

Anche la teoria economica del consumatore ha cercato di approfondire e di affi-nare il proprio apparato teorico nei suoi più recenti sviluppi, cercando di rimuovere al-cune delle ipotesi più restrittive (quali quelle di razionalità assoluta, oggettività della scelta, omogeneità qualitativa dei beni, completezza d’informazione) che la rendevano particolarmente inadatta, soprattutto nell'attuale contesto, alle applicazioni pratiche nella realtà dei mercati. Numerosi studi e applicazioni hanno cercato di esplicitare maggiormente i "gusti" del consumatore e di valutare l'impatto sulla domanda di va-riabili considerate tradizionalmente come "qualitative"24.

Tutto ciò non deve certamente portare a sostenere che reddito e prezzo non siano variabili importanti, ma piuttosto che è necessario sempre più considerare le variabili sociali e culturali come fattori di differenziazione dei comportamenti del consumatore.

D'altra parte il reddito non è neutrale rispetto all'insieme dei fattori sociali e cul-turali, ed esso mantiene quindi una notevole importanza almeno in via indiretta. In ef-fetti un certo numero dei fattori che determinano la struttura delle preferenze dei con-sumatori risultano essere correlati all'andamento del reddito (basti pensare alla dispo-nibilità di attrezzature funzionali al consumo - quali surgelatori, forni a microonde -, al lavoro femminile, ai livelli informativi, educativi e culturali); tali fattori a loro volta hanno una elevata incidenza sulla formazione della percezione del prezzo e del rap-porto prezzo-qualità [Tokoyama e Egaitsu, 1994], e dunque possono essere interpretati anche come cambiamenti tra i prezzi relativi. Tuttavia tale correlazione non è più così diretta e stabile come nelle prime fasi di sviluppo, ma anzi lascia spazio alla soggettivi-tà degli individui e al loro "stile di vita".

Il consumo deve essere dunque riconosciuto come un processo "intrinsecamente situato", nell'analizzare ed interpretare il quale si cercherà nel seguito del lavoro di prestare attenzione ai livelli intermedi tra l'individuo (livello micro) e il sistema com-plessivo (livello macro); i livelli intermedi possono essere colti in via prevalente secon-do una dimensione "locale", la quale non deve però essere intesa più tanto in senso ter-ritoriale, quanto soprattutto in senso "virtuale", vale a dire in relazione ad insiemi di consumatori omogenei rispetto a fattori demografici, sociali e culturali e rispetto a spe-cifici atteggiamenti di consumo.

Le dimensioni del consumo alimentare e le variabili esplicative

Se il modello nutrizionale si riferiva soltanto alle categorie di alimenti consumati dalla popolazione, il concetto di modello di consumo alimentare permette di fare un passo oltre. Il modello di consumo alimentare esprime le modalità con cui le disponibi-

23 Come affermano Malassis e Padilla [1986, p.333]: "il gusto come spiegazione delle «preferenze soggetti-ve» maschera spesso la nostra ignoranza. La spiegazione delle differenziazioni dei comportamenti implica di considerare la complessità dei prodotti alimentari, le condizioni oggettive del consumo, che possono essere approcciate mediante la disponibilità di tempo, i fattori socioculturali che all'interno di un dato po-tere d'acquisto differenziano le scelte". D'altra parte "l'ambizione del micro-economista non è quella di produrre un discorso sui gusti - ad esempio sul modo in cui essi possono differire da un individuo ad un altro -, ma di comprendere, e di prevedere, le modificazioni del comportamento (consumo, risparmio) di un individuo i cui gusti sono dati, di fronte a un cambiamento economico (prezzi, redditi, tasso d'interesse ....)" [Robin e Lévy-Garboua, 1988, p.33]. Il problema dell'economista non è dunque quello di capire come si formano le preferenze del consumatore, ma "riguarda il tipo di relazioni che è possibile istituire tra gli elementi osservabili e non" [Zamagni, 1986, p.418]. 24 Un contributo particolarmente importante in questa direzione è quello fornito da Lancaster [1966], con l'introduzione del concetto di "caratteristiche" incorporate nei differenti beni, le quali offrono i mezzi at-traverso i quali gli obiettivi di consumo sono conseguiti. Questo contributo ha dato origine ad una serie di sviluppi e approfondimenti di ampia portata [Caiati, 1994].

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2. Agricoltura e sistema agro-alimentare

Prof. Andrea Marescotti 64

lità medie pro-capite di prodotti agro-alimentari, ripartiti per tipologie di alimenti ed elementi nutrizionali di base, vengono concretamente acquisite, distribuite e consuma-te tra i diversi soggetti e le diverse categorie sociali sulla base del loro potere d'acqui-sto, e dunque le modalità di utilizzo delle disponibilità alimentari.

Ogni specifica area territoriale è caratterizzata da un proprio modello di consumo alimentare, ma tale differenziazione tende in parte a ridursi con il procedere dello svi-luppo economico e della omogeneizzazione degli stili di vita e dei modelli culturali ad esso connessi.

Prezzo e redditocontano sempre meno nelle decisioni di acquisto e consumo e i prodotti alimentari perdono in parte le specificitàche in precedenza invece originavano comportamenti di consumo differenziati rispetto ai prodotti non alimentari

L'evoluzione del consumo alimentare, nelle società avanzate ove si registra la saturazione quantitativa del consumo alimentare e la diminuzione della quota di spesa dedicata ai prodotti alimentari, può essere spiegata in misura sempre minore dalle tradizionali variabili economiche Prezzo e Reddito.

Variabili economiche (prezzo e reddito)

Variabili socio-economiche

Variabili socio-culturali

Spazio delle libertà del

consumatore

Due importanti aspetti da considerare nell’analisi del consumo alimentare sono: 1. la dimensione temporale e organizzativa: il consumo alimentare non deve es-

sere interpretato come un singolo atto, bensì come un processo costituito da più fasi che si svolge nel tempo (da quella di ricerca delle informazioni, a quel-le di scelta del luogo di acquisto, di acquisto, di preparazione ed elaborazione dei pasti, di fruizione, fino alla eliminazione dei rifiuti). Il consumo alimentare è esso stesso una fase del processo di produzione, in cui determinati fattori produttivi (ingredienti, lavoro domestico, attrezzature di conservazione e di preparazione, ecc.) concorrono alla realizzazione del prodotto “pasto”; il cre-scente costo opportunità di alcune risorse, e in particolare del tempo, determi-na una forte ristrutturazione del processo di consumo. Le fasi del processo di consumo devono essere analizzate sia nelle loro specificità che nelle relazioni che tra esse intercorrono. In quest’ottica la percezione della qualità da parte del consumatore non può essere limitata a una singola fase, ma si estende a tutte le fasi del processo, e riguarda non solo direttamente il cosa si acquista e si ingerisce, ma anche aspetti quali il dove si acquista e il quando e come si fruisce ciò che si è acquistato;

Fase del proces-so di consumo

Descrizione e sub-fasi

1. fase PRE-ACQUISTO

Formulazione degli obiettivi di acquisto, ricerca informazioni, selezione e scelta del punto vendita, identificazione dell’incaricato dell’acquisto all’interno dell’unità di consumo, identificazione delle occasioni di impiego, ecc.

2. fase ACQUISTO

Valutazione delle alternative all’interno del punto vendita, scelta dei mezzi e delle modalità di pagamento, tempo e luogo di con-segna, ecc.

3. fase POST-ACQUISTO

Trasporto e conservazione dei prodotti, identificazione delle oc-casioni di impiego, preparazione, fruizione dell’alimento, elimi-nazione dei rifiuti, valutazione dell’acquisto e del consumo.

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2. Agricoltura e sistema agro-alimentare

Prof. Andrea Marescotti 65

2. la dimensione intersoggettiva: il consumo alimentare, più di altre tipologie di

consumo, non deve essere considerato come un fatto puramente individuale bensì come un fenomeno intersoggettivo, in quanto di norma esso è collocato in unità di consumo (famiglie, ma non solo) di norma composte da più soggetti, i quali apportano il proprio contributo alla realizzazione del processo stesso. Il Modello di Consumo Alimentare non considera dunque solamente la natura e quantità degli alimenti consumati e la loro ripartizione tra gli individui, ma anche le unità socio-economiche di consumo (che rappresentano “il modo con cui gli uomini si organizzano socialmente, nell'ambito di piccoli insiemi, per consumare”) e l'insieme delle pratiche alimentari in esse svolte.

Tenuto conto anche di tali aspetti, l'evoluzione del consumo alimentare, nelle so-cietà avanzate ove si registra la saturazione quantitativa del consumo alimentare e la diminuzione della quota di spesa dedicata ai prodotti alimentari, può essere spiegata in misura sempre minore dai fattori tradizionali (prezzi relativi e reddito). E' necessario dunque un ampliamento delle variabili esplicative, che devono ricomprendere:

- variabili di natura socio-economica che, oltre a reddito disponibile e prezzi, vanno opportunamente ampliate per tenere conto di tutti gli aspetti che in-fluenzano sia la dimensione organizzativa che quella intersoggettiva del con-sumo (aspetti demografici e sociali che incidono sulla struttura delle famiglie, evoluzione delle condizioni generali di consumo quali l’urbanizzazione, ecc.);

- variabili di natura socio-culturale: all’aumentare del reddito medio disponi-bile pro-capite il consumatore è sempre meno attento al prezzo dei prodotti e tende ad essere sempre più orientato al proprio sistema di valori. Il consumo alimentare diviene un fatto sempre più individualistico e meno emulativo, e i valori di base che lo condizionano si modificano velocemente in dipendenza dell’evoluzione sociale.

Una classificazione delle tendenze dei consumi alimentari

Descrizione Variabli Tendenza Manifestazioni Prezzo e Reddito,

aspetti demografici e sociali (es. urbaniz-zazione, organizza-

zione del lavoro e del-la famiglia)

VARIABILI SOCIO-ECONOMICHE

RICERCA DI ELEVATO CONTENUTO DI SERVI-

ZIO TIME-SAVING

- piatti pronti - “spesa con un click” - e-commerce - prodotti di marca

DESTRUTTURAZIONE DEI PASTI

- catering, bar, mense - snacking e grazing

RINNOVATA ATTENZIONE AL PREZZO - Successo dei discount - primi prezzi - filiere corte

Sistema di valori, cultura, moda, etica e

stili di vita

VARIABILI SOCIO-CULTURALI

MAGGIORE ATTEN-ZIONE AGLI EQUILIBRI

SOCIO-AMBIENTALI

- agricoltura biologica - Rainforest Alliance biente fisico - prodotti fairtrade - prodotti tradizionali

RICERCA DEL BENESSERE SOGGETTI-

VO

- prodotti light - functional foods - prodotti tipici - alta gastronomia

L’azione delle variabili socio-economiche: la ricerca di servizi time-saving L’azione delle variabili socio-economiche sul consumo alimentare ha assunto una

grande importanza nell’evoluzione del sistema agro-alimentare, in particolare a causa della crescente esigenza di contenuto di servizio espressa dai consumatori delle società avanzate.

La ricerca di elevato contenuto di servizio time-saving deriva dall'aumento del costo opportunità del lavoro familiare, ed è imputabile anche all'estendersi delle aspi-razioni di impiego del tempo extra-lavorativo. Essa si riflette:

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2. Agricoltura e sistema agro-alimentare

Prof. Andrea Marescotti 66

- sulla tipologia di servizio commerciale richiesto: la scelta del "cosa" comprare di-viene interdipendente con quella sul "dove" comprare, e anzi tende addirittura a precedere la decisione rispetto allo specifico bene da acquistare. Il consuma-tore richiede assortimenti commerciali molto ampi e/o molto profondi;

- sulla modalità di reperimento delle informazioni pre-acquisto: l'accentuazione del carattere di conve-nience good conduce alla formulazione di scelte di tipo ripetitivo, il che porta da una parte ad una importanza crescente dell'informazione pubblici-taria e della marca, e dall'altra a formulare le scelte stesse non tanto in base a ciascun prodotto bensì all'assortimento nel suo complesso valutato però con procedure di semplificazione, il che fa-vorisce lo sviluppo della moderna distribuzione;

- sulla semplificazione delle attività di preparazione: vale a dire sia uno spostamento verso cibi più semplici (che per loro stessa na-tura richiedono un minore tempo di elaborazione culinaria - ad esempio lattie-ro-caseari e frutta, a scapito di carne e pesce freschi); sia una sostituzione, fer-ma restando la “complessità” dei cibi consumati, della preparazione domesti-ca con i servizi di trasformazione e adattamento svolti nell'ambito delle fasi della trasformazione industriale e/o commerciale.

Un secondo fenomeno, derivante in particolare dall’evoluzione dell’organizzazione del lavoro e dalla crescente distanza tra abitazione e luogo di lavo-ro, è costituito dalla destrutturazione dei pasti che si manifesta in occasioni di fruizio-ne dei cibi sempre meno formali e nell'aumento dei pasti consumati fuori casa. In parti-colare la traslazione della spesa da domestica a extradomestica fa sì che le imprese si trovino di fronte una domanda di natura molto più professionale rispetto a quella delle famiglie, meno attenta ai fattori immateriali di differenziazione e più sensibile invece ai contenuti intrinseci di elaborazione e di servizio aggiunto, oltre che al fattore prezzo.

L’azione delle variabili socio-culturali: la soggettività del consumo

Accanto alle due tendenze appena ricordate, che costituiscono una risposta al mutamento nelle condizioni oggettive di consumo, se ne possono evidenziare numero-se altre che derivano dall'aumentata possibilità del consumatore di esprimere la propria sog-gettività mediante gli atti di consumo. Le tendenze che originano da queste variabili con-tribuiscono a spiegare gran parte delle nuove tendenze anche all’interno del sistema agro-alimentare e l’emergere di un nuovo modello di sviluppo agricolo e agro-alimentare (vedi oltre).

Una classificazione delle tendenze dei consumi alimentari che originano dalle va-riabili socio-culturali

MATERIALE

IMMATERIALE

Attenzione agli equilibri socio-ambientali (CONTESTO ESTERNO)

Effetti diretti e indiretti che l’alimento (e il processo pro-duttivo per realizzarlo) eser-cita sugli equilibri ambientali

Il prodotto-servizio diventa un veicolo per tutelare equili-bri culturali e sociali (il con-sumo come partecipazione sociale)

Ricerca del benessere soggettivo (CONTESTO INTERNO)

Attenzione per la salute e per la cura del proprio corpo

Realizzazione della personali-tà (profilo sensoriale-gustativo) e identificazione con sistemi di valori e com-portamenti

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2. Agricoltura e sistema agro-alimentare

Prof. Andrea Marescotti 67

Tra queste è opportuno ricordare, per l’importanza che vanno assumendo in Ita-

lia e in generale in tutti i Paesi avanzati: - una rinnovata attenzione al prezzo, intesa non come variabile assoluta ma come

attenzione al rapporto prestazioni/prezzo; - una maggiore attenzione agli equilibri socio-ambientali, che si esplica tra l'altro

in una crescente sensibilità rispetto all'impatto diretto e indiretto di ciò che si consuma sull'ambiente naturale: in questa direzione vanno ad esempio il con-sumo di prodotti realizzati con metodi produttivi biologici o a limitato impie-go di input chimici, e la richiesta di imballi riciclabili e comunque "leggeri";

- una maggiore attenzione sui riflessi che ciò che si consuma può avere sulla sa-lute e/o sulla forma fisica, originata sia dalla maggior diffusione dei risultati dei progressi realizzati in campo medico che dal rinnovato interesse per la cura del corpo. Ne sono un segnale la richiesta crescente: di prodotti light e/o “ar-ricchiti” (di vitamine, sali minerali, ecc.); di prodotti che non presentano tracce e residui di sostanze ritenute dannose; di prodotti trasformati con procedi-menti in grado di mantenere il più possibile inalterate caratteristiche e pro-prietà iniziali delle materie prime (ad esempio latte alta qualità o succhi di frutta refrigerati);

- una ricerca da parte del consumatore alla realizzazione della propria personalità e desiderio di distinzione, sia sotto il profilo sensoriale-gustativo che sotto il profi-lo del bisogno di identificazione con sistemi di valori e comportamenti; ad es. ritorno-riavvicinamento ai valori del mondo rurale (prodotti tipici, ma anche determinate modalità, canali e luoghi di acquisto - vendita diretta in azienda, agriturismo), diffusione delle catene di fast food ispirate al modello america-no, prodotti etnici e relative modalità di fruizione.

Le tendenze dei consumi derivanti dall’azione delle variabili socio-culturali, e il fatto che queste tendano a variare e spesso anche a coesistere nell'ambito di un mede-simo consumatore, fanno sì che le imprese si trovino di fronte una situazione di cre-scente complessità. Allo stesso tempo aumentano per esse le possibilità di diversificare la propria offerta.

Alcuni esempi di pubblicità che originano dalle variabili socio-culturali

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2. Agricoltura e sistema agro-alimentare

Prof. Andrea Marescotti 68

3.2. Lo sviluppo dell’industria di trasformazione

L’evoluzione dell’industria alimentare L’evoluzione della struttura e delle modalità operative delle imprese che operano

all’interno del settore dell’industria agro-alimentare (IAA) è stata caratterizzata da un forte processo di industrializzazione dei processi produttivi. I metodi produttivi delle imprese della trasformazione agro-alimentare hanno subito un forte processo di indu-strializzazione, e sono caratterizzati oggi da un’elevata intensità del capitale per unità di lavoro, da una spinta scomposizione del processo produttivo per fasi e da una eleva-ta divisione del lavoro, dall’adozione di processi di produzione continui, dall’applicazione di tecnologie avanzate, da un rapido processo di introduzione di in-novazioni tecniche, organizzative, commerciali.

La formazione dei mercati di massa, e lo sviluppo dei sistemi di trasporto e co-municazione, ha poi innescato un processo di concentrazione delle imprese, derivante da una riduzione del numero delle imprese e da una aumento della dimensione media delle imprese operanti sul mercato [Pieri e Venturini, 1995].

In particolare, la formazione dei mercati di massa è stata originata dalla crescente urbanizzazione della popolazione e dalla progressiva omogeneizzazione delle abitudi-ni alimentari, resa possibile anche dalla diffusione dei mezzi di comunicazione e di in-formazione. Dall’altro lato lo sviluppo dei sistemi di trasporto e delle tecniche di con-servazione delle materie prime, dei semilavorati e dei prodotti finiti, hanno spinto ver-so un aumento della dimensione minima efficiente di numerose attività, e offerto nuo-ve opportunità per l’espansione delle imprese, sia per la possibilità di quest’ultime di attingere da mercati di approvvigionamento e di sbocco planetari, sia per la possibilità di de-localizzare e/o esternalizzare fasi del processo produttivo agro-alimentare, sia per la possibilità di acquisire imprese e strutture in paesi diversi a condizioni vantag-giose.

Tra tutti i settori che compongono il sistema agro-alimentare, è stato dunque proprio il settore industriale (produzione di inputs, ma anche trasformazione dei pro-dotti agricoli) il primo ad innescare al proprio interno un processo di concentrazione che può essere articolato, a fini didattici ed espositivi, in quattro periodi o fasi princi-pali.

Nelle prime due si assiste ad una concentrazione dell’industria alimentare, men-tre agricoltura (fornitore di materie prime all’industria e/o distribuzione) e la distribu-zione permangono settori a basso grado di concentrazione.

Nella terza fase prende avvio la concentrazione del settore distributivo, che am-plifica e rafforza la concentrazione dell’industria alimentare.

Le principali fasi nell’evoluzione del sistema agro-alimentare

PRIMA FASE L’Industria alimentare avvia il processo di concentrazione dimensionale e operativa grazie alla realizzazione di inve-stimenti “materiali” (impianti, macchinari) finalizzati al raggiungimento di economie di costo tramite economie di scala

SECONDA FASE L’Industria alimentare procede nel processo di concentra-zione dimensionale e operativa ma soprattutto con inve-stimenti “immateriali” (pubblicità, ricerca e sviluppo) fi-nalizzati al raggiungimento di economie di scopo

TERZA FASE L’Industria alimentare aumenta la propria concentrazione grazie all’avvio del processo di concentrazione della di-stribuzione finale (GDO)

QUARTA FASE Parziale effetto di de-concentrazione dell’industria ali-mentare per l’aumento del potere della moderna distribu-zione (GDO) e l’istaurarsi di nuovi rapporti verticali

Infine, nella quarta fase, la concorrenza tra imprese della moderna distribuzione e il cambiamento riscontrabile nei consumatori esercita un parziale effetto di de-

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2. Agricoltura e sistema agro-alimentare

Prof. Andrea Marescotti 69

concentrazione sull’industria alimentare (vedi prospetto Le principali fasi nell’evoluzione del sistema agro-alimentare).

Occorre tuttavia sottolineare che il processo di concentrazione nell’industria ali-mentare non ha interessato in ugual misura tutte le tipologie produttive, perdurando ancora oggi una situazione frammentata (vedi quanto scritto prima) che vede in nume-rosi comparti la contemporanea presenza di grandi imprese industriali, anche a carat-tere multinazionale o transnazionale, a fianco di una moltitudine di piccole e medie imprese a carattere artigianale e con bacini di approvvigionamento e sbocco non sem-pre locali.

La prima fase: la concentrazione dell’IAA tramite investimenti materiali

La prima fase è caratterizzata dalla realizzazione di investimenti materiali e dal-la ricerca di economie di costo tramite eco-nomie di dimensione a livello di stabili-mento. Le imprese industriali ricercano una competitività di costo, che comporta una industrializzazione e una standardiz-zazione dei processi e dei prodotti, che si riflette sulle richieste ai settori a monte in termini di caratteristiche degli approvvi-gionamenti: grandi partite, costanza di fornitura e standardizzazione dei livelli qualitativi. Le imprese agro-alimentari marginali e di più piccola dimensione, che non riescono a realizzare gli investimenti minimi necessari per competere sul lato dei costi di produzione, risultano spiazzate da questo processo, e si registrano elevatis-simi tassi di cessazione.

In questa prima fase il mercato al consumo è un mercato di massa (mass market), che chiede prodotti standardizzati e non è attento alla qua-lità e alla differenziazione dei prodotti. I prodotti alimenta-ri industriali sono sinonimo di modernità e progresso

Le imprese innovatrici hanno ampi margini di cresci-ta e godono di extraprofitti, grazie ai quali costituiscono elevate barriere all'entrata, derivanti dalla necessità di do-tarsi di grandi impianti ad elevato contenuto di capitale.

Il processo di concentrazione in questa fase trova an-cora limiti sia nel permanere di un certo localismo dei con-sumi, ovvero della difficoltà dell’industria alimentare di proporre un prodotto standard a territori vasti in cui anco-ra l’omogeneizzazione degli stili di consumo e delle abitu-dini di acquisto stenta ad affermarsi, che nella frammenta-zione del sistema distributivo (aggravato dalla deperibilità del prodotto), che pone problemi logistici e nei rapporti commerciali a livello locale.

La seconda fase: la concentrazione dell’IAA tramite investimenti immateriali

Nella seconda fase le risorse generate dalle economie di costo realizzate dalle im-prese agro-alimentari vengono utilizzate prevalentemente per la realizzazione di inve-stimenti immateriali: ricerca applicata, sviluppo di nuovi prodotti, pubblicità e affer-

mazione dell’immagine di marca. In questo periodo infatti si sviluppa fortemente la marca industriale. Le imprese mirano al conseguimento di economie di sco-po (relativamente alle risorse immateriali – marchi ombrello - e a quelle materiali, specie a livello di rete distributiva).

Le grandi imprese di marca acquisiscono così un crescente potere di condizionamento nei confronti del setto-

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2. Agricoltura e sistema agro-alimentare

Prof. Andrea Marescotti 70

re distributivo, in questa fase formato ancora in prevalenza da imprese di piccola di-mensione, di tipo familiare, in molti paesi protetto da normative che ponevano forti li-miti all’innovazione delle formule distributive (e in particolare all’apertura di punti vendita delle imprese della GDO) per non compromettere l’occupazione del settore terziario.

La crescente forza acquisita dalla marca industriale sottrae alla distribuzione finale al det-taglio (ancora tradizionale) alcune importanti funzioni, e crea le basi per il successivo svi-luppo della moderna distribuzione. In particolare la crescente affermazione della mar-ca industriale:

- sottrae il potere di informazione e di garanzia che il piccolo dettagliante ha fi-no ad allora svolto nei confronti del consumatore, rendendo meno necessario il legame diretto e di fiducia tra negoziante e consumatore;

- sottrae in parte al dettagliante anche la funzione di sezionare, pesare, prezzare, confezionare il prodotto, poiché i prodotti della grande industria alimentare sono venduti confezionati, in scatola o busta, e spesso prezzati.

La crescita dell’industria alimentare nelle prime due fasi presenta le caratteristi-

che seguenti [Wilkinson, 2002]: - processi “low-tech”: i processi produttivi erano basati largamente sull’up-

scaling di processi artigianali, realizzati in modi sperimentali ed empirici. Il settore alimentare era dunque visto come settore a bassa tecnologia senza consolidati legami col mondo della ricerca scientifica;

- strategia di sostituzione: l’industria ali-mentare adotta una strategia di sostituzio-ne, cercando nuove materie prime per realizzare gli stessi prodotti e ricorren-do ad input chimici (additivi, ingredienti). Ne deriva una crescente separazio-ne tra agricoltura e trasformazione;

- limitazione nella tipologia di prodotto: nonostante la strategia di sostituzio-ne, la produzione dell’IAA continua a realizzare prodotti che servono come ingredienti in cucina, ma che non si sostituiscono alla preparazione domestica degli alimenti. Inoltre l’IAA non riesce a competere con alcune produzioni agricole (ortofrutta, carne), dove più difficile è far emergere le differenze tra prodotto agricolo e e quello uscito dallo stabilimento industriale;

- scarso potere di controllo sulla qualità: il controllo sulla definizione e caratte-rizzazione della qualità dei prodotti resta dunque all’interno del settore.

Relativamente ai rapporti col settore agricolo, si riduce il legame tradizionale

(potremmo dire “storico”) tra industria e agricoltura a livello locale. I citati progressi nelle tecnologie di trasporto e conserva-zione, e dei sistemi informativi, permettono all’industria ali-mentare di svincolarsi dagli approvvigionamenti di materia prima a livello locale, per attingere materia prima e anche semi-lavorati su un mercato mondiale, e dunque anche di de-stagionalizzare le lavorazioni, fino ad allora ristrette dalla sta-gionalità delle produzioni. Come visto, inoltre, la crescita delle dimensioni operative minime necessarie rende indispensabile approvvigionarsi anche da altri territori, per la frequente im-possibilità di aumentare i volumi produttivi all’interno del tra-dizionale territorio di acquisto.

In questo periodo, ovvero nelle prime due fasi evolutive del sistema agro-alimentare, il processo di concentrazione nel

settore della trasformazione agro-alimentare trova due principali limiti (figura Le prime due fasi del processo di concentrazione dell’industria alimentare (IAA)):

1) il primo limite è situato nella struttura frammentata del sistema distributivo, il quale impone notevolissimi costi logistici per raggiungere un sufficiente numero di (potenziali) consumatori;

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2. Agricoltura e sistema agro-alimentare

Prof. Andrea Marescotti 71

2) il secondo limite è costituito dalla scarsa “adattabilità” dell’agricoltura alle nuove richieste dell’industria alimentare. Gli effetti del progresso tecnico (e dunque l’intensità del processo di concentrazione) non sono infatti uniformi nei diversi comparti dell’industria agro-alimentare, e permangono numerosi problemi relativi in particolare al raccordo con la fase agricola. Tra questi as-sumono particolare rilevanza la deperibilità di alcune materie prime agricole, la stagionalità della produzione agricola, e la estrema variabilità delle caratte-ristiche qualitative delle materie prime agricole tra diverse aree ed aziende, ol-tre che nel tempo (tra una campagna produttiva e l’altra).

Le prime due fasi del processo di concentrazione dell’industria alimentare (IAA)

Evoluzione struttura consumi e mercato di

massa

Evoluzione tecnologia di trasporto e

conservazione

POSSIBILITA’ DI CONCENTRAZIONE DELL’INDUSTRIAINDUSTRIA

Investimenti materiali per economie di stabilimento

Modifiche della struttura

distributiva

- Self service

- preconfezionamento

Economie di scopo (risorse materiali e immateriali) e crescita IAA multiprodotto

Economie di scala, aumento profitti per innovatori

Aumento reputazione IAA marca

Aumento potere IAA vs dettaglio

Investimenti immateriali delle grandi IAAR&D (innovazione di prodotto), pubblicità, preconfezionamento

Uscita imprese marginali

Crescita grande IAA

Aumento risorse grande IAA

Effetti sui rapporti coi fornitori (agricoltura, ingrosso, ecc.)

LIMITILIMITI

Dettaglio tradizionale e localismo dei

consumi

1° fase

2° fase

3° fase

Evoluzione struttura consumi e mercato di

massa

Evoluzione tecnologia di trasporto e

conservazione

POSSIBILITA’ DI CONCENTRAZIONE DELL’INDUSTRIAINDUSTRIA

Investimenti materiali per economie di stabilimento

Modifiche della struttura

distributiva

- Self service

- preconfezionamento

Economie di scopo (risorse materiali e immateriali) e crescita IAA multiprodotto

Economie di scala, aumento profitti per innovatori

Aumento reputazione IAA marca

Aumento potere IAA vs dettaglio

Investimenti immateriali delle grandi IAAR&D (innovazione di prodotto), pubblicità, preconfezionamento

Uscita imprese marginali

Crescita grande IAA

Aumento risorse grande IAA

Effetti sui rapporti coi fornitori (agricoltura, ingrosso, ecc.)

LIMITILIMITI

Dettaglio tradizionale e localismo dei

consumi

1° fase

2° fase

3° fase

3.3. L’avvento della moderna distribuzione

Introduzione: condizioni di sviluppo e logiche operative della moderna distribuzione Il sistema distributivo negli ultimi decenni è andato assumendo sempre più un

ruolo guida nell’orientare l’evoluzione del sistema agro-alimentare e nel determinare gli assetti strutturali e l’organizzazione delle fasi “a monte” di numerose filiere. L’evoluzione della distribuzione da settore prevalentemente “passivo” e neutrale (ad essa era affidato il semplice trasferimento fisico dei prodotti dalle imprese di trasfor-mazione al consumatore) a settore sempre più autonomo e strutturante, è attribuibile al processo di forte modernizzazione del sistema distributivo, determinato da una parte dall'evoluzione delle condizioni di produzione (produzione industriale di massa), e dall'altra dall'evoluzione delle condizioni sociali di consumo.

In effetti proprio l'esigenza del consumatore di un elevato contenuto di servizio time-saving ha consentito l'introduzione del self-service (scaffale aperto), che si è rivelata per le imprese distributive che l’hanno adottata una innovazione radicale sia di prodotto, in quanto modifica la tipologia di servizio distributivo offerto al consumatore renden-dolo più adeguato alle nuove esigenze, sia di carattere organizzativo, in quanto modi-

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2. Agricoltura e sistema agro-alimentare

Prof. Andrea Marescotti 72

fica il modo di operare delle imprese distributive; tale innovazione consente alle im-prese che la adottano l’ottenimento di rilevanti economie di scopo e di scala, con parti-colare riferimento alle economie di scala di natura finanziaria, connesse alla possibilità per le imprese distributive di ottenere forniture a prezzi tanto minori quanto maggiore è il volume degli acquisti da esse richiesto.

Le imprese innovative sono nelle condizioni di praticare politiche di prezzo mol-to aggressive al fine di sottrarre quote di mercato al dettaglio tradizionale, esercitando dunque una forte concorrenza inter-tipo (vale a dire tra tipologie diverse di erogazione del servizio di distribuzione); nel settore distributivo si viene così a realizzare una forte tendenza alla concentrazione, la quale tende ad autoalimentarsi in un processo ciclico che interessa sia l'assetto interno al settore distributivo stesso che l'assetto dei rapporti con l'industria alimentare (figura Il ciclo della concentrazione nel settore distributivo) [Pieri e Venturini, 1995].

In sostanza le grandi imprese della moderna distribuzione, che gestiscono una pluralità di punti vendita organizzati secondo criteri moderni, realizzano grandi volu-mi di vendita e possono dunque godere nei propri acquisti di un elevato potere con-trattuale verso le imprese della trasformazione alimentare (e più in generale verso i fornitori, ivi comprese dunque le aziende agricole e loro organizzazioni), il che consen-te di ottenere condizioni di acquisto particolarmente vantaggiose rispetto alla distribu-zione tradizionale; da ciò deriva per la moderna distribuzione una maggiore profittabi-lità, che consente l’introduzione di ulteriori innovazioni (nella logistica, nella informa-tizzazione e automazione dei processi - ad es. scanner alle casse -, nel marketing della propria insegna) il che genera una ulteriore crescita dei volumi commercializzati.

Il ciclo della concentrazione nel settore distributivo

CONSUMATORE

Ricerca servizi time-saving

IMPRESE DISTRIBUTIVE INNOVATRICI

- Introduzione self-service

- Assortimenti de-specializzati

� aumento produttività

� Riduzione dei prezzi

� aumento vendite

Aumento fatturato e

profitti

generazione risorse x introdurre innovazioni

tecnologiche e organizzative

Aumento della quota di mercato dei distributori più

efficienti

Uscita dal mercato o acquisizione delle catene

minori e degli indipendenti

Aumento del potere contrattuale dei

principali distributori

I principali distributori ottengono condizioni

migliori dai fornitori (IAA e agricoltura)

CONSUMATORE

Ricerca servizi time-saving

IMPRESE DISTRIBUTIVE INNOVATRICI

- Introduzione self-service

- Assortimenti de-specializzati

� aumento produttività

� Riduzione dei prezzi

� aumento vendite

Aumento fatturato e

profitti

generazione risorse x introdurre innovazioni

tecnologiche e organizzative

Aumento della quota di mercato dei distributori più

efficienti

Uscita dal mercato o acquisizione delle catene

minori e degli indipendenti

Aumento del potere contrattuale dei

principali distributori

I principali distributori ottengono condizioni

migliori dai fornitori (IAA e agricoltura)

La concentrazione si manifesta dunque nella diminuzione di importanza delle

imprese commerciali piccole e artigianali (cioè il dettaglio tradizionale), a vantaggio dello sviluppo di unità di vendita despecializzate di elevata superficie (super e iper-mercati, e soprattutto medio-piccole superfici a libero servizio) appartenenti a un nu-mero relativamente ristretto di grandi imprese.

Le grandi imprese della GDO sviluppano una vera e propria industrializzazione del processo distributivo, caratterizzato dai grandi volumi trattati, da una crescente scomposizione delle fasi del processo stesso e da una conseguente specializzazione per

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2. Agricoltura e sistema agro-alimentare

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funzioni delle risorse impiegate (i principi della “modernizzazione”; vedi quanto detto sopra), la quale consente il conseguimento di economie di scala. Nascono così le grandi Centrali di acquisto della GDO, strutture organizzative interne alle imprese della GDO che gestiscono gli approvvigionamenti per la totalità dei punti-vendita appartenenti all’impresa (e sempre più spesso più imprese della GDO), il tasso di introduzione di innovazioni tecnologiche e di marketing tende ad aumentare, così come la centralità della funzione logistica.

L’accentramento della funzione di acquisto e della contrattazione con i fornitori nell'ambito delle Centrali di acquisto della GDO consente non solo di ottenere condi-zioni di acquisto più vantaggiose dai fornitori, ma anche di conseguire una razionaliz-zazione dei flussi logistici sempre più spinta. La funzione del grossista tradizionale tende ad essere internalizzata dalla GDO mediante la creazione di Centri Distributivi (o Ce.Dis., strutture logistiche che gestiscono i flussi di approvvigionamento dei punti vendita e delle consegne dei fornitori), che servono un numero sempre più elevato di punti-vendita e dai quali transitano non solo le merci confezionate e conservabili, ma anche i prodotti freschi più deperibili, come ad esempio i prodotti ortofrutticoli.

Il nuovo modello gestionale adottato dalle imprese della GDO contribuisce a ri-durre la segmentazione spaziale dei mercati anche per quei prodotti tradizionalmente più "protetti"; la possibilità per i fornitori (industria alimentare, agricoltura) di restare nell'assortimento dei distributori (cioè di essere referenziati) è sempre meno legata alla vicinanza geografica e sempre più invece alla capacità di adattarsi ai tempi e alle esi-genze anche qualitative del distributore, nonché alla capacità di differenziare il proprio prodotto.

La GDO fa registrare inoltre un processo di crescita e internazionalizzazione del-le imprese, con fenomeni di acquisizione di imprese distributive, ad opera anche di gruppi provenienti da altri Paesi, realizzando così economie di scala a livello organiz-zativo, logistico, amministrativo, etc. I distributori tendono così ad operare anche per i propri approvvigionamenti su una scala sempre più ampia e transnazionale, anche mediante la creazione di "mega-centrali di acquisto" su scala multinazionale: l'interna-zionalizzazione della distribuzione tende ad accrescere la concorrenza tra i fornitori di prodotti sia trasformati che freschi, e pone in rapporto stretto di sostituzione le stesse produzioni tipiche di Paesi diversi.

In effetti le imprese della moderna distribuzione hanno la possibilità, grazie alla loro dimensione, di attuare politiche attive di supporto e di politiche attive di prezzo rispetto ai prodotti da esse trattati:

- le politiche attive di supporto si realizzano attraverso la gestione strategica della superficie espositiva (ad esempio posizionamento dei prodotti su scaffali di altezze diverse) e/o l'attività promozionale nei punti-vendita (offerte spe-ciali, promozioni "tematiche", ecc.) ,

- le politiche attive di prezzo si realizzano attraverso manovre sui margini commerciali e modificano la competitività di ciascun prodotto.

Tali comportamenti sono in grado così di influenzare la struttura stessa delle pre-ferenze del consumatore, intervenendo sul suo set informativo e sulla dinamica dei prezzi relativi al consumo.

L'aumento della dimensione economica delle im-prese della GDO, e la crisi del settore del dettaglio tra-dizionale, fa assumere un ruolo di importanza centrale del settore distributivo nelle filiere e nel sistema agro-alimentare: la GDO svolge cioè un ruolo sempre più importante sia nel condizionare il proprio “a valle” (i consumatori), che nello strutturare il proprio “a monte” (industria agro-alimentare e agricoltura).

Proprio lo sviluppo delle imprese della moderna distribuzione dà il via alla terza fase evolutiva del mo-derno sistema agro-alimentare.

La terza fase: la concentrazione della distribuzione finale al dettaglio

Nelle fasi precedenti si è visto come il settore distributivo fosse caratterizzato da:

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- la predominanza di piccole imprese a conduzione familiare; - la presenza di una legislazione tesa a tutelare il piccolo dettaglio per la fun-

zione sociale (occupazionale) svolta (vedi box La normativa sul commercio in Ita-lia);

- l’assenza di pressioni competitive provenienti da altri paesi (assenza di con-correnza estera, basso grado di internazionalizzazione del dettaglio).

Una rete distributiva così frammentata pone numerosi ostacoli alla crescita della concentrazione nel settore dell’industria alimentare:

- aumenta i costi della logistica e le perdite di prodotto; - rende difficile rompere i legami consolidati a livello locale, e competere con le

piccole e medie imprese (PMI) più prossime ai bacini produttivi e/o di con-sumo (barriere all'entrata a livello locale).

Questi due fattori costruiscono evidentemente un limite ai processi di concentrazione in atto all’interno dell’IAA: i prodotti alimentari sono infatti deperibili e di acquisto frequente.

Una soluzione per l’IAA grande potrebbe costi-tuire nel de-localizzare gli impianti produttivi ubi-candoli in prossimità dei bacini di approvvigiona-mento e/o di consumo. Tuttavia tale soluzione vani-ficherebbe la possibilià di realizzare economie di sca-la che lo svolgimento della produzione all’interno di grandi stabilimenti (tipici del periodo della moder-

nizzazione) potrebbe offrire. Inoltre la materia prima agricola è reperibile solo in de-terminate aree (specificità ubicativa) e/o è deperibile, e dunque non sarebbe comunque possibile superare completamente i limiti sopra accennati.

Un'altra soluzione per eliminare i vincoli all’espansione dell’IAA è l’avvio di un processo di concentrazione della distribu-zione finale. Si è visto come la concentra-zione nel settore della distribuzione e lo sviluppo della Grande Distribuzione Or-ganizzata (GDO) o Moderna Distribuzio-ne è stato reso possibile dai cambiamenti della ripartizione spaziale della popola-zione (urbanizzazione) e dalle diverse modalità di organizzazione del lavoro nel-la società e dall'evoluzione degli stili di vita (time saving). Questa formula infatti ha permesso:

- l’introduzione di innovazioni organizzative e di "prodotto" (del servizio di-stributivo) e la realizzazione di grandi unità di vendita despecializzate;

- la preselezione dell’offerta di prodotti agricoli e agro-alimentari da parte del distributore;

- la disponibilità di assortimenti più profondi e ampi e la possibilità offerta al consumatore di effettuare dunque maggiori comparazioni direttamente nel punto vendita;

- la fornitura di maggiori informazioni direttamente al consumatore; - una maggiore velocità del servizio commerciale; - un maggior confort nel processo di acquisto; - l’erogazione di servizi post-vendita. In questa fase dunque la distribuzione finale al dettaglio abbandona (in parte) il

tradizionale ruolo passivo (intermediazione semplice) e inizia ad assumere un ruolo attivo nell’ambito del sistema agro-alimentare.

Nelle fasi iniziali gli assortimenti erano composti essenzialmente da beni banali (qualità media e medio-bassa, acquisti ripetuti e frequenti, alta rotazione), mentre i be-ni problematici erano ancora distribuiti dal dettaglio tradizionale e/o specializzato. La concorrenza inter-tipo (vale a dire tra tipologie distributive diverse) della moderna distri-buzione è basata sul prezzo dei prodotti e sul risparmio di tempo.

Il successo della formula commerciale del libero servizio attiva il ciclo di concen-

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trazione nel settore, e mette in crisi: - il dettaglio tradizionale (uscita, riconversione, specializzazione, nuove forme); - i mercati tradizionali all’ingrosso (sia alla produzione che al consumo); - i grossisti; - le Piccole e Medie imprese (PMI). La concentrazione nel settore della di-

stribuzione al dettaglio esercita in questa fase un’ulteriore spinta alla concentrazione nel settore dei fornitori (agricoltura, ma soprat-tutto industria alimentare) [Pieri e Venturini, 1995]. L'effetto di concentrazione del settore distributivo sull'industria agro-alimentare (vale a dire l'incentivo all'aumento dimensio-nale delle imprese di trasformazione) deriva in primo luogo dal fatto che, grazie alla presenza delle grandi imprese distributive, le grandi industrie alimentari vedono una forte riduzione delle barriere logistiche alla propria crescita costituite dalla frammenta-zione della rete distributiva, che imponeva loro di dotarsi - direttamente o mediante il ricorso a imprese grossiste locali - di reti di vendita molto capillari, in grado di rag-giungere i numerosissimi esercizi del dettaglio tradizionale esistenti. Il fatto di poter interloquire con le centrali d’acquisto delle imprese della GDO consente all’industria alimentare di superare queste barriere logistiche e di sfruttare al meglio le economie di scala a livello di produzione e di funzioni commerciali e di marketing.

BOX – La normativa sul commercio in Italia

In Italia i processi di concentrazione della distribuzione finale si sono verificati con molto ritardo rispetto agli altri paesi europei e agli USA. Tra i motivi che possono spiegare questo ritardo vi sono [Gandolfo, 1998; Pellegrini, 2001]: - il ritardo nello sviluppo socio-economico, e del processo di concentrazione territoriale della popola-

zione e dell’industria nelle aree metropolitane; - la particolare normativa di settore, che ha imposto per anni numerosi vincoli all’introduzione delle

formule distributive moderne percepite come minaccia all’occupazione di migliaia di famiglie italiane. Legge nazionale 426/71 La LN 426/71 aveva istituito elevate barriere all’entrata nel settore distributivo. I negozianti innanzitutto dovevano possedere l’iscrizione al Registro delle Imprese (REC) dimostrando adeguata professionalità superando un’esame. Le aperture di nuovi punti vendita erano sempre autorizzate dai Comuni (con nulla osta delle Regioni per le grandi superfici: più di 400 mq per i comuni con popolazione inferiore ai 10.000 abitanti, 1.500 mq per i comuni più grandi) in base a Piani commerciali comunali (programmazione dei punti vendita in base alle previsioni sui consumi). L’autorizzazione non dava una generica autorizzazio-ne alla vendita, ma a farlo solo per le tipologie di prodotto incluse nella tabella merceologica per la quale si richiedeva il permesso (8 per l’alimentare). Se da un lato la LN 426 ha avuto l’effetto di “ammortizzato-re sociale”, garantendo uno spazio di operatività per il piccolo dettaglio e proteggendo l’occupazione in questo settore, dall’altro lato ha favorito la formazione di squilibri territoriali e ha agito da freno all’introduzione di formule distributive moderne e all’introduzione di innovazioni organizzative, gestio-nali, logistiche anche nel settore dei fornitori, contribuendo a mantenere prezzi più elevati ai consumato-ri. D.Lgs 114/98 riforma Bersani Successivamente il D.Lgs 114/98 (riforma del commercio, o riforma Bersani) ha modificato e in parte ri-mosso alcuni ostacoli all’introduzione di un processo di modernizzazione del settore del commercio. La riforma del commercio del 1998 fissa alcuni principi generali e delega alle Regioni la disciplina normativa degli esercizi al dettaglio. Viene abolito l’obbligo di iscrizione al REC: la professionalità verrà valutata so-lo dalla competizione sul mercato. Vengono inoltre abolite le tabelle merceologiche (resta un’unica distin-zione tra alimentare e non alimentare) e aboliti anche i piani commerciali. Il regime di autorizzazione vie-ne dunque ridefinito, e resta valido solo per le superfici medie e grandi, gestito dai Comuni e dalle Re-gioni. Viene introdotto anche il ruolo consultivo delle associazioni dei consumatori, e disciplinato in mo-do più flessibile l’orario di apertura dei punti vendita.

Ma l’effetto di concentrazione del settore distributivo sull’industria agro-

alimentare si manifesta anche attraverso la necessità da parte delle imprese di trasfor-mazione agro-alimentari di mettere a punto degli elementi che consentano loro di con-trastare l’elevato potere contrattuale di cui le catene della moderna distribuzione di-spongono grazie al referenziamento, vale a dire alla scelta circa l’inserimento di un

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prodotto di un determinato fornitore (impresa agricola, impresa industriale) nel pro-prio assortimento; ciò tenuto conto che, con un sistema distributivo molto concentrato, l’esclusione di un prodotto dall’assortimento di una grande impresa distributiva impli-ca per il fornitore la perdita di rilevanti quote di mercato. Dunque la crescente concen-trazione delle quote di mercato nell'ambito del sistema distributivo aumenta la necessi-tà da parte dell'industria di un potenziamento della propria marca e in generale della propria immagine di fronte al consumatore, che costringano le grandi catene a referen-ziare i propri prodotti. Questo comporta la necessità, per le imprese di trasformazione che vogliano mantenere uno spazio negli assortimenti della GDO per garantirsi elevati volumi di produzione (e dunque la possibilità di godere delle economie di scala deri-vanti dall’introduzione delle innovazioni tecnologiche), di sostenere un insieme di costi fissi non recuperabili (spese promozionali e pubblicitarie, ma anche spese di R&S volte a aumentare la differenziazione dei propri prodotti rispetto a quelli dei concorrenti), in modo da contrastare la crescente fedeltà all’insegna di cui gode il distributore.

La terza fase di sviluppo del sistema agro-alimentare

Affermazione della GDO

Effetto concentrazione su IAA

Grande industria di marca

Standardizzazione dei prodotti

Dualismo strutturale nell’IAA

Gli sviluppi della GDO in questa fase favoriscono la produzione di massa e la grande IAA, ed esercitano quindi un effetto di

concentrazione sull’industria alimentare. I prodotti di marca affermata, tipici della grande industria alimentare (e di alcu-

ni grandi gruppi di produttori agricoli), devono essere referenziati dalla GDO: questi prodotti infatti:

- sono ricercati dai consumatori che, nel caso non li trovassero all’interno sugli scaffali della GDO, potrebbero essere portati a scegliere punti vendita di im-prese distributive concorrenti;

- costituiscono un fondamentale riferimento attraverso il quale il consumatore può effettuare una comparazione circa la convenienza degli assortimenti delle diverse imprese della GDO.

Quest’ultimo punto è particolarmente importante: in questa terza fase di svilup-po del sistema agro-alimentare, la concorrenza tra imprese di trasformazione, e in par-ticiolare la concorrenza tra imprese della distribuzione finale al dettaglio, si svolge es-senzialmente sul piano della economicità del servizio, ovvero sul prezzo finale al con-sumatore. Nel caso della formula distributiva, il con-sumatore sarà portato ad effettuare confronti di conve-nienza (ad esempio tra Coop ed Esselunga, oppure tra Carrefour e il piccolo dettagliante del centro città) comparando soprattutto i prezzi degli stessi prodotti (ad esempio la differenza che c’è tra il prezzo della pa-sta Barilla o del tonno Nostromo, o del latte Granarolo o del Parmigiano Reggiano nei diversi punti vendita). Di conseguenza, non solo i prodotti di grande marca devono essere referenziati perché il consumatore è particolarmente fedele alla marca in questi casi (brand-loyalty), ma la loro presenza è anche opportuna perché proprio attraverso di essi l’impresa può co-municare il livello di convenienza del proprio assortimento. Ne consegue anche che il margine distributivo che l’impresa della GDO applica sui prodotti di marca non potrà

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mai essere troppo elevato, mentre sui prodotti non noti dovrà recuperare la marginali-tà che non può ottenere dai prodotti di marca.

Da ciò deriva un processo di selezione all’interno del settore dell’industria di tra-sformazione:

a) le imprese più piccole e dotate di minori risorse organizzative sempre meno spesso sono in grado di adeguarsi alle mutate condizioni ambientali e si tro-vano dunque progressivamente confinate a servire la quota (decrescente) di domanda finale soddisfatta dalla distribuzione tradizionale. Peraltro la stan-dardizzazione degli assortimenti praticata dalle grandi imprese distributive operanti su scala nazionale tende a ridurre fortemente la possibilità di inseri-mento di prodotti ad elevata connotazione locale; la possibilità di restare in as-sortimento delle grandi catene è sempre meno legata alla vicinanza localizza-tiva e sempre più alla capacità di adattarsi ai volumi, ai tempi e agli standard richiesti dalle grandi catene; in sostanza le piccole imprese vedono restringersi lo spazio per i prodotti “locali”, essendo gli assortimenti della GDO sempre più standardizzati e centralizzati. La possibilità che hanno queste imprese di restare in assortimento nella GDO è sempre meno legata alla vicinanza loca-lizzativa e sempre più alla capacità di adattarsi ai volumi, ai tempi e agli stan-dard richiesti dalla GDO. Ma la scarsa dotazione di risorse sia finanziarie che organizzative rende per le piccole imprese molto faticoso rapportarsi con i Centri distributivi della GDO;

b) le imprese più grandi invece vedono ridursi fortemente le barriere logistiche alla propria crescita (costituite dalla frammentazione della rete distributiva) e possono sfruttare le economie di scala nella produzione e nelle funzioni com-merciali e di marketing. Queste imprese ricevono vantaggi dalla nuova situa-zione, grazie all'aumento della dimensione degli ordini da parte degli Uffici acquisti centrali delle catene distributive e alla loro richiesta di una maggiore interazione organizzativa dei fornitori con le proprie strutture (ad esempio do-tazione di apposite attrezzature e programmi informatici per la gestione degli ordini, garanzia di continuità, flessibilità e tempestività delle forniture, appo-sizione dei codici a barre personalizzati sui prodotti, realizzazione di iniziative congiunte di marketing quali promozioni, ecc.). I prodotti non-dereferenziabili vengono utilizzati dalla grande IAA per introdurre nuovi prodotti.

ECR

Alcune grandi imprese della GDO e grandi industrie alimentari (e non) di marca hanno avviato iniziative per l'elaborazione di strategie congiunte per la riduzione dei costi di interfaccia. L’iniziativa forse più no-ta è rappresentata dall'ECR (Efficient Consumer Response), una sorta di organismo interprofessionale, cui partecipano solo grandi imprese alimentari di marca e imprese della GDO, finalizzato alla gestione dei flussi informativi e materiali con l'obiettivo di minimizzare i costi transattivi e i tempi di risposta ai mu-tamenti della domanda. L'ECR è nato nel 1991 in America, su iniziativa di Procter&Gamble e WalMart. Dopo due anni ECR nasce anche in Italia, non con un approccio uno a uno (1 produttore con 1 distributore) come era stato in Ameri-ca, ma come centro di coordinamento multiaziendale in cui si sono associate sia le grosse industrie di marca, sia praticamente tutta la grande distribuzione organizzata. Fanno parte del progetto più o meno tutti i distributori dalla GS, alla Rinascente, alla Coop, alla Conad, con i principali produttori come Proc-ter&Gamble, Johnson&Johnson, Barilla, Nestlè, Ferrero, ecc. La strategia è svolta orientando una forte massa critica di produzione e di imprese di distribuzione al raggiungimento di una collaborazione asso-ciativa su grandi temi comuni. Tutto ciò nell'ambito di una posizione paritetica tra le imprese, coinvol-gendo in prima persona le Aziende Associate ed i loro Manager. Alcuni progetti sviluppati sono: riprogettazione della Supply Chain, Database logistico, nuove regole ge-stione dei pallet, modello operativo e semplificativo di Category Management, le nuove tecnologie che interagiscono con il consumatore, l'interfacciamento logistico produttore distributore, CRM. Vantaggi e risultati significativi sono stati già ottenuti sia in termini di miglior servizio, sia in termini di risparmi sui costi logistici, con i diversi tipi di progetto che riguardano il ciclo dell'ordine tra distributore e produttore, la movimentazione nel centro di distribuzione o nel punto di vendita, l'integrazione di tutta la catena logistica. I vantaggi ottenuti sono stati misurati in termini di discesa dei livelli di scorte e di ri-duzione del numero di magazzini utilizzati ed anche in termini di riduzione delle rotture di scorta a scaf-fale o di maggiore velocità di rifornimento.Questo ha creato tra produttore e distributore una relazione interaziendale a "molti punti": non sono più solo le vendite con gli acquisti ma anche la logistica con la logistica, il marketing con il marketing, e così via.

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Da questo sistema di relazione interaziendale, attraverso l'Electronic Data Interchange (EDI) e gli sforzi congiunti e coordinati tra produttori e distributori derivano i Principi e le Strategie base di ECR, che sono:

• un rifornimento efficiente (ER), che consente di incrementare i servizi al consumatore e di otti-mizzare tempi e costi con una logistica just in time, il riordino automatico, lo scambio dei dati di vendita;

• promozioni efficienti (EP), che garantiscono un sistema di "efficienza totale" per una migliore pianificazione delle promozioni: minimizzando i costi di gestione(amministrazione, movimenta-zione, personale), creando Know how di base, consentendo una risposta veloce al cambiamento della domanda;

• un efficiente assortimento del punto di vendita (EA), che ottimizza le scorte e gli scaffali , incre-menta la produttività degli spazi, aumenta la rotazione dei prodotti, imposta l'esposizione se-condo i comportamenti dei consumatori locali;

• l'efficiente introduzione dei prodotti (EPI), con la quale si ottimizza lo sviluppo del prodotto e si controlla il lancio dei nuovi articoli, migliorando i test di introduzione, raccogliendo risposte immediate all'accettazione o rifiuti del consumatore.

Nel lancio di un nuovo prodotto per esempio, si devono sincronizzare le campagne di marketing con il rifornimento logistico per essere puntuali nel momento più caldo per il consumatore. Per concludere, l'esempio esposto di seguito,mette in evidenza l'enorme potenzialità del progetto ECR, nell'ambito della gestione della catena logistica con le strategie e gli strumenti,come il sistema informativo EDI. In passato con il Continuos replenishment program (CRP), il fornitore aspettava l'ordine del distributore, adesso, legge direttamente il consumo in tempo reale nel punto di vendita o nel Cedi e non aspetta più l'ordine; carica il camion secondo la lista di quello che vede essere il consumo; produce egli stesso l'ordine da spedire al centro di distribuzione. Il vantaggio riscontrati è l'innalzamento del livello di servizio, con maggiore ed elevata presenza al punto di vendita. Ridurre la rottura di stock sullo scaffale è fondamentale, perché nel punto di vendita il con-sumatore, se non trova il nostro prodotto, prende quello della concorrenza che è esposto là vicino. Quindi il servizio diventa fondamentale, perché appena si lascia il vuoto sullo scaffale, il prodotto concor-rente si allarga e può annullare lo spazio a disposizione. Di conseguenza sono abolite le scorte che non servono e sono ammesse solo quelle che danno un servizio: il magazzino non è più un magazzino finalizzato a tenere le scorte, ma è un punto di mixaggio dei pro-dotti.

Fonte: adattamento da http://www.unitec.it/ita/download/backoffice/cap3.htm

In sostanza dunque in questa fase l’affermazione delle grandi catene della moderna di-

stribuzione tende a favorire la produzione di massa e le grandi imprese alimentari. Esse infatti permettono all’impresa distributiva di standardizzare le referenze sulla base della ve-locità di rotazione, ottenere forniture di rilevante dimensioni per evitare duplicazioni dei rapporti commerciali e massimizzare la redditività dello spazio vendita, semplifica-re la logistica permettendo una migliore gestione delle scorte, e di ottenere in generale condizioni di fornitura più vantaggiose.

La quarta fase: l’aumento della competizione all’interno del segmento della distribu-zione moderna e la de-concentrazione dell’industria alimentare

L'aumento della competizione tra le grandi imprese distributive caratterizza la fase di sviluppo successiva (da concorrenza inter-tipo a concorrenza intra-tipo). Le imprese della GDO, che nelle precedenti fasi di sviluppo risultavano differenziate solo in base alla loro localizzazione geografica, scelgono posizionamenti e strategie differen-ti modulando il tipo di servizio offerto. Allo stesso tempo aumenta la competizione tra le diverse formule commerciali della GDO: ad esempio la diffusione del discount ha portato, anche sull'onda della rinnovata attenzione al prezzo da parte dei consumatori, una maggiore attenzione al prezzo anche da parte della GDO “tradizionale” (basata sulla formula del supermercato), attraverso un riposizionamento delle marche del di-stributore verso fasce di prezzo più elevate (anche con la finalità di accrescere la store loyalty) e mediante l'introduzione e il rafforzamento delle “terze marche” e dei “primi prezzi”.

La quarta fase vede dunque anche il passaggio dalla brand-loyalty alla store-loyalty. Se prima il consumatore si mostrava cioè “fedele alla marca”, in particolare della grande industria alimentare, sempre più le imprese della GDO cercano di svilup-pare una “fedeltà alla (propria) impresa”, cercando di aumentare il livello di differen-ziazione tra i propri assortimenti e quelli delle imprese concorrenti della GDO, in mo-do cioè che i consumatori scelgano il proprio punto vendita perché solo lì riescono a

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trovare determinate tipologie di prodotto e qualità nel servizio commerciale. Lo sviluppo di autonome politiche di marketing da parte delle imprese della

GDO necessita di attivare notevoli investimenti volti a promuovere la propria “inse-gna”, non solo mediante investimenti pubblicitari e promozionali, ma anche ri-qualificando continuamente i propri assortimenti, ad esempio attraverso l'introduzione di prodotti di elevato livello qualitativo ed estendendo lo spazio dedicato ai prodotti freschi (ortofrutta, carni, formaggi).

In quest’ottica sempre più spesso il distributore utilizza il proprio marchio come garanzia per i prodotti che il consumatore trova presso il punto-vendita: tale tendenza è ormai affermata per i prodotti trasformati (derivati del pomodoro, succhi di frutta, ecc.) ove la distribuzione si avvale spesso di grandi aziende che, oltre che detenere propri marchi, producono anche in conto terzi al fine di saturare la propria potenzialità produttiva. La diffusione dei prodotti a marchio proprio (private labels; vedi paragrafo successivo) è comunque in forte sviluppo anche nel comparto dei prodotti freschi (ad esempio nelle carni e nell'ortofrutta).

Queste tendenze evolutive del sistema distributivo offrono alle imprese della tra-sformazione alimentare e alle stesse imprese agricole la possibilità di orientarsi verso specializzazioni diverse, in base alle rispettive dimensioni e risorse (finanziarie, orga-nizzative, umane) disponibili. In sostanza la GDO tende a rivolgersi a fornitori con ca-ratteristiche differenziate (e non più soltanto grandi aziende), che sappiano rispettare in maniera puntuale le esigenze del distributore in termini di tempi e modalità di con-segna e interfaccia informativa, costanza quantitativa e qualitativa delle forniture, etc.).

Dopo tre fasi di sviluppo che vedono un progressivo processo di concentrazione nell’industria alimentare e sui fornitori, la quarta fase fa registrare dunque un parziale effetto di de-concentrazione, aprendo gli spazi a piccole e medie imprese alimentari e agricole che si specializzano sulla fornitura di alcune tipologie di prodotto, e/o sulla fornitura di prodotti a marchio del distributore (private labels), prodotti tipici, prodotti locali, etc. La crescente competizione tra imprese della GDO (da competizione inter-tipo a intra-tipo) apre infatti nuove possibilità per le IAA piccole e medie, e per le IAA e non di marca. Nella GDO la competizione non avviene più solo sul prezzo (conve-nienza) ma sempre più dalla “qualità” dell’assortimento: passaggio da brand-loyalty a store-loyalty.

La quarta fase di sviluppo del sistema agro-alimentare

Competizione intraintra--tipotipo nella GDO

Effetto di DEDE-concentrazione su IAA

Riqualificazione assortimenti

Prodotti freschi e tipici

Nuovo ruolo delle Private Labels

Gli sviluppi della GDO in questa fase favoriscono la diversificazione e la riqualificazione degli assortimenti, e un (parziale) effetto di DE-

concentrazione sull’industria alimentare. Le imprese alimentari non grandi (ma efficienti!), le imprese artigianali, le impre-

se locali, acquisiscono spazi crescenti all’interno dei punti vendita della GDO, in quan-to non devono più necessariamente sostenere, come nelle fasi precedenti, forti investi-menti fissi non recuperabili (pubblicità, ricerca e sviluppo) per “farsi accettare” dalla GDO. Devono però dotarsi di una “capacità di interfaccia” con la GDO in termini di sistemi di ordine e di consegna, garanzie di qualità sul processo e sul prodotto, volumi adeguati e continuità delle forniture, etc.). Naturalmente lo svantaggio per queste im-

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prese alimentari risiede nel forte rischio di dipendenza e di sostituibilità che presenta-no nei confronti della GDO, oltre a doversi esporre alla concorrenza della grande indu-stria alimentare di marca, che resta comunque disponibile a realizzare queste tipologie di forniture sia per “non perdere il cliente” sia per saturare la propria capacità produt-tiva, sia per fare in modo che le piccole-medie imprese non vengano referenziate dalla GDO.

L'effetto di de-concentrazione sull'industria alimentare (vale a dire l'aumento de-gli spazi operativi per imprese di trasformazione di dimensioni non elevate) deriva dunque dal fatto che l’aumento delle competizione all’interno della GDO, favorendo lo sviluppo delle terze marche, dei primi prezzi, e dei prodotti a marchio del distributore, apre maggiori possibilità anche per imprese non note, di dimensioni non grandi ma comunque efficienti sotto il profilo sia tecnico che organizzativo, che si specializzino nella produzione per la GDO; tali imprese possono infatti limitare fortemente i propri investimenti in promozione e pubblicità.

Un effetto simile ha anche la diffusione della ristorazione collettiva privata, aziendale e istituzionale (mense universitarie, ospedali, altre collettività): le imprese della ristorazione collettiva infatti sono particolarmente attente al rapporto tra qualità intrinseca, servizio incorporato e prezzo, mentre in genere è del tutto marginale l'atten-zione posta da esse sui fattori estrinseci di differenziazione.

Un’ulteriore spinta alla de-concentrazione dell'industria agro-alimentare deriva dal fatto che, con l'aumento della competizione inter-store nell'ambito del sistema di-stributivo, aumentano le possibilità di collocamento di prodotti di qualità elevata / lo-cali / freschi / tipici; di quei prodotti cioè che possono a vario titolo contribuire al raf-forzamento dell'immagine dell'insegna del distributore.

Inoltre per le grandi imprese della distribuzione in questa fase è molto importan-te, nel gioco di potere contrattuale che caratterizza il rapporto con le grandi imprese della trasformazione agro-alimentare, cercare di qualificare anche delle fonti alternati-ve di approvvigionamento sia per prodotti a marchio proprio che per i prodotti di qua-lità specifica che consentano di ridurre la dipendenza dalle forniture delle grandi im-prese di trasformazione; anche per questo motivo si riscontra, da parte delle imprese della moderna distribuzione, un certo sviluppo dei rapporti con fornitori di piccole e medie dimensioni e con imprese “regionali”.

Certamente le imprese della trasformazione diventano "dipendenti" per quanto riguarda i propri sbocchi dalla GDO per le quali producono, possono subire compres-sioni di prezzi, e sono abbastanza facilmente sostituibili da parte del committen-te/distributore; su tale segmento poi talvolta operano anche le grandi imprese di mar-ca, al fine di saturare meglio la loro capacità produttiva, per cui la concorrenza si può rivelare molto accesa e anche la permanenza in esso può risultare tutt'altro che facile.

Nell’ambito dell’industria alimentare continuano tuttavia ad operare altri fattori che contro-bilanciano l’effetto di de-concentrazione richiamato, tra cui:

- elementi istituzionali e normativi: ad esempio la diffusione di norme igienico-sanitarie che impongono adeguamenti molto costosi per le imprese, anche di carattere strutturale;

- la necessità di raggiungere una notevole massa critica per poter negoziare mi-gliori condizioni con i fornitori della materia prima agricola e/o per poter consentire l’accesso ai mercati internazionali;

- la necessità di attivare continuamente azioni per la differenziazione dei propri prodotti rende necessario realizzare importanti investimenti nelle attività di ricerca e sviluppo, necessarie per fronteggiare un mercato finale sempre più saturo, e nelle attività di promozione.

3.4. I prodotti a marca commerciale (“private labels”)

I primi prodotti a marchio commerciale (private label) erano soltanto imitazioni, spesso ai limiti del plagio, dei corrispondenti prodotti di marca [Gandolfo e Sbrana, 2003.a]. Oggi esiste una diversificazione delle tipologie dei prodotti a marchio com-merciale, espressione delle tendenze evolutive della GDO e dei rapporti GDO-IAA.

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Le imprese commerciali moderne ritengono compatibile con la propria mission esprimere una autonoma attività innovativa per la gestione dei prodotti a marchio. La distribuzione sta aumentando la propria influenza nel processo di definizione degli aspetti tecnici e di marketing dei prodotti a marchio, e in alcune categorie merceologi-che sta raggiungendo una capacità di innovazione confrontabile con quella espressa dai produttori industriali. Inoltre la distribuzione intensificherà la collaborazione con l’industria per sviluppare nuove tipologie di referenze a marchio, caratterizzate da punti di forza diversi rispetto a quello tradizionale della «convenienza».

I passaggi più significativi dell’evoluzione dei prodotti a marchio possono essere sintetizzati in quattro fasi, a cui corrispondono altrettante generazioni di prodotti Pri-vate Label.

La prima generazione

L’introduzione negli assortimenti dei primi prodotti PL corrisponde all’epoca in cui la mission della GDO consisteva nella ricerca delle condizioni di massima efficienza nel processo di trasferimento ai consumatori finali di beni progettati e fabbricati dall’industria.

Le decisioni riguardanti il design del prodotto e la gestione delle leve di marke-ting in termini di scelta del canale distributivo e del prezzo al consumo erano comple-tamente nelle mani dei fornitori (IAA). I prodotti PL erano banali imitazioni dei pro-dotti leader, nelle merceologie a maggior rotazione, vendute a prezzi più convenienti rispetto agli analoghi prodotti di marca. La distribuzione, infatti, negoziando gli ordini con fornitori impegnati a saturare la propria capacità produttiva riusciva a ottenere condizioni di acquisto particolarmente favorevoli.

Questi prodotti procuravano importanti vantaggi per la distribuzione: un miglio-ramento della propria marginalità e del livello di servizio commerciale, grazie alla maggiore completezza degli assortimenti, e un contributo alla creazione e al consoli-damento dell’immagine unitaria tra i punti vendita appartenenti alla medesima orga-nizzazione commerciale.

Le generazioni di prodotti a marchio commerciale

Assenza diinnovazione Prima generazione

PL = cloni convenienti

Contenuto innovativodei prodotti a marchio

Innovazione relativa ad aspetti di

marketing

Innovazione relativa ad aspetti collegati al

prodotto

Innovazione relativaad aspetti collegati al

posizionamento

Seconda generazionePL = prodotti value for money

Terza generazionePL = prodotti di marca, ma diversi

Quarta generazionePL = prodotti innovativi

Anni ‘70

Anni ‘80 Anni ‘90 Anni ‘00

Rilevanza strategica dei prodotti a marchio

Periodi (indicativi)

Assenza diinnovazione Prima generazione

PL = cloni convenienti

Contenuto innovativodei prodotti a marchio

Innovazione relativa ad aspetti di

marketing

Innovazione relativa ad aspetti collegati al

prodotto

Innovazione relativaad aspetti collegati al

posizionamento

Seconda generazionePL = prodotti value for money

Terza generazionePL = prodotti di marca, ma diversi

Quarta generazionePL = prodotti innovativi

Anni ‘70

Anni ‘80 Anni ‘90 Anni ‘00

Rilevanza strategica dei prodotti a marchio

Periodi (indicativi)

Assenza diinnovazione Prima generazione

PL = cloni convenienti

Contenuto innovativodei prodotti a marchio

Innovazione relativa ad aspetti di

marketing

Innovazione relativa ad aspetti collegati al

prodotto

Innovazione relativaad aspetti collegati al

posizionamento

Seconda generazionePL = prodotti value for money

Terza generazionePL = prodotti di marca, ma diversi

Quarta generazionePL = prodotti innovativi

Anni ‘70

Anni ‘80 Anni ‘90 Anni ‘00

Rilevanza strategica dei prodotti a marchio

Periodi (indicativi)

Il distributore commissionava il prodotto al fornitore industriale senza entrare

nel merito degli aspetti progettuali e realizzativi e non era prevista la possibilità di ri-chiedere modifiche alle specifiche tecniche indicate «a catalogo» dal produttore. I rap-

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porti IAA-GDO erano di natura conflittuale e la negoziazione avveniva generalmente in un clima di reciproca diffidenza. Il distributore assume quindi un ruolo di marketing limitato e i prodotti acquistano una specifica identità di insegna soltanto grazie all’etichettatura, mentre il contributo della GDO sul piano innovativo è pressoché ine-sistente.

Con questo concept di prodotto, il distributore si rivolgeva al target dei consuma-tori sensibili al prezzo – le PL della prima generazione, infatti, costavano circa il 20% in meno rispetto alle marche leader – e poco sensibili al richiamo della marca. Nella prima fase infatti la concorrenza si svolgeva soprattutto tra formule distributive diverse sulla base del prezzo degli assortimenti (concorrenza inter-tipo col dettaglio tradizionale), e le PL a basso prezzo erano un modo di attrarre consumatori.

La seconda generazione

Le imprese commerciali iniziano a capitalizzare i vantaggi collegati alla posizione privilegiata derivante dal contatto quotidiano e diretto con i consumatori finali. Negli assortimenti vengono introdotte nuove referenze a marchio in grado di sostenere un posizionamento più impegnativo rispetto a quello della generazione precedente. La qualità media delle PL raggiunge livelli simili ai prodotti di marca, mentre il numero delle linee di PL presenti in assortimento aumenta fino a coprire tutte le principali merceologie.

Il livello medio dei prezzi, inferiore del 5-10% rispetto a quello delle marche na-zionali leader, rappresenta ancora un importante elemento di valutazione per il con-sumatore, ma non è più né l’unico aspetto considerato né quello decisivo. Si assiste ad un maggiore impegno della distribuzione nella definizione della propria offerta a mar-chio. Inoltre, il potere contrattuale che in quel periodo – che corrisponde indicativa-mente al decennio ’80–‘90 in Italia - la distribuzione aveva acquisito nei confronti dell’industria un potere tale da indurre i fornitori ad assecondare le richieste delle in-segne relative non solo alle quantità di PL da produrre, ma anche quelle relative a mo-difiche che divenivano sempre più frequenti ed invasive rispetto alla configurazione originaria del prodotto.

Tuttavia le imprese commerciali non seguivano ancora un’autonoma strategia di marca, e la giustificazione economica della presenza delle PL sul mercato non poteva prescindere dal richiamo alla convenienza, anche se i risultati ottenuti nel migliora-mento della qualità media dei prodotti a marchio rendeva accettabile ai consumatori la riduzione della forbice di prezzo rispetto alle marche nazionali.

La capacità di differenziazione e innovazione continua ad essere delle imprese industriali. Tuttavia è in corrispondenza di questa fase che si rileva per la prima volta una forma blanda di innovazione nei prodotti del distributore. Si tratta di un’innovazione che nella maggioranza dei casi nasce in modo spontaneo in seguito alle modifiche e alle va-rianti introdotte su indicazione dei retailer nella ver-sione standard del prodotto a marchio proposta dai fornitori e che possono riguardare le materie prime, le varianti (nei colori o nei gusti disponibili) e i formati.

La terza generazione

Agli inizi degli anni ’90, in Italia si registra la ri-duzione del peso delle marche nazionali ed una forte crescita della presenza delle PL e, contestualmente, dei primi prezzi. Cresce l’autonomia di marketing dei di-stributori nei confronti dell’industria. Il distributore esercita un controllo più incisivo e rivolto ad un mag-gior numero di aspetti delle produzioni a marchio. Per le imprese industriali, l’accettazione di tali condizioni spesso rappresenta un requisito per avere accesso con i propri prodotti agli scaffali dell’insegna.

Mentre le prime due generazioni di prodotti a marchio erano state «garantite» ai consumatori dall’insegna che attraverso il logo tra-

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sferiva i valori del proprio brand al prodotto, con la terza generazione è il prodotto a marchio che inizia a trasferire valori positivi sull’insegna, offrendo un contributo rile-vante nell’ambito delle strategie di consolidamento del brand e di fidelizzazione al punto vendita.

Le PL di questa nuova generazione sono caratterizzate da standard qualitativi ancora più elevati e, in alcuni casi, il loro concept di prodotto anticipa alcune tendenze del mercato (ad esempio la ricerca di prodotti alimentari più genuini, senza conservan-ti o con trattamenti chimici ridotti).

Questo nuovo approccio viene adotta-to anche in Italia da Coop che introduce nel-le proprie linee a marchio rilevanti novità nelle modalità di presentazione di prodotto, arricchendo le etichette di nuove informa-zioni sulle caratteristiche degli ingredienti e sui relativi apporti nutrizionali. Nello stesso periodo nasce la linea «Prodotti con Amore» per le carni e l’orto-frutta. Puntando su un rigoroso controllo di qualità e sulla produ-zione integrata, si intendeva caratterizzare in modo diverso queste linee di prodotti a marchio, dotandole di maggiore visibilità e originalità rispetto alle altre famiglie di PL tradizionali.

Le PL III generazione sono percepite dai consumatori come prodotti di pari di-gnità e allo stesso tempo «diversi» (talvolta migliori). In questa fase le imprese com-merciali iniziano a dotarsi delle competenze in ambiti diversi da quelli legati alla mis-sion storica, entrando con decisione nel merito dei processi di produzione e del control-lo di qualità. Si registra anche un’estensione a PL di categoria, soprattutto nel settore degli alimentari freschi (carne, ortofrutta, latticini).

La quarta generazione

L’impresa commerciale inizia a progettare e lanciare sul mercato – da sola o in collaborazione con i fornitori industriali – prodotti a marchio ad elevato contenuto di innovazione. Sfruttando la propria posizione di anello finale della filiera, le imprese commerciali hanno avuto la possibilità di rilevare la presenza di uno spazio di mercato per categorie di prodotti a marchio posiziona-te in modo diverso e, in particolare, connotate da una forte valenza di brand.

La GDO assume il ruolo di garante non solo della genuinità intrinseca del prodotto, ma anche della quali-tà dell’intera «filiera», rispetto a tutti gli ingredienti uti-lizzati nell’ambito dei processi di produzione.

Introduzione di PL di nuova concezione, i quali senza rinunciare alla tradizionale immagine di conve-nienza, puntano sull’offerta al pubblico di una nuova dimensione di garanzia di qualità basata sulla traccia-bilità di filiera dei prodotti.

Le reazioni dell’industria alle private labels

L’introduzione delle prime tipologie di PL è stata accolta con sospetto dall'IAA di marca, in quanto:

- le PL costituivano una minaccia di erosione delle quote di mercato dei prodot-ti di marca;

- il consumatore poteva diventare troppo sensibile al solo fattore prezzo. L'IAA ha inoltre accettato malvolentieri la produzione per conto del distributore,

dal momento che: - l’impegno supplementare richiesto alle imprese di marca rende più complessa

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2. Agricoltura e sistema agro-alimentare

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la gestione del sistema produttivo e distrae risorse umane e finanziarie dalle attività core;

- è sempre presente il rischio che il distributore receda dal rapporto, anche nei casi in cui il fornitore abbia sostenuto investimenti notevoli per soddisfare le richieste del committente.

In effetti l’ostilità dei produttori era giustificata: le PL di tipo tradizionale hanno sottratto quote di mercato ai prodotti di marca industriale ed oggi sono un’alternativa alle marche leader. Tuttavia, è proprio nell’ulteriore evoluzione delle PL che possono essere individuate opportunità di collaborazione tra IAA e GDO su nuove basi nego-ziali. E’ possibile distinguere tra due atteggiamenti strategici nei confronti delle PL:

1) la grande IAA con consolidata immagine di marca: è il fornitore meno interessato a col-laborazioni di questo tipo. In genere stringe accordi con i distributori limitati alla forni-tura di PL di tipo tradizionale, sulla base di motivazioni di natura tattica, legate allo sfruttamento della propria capacità produt-tiva inutilizzata.

2) la piccola e media IAA è quella più disponi-bile a collaborare e ad assecondare le richie-ste della GDO che esulano dagli standard previsti a catalogo. Infatti può rappresentare un’occasione per realizzare l’idea innovativa e sperimentare il lancio di nuove tipologie di prodotto senza sostenere i costi di promozione pubblicitaria e al trade; infatti il distributore condivide la responsabilità del lancio del prodotto facendosi carico di parte del sostegno promozionale, o non gravando il forni-tore dei premi di referenziamento. I PL di alta qualità, inoltre, forniscono an-che ai produttori di medie dimensioni un’arma importante per attaccare i principali concorrenti orizzontali. La piccola impresa può così crescere rag-giungendo la massa critica necessaria per raggiungere gli obiettivi in termini di profittabilità e uno standard qualitativo elevato nei prodotti. Evidentemen-te c’è il rischio derivante dal forte vincolo di dipendenza dalla GDO, che as-sorbe gran parte di output dell’impresa.

3.5. Reazioni e atteggiamenti strategici dell’industria alimentare e delle imprese agricole

Le strategie dell’industria alimentare

Come si è visto, col progressivo rafforzamento delle imprese della GDO, l’industria alimentare, che aveva assunto la leadership del sistema agro-alimentare nel-le prime fasi di sviluppo, perde la propria posizione di centralità e funzione di regola-zione e direzione del sistema.

La marca industriale perde parte del proprio potere di condizionamento verso il consumo, la fedeltà alla marca è sostituita progressivamente dalla fedeltà al punto-vendita e, semmai, alla marca commerciale.

Sia le differenze riscontrabili a livello di tipologia di prodotto e di conseguente possibilità di pervenire a una effettiva “industrializzazione” dei processi produttivi, che le prospettive aperte dalla recente evoluzione del sistema distributivo, rendono la situazione all’interno del settore dell’industria alimentare molto diversificata.

Da una parte si è assistito all’aumento dell’importanza dei grandi gruppi, spesso multinazionali, la quale è stata realizzata in parte significativa mediante operazioni di acquisizione di imprese piccole e medio-piccole ma spesso dotate di marchi e di una buona immagine nei confronti del consumatore, pur se su scale territoriali limitate. Le acquisizioni molto spesso sono motivate da finalità di carattere strategico, riconducibili ai seguenti aspetti:

- penetrazione del mercato locale da parte di imprese multinazionali; - consolidamento o incremento della quota, e soprattutto del potere, di mercato:

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vale a dire migliorare la capacità di condizionare il gioco competitivo con le imprese rivali e con la GDO;

- valorizzazione delle interdipendenze a livello di marketing e di rete commer-ciale, in particolare economie di scopo tecniche o di marketing, migliore ge-stione dell'approvvigionamento di materie prime.

E' andato dunque aumentando in numerosi comparti il peso dei grandi gruppi multinazionali, particolarmente massiccia nei mercati dotati di migliori prospettive di sviluppo, quelli delle produzioni salutistiche (ad eccezione del latte alimentare) e ad alto valore aggiunto.

L’aumento dell’importanza delle imprese multinazionali ha accresciuto il livello di internazionalizzazione dell’industria agro-alimentare, che si manifesta sia sui mer-cati di approvvigionamento delle materie prime e semilavorati che sui mercati di collo-camento dei prodotti finiti, ma anche sulla articolazione dei processi produttivi (le cui varie fasi vengono “collocate” in diversi parti del globo a seconda dei vari fattori di convenienza - costo del lavoro, delle materie prime, normative di impatto ambientale, sistema fiscale, ecc.) e sugli assetti proprietari.

Dall’altra parte però si assiste anche alla persistenza di un numero elevato di pic-cole e medie imprese, soprattutto in alcuni comparti. Il peso delle grandi imprese è in-fatti particolarmente importante nei settori dei beni alimentari di carattere non prima-rio, facilmente differenziabili mediante politiche di marca, ad alto valore aggiunto e a fatturato percentualmente basso rispetto a quello totale del settore dell'industria agro-alimentare; tali mercati hanno in molti casi natura oligopolistica con elevate barriere all'entrata, ai quali le considerazioni sopra svolte si applicano integralmente.

Ma anche all'interno della componente più "arretrata" dell'industria alimentare si devono operare delle differenziazioni tra una componente più dinamica, costituita da imprese innovative e in grado di competere strategicamente con quelle di grande di-mensione, ed una componente tradizionale, costituita da aziende che si limitano alla prima trasformazione dei prodotti agricoli (cioè alla effettuazione di operazioni di pri-ma lavorazione, finalizzate alla produzione di semilavorati e non di beni di consumo finale) e producono alimenti altamente omogenei, di ampio mercato e scarsamente dif-ferenziabili; queste imprese "tradizionali" costituiscono un settore privo di rilevanti barriere all'entrata (se non talvolta quelle di natura tecnologica), sono dotate di uno scarso potere di mercato e fondano la loro concorrenza essenzialmente sul prezzo.

L’influenza della tecnologia disponibile, della dimensione raggiunta e del diverso rapporto con la GDO può consentire di individuare schematicamente la presenza di tre fondamentali orientamenti strategici all’interno dell’industria agro-alimentare:

a) una strategia “di contrasto” verso la GDO, che mira cioè ad opporsi frontal-mente al travaso di potere a favore delle imprese della GDO mirando all'au-mento della propria quota di mercato e delle proprie dimensioni, alla titolarità di marchi noti e alla realizzazione di massicci investimenti pubblicitari al fine di mantenere e consolidare la posizione di tali marchi. Tale strategia è perse-guibile dalle imprese leader nei vari comparti e/o ai grandi gruppi alimentari, in considerazione della grande disponibilità di risorse (umane e finanziarie) che richiede e della conseguente necessità di sfruttare economie di scopo a li-vello sia di marketing che di rete commerciale;

b) una strategia di supporto, orientata prevalentemente - come la prima - alla GDO, ma in una logica di “supporto” o di “servizio” piuttosto che di contra-sto. Tale orientamento consiste nell'offerta agli operatori commerciali di pro-dotti che consentano a questi ultimi di realizzare elevati margini di profitto, prodotti di livello qualitativo accettabile ma a basso costo destinati ad essere inseriti negli assortimenti quali terze marche, primi prezzi o prodotti a mar-chio del distributore. Tale strategia può essere perseguita anche da imprese piccole e medie dotate di minori risorse, ma le rende estremamente dipendenti dalle scelte di assortimento delle imprese distributive oltre che sempre più “lontane” dalla conoscenza del mercato finale, venendo meno il contatto col consumatore finale che è invece nelle mani della GDO. La leva per dare mag-giore stabilità al rapporto con la GDO risiede nello sviluppare un’elevata ca-pacità di interazione logistica, anche se sotto questo profilo esse risentono del-

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la crescente concorrenza della grande industria che si orienta verso tali tipolo-gie di prodotto al fine di saturare la propria capacità produttiva;

c) una strategia “di nicchia”. Essa punta sulla specializzazione e sulla segmenta-zione del mercato piuttosto che sui mercati di massa e sul conseguimento di elevati volumi, ed è incentrata sulla realizzazione di prodotti che tentano in via principale di posizionarsi favorevolmente rispetto alle tendenze dei con-sumi che originano dalle variabili di natura socio-culturale (elevata immagine, valenze salutistiche o ecologiche, tipicità, ecc.), utilizzando anche lo strumento delle denominazioni di origine (denominazione di origine protetta e indica-zione geografica protetta, regolate dalla normativa comunitaria; marchi collet-tivi territoriali di vario genere; ecc. ). Il canale di vendita tipico di tali prodotti è quello del piccolo dettaglio prevalentemente specializzato (che consente di ottenere le condizioni di vendita più favorevoli) e delle piccole imprese distri-butive regionali, ma come si è visto spazi crescenti possono essere conquistati anche nei punti vendita della GDO di maggiori dimensioni. Tale strategia può essere perseguita da quelle imprese anche di piccole dimensioni ma dotate di risorse e capacità che consentono loro l'attuazione di politiche di marca, pur se incentrate spesso su mercati locali o regionali.

I rapporti dell’agroindustria con il consumo e con il settore agricolo

Le dinamiche sopra evidenziate rendono oggi la posizione dell’industria di tra-sformazione nell’ambito del sistema agro-alimentare più debole che in passato, a causa della forte perdita di potere contrattuale nei confronti della GDO. In ogni caso l’industria agro-alimentare continua a giocare un ruolo molto importante nelle dinami-che del sistema agro-alimentare, in quanto è in grado di esercitare ancora un forte po-tere di condizionamento sia nei confronti del consumo finale che nei confronti del set-tore agricolo.

Nei confronti della domanda l'industria agro-alimentare ha assunto un notevole potere di condizionamento, contribuendo a determinare una omogeneizzazione dei gusti e una standardizzazione dei consumi (e addirittura una loro internazionalizza-zione).

Con l’affermazione della GDO e con la concentrazione del settore distributivo, la brand loyalty è stata in parte sostituita dalla store loyalty; oggi l’industria agro-alimentare, salvo alcune grandi imprese che hanno realizzato con successo la strategia “di contrasto” rispetto alle imprese della GDO, ha in parte perduto il potere di condi-zionamento della marca rispetto al consumatore finale.

Nel nuovo contesto competitivo aumenta comunque la competizione sulla quali-tà da parte delle imprese agro-alimentari, qualità che è in parte solamente di tipo “commerciale” (derivante da aspetti quali packaging, promozione, presentazione) mentre in parte minore di tipo anche “sostanziale” (effettivo aumento della qualità in-trinseca del prodotto, anche mediante impiego di inputs più qualificati).

Nei confronti delle imprese agricole, l'industria agro-alimentare non costituisce più un semplice “prolungamento” delle attività di coltivazione e di allevamento, ma anzi acquista potere trainante e condizionante verso di essa. L'industria agro-alimentare infatti adotta spesso processi continui basati su tecnologie moderne e che richiedono forti investimenti, e punta a realizzare volumi crescenti di output, al fine di conseguire economie di scala ed essere maggiormente competitiva in termini di prezzo.

Rispetto ai rapporti con l'agricoltura si possono isolare da parte delle imprese della trasformazione due atteggiamenti strategici di base, in parte alternativi:

1. il controllo indiretto della produzione agricola: le caratteristiche assunte dai processi di trasformazione agro-alimentare (in particolare l'adozione di pro-cessi continui, automatizzati e fortemente capitalizzati) implicano una crescen-te esigenza di controllo sulla materia prima da immettere nel processo di tra-sformazione, controllo che riguarda numerosi aspetti quali: la predetermina-zione delle quantità di materia prima da trasformare e la loro esatta distribu-zione temporale (tanto più dettagliata quanto più la materia prima è deperibi-le), le caratteristiche intrinseche della materia prima, i metodi di coltivazione o

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allevamento utilizzati, la omogeneità dei vari lotti, il contenuto di servizi ag-giuntivi, ecc. La necessità di controllo sulla materia prima è spesso fortemente incrementata dall’introduzione di innovazioni di prodotto e di processo. Per questi motivi dunque le imprese di trasformazione sono spinte sempre più a strutturare sulla base delle loro esigenze la fase della produzione agricola. Risultando decisamente anti-economico integrare in via totale la fase della produzione agricola, l'industria di trasformazione in particolare ricerca un maggiore coordinamento verticale con la produzione agricola, soprattutto per mezzo di contratti di integrazione verticale parziale (vedi capitolo successivo), cercando di predeterminare tra l'altro quantità, qualità e caratteristiche mer-ceologiche dell'input agricolo, tempi di consegna, prezzi, ma anche le stesse tecniche produttive utilizzate dall'agricoltore. Questi fini vengono a volte per-seguiti da parte delle maggiori imprese agro-alimentari gestendo, direttamen-te o per il tramite di società specializzate, dei servizi di ricerca e sviluppo e di divulgazione, che mirino alla messa a punto e alla diffusione di metodi pro-duttivi per l'agricoltura funzionali alle proprie esigenze.

2. lo sganciamento da basi territoriali precostituite: è soprattutto mediante l'in-ternazionalizzazione degli approvvigionamenti che le grandi imprese agro-alimentari, stimolando la produzione agricola in più parti del globo e gesten-do secondo appropriati orientamenti strategici gli acquisti, riescono a "mettere in concorrenza" produttori agricoli di Paesi molto distanti. Ciò incrementa la turbolenza sui mercati mondiali e la concorrenza tra agricoltori di Paesi diver-si (maggiore competizione sia nelle esportazioni che sui mercati interni), non-ché gli interventi degli Stati sulla regolamentazione degli scambi con l'estero; gli stessi agricoltori nella messa a punto delle loro strategie devono quindi sempre più tenere conto di ciò che accade sull'intero mercato mondiale. La segmentazione di numerosi processi produttivi agro-alimentari resa possi-bile dallo sviluppo tecnologico consente di ricorrere a una internazionalizza-zione degli approvvigionamenti - grazie alla possibilità di ottenere dei semila-vorati facilmente conservabili e trasportabili - anche per quei prodotti che un tempo richiedevano una stretta vicinanza tra imprese di trasformazione e ba-cini di produzione della materia prima agricola. La strategia dello sganciamento da basi territoriali precostituite risulta in ge-nere più diffusa per le materie prime “standard”, rispetto alle quali cioè le esi-genze dell’utilizzatore industriale non sono altamente specifiche e per le quali si è maggiormente sviluppato un mercato di scambio a livello internazionale, ma si va diffondendo anche per le materie prime con caratteristiche più speci-fiche. In questo caso però spesso è necessario per le grandi imprese agro-alimentari realizzare investimenti diretti all’estero in stabilimenti di prima tra-sformazione (nei quali ottenere semilavorati conservabili e trasportabili), op-pure stringere accordi di fornitura con imprese locali già esistenti ma che sia-no in grado di adeguarsi alle specifiche richieste con un elevato grado di affi-dabilità. Gli investimenti all'estero diventano comunque una componente sempre più importante delle strategie di sviluppo della moderna industria agro-alimentare, in quanto essi permettono tra l'altro un migliore accesso alle fonti di approvvigionamento delle materie prime, di espandere i mercati dei propri prodotti e di meglio ripartire i costi di innovazione; si nota anche un aumento dei trasferimenti di tecnologie, soprattutto verso i paesi meno sviluppati.

Le strategie dell’agricoltura

La pressione esercitata dalle forze dominanti del sistema agro-industriale mette alla prova le capacità di reazione del settore agricolo, che manifesta strutture organiz-zative e meccanismi di risposta molto variabili, soprattutto in funzione del modo di fa-re agricoltura delle singole imprese [Van der Ploeg, 1996] più che della dimensione del-le stesse.

L'adattamento alle richieste dei grandi interlocutori comporta l'adozione di strumenti informativi e organizzativi avanzati implicano la presenza e lo sviluppo di

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2. Agricoltura e sistema agro-alimentare

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capacità imprenditoriali e di tecniche di produzione e commercializzazione più mo-derne, non sempre facilmente reperibili all'interno del settore agricolo.

Un'alternativa, che in certe situazioni può riscuotere maggior successo (vedi capi-tolo 5), consiste in un maggior orientamento verso altri canali/interlocutori, spesso più diretti, saltando quindi i grandi interlocutori. Il che significa sia utilizzare i canali più tradizionali (piccole industrie locali, mercati all'ingrosso e dettaglio tradizionale, ecc.) che rivolgersi a canali più nuovi, quali vendita diretta, negozi specializzati, esportazio-ne.

In entrambi i casi, ovvero tanto che l'inserimento del prodotto sul mercato av-venga tramite canali "globali" che "alternativi", la scelta della modalità di adattamento dell'agricoltura moderna alle nuove tendenze del sistema agro-industriale non potrà essere operata semplicemente in riferimento alla tipologia di prodotto realizzata, quan-to sulla base delle caratteristiche dell'imprenditorialità agricola e del livello organizza-tivo presente nel settore e nelle singole imprese.

Il settore agricolo, pur essendo ancora caratterizzato dalla persistente presenza di numerose piccole imprese, è sempre più di frequente chiamato ad aumentare la propria capacità di gestione dei rapporti intersettoriali (verticali) con realtà territoriali molto distanti e con imprese di rilevanti dimensioni. In questa direzione assumono una importanza preminente le capacità innovative a li-vello organizzativo che consentano di stringere contatti stabili con le fasi a monte e a valle riducendo l'incertezza dei mercati, di at-tenuare la posizione di debolezza contrattuale, di trasmettere agli utilizzatori i requisiti qualitativi delle produzioni tenuto conto che la "qualità di conformità" (vale a dire l'adeguamento del prodotto agli standard dettati dagli utilizzatori intermedi - trasformazione e/o distribuzione - o finali) rappresenta oggi una scelta obbligata per restare sul mercato.

In ogni caso le prospettive del sistema rendono necessario il perseguimento di una continua valorizzazione e differenziazione qualitativa delle produzioni, sulle cui modalità, oltre alla tipologia del prodotto stesso e alla struttura dei mercati, incidono soprattutto le caratteristiche strutturali e le capacità dell'impresa (e dei sistemi di im-prese, anche territoriali). Il numero di casi in cui la competizione continuerà a giocarsi sul versante del prezzo, e quindi del costo di produzione, appare infatti in diminuzione per l'aumentata concorrenza derivante dall'apertura dei mercati e dalla continua cresci-ta di importanza delle produzioni realizzate in aree che possono meglio competere su questo fronte. In queste situazioni il settore agricolo, non disponendo di un elemento su cui poggiare "rivendicazioni", si troverà sempre più esposto alla competizione su di un mercato di approvvigionamento globale, in cui gli investimenti in strutture e tecno-logie finalizzate alla competitività di costo costituiscono tuttora una condizione neces-saria di successo, anche se non più sufficiente a garantire all'impresa agricola un van-taggio competitivo sufficiente e duraturo.

Una strada sempre più indicata per perseguire la differenziazione qualitativa è rappresentata dalla rivalutazione dei legami tra agricoltura e territorio, intesi nella di-mensione culturale (produzioni tipiche e/o di elevata qualità intrinseca, fornitura di servizi agrituristici), nella dimensione intersettoriale (con l'attivazione o il potenzia-mento dei collegamenti con le attività turistiche, artigianali, piccolo-industriali25 e dei servizi), e nella dimensione ambientale, che si manifesta nell'impiego di tecniche pro-duttive più soft (ad esempio produzioni biologiche o a lotta integrata) e nella funzione di presidio e di tutela del territorio e del paesaggio26. Questa strada è spesso presentata

25 In questa direzione un ruolo importante è assegnato anche all'industria di trasformazione a livello loca-le, di piccola dimensione, basata sulla lavorazione di materie prime locali mediante processi tradizionali o comunque di carattere artigianale. 26 In questa ottica di sviluppo rurale anche le aziende agricole situate in aree particolarmente svantaggiate e quelle non professionali, che sarebbero destinate a una progressiva emarginazione dai canali globali, rive-stono un ruolo importante, non solo per le funzioni esercitate rispetto alla tutela dell'ambiente e del pae-saggio e più in generale per il mantenimento del "clima rurale" (sociale, culturale, di immagine complessi-va), ma anche in chiave produttiva, costituendo infatti un interessante supporto all'attività delle aziende professionali, alle quali cedono spesso competenze tecniche, forza lavoro, materia prima.

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come "via di uscita" dal modello "tendenziale"27 della globalizzazione e massificazione dei mercati e dalle pressioni dei grandi interlocutori di filiera, ed espressione di cre-scente libertà e di un recupero di margini di autonomia del settore agricolo nei con-fronti degli operatori a valle nella filiera, non solo in un'ottica di appropriazione del va-lore aggiunto, ma anche in quella di riappropriazione di valori e di autodeterminazio-ne del percorso di sviluppo.

Tuttavia anche su questi mercati la competizione è sempre più accentuata, non solo per l'affacciarsi di un numero elevato di prodotti concorrenti, ma anche per la cre-scente occupazione diretta di spazi da parte della grande industria e della GDO [Cana-li, 1996], le cui strategie produttive e commerciali fanno sempre più spesso leva su prodotti ecocompatibili (in particolare realizzati con metodi di lotta integrata) e/o tipi-ci, di cui in molti casi si fanno garanti in prima persona, anche per le attuali carenze dell'offerta. Se infatti fino ad oggi in Italia la moderna distribuzione28 non si è mostrata particolarmente propensa ad inserire in assortimento i prodotti tipici e locali, questo è in larga parte dovuto all'eccessiva frammentazione delle aziende agricole e artigianali fornitrici e alla contemporanea carenza di strutture intermedie in grado di realizzare una sufficiente concentrazione della produzione e di rispettare i rigidi standard sulle caratteristiche del prodotto e sulle modalità di consegna e di presentazione. Inoltre l'accesso agli scaffali presenta costi elevati, soprattutto se la commercializzazione si ba-sa su produzioni limitate e non sufficientemente riconosciute e richieste dal consuma-tore.

In questi casi dunque la commercializzazione effettuata ricorrendo ai canali "glo-bali" porta il settore agricolo a rischiare una possibile “indifferenziazione di un prodot-to differenziato”: il recupero di margini di autonomia dovrebbe dunque passare da una differenziazione, oltre che di prodotto, soprattutto di canale, ovvero di modalità di vendita in senso lato del prodotto/servizio, tramite ad esempio il rafforzamento dei canali "alternativi" come la vendita diretta in azienda, l'agriturismo, i negozi specializ-zati, la ristorazione locale e non, le esportazioni, puntando su di un mercato che non può essere legato solo a un consumatore "esterno" (e quindi alle esportazioni extra-regionali, ai flussi turistici e agro-turistici, culturali, o di escursionisti "della domeni-ca"), ma che si deve consolidare anche presso la popolazione locale, sia rurale che delle aree urbane limitrofe.

Il generale consenso dell'opinione pubblica e del legislatore (ai vari livelli) circa le opportunità offerte da questa nuova visione prospettica per l'agricoltura (vedi oltre) porta spesso ad "emarginare" le produzioni (e di conseguenza le agricolture) più espo-ste alla concorrenza dei mercati globali. Ma la considerazione circa l'opportunità di puntare maggiormente sulla valorizzazione e differenziazione qualitativa è valida (for-se ancora di più) anche relativamente a queste produzioni che contribuiscono in misu-ra significativa al mantenimento dell'attività agricola sul territorio, contribuendo quin-di al raggiungimento di obiettivi non solo economici, ma anche sociali, culturali, am-bientali.

Le modalità di valorizzazione delle produzioni più "esposte" rispetto a quelle "specifiche" (di un territorio, di una tradizione, o anche di un know-how) prevedono in gran parte strumenti diversi, variabili a seconda delle caratteristiche strutturali e delle dotazioni di risorse fisiche e umane delle imprese, ma interessano in primis l'organiz-zazione economica dei produttori agricoli e le modalità di rapportarsi ai "grandi" inter-locutori, oltre che una differenziazione qualitativa dei prodotti forniti, la cui domanda

27 Per modello tendenziale si fa qui riferimento ad un modello imperniato sulla produzione di massa e sul consumo di prodotti standardizzati, ed è riconducibile all’applicazione dei principi della modernizzazione e del fordismo: sul fronte industriale la possibilità di realizzare economie di scala comporta l'affermazione di imprese di grandi dimensioni che adottano processi ad elevata intensità di capitale, mentre sul fronte agricolo comporta l'estensione dei metodi di produzione meccanizzati e ad alto impiego di input, tipici delle colture industriali (ad esempio pomodoro, semi oleosi, frumento, barbabietola, alcune ortive), diffi-cilmente differenziabili, e il cui inserimento sul mercato è oggi sempre più regolato dai vincoli dettati dalla normativa comunitaria e dalle esigenze della grande industria e della moderna distribuzione. 28 In realtà le possibilità per l'introduzione di prodotti locali e tipici negli assortimenti della moderna di-stribuzione variano in funzione della tipologia aziendale, ed è solitamente maggiore nel caso della distri-buzione organizzata rispetto alla grande distribuzione succursalista.

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si fa sempre più articolata e specifica. Infatti le imprese agricole coinvolte presentano una figura di imprenditore che progressivamente, per effetto dell'inserimento sul mer-cato globale, perde gradi di autonomia a favore sia degli operatori a valle che dei forni-tori di input e servizi; il raggiungimento di determinati requisiti qualitativi minimi ri-chiede spesso la costituzione di efficienti livelli organizzativi superiori (cooperative, consorzi, Associazioni di produttori) in grado di realizzare su base associativa quelle condizioni - dimensione e omogeneità delle partite, coordinamento temporale, ade-guamento varietale e tecnologico - necessarie per l'interfaccia con le esigenze delle im-prese utilizzatrici (industriali e/o distributive).

Ma la differenziazione della qualità intrinseca è oggi sempre più necessaria anche per quei prodotti fino a pochi anni fa commercializzati in assenza di segmentazione qualitativa, come il frumento, il mais, il girasole, la soia, al punto che anche questi mer-cati vengono a perdere il loro tipico carattere di mercato di massa [Galizzi, 1996], e in molti casi possono ben inserirsi anche all'interno dei nuovi orientamenti di politica agraria e delle nuove richieste del consumatore, sia a livello aziendale che a livello più complessivo di sistema rurale, senza necessariamente significare per l'impresa (o per sistemi, anche territoriali, di imprese) il ripiegare su posizioni subalterne di fronte alla grande industria o alla GDO.

Ne consegue che i dualismi spesso richiamati in riferimento al tipo di prodotto agricolo oggetto di analisi (omologazione / differenziazione, sviluppo endogeno / esogeno, fordismo / post-fordismo, massa / qualità), non dovrebbero essere interpre-tati come alternative che si presentano di fronte all'impresa agricola o al settore agrico-lo nel suo complesso, né quindi come modelli contrapposti anche se conviventi, ma piuttosto in chiave evolutiva, a segnalare cioè la progressiva presa di coscienza che, di fronte all'evoluzione dei mercati moderni, è necessario puntare sulla differenziazione e sull'innalzamento dei livelli qualitativi delle produzioni, pur se con strumenti diversi a seconda delle caratteristiche e delle opportunità di mercato.

Il che non è un'osservazione nuova: nuovo (e mutevole) è però il modo di diffe-renziare, nuova è l'accezione di qualità cui il sistema moderno fa riferimento, ricom-prendendo al suo interno non soltanto una qualità intrinseca e organizzativa, ma anche più in generale la capacità del processo di produzione e del prodotto stesso di creare e trasmettere valori.

Da quanto detto, emerge la necessità di porre in essere azioni di riequilibrio an-che in un'ottica di aumento dell'efficienza complessiva delle filiere agro-alimentari e del sistema agro-alimentare, e non solo della tutela della componente agricola; la quale risulta comunque di fondamentale importanza in quanto, anche nei sistemi produttivi più avanzati, l'agricoltura svolge importanti funzioni al di là di quelle strettamente produttive, quali la tutela dell'ambiente, la preservazione degli equilibri socio-economici e idrogeologici nelle aree rurali in particolare collinari e montagnose, il mantenimento di spazi ricreativi.

Tali azioni di riequilibrio possono avvenire su iniziativa dei soggetti più deboli delle filiere - e in particolare degli agricoltori - mediante un aumento delle relazioni orizzontali e una ricerca di relazioni di natura verticale, su iniziativa dell'operatore pubblico o su iniziativa congiunta delle due parti.

In sintesi, le strategie attivabili da parte delle imprese agri-cole verso l’industria e la GDO sono simili a quelle attivabili dall’industria alimentare, pur con gli adattamenti derivanti dalle particolarità strutturali e con le differenze dettate dalla diversa natura dei prodotti:

a) una strategia “di contrasto”: l’aumento della quota di mercato e delle dimen-sioni (economie di scala), così come politiche di marca, sono precluse dalla particolarità dei processi agricoli. Le strategie di contrasto sono di norma pra-ticabili soltanto attraverso lo sviluppo di forme di aggregazione dell’offerta: da qui l’importanza del ruolo delle imprese cooperative e dell’associazionismo sia nel settore dei prodotti freschi (es. Conerpo, Melinda) che per i prodotti trasformati (ConserveItalia, Cantine Riunite ecc.), ma anche i marchi collettivi. La fase agricola è molto esposta agli effetti della internazionalizzazione dei

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mercati; b) una strategia di supporto: questa deve poggiare su una maggiore attenzione

alla quantità e qualità (dimensione lotti, omogeneità, metodo produttivo, con-trolli), allo sviluppo di servizi (confezionamento, prezzatura, certificazioni, tempi di consegna), alla eventuale fornitura di prodotti a marchio del distribu-tore o per prodotti di qualità specifica. E’ necessario in questo caso concentra-re l'offerta e adattarsi alle richieste (associazioni, cooperative, consorzi, ingros-so) per stabilire relazioni stabili e una più equa ripartizione del valore aggiun-to creato lungo la filiera;

c) una strategia “di nicchia”. Questa strategia si basa sulla specializzazione e sulla segmentazione del mercato, sulla rivitalizazione dei canali tradizionali, dei mercati locali, dei mercati annonari alla produzione e al consumo, ma so-prattutto sull’utilizzo di nuovi canali commerciali: vendita diretta, e-commerce, negozi specializzati, ecc., promuovendo innovazioni di prodotto e una maggiore integrazione tra attività di produzione e attività di servizi per incrementare il valore aggiunto. Anche rispetto a questa strategia si registra l‘importanza crescente della GDO che tende a ri-territorializzare parte degli assortimenti e a qualificarli.

Rapporti agricoltura-GDO: il caso di un’azienda agricola che produce spinaci per la GDO

L'azienda agricola produce spinaci in foglia su terreni in proprietà e affitto; gli spinaci vengono raccolti, poi lavati e imbustati con apposito macchinario di proprietà dell'azienda (produzione IV gamma). Le buste di spinaci sono commercializzate tramite la GDO. Qui di seguito alcune risposte dell’azienda agricola.

D. Fate contratti con la GDO? Il contratto è solo verbale, basato sulla fiducia reciproca (tipologia del meccanismo di coordinamento). Fun-ziona così: per le imprese GDO XXXX e YYYY siamo fornitori unici degli spinaci in busta, mentre alla ZZZZZ siamo fornitori al 70-80% della quota di assorbimento giornaliero che hanno. E io da una parte sono anche contento: quest'anno ad esempio nei primi tre mesi della campagna produttiva eravamo for-nitori al 100%, quindi con un impegno grosso sulle spalle che non devi saltare nemmeno una consegna (regolarità nei tempi delle consegne). Infatti il patatrac è venuto quando c'è stata la nevicata: siamo stati 2-3 giorni senza raccogliere, e se non raccogli con cosa le fai le buste? Le imprese GDO non vuole che si crei-no problemi, e non le interessa se nevica o piove: se sei fornitore al 100% e non riesci a consegnare, ti ri-ducono la quota all'80%, e poi la diminuiscono ancora fino ad escluderti dalla fornitura. Poi ancora fino all'esclusione. Tenete presente che quando subentra un fornitore al 20%, per il nuovo è molto facile fare concorrenza, perché con una quota piccola si può permettere il lusso di rimetterci, pur di far fuori il forni-tore grosso, perché tradotto in euro una fornitura del 20% equivale ad un fatturato di 100-200 euro al giorno. Questo non si può fare quando hai una quota all'80% (concorrenza tra i fornitori).

D. Come vengono stabiliti i prezzi? In base al mercato dello spinacio, quello all’ingrosso. Poi è chiaro che se la GDO viene direttamente da me che sono produttore agricolo, si aspetta anche un prezzo minore, perché scavalca il mediatore (canali diret-ti e semplificazione degli approvvigionamenti), oltre a venire per la maggior freschezza del prodotto. Altri-menti un mediatore è in condizione molto avvantaggiate rispetto ad un produttore agricolo nel dare alla GDO una sicurezza della fornitura, dato che, se manca il prodotto dalla Toscana lo prende in Puglia o in Abruzzo. Per me produttore agricolo è più difficile farlo: innanzitutto più di tanto non posso comprare, altrimenti da azienda agricola passo ad azienda commerciale, con la conseguente perdita di vantaggi fi-scali ecc. Inoltre, se io produttore agricolo mi presento in un'altra zona di produzione e sanno che sono un produttore agricolo, è difficIle che mi diano il prodotto a me, è più facile che lo diano ad un commerciante che glielo prende ogni anno. Quindi a noi se ci serve un ettaro per fare le buste dobbiamo seminare un ettaro e mezzo (conseguenze della necessità di rispettare i tempi di consegna sull'ordinamento produttivo). Se poi il mercato all’ingrosso tira, lo vendiamo, se no lo buttiamo via. Non c'è altra soluzione. La distribuzione della verdura tramite mercati è finita (la situazione dei mercati all’ingrosso). Le piccole bot-teghe – gli ortolani - tendono a sparire, c'è sempre più fretta nel consumatore, che non può perdere più tutta la mattina (tendenza time-saving dei consumi). La GDO non va più a comprare al mercato per tutta una serie di motivi. Prima di tutto per il prezzo. Eppoi se io devo caricare ogni mattina un camion di spinaci, devo farlo da almeno 10 produttori, con 10 tipi di imballaggi, 10 prodotti diversi... Per dire: la YYYYY (impresa GDO) se piove.. gli spinaci, li avete visti, sono appiccicati per terra. Quando piove lo spinacio è sporco di fango. Se alla YYYYY (impresa GDO) io li do sporchi, me li rimanda indietro, e mi tocca rilavarli tutti sfusi e riconfezionarli. In Italia non c'è un produttore che va al mercato e fa un servizio del genere. La GDO va a verificare la presenza della macchiolina della ruggine, o la puntina gialla, o la foglia con un po' di secco. Sul mercato se li vuoi bene, se no non li compri, ma ce li porto uguale. Ci sono dei momenti dove sul mercato trovi gli spinaci a 40 centesimi, altri a 1,5 euro. Il supermercato come fa a variare il prezzo di

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1 euro il chilo ogni giorno, a parte il problema della riprezzatura, il cliente lo disorienti (politica dei prezzi nella GDO). Loro gli spinaci che mando li mettono in busta, non li vendono a cassetta. Se domani avanza-no 20 sacchetti di spinaci prezzati, che fanno se il prezzo aumenta? Mezzi con un prezzo mezzi con un altro? La loro politica è quella di fare un prezzo che sia costante il più possibile, con poche oscillazioni.

D. Prima di vendere alla GDO come facevate? Facevamo mercato, di Firenze. Avevamo il camioncino, e tramite la Cooperativa di CCCCC, ci dava il po-steggio per vendere la notte. Andavamo io e mio padre tre volte la settimana a vendere il camioncino ai grossisti. E' un lavoro massacrante: vendi la notte e raccogli di giorno. Poi non trovi il cliente che ti chiede un pancale intero. Abbiamo smesso perché ogni anno che passava si vendeva sempre meno e c'erano dif-ficoltà di incassare (o manca la fattura, o vuole fare una tara maggiore, o è in crisi...): avere a che fare con due o tre interlocutori, come ora, è troppo meglio. Anche per l'amministrazione, bastano poche bolle e poche fatture. Per i pagamenti loro fanno il bonifico bancario, e sono puntualissimi. La YYYY (impresa GDO) paga a 35 giorni, data ricevimento fattura, quindi sono 42-44 giorni a seconda.

Gli approvvigionamenti di prodotti ortofrutticoli di un’impresa della GDO

L’impresa della GDO ha un responsabile approvvigionamenti per il settore ortofrutta fresca. Qui di seguito alcune risposte del responsabile.

D. Come nasce il contatto con il fornitore? Abbiamo l’ufficio assicurazione qualità che si occupa di certificare e controllare i fornitori, e quando parlo di fornitore parlo anche di produttore agricolo. Noi andiamo direttamente al campo cioè se vi porto in giro oggi abbiamo un tecnico che è giù a Viterbo a vedere un campo di cavolfiore, quindi vanno direttamente in campagna, parlano direttamente con i contadini e controllano direttamente tutti i processi produttivi. Questo è l’ufficio assicurazione qualità. Poi c’è l’ufficio acquisti frutta e verdura dove ci sono i buyers che acquistano il prodotto e in genere sono i buyers che indirizzano l’assicurazione qualità in campagna, quindi è il buyer che sceglie il fornitore in base a segnalazioni di altri fornitori o in base a offerte che ci vengono fatte dai fornitori e dai produttori stessi, ciò in base alle esigenze che può avere il buyer. Spesso siamo in giro per definire la programmazione della campagna da un punto di vista commerciale ma allo stesso tempo possiamo controllare quello che i produttori fanno direttamente in campagna.

D. Come si diventa fornitori della vostra impresa GDO? Innanzi tutto attraverso il contatto diretto, che ho disposizioni a favorire i produttori locali. Inoltre vi è il caso in cui siamo noi ad andare a cercare il produttore, perché ad esempio abbiamo visto che fornisce in modo esauriente altre catene della GDO, e quindi con l’intento di “rubargli” il fornitore. Prima che diven-ti nostro fornitore c'è un controllo antecedente per vedere se i produttori rispettano i parametri richiesti dalla nostra impresa. Devo dire che la nostra impresa ha un’estrema facilità nel trovare fornitori, in quan-to siamo l’unico sbocco che garantisce una certa sicurezza al produttore, poiché il mercato ortofrutticolo oltre a non garantire la collocazione del prodotto, riduce al massimo il margine di guadagno del produt-tore stesso. Infine noi preferiamo lavorare con i giovani agricoltori che non con i vecchi perché hanno me-todi troppo radicati.

D. Garantisce il ritiro di tutto il prodotto? La nostra impresa garantisce di ritirare tutto il prodotto…. tuttavia nei periodi in cui vi è un eccesso di offerta, ci si accorda con i produttori, che si impegnano a tagliare i costi (cioè a vendere a prezzo di costo) di produzione, mentre la nostra impresa, grazie alle sue capacità di vendita, si obbliga a ritirare il prodot-to per intero. Naturalmente oltre a questo c’è anche il fatto che siamo noi a dire al produttore cosa pianta-re, come coltivare, ecc., quindi in un certo senso sentiamo il prodotto come se fosse nostro.

D. Quali sono le caratteristiche dei prodotti private label nella vostra impresa? La linea dei prodotti a marchio nostro comprende prodotti alimentari confezionati (pasta, prodotti da forno, surgelati, latticini), prodotti ortofrutticoli, carni, prodotti per l’igiene e detergenti per la casa, ma-glieria intima e batterie.

D. Che cosa garantisce il prodotto a marchio del distributore? Il nostro prodotto a marchio specifico per i prodotti freschi e successivamente esteso anche a quelli tra-sformati, nasce negli anni 84-85 con lo scopo di garantire il consumatore sulla salubrità del prodotto. Sono prodotti agricoli a produzione integrata. Dal 95 in poi oltre alla sicurezza abbiamo deciso di puntare an-che alla bontà dando avvio al progetto “frutta saporita”. Per fare questo naturalmente abbiamo dovuto imporre agli agricoltori di avvalersi di soggetti con elevata cultura, cioè degli agronomi. Inoltre abbiamo dovuto anche imporre le metodologie di produzione nonché le materie prime da utilizzare. Abbiamo stabilito quando raccogliere, definendo il grado di maturità del prodotto. La nostra impresa riti-ra il prodotto solo se arrivato al giusto grado di maturazione. Questo va in contrasto con l’ottica dell’agricoltore, cioè quella di raccogliere e di mettere subito sul mercato per evitare che agenti atmosferi-ci distruggano il raccolto. Successivamente siamo passati anche a stabilire il colore del prodotto, in quanto uno dei criteri di scelta del consumatore. Parlando di colore si parla di potature, quindi di disposizione degli alberi, di modo che il frutto possa prendere il sole e l’aria tutto il giorno, parliamo di distanza tra alberi, dove abbiamo fatti dei veri e propri studi geometrici.

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3.6. Il modello di produzione agro-alimentare

Tendenze Mano a mano che si consolida l'inserimento del settore agricolo nell'ambito del

sistema agro-alimentare e in generale con il rafforzarsi dei legami tra gli agenti e i set-tori di attività che di esso fanno parte, lo stesso sistema agro-alimentare è interessato in misura crescente dall'azione di forze e tendenze che ne condizionano la direzione evo-lutiva. I principi dell’industrializzazione e le grandi pressioni che abbiamo visto agire sul modello di produzione agricolo con la modernizzazione si applicano a fortiori al modello di produzione agro-alimentare, tuttora dominante nel sistema agro-alimentare mondiale.

Quali sono le principali caratteristiche di questo modello? Quali le principali pressioni e forze che agiscono sulle sue strutture, dettandone i processi riorganizzativi e dunque la sua evoluzione?

o L’apertura dei mercati e la globalizzazione o La concentrazione delle imprese o L’industrializzazione dei processi e l’innovazione o La standardizzazione della qualità o Ristrutturazione e semplificazione dei canali commerciali

L’apertura dei mercati e la globalizzazione

Una delle forze maggiori è costituita dalla crescente globalizzazione, cioè dall'aumento del numero e dell'intensità delle relazioni che ogni elemento del sistema agro-alimentare (le imprese, i sistemi locali, le filiere, ecc.) intesse con altri elementi, e in particolare con quelli geograficamente collocati a grande distanza. Ciò significa che l'azione di ogni elemento del sistema è suscettibile di modificare l'ambiente operativo di un numero crescente di altri elementi, ovvero che da più sistemi (dotati ciascuno di una sufficiente autonomia) si passa ad un unico «grosso» sistema.

La globalizzazione del sistema agro-alimentare trova i suoi presupposti nello svi-luppo dei sistemi di conservazione, trasporto e comunicazione, nonché nella tendenza alla liberalizzazione dei mercati, e si manifesta tra l'altro con un aumento del ruolo del-le imprese multinazionali e delle imprese-rete transnazionali (in particolare dell’industria alimentare e della distribuzione), e in generale con una crescente diversi-ficazione strategica mediante cui le imprese cercano di rispondere alla aumentata com-plessità dell'ambiente operativo in cui si muovono.

L’aumento dell’internazionalizzazione dei mercati non interessa soltanto il mer-cato dei prodotti finiti, ma anche quello delle materie prime e dei semi-lavorati, ma anche quello di altri fattori produttivi, quali il lavoro, il capitale, le informazioni e il know-how.

Per le imprese dun-que aumentano le possibili-tà di realizzare economie di scala e di scopo, e le possi-bilità anche di de-localizzare gli approvvi-gionamenti di fattori e le operazioni produttive, ubi-cando impianti in luoghi più favorevoli per gli ap-provvigionamenti o gli sbocchi commerciali, o an-che per le maggiori agevo-lazioni fiscali o sostegni pubblici che possono rice-vere nelle diverse aree geografiche.

La frantumazione geografica dei processi produttivi determina tuttavia anche la necessità di coordinare i processi produttivi tra più imprese ubicate anche a grande di-

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stanza. Aumentano dunque i fabbisogni di informazioni e di garanzie sulle transazioni, e laddove i mercati non funzionano perfettamente, aumenta anche la necessità di uti-lizzare forme di coordinamento orizzontale e verticale tra imprese (vedi oltre) più stret-te, quali forme di integrazione verticale per contratto o per proprietà o joint-ventures.

L'azione della globalizzazione determina un inasprimento della competizione all'interno del sistema agro-alimentare, in quanto l'aumento delle relazioni a lunga di-stanza comporta l'apertura di nuovi fronti concorrenziali da parte di aree territoriali e imprese che fanno leva ora su costi del lavoro più contenuti, ora su interventi di politi-ca economica a sostegno, ora su migliori risorse logistiche e organizzative, ora sulla maggior disponibilità di risorse naturali.

Per gestire efficacemente la globalizzazione le imprese necessitano di un migliore accesso (in termini di quantità, qualità, e velocità) alle risorse (fattori di produzione in senso lato, e in particolare fattori immateriali quali l’informazione, capacità professio-nali e know-how, tecnologia, organizzazione) e ai mercati di sbocco, e di una maggiore flessibilità nel comportamento produttivo e organizzativo per gestire l'aumentata tur-bolenza e instabilità dell’ambiente in cui si trovano ad operare. Strategie per esercitare un maggior controllo sul processo produttivo diventano sia la velocità di reazione ai cambiamenti, che la capacità di anticipare e indurre il mutamento stesso, strategie che fanno assumere un'importanza crescente al ruolo dell'informazione e dell'orga-nizzazione.

L'aumentata estensione dell'ambiente operativo e l'instabilità e turbolenza degli assetti che ne deriva determinano quindi un continuo riposizionamento strategico delle singole imprese (o aree territoriali, filiere, ecc.) che mutano costantemente assetto me-diante strategie miranti al rafforzamento della posizione sul mercato. In altri termini le forze “globalizzanti” manifestano i loro effetti in misura più o meno intensa su ogni fa-se delle singole filiere, determinando pressioni di diversa intensità verso una rottura della stagneità delle filiere a livello territorialmente delimitato, aprendo ed esponendo le singole fasi a competizioni e/o collaborazioni più ampie. L'evoluzione del sistema agro-industriale porta ad un riassetto di ogni sua componente, che ora si rafforza, ora si ridimensiona, ora sparisce, contribuendo comunque a formare nuovi assetti in conti-nuo mutamento.

La concentrazione

Tra le principali tendenze riscontrabili all’interno del sistema agro-alimentare globale si evidenzia inoltre una tendenza alla crescita del grado di concentrazione nell'ambito delle singole fasi delle filiere che sempre meno però dipende da fattori di ordine strettamente tecnologico e che deriva invece dalla gestione dell'innovazione di prodotto e/o di servizio e dalla ricerca di una razionalizzazione a livello di gestione dei canali di approvvigionamento e di sbocco nonché a livello di promozione dei marchi di impresa.

Proprio questi fattori sono spesso all'origine di un processo di riposizionamento strategico nell'ambito delle filiere da parte delle imprese: queste ultime sempre meno sono infatti volte al controllo diretto di un elevato numero di fasi del processo ma ten-dono invece ad "alleggerire" la propria presenza, posizionandosi però favorevolmente rispetto a quelle attività strategiche che possono consentire il controllo indiretto della filiera [Bellon, 1984; Pellegrini, 1988] e che sempre più spesso sono identificabili nell'ambito delle fasi a valle della filiera, quelle spesso più direttamente connesse alla valorizzazione del prodotto rispetto al consumatore.

In tale ottica possono essere lette numerose operazioni di integrazione e/o disin-tegrazione verticale, che portano a una ri-articolazione del processo produttivo e a una conseguente specializzazione delle attività delle imprese su specifiche fasi o sub-fasi del processo produttivo, mentre le attività e le fasi di lavorazione considerate non stra-tegiche vengono delegate spesso all'esterno al fine di ricercare maggiore flessibilità di azione.

A questa logica sono spesso riconducibili l'aumento delle relazioni proprietarie e di collaborazione (acquisizioni, fusioni, partecipazioni di controllo, joint-ventures, ac-cordi operativi a medio-lungo termine) tra imprese, sia appartenenti alla stessa fase del processo che a fasi diverse, di frequente collocate spazialmente anche a grande distan-

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za; e anche la tendenza alla diversificazione funzionale dell'attività delle imprese, stra-tegia che risponde all'esigenza di raggiungere sinergie a livello di processo produttivo e di gestione delle attività di ricerca e sviluppo, ma sempre più spesso anche ad uno sfruttamento più razionale della propria rete logistica e distributiva e degli investimen-ti immateriali connessi alla promozione del prodotto e del marchio (o dell'insegna, nel caso delle imprese della distribuzione).

Dunque le imprese più dinamiche tendono ad estendere i confini operativi non tanto rispetto alle fasi di una specifica filiera, ma allargando il proprio spazio operativo ad altre filiere e/o ad altri ambiti territoriali; rispetto a tale attività spesso risultano av-vantaggiate le imprese di maggiori dimensioni dotate di risorse umane e informative di alto livello.

In considerazione di ciò, e della parallela estensione territoriale dei luoghi di produzione, oltre che dei bacini di approvvigionamento e dei mercati di sbocco, le filie-re e i sistemi agro-industriali di cui esse fanno parte risultano caratterizzati da un cre-scente grado di "apertura" verso l'esterno.

Va tuttavia ricordato – come già osservato in precedenza - come ancora oggi permanga in molti comparti un certo livello di frammentazione dell’industria alimen-tare, legata alle specificità presenti nelle diverse filiere rispetto alla tipologia di materia prima, alla natura della tecnologia prevalente nel settore della trasformazione, alle ca-ratteristiche dei mercati di sbocco e dei consumatori locali. Inoltre la presenza di un si-stema ancora frammentato in alcuni comparti, e la presenza anche di brand affermati dell’industria alimentare, costituisce una barriera all’entrata nel settore da parte di im-prese multinazionali, la cui strategia di espansione prevede infatti solitamente l’acquisizione di nuovi brand e imprese, piuttosto che lo sviluppo autonomo di prodot-ti nuovi.

Box - La concentrazione nell’industria e nella distribuzione alimentare in USA e in Europa

Since the early 1980s, average concentra-tion levels in the U.S. food manufactur-ing industries have continued to rise. A somewhat unexpected development was the rapid consolidation of food in-dustries that produced homogeneous producer and consumer goods. Previ-ously unconcentrated industries like pork slaughtering, butter, flour, sugar, pasta, and soybean oil experienced rap-id increases in industry consolidation through mergers and acquisitions. The most egregious example of structural change occurred in beef packing (…). In the mid-1970s the top four beef packers controlled only 25% of the U.S. market, but by 1999 they accounted for more than 80% of the principal types of beef-animal slaughter. As a result of these developments, the share of value added by the top U.S. food and tobacco manufacturers continued to rise (Figure). The share held by the top 50 of total industry value added climbed by 55% from 1967 to 1995; however, nearly all of that increase was driven by the increasing dominance of the top 20 companies, whose share rose by 122%. These 20 companies are all purveyors of globally recognized brands. Comparable concentration data for Europe are difficult to obtain. An OECD report in 1983 found that the food-processing industries of five of Europe’s larger member counties were also experiencing similar in-creases in sales concentration. Moreover, most of the industries that were highly concentrated in one country were also highly concentrated in the other countries. (…) More current concentration data for se-lected food industries in the EU appear to confirm the earlier patterns. Moreover, across Europe and the USA as well, the most concentrated food industries tend to be the same: baby foods, soups, coffee, choco-late confectionery, tea, and breakfast cereals, to name a few. Caned fruits, vegetables, and fish tend to be relatively unconcentrated among all the OECD food industries. (…) Measuring the degree of food-retailing concentration is also fraught with difficulties surrounding alter-native retail formats (supermarkets, mass merchandisers, warehouse stores, hypermarkets, petrol stations and the like) and appropriate geographic boundaries. Moreover, there are significant organizational and strategic differences between North American and European retailers.

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Except for a few mass merchandisers like Wal-Mart, there are no national chains of food retailers in the United States, whereas supermarket chains with national coverage are the rule in most EU countries. Eu-ropean grocery retailers tend to be more vertically integrated toward agricultural suppliers and tend to have broader store-brand programs than U.S. grocery retailers, though these features may be converging via foreign direct investment into the United States. Apart from Wal-Mart, U.S. food retailers have no significant foreign investments. Because few U.S. food retailers have broad geographic sales, national concentration of supermarket sales tends to be low by international standards. Until the late 1970s, retail-grocery industry mergers had been virtually frozen by consent decrees monitored by the U.S. Federal Trade Commission. In 1992 the top three grocery retailers accounted for only 19.6% of the U.S. market. By 1998 a wave of grocery mergers had increased the three-firm U.S. concentration ratio to 25.9%. Mergers have continued despite the disap-pointing financial results of many of them. In Europe, national concentration among food retailers tends to be much higher, partly because of the smaller economic size of Europe’s national markets relative to the U.S. market. Except for Greece, retail concentration is highest in the smallest European countries; three firms account for more than 70% of sales in Sweden, Norway, Finland, the Netherlands, and Switzerland. In the largest European countries, three-firm concentration generally ranges from 40% to 50% of national sales. Because European food re-tailers rarely have leading positions outside their home countries, pan-European concentration is very low, probably lower than that in the United States. Agricultural producers face highly concentrated sellers when they buy most of their biological, chemical, and mechanical inputs. As a result, the agricultural input industries have been a major preoccupation of antitrust and merger-control enforcement in the European Union. Further up the food chain, food proces-sors generally have large numbers of suppliers for the major food ingredients and other materials that they purchase. However, somewhat less appreciated is the fact that food manufacturers also procure thousands of minor ingredients required for modern formulations typical of highly processed foods. Pre-servatives, flavorings, fortifications, colorants, emulsifiers, texturizers, and many other organic chemicals are sold by industries that are typically very highly concentrated on a global scale. In these industries, three or four firms typically control more than 80% of global supply under conditions of blockaded entry. Many of these industries were pure monopolies a few decades ago. While concentration may be decreas-ing for most of these industries, the rate of decline has been glacial.

Fonte: Connor [2003]

Rispetto all’agricoltura, il maggior aumento del tasso di concentrazione presente

nei settori con cui il settore agricolo intrattiene rapporti di scambio - settori fornitori di input (industria chimica, meccanica, degli autoveicoli, sementiera, ecc.), della trasfor-mazione agro-alimentare e della distribuzione all’ingrosso e al dettaglio – comporta una maggiore difficoltà di relazioni a fronte del crescente potere contrattuale degli in-terlocutori [Crescenzi e Fagiani, 2007].

Quote di mercato delle prime 5 e 3 imprese distributive nei paesi Europei nel setto-re food, 2004

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Fonte: Lloyd e Morgan [2007] e Competition Commission, [2000]

L’industrializzazione dei processi e l’innovazione

All’interno del sistema agro-alimentare l’industrializzazione dei processi di pro-duzione di beni e servizi aumenta a tassi crescenti, così come l’introduzione di innova-zioni di processo e di prodotto. Le principali caratteristiche in questo ambito possono essere così riassunte (Wilkinson, 2002):

* diversificazione e innovazione. Circa negli anni ’70 dello scorso secolo si assi-ste nell’industria alimentare alla fine della strategia basata su un singolo pro-dotto dalla vita lunga e prende avvio una strategia fondata sull’innovazione e la diversificazione degli assortimenti per rispondere all’evoluzione del sistema distributivo; anche il sistema distributivo avvia un rapido processo di diversi-ficazione del servizio commerciale e di introduzione di innovazioni;

* prodotti “nuovi”. Parallelamente si assiste allo sviluppo di tecnologie che alte-rino il meno possibile le proprietà delle materie prime (da trasformazione a conservazione): alimenti naturali, alimenti “funzionali” (integratori dietetici, antiallergici) e preparazioni alimentari;

* sostituzione e appropriazione dell’agricoltura. Continua il processo di sosti-tuzione e appropriazione dell’”agricoltura” (integrazione per contratto e ade-guamento produzione agricola a standards di lavorazione industriale), mentre le materie prime agricole perdono la propria centralità nel definire e caratte-rizzare il prodotto agro-alimentare offerto al consumatore, a vantaggio dell’industria alimentare e chimica (produzione di additivi29 – coloranti, edul-coranti, emulsionanti, conservanti, antiossidanti, etc. - e di aromi).

29 Per "additivo alimentare" si intende qualsiasi sostanza, normalmente non consumata come alimento in quanto tale e non utilizzata come ingrediente tipico degli alimenti, indipendentemente dal fatto di avere un valore nutritivo, aggiunta intenzionalmente ai prodotti alimentari per un fine tecnologico nelle fasi di produzione, di trasformazione, di preparazione, di trattamento, di imballaggio, di trasporto o immagazzi-namento degli alimenti, che si possa ragionevolmente presumere diventi, essa stessa o i suoi derivati, un componente di tali alimenti direttamente o indirettamente. Negli ultimi decenni, in conseguenza dell’evoluzione tecnologica, l’uso degli additivi alimentari si è esteso notevolmente, anche se l’impiego di additivi trova le sue origini in tempi remoti. In epoca pre-industriale si utilizzavano metodi di conserva-zione degli alimenti quali: salatura delle carni e del pesce; aggiunta di succo di limone a frutta e verdura per evitarne l’imbrunimento; impiego di aceto nella preparazione di conserve vegetali; aggiunta di salnitro nelle carni insaccate; solfitazione dei mosti e dei vini. L’aggiunta di additivi rappresenta una esigenza tec-nologica conseguente all’evoluzione industriale, al mutare delle abitudini alimentari, che hanno enorme-mente influenzato il ciclo produttivo e distributivo degli alimenti. Oggi la produzione, lo stoccaggio e la distribuzione dei prodotti alimentari possono essere realizzati in aree geografiche molto distanti; e tutto ciò è possibile grazie all’uso degli additivi.

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Nuovi paradigmi tecnologici così si affermano [Esposti, 2005]: a) agricoltura intelligente: agricoltura di precisione, (bio)pharming. Possibilità di

realizzare una produzione agricola più “mirata”, “progettata” o “su misura”, i cui esiti quali-quantitativi sono meno incerti rispetto alle esigenze della do-manda, nonché alle mutevoli condizioni ambientali.

b) intelligent processing. careful processing (mild-fair technologies), Ambiente Intel-ligente, packaging intelligente, materiali intelligenti, che indicano la capacità crescente in tutte le fasi della trasformazione (dalla materia prima al prodotto confezionato) di integrarsi rispetto ad una funzione pre-determinata, ad un obiettivo quali-quantitativo modulabile e modificabile rispetto a cui adeguare coerentemente le fasi stesse.

c) genomica nutrizionale (o Nutrigenomics). Espressione che enfatizza il potenzia-le delle biotecnologie applicato alla progettazione e controllo della produzione di alimenti grazie alla conoscenza dell’associazione tra sequenze geniche, pro-teine, metabolismo e determinate funzioni. La prospettiva è quella di costruire alimenti e formulare diete “su misura”, secondo le proprie caratteristiche me-taboliche, i propri fabbisogni, le eventuali esigenze terapeutiche.

Per quanto riguarda i prodotti, l’emergere di nuovi bisogni, segmenti e compor-tamenti di domanda, si accompagna all’emergere di nuovi prodotti o nuovi modi di proporre sul mercato prodotti tradizionali. In effetti, il grado di innovatività del com-parto agroalimentare, la capacità di assecondare l’evoluzione sempre più rapida e arti-colata della domanda alimentare, è un dato solo di recente emerso, o comunque rico-nosciuto. Recenti, cioè, sono l’attenzione e l’enfasi poste sulle potenzialità di innova-zione tecnologica del comparto, anche perché quest’ultimo è ancora oggi considerato un settore tradizionale, low-tech e quindi, con limitato dinamismo tecnologico [Esposti, 2006].

In effetti, l’industria alimentare è un settore tipicamente a bassa intensità di ricer-ca, cioè con un basso rapporto tra spese in ricerca e fatturato. Ciò è vero in gran parte dei paesi industriali ove i settori cosiddetti high-tech, cioè con elevata intensità di ricer-ca come il farmaceutico, tendono ad avere un valore almeno cinque volte superiore a quello dell’industria alimentare. La bassa propensione alla ricerca di quest’ultima, pe-raltro, è ancora maggiore in Italia, paese caratterizzato da una tendenziale minore in-tensità di ricerca in tutti i settori

La propensione innovativa del comparto alimentare, tuttavia, non si manifesta attraverso forte intensità di ricerca. L’innovazione in questo ambito, infatti, non richie-de tanto grandi investimenti in ricerca (laboratori, scienziati e ricercatori, ecc.) quanto piuttosto un continuo processo di adeguamento, di upgrading del prodotto alle nuove esigenze del consumatore. La presenza di una forte propensione innovativa, quindi, è meglio rappresentata dal numero di nuovi prodotti alimentari che ogni anno vengono messi in commercio.

Innovazione in questo comparto significa, dunque, in primo luogo proporsi al consumatore con un nuovo prodotto, capace di soddisfare un nuovo bisogno o, in ma-niera nuova, vecchi bisogni (o di convincere il consumatore in tal senso). Almeno ap-parentemente, spesso ciò non si accompagna a rilevanti innovazioni nel processo pro-duttivo, né a contenuti tecnologici sostanzialmente nuovi del prodotto stesso.

Allo scopo questi nuovi prodotti vengono spesso così distinti: - prodotti one-of-a-kind: prodotti realmente nuovi sia per l’impresa che per il

mercato (quindi, per il consumatore); in questo ambito rientrano dunque i no-vel foods, definibili come gli alimenti non usati finora significativamente per il consumo umano;

- prodotti me-too: prodotti nuovi solo per l’impresa, dal momento che sono imitativi di altri già immessi sul mercato e conosciuti dal consumatore;

- prodotti line-extensions: prodotti di fatto non nuovi né per l’impresa né per il mercato, ma che estendono-modificano alcune caratteristiche non fondamen-tali di prodotti pre-esistenti.

Con riferimento agli USA, si è stimato che dei molti nuovi prodotti alimentari immessi sul mercato, il 78% è costituito in realtà da line extensions. Solo il 22% è costi-tuito da prodotti nuovi per le imprese che le realizzano, quindi new brands. Di questi

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nuovi prodotti con nuovi nomi, però, solo il 14% è costituito davvero da prodotti nuo-vi per il mercato (one-of-a-kind), il resto sono prodotti imitativi (me-too).

Peraltro, in questo flusso intenso e continuo di nuovi prodotti, si registra anche una forte mortalità, cioè la percentuale di prodotti che non supera il periodo di un an-no di permanenza sul mercato. La mortalità è stimata a ben il 72% per le new brands e al 55% per le line-extensions, per le quali la pre-esistenza del nome del prodotto e la relati-va fidelizzazione del consumatore, evidentemente, costituisce maggiore garanzia di sopravvivenza.

Pur in questo fermento innovativo connotato da molti tentativi ed errori (trials and errors) e da relativamente pochi prodotti davvero innovativi, emergono comunque alcune tendenze destinate a segnare notevolmente lo sviluppo futuro del comparto, proprio in relazione alla combinazione tra nuove tecnologie e nuovi bisogni.

1. Una prima tendenza è la nascita di nuovi segmenti del mercato in virtù della comparsa di tipologie di prodotto davvero nuove nel modo in cui soddisfano i bisogni del consumatore. Esempio classico è la nascita del mercato del Cibo Funzionale (o Functional Food), cioè alimenti realizzati per esercitare, oltre al-la tradizionale funzione alimentare, anche una (presunta) funzione nutriziona-le-terapeutica30 (nutriceuticals e nutraceuticals);

2. Una seconda tendenza è quella della capacità di offrire una crescente varietà di prodotti alimentari, sempre più orientati verso specifici segmenti di do-manda, anche quelli fortemente caratterizzati in termini di naturalità e tipicità. Tale possibilità viene anche detta Produzione Modulare o Modularità, cioè la possibilità di realizzare un prodotto combinando “moduli” e l’esistenza di un architettura-interfaccia per combinare i moduli in modo efficace ed efficiente. La produzione modulare dunque permette:

- Sviluppo più rapido e meno costoso di nuovi prodotti - Numero di nuovi prodotti (varietà) di molto ampliato - Complessità dei prodotti notevolmente aumentata: decoupling tasks, de-

sign freedom, continous upgrading In prospettiva futura, la possibilità di incrementare il grado di modularità an-che nella produzione agroalimentare, accentuerà alcune delle tendenze già presenti. In particolare, il grande numero di nuovi prodotti immessi in com-mercio, alla ricerca del gradimento di segmenti sempre più specifici e partico-lari del consumo alimentare. Al limite, potrà rendere possibile anche in questo comparto la Mass Customization cioè la produzione di massa, su larghissima scala, di prodotti e servizi però individualizzati, su misura. La realizzazione di prodotti sempre più “costruiti” su esigenze specifiche, persino individuali, ma comunque per un vasta platea di consumatori, costituisce l’orizzonte di rife-rimento per interpretare le tendenze future. Rispetto a tale orizzonte, infatti, interpretiamo da un lato la recente tendenza alla immissione di tanti nuovi prodotti, sebbene spesso con vita breve, dall’altro il tentativo nascente di sfrut-tare anche in questo comparto, di solito considerato tradizionale dal punto di vista tecnologico, le grandi rivoluzioni tecnologiche del nostro tempo, in par-ticolare, biotecnologie31, nanotecnologie32 e ICT (Information and Communica-

30 Si parla, perciò, anche di Phood Market (combinazione tra i termini Food, cibo, e Pharma, cioè settore farmaceutico); tale segmento è in forte crescita, soprattutto negli USA, ma anche nei paesi dell’Europa Centro-settentrionale, e riguarda in particolare il comparto dei soft-drink e dei derivati del latte (in primo luogo, yogurt), sebbene tenda ad espandersi anche ad altri tipi di prodotti, per esempio prodotti da forno. 31 Ci sono diverse tipologie di biotecnologie, che usano tecniche e applicazioni varie. La Convenzione sulla Diversità Biologica (CBD) definisce biotecnologie come: ‘any technological application that uses biological systems, living organisms, or derivatives thereof, to make or modify products or processes for specific use’. In senso largo, la definizione di biotecnologia ricopre molti strumenti e tecnologie che sono già da tempo diffuse in agricoltura e nella trasformazione. In senso più restrittivo, che considera solo le nuove tecnologie sul DNA, la biologia molecolare e le applicazioni tecnologiche sulla riproduzione, la definizione copre tecnologie quali la manipolazione genetica e il trasferimento di geni, la clonazione di piante e di animali. La produzione di organismi geneticamente modificati (GMOs) è attualmente al centro di un con-troverso dibattito. Negli Stati Uniti, più del 70% degli alimenti venduti nei supermarket hanno ingredienti derivati da piante geneticamente modificate, mentre in Europa il grado di tolleranza dei consumatori e dei

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tion Technologies). La competitività nel sistema agro-alimentare si gioca oggi molto meno sulle tra-

dizionali economie di scala legate alla dimensione degli impianti “materiali”, mentre è sempre più influenzata dall’intensità con cui le imprese usano le risorse immateriali e intellettuali. La componente di Ricerca e Sviluppo (R&D) e gli investimenti di supporto della reputazione del brand d’impresa sono dunque sempre più al centro dell’attenzione delle imprese [Henderson, 1998].

La standardizzazione della qualità

Il progressivo aumento di importanza della tecnologia e della “scienza” nella de-terminazione e gestione dei processi produttivi agricoli e agro-alimentari porta ad una stretta gestione della qualità dei prodotti e processi, che vengono sempre più formaliz-zati e “codificati” all’interno di rigidi standard sia di tipo pubblico che, sempre più spesso, privato. Inoltre la possibilità di ricorrere ad approvvigionamento di materie prime e semi-lavorati da sistemi produttivi geograficamente e culturalmente molto di-stanti rende necessario, come si è visto, disporre di strumenti idonei per rendere sicure le transazioni, ovvero che il prodotto scambiato sia effettivamente coerente con le aspettative dell’acquirente.

Un effetto di questa grande possibilità di approvvigionamento è quello di con-sentire alla GDO di poter imporre ai fornitori i propri standard di qualità. Invece di dover scegliere tra pochi fornitori, ognuno con un prodotto e le proprie caratteristi-che,oggi la GDO può mettere in competizione molti fornitori obbligandoli a realizzare un prodotto omogeneo, con caratteristiche qualitative codificate dalla stessa GDO. Si tratta dei cosiddetti private standards, cioè quegli standard qualitativi che la GDO im-pone ai propri fornitori per il mantenimento del rapporto commerciale.

Standardizzazione, approvvigionamenti della GDO, e biodiversità

“Più del 60% dei meleti sono andati perduti nel Regno Unito dal 1970, e la perdita di meleti tradizionali potrebbe perfino essere più elevata in quanto le statistiche ufficiali considerano soltanto gli impianti spe-cializzati e commerciali. Questa perdita ha significato una intensificazione nella produzione a spese dell’ambiente, e la concentrazione della produzione su di un numero ridottissimo di varietà. La perdita di varietà di mele riduce il valore dei meleti da un punto di vista ambientale, e aumenta la vulnerabilità del raccolto ai rischi meteorologici, come le gelate tardive. Oggi 10 varietà di mele rappresentano il 92% dei consumi di mele nel Regno Unito. Due sole varie-tà, Cox e Bramley, insieme incidono per il 70%. All’apice della stagione delle mele nel Regno Uni-to, soltanto 12 varietà di mele possono essere tro-vate in vendita nei più grandi supermercati. Cu-riosamente, alcuni punti vendita hanno un nume-ro più alto di varietà fuori stagione, quando pos-sono importare da altri paesi. Più di due terzi del-le mele consumate sono importate, con le conseguenze immaginabili sull’impatto ambientale (e sulla qua-lità delle mele) dei sistemi di conservazione e di trasporto a lunga distanza. L’aspetto e la dimensione so-no oggi gli attributi di qualità più importanti nelle scelte delle imprese distributive, anche sulla base degli standard di classificazione della frutta approvati dall’Unione Europea. Fonte: Hoskins e Lobstein [1999]

Gli standard privati tendono a trasferire così gli oneri del controllo qualitativo

sui fornitori, i quali si vedono imporre protocolli a cui si devono attenere. Al contrario, gli standard consentono alle imprese della GDO di ridurre i costi di transazione (di controllo, legali, di logistica, etc.) nonché i costi di trasformazione, quelli cioè connessi al cambio del fornitore. Inoltre, nonostante si tratti di standard B2B (Business-to-

policymakers dei GMO-food è più controverso. Uno degli effetti di queste tecnologie è rappresentato dall’aumento di importanza dei diritti di proprietà intellettuale sui nuovi prodotti (e marchi). 32 Le nanotecnologie comportano lo studio e l’uso di materiali su scala ultra-ridotta (un milionesimo di millimetro) e sfruttano il fatto che alcuni materiali mostrano proprietà diverse su piccolissima scala. Nella produzione di alimenti, ci sono ancora molte incertezze circa i potenziali effetti sulla salute umana e l’ambiente.

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business), la GDO cerca di utilizzarli anche a scopi promozionali presso il consumato-re, per consolidarne la fiducia e l’affidabilità presso la propria insegna, soprattutto ri-spetto ad aspetti di sicurezza alimentare e tracciabilità degli alimenti.

Gli standard della GDO tendono oggi sempre più spesso ad imporsi sui mercati internazionali, grazie anche ad accordi tra imprese della GDO. Ad esempio a livello eu-ropeo molto importanti sono lo standard EUREP-GAP (dal 2007 GLOBAL-GAP), lo standard BRC e lo standard IFIS.

Standardizzazione: strumenti per la classificazione della frutta

GREEFA è una società che produce macchine specializzate per la selezione della frutta. Nel catalogo di questa impresa possiamo trovare le seguenti tipologie di macchine:

Geosort: La GeoSort effettua una selezione accurata e precisa delle vostre mele. Con gli appositi accessori, quali il sistema di deposito con ‘manine’ ed il rallentatore brevettato Greefa, i frutti vengono lavorati con la massima delicatezza. Per la calibratura a secco la resa è di 7 frutti al secondo per ogni corsia. L’impianto può essere dotato di 2, 4, 6, 8 o 10 corsie. MSE Combicump. La MSE è una calibratrice ormai col-laudata: la sua resa massima è di 5 mele al secondo per ogni corsia. Intelligent Quality Sorter (IQS). Con l’IQS installato sull’impianto di calibratura si possono selezionare le me-le in base al loro aspetto. Il sistema iQS esegue, per mez-

zo di telecamere, fino a 70 riprese di ogni mela. In tal modo il sistema è in grado di rilevare le irregolarità con una precisione di un millimetro quadra-to. Il risultato: indipendentemente dalle differenti partite consegnate durante la settimana lavorativa, il sistema è in grado di selezionare un prodotto uni-forme con una qualità costante. Intelligent Flavour Analyser (IFA). L’IFA determina la qualità interna della mela. Tramite questo modulo vengono analizzati parametri quali il grado brix e le caratteristiche qualitative interne quali marciume interno e cuore bruno. Tramite una fonte luminosa l’iFA esegue un’analisi di spettro

dell’intero frutto e non soltanto di una parte di esso. Intelligent Firmness Detector (IFD). L’IFD rileva la durezza di ogni singolo frutto. Sulla base di questo rilevamento il fornitore potrà dare indicazioni e garanzie precise sulla durata di conservazione e sul mo-mento ideale per il consumo della mela. Il sensore del modulo iFD misura la durezza 20 volte durante la rotazione del frutto.

Fonte: http://www.greefa.nl/ (2007)

Tre tipi di standard rivestono un ruolo importante nelle filiere dei prodotti agro-

alimentari: – standard di processo per l’agricoltura, che includono nella maggior parte dei

casi anche aspetti di sostenibilità sociale e ambientale. Oltre agli standard pubblici circa il rispetto delle normative igienico-sanitarie, questi standard mi-rano ad armonizzare i requisiti del prodotto e dei termini di consegna (EU-REP-GAP, BRC, Fair Trade, metodo di produzione biologico, etc.);

- standard di confezionamento e servizio logistico, come la dimensione dei pal-lets e dei containers impiegati nelle transazioni commerciali, volti ad incre-mentare l’efficienza e la flessibilità dei sistemi di trasporto e conservazione;

– Electronic Data Interchange (EDI), relative ai sistemi di scambio di informa-zioni fornitore-cliente (un esempio sempre più attuale è il sistema Radio fre-quency identification (RFID), destinato a ridurre i costi di manipolazione dei prodotti e la produzione di rifiuti.

Queste tendenze hanno due conseguenze importanti: 1. impongono una forte omologazione nelle forniture, riducendo la varietà e le

possibilità di scelta dei fornitori, dei processi produttivi e dei prodotti, e quin-di inducono una omologazione dei consumi;

2. sostituiscono progressivamente la dimensione pubblica dello standard La crescente standardizzazione della qualità genera anche una riduzione della

differenziazione dei prodotti, soprattutto quando alcune specie o varietà vegetali, e razze animali, non rientrano nei nuovi standard generati dal sistema. La tendenza alla

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2. Agricoltura e sistema agro-alimentare

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semplificazione degli assortimenti in molte imprese della GDO, e la standardizzazione crescente, può portare quindi ad una perdita di biodiversità vegetale e animale.

Ristrutturazione e semplificazione dei canali commerciali

Il funzionamento delle filiere richiede una serie successiva di passaggi del pro-dotto lungo la filiera stessa, i quali si realizzano nelle fasi di mercato in esse individua-bili, le quali, pur nella loro molteplicità, possono essere ricondotte alle seguenti tipolo-gie:

- mercati di approvvigionamento di inputs; - mercati alla produzione; - mercati all'ingrosso, che vedono diminuire la propria importanza; - mercati al dettaglio, come si è visto in profonda ristrutturazione. Il numero delle fasi di mercato riscontrabili nelle diverse filiere, e dunque il nu-

mero di "passaggi" che interessano ciascun prodotto agricolo, risulta molto variabile a seconda del tipo di prodotto considerato e delle sue specifiche, dell'area territoriale cui ci si riferisce, ma anche del grado di sviluppo del sistema economico in cui ci si trova ad operare; nelle fasi più avanzate di sviluppo si assiste comunque ad una tendenza a ritornare verso circuiti produ-zione-consumo più brevi e di tipo integrato, in cui aumenta il ruolo dei rapporti di tipo con-trattuale tra gli agenti posti ai diversi stadi delle filiere. La concentrazione delle imprese e l’apertura dei mercati, fenome-ni evidentemente legati tra loro, portano infatti ad una spinta al-la ristrutturazione dei canali commerciali e dell’organizzazione degli scambi. Con l’affermazione della grande indu-stria alimentare e, in un secondo momento, della moderna distribuzione, si assiste ad una parallela contrazione del ruolo dei mercati tradizionali, dei grossisti, dei detta-glianti, delle piccole-medie imprese di trasformazione, ecc. e ad un aumento dei canali diretti, delle forme di coordinamento verticale, dei controlli

Tipologie di circuiti produzione-consumo

agricoltura Distrib. ingrosso

trasformazione

Distrib. dettaglio

consumo

Circuiti locali

Circuiti brevi

Circuiti tradizionali

T

D

G D

G T D

G T DD G

Circuiti moderni

Circuiti integrati

Ce.Dis. Gdo

T

G

Ce.Dis. Gdo

GAS, CSA, VD, Slow

D

D

D

Ce.Dis.TCoop

agricoltura Distrib. ingrosso

trasformazione

Distrib. dettaglio

consumo

Circuiti locali

Circuiti brevi

Circuiti tradizionali

TT

D

G DG D

G T DG T D

G T DD GG T DD G

Circuiti moderni

Circuiti integrati

Ce.Dis. Gdo

T

G

Ce.Dis. Gdo

GAS, CSA, VD, Slow

D

D

D

Ce.Dis.TCoop

Legenda: G = mercati all’ingrosso; D = impresa di commercio al dettaglio; Ce.Dis. = centro di-stributivo GDO; Coop = cooperativa o altra forma associativa; T = impresa di trasformazione

AGRICOLTURA

Ce.Dis.

GDO

Consumi

Industria

grossista

grossistaraccoglitore

Industria

Industria

dettaglio

grossista

Consumi

raccoglitore

MERCATI

AGRICOLTURA

Ce.Dis.

GDO

Consumi

Industria

Ce.Dis.

GDO

Consumi

Industria

grossista

grossistaraccoglitore

Industria

Industria

dettaglio

grossista

Consumi

raccoglitore

MERCATI

grossista

grossistaraccoglitore

Industria

Industria

dettaglio

grossista

Consumi

raccoglitore

MERCATI

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In particolare, nei segmenti delle filiere più prossimi alla produzione agricola emerge il ruolo delle funzioni di concentrazione, standardizzazione e normalizzazione dell’offerta agricola, la quale può essere svolta anche dalle cooperative e da altre forme associative (quali le associazioni dei produttori), ma anche da grandi imprese commer-ciali di natura privata; queste ultime possono peraltro svolgere la propria attività senza necessità di riferirsi ad aree territoriali predeterminate.

Nei segmenti posti a valle delle filiere emerge invece il ruolo delle centrali di ac-quisto delle imprese della GDO, nelle quali vengono accentrate un insieme di funzioni relative alla selezione, contrattazione e logistica dei prodotti che verranno poi destinati ai singoli punti vendita della catena.

Da questo complesso insieme di trasformazioni deriva che la tradizionale teoria dei mercati agricoli, fondata sull'analisi del rapporto perfettamente concorrenziale tra domanda alimentare al consumo e offerta agricola alla produzione, non risulta più adeguata all'interpretazione della realtà; ciò appare evidente, tenuto conto che sulle modalità di funzionamento degli scambi realizzati nelle filiere esercitano la loro in-fluenza i fenomeni strutturali visti in precedenza che coinvolgono i settori a monte dell'agricoltura e soprattutto quelli a valle - industria agro-alimentare e distribuzione (internazionalizzazione ai suoi vari livelli, concentrazione, industrializzazione, aumen-to dimensionale delle imprese).

Diviene necessario tenere presente anche il fatto che le transazioni considerano una molteplicità di caratteri diversi dal prezzo, e che i rapporti di forza tra i diversi soggetti scambisti non risultano assolutamente paritari. In effetti i fenomeni strutturali di cui sopra comportano, nella generalità delle filiere, uno spostamento verso valle del baricentro strategico delle filiere agro-alimentari, e in particolare:

a) nelle filiere dei prodotti trasformati, il momento strategico risiede sempre più nel rapporto tra industria agro-alimentare e distribuzione, mentre il produtto-re agricolo è confinato in via crescente al ruolo di fornitore ("intercambiabile" anche in dipendenza dell'evoluzione tecnologica) di una materia prima indif-ferenziata. In tali filiere aumenta soprattutto l'importanza della distribuzione: l'aumento delle dimensioni medie delle aziende distributive, insieme allo svi-luppo di forme associative (gruppi di acquisto, ecc.), provoca importanti mo-difiche per le industrie di trasformazione fornitrici, le quali risultano molto più soggette alle politiche della distribuzione.

b) nelle filiere dei prodotti freschi, si assiste allo scavalcamento dell'ingrosso tra-dizionale, allo sviluppo del ruolo dei Centri Distributivi della GDO, alla ten-denza della distribuzione a farsi garante della qualità presso il consumatore, ed alla diffusione del libero servizio anche nelle grandi strutture di vendita. In questo caso le prospettive del settore agricolo appaiono migliori, in quanto ri-sultano maggiori le possibilità di "segnalare" la qualità dei propri prodotti, so-prattutto nei confronti della grande distribuzione e della distribuzione orga-nizzata, più interessata - al fine di controllare i flussi di rifornimento di di-mensione consistente - a stabilire rapporti duraturi con fornitori abituali.

Dunque i meccanismi di regolazione delle filiere si alterano, e aumentano note-volmente le imperfezioni competitive:

* a livello di potere di mercato: cioè relativamente al rapporto tra imprese ap-partenenti alla stessa fase, e in particolare alla capacità di ciascuna di esse di influenzare il comparto in cui opera;

* a livello di potere contrattuale: cioè relativamente al rapporto tra imprese ap-partenenti a fasi diverse e successive, e in particolare alla capacità di ciascuna di esse di dettare le condizioni delle transazioni in cui si trova coinvolta.

La competizione all'interno delle filiere non avviene più in un universo di uguali (come postulato dalla tradizionale teoria dei mercati agricoli), bensì in un universo for-temente eterogeneo, ove particolarmente critica viene ad essere la posizione del settore agricolo, il quale vede aumentare la propria inferiorità contrattuale, e dunque diminui-re la capacità di appropriarsi della quota di valore aggiunto e dei guadagni di produt-tività derivanti dall'introduzione di innovazioni. Da ciò consegue un aggravamento della situazione di sottoremunerazione delle risorse impiegate nell'ambito del settore agricolo.

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Nel 2007 l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato pubblica l’Indagine conoscitiva sulla distri-buzione agroalimentare IC28 (giugno 2007).

“Lo scopo principale di questo lavoro è stato quello di analizzare il funzionamento della filiera distributiva del comparto ortofrutticolo al fine di verificare se le sue caratteristiche strutturali ed organizzative siano tali da ostacolare, tramite specifiche inefficienze e/o deficit concorrenziali presenti a qualche stadio, una corretta trasmissione dei prezzi lungo la catena distributiva, con conseguente creazione di effetti moltipli-cativi dei vari prezzi degli ortaggi e della frutta. 3. L’indagine ha preso spunto anche dalla diffusa perce-zione di un incremento dei prezzi dei prodotti ortofrutticoli avvenuto in concomitanza con il processo di conversione della lira nell’euro (gennaio 2002), proponendosi pertanto di verificare se gli eventuali effetti moltiplicativi siano stati in qualche misura esaltati dal cambio della moneta, laddove un’inefficiente strut-tura della filiera e/o i problemi concorrenziali che in essa possono annidarsi abbiano favorito l’adozione di comportamenti speculativi e/o anticompetitivi da parte degli operatori posti ai vari stadi della filiera. 4. Qualsiasi tentativo di studiare l’andamento dei prezzi dei prodotti ortofrutticoli è reso tuttavia difficoltoso dalle specificità del comparto, composto da una molteplicità di prodotti diversi, ognuno dei quali con-traddistinto da costi di produzione, aree di provenienza e periodi di commercializzazione diversi, nonché da una notevole vulnerabilità rispetto ad influenze esogene di natura climatica. A complicare ulteriormen-te il quadro, ciascun singolo prodotto si caratterizza per un grado di differenziazione elevato, sotto il profi-lo organolettico, della varietà, qualità, dimensione, colore, ecc..” Principali risultati o per gli ortaggi, sia i prezzi al dettaglio che i prezzi all’ingrosso risultano aumentati nel periodo con-

siderato, pur a fronte di una riduzione complessiva dei prezzi all’origine (pari al –10,5%); l’incremento dei prezzi nella fase all’ingrosso è stato comunque inferiore (+2%), nei 5 anni considera-ti, rispetto a quello relativo alla fase al dettaglio (+19,3%);

o Per la frutta, i prezzi all’ingrosso risultano invece addirittura diminuiti, (-1,5%) a fronte di un aumen-to nella fase produttiva (+6,5%) e di un aumento ancor più consistente nella fase al dettaglio (+8,6%): l’intermediazione sembra pertanto, per tale comparto, avere esercitato un ruolo “calmierante”, piut-tosto che “inflazionistico”, come nel caso degli ortaggi.

I risultati descritti in merito al diverso ruolo svolto dalla fase di intermediazione nel comparto frutta ri-spetto al comparto ortaggi, riflettendo un diverso grado di organizzazione produttiva dei due comparti, consentono di affermare che, laddove la produzione agricola è organizzata ed è in grado di concentrare presso di sé i servizi di lavorazione necessari alla vendita del prodotto, essa è anche in grado di trattenere buona parte del valore aggiunto della filiera, impedendo alle fasi di intermediazione successiva di “ampli-ficare” le variazioni dei prezzi all’origine. Diversamente, laddove il primo scambio commerciale avviene tra il singolo agricoltore e un intermediario, la fase della distribuzione all’ingrosso detiene un più elevato potere di mercato, che le consente di aumentare il prezzo in percentuale maggiore rispetto alla fase all’origine e di ridurlo in percentuale minore. Per analizzare le modalità di funzionamento della filiera distributiva dei prodotti ortofrutticoli, con parti-colare riferimento al processo di formazione della catena del valore all’interno della stessa, è stata realizza-ta una specifica indagine campionaria. In particolare, sono stati rilevati prezzi e modalità di approvvigio-namento di cinque tra i principali prodotti ortofrutticoli (cavolfiore, lattuga romana, zucchine di serra, arance tarocco, mele golden) in tutti i diversi stadi della filiera distributiva, partendo da un campione di punti vendita al dettaglio, e proseguendo, a ritroso, sino all’ultimo anello della catena, rappresentato dal produttore o dall’organizzazione di produttori. L’analisi svolta ha evidenziato come uno dei principali fattori di criticità nella formazione e nell’eccessivo ricarico dei prezzi al consumatore la “lunghezza” (elevato numero di passaggi) delle filiere, e individua nelle forme organizzate sia dei produttori che del dettaglio (moderna distribuzione) il modo per ridurre i passaggi e quindi i prezzi al consumo Il diverso ruolo che ciascuno dei tre principali canali distributivi dei prodotti ortofrutticoli è in grado di svolgere in un auspicabile processo di ammodernamento del sistema distributivo dei prodotti ortofruttico-lo freschi. - gli esercizi di vicinato (i tradizionali negozi di frutta e verdura e gli alimentari despecializzati), con-

dividendo con la GDO alcune rigidità nelle caratteristiche dell’assortimento, senza tuttavia presentare potenzialità di compressione dei costi connesse alla dimensione degli approvvigionamenti, appaiono particolarmente inidonei ad affrontare qualsiasi tipo di innovazione volta ad incrementare l’efficienza della filiera. Essi, d’altro canto, presentano prezzi di acquisto, margini unitari e, in alcuni casi, prezzi di vendita più elevati rispetto alle altre tipologie di punto vendita, nei confronti delle quali stanno assumendo un’importanza via via decrescente. La graduale contrazione del canale distributivo tradizionale appa-re, d’altro canto, un processo irreversibile, in linea con il più ampio processo di cambiamento delle abitudini di acquisto e di consumo, nonché della conseguente ristrutturazione in atto nell’intero setto-re della distribuzione al dettaglio; uno spazio di mercato per tale tipologia di punto vendita potrebbe peraltro svilupparsi in specifici segmenti “di nicchia”, dedicati, ad esempio, alla vendita di prodotti sofisticati o ad alto valore aggiunto, quali le produzioni biologiche, tipiche, ecc.;

- i mercati rionali e gli ambulanti sono invece un canale di vendita strutturalmente importante nel set-tore ortofrutticolo, soprattutto per quei prodotti caratterizzati da forte instabilità degli andamenti produttivi e dei prezzi, per i quali tali operatori riescono a sfruttare a proprio vantaggio la frammen-tarietà e la volatilità del mercato.

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Tale formula distributiva, infatti, convive e compete con la GDO, spuntando prezzi di acquisto mi-gliori e praticando prezzi di vendita più bassi, in particolare laddove la GDO non è in grado di rifor-nirsi direttamente dal produttore o da un consorzio di produttori: in tali circostanze, il commercio ambulante è in grado di sfruttare appieno il proprio potenziale di compressione dei costi, connesso con le caratteristiche di flessibilità nelle politiche di vendita e di approvvigionamento.

- importante e decisivo, invece, nell’incrementare l’efficienza dell’intera filiera distributiva può risultare il ruolo della GDO, la quale, nonostante la presenza di evidenti limiti alla propria crescita in tale comparto, rappresentati dalle caratteristiche intrinseche della maggior parte dei prodotti ortofruttico-li, risulta comunque, già oggi, il canale distributivo più importante per tali prodotti, continuando pe-raltro ad aumentare la propria incidenza sulle vendite complessive. La frutta è caratterizzata da maggiore stabilità dell’offerta. Per la frutta la GDO riesce ad accorciare la filiera approvvigionandosi direttamente dai produttori. L’efficienza della GDO sembra diminuire quanto più le caratteristiche del prodotto in termini di depe-ribilità, possibilità di stoccaggio, stagionalità, grado di esposizione alle condizioni climatiche, disper-sione territoriale delle aree produttive, ecc. rendono instabile e frammentata l’offerta agricola, come è appunto il caso dei prodotti orticoli. Le catene della GDO, infatti, richiedono ai propri fornitori non soltanto una dimensione sufficiente a soddisfare pressoché interamente le proprie esigenze di approvvigionamento di uno o più prodotti, ma anche una sufficiente stabilità delle relazioni contrattuali, delle forniture e dei prezzi, onde mini-mizzare i costi di transazione e programmare, almeno nel breve-medio periodo, i propri costi e la propria offerta. Inoltre le specifiche caratteristiche dell’offerta commerciale della GDO, in termini di standardizzazio-ne dei prodotti, continuità dell’assortimento, ampiezza e profondità della gamma, ecc., mal si coniu-ghino con le modalità organizzative tipiche della filiera ortofrutticola, ed in particolare con la sua pronunciata frammentazione. In altri termini, le esigenze della distribuzione moderna di esporre ogni giorno sui propri scaffali tutti i principali prodotti reperibili sul mercato, di stagione e contro-stagione, ciascuno con un calibro e una qualità pressoché omogenei, e senza evidenti difetti nel loro aspetto, sembrano comportare rilevanti diseconomie nella gestione della filiera distributiva, con evidenti ri-flessi sui prezzi finali. Viceversa, proprio l’assenza di tali esigenze di assortimento e di standardizza-zione qualitativa rende la formula distributiva del commercio ambulante maggiormente compatibile con un’offerta disomogenea, frammentata ed erratica.

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4. Verso un nuovo modello: qualità e nuovi rapporti agri-coltori-consumatori

4.1. L’ascesa di un nuovo modello di produzione e di consumo agro-alimentare

La rivalutazione dell’agricoltura e della ruralità Il processo di modernizzazione in agricoltura, unitamente alla diversificazione

delle configurazioni assunte dallo sviluppo industriale – in Italia negli anni ’70 - porta a situazioni di sviluppo socio-economico differenziate tra aziende e territori [Saraceno, 1993]. Viene cioè gradualmente rotta la monotonicità dell’opposizione rurale-urbano, o agricolo-industriale, a favore di una più articolata situazione che vede l’affermarsi di aree a sviluppo agricolo intermedio, aree di “campagna urbanizzata” [IRPET, 1975], aree di nuovo insediamento agricolo, e aree di industrializzazione diffusa e di distretti industriali [Becattini 1987 e 1989].

L’affermarsi di nuove modalità di sviluppo economico nelle aree rurali mette gradualmente in crisi il modello di sviluppo industriale e urbano, e con esso il suo pre-dominio non solo economico, ma anche culturale.

Vengono sempre più criticati gli aspetti negativi della qualità della vita nelle grandi città industriali, e rivalutati invece gli aspetti positivi della vita in campagna, spesso anche idealizzata soprattutto dai residenti nelle aree urbane. In ogni modo questa riva-lutazione e nuova attenzione alla tranquillità della vita in ambito rurale, al paesaggio modellato dall’agricoltura, all’ambiente incontaminato, alle tradizioni e alla cultura dei luoghi, alla possibilità di riattivare relazioni sociali perdute nella frenetica vita di città, ai prodotti agro-alimentari tipici, e più in generale alla qualità dell’alimentazione, se-gna un cambiamento forte nella percezione sociale del ruolo dell’agricoltura nella so-cietà, cambiamento che verrà gradualmente accolto, pur con alcune resistenze e frizio-ni, anche all’interno degli obiettivi della politica agricola nazionale e, soprattutto, co-munitaria.

Ad un’agricoltura settore dominante delle aree rurali, tanto dell’economia che delle relazioni sociali, formata da imprese professionali nell’ambito di comunità sociali solitamente chiuse e autonome, si sostituisce gradualmente un’agricoltura che, dopo aver perso il ruolo di motore esclusivo dell’economia locale, si frammenta in una mol-teplicità di tipologie di imprenditoria professionale (diffusione del part-time e della pluriattività aziendale e familiare, contoterzismo, ecc.) e di figure non professionali (pensionati, hobbisti, ecc.), con aziende di dimensione, ordinamenti e obiettivi diffe-renziati, e lascia il campo aperto ad una utilizzazione non agricola degli spazi rurali.

La crescente apertura dei “mercati”, non solo quindi di quelli dei fattori, dei ser-vizi e dei prodotti, ma anche di quelli delle forze lavoro, degli imprenditori e delle co-noscenze, contribuisce a iniettare nuova dinamicità nelle aree rurali, ma anche a forma-re sistemi rurali dotati di minor coesione economica e sociale interna, dando origine talvolta ad una maggiore conflittualità sull’uso delle risorse locali tra tradizionali resi-denti e new-comers.

Il formarsi di sistemi rurali “a geometria variabile” determinati dalle nuove di-namiche economiche e sociali, e la concomitante crisi dell’agricoltura “di massa” basata sulla produzione di commodities, sull’ampio uso delle moderne tecnologie, sulla grande dimensione aziendale (economie di dimensione) e sulla competizione di prezzo, lascia il campo aperto alla sperimentazione di modelli alternativi che, sulla base dei cam-biamenti delle richieste rivolte dalla collettività al settore agricolo e al mondo rurale, porta ad una maggiore attenzione alla qualità delle produzioni, alla salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio rurale, alla fornitura di nuovi servizi (si pensi all’agriturismo), alla tutela delle tradizioni e della cultura delle aree rurali [Basile e Cecchi, 2001].

Mentre nel periodo precedente al settore agricolo era sostanzialmente richiesto un contributo in termini di forza lavoro e derrate agricole a basso costo per garantire la

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sicurezza degli approvvigionamenti, negli anni più recenti si modificano e diversifica-no le richieste rivolte al settore da parte della collettività.

Da una parte il settore agricolo continua ad assolvere alle “vecchie” funzioni: fornire forza lavoro agli altri settori dell’economia e produrre alimenti per la popola-zione. Tuttavia queste vecchie funzioni vengono assolte con modalità diverse: grazie al diffondersi della pluriattività e del part-time, è possibile mantenere occupazione all’interno della famiglia agricola e contemporaneamente offrire una disponibilità di lavoro flessibile soprattutto per le esigenze delle piccole e medie imprese che si inse-diano sempre di più nelle aree rurali e per il settore della pubblica amministrazione; dall’altra parte il settore agricolo aumenta i propri legami con l'industria di trasforma-zione alimentare e reagisce alla crisi dei consumi di massa diversificando la gamma e offrendo prodotti e servizi “nuovi”, di qualità, di nicchia, e attivando forme di comuni-cazione di tipo diverso dal passato [Brunori et alii, 2003], recuperando i rapporti diretti con il mercato finale e col cittadino, e instaurando nuovi tipi di relazione a livello locale e a livello più globale.

La multifunzionalità dell’agricoltura

Contemporaneamente muta il ruolo delle aree rurali, non più soltanto luogo in cui avviene la produzione di derrate agricole, ma anche luogo di insediamenti abitativi e di “consumo” del tempo libero [Basile e Cecchi, 2001]. L’emergere della sensibilità ambientale e culturale porta inoltre alla domanda di nuove funzioni che il settore agri-colo sempre più spesso è chiamato ad assolvere.

Il concetto di multifunzionalità dell’agricoltura, recentemente tornato in auge nel dibattito sull’evoluzione delle politiche agricole, ben rappresenta le potenzialità delle attività agricole di svolgere contemporaneamente molteplici funzioni sociali che si affiancano alla più tradizionale funzione di produzione di derrate alimentari per il sostentamento della popolazione, funzione questa tipica, se non esclusiva, del periodo della modernizzazione agricola.

Il concetto di multifunzionalità appartiene ormai da qualche anno al bagaglio terminologico presente nella definizione di un nuovo modello di agricoltura, in parti-colare all’interno della ridefinizione della politica agricola e di sviluppo rurale dell’Unione Europea, e si riferisce al fatto che il settore agricolo è sempre più chiamato a svolgere non solo la funzione primaria di soddisfazione del bisogno alimentare di ba-se della popolazione, ma anche una serie diversificata altre di funzioni “socialmente desiderabili” quali la tutela dell’ambiente e del territorio, la salvaguardia della cultura e delle tradizioni rurali, la fornitura di alimenti sicuri, salubri e di elevata qualità, la fornitura di servizi ricreativi. Queste funzioni, fino ad un recente passato rimaste ine-spresse dalla società e non supportate (di conseguenza) dalle politiche settoriali e terri-toriali riferite all’agricoltura, sono oggi invece pienamente riconosciute e ricercate nelle società avanzate, e sempre più sostenute dalle nuove politiche.

All’origine della crescente attenzione dalle molteplici funzioni che possono essere assolte dall’agricoltura – se tralasciamo le motivazioni “politiche” connesse alla neces-sità manifestatasi nell’ambito delle trattative internazionali sul commercio di modifica-re la strumentazione con cui il settore agricolo viene supportato dall’Unione Europea [Pacciani, 2002] - vi sono sia motivi legati alla ricerca di competitività sui mercati che motivi di tipo “ideologico”. A fronte della crescente apertura e internazionalizzazione non solo degli scambi ma più in generale delle modalità di produzione e organizzazio-ne della produzione in spazi geografici sempre più aperti, e della riflessione critica cir-ca le conseguenze di questa apertura senza regole e al dominio delle grandi imprese industriali e commerciali, di un’agricoltura “omologata” e standardizzata, dei problemi alimentari e di comunicazione verso il consumatore, di problemi etici ecc. sono nate e si stanno rapidamente estendendo, almeno nei paesi sviluppati, nuove modalità di ope-rare che cercano, a vari livelli, di sfuggire quando non di contrastare queste grandi for-ze.

La ricerca di competitività a fronte della crescente concorrenza sul lato dei costi di produzione proveniente da molti paesi extra-europei e anche facenti parte dell’Unione Europea (paesi dell’Est in particolare), resa più urgente dall’avvio di una politica agricola comunitaria che di fatto slega la concessione degli aiuti alla realizza-

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zione di particolari produzioni, porta alla ricerca di nuovi prodotti / nuovi canali commerciali e di comunicazione / nuovi servizi, che possano permettere la permanen-za e la rigenerazione dell’agricoltura nell’ambito di spazi rurali sempre meno centrati sulle attività agricole. In altri termini, le imprese, per scelta o per convinzione, sono alla ricerca di un riposizionamento strategico delle attività e cercano di assecondare i cam-biamenti della domanda dei cittadini, sempre più sensibili alla qualità e alla sicurezza degli alimenti, alle modalità con cui vengono ottenuti i prodotti e al loro impatto am-bientale, alla provenienza territoriale e culturale dei prodotti stessi, e così via.

Questi orientamenti sociali del resto sono da tempo incorporati nel nuovo dise-gno delle politiche agricole, di sviluppo rurale e di coesione che interessano il settore e le aree rurali, sotto forma di vincoli (es. eco-condizionalità) e di aiuti.

La multifunzionalità delle attività agricole può essere ricondotta alle seguenti ti-pologie di funzioni [Belletti, 2002a e 2002b]:

- assicurare lo sviluppo del sistema socio-economico delle aree rurali, garantendone una sufficiente vitalità e qualità della vita, con particolare riferimento alle aree più marginali e svantaggiate a rischio di erosione economica, sociale e cultura-le;

- garantire il raggiungimento della sicurezza alimentare, che nei paesi avanzati non concerne tanto il soddisfacimento dei bisogni alimentari di base, ma la di-sponibilità dei prodotti alimentari salubri e sicuri dal punto di vista igienico-sanitario;

- soddisfare le esigenze di qualità e varietà delle produzioni realizzate, a fronte della crescente standardizzazione degli alimenti conseguente dalla industria-lizzazione e globalizzazione dei processi produttivi e dei modelli di consumo;

- mantenere e riprodurre le risorse naturali disponibili, contribuendo alla ridu-zione dell’impatto delle attività sull’ambiente, sul clima, sulla biodiversità, sul paesaggio, ecc.;

- preservare e riprodurre l’ambiente antropico, le culture, le tradizioni locali. Le pressioni esercitate dalle nuove sensibilità sociali conducono dunque

all’espressione di una domanda di multifunzionalità rivolta al settore agricolo, offren-do diversificati spazi per una ristrutturazione e riqualificazione delle attività agricole che non tutte le aziende e i territori hanno sinora saputo sfruttare.

Le politiche agricole, in particolare quelle di derivazione comunitaria (ma anche a livello nazionale e regionale), hanno assecondato questo processo di cambiamento [Buckwell e Sotte, 1997], che non appare comunque né indolore né omogeneamente di-stribuito tra le imprese e le aree territoriali. A partire dalla metà degli anni ’80 infatti, ma con una forte accelerazione nel corso degli anni ’90, le politiche comunitarie hanno sempre più cercato di orientare l’agricoltura verso un “modello agricolo europeo”, che ha comportato un graduale abbandono delle politiche di sostegno dei mercati accop-piate alla produzione a favore di un sostegno dei mercati più mirato e sempre più con-dizionato all’erogazione di prodotti di qualità e di servizi ambientali, culturali, ricreati-vi, e con una maggiore enfasi riposta sulle politiche strutturali e di sviluppo rurale.

La graduale evoluzione della politica agricola comunitaria verso una più ampia e diversificata Politica agricola e rurale (dal primo al secondo “pilastro”) [Sotte, 1998] ha comportato uno spostamento di peso dalla politica dei mercati (rinnovata con l’introduzione del principio del disaccoppiamento) alla politica strutturale e di svilup-po rurale, ivi compreso il pieno accoglimento del principio della tutela ambientale nelle sue varie dimensioni [Romano, 1998; Tinacci Mossello, 2002; Henke, 2002].

Inoltre, facendosi interprete dei cambiamenti della sensibilità dei cittadini (e in parte anche in virtù del mutato peso politico del settore agricolo nel suo complesso), il sostegno comunitario si è sempre più orientato in direzione della qualità dei processi produttivi (incentivi alle pratiche agricole eco-compatibili, rispetto del benessere degli animali, sicurezza igienico-sanitaria) e dei prodotti (tracciabilità, produzioni agro-alimentari tipiche, prodotti ottenuti con metodo biologico o di produzione integrata), in linea con l’affermarsi del concetto di multifunzionalità delle attività agricole e col ri-conoscimento dunque delle diversificate “funzioni” dell’attività agricola, alla quale si riconosce non (più) soltanto quella di produttrice di alimenti, ma anche quella sociale (mantenimento dell’occupazione e di un tessuto sociale e culturale vitale nelle aree ru-

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rali) e ambientale (mantenimento del territorio, del paesaggio, della biodiversità, ecc.).

Lo sviluppo endogeno (e neo-endogeno) L’esito di questi cambiamenti è oggi quello di un’agricoltura estremamente di-

versificata, la cui articolazione difficilmente è rappresentabile solo attraverso i dati sta-tistici disponibili, ma che vede un deciso orientamento verso un nuovo modello di svi-luppo che ruota attorno alla qualità dei prodotti offerti ma anche, e in misura crescente, dei servizi offerti (agriturismo, fattorie didattiche, ecc.), e che richiede al tempo stesso nuove modalità di connessione (la vendita diretta, l’e-commerce, le strade del vino) sia nell’ambito dell’area territoriale che nei rapporti locale-globale [Brunori, 2003].

I caratteri assunti da questi nuovi orientamenti portano alla rivalutazione di mo-delli di sviluppo di tipo endogeno, i cui caratteri principali sono sintetizzati qui di se-guito [Lowe, 2003].

Caratteri principali del modello di sviluppo endogeno

Principio-chiave le risorse specifiche di un’area (naturali, umane e culturali) sono la base delle sue possibilità di sviluppo sostenibile

Forza dinamica iniziativa e imprese locali

Funzioni del settore agricolo offrire una gamma diversificata di beni e servizi

Problemi del settore agricolo la ridotta capacità dei territori e dei gruppi sociali di prender par-te allo sviluppo economico

Focus costruzione di abilità e capacità (competenze, reti di istituzioni locali e infrastrutture)

Anche il modello di sviluppo endogeno in agricoltura ha offerto il fianco ad al-

cune critiche. In particolare si osserva come aree rurali che perseguono uno sviluppo socio-economico autonomamente da influenze esterne (siano esse la globalizzazione, l’intervento pubblico comunitario o altro) può rappresentare un ideale ma non appare una proposta realizzabile concretamente nell’Europa moderna.

Ogni area sarà pertanto chiamata a far interagire le forze esogene con le forze en-dogene. Il punto critico diventa dunque come sostenere la capacità delle aree rurali di guidare questi processi più ampi e dirigerne le forze a proprio beneficio. Questo è an-che il concetto di sviluppo neo-endogeno [Lowe, 2003], in cui il focus è spostato sulle relazioni dinamiche che si instaurano tra le aree rurali e il più ampio contesto politico, istituzionale, economico, ambientale, e come queste relazioni vengono mediate o rego-late.

Le conseguenze di questo nuovo approccio possono essere colte a vari livelli, sia all’interno delle aree rurali, che nei rapporti tra il locale e il globale. All’interno delle aree rurali lo sviluppo è ri-orientato in modo tale da valorizzare le risorse locali – fisi-che e socio-culturali – con l’obiettivo di trattenere quanto più possibile i benefici all’interno dell’area. Gli obiettivi di sviluppo vengono definiti sulla base delle necessi-tà, capacità e prospettive degli attori locali, e la partecipazione della popolazione è un principio-chiave e modalità di azione. Lo stesso concetto di sviluppo deve essere af-frontato in maniera complessiva, cioè trattare allo stesso tempo di benessere economi-co, socio-culturale e fisico.

Nei rapporti tra le aree rurali e il contesto esterno invece l’adesione al modello neo-endogeno implica una decentralizzazione degli interventi, la cui filosofia si sposta da una logica individuale e settoriale ai territori. La decentralizzazione degli interventi implica che la partnership territoriale (che comprende attori pubblici, imprese, orga-nizzazioni di volontariato, ecc.) assume una responsabilità diretta nel disegnare ed im-plementare le iniziative di sviluppo.

Diventa così importante sia il raggiungimento a livello territoriale di una mag-gior interazione e coesione tra gruppi sociali e categorie, sia la realizzazione di alleanze strategiche extralocali.

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Il cambiamento nell’organizzazione delle attività delle imprese agricole La graduale diffusione del nuovo modello e dei principi dello sviluppo endoge-

no, nelle accezioni sopra delineate, impone un cambiamento nell’organizzazione delle attività delle imprese agricole [Pacciani, 2003].

La perdita di contatto col consumatore e di visibilità sociale che aveva caratterizzato il pe-riodo precedente viene attenuata con l’attivazione di relazioni dirette: la vendita diretta in azienda o in circuiti di prossimità, l’attività agrituristica, le fattorie didattiche, sono tut-ti esempi di attività che riattivano il collegamento diretto produzione-consumo/società e danno origine a nuovi fabbisogni professionali e di competenze. Non solo. L’impresa aumenta anche le relazioni volte ad utilizzare in maniera sinergica le risorse sul territo-rio (risorse artistiche, culturali e ambientali e naturali, sinergie con altre produzioni ar-tigianali locali), costruendo collegamenti con gli operatori locali (pubblici e privati, in-dividuali e collettivi) su un piano di parità e non più di dominanza [Pacciani, Belletti, Marescotti e Scaramuzzi, 2003].

Gli ordinamenti produttivi vengono nuovamente arricchiti, e si registra una tendenza alla diversificazione delle attività agricole aziendali anche in direzione di componenti nuove di attività.

Alcune fasi del processo produttivo, in precedenza delegate ad operatori specializzati esterni, sono nuovamente re-incorporate all’interno del nucleo di impresa (trasformazione dei prodotti agricoli a livello artigianale, produzione di input). I cambiamenti degli atteg-giamenti dei consumatori, assecondati dai nuovi orientamenti delle politiche agricole e di sviluppo rurale dell’Unione Europea, portano le imprese a privilegiare gli aspetti le-gati alla qualità dei prodotti e dei processi, ad un’attenzione crescente dalla dimensione am-bientale e paesaggistica dei processi produttivi adottati, alla tutela della biodiversità. Non sono più le economie di dimensione a guidare gli orientamenti strategici dell’impresa, ma le economie di scopo.

Lo sviluppo rurale di qualità

Impresa agricolaImpresa agricola Diversificazione

produttiva e complessificazion

e ordinamenti

Diversificazione produttiva e

complessificazione ordinamenti

estensione ad attività non strettamente

agricole

estensione ad attività non strettamente

agricole

Parziale internalizzazione nella produzione di fattori

Parziale internalizzazione nella produzione di fattori

Internalizzazionetrasformazione e/o

distribuzione prodotti

Internalizzazionetrasformazione e/o

distribuzione prodotti

La funzione tradizionalmente assegnata al settore agricolo di produttore di ali-

menti a basso prezzo, prevalente fino agli anni ’80, lascia gradualmente il posto ad una pluralità di richieste espresse dai consumatori, dai residenti nelle aree rurali (di vecchio e nuovo insediamento), dai turisti provenienti da aree più o meno lontane, e dalla so-cietà in generale, espressione crescente del riconoscimento del carattere multifunziona-le delle attività agricole.

I mutamenti dell’agricoltura e più in generale dell’articolazione dello sviluppo economico e sociale nelle aree rurali, così come le nuove possibilità offerte dal cambia-

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mento del modello di sviluppo, di pari passo con le mutate esigenze dei consumatori e dei cittadini, incidono profondamente sul mercato del lavoro e delle competenze. I nuovi spazi di impresa e di competitività che si aprono per le aziende agricole richie-dono infatti la disponibilità di capacità imprenditoriali e professionalità di tipo in parte nuovo, e vanno ad incidere sia sulla quantità che sulla qualità del lavoro domandato dalle aziende agricole.

Schematicamente, la nuova situazione che emerge dal passaggio dall’agricoltura “moderna” del periodo precedente all’attuale tipologia di riferimento può essere rap-presentata come in figura Lo sviluppo rurale di qualità.

Nel periodo dell’ascesa dell’agricoltura moderna e industrializzata (produzione di massa) le imprese agricole tendevano a semplificare gli ordinamenti produttivi e a non uscire dai confini dell’attività agricola; contemporaneamente esternalizzavano un numero crescente di fasi del processo produttivo ricorrendo in misura crescente all’approvvigionamento di fattori sul mercato. Il principio ispiratore era costituito dalla ricerca della massimizzazione delle rese e dell’efficienza di scala, da raggiungersi at-traverso aumenti di dimensione [Belletti, Brunori, Marescotti e Rossi, 2002].

L’ascesa dell’agricoltura di qualità implica una riacquisizione di fasi e attività che erano state cedute nel periodo precedente (trasformazione aziendale, marketing), e un recupero di legami più diretti con i consumatori (vendita diretta, e-commerce, ecc.) e con la società. Gli ordinamenti produttivi si fanno più ampi e diversificati, e le attività si allargano anche al di fuori del settore agricolo in senso stretto (agriturismo, fattorie didattiche, ecc.). L’obiettivo di massimizzazione delle quantità cede gradatamente il passo all’obiettivo del miglioramento della qualità delle produzioni e della differen-ziazione (produzione biologica e integrata, produzioni tipiche, certificazione e sistemi di etichettatura). Il principio della multifunzionalità viene attuato diversificando e va-lorizzando la produzione di esternalità dei processi produttivi (ambiente, paesaggio, biodiversità), e richiede l’attivazione di una più fitta rete di relazioni anche a livello lo-cale, con le istituzioni pubbliche e con gli altri operatori economici.

Queste trasformazioni offrono nuove possibilità di impiego all’interno dell’azienda agricola, non solo in termini di quantità di ore-lavoro necessarie a far fron-te alle nuove attività intraprese, ma anche in termini di qualità del lavoro, in conside-razione delle diverse competenze e professionalità richieste per svolgere attività in par-te nuove e più complesse (marketing e comunicazione, realizzazione produzioni di qualità oggetto di certificazione, gestione clienti dell’agriturismo, erogazione di servizi ambientali, ecc.), e in termini di tipologia e di genere. In particolare alcune attività si prestano ad una migliore valorizzazione del lavoro dei giovani e delle donne (si pensi alle produzioni agroalimentari di qualità, alla gestione dell’attività agrituristica, alla degustazione dei prodotti tipici), non solo in termini di maggiore occupazione di per-sone con problemi di inserimento sul mercato del lavoro, ma anche in termini di grati-ficazione e qualità del lavoro stesso.

I nuovi sentieri di sviluppo che le imprese agricole possono percorrere offrono inoltre possibilità di nuova occupazione e di creazione di nuove figure professionali a supporto. Lo sviluppo rurale di qualità e l’orientamento verso l’agricoltura multifun-zionale necessitano di ricalibrare e adattare le professionalità che ruotano attorno all’agricoltura in modo da rendere coerente l’intero sistema. Non solo quindi si aprono prospettive di inserimento sul mercato del lavoro per le professionalità che asseconda-no gli orientamenti assunti dalle imprese agricole verso la qualità e la diversificazione “fuori” dalle attività strettamente e tradizionalmente agricole33, ma anche per figure

33 La legge di orientamento italiana (D.Lg. 18-5-2001 n.228 “orientamento e modernizzazione del settore agricolo”) ha modificato la definizione di imprenditore agricolo contenuta nel codice civile (art.2135), con l’obiettivo di ampliare la gamma di attività realizzabili all’interno dell’azienda agricola dall’imprenditore, e dunque in linea con questo processo evolutivo dell’agricoltura. Nella nuova definizione di attività con-nesse si legge infatti: “Si intendono comunque connesse le attività, esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione e commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad og-getto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento di animali, nonché le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del ter-ritorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione e ospitalità come definite dalla legge”.

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professionali in grado di attivare e collegare gli operatori innescando processi virtuosi di sviluppo rurale, come ad esempio la costruzione di pacchetti integrati che sappiano legare le diverse risorse (agricole, ambientali, culturali, ecc.) presenti in una determina-ta area o l’attivazione di legami cooperativi tra imprese agricole finalizzati a singoli progetti o alla costruzione di percorsi comuni di valorizzazione delle risorse locali.

Nell’ambito del nuovo modello di sviluppo si assiste dunque all’emergere di

nuove forme di connessione che si vengono ad instaurare tra le imprese agricole e la società, e che coinvolgono e modificano da un lato lo svolgimento delle “tradizionali” attività di produzione e di scambio dei prodotti sul mercato, e dall’altro ampliano lo spettro delle “produzioni” aziendali fino a comprendere l’erogazione di servizi di tipo più o meno innovativo.

I sentieri alternativi percorsi dalle imprese agricole nell’ambito di questo modello sono sostanzialmente tre:

1. un aumento del livello di differenziazione e della qualità delle produzioni realizzate dalle aziende agricole (qualità);

2. un recupero dei canali più diretti di scambio con il consumatore finale (filiere corte);

3. una crescente estensione dell’attività agricola verso nuove attività di produ-zione di beni e servizi (estensione).

Il sentiero “qualità” abbraccia in realtà l’intero sistema agro-alimentare, ed ha in-teressato negli ultimi anni anche la componente “modernizzata” del sistema. Per que-sto motivo rimanderemo la trattazione e l’analisi della qualità nel sistema agro-alimentare ad un capitolo specifico (vedi cap.5). Qui di seguito verranno dunque tratta-te separatamente le ultime due tipologie, che interessano principalmente (ma non solo) ili settore agricolo.

Evidentemente i sentieri appena delineati non rappresentano modalità alternati-ve di impostazione strategica dell’azienda. Al contrario, numerose sono le sinergie raggiungibili tra i diversi ambiti. Si pensi ad esempio all’agriturismo, che offre possibi-lità di far conoscere i prodotti dell’azienda e più in generale del territorio (ad esempio attraverso le strade del vino e dei sapori) e di attivare canali brevi di commercializza-zione. Anche le attività didattiche possono offrire le stesse potenzialità, così come l’attivazione di filiere corte possono costituire un elemento di promozione dell’attività aziendale e del territorio.

4.2. Il recupero dei rapporti diretti agricoltura-consumo: le filiere corte

Le filiere corte Il termine filiera “corta” viene impiegato per indicare sia la tendenza a “saltare”

fasi di intermediazione commerciale e a collegare dunque direttamente il produttore agricolo col consumatore, e dunque in riferimento al numero di passaggi “fisici” che il prodotto effettua prima di giungere al consumatore finale, sia alla distanza geografica che il prodotto percorre prima di giungere fisicamente al consumatore. Quest’ultima accezione è riconducibile alla crescente attenzione mostrata dai consumatori per gli aspetti “ambientali” dei processi produttivi (vedi ad esempio il tema delle cosiddette food miles) e alla domanda di “genuinità” e sicurezza dell’origine che normalmente i prodotti locali (local food) sembrano maggiormente in grado di soddisfare.

E’ evidente che pur non essendo equivalenti, queste due diverse accezioni (ridu-zione del numero di passaggi e riduzione della distanza percorsa dal prodotto) sono accomunate dalla tendenza ad “avvicinare” il consumatore al mondo della produzione, facilitando così da un lato le attività di comunicazione e scambio di informazioni tra i protagonisti, e dall’altro il perseguimento di vantaggi economici su entrambi i lati: il consumatore infatti può beneficiare normalmente di prezzi di acquisto più contenuti (evita infatti di remunerare i costi di trasporto e/o intermediazione commerciale), e il produttore può spuntare prezzi più remunerativi rispetto a quelli presenti sui mercati intermedi. A ciò si aggiunga che l’attivazione di canali diretti col consumatore facilita l’attivazione all’interno dell’azienda agricola di altre attività di trasformazione e condi-

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zionamento del prodotto, permettendo un ulteriore recupero di valore aggiunto e una migliore occupazione delle risorse fisiche e umane presenti in azienda.

Esempi di queste nuove forme di connessione sono forniti dalla diffusione cre-scente della vendita diretta dei prodotti in azienda, dai mercati contadini realizzati a cadenza più o meno periodica (farmers’ markets), dai gruppi di acquisto e i gruppi di acquisto solidale (GAS), dalle fiere e sagre paesane, dal commercio elettronico (e-commerce), dalle strade del vino e dei sapori, fino a forme più innovative che si stanno diffondendo soprattutto in altri paesi (Usa, Gran Bretagna, Olanda) quali il pick-your-own e la Community Supported Agricolture (CSA).

Le filiere corte sono spesso etichettate come filiere o canali “alternativi”. La valu-tazione del grado di “alternatività” di queste relativamente nuove o rinnovate forme di connessione deve essere effettuata in base alla tipologia del contenuto del “messaggio” che in questi ambiti viene veicolato. L’attivazione di queste forme di vendita infatti può derivare infatti semplicemente dal desiderio di diversificare i canali commerciali in un’ottica puramente economica, nella ricerca cioè di una ottimizzazione della strategia di marketing dell’impresa – e in questo caso si tratterebbe solo di un’alternativa nelle “tecniche” di vendita – oppure essere interpretato anche come uno strumento di critica alle modalità di produzione e/o commercializzazione di tipo “convenzionale” e dun-que trasformarsi in uno strumento di cambiamento del sistema e di modalità di defini-zione della qualità stessa dei prodotti scambiati.

La Community Supported Agricolture (CSA)

La Community Supported Agricolture consiste in una comunità di persone che intendono supportare un’azienda agricola in modo tale che diventi, legalmente o spiritualmente, l’azienda della comunità con gli agricoltori e i consumatori che si scambiano supporto e aiuto reciproco e condividono il rischio e i be-nefici della produzione alimentare. Tipicamente i membri (o “share-holders”) anticipano i costi per le operazioni colturali e per lo stipendio dell’agricoltore. In cambio, essi ricevono parte della produzione aziendale durante la stagione, e la soddi-sfazione ottenuta per l’essersi riavvicinati alla terra e aver potuto partecipare ai lavori agricoli. I membri naturalmente condividono il rischio di produzione, incluso quindi il rischio di un cattivo raccolto dovuto agli andamenti metereologici o ad attacchi parassitari. Vendendo direttamente ai consumatori (membri), che hanno anticipato all’agricoltore il capitale, i produttori agricoli ricevono prezzi migliori e sono solle-vati da gran parte del gravoso impegno necessario per la commercializzazione. La CSA si è sviluppata inizialmente in Giappone negli anni ’70 dello scorso secolo, quando un gruppo di donne preoccupate dall’aumento delle importazioni di cibo e dalla corrispondente riduzione dell’attività agricola locale iniziò a coltivare direttamente e ad attivare relazioni dirette tra il proprio gruppo e un gruppo di aziende agricole locali. Questo accordo venne chiamato "teikei" in giapponese, che tradotto si-gnifica “mettere la faccia dell’agricoltore sul cibo”.

Lo stesso può dirsi in riferimento al consumatore, che nell’ambito di queste for-

me di acquisto recupera un ruolo maggiormente attivo rispetto ai canali convenzionali (negozi alimentari tradizionali, grande distribuzione organizzata), fino al punto di di-ventare il protagonista e l’attivatore (ad esempio nel caso dei GAS, così come nel caso del movimento legato a Slow Food) di queste nuove forme di connessione. Si tratta cioè di capire se il consumatore è mosso da principi puramente “economici” (il desiderio di risparmiare) oppure il suo atto di acquisto nell’ambito di questi canali risponde a prin-cipi etici e sociali di contenuto “trasformativo”, come reazione dopo anni di “delega” ad un settore industriale e distributivo sempre più tecnologicizzato e scientifizzato. Le crisi inerenti la sanità alimentare, che la “scienza” si è spesso rivelata incapace di con-trollare, nonché la circolazione sempre più rapida di informazioni riguardanti condi-zioni di lavoro e di vita di alcuni gruppi di operatori agricoli (in particolare quelli ap-partenenti ai Paesi in via di sviluppo), hanno incrinato questa immagine e dettato la necessità da parte dei consumatori di valutare e supportare l’attendibilità delle infor-mazioni meramente scientifiche riguardanti i prodotti agro – alimentari, affiancando ad esse altre tipologie di informazioni quali l’esistenza di forme di tutela sociale e /o culturale degli operatori agricoli e la provenienza dei prodotti stessi.

Nella realtà dunque queste due “visioni” spesso si integrano e si confondono, fi-

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no a delineare un continuum di situazioni talvolta in contrasto e talvolta in accordo con i canali convenzionali.

Nelle prossime pagine verranno analizzate più in dettaglio alcune esperienze particolarmente significative e attuali che bene illustrano queste tendenze.

a) i farmers’ markets34

Quando si parla di mercati dei produttori (talvolta definiti in modo più specifico, con chiara volontà di differenziazione, “mercati contadini” o “mercati biologici”) si fa riferimento a mercati gestiti direttamente da produttori agricoli, dove si svolge la ven-dita diretta dei prodotti. Questi mercati si sono diffusi negli ultimi anni per la necessi-tà/volontà dei piccoli produttori di realizzare una commercializzazione diretta per i propri prodotti, quantitativamente e qualitativamente non valorizzabili nei circuiti convenzionali, o comunque di dare visibilità all’agricoltura locale, diffondendo la sua conoscenza presso i consumatori.

L’organizzazione e la gestione dei mercati dei produttori risponde a finalità di-verse, in gran parte in relazione a quali sono i soggetti promotori e i relativi interessi e obiettivi, e di conseguenza i mercati assumono caratterizzazioni diverse (e conseguen-temente trasmettono un messaggio e, potenzialmente, hanno un impatto diversi).

- I “mercati contadini” promossi dalle associazioni dei produttori sono gene-ralmente concepiti come momenti di realizzazione di una concezione alterna-tiva del produrre-consumare, e quindi come momenti di scambio commercia-le, ma allo stesso tempo (e in forma strettamente integrata) anche come mo-menti di creazione e condivisione di una base di valori e di una cultura alter-native, di sensibilizzazione, di impegno civile e “politico” (al momento dell’acquisto/consumo di cibo vengono associate altre forme/occasioni di “cittadinanza attiva”).

- I mercati promossi dalle istituzioni pubbliche e dalle organizzazioni profes-sionali si configurano prevalentemente come momenti di valorizzazione commerciale delle produzioni locali e di rieducazione alimentare/culturale sulle tradizioni produttive e gastronomiche locali. In particolare, laddove è forte la partecipazione delle amministrazioni pubbliche, i mercati dei produt-tori costituiscono un importante strumento a sostegno dei processi di sviluppo rurale locale o all’interno di strategie di marketing territoriale.

Un’altra tipologia di mercati è individuabile considerando il tipo di frequentatori a cui sono prevalentemente rivolti, in relazione al tipo di prodotti offerti nonché, talvol-ta, alla stessa dislocazione:

- mercati frequentati in gran parte da turisti, localizzati prevalentemente nelle piazze centrali delle grandi città, a carattere più o meno continuativo e con forte presenza di prodotti tipici,

- mercati prevalentemente rivolti a consumatori locali, più orientati alla com-mercializzazione di prodotti locali.

Un’altra importante distinzione, attualmente presente considerando le esperienze sinora attivate sul territorio, è data dal tipo di agricoltura a cui i mercati fanno riferi-mento, per cui si parla specificatamente di mercati biologici, comprendenti solamente produttori che adottano tecniche di produzione biologica o biodinamica, o di mercati misti, comprendenti anche produttori convenzionali (al momento rappresentati sola-mente dalle esperienze attivate dalle amministrazioni locali).

E’ evidente che la scelta tra le varie opzioni è strettamente legata alle finalità at-tribuite al mercato e all’immagine che si vuole dare di esso.

Solitamente partecipano ai mercati produttori con attività di dimensioni molto contenute, in relazione alla scala produttiva, nonché al tipo di organizzazione del lavo-ro (si tratta di realtà a conduzione esclusivamente familiare, se non addirittura indivi-duale, in cui la partecipazione al mercato vede coinvolti uno o due componenti). Que-sto aspetto riveste particolare importanza nei mercati promossi dalle associazioni dei piccoli produttori, dove è posto tra i principi fondamentali della stessa organizzazione

34 Il contenuto di questo paragrafo è basato su: Brunori, Cerreti, Guidi, e Rossi [2007].

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e gestione dei mercati, ispirandone le motivazioni di fondo (sostegno alla piccola agri-coltura contadina) e successivamente i criteri di selezione dei partecipanti. Diversa-mente, nei mercati promossi dalle amministrazioni pubbliche o dalle organizzazioni professionali agricole, la necessità di perseguire obiettivi di valorizzazione dell’agricoltura locale porta ad attribuire minore rilievo a tale aspetto.

Il pick-your-own

Nel “pick your own” (raccoglilo da te) il consumatore si reca direttamente presso l’azienda agricola a rac-cogliere personalmente i prodotti di cui ha bisogno (tipicamente ortaggi e frutta). Questa tipologia di ac-corciamento della filiera sta avendo una forte diffusione soprattutto negli Stati Uniti e in Inghilterra ma, ultimamente, sta prendendo piede anche in Italia, dove sono sempre di più le aziende agricole e gli agri-turismi che mettono a disposizione ai cittadini i propri campi con relativi raccolti.

Oltre alla soddisfazione di raccogliere da se i frutti della terra e di passare la giornata in mezzo alla natura, il “pick your own” consente anche di risparmiare fino al 40-50% rispetto ai prezzi di negozi e supermerca-ti. Utilizzando questo metodo “self service”, si può decidere la quantità, la varietà e la qualità dei prodotti e si ha la certezza di portare in tavola cibi genuini e di stagione che rispondono alle specifiche esigenze familiari.

Il sistema del “pick your own”, tra l’altro, permette a tutti di conoscere le varie fasi della produzione agricola, dalla semina al raccolto, che ormai oggi-giorno sono sconosciuti per la gran parte dei con-sumatori.

Generalmente i mercati sono frequentati da produttori locali o provenienti da ter-

ritori limitrofi. In molti mercati ai piccoli produttori agricoli si affiancano anche piccoli artigiani: falegnami, cestai, ceramisti, saponai, magliai, tessitori, ecc. In alcuni casi sono esclusi a priori i commercianti e i trasformatori puri (coloro che acquistano i prodotti per poi trasformarli, esclusi i pastai e i fornai). In altri è invece accettata, sotto partico-lari condizioni, anche la presenza di commercianti e trasformatori.

L’apertura o meno del mercato a soggetti diversi dai produttori, riconducibile evidentemente alla valenza attribuita al mercato dai soggetti promotori, costituisce un altro punto di notevole importanza; esso rappresenta uno dei più importanti elementi caratterizzanti per gran parte dei “mercati contadini” ed in molti casi è al centro del processo di negoziazione che si instaura con le amministrazioni pubbliche. L’inclusione dei commercianti ha evidentemente implicazioni importanti, di carattere opposto: da una parte, a patto che sia debitamente regolamentata (prevedendo la partecipazione solamente di commercianti locali e condizionandone la presenza alla commercializza-zione delle produzioni locali, ad esempio) può consentire di ampliare le dimensioni dei mercati e la gamma dei prodotti offerti, e attraverso ciò accrescere l’incisività dei mer-cati sullo sviluppo dell’agricoltura locale (comunque solamente per quell’agricoltura che ha minore possibilità di accesso alla vendita diretta) e più in generale dell’economia rurale locale; dall’altra, comporta inevitabilmente il rischio di uno snatu-ramento o almeno di una perdita di chiarezza dell’immagine del mercato come mo-mento di riavvicinamento tra produzione e consumo, nonché di un indebolimento dell’impatto positivo che i mercati possono avere sull’economia delle aziende agricole, determinando inevitabilmente una diminuzione del valore aggiunto per i produttori. L’inclusione di commercianti esterni o comunque senza che la loro presenza sia legata alla commercializzazione dei prodotti agricoli locali appare invece fortemente in con-trasto con quelle che sono le finalità generalmente attribuite ai mercati dei produttori e quindi non conveniente in relazione al rischio di comprometterne sia la valenza eco-nomica sia il significato e l’immagine presso i consumatori.

Concepiti nella maggior parte dei casi non solamente come momento di scambio commerciale, ma anche come spazio culturale, i mercati vedono spesso, oltre alla pre-senza delle associazioni dei piccoli produttori, anche la presenza di associazioni (ope-ranti nel sociale, nel commercio equo-solidale, nella medicina naturale, associazioni di

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consumatori come i GAS) o di movimenti/gruppi cittadini legati alla promozione di specifiche iniziative (dibattiti pubblici, raccolta di firme per petizioni, manifestazioni, corsi di educazione/formazione, ecc).

0-miles food

. Il concetto di food miles, le miglia del cibo, è stato inventato dallo studioso Tim Lang nei primi anni no-vanta, per mettere in evidenza quanto il cibo percorra grandi distanze prima di giungere sulle nostre ta-vole e impatti negativamente sulla sostenibilità ambientale. Da allora è stato varato un progetto di ricerca scientifica nelle università inglesi che è arrivato a quantificare in termini monetari il costo di queste food miles, a seconda del tipo di trasporto e delle sue emissioni, bilanciato con le quantità trasportate, i costi ambientali dei metodi di produzione, gli scarti di produzione e consumo, o anche fattori dei quali è com-plicato stabilire l´influenza, come i sussidi all´agricoltura. Il merito della ricerca inglese è stato di mettere in evidenza quanto sia decisiva, in termini di sostenibilità, la provenienza del nostro cibo, che arriva a in-cidere quasi quanto i metodi di agricoltura praticati.

In 2005, Alisa Smith and J.B. MacKinnon began a one-year ex-periment in local eating. Their 100-Mile Diet struck a deeper chord than anyone could have predicted, inspiring thousands of individuals, and even whole communities, to change the way they eat. Locally raised and produced food has been called “the new organic" — better tasting, better for the environment, better for local economies, and better for your health. From reviving the family farm to reconnecting with the seasons, the local foods movement is turning good eating into a revolution.

Fonte: http://100milediet.org/

Le dimensioni dei mercati sono allo stato attuale diverse. Alcuni sono piuttosto

grandi, raggiungendo ed oltrepassando i 50 espositori (di cui 30-35 produttori agricoli), mentre per la maggior parte sono frequentati da circa 15-20 produttori; alcuni mercati coinvolgono meno di 10 produttori.

La partecipazione ai mercati è per i produttori onerosa in termini di tempo e di organizzazione e questo è uno dei fattori che mina la loro continuità: laddove le di-mensioni iniziali non sono consistenti, come nei casi in cui non si raggiunge una decina di produttori, la progressiva riduzione (spesso unita alla discontinuità) della frequenza del mercato da parte dei produttori (i quali si riducono a tre-quattro, se non meno) por-ta spesso alla decisione di sospendere il mercato. Ovviamente questi processi sono for-temente influenzati dal livello di frequentazione dei mercati da parte dei consumatori, a sua volta legato alle caratteristiche del contesto in cui i mercati si sviluppano (urba-no/rurale; alti/bassi flussi turistici).

I consumatori che frequentano i “mercati contadini” sono per la maggior parte consumatori del luogo, in alcuni casi fidelizzati ai produttori. In alcuni periodi dell’anno (in relazione anche al luogo dove il mercato viene organizzato, se è più o meno visibile e facilmente raggiungibile) vi sono anche molti turisti. Alcuni dei produt-tori che partecipano ai mercati contadini riforniscono anche i GAS; in alcuni mercati questo aspetto fa sì che l’appuntamento mensile del mercato diventi anche occasione per consegnare i prodotti commercializzati in seno al GAS.

C’è una forte volontà di coinvolgimento dei consumatori da parte dei produttori, che si esprime attraverso la comunicazione della propria esperienza (tutti gli espositori hanno generalmente del materiale illustrativo sull’azienda e l’attività condotta), fino all’organizzazione durante lo svolgimento del mercato di specifiche iniziative, quali momenti di sensibilizzazione o di dibattito (su alimentazione, salute e medicina, agri-coltura, ambiente, specifiche iniziative locali) o momenti di convivialità (degustazione dei prodotti locali in spazi-ristorazione). In alcuni mercati ai consumatori viene offerta

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2. Agricoltura e sistema agro-alimentare

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la possibilità di andare a far visita ai produttori. L’accesso ai mercati dei produttori è generalmente regolato da parte dei soggetti

promotori (organizzati o meno in un Comitato), in relazione a quella che è la caratte-rizzazione del mercato, ma anche in funzione dello spazio disponibile. Nei casi, fre-quenti, in cui questo è ridotto, si tende a garantire la possibilità di partecipare agli stes-si produttori (fatta salva una possibile discontinuità dovuta alla stagionalità della pro-duzione), ciò per garantire una certa costanza dei caratteri del mercato, una sicurezza economica ai produttori e l’effettiva possibilità per essi di instaurare un rapporto di conoscenza con i consumatori. Diversi mercati comunque hanno attraversato o stanno attraversano una fase di crescita, con un progressivo aumento dei partecipanti. Tale processo è condizionato, oltre che dagli eventuali limiti posti dagli spazi disponibili, dalle caratteristiche del contesto, che, come si è detto, determina il grado di frequenta-zione del mercato da parte dei consumatori, ma anche dalla possibilità / disponibilità a partecipare da parte dei produttori, in relazione alla loro dislocazione sul territorio e alla loro organizzazione aziendale (disponibilità di persone/tempo/prodotto per par-tecipare a più mercati). Solo nel caso dei mercati di dimensioni maggiori viene attuata una rotazione dei partecipanti.

L’importanza di gestire adeguatamente l’accesso al mercato rende opportuna la presenza di norme condivise. Queste sono formalizzate (generalmente all’interno di un regolamento) solo per alcuni mercati, mentre negli altri casi assumono natura informa-le.

Le modalità di certificazione delle tecniche produttive adottate e di controllo della veridicità delle dichiarazioni rappresentano un altro aspetto importante, anch’esso oggetto di intenso dibattito all’interno delle associazioni dei produttori. In generale, in molti casi ai produttori viene richiesta un’autocertificazione per i propri prodotti, qualunque sia la pratica di agricoltura adottata, per garantire la trasparenza del processo produttivo ai consumatori. In molti mercati contadini, in relazione ai rap-porti di conoscenza diretta presenti, vige un controllo di tipo “sociale” che vede coin-volti tutti i produttori (in alcuni casi in modo più formale), e che si basa sulla circola-zione dell’informazione e sull’effettuazione di visite presso i singoli produttori. L’aspetto dell’autocertificazione riveste una più generale importanza, ponendo l’accento sul principio di responsabilità del produttore nei riguardi del consumatore e delle risorse naturali e culturali a cui esso attinge, nonché sul ruolo della fiducia tra produttore e consumatore, che si sviluppa nella comunicazione diretta fra i due sogget-ti e si traduce spesso in un rapporto di conoscenza e comprensione reciproca.

La gestione del prezzo costituisce un altro aspetto particolarmente delicato, per i significati che esso assume all’interno dei circuiti brevi di produzione-consumo (solida-rietà ed equità, trasparenza). Attualmente esso è in gran parte dei mercati gestito in modo informale, attraverso una valutazione condotta all’interno dei comitati di gestio-ne e una concertazione a livello individuale con i singoli produttori. Nonostante il so-stanziale accordo tra produttori e organizzatori dei mercati non sempre si riescono ad evitare incongruenze e mancanza di chiarezza sul motivo di forti differenze tra i prezzi praticati. Inoltre, in molti casi si registra una forte mancanza di trasparenza sulle moda-lità di formazione del prezzo.

Relativamente a molti degli aspetti sin qui considerati, è da segnalare come nella Legge Finanziaria 2007 (comma 1.065) sia stata esplicitata la volontà di promuovere lo sviluppo dei mercati degli imprenditori agricoli a vendita diretta, e, in particolare, sia prevista l’emanazione di un decreto ministeriale rivolto a fissare standard per mercati degli agricoltori in suolo pubblico; in esso verranno stabiliti i requisiti uniformi e gli standard per la realizzazione di detti mercati, anche in riferimento alla partecipazione degli imprenditori agricoli, alle modalità di vendita e alla trasparenza dei prezzi, non-ché le condizioni per poter beneficiare degli interventi previsti dalla legislazione in ma-teria.

Le esperienze di mercati dei produttori messe in atto sinora sono riconducibili al quadro normativo previsto dall’art. 4 del decreto legislativo 228/2001 e soprattutto alla riforma dell’art. 2135 del Codice Civile che ha ridisegnato la figura dell’imprenditore agricolo. L’art. 4 della Legge di orientamento ha introdotto la possibilità per le aziende agricole di effettuare la vendita diretta dei prodotti realizzati in azienda e, in una certa

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quota (divenuta con l’ultima Legge Finanziaria ancora più consistente, come si è detto in precedenza) anche di prodotti agricoli e trasformati di terzi. In tale quadro, i mercati dei produttori si configurano come una gestione in forma collettiva e solidale del mo-mento individuale di vendita diretta, di per sé non assoggettato (comma 7 dell’art. 4 del D.lgs. 228/2001) alle disposizioni di cui al decreto legislativo 114/1998 (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio).

Milk dispensers

Basta assaggiare un bicchiere di "Latte Crudo Nomeazienda" per apprezzar-ne la bontà, il gusto unico e naturale del latte appena munto. Il latte crudo viene munto tutti i giorni dalle mucche del nostro allevamento. Potete ac-quistarlo in qualsiasi momento presso il distributore automatico presente presso l'ingresso della nostra Fattoria. Il prezzo del latte crudo è di 1 €/litro, è necessario recarsi in Fattoria muni-ti di bottiglia o altro contenitore pulito; in alternativa potete acquistare sul posto bottiglie nuove in plastica alimentare a 20 centesimi. Subito dopo la mungitura il latte viene raffreddato e, senza subire alcun trattamento, viene posto nel distributore lasciandone intatti il sapore natu-rale ed i componenti nutrizionali.

Il "Latte Crudo NomeAzienda" può essere bevuto senza essere bollito e consumato entro 5 giorni dalla data di mungitura e confezionamento. Viene imbottigliato lasciandone intatti il sapore naturale ed i compo-nenti nutrizionali. Nell'Azienda Agricola Nomeazienda sono allevate mucche da latte ed i campi sono coltivati a prato, fru-mento, orzo e mais. La diversificazione e la rotazione colturale permettono di soddisfare i fabbisogni ali-mentari dell'allevamento e consentono un minor impatto ambientale dovuto all'utilizzo di pratiche agro-nomiche tradizionali.

Anche la conformità alle norme igienico-sanitarie relative ai processi di produ-

zione-trasformazione e alle fasi di trasporto e vendita dei prodotti rappresenta un mo-mento critico per l’organizzazione e la gestione dei mercati dei produttori, soprattutto considerando la complessità di alcune normative in materia e la marginalità di molte esperienze aziendali. Tale aspetto risulta ancora più critico se si considera che queste iniziative sono concepite per produttori di piccole e piccolissime dimensioni, importan-ti per il ruolo che rivestono nella conservazione e riproduzione dell’ambiente e della cultura rurale, ma altrettanto “fragili” sotto il profilo delle procedure e delle autorizza-zioni richieste dalle normative vigenti.

b) i Gruppi di Acquisto Solidali35

I Gruppi di Acquisto Solidale (GAS) rappresentano le esperienze che in questi anni si stanno più rapidamente diffondendo. I GAS sono prevalentemente costituiti da famiglie (coppie con o senza figli) o singoli di un’età compresa tra i 30 e i 50 anni. Si tratta generalmente di persone con un livello di istruzione medio-alto, mentre non è possibile identificare né un profilo professionale né un livello di reddito prevalente.

Le motivazioni che spingono alla formazione di un GAS sono spesso legate all’esperienza pregressa dei fondatori, in quanto già afferenti a movimenti fortemente impegnati nel sociale. Le principali finalità che vengono perseguite dai partecipanti dei GAS comprendono:

- la messa in atto di pratiche di consumo critico e responsabile; - la pratica di un’economia etica, attenta alle questioni sociali e ambientali; - il sostegno ai piccoli/piccolissimi produttori e ad un’agricoltura che continui a

presidiare il territorio; - il consumo di prodotti biologici ed ecologici, quindi sani e, in alcuni casi, a

prezzo vantaggioso; - il consumo di prodotti realizzati rispettando le condizioni di lavoro; - l’incidenza sulle politiche locali.

35 Il contenuto di questo paragrafo è basato su: Brunori, Cerreti, Guidi, e Rossi [2007].

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In merito alla consistenza del gruppo, se ne osserva un’elevata variabilità: si pas-sa da gruppi composti da 5-6 famiglie fino gruppi molto più grandi; in media, però il numero dei partecipanti si aggira intorno ai 20-25 nuclei (single/famiglie). E’ opportu-no, inoltre, considerare che il numero può variare nel tempo, a seguito di cambiamenti che si susseguono prima del raggiungimento di un certo grado di stabilità organizzati-va.

Anche i percorsi che portano alla nascita di un GAS sono estremamente diversifi-cati: si osserva che i primi gruppi si sono formati su iniziativa spontanea dei singoli promotori, generalmente consumatori ma anche piccoli produttori, mossi da forti mo-tivazioni ideologiche.

Nel corso degli ultimi anni, il crescente interesse mostrato dai consumatori nei confronti di tale iniziativa ha portato all’attenzione dei GAS il problema di come gesti-re la crescita, anche semplicemente dal punto di vista della logistica degli ordini e della distribuzione; alcuni gruppi sono andati incontro ad una naturale scissione in più gruppi; altri gruppi hanno scelto di non crescere, impegnandosi a sostenere la creazio-ne di nuovi GAS ed offrendo loro attività di tutoraggio nelle fasi iniziali. Si osserva, dunque, una certa preferenza nel mantenere un gruppo ristretto di consumatori, in quanto facilita il pieno coinvolgimento di ogni partecipante nei percorsi di formazione e nei processi decisionali.

I produttori agricoli vengono scelti dal gruppo secondo principi condivisi, tra cui:

- la dimensione aziendale: si tratta generalmente di piccoli o piccolissimi pro-duttori; nella maggior parte dei casi sono agricoltori professionali o coltivatori diretti, in altri sono favoriti gli hobbisti o gli agricoltori part-time;

- la distanza dell’azienda, che preferibilmente deve trovarsi nelle aree circo-stanti, nella provincia stessa o nelle province limitrofe, tranne per i prodotti che non possono essere reperiti in loco (per esempio le arance);

- la conoscenza diretta da parte di alcuni consumatori o di altri produttori, quindi la costituzione di un rapporto basato già in partenza sulla reputazione di cui il produttore gode e sulla fiducia ad esso accordata;

- la disponibilità del produttore a fornire informazioni e a trasferire conoscenza sui processi produttivi e quindi sulle caratteristiche dei prodotti (trasparenza, disponibilità/attitudine alla comunicazione).

- l’adesione a metodi di produzione a basso impatto ambientale, quindi agricol-tura biologica o biodinamica; in alcuni casi è richiesta la certificazione, ma nel-la maggior parte dei casi è sufficiente la fiducia riposta nel produttore. In al-cuni casi sono supportati anche agricoltori con produzione in conversione, co-sì da sostenerli e stimolarli nelle fasi più critiche;

- la sostenibilità dell’azienda anche da un punto di vista sociale: eticità nei rap-porti umani per evitare lo sfruttamento delle persone;

- la sostenibilità dell’azienda da un punto di vista energetico: attenzione al tipo di imballaggio, all’utilizzo di fonti rinnovabili per le attività interne all’azienda;

- il prezzo dei prodotti, la convenienza nel rapporto qualità-prezzo, poiché la scelta di far parte di un GAS non deve essere elitaria.

Il numero dei produttori coinvolti nei singoli GAS è anch’esso variabile e ovvia-mente dipende dalle dimensioni del GAS stesso: generalmente si tratta di un produtto-re per tipologia di prodotto, ma talvolta i GAS più grandi si riforniscono da più agri-coltori anche per lo stesso prodotto.

I prodotti acquistati dai gruppi sono prevalentemente alimentari: olio e vino, or-taggi e frutta, pane e altri prodotti da forno, pasta, riso, cereali, farine, formaggi, con-serve varie (marmellate, sughi, …), miele, carne. I vari prodotti sono disponibili duran-te l’arco dell’anno secondo la stagionalità.

Negli ultimi anni con la creazione di una rete GAS a carattere territoriale si sta diffondendo la forma degli acquisti collettivi, effettuati cioè da più gruppi per prodotti particolari, come le arance che vengono ordinate ad alcuni produttori siciliani. Il van-taggio risiede ovviamente in una minore incidenza dei costi oltre che in un minore im-patto ambientale dovuto alla riduzione del trasporto, aspetto quest’ultimo che rispec-

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chia perfettamente lo spirito ecologista che anima tutti i GAS. Molti gruppi si stanno organizzando anche per l’acquisto di altri prodotti: infatti,

anche se i generi alimentari continuano a rappresentare la fetta prevalente dei panieri, la maggior parte dei GAS ha inserito già da tempo tra i prodotti acquistati altri beni. Questo percorso ha richiesto un po’ di tempo in quasi tutte le realtà, in quanto si confi-gura come un’evoluzione nelle scelte dei consumatori, che perseguono pratiche di eco-nomia solidale a tutto tondo. Si assiste, quindi, all’acquisto di detersivi ecologici per la pulizia della casa o per l’igiene intima e a scelte coerenti anche nel campo dei servizi: l’utilizzo di operatori telefonici no-profit come Livecom, di provider come Lillinet e di software open source; Banca Etica come alternativa per i servizi bancari, MAG (Mutua per l’Autogestione) per i finanziamenti, CAES (Consorzio Assicurativo Etico Solidale) per le assicurazioni, ecc.

L’organizzazione dei GAS è connotata solitamente da una conduzione informale delle attività, completamente autonoma ed autogestita. Si registrano alcuni casi spora-dici in cui il GAS si orienta verso forme di costituzione formale con lo scopo di costitui-re un organo giuridicamente riconoscibile a livello istituzionale per lo svolgimento del-le proprie attività. In altri casi, i GAS si appoggiano a strutture preesistenti, come asso-ciazioni e cooperative che lavorano per lo più nell’ambito sociale o del commercio equo e solidale, inserendosi in un contesto in cui, anche se l’attività d’acquisto e consumo non risulta essere l’aspetto principale, essa rappresenta comunque parte integrante del-le funzioni della realtà in cui è inserita.

La quasi totalità dei GAS mostra al contrario la volontà di rimanere totalmente autonoma ed informale, non sentendo la necessità di dover individuare regole rigide per la propria ge-stione, ma, al con-trario, identificando nell’autogestione un punto di forza necessario per la divulgazione delle tematiche perseguite.

Relativamente alle modalità operative con cui viene gestito l’approvvigionamento, ogni gruppo ha un’organizzazione peculiare e rispondente alle esigenze delle persone che ne fanno parte. Si è detto che i GAS si configurano general-mente come organizzazioni prive di forma giuridica e quindi la vendita dei prodotti si configura come vendita diretta a soggetti privati.

Talvolta, i produttori vengono prefinanziati, cioè i prodotti vengono pagati con alcune settimane di anticipo (questo tipo di organizzazione permette al produttore di affrontare meglio lo sforzo finanziario per lo svolgimento dell’attività produttiva); nel-la maggior parte dei casi, tuttavia, il pagamento viene effettuato al momento della rac-colta dell’ordine, o al momento della distribuzione ed, in ogni caso, il referente si inca-rica di pagare il produttore con contanti o tramite bonifico bancario.

Le forme di distribuzione sono varie: generalmente ci sono uno o più punti di raccolta dove i produttori portano i propri prodotti e i consumatori si recano a ritirarli. La distribuzione è solitamente gestita dai consumatori stessi ed è colta come momento conviviale, di scambio e di discussione tra i partecipanti al GAS. In alcune casi, quando sul territorio è presente un mercato dei produttori a cui partecipano anche alcuni forni-tori dei GAS, l’appuntamento mensile del mercato diventa anche occasione per la con-segna dei prodotti.

Generalmente, il prezzo dei prodotti viene proposto dal produttore ed accettato dai consumatori. Ovviamente le problematiche legate alla definizione dei prezzo sono influenzate dal tipo di produzione aziendale. Facendo riferimento in particolar modo ai prodotti ortofrutticoli (che risultano essere i prodotti più diffusamente acquistati, e quindi più rappresentativi), i prezzi rilevati variano da 1,00-1,50€/kg a 2,00-2,50€/kg per prodotti distribuiti in buste o ceste di peso prestabilito, sia nel periodo estivo che in quello invernale. Il prezzo rimane cioè invariato rispetto al tipo di prodotto che il con-sumatore può trovare all’interno della busta o della cesta, poiché esso è solitamente calcolato come media tra i prezzi più alti delle verdure in estate e quelli più bassi delle verdure invernali. Alcuni prodotti tipo patate o fagiolini, avendo un prezzo rispetti-

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vamente molto basso e molto alto, vengono generalmente venduti su richiesta. I pro-duttori individuano il giusto prezzo di vendita facendo riferimento ai prezzi della mo-derna distribuzione e della vendita al dettaglio, tenendo conto dell’organizzazione aziendale e dei costi di produzione: la mancanza dell’intermediario porta alla fine a formulare un’offerta in grado di soddisfare sia la condizione del produttore che quella del consumatore. Mentre in alcuni gruppi l’acquisto collettivo porta ad un risparmio nella spesa dei beni alimentari, altri grup-pi agiscono mossi dalla volontà di soste-nere i piccoli produttori agricoli indipen-dentemente dal prezzo proposto.

Sono abbastanza frequenti, in quasi tutti i GAS censiti, momenti di conviviali-tà sia tra i soli consumatori che tra con-sumatori e produttori: sono generalmente occasioni durante le quali vengono svolte attività collettive che vanno da momenti culturali, al baratto, a momenti di co-produzione. In queste occasioni i consu-matori si incontrano per partecipare atti-vamente ad alcune delle attività del pro-duttore.

In alcuni casi sono stati realizzati con più o meno successo o sono in corso di realizzazione “orti sociali o di comu-nanza”, spazi cioè dove i consumatori producono da soli i prodotti agricoli. La volontà di organizzare un’esperienza del genere è nata soprattutto in alcune aree dove i consumatori dei GAS della zona hanno trovato molte difficoltà ad indivi-duare produttori locali che rispondessero ai criteri da loro condivisi.

Si nota anche la volontà della mag-gior parte dei GAS di creare una rete tra GAS a tutti i livelli: esiste già un sito internet che mette in comunicazione i GAS a livel-lo nazionale e ci sono state varie riunioni di GAS a livello regionale e provinciale.

Per quanto riguarda i rapporti con le istituzioni locali, si nota una generale mancanza di interesse da parte degli aderenti ai gruppi a relazionarsi con le ammini-strazioni locali. Si tratta, infatti di movimenti che per alcuni anni sono rimasti sostan-zialmente “invisibili” alle istituzioni, manifestando una chiara volontà di autonomia e di autogestione e l’intenzione di conservare il carattere informale dei relazioni sia tra i partecipanti al gruppo che tra il GAS e i produttori. c) le strade del vino e dei sapori

Le strade del vino (e dei sapori) rappresentano un importante esempio di inizia-tiva di collegamento a rete che intende creare una sinergia e un coordinamento nelle attività di promozione e commercializzazione delle produzioni delle aziende vitivini-cole aderenti, e tra di esse e le altre imprese portatrici di un prodotto e servizio ad esse “coerenti” (altre aziende agricole non vitivinicole, aziende agricole agrituristiche, risto-ranti, esercizi commerciali specializzati nella vendita di prodotti locali e tipici, musei, parchi, etc.).

Allo stesso tempo, le strade offrono un esempio delle nuove tipologie di rapporti che si vengono ad instaurare tra il mondo della produzione e il mondo del consumo, permettendo l’allestimento di un’offerta collettiva di un paniere di prodotti e servizi che, facendo leva sulle caratteristiche e peculiarità del territorio, permette di catturare varie componenti e tipologie di domanda, più o meno specificamente interessata al

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prodotto e al suo contesto produttivo e culturale, ma che nel complesso si mostra in forte ascesa36.

L’attivazione di una strada del vino permette al visitatore di poter accedere alle aziende produttrici per mezzo di visite guidate ai vigneti e alle cantine, di degustare l’offerta dei vini locali, di acquistare vini e altri prodotti alimentari, di visitare strutture museali dedicate alla storia del vino e dell’agricoltura locale, di soggiornare presso aziende agrituristiche degustando le specialità gastronomiche dell’area, acquistando prodotti tipici locali e godendo del paesaggio e delle risorse artistiche e culturali del territorio. Sono spesso proprio le aziende agrituristiche quelle più attrezzate e abituate all’accoglienza a costituire la vera porta di accesso per il visitatore, assieme al centro di accoglienza o punto informativo di cui ogni Strada è dotata.

Condizione (necessaria ma non sufficiente) per il successo di una Strada del vino è la presenza di un’immagine consolidata del vino del territorio e di aziende vitivinico-le organizzate e professionali, oltre ad un contesto agricolo, ambientale e artistico in grado di catturare l’immaginario del visitatore e dell’enoturista. I particolari caratteri della Toscana come area turistica, e in particolare l’elevata dotazione di capitale simbo-lico incorporato nei prodotti alimentari regionali, unitamente al favorevole contesto istituzionale, rendono la regione un territorio particolarmente favorevole per l’attivazione delle Strade del vino, anche se il fenomeno è qui abbastanza recente, an-che a causa dell’altrettanto recente riscoperta in Italia da parte di fasce sempre più grandi di consumatori della “cultura del vino”.

Tipologie di domanda in funzione della specificità dell’interesse del turista

Numero dituristi

TurismoGastronomico

Turismo rurale

Primario Secondario Altri interessi

Importanza dell’interesse nel vino/cibo e motivazione del viaggio

Elevano interesse – es. Viaggio con la principale motivazione di visitare un ristorante, cantina o

mercato particolare. Quasi tutte le attività programmate sono collegate al vino/cibo

Interesse moderato – la visita ad un mercato

locale, sagra, ristorante o cantina fa parte di un

insieme più diversificato di attività legate allo stile di

vita rurale

Basso interesse – la visita ad un

mercato, cantina, ristorante è spinta

dal desiderio di fare qualcosa di diverso

Altri turismi

La Toscana è una delle regioni italiane dove il fenomeno si è maggiormente dif-

fuso. In Toscana la normativa sulle strade del vino ha preceduto la normativa naziona-le con la legge regionale 69/96 “Disciplina delle strade del vino in Toscana”, che ha come obiettivo “Valorizzare e promuovere i territori ad alta vocazione vitivinicola,

36 Secondo un’indagine realizzata dall’Osservatorio Internazionale del Turismo Enogastronomico circa 5 milioni di “turisti del vino” ha visitato l’Italia nel 2005. La Toscana è la prima regione per quanto riguarda il turismo enogastronomico. Le richieste più frequenti dei turisti prevedono la visita ad aziende vitivinico-le (28%) e alle piccole imprese dove i prodotti locali sono realizzati (29%). Il 17% delle visite termina con un acquisto. La tipologia di turista enogastronomico prevalente viaggia in Primavera e in Autunno e ha un’età compresa tra i 26 e i 45 anni. Un’indagine del 2004 [Antonioli Corigliano, 2004] mostra come i turisti che sono stati motivati a viaggiare esclusivamente per motivi enogastronomici sono per il 22,5% austriaci, 27% svizzeri e 11,5% tedeschi.

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nonché le produzioni e le attività ivi esistenti attraverso la qualificazione e l’incremento dell’offerta turistica integrata”. Il regolamento di attuazione ha fissato i requisiti mini-mi di immagine, nonché gli standard di qualità delle principali tipologia di attori ade-renti all’iniziativa (aziende vitivinicole, aziende agrituristiche, enoteche, ristoranti, osterie, artigiani, istituzioni e associazioni, enti locali, Camere di Commercio, industria e artigianato, musei della vite e del vino). Secondo la LR 69/96 (art.1.2), "le Strade del vino" sono percorsi caratterizzati da attrattive naturalistiche, culturali e storiche, non-ché da vigneti e cantine di aziende agricole singole o associate aperte al pubblico.”37.

Nel 1999 le strade del vino vengono regolate anche a livello nazionale dalla Leg-ge 268/199938. Si tratta di una legge quadro, in quanto delega le Regioni a disciplinare la materia nel rispetto di alcuni principi generali in essa riportati

In Toscana la normativa sulle strade del vino è stata poi ulteriormente modificata dalla LR 5 agosto 2003, n. 45 “Disciplina delle strade del vino, dell’olio extravergine di oliva e dei prodotti agricoli e agroalimentari di qualità” (da qui in avanti semplicemen-te “Strade”), che detta norme sulle modalità di riconoscimento delle nuove strade, sulla composizione e funzionamento del Comitato di Gestione e sui contributi assegnabili a sostegno delle iniziative39. Con Decreto del Presidente della Giunta Regionale del 16 marzo 2004 n.16 è stato infine emanato il relativo regolamento di attuazione. Secondo la nuova legge regionale, le Strade sono “percorsi segnalati e pubblicizzati lungo i quali insistono vigneti, oliveti, altre coltivazioni, allevamenti, aziende agricole singole o as-sociate e strutture di trasformazione aperte al pubblico, nonché beni di interesse am-bientale e culturale”. La nuova legge regionale ha inteso quindi estendere la portata dell’iniziativa fino a comprendere anche tutte le altre produzioni agro-alimentari di qualità oltre ai vini, e in particolare le produzioni che hanno ottenuto una DOP o una IGP, i prodotti da agricoltura biologica e da agricoltura integrata (marchio Agriqualità), i prodotti tradizionali. Le nuove strade possono essere attivate soltanto nei territori do-ve non sono già state riconosciute Strade del vino ai sensi della precedente normativa regionale, mentre le strade esistenti possono essere integrate.

Sulla base della legge regionale e attraverso la stretta integrazione tra attori pub-blici e privati da essa promossa, sono state costituite (al 2007) 15 strade del vino40, che coinvolgono circa 1.500 aziende. Queste Strade rappresentano la quasi totalità dei vini a denominazioni di origine della Toscana, con la esclusione, fra i vini più famosi, del Chianti Classico e del Brunello di Montalcino. Con la nuova legge altre 5 strade sono state create, delle quali due nell’area aretina, una della zona del Montalbano, una nell’Appennino Pistoiese e una nei Monti Pisani, relative alla valorizzazione dell’olio e di altri prodotti41.

37 Secondo la definizione riportata nel sito internet dedicato dalla Regione Toscana, “le "Strade del Vino" sono percorsi entro territori ad alta vocazione vitivinicola caratterizzati, oltreché da vigneti e cantine di aziende agri-cole, da attrattive naturalistiche, culturali e storiche particolarmente significative ai fini di un'offerta enoturistica integrata. Le "Strade del Vino" costituiscono uno strumento di promozione dello sviluppo rurale e del suo territorio e intendono favorire e promuovere l‘enoturismo, quale movimento inteso a valorizzare la produzione vitivinicola nell'ambito di un contesto culturale, ambientale, storico e sociale.”. 38 Il regolamento attuativo è contenuto nel Decreto del Ministro delle Politiche Agricole 8 settembre 1999 n.350. 39 Si tratta in particolare delle seguenti attività: realizzazione della segnaletica; allestimento o adeguamen-to del centro di informazione, del centro espositivo e di documentazione, adeguamento agli standards di qualità; realizzazione e adeguamento di percorsi e camminamenti sicuri all’interno degli stabilimenti di lavorazione e di trasformazione dei prodotti agricoli e alimentari, al fine di consentire le visite durante la lavorazione; realizzazione di attività di comunicazione e interventi di animazione. 40 Recentemente si è tuttavia sciolta la Strada del Vino dei Colli Fiorentini. 41 Si tratta in particolare della Strada dei Sapori della Valtiberina, riconosciuta per il Tartufo (prodotto tradizionale), il Vitellone bianco dell'Appennino centrale Chianina IGP ed il Miele (prodotto tradizionale), della Strada dell'Olio e del Vino del Montalbano-Le Colline di Leonardo, riconosciuta per Olio extravergi-ne di oliva Toscano-Montalbano IGP e per il vino del Montalbano (Chianti Montalbano, Chianti e Bianco della Valdinievole), della Strada dei Sapori del Casentino, riconosciuta per il Vitellone bianco dell'Appen-nino centrale Chianina IGP ed il Prosciutto del Casentino (prodotto tradizionale), della Strada dell'olio IGP Monti Pisani, riconosciuta per l’Olio extravergine di oliva Toscano-Monti Pisani IGP, e recentemente della Strada dei Sapori e dei Colori dell’Appennino Pistoiese per il fagiolo di Sorana IGP, il Pecorino a latte cru-do della Montagna Pistoiee (prodotti tradizionale) e la farina di castagne pistoiese (prodotto tradizionale) (Tarducci, 2006).

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La creazione degli itinerari tematici ha offerto alle aziende la possibilità di poter diversificare l’attività di impresa, di accedere o potenziare le iniziative di vendita diret-ta e di trasformazione aziendale delle produzioni, raggiungendo così un contatto diret-to col consumatore finale che permette di migliorare le conoscenze e le competenze di mercato e di innalzare la cultura d’impresa e la consapevolezza dei valori del territorio, valorizzando le risorse umane aziendali. La realizzazione di sinergie tra le attività pro-duttive del territorio ha permesso inoltre di rendere più attrattiva l’offerta turistica lo-cale e di attivare e consolidare la rete di relazioni sul territorio. Non indifferente inoltre è la possibilità di dialogo istituzionale offerta dalla creazione delle Strade, che ha per-messo di avvicinare Istituzioni pubbliche non sempre abituate alla realizzazione di ini-ziative congiunte.

Relativamente alle aree di miglioramento, una prima area problema è relativa al-la stabilità e professionalità dell’attività delle Strade, ed è strettamente legata alla pos-sibilità di disporre di un flusso di risorse tale da permettere di dotarsi di una struttura stabile, soprattutto in termini di personale, destinata all’organizzazione dell’attività della Strada. Ad ostacolare il raggiungimento di questo obiettivo concorre anche la par-ticolare natura giuridica della Strada, che non permette di svolgere attività di impresa e quindi di autofinanziarsi (ad esempio tramite l’organizzazione e vendita di “pacchetti” turistici legati all’enogastronomia), anche se la nuova legge regionale ha recentemente esteso la gamma delle attività finanziabili anche alle attività promozionali e di comuni-cazione. La disponibilità di risorse finanziarie e (conseguentemente) umane stabili po-trebbe consentire di realizzare una migliore gestione delle attività ordinarie della Stra-da, tra cui, oltre alle attività informative e promozionali verso l’esterno, anche lo svol-gimento dei controlli della qualità dei servizi che ogni azienda associata deve assicura-re per poter appartenere alla Strada (quali il rispetto di orari minimi di apertura per i turisti, o l’allestimento della sala degustazione), nonché una migliore pianificazione delle attività e una maggiore autonomia nella scelta delle iniziative dalle disponibilità di risorse che volta in volta vengono a determinarsi da istituzioni esterne.

Una seconda area è relativa al grado di partecipazione e coinvolgimento degli as-sociati alle attività della Strada, dove si osservano categorie di soci a diversa “velocità”. E’ stata infatti evidenziata una certa difficoltà nel coinvolgere alcune aziende vitivini-cole, in particolare quelle che non poggiano sul mercato locale e/o turistico per la commercializzazione delle proprie produzioni, e che dunque non vedono nelle attività della Strada un sufficiente ritorno in termini di economicità e di immagine. D’altra par-te l’eterogeneità delle tipologie di impresa e dei canali commerciali praticati rende dif-ficile alla Strada presentarsi con un’immagine e una strategia di valorizzazione comu-ne. Anche all’interno della categoria delle Istituzioni pubbliche inoltre viene rilevata una diversa “motivazione” e partecipazione alle attività.

Al problema della partecipazione “interna” alla Strada può aggiungersi quello relativo alla collaborazione tra la Strada e le altre istituzioni del territorio, non sempre a livelli adeguati.

4.3. L’estensione dell’attività agricola verso nuove attività

L’estensione Un altro sentiero percorribile consiste nella fornitura di servizi che non rientrano

nel tradizionale alveo delle attività produttive agricole. A fianco delle attività volte alla fornitura di servizi di tutela dell’ambiente naturale, le imprese agricole hanno negli ul-timi anni sviluppato nuove attività “relazionali” che vanno oltre il soddisfacimento della funzione alimentare (produzione di alimenti, sicurezza alimentare, qualità dei prodotti, ecc.) e si rivolgono ad un pubblico di cittadini “non consumatori”, interessati a (ri-)entrare in contatto con le aziende agricole come strumento di connessione con i valori del mondo rurale, per soddisfare bisogni di ricreazione (es. agriturismo, cavallo), di istruzione (es. fattorie didattiche, antichi mestieri), di ri-generazione fisica e psichica (es. agricoltura sociale).

Si tratta di un insieme di attività che offrono nuove opportunità di reddito e di occupazione alle aziende agricole, e nel contempo di diversificazione dell’attività

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aziendale, permettendo agli imprenditori agricoli di entrare in contatto con una tipolo-gia molto diversa di “clientela”, spesso di estrazione e cultura urbana, che ha da tempo perduto i contatti con il mondo rurale. L’orientamento verso queste tipologie di attività permette all’impresa di entrare in contatto col mondo dell’istruzione, della sanità, del turismo, e richiede uno sforzo organizzativo e una preparazione imprenditoriale spes-so molto distanti dalle conoscenze e competenze presenti all’interno dell’impresa

a) Le fattorie didattiche

Non esistono definizioni ufficiali del termine “fattoria didattica”. Nonostante questo, è possibile identificare come fattoria didattica un’impresa agricola che accoglie al suo interno visite di singoli o gruppi di cittadini interessati ad acquisire conoscenze e competenze inerenti le attività agricole e rurali e i loro valori culturali.

La diffusione del fenomeno delle fattorie didattiche è relativamente recente, e si è sviluppato soprattutto in paesi e contesti “avanzati”, laddove cioè si erano verificati fe-nomeni più intensi di urbanizzazione e di aumento della distanza fisica e culturale tra città e campagna. Le prime esperienze vengono avviate infatti soprattutto nei paesi nord-europei con finalità di avvicinare i giovani ai temi della natura, dell’agricoltura e dell’alimentazione. Si tratta in particolare delle city farms e dei community gardens, ov-vero strutture ubicate in ambito urbano e periurbano con l’obiettivo di facilitare gli abi-tanti delle città a scoprire le caratteristiche dei processi agricoli e di creare momenti di socializzazione.

Sempre con l’obiettivo di facilitare il contatto tra città e campagna, anche in Italia negli ultimi anni si sono diffuse iniziative di “fattorie aperte”, vale a dire manifestazio-ni particolari e temporalmente definite, spesso legate a produzioni particolari (vino, olio, carne) nell’ambito delle quali le aziende agricole aderenti erano disponibili ad ac-cogliere visitatori e illustrare i processi produttivi offrendo degustazioni.

In Italia le fattorie didattiche hanno avuto un forte impulso grazie ai programmi di educazione alimentare promossi dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali a partire dal 1996, ed è abbastanza recente la creazione di vere fattorie didatti-che, ovvero di imprese agricole (solitamente agrituristiche) che professionalmente or-ganizzano iniziative non episodiche con funzioni educative su temi legati al mondo agricolo, alla vita in campagna e all’alimentazione (visite guidate in azienda, parteci-pazione alle lavorazioni e al condizionamento e trasformazione dei prodotti, corsi di educazione al gusto, di equitazione, di ceramica, ricamo, ecc.) destinate ad un pubblico solitamente in età scolare ma che può interessare anche persone in età adulta.

Il fenomeno si è diffuso soprattutto nel Nord Italia (dove cioè più intensi sono stati i fenomeni di urbanizzazione e di scollamento città -campagna, ma anche per la maggior presenza di aziende strutturalmente più organizzate ed un maggior sostegno delle istituzioni pubbliche). Secondo un censimento realizzato dall’Osservatorio Agroambientale di Cesena-Forlì nel 2002 sarebbero infatti 364 le fattorie didattiche ubi-cate nel Nord Italia, su un totale nazionale di 444 [Osservatorio Agroambientale, 2006].

Per quanto riguarda la normativa, a livello nazionale manca una specifica legge che disciplini l’attività di “fattoria didattica”. Per molto tempo il riferimento principale è stato costituito dalla LN 730/85 sull’agriturismo. Il primo intervento che tratta speci-ficamente di attività didattiche in ambito agricolo è contenuto all’interno dell’art.123 della LN.388/2000: “Le attività di ricezione e di ospitalità, compresa la degustazione dei prodotti aziendali e l’organizzazione di attività ricreative, culturali e didattiche svolte da aziende agricole nell’ambito della diffusione di prodotti agricoli biologici o di qualità, possono essere equiparate ai sensi di legge alle attività agrituristiche di cui all’art.2 della legge 5 dicembre 1985, n.730, secondo i principi in essa contenuti e se-condo le disposizioni emanate dalle regioni o dalle province autonome”. Un importan-te passo avanti è stato fatto con la Legge di orientamento (D.lgs. n.228/2001) che attri-buisce ai servizi didattici la dignità di “attività connessa”. L’attività didattica non è di esclusiva pertinenza delle aziende agrituristiche, ma può essere esercitata da tutte le aziende agricole.

A livello regionale soltanto pochissime Amministrazioni hanno disciplinato la materia in maniera specifica (Abruzzo con LR 32/94, Campania con D.G.R. 3909/2003, Umbria con la LR 13/2005 e Sicilia con D.D.G. 97/2005); nel resto dei casi vale dunque

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la normativa prevista per l’attività agrituristica. Anche in Toscana non esiste una legge specifica. Il primo passo del legislatore regionale è stato l’inserimento all’interno della LR 76/94 (sull’agriturismo) della tipologia di attività didattica, ripreso poi dalla più re-cente LR 30/2003 sull’agriturismo in Toscana42.

Le motivazioni che portano le aziende agricole ad iniziare l’attività didattica pos-sono essere numerose. Una motivazione risiede nella possibilità di ottimizzare l’impiego del lavoro familiare, soprattutto in periodi di bassa stagione “agrituristica”. Inoltre l’ospitalità di persone all’interno dell’azienda con finalità didattiche ed educati-ve offre all’impresa agricola la possibilità di instaurare un rapporto diretto con il mon-do dell’istruzione in senso lato per comunicare le specificità delle caratteristiche dell’agricoltura e della vita nelle aree rurali, e nel contempo offre una possibilità di di-versificazione delle fonti di reddito e di promozione dei prodotti dell’azienda e delle altre risorse produttive, ambientali, culturali e artistiche del territorio. In questo senso le fattorie didattiche possono essere interpretate come “Centri territoriali di educazione agricola e ambientale” a disposizione soprattutto di un pubblico “urbano”, i cui legami con le caratteristiche e le peculiarità delle attività produttive agricole e con i valori della ruralità sono allentati.

Sul lato della domanda, normalmente i destinatari privilegiati delle attività didat-tiche sono i bambini in età scolare e alcune tipologie di scuole superiori (ad esempio l’istituto alberghiero), anche se alcune attività sono rivolte ad adulti e a realtà organiz-zate (associazioni giovanili, scouts, studenti, stagisti, gruppi universitari della terza età, famiglie…) con finalità diverse.

Normalmente i temi di interesse sono relativi alla cultura ed educazione alimen-tare e al gusto, alla storia e alle tradizioni del mondo rurale, alla conoscenza delle tec-niche agricole e degli antichi mestieri, alla vita degli animali, all’organizzazione di una fattoria. Le produzioni maggiormente interessanti in questo senso sono normalmente il formaggio, il miele, l’olio, la frutta e la verdura, i cereali.

Il contatto tra fattorie didattiche e utenti finali può avvenire secondo una plurali-tà di forme diverse, che vanno dalla conoscenza diretta tra docente e azienda agricola, fino a forme di intermediazione e iniziative a rete quali quelle attivate dalle organizza-zioni professionali agricole. b) L’agricoltura sociale43

Raramente, e solo negli ultimi tempi, viene inclusa la funzione sociale nel venta-glio delle molteplici funzioni che le società avanzate riconoscono alle attività agricole. Eppure, storicamente questa è una delle funzioni che l’agricoltura non ha mai smesso di svolgere sebbene nel periodo della modernizzazione la funzione sociale sia stata su-bordinata alla primaria funzione reddituale. Nelle prossime pagine presenteremo le condizioni che rendono le attività agricole un ambito ad alto potenziale di erogazione di servizi sociali, con particolare riferimento a fasce deboli della popolazione.

La capacità delle attività agricole di generare benefici di carattere sociale, quali quelli di carattere terapeutico-riabilitativo nei confronti di particolari gruppi della po-polazione, non è certamente una novità nelle campagne. Se ad esempio si considerano i

42 In Toscana il fenomeno delle fattorie didattiche è in crescita: il già richiamato censimento realizzato dall’Osservatorio Agroambientale rilevava solo 9 aziende in Toscana. Tuttavia la recente indagine condot-ta dall’IRPET nel corso del 2006 [ARSIA-IRPET-Regione Toscana, 2006] ha individuato 66 aziende agricole che si dichiarano fattorie didattiche, e molte altre propongono percorsi educativi per bambini o per adulti. La crescita del fenomeno avviene in maniera disomogenea a livello territoriale e ancora poco coordinato, nonostante che si stiano sviluppando sul territorio alcune iniziative “a rete” attivate da istituzioni pubbli-che e/o organizzazioni professionali, in particolare CIA (Scuola in fattoria) e Coldiretti (Fattoria amica). Si tratta in genere di aziende agricole di medie dimensioni e a conduzione familiare, caratterizzate da ordi-namenti produttivi sufficientemente diversificati (talvolta diversificati proprio per accogliere le diversifica-te richieste che provengono dal mondo della scuola). La maggior parte delle aziende ha già avviato un’attività agrituristica, rendendo più agevole l’attivazione della parte “didattica” sia per la disponibilità di strutture ricettive che della necessaria autorizzazione. 43 La stesura del paragrafo L’agricoltura sociale costituisce una sintesi della pubblicazione: Di Iacovo F., Senni S. [2005], "I servizi sociali nelle aree rurali", Rete Nazionale per lo Sviluppo Rurale, Quaderno Infor-mativo n.1. Mi scuso con l’amico Saverio Senni per eventuali sviste o tagli al testo, cui senz’altro rimando per approfondimenti sul tema.

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disabili, è agevole notare come nel linguaggio corrente vengono definite tali persone accomunate dall’assenza/insufficienza di una o più “abilità”. Questo significato, per così dire in negativo, della disabilità si accentua man mano che nel processo di svilup-po si passa da una società agricola e rurale ad una industriale e urbana.

Nel tessuto industriale e cittadino la mancanza di alcune abilità determina situa-zioni problematiche per gli individui che ne sono portatori, per le loro famiglie e per la comunità intera, con conseguenti fenomeni di marginalizzazione o di vera e propria esclusione dalla vita sociale. Diversamente, l’agricoltura contadina tradizionale non conosceva la “disabilità”, almeno nei termini con cui la si intende comunemente oggi. Quell’agricoltura trovava una mansione, un ruolo, anche se limitato, per tutti i compo-nenti della famiglia contadina, ognuno coinvolto e partecipe della vita sociale e produt-tiva di quella comunità familiare. (…)

Se il tradizionale tessuto familiare contadino è andato scemando in gran parte dei territori rurali italiani, la struttura familiare delle imprese agricole rimane ancora un tratto dominante nell’agricoltura italiana, e può costituire un elemento di forza nella progettazione di un’offerta di servizi sociali alla persona da parte delle aziende stesse (…), con interventi fondamentalmente riconducibili a due ambiti:

a) interventi di carattere terapeutico-riabilitativo; b) interventi finalizzati all’inclusione sociale.(…) a) La funzione terapeutico-riabilitativa del processo produttivo agricolo Caratteristica del tutto peculiare delle attività agricole è quella di svilupparsi in

uno stretto rapporto tra l’uomo e le piante o gli animali. E’ solo a partire dagli anni trenta del XX secolo che si cominciano a diffondere prima all’interno degli ospedali psichia-trici poi gradualmente in ambienti esterni i programmi terapeutici e di riabilitazione basati sulla cura delle piante. Nel dopoguerra nasce e si sviluppa nei paesi anglosasso-ni una vera e propria disciplina curativa che coniuga competenze mediche con quelle botaniche: si tratta dell’Horticultural Therapy, solo da pochi anni tradotta come “terapia assistita con le piante”. Analogamente, a partire dagli anni ottanta si sviluppa un cre-scente interesse verso forme terapeutiche assistite con gli animali.

I punti di forza di questi percorsi di intervento medico-sanitario risiedono in al-cune prerogative specifiche delle attività colturali e di cura degli animali. Queste hanno a che fare con elementi familiari, quali sono appunto le piante e gli animali, e pertanto agevolmente ‘riconoscibili’ anche da individui con limiti o difficoltà di natura cognitiva o psichica. Si tratta inoltre di elementi che non discriminano e, soprattutto per quanto ri-guarda le piante, non presentano caratteri di minacciosità nei nostri confronti. (…)

Con riferimento alle modalità con cui possono svilupparsi le relazioni uomo-pianta in un contesto agricolo, è opportuno rilevare come queste nel corso dei secoli si siano notevolmente dilatate. Il ventaglio delle possibilità produttive e delle tecniche di produzione della gran parte dei prodotti dell’agricoltura è oggigiorno estremamente ampio e diversificato. Una generica coltivazione può essere condotta al coperto oppure in pieno campo, o in entrambe le modalità in successione. Possono essere utilizzati pre-sidi chimici in modo ampio, parziale o nullo, avvalendosi dei metodi di coltivazione biologico o biodinamico. Il grado di meccanizzazione può essere molto variabile, oscil-lando tra la possibilità di realizzare cicli produttivi quasi interamente meccanizzati e quella di condurli con modalità esclusivamente manuali. (…)

Un ulteriore aspetto dell’agricoltura riguarda l’aver a che fare con tempi biologi-ci. L’arco temporale in cui si sviluppano i processi di produzione agricoli, per quanto variabile, è generalmente molto lungo rispetto a quanto non avvenga nel settore se-condario o nel terziario. Il progresso tecnico è sì riuscito in alcuni casi ad abbreviarlo, ma in misura limitata. La relativa lentezza dei cicli di produzione agricoli rende il set-tore primario un ambito nel quale i ritmi di lavoro non sono quasi mai incalzanti; con-sente di poter modulare la ‘velocità’ di esecuzione delle varie operazioni e anche di fermarsi, di concedersi pause, senza per questo necessariamente mettere a rischio la qualità del prodotto finale.

L’intensità delle sollecitazioni sensoriali che si hanno conducendo attività a ca-rattere agricolo rappresenta un ulteriore aspetto che viene sovente sottolineato nella letteratura sul ruolo terapeutico delle attività agricole. La vista, l’udito, l’olfatto e, ov-

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viamente, il gusto nell’assaporare i prodotti del proprio lavoro, vengono tutti stimolati in un contesto di produzione agricola e ciascuno di questi può rappresentare uno strumento terapeutico. In diversi casi relativi a soggetti con patologie che ne hanno de-terminato un’intima chiusura rispetto al contesto sociale esterno proprio lavorando su-gli stimoli sensoriali che genera il contatto attivo con le piante è stato possibile conse-guire importanti risultati terapeutici.

Fare agricoltura implica inoltre movimento fisico. Oltre a quella sensoriale, anche la dimensione motoria dell’individuo viene continuamente sollecitata; le mansioni se-dentarie sono molto limitate e ciò viene considerato un aspetto rilevante nel caso di soggetti con patologie di tipo mentale o della sfera psichica che si ripercuotono negati-vamente, con diverse modalità, anche sulla sfera motoria.

L’interazione con organismi viventi presenta altri aspetti interessanti nella pro-spettiva di una finalità sociale delle attività agricole. Proprio perché le piante coltivate e gli animali allevati sono esseri viventi, ciascuno è diverso dall’altro. Ciò determina che nell’eseguire delle operazioni colturali, o di cura degli animali, anche le più semplici, intervengano momenti che si potrebbero definire “micro-decisionali”.

Nella letteratura anglosassone sulla terapia orticulturale una delle chiavi di lettu-ra che ricorre più spesso per illustrare l’efficacia di programmi terapeutico-riabilitativi basati sulla coltivazione di piante riguarda il senso di responsabilità che si determina nell’accudimento di piante o animali. La condizione di svantaggio determina per molti individui che altri, in misura dipendente della gravità dello svantaggio, si prendano cura di loro. Nelle attività di coltivazione e di allevamento tale condizione viene ribal-tata: sono i soggetti, per quanto portatori di disabilità o di altra forma di fragilità, che si prendono cura di altri organismi. Nella partecipazione ad attività di coltivazione o di allevamento si sviluppa negli individui (in verità non soltanto in quelli svantaggiati) un senso di responsabilità che rappresenta un elemento di costruzione di una propria identità (…).

(…) Vi sono poi ulteriori elementi di peculiarità della sfera agricola che in questa chiave meritano di essere sottolineati e che riguardano i prodotti finali.

Una prima fondamentale specificità dei prodotti derivanti dai processi agricoli ri-guarda la loro finalità: nella grande maggioranza dei casi essi sono destinati al nutri-mento e per questo motivo rientrano nella categoria dei beni di primaria necessità. Per soggetti con difficoltà psichiche e cognitive la consapevolezza, non difficile da percepi-re, di essere coinvolti in attività della quale loro stessi potranno trarre beneficio consu-mandone il prodotto finale aggiunge valenza terapeutica agli altri aspetti sopra presen-tati.

Inoltre i prodotti agricoli non conservano alcuna traccia che riveli le eventuali condizioni di svantaggio o di difficoltà di coloro che hanno partecipato al ciclo produt-tivo. La vendibilità dei prodotti dell’agricoltura sociale non è condizionata dalle ridotte capacità di coloro che hanno partecipato alla loro produzione. La vendita dei prodotti rappresenta un passaggio centrale nell’ambito dell’agricoltura sociale in quanto rap-presenta un ulteriore fattore terapeutico: incrementa l’autostima dei soggetti coinvolti e permette, attraverso lo scambio, di stabilire relazioni con l’ambiente esterno. La qualità dei risultati del proprio impegno rappresenta nei contesti che stiamo descrivendo un aspetto rilevante (…).

b) interventi finalizzati all’inclusione sociale. Nell’ambito delle funzioni di utilità sociale potenzialmente erogabili da pro-

grammi agricoli quali quelli condotti nelle fattorie sociali è opportuno tener distinte le iniziative a finalità terapeutico-riabilitativa da quelle che mirano all’inserimento lavo-rativo di persone svantaggiate. La prima alimenta discipline quali l’horticultural therapy citata e anche il fenomeno delle care farms olandesi, o i programmi di green rehabilitation realizzati, ad esempio, in Svezia. Invece esiste anche la possibilità da parte delle impre-se agricole a esplicita finalità sociale di promuovere occupazione per soggetti svantag-giati e di contribuire in questo modo a ridurre l’esclusione sociale nelle aree rurali.

Per soggetti svantaggiati la sfida occupazionale rappresenta uno dei passaggi più difficili e complessi da affrontare. Richiede sforzi comuni e congiunti di più soggetti al fine di superare le oggettive difficoltà posta dal normale funzionamento del mercato

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del lavoro. I mercati del lavoro, infatti, non riescono ad ‘accorgersi’ delle capacità pro-duttive di persone che hanno tali capacità compromesse (ad esempio, le persone con disabilità) o che hanno compromesso la fiducia nei loro confronti da parte della collet-tività compiendo atti che li hanno temporaneamente esclusi dal contesto sociale (è il caso dei tossicodipendenti o dei detenuti). La sostanziale esclusione dal mercato del lavo-ro di tali soggetti si configura, per usare un termine sempre più diffuso tra gli econo-misti, in un ‘fallimento’ di tale mercato nel senso che nel loro funzionamento ordinario il mercato del lavoro emargina risorse umane pur capaci di partecipare ai processi di produzione, seppure a volte in condizioni di relativa protezione. In linea generale la condizione di svantaggio viene interpretata dai datori di lavoro come uno status co-munque inadeguato ad un coinvolgimento lavorativo del soggetto che ne è portatore. Tale comportamento dipenderebbe da una carenza di informazioni sulle reali abilità dei lavoratori svantaggiati e da specifiche esigenze formative di cui tali lavoratori ne-cessiterebbero e che rappresenterebbero un costo aggiuntivo per il datore di lavoro. Questa situazione ha indotto il legislatore a regolare l’integrazione nel mondo del lavo-ro di persone svantaggiate e a farlo seguendo due approcci normativi.

1. Un approccio è quello che, consapevoli della semplificazione adottata, defini-remo ‘coercitivo’. Tale sistema prevede un meccanismo impositivo nei con-fronti dei datori di lavoro, sia del settore pubblico sia di quello privato, per l’assunzione di una quota di lavoratori svantaggiati44;

2. Il secondo approccio volto a promuovere l’occupazione di persone in condi-zioni di svantaggio è rappresentato dalla legge n. 381 del 1991: alle cooperati-ve sociali di tipo B la legge affida il compito di creare occupazione per lavora-tori svantaggiati, anche realizzando attività agricole. (…)

Un aspetto dell’occupazione agricola che può essere preso a riferimento per con-fermare seppure indirettamente le capacità inclusive del lavoro agricolo nei confronti di particolare fasce della popolazione riguarda la presenza dei lavoratori anziani e l’entità del loro apporto al lavoro agricolo. In base ai dati del censimento dell’agricoltura del 2000 un terzo delle imprese agricole italiane ha un conduttore di età pari o superiore ai 65 anni. Sebbene i conduttori anziani si concentrino prevalente-mente nelle aziende agricole di minore dimensione, il loro apporto lavorativo non è trascurabile. (…) L’agricoltura consente a persone appartenenti a questo strato della popolazione di continuare ad essere attive con benefici per sé stessi, per l’impresa - per il contributo che ancora riescono a dare – e per la comunità locale nei confronti della quale minore è la domanda di assistenza da parte di un soggetto attivo. (…)

L’agricoltura sociale Se una qualche funzione di carattere sociale il settore agricolo non abbia mai

mancato di svolgerla, utilizzeremo il termine di “agricoltura sociale” per riferirci a quelle esperienze nelle quali vengono condotte attività a carattere agricolo, inteso in senso lato (coltivazioni di specie vegetali, allevamento di specie animali, selvicoltura, trasformazione dei prodotti alimentari, agriturismo, ecc.) con l’esplicito proposito di generare benefici per fasce particolari della popolazione (bambini, anziani, persone con bisogni speciali). Secondo questa definizione l’agricoltura a finalità sociali, o agricoltu-ra sociale, si propone dunque esplicitamente di svolgere una funzione di utilità sociale e in tal senso crea le forme organizzative più adatte a tale finalità.

Negli ultimi tempi ha cominciato a farsi strada una nuova espressione riferita ad esperienze dove vengono condotte attività agricole con finalità prevalenti di tipo socia-li: la fattoria sociale. Dopo gli agriturismi e le fattorie didattiche, le fattorie sociali rap-presentano un’ulteriore declinazione del “primario-terziario” ovvero di un’agricoltura in cui la produzione di servizi affianca sempre più quella tradizionale di beni alimenta-ri. La fattoria sociale non va però necessariamente intesa come sinonimo di impresa so-ciale agricola. La forma giuridica della cooperativa sociale è infatti soltanto uno dei

44 È il caso del collocamento obbligatorio, sancito dalla legge n. 68 del 1999 che riguarda tutti i datori di la-voro che hanno almeno 15 dipendenti. Questa soglia esclude di fatto il settore agricolo dall’applicazione della norma, essendo la stragrande maggioranza delle imprese agricole del nostro paese senza lavoro di-pendente o con poche unità.

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possibili assetti giuridici di un’esperienza di agricoltura sociale. Nel delineare alcuni aspetti specifici che dovrebbero caratterizzare una fattoria

sociale occorre avere la consapevolezza che non esistono ‘ricette’ standard in questo ambito. Come nel più generale contesto del terzo settore, la virtuosità delle singole esperienze, dei singoli progetti o iniziative dipende da numerose variabili, sia endoge-ne sia esogene, non tutte e non sempre programmabili a priori. Basti pensare al ruolo delle motivazioni personali delle risorse umane coinvolte e della loro capacità di inte-grarsi in sistemi più ampi stabilendo proficue relazioni umane e istituzionali con le al-tre organizzazioni e gli altri attori del territorio. L’analisi delle esperienze di imprendi-torialità sociale in ambito agricolo già attive da anni in alcune regioni italiane consente però di individuare alcuni tratti comuni che possono essere assunti come “linee guida” nell’avvio di nuove esperienze in questo ambito.

Di seguito verranno indicate alcuni condizioni che caratterizzano l’azione e

l’organizzazione di esperienze agricole esplicitamente finalizzate a generare servizi so-ciali, con particolare riferimento a persone con bisogni speciali: dall’offerta di servizi terapeutico-riabilitativi all’inserimento lavorativo.

- La diversificazione produttiva. Per esplicare al meglio le proprie finalità la

fattoria sociale è un’organizzazione produttiva il cui grado di diversificazione è in genere più elevato di quelle delle imprese agricole dello stesso territorio. (…) Un ordinamento produttivo diversificato dilata le possibilità di inclusione di soggetti con bisogni speciali, amplia il ventaglio di mansioni necessarie alla conduzione delle attività produttive, e di conseguenza accresce le possibilità di includere persone con limitate abilità, o con particolari esigenze derivanti dal ridotto grado di autonomia (…).

- L’attenzione verso l’ambiente. Un primo aspetto che accomuna gran parte delle esperienze di agricoltura sociale concerne la conduzione delle attività produttive secondo il metodo biologico. Vi è nei fatti una naturale convergen-za tra il perseguimento di finalità sociali ed il rispetto dell’ambiente. Entrambi questi orientamenti trovano nell’assunzione di una forma di responsabilità verso la collettività una radice comune: responsabilità sociale da un lato e am-bientale dall’altro. Ma oltre alla ragione motivazionale vi sono altre considera-zioni di ordine pratico: da un lato sviluppare i processi di produzione in regi-me biologico evita la presenza e la manipolazione di prodotti in qualche misu-ra tossici in un contesto nel quale sono attivamente coinvolti soggetti che pos-sono presentare forme di svantaggio anche grave. Dall’altro lato incrementa i livello qualitativo dei prodotti, arricchendoli di una ‘qualità ambientale’ che una quota crescente di consumatori domanda e per la quale è disposta a paga-re o direttamente, attraverso il loro acquisto, o indirettamente attraverso i pa-gamenti previsti nell’ambito delle misure agroambientali.

- La manualità nella conduzione delle attività produttive. Nelle realtà di agri-coltura sociale generalmente il lavoro non è un fattore limitante. L’esigenza di rispondere a una offerta di lavoro da parte di soggetti svantaggiati che in tutti i territori, compresi quelli rurali, supera ampiamente la domanda induce so-vente sia le fattorie sociali in versione ‘impresa’ (cooperative sociali di tipo B) sia quelle condotte da altre figure del terzo settore ad accogliere un numero di soggetti svantaggiati tendenzialmente elevato rispetto alla disponibilità di ca-pitale e soprattutto di terra. La flessibilità che caratterizza il modello produtti-vo della fattoria consente di gestire queste situazioni privilegiando in questi casi la scelta di colture e di allevamenti a più elevato fabbisogno di manodo-pera (colture ortive, florovivaistiche, piante aromatiche, piccoli frutti, ma an-che viticoltura e olivicoltura per le quali la principale operazione colturale, la raccolta, presenta un’elevata richiesta di manodopera). Tra gli allevamenti si trovano prevalentemente quelli inerenti piccole specie (conigli, galline ovaiole, animali da cortile in genere, apicoltura) ma anche l’allevamento equino ed asinino, per le specifiche capacità di queste specie di relazionarsi con l’uomo. Le stesse attività in serra, di cui si è detto in precedenza, richiedono prevalen-

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temente lavoro manuale e anche per questo motivo sono spesso presenti nelle esperienze di agricoltura sociale.

- La fattoria sociale come organizzazione produttiva ‘aperta’. Un aspetto di fondamentale importanza per un progetto di carattere agricolo con finalità so-ciali riguarda la sua apertura nei confronti dell’ambiente esterno. Le imprese agricole sociali, così come altre esperienze simili che accolgono e coinvolgono soggetti deboli potrebbero correre il rischio di creare dei ghetti, per quanto ‘verdi’ e felici, verso i quali convogliare risorse umane socialmente escluse. Per evitare ciò la fattoria sociale deve porsi come soggetto aperto alla comunità lo-cale in grado di offrire ulteriori servizi oltre quelli indirizzati verso persone con bisogni speciali. L’apertura di un punto vendita dei propri prodotti o di altri produttori locali, la realizzazione di percorsi didattici per le visite di sco-laresche e di famiglie, la presenza di punti ristori in azienda o di ospitalità di tipo agrituristico costituiscono esempi percorribili (e da molte esperienze in questo ambito già percorsi) per sostanziare il principio dell’apertura all’esterno. I vari servizi attivati in tal senso, tra l’altro, possono contribuire con le entrate che generano alla sostenibilità economica del progetto. Attraver-so l’apertura alla comunità locale e non, la fattoria sociale consolida la propria reputazione nel territorio, rafforza i legami con la popolazione locale e con le altre organizzazioni e istituzioni e, in definitiva, potenzia l’efficacia dei per-corsi di inclusione che attraverso l’esperienza di agricoltura sociale vengono perseguiti (…).

- La fattoria sociale e la chiusura del ciclo produttivo. (…) I beni prodotti ven-gono solitamente destinati, in forma di vendita o in altra forma, ai consumato-ri finali. Il ciclo produttivo, dunque, si chiude nella fattoria stessa a volte an-che attraverso l’attuazione di attività di trasformazione in appositi laboratori aziendali. La produzione di un bene agricolo ‘finito’ appare anch’essa coerente con le strategie e gli obiettivi della fattoria sociale. Sia che il prodotto finale venga venduto sia, come accade in altri casi, che sia autoconsumato all’interno della fattoria o nella cerchia dei soggetti a vario titolo coinvolti nel progetto, la sua produzione assume un significato rilevante per tutti i soggetti che vi han-no partecipato, in particolare per quelli svantaggiati. La percezione dell’utilità del proprio contributo, anche se fosse solo limitato a un piccolo segmento del processo produttivo, e del senso del proprio impegno è infatti significativa-mente più profonda quando la realtà in cui si è attivamente coinvolti genera un prodotto finale, come un alimento pronto per il consumo, del quale si per-cepisce con immediatezza l’importanza e l’utilità (…).

- Vendere i propri prodotti. (…) Una nuova prospettiva commerciale per le fat-torie sociali che sta lentamente aprendosi è quella dei Gruppi di Acquisto So-lidale (GAS). (…) Oltre ai vantaggi economici che si presentano per entrambe le controparti dello scambio, il sistema promosso dai Gas consente ai consu-matori finali di avere maggiori informazioni sull’origine dei prodotti che ac-quista e di alimentare così situazioni di fiducia che raramente si rinvengono attraverso acquisti realizzati nei tradizionali centri di distribuzione. (…) Nelle fattorie sociali la vendita dei prodotti, in qualsiasi modo questa venga fatta ma comunque indirizzata ai consumatori finali senza intermediari, rappresenta un’importante veicolo di diffusione della qualità sociale delle attività svolte e, oltre che fonte di entrate, un formidabile strumento di costruzione del consen-so intorno al progetto sociale45.

45 In tal senso, un caso emblematico che ha avuto risonanza nazionale è quello dei vini prodotti nella casa circondariale di Velletri, in provincia di Roma. Attraverso la costituzione di una cooperativa sociale, la “Lazaria”, e grazie ad un finanziamento del Ministero della Giustizia, un gruppo di detenuti coinvolto nel-la conduzione di un vigneto situato all’interno delle mura carcerarie ha potuto avviare attività di trasfor-mazione per la produzione di vini di qualità a denominazione di origine. Il “Fuggiasco”, vino novello, il “Recluso” e il “Quarto di Luna”, commercializzati su mercati nazionali ed esteri dalla cooperativa sociale, sono diventati il simbolo di un possibile riscatto di soggetti socialmente esclusi.

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c) L’agriturismo L’esempio più noto e maggiormente consolidato di diversificazione delle attività

agricole è senza dubbio costituito dall’agriturismo, mediante il quale l’impresa agricola attiva una nuova forma di connessione con la società rivolgendosi ad un “consumato-re” e ad un mercato di tipo diverso, quello turistico. In effetti l’avvio dell’attività agri-turistica rappresenta un’opportunità di valorizzare risorse spesso non sufficientemente utilizzate all’interno dell’azienda (lavoro familiare in particolare, ma anche strutture abitative e annessi agricoli), e talvolta di rilanciare l’attività agricola attraverso le siner-gie realizzabili con la tradizionale attività di produzione, soprattutto in presenza di or-dinamenti produttivi orientati a produzioni di pregio e immediatamente disponibili per il consumatore finale (quali vino, olio, miele, confetture).

L’agriturismo rappresenta una tipologia specifica di ospitalità e di prestazione di servizi nell’ambito del più generale concetto di turismo rurale, che comprende tutte le tipologie di attività turistica svolta in ambiente rurale.

Il turismo nelle aziende agricole, o agriturismo, a differenza delle altre forme di turismo rurale è in Italia considerato come una vera e propria attività agricola, accesso-ria alla coltivazione o all'allevamento, inquadrata inizialmente dalla L. 5 dicembre 1985 n.730, dalla legge n.413 del 30/12/1991 (con la quale è stato riconosciuto un regime fi-scale apposito) e dalle varie legislazioni regionali che ne sono discese. La legge 730/85 definisce agrituristica ogni attività di “ricezione ed ospitalità esercitate dagli imprenditori agricoli attraverso l'utilizzazione della propria azienda, in rapporto di connessione e comple-mentarità, rispetto alle attività di coltivazione del fondo, silvicoltura, allevamento del bestiame, che devono comunque rimanere principali”.

L’agriturismo deve dunque essere svolto nell’ambito di una azienda agricola in esercizio, ed esso non può prevalere nell'ambito della stessa azienda agricola sulle atti-vità tipicamente agricole. L'autorizzazione ad esercitare l'agriturismo è riservata ai la-voratori autonomi dell'agricoltura che a qualunque titolo e forma esercitano attività di impresa, e dunque a tutti gli imprenditori agricoli senza alcuna distinzione tra impren-ditori a titolo principale o a titolo parziale, a tutti i familiari purché siano partecipi dell'impresa agricola a conduzione familiare, nonché ad ogni forma di imprenditoria agricola associata. Le attività agrituristiche possono poi essere esercitate utilizzando il fondo dell’azienda agricola e i fabbricati rurali esistenti che non vengono più utilizzati per la normale attività agricola o per gli usi abitativi dell'imprenditore e della sua fa-miglia.

Ogni altra forma turistica esercitata in campagna, anche all'interno di un’azienda agricola, con criteri difformi dalla legge 730 viene considerata turismo rurale ed è quindi inquadrata dalla legge quadro sul turismo. Anche l’eventuale attività turistica esercitata dall’imprenditore agricolo nella propria azienda e che superi i limiti imposti dalle normative sull’agriturismo è considerata turismo rurale, con le relative conse-guenze di tipo giuridico-amministrativo e fiscale.

Più recentemente la legge di orientamento agricola (D.Lg. 18-5-2001 n.228 “Orientamento e modernizzazione del settore agricolo”) ha introdotto importanti novi-tà concernenti sia l’esercizio dell’attività agrituristica che in generale la prestazione di servizi da parte delle aziende agricole. Prima di tutto infatti la Legge di Orientamento ha modificato l’articolo 2135 del codice civile fornendo una accezione di imprenditore agricolo più ampia della previgente46. La Legge di Orientamento al successivo articolo 3 amplia il confine delle “attività agrituristiche” rispetto a quanto previsto dalla

46 E' imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, alle-vamento di animali e attività connesse. Per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono le attività dirette alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessa-ria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine. Si intendono comunque connesse le attività, esercitate dal medesimo im-prenditore agricolo, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e va-lorizzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall'allevamento di animali, nonché le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l'uti-lizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell'azienda normalmente impiegate nell'attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovve-ro di ricezione ed ospitalità come definite dalla legge

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L.730/85, disponendo che “rientrano fra le attività agrituristiche di cui alla legge 5 dicembre 1985, n. 730, ancorché svolte all'esterno dei beni fondiari nella disponibilità dell'impresa, l'or-ganizzazione di attività ricreative, culturali e didattiche, di pratica sportiva, escursionistiche e di ippoturismo finalizzate ad una migliore fruizione e conoscenza del territorio, nonché la degu-stazione dei prodotti aziendali, ivi inclusa la mescita del vino, ai sensi della legge 27 luglio 1999, n. 268. La stagionalità dell'ospitalità agrituristica si intende riferita alla durata del soggiorno dei singoli ospiti.”.

La nuova definizione giuridica di imprenditore agricolo e l’ampliamento delle at-tività agrituristiche evidenziano come l’impresa agricola diversificata e multifunziona-le, prefigurata dalle stesse linee di indirizzo della politica agricola comunitaria, sia un soggetto ampiamente coinvolto nelle generali dinamiche dello sviluppo rurale e ri-spondente alla logica della multifunzionalità.

La Legge quadro nazionale sull’agriturismo n.730/1985 è stata recentemente so-stituita dalla L. 96 del 20 febbraio 2006 che ne conferma l’impianto e le linee essenziali pur introducendo alcune novità, e confermando l’estensione delle attività che possono essere considerate agrituristiche.

In recepimento della legge quadro tutte le regioni italiane hanno approvato una legge sull'agriturismo. Le principali competenze regionali indicate dalla legge 730 ri-guardano numerosi aspetti, tra cui la determinazione dei criteri, dei limiti e degli ob-blighi amministrativi per lo svolgimento delle attività agrituristiche; la determinazione dei requisiti igienico-sanitari degli immobili e delle attrezzature utilizzate per l'eserci-zio dell'agriturismo; la determinazione dei documenti e delle procedure per ottenere l'autorizzazione ad esercitare l'attività agrituristica; la determinazione delle tipologie di intervento per il recupero del patrimonio edilizio rurale ai fini agrituristici; l'attuazione di politiche di sostegno e promozione dell'agriturismo, ivi compresi gli interventi di in-centivazione finanziaria a favore degli imprenditori; la redazione e l'attivazione del Piano regionale di sviluppo agrituristico.

Il giro d’affari complessivo è stimato nel 2007 in oltre mille milioni di euro, ma il fatturato medio delle aziende in Italia risulta di poco più di 56 mila euro. Si tratta di un ammontare decisamente ridotto anche qualora si consideri la natura “complementare” dell’attività agrituristica rispetto a quella agricola, che certo non può favorire l’auspicato incremento della quantità e del livello qualitativo dei servizi offerti e che spesso non consentono il raggiungimento di adeguati livelli di redditività.

La situazione dell’agriturismo in Italia, 2005-2007

2005 2006 Stime 2007

Confronto ‘07/’06

Az. agrituristiche n. 15.327 16.765 17.895 6,7% di cui: con alloggio 12.593 13.854 14.810 6,9%

N. posti letto (000) 150,8 167,0 179,2 7,3% N. posti letto per az. 12,0 12,1 12,1 0,4% Arrivi (migliaia) 2.391 2.649 2.820 6,5% di cui stranieri % 25% 25% 27% … Presenze (milioni) 11,0 11,9 12,4 4,2% Utilizzo alloggi (%) 19,9 19,6 12,4 -36,7%

Durata media soggiorno (gg) 4,6 4,5 4,4 -2,2% Aziende con ristorazione 7.201 7.898 8.410 6,5% di cui: senza alloggio 2.278 2.414 2.560 6,0% Aziende con agricampeggio 900 920 940 2,2% Aziende con cavalli 1.478 1557 1610 3,4% Giro d'affari (milioni €) 880 964 1008 4,6% Giro affari medio per az. (€) 57.415 57.500 56.350 -2,0%

Fonte: Istat per le consistenze 2005 e 2006; stime Agriturist aggiornate al dicembre 2007

La Toscana è storicamente la culla dell’agriturismo nazionale e totalizza un quin-

to delle aziende attive in Italia. In essa Grosseto rappresenta, dopo Siena, la seconda provincia toscana per numero di aziende autorizzate e per posti letto. In Toscana,

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Prof. Andrea Marescotti 134

l’esercizio dell’attività agrituristica è stata inizialmente regolata dalla L.R. 76 del 17.10.1994 e successive modificazione e integrazioni. Una profonda revisione della normativa regionale è stata recentemente operata con la L.R. n. 30 del 23.6.2003 e suc-cessive modifiche, nonché dal regolamento attuativo emanato con decreto del Presi-dente della Giunta Regionale n. 46/2004.

Aziende agrituristiche autorizzate per tipo e regione, anno 2007

In Totale Autorizzate all'alloggio

Alla ristora-

zione Alla degu-

stazione Ad altre

attività

Numero Posti letto in camere

Posti letto in appartamen-

ti

Posti letto Totale

Numero Numero Numero

Piemonte 795 599 6.961 958 7.919 512 174 554 Valle d'Aosta 58 45 327 156 483 29 14 2 Lombardia 966 479 3.762 1.885 5.647 750 38 431 Bolzano-Bozen 2.916 2.574 10.018 13.295 23.313 447 - 1.334

Trento 253 179 1.002 1.020 2.022 112 32 33

Trentino-A.Adige 3.169 2.753 11.020 14.315 25.335 559 32 1.367 Veneto 1.124 622 6.145 1.887 8.032 629 449 413 Friuli-Venezia Giulia 442 205 2.486 534 3.020 344 9 188 Liguria 343 276 3.023 122 3.145 216 - 67 Emilia-Romagna 772 545 5.761 398 6.159 614 - 610 Toscana 3.798 3.766 13.879 32.706 46.585 868 1.220 2.592 Toscana su Italia 22,7% 27,2% 14,5% 45,7% 27,9% 11,0% 46,0% 27,6%

Umbria 952 938 5.212 8.776 13.988 238 260 790 Marche 670 589 4.533 2.527 7.060 380 - 216 Lazio 457 333 2.965 2.408 5.373 318 3 312 Abruzzo 535 465 4.842 194 5.036 299 2 257 Molise 82 57 686 16 703 73 21 48 Campania 734 547 4.421 566 4.987 551 257 460 Puglia 265 263 4.231 598 4.829 175 13 186 Basilicata 240 212 2.484 712 3.196 131 65 151 Calabria 330 322 2.687 1.737 4.424 300 42 239 Sicilia 377 343 5.248 1.066 6.314 314 55 299 Sardegna 656 493 4.772 46 4.818 577 - 223 ITALIA 16.765 13.852 95.445 71.607 167.053 7.877 2.654 9.405

Nord-ovest 2.162 1.399 14.073 3.121 17.194 1.507 226 1.054

Nord-est 5.507 4.125 25.412 17.134 42.546 2.146 490 2.578

Centro 5.877 5.626 26.589 46.417 73.006 1.804 1.483 3.910

Sud 2.186 1.866 19.351 3.823 23.175 1.529 400 1.341

Isole 1.033 836 10.020 1.112 11.132 891 55 522

Fonte: Istat

Il peso della Toscana aumenta andando a considerare le forme di agriturismo le-

gate alla permanenza in azienda, con una incidenza delle aziende autorizzate all’alloggio (in camere o spazi aperti, ma prevalentemente in appartamenti) sul relativo totale nazionale pari al 27,2%, e al 27,9% del totale dei posti letto autorizzati in Italia. Da rimarcare anche l’incidenza della Toscana sulle altre tipologie di servizi agrituristici previste dalla Legge quadro: l’11,0% sul numero di autorizzazioni alla ristorazione, contro il 46% di autorizzazioni alla degustazione di prodotti aziendali e il 27,6% ad al-tre attività tra cui quelle ricreative e culturali. Da rilevare come prosegua la lenta ero-sione della incidenza della Toscana sull’offerta nazionale, causato dalla crescita soste-nuta di alcune regioni tra cui Umbria e Marche, che per caratteristiche territoriali e di offerta più sono in concorrenza con la Toscana.

L’agriturismo toscano è stato oggetto negli ultimi anni di una domanda molto vi-vace, registrando incrementi delle presenze a due cifre. Dopo gli ottimi risultati del 2005 e del 2006 (rispettivamente +18,0% e +14,7% rispetto all’anno precedente), anche nel 2007 l’incremento è risultato pari all’11,0% per un ammontare di oltre 2,92 milioni di presenze, quasi il doppio di quelle registrate nell’anno 2000.

L’incidenza degli ospiti stranieri si mantiene determinante, con una quota del 61,4% sulle presenze e del 47,9% sugli arrivi (gli arrivi di ospiti stranieri sono stati oltre

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2. Agricoltura e sistema agro-alimentare

Prof. Andrea Marescotti 135

266 mila nel 2007), ad indicare una propensione della componente estera a soggiorni di maggiore durata.

La limitata durata media del soggiorno rappresenta uno dei maggiori punti di debolezza della domanda agrituristica, risultando pari nel complesso a 5,3 giorni ma con importanti differenze tra italiani (appena 3,9 giorni) e stranieri (6,7 giorni in me-dia), con lievi riduzioni rispetto a quanto avvenuto nel 2006.

La domanda estera è rappresentata in larga parte da clientela tedesca, che nel 2007 ha totalizzato quasi il 27% del totale delle presenze, seguita da Paesi Bassi e Stati Uniti (10,6% ciascuno del totale presenze) e successivamente da Regno Unito (8,9%) e Francia (7,8%). Il restante 35% delle presenze di ospiti stranieri si ripartisce tra altre na-zionalità.

L’agriturismo rappresenta una componente sempre più importante del turismo regionale, nel 2007 le presenze agrituristiche hanno infatti rappresentato ben il 7% delle presenze totali (erano appena il 5,3% nel 2002). Ciò evidenzia la natura anticiclica di questa forma di fruizione turistica che – almeno in alcune componenti – appare in gra-do di meglio soddisfare le esigenze dei nuclei familiari di fascia media di reddito, ma anche di porsi come alternativa di elevato contenuto fruitivi. Da sottolineare come l’incremento del 2007 rispetto all’anno precedente per le presenze turistiche complessi-ve in Toscana sia risultato dell’1,9%, contro l’11,0% dell’agriturismo.

Dal punto di vista territoriale la domanda agrituristica risulta ancora concentrata in maniera significativa in alcuni territori della nostra regione, anche se con una lenta tendenza verso una maggiore distribuzione territoriale. Nel 2007 infatti le tre APT “sto-riche” dell’agriturismo, Grosseto, Siena e Firenze hanno totalizzato il 57,2% degli arrivi in agriturismo e il 56,4% delle presenze, con una riduzione di oltre 2 punti percentuali rispetto all’anno precedente. In termini di arrivi la leadership regionale appartiene all’APT Grosseto (20,4% del totale regionale, era il 22,1% nel 2006) mentre in termini di presenze a Firenze (21,0% del totale, era il 23,9% nel 2006).

Il contributo dell’agriturismo al flusso turistico totale è molto differenziato all’interno del territorio regionale, e raggiunge punte molto significative e in crescita nell’Amiata (32,4% delle presenze turistiche totali, contro il 27,8% del 2006), ad Arezzo (24,2%) e Siena (17,3%), dove l’agriturismo rappresenta una componente fondamentale dell’offerta turistica e delle più complessive strategie di promozione territoriale.

Il basso livello di sfruttamento delle strutture ricettive agrituristiche in alcuni casi è un fenomeno desiderato e gestito dall’azienda che volutamente intende limitare la presenza di ospiti in alcuni momenti dell’anno in modo da poter organizzare al meglio le relazioni con l’attività agricola. In numerosi altri casi però è un fenomeno subìto dall’azienda agrituristica, che implica il mancato raggiungimento di un soddisfacente livello di redditività; ciò risulta ancora più critico nel caso di aziende che hanno effet-tuato investimenti dedicati in nuove strutture e servizi.

La positiva evoluzione della domanda può consentire un consolidamento del comparto agrituristico regionale, soprattutto con riferimento ad alcuni segmenti che appaiono in forte crescita e di grande interesse soprattutto per la clientela straniera, quali il segmento sportivo, quello enogastronomico e dell’offerta di servizi collegati (corsi di degustazione, di cucina tipica), della didattica e della piccola convegnistica. La ricerca di un attento equilibrio tra qualità dei servizi (che implica anche la sperimenta-zione di forme collettive di offerta) e livello dei prezzi offerti appare però sempre più imprescindibile per il mantenimento del primato toscano nel quadro dell’agriturismo nazionale. Allo stesso tempo il comparto agrituristico richiede una promozione sempre più “dedicata” e mirata a segmenti di consumatori sensibili, che sappia rendere eviden-ti le peculiarità di questa forma di ricettività con un collegamento sempre più stretto tra tipicità locali, eventi legati alle tradizioni rurali, patrimonio culturale e aree natura-listiche.

L’impatto assoluto dell’agriturismo in termini di visitatori sia, specialmente in al-cune zone, di tutto rilievo. Ma affinché l’agriturismo non diventi una semplice acco-glienza di tipo “alberghiero”, e si caratterizzi sempre più fortemente per la capacità di agire da “portale” per l’accesso dei cittadini alle risorse ambientali, umane e culturali delle aree rurali, è tuttavia opportuno che le aziende agrituristiche riescano ad offrire servizi di qualità e valori rurali, e sappiano connettere il visitatore alle risorse del terri-

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torio rurale al quale spesso devono il loro successo. Se è vero infatti che l’agriturismo, insieme ai prodotti tipici e alla qualità

dell’ambiente e del paesaggio, rappresenta uno dei punti di forza delle strategie di svi-luppo rurale intraprese in numerose zone, è altrettanto vero che la sua rilevanza non può essere colta soltanto per la capacità di generare reddito per le imprese che lo eser-citano ma anche per i potenziali effetti indotti sul contesto locale, ivi compresi gli effetti di dinamicizzazione della imprenditorialità, anche femminile e giovanile, rilevanti so-prattutto nell’ambito delle aree più marginali.

Ne deriva che l’orientamento strategico dell’azienda agrituristica sarà quello di costruire un sistema di interazioni tra servizio di ospitalità e contesto locale, suppor-tando la fruizione da parte dell’ospite di un insieme di elementi propri dell’ambiente rurale. L’agriturismo in questa prospettiva rappresenta un “crocevia” di diversi siste-mi: sistema-azienda, sistema ambiente naturale e agro-forestale, sistema delle risorse antropiche (culturali, architettoniche, storico-paesaggistiche), sistema locale delle im-prese rurali non-agricole.

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Sintesi

1. Agricoltura e sviluppo economico Con l’evoluzione dei sistemi economici il settore agricolo vede una progressiva

riduzione del proprio peso in termini di contributo al valore aggiunto e all’occupazione. In un primo periodo la forte industrializzazione dei sistemi economici si è basato sui principi della modernizzazione:

a) Il periodo della modernizzazione vede la crescente adozione dei metodi di produzione e di organizzazione industriale al settore agricolo (economie di scala, specializzazione e divisione del lavoro, tecnologie labour-intensive, etc.);

b) In questo periodo i processi produttivi agricoli sono soggetti ad una crescente scomposizione e specializzazione; l’azienda agricola esternalizza un numero crescente di fasi e di attività;

c) La modernizzazione comporta un crescente inserimento dell’azienda agricola nel sistema agro-industriale; domina la produzione di massa;

d) Il modello di produzione di massa è coerente con il modello dei consumi di massa

e) L’inserimento dell’azienda agricola nel sistema agro-alimentare genera dipen-denza e omologazione funzionale e organizzativa dell’agricoltura, e si manife-sta attraverso una generale perdita di specificità (le sconnessioni). Le decisioni vengono prese sempre più all’esterno del settore agricolo (modello di svilup-po esogeno), da un TATE che organizza e svolge le funzioni di supporto all’attività agricola, spesso sostituendosi allimprenditorialità agricola stessa.

2. Caratteristiche del sistema agro-alimentare Il sistema agro-alimentare (SAA) è composto dalle operazioni e imprese che con-

corrono a far sì che il prodotto agricolo giunga al consumatore finale. a) Le articolazioni orizzontali del SAA sono costituite dai settori (fasi del proces-

so di produzione agro-alimentare); b) Le articolazioni verticali del SAA costruite sulla base di una materia prima

agricola o un prodotto finito alimentare si definiscono filiere. L’analisi di filie-ra è utile per capire la struttura dei settori e le relazioni tra imprese, e per im-postare strategie di imprese e interventi di politica;

c) I bilanci di approvvigionamento consentono, relativamente a prodotti o cate-gorie di prodotti, di analizzare fonti e impieghi sia relativamente a settori che all’intera filiera (o pezzi di essa) per impostare interventi correttivi di politica economica e politica agraria;

d) se il peso economico del settore agricolo declina (in termini di contributo all’occupazione e alla produzione di reddito del sistema economico), il peso del SAA continua a rappresentare una componente molto importante anche nei sistemi economici dei paesi avanzati.

e) l’industria alimentare è soggetta a fenomeni di concentrazione, anche se, so-prattutto in alcuni comparti, permane (in Italia) una situazione abbastanza frammentata, dovuta alle specificità della materia prima, dei processi produt-tivi, dei mercati di sbocco;

f) i grossisti assicurano il collegamento tra produzione (ai diversi livelli o fasi produttive) e clienti intermedi (ma non consumatori finali!). Molti grossisti esercitano la propria attività (soprattutto per i prodotti ortofrutticoli e freschi in generale) all’interno dei mercati all’ingrosso che, negli ultimi anni, hanno visto una diminuzione di attività a causa della ristrutturazione dei canali di approvvigionamento dovuta al rapido sviluppo delle imprese della moderna distribuzione;

g) i cambiamenti della società (urbanizzazione, stili di vita, organizzazione del lavoro, ecc.) hanno consentito anche in Italia, seppur in ritardo rispetto ad altri

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paesi avanzati, lo sviluppo delle imprese distributive di grandi dimensioni operative (moderna distribuzione), con diversificate strategie operative e ge-stionali, e diverse tipologie di punti vendita.

3. L’evoluzione del sistema agro-alimentare Negli ultimi 50 anni il settore agricolo è cambiato profondamente: riduzione del

numero di imprese, tendenza alla concentrazione, diffusione del part-time e della plu-riattività. Permane un elevato numero di aziende piccole-medie.

a) I consumi alimentari sono soggetti a rapide tendenze evolutive. Prezzo e red-dito incidono sempre meno nelle decisioni di acquisto dei consumatori (con le dovute eccezioni relative a fasce di popolazione e congiuntura economica);

b) Il modello nutrizionale si riferisce alle quantità e tipologia di alimenti consu-mati dalla società. Col procedere dello sviluppo, le società passano da una prima fase di saturazione dei fabbisogni pro-capite energetici e nutrizionali, caratterizzata da un aumento dei consumi di cereali, ad una seconda fase di arricchimento della dieta che vede una progressiva sostituzione di calorie di origine vegetale con calorie di origine animale, fino a raggiungere una fase di sazietà, che vede una stazionarietà dei consumi in assoluto e per grandi cate-gorie di alimenti (leggi sociali del consumo alimentare);

c) Il modello di consumo alimentare considera anche le modalità (sociali) con cui la società si organizza per consumare. All’interno di esso è possibile eviden-ziare alcune importanti e recenti tendenze dei consumatori, in parte originate dall’azione di variabili socio-economiche, in parte a quella delle variabili so-cio-culturali;

d) L’industria di trasformazione (IAA) ha conosciuto un processo di concentra-zione in più fasi. Nelle prime due fasi la concentrazione è avvenuta sulla base di forze interne al settore (investimenti materiali prima, immateriali poi);

e) Nella terza fase la concentrazione dell’IAA si deve soprattutto alla concentra-zione anche nella fase della distribuzione finale (ascesa della GDO);

f) Nella quarta fase, a causa anche dei cambiamenti dei consumi, l’importanza della marca commerciale (private label) e in generale della GDO ha allentato la pressione alla concentrazione della IAA;

g) il modello di produzione agroalimentare è oggi caratterizzato da una crescen-te apertura dei mercati (globalizzazione), da fenomeni di concentrazione delle imprese, da una spinta industrializzazione dei processi e aumento del tasso di introduzione di innovazioni di prodotto, dalla standardizzazione della “quali-tà” e dalla ristrutturazione e semplificazione dei canali commerciali

4. Verso un nuovo modello: qualità e nuovi rapporti agricoltori-consumatori I cambiamenti dei modelli di localizzazione delle attività produttive industriali,

la parziale inversione dei flussi di popolazione e le modifiche dei modelli di consumo forniscono la base per un importante cambiamento delle aree rurali. La modernizza-zione del SAA è negli ultimi anni contrastata da alcune tendenze verso la creazione di “filiere corte” (mercati contadini, vendita diretta, GAS, CSA, strade del vino, etc.).

a) L’agricoltura perde peso “economico” nelle aree rurali, le imprese agricole si diversificano nella struttura, nell’organizzazione e nelle modalità di connes-sione sui mercati dei fattori e dei prodotti

b) I cambiamenti delle richieste della società portano all’affermarsi dell’agricoltura multifunzionale: nuovi prodotti, nuovi processi, nuovi canali, nuovi servizi;

c) Il sostegno dell’agricoltura multifunzionale si afferma anche all’interno delle politiche agricole e di sviluppo rurale;

d) I cambiamenti nelle aree rurali portano anche ad una modifica degli approcci allo sviluppo agricolo e rurale. Rispetto al periodo della modernizzazione (svi-luppo esogeno), si afferma un concetto di sviluppo maggiormente basato sulle risorse locali della collettività (sviluppo endogeno), declinate nelle varie forme

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Prof. Andrea Marescotti 139

assunte dal capitale (artificiale, umano, sociale, naturale), o un modello di svi-luppo neo-endogeno che si basa su una fusione del modello di sviluppo endo-geno ed esogeno;

e) i sentieri alternativi percorsi dalle imprese agricole in tempi recenti prevedono un aumento del livello di differenziazione e della qualità delle produzioni rea-lizzate, un recupero di canali commerciali più diretti tra azienda agricola e consumatore finale, e una diversificazione (estensione) dell’attività agricola verso nuove attività “non tradizionali”.

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