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I fattori dello sviluppo regionale Giuseppe Capuano

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I fattori dello sviluppo regionale

Giuseppe Capuano

A mia moglie e a mia figlia

Indice

Prefazione.................................................................................................................9

Premessa .................................................................................................................13

1. Il concetto di territorio nella teoria economica dominante ......................171.1 Il quadro teorico di riferimento ....................................................................191.2 Il livello mesoeconomico tra macro e microeconomia ...................................23

2. Introduzione alle principali teorie dello sviluppo regionale.......................312.1 Il modello neoclassico ...................................................................................342.1.1 Modello neoclassico e commercio internazionale. Il caso delle delocalizzazioni produttive .....382.2 Lo sviluppo esogeno trainato dalle esportazioni .............................................412.3 La teoria di Heckscher-Ohlin........................................................................47

2.3.1 Verso il superamento del teorema di Heckscher-Ohlin...............................................492.4 L’approccio input-output nei modelli di economia regionale .............................512.5 La teoria weberiana della localizzazione.........................................................52

2.5.1 La teoria delle zone centrali ..............................................................................53

3. I processi di convergenza e divergenza tra le province italiane:il modello della convergenza non lineare......................................................573.1 Il dibattito teorico .........................................................................................59

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3.1.1 La critica all’approccio marginalista .....................................................................593.1.2 Le recenti evoluzioni del dibattito .......................................................................623.1.3 La “convergenza non lineare” (CNL) .................................................................63

3.2 La verifica “sul campo” della “convergenza non lineare” (CNL) .....................643.2.1 I limiti dell’utilizzo del Pil pro capite come misura del livello di sviluppo.......................643.2.2 I risultati dell’analisi provinciale nel periodo 1995-2002 ..........................................66

3.3 I fattori che contribuiscono alla “convergenza non lineare”................................723.4 Le traiettorie dello sviluppo delle province italiane attraverso l’analisi del PIL......73

4. Il ruolo del risparmio nello sviluppo regionale............................................854.1 Il risparmio nel modello Harrod-Domar .......................................................874.2 Una rivisitazione della teoria del “ciclo vitale”di Modigliani

e sua applicazione ad una economia a basso livello di sviluppo ......................89

5. Debito pubblico, redistribuzione del reddito e squilibri regionali ............975.1 Lo scenario economico di riferimento ..........................................................995.2 La crescita del debito pubblico negli anni ottanta.........................................1025.3 L’impatto del debito pubblico sulla redistribuzione del reddito.....................1075.4 L’impatto del debito pubblico sugli squilibri regionali..................................1135.5 Conclusioni.................................................................................................115

Riferimenti bibliografici ................................................................................117

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I fattori dello sviluppo regionale

Prefazione

l fattore territorio così come il concetto di sviluppolocale hanno rappresentato una crescente attenzionenel dibattito e nelle teorie economiche a partire dagliultimi decenni del secolo scorso.Anche in una disciplina anch’essa relativamen-

te giovane come il marketing, negli ultimi tempi si è evidenziata l’importanza del marke-ting territoriale, con la proposta di modelli di attrazione di investimenti a partire da unavariabile - opportunità come il territorio.

La Fondazione Tagliacarne, nata dal sistema delle Camere di Commercio e quindi deglienti espressione delle comunità economiche locali, ha occupato nell’ultimo ventennio unruolo importante nella ricerca sullo sviluppo economico territoriale, elaborando contribu-ti teorici e prodotti di studio come la realizzazione di osservatori settoriali, osservatori delleeconomie provinciali, la progettazione e gestione di importanti sistemi informativi.

E’ quindi soprattutto l’esperienza maturata dall’Autore nell’Area Studi e Ricerchedell’Istituto Tagliacarne che ha favorito la realizzazione di questa pregevole pubblica-zione, che può prestarsi ad orizzonti di fruizione anche più ampi di una guida didatti-ca per un modulo formativo per il Master STARTER - Statistica, Economia eRicerche di Mercato per lo Sviluppo del Territorio. Oltre che la utile indica-zione di sintesi delle principali teorie di sviluppo regionale si sottolinea la classifica-zione dei vari modelli in relazione al ruolo passivo o attivo attribuito al territorio.Originale è il tentativo di lettura dell’applicazione dei vari modelli nei percorsi di svi-luppo delle realtà provinciali dal 1960 ad oggi e l’analisi della convergenza o divergen-

I 11Prefazione

za dei processi di sviluppo territoriale che si basa sulle stime provinciali del PIL, che rap-presentano storicamente una connotazione fondamentale del lavoro di ricercaUnioncamere – Istituto Tagliacarne. Altri due spunti interessanti si ritrovano nell’analisicritica dell’applicazione della teoria del “ciclo vitale” di Modigliani alle regioni in ritar-do di sviluppo come il nostro Mezzogiorno e nello studio delle conseguenze che la for-mazione del debito pubblico negli anni ’80 hanno avuto sugli squilibri regionali Nord-Sud.

Luigi Pieraccioni

Consigliere Scientifico dell’Istituto Guglielmo Tagliacarne

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Giuseppe Capuano

Premessa

l principale obiettivo di questo lavoro, attraverso lalettura delle più significative teorie dello sviluppoeconomico regionale e locale, è riflettere sul cre-scente ruolo che il territorio (livello mesoeconomico dello sviluppo) ha nell’ar-

ticolazione del pensiero economico e nella determinazione dei percorsi di sviluppo loca-le e soprattutto, se la cosiddetta “cassetta dei ferri del mestiere” dell’economista è ade-guata a spiegare una realtà territoriale sempre più complessa, disomogenea e in un con-tinuo divenire.

Cercare quindi di comprendere in che modo i fenomeni economici più importantidel recente passato, in particolare i processi di globalizzazione economica, le delocalizza-zioni produttive, l’introduzione dell’Euro in Europa, la progressiva riduzione della pro-pensione al risparmio, impatteranno sull’attualità del concetto di territorio, sui processidi convergenza economica tra i territori e, quindi, sulla geografia economica del nostroPaese.

A tal proposito, nel libro saranno presentati tre lavori originali. Il primo sui processidi convergenza/divergenza nelle province italiane e un primo tentativo di superamentodella teoria neoclassica della convergenza; il secondo, è una applicazione al Mezzogiornodella Teoria del ciclo vitale di Modigliani, con la proposta di alcune modifiche e integra-

I 15Premessa

zioni per renderla più coerente con la realtà economico-sociale delle nostre regionimeridionali; il terzo, è una riflessione sulla formazione del debito pubblico negli anniottanta e il suo impatto negativo sulla formazione degli squilibri regionali nel nostroPaese.

Inoltre, nel testo si esporranno in forma schematica, senza avere nessuna pretesa diessere esaustivi, le principali teorie dello sviluppo regionale, applicando, dove è possibile,alcune verifiche empiriche relative alle dinamiche delle regioni e province italiane.L’obiettivo è puramente didattico e ha lo scopo di costituire un primo punto di riferi-mento, anche bibliografico, per coloro che iniziano ad avvicinarsi alla materia, riman-dando a manuali e testi originali per gli eventuali e necessari approfondimenti.

Il lavoro è stato realizzato nell’ambito del Master STARTER – Statistica, Economiae Ricerche di Mercato per lo Sviluppo del Territorio.

Questa riflessione, che ha costituito la guida didattica per il modulo “Economia delTerritorio” del suindicato Master, prende spunto dall’esperienza maturata in circa ventianni di lavori sull’osservazione e il monitoraggio delle economie regionali che l’Autoreda economista ha realizzato prima, presso la Direzione Studi del Parlamento Europeo diBruxelles, e poi, all’Istituto Guglielmo Tagliacarne dove è Responsabile dell’Area Studi eRicerche. Negli ultimi anni, inoltre, tale riflessione, è stata arricchita da una vasta espe-rienza didattica maturata attraverso corsi e seminari svolti presso alcune UniversitàItaliane (Università “La Sapienza” di Roma, Università Lumsa di Roma, Università“Cattaneo” di Varese, Università Cattolica di Piacenza, Università di Trento) ed in parti-colare al corso svolto presso la cattedra di Analisi Statistica - Economica Territoriale dellaFacoltà di Economia dell’Università “Parthenope” di Napoli, e Università straniere comel’Università della Svizzera Italiana (USI) di Lugano.

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1Il concettodi territorionella teoriaeconomicadominante

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ipercorrendo la storia del pensiero economico dell’Ottocento e dei primidecenni del Novecento, con particolare riferimento alla vasta letteratura sullo sviluppoeconomico e sulle cause dei processi di accumulazione e di distribuzione del reddito, l’e-conomia è stata da sempre considerata “a-spaziale”, con la rappresentazione dei mecca-nismi di trasmissione all’interno del circuito economico, come se l’economia di un paesefosse una unica entità omogenea.

Nessuna delle principali scuole di pensiero economico del passato, da quella classicaa quella neoclassica e keynesiana, alle più recenti scuole di pensiero economico1 (mone-taristi, nuova macroeconomia classica, nuova macroeconomia keynesiana, etc.) se si esclu-dono alcuni sviluppi delle teorie di Alfred Marshall2, ha introdotto in maniera sistemati-ca nel dibattito teorico l’importanza degli aspetti territoriali nella formazione del pro-dotto e della distribuzione del reddito3.

Una delle principali motivazioni di questa lacuna presente nelle teorie economichedel passato va ricercata soprattutto nel basso livello di sviluppo raggiunto dalle principa-li economie prima della fine dell’Ottocento (se si esclude la Gran Bretagna) e nella con-cezione teorica, di stampo meramente neoclassico, che lo sviluppo, essendo caratterizza-to da un processo che porta all’equilibrio generale di lungo periodo, interessa l’interapopolazione della nazione, anche se con modalità di partecipazione alla formazione delprodotto (lavoratori, capitalisti, latifondisti) e fonti di reddito (salari, profitti, rendite) dif-ferenti.

R 1.1 Il quadro teorico di riferimento

1 Per una panoramica sullepiù recenti scuole di pen-siero economico sia diderivazione neoclassicache keynesiana: Boitani,A. and Damiani, M.(2003).

2 Marshall, A. (1890).

3 Per una rassegna delleprincipali scuole di pen-siero economico: A. Gra-ziani, (1981).

Le teorie economiche furono formulate, comunque, in una economia europea chegià nel XIX e sicuramente nei primi decenni del XX secolo, conosceva evidenti diffe-renze di tipo territoriale, in termini sia di caratteristiche dei settori partecipanti alla for-mazione del prodotto che nei livelli di sviluppo. Si pensi all’economia delle città, in par-ticolare delle Capitali europee dell’epoca, alle vaste regioni agricole oppure a quellerealtà, che in particolare in Gran Bretagna, ma anche in Francia, in Germania e nella stes-sa Italia nell’età giolittiana dei primi del secolo, erano caratterizzate da una incipienteindustrializzazione.

L’evidente carenza di un impianto teorico che sostenesse l’importanza del ruolo delterritorio nei processi di sviluppo nasce anche dal “rifiuto” della teoria dominante del-l’epoca di considerare la presenza di squilibri regionali nel lungo periodo e dalla con-vinzione che l’intera economia nazionale, a parità di input di politica economica, reagi-sce nei medesimi tempi e modalità. Questi due ultimi aspetti sono tra i principali puntidi una visione dei meccanismi economici che solo dagli anni cinquanta del secolo scor-so, è stata lentamente modificata e integrata, quando il concetto di sviluppo locale èentrato a far parte del dibattito economico contemporaneo.

Con il concetto di sviluppo locale si fornisce una risposta al crescente scetticismocirca la capacità delle teorie tradizionali dominanti di analizzare le relazioni esistenti trail livello macro, quale l’economia nazionale, e il livello micro, determinato dalla singolaazienda. In realtà si introducono le basi teoriche per un’analisi approfondita dell’esisten-za di un livello intermedio o mesoeconomico che rappresenta il luogo dove si creano isistemi di relazioni o d’interazioni che costituiscono a loro volta il meccanismo di tra-smissione tra il singolo settore produttivo e l’intero sistema economico. In effetti, si indi-viduano i primi fondamenti di una teoria mesoeconomica, complementare e non alter-nativa alle teorie micro e macroeconomiche.

Con la rivisitazione delle principali teorie economiche in termini di economiaregionale, gli elementi che costituiscono o determinano lo sviluppo e la competizionedei sistemi economici-politici-territoriali sono stati letti, in principio, attraverso una logi-ca dicotomica di tipo “funzionale” (teorie tradizionali) o “territoriale” (localisti).

Nell’approccio di tipo “funzionale” lo spazio è stato considerato un vincolo al com-portamento dei soggetti economici e gli è stato attribuito un ruolo passivo, un costo,quasi un vincolo per le attività produttive e, quindi, per lo sviluppo.Tutte le teorie chepossono essere raggruppate come modelli di sviluppo regionale equilibrato (ad esempiola teoria neoclassica della crescita) o quelle che potremmo definire come modelli di svilup-po squilibrato (ad esempio le teorie neokeynesiane relative allo sviluppo regionale) che esa-

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mineremo brevemente nel Cap.2, attribuiscono un ruolo passivo al territorio e soprat-tutto considerano il susseguirsi dei fenomeni economici indipendentemente dal conte-sto territoriale nel quale si collocano, intendendo il territorio come una “variabile eso-gena” al processo di sviluppo.

In genere questi modelli considerano la regione come un’entità omogenea secondoil principio dell’uniformità di tutti gli elementi che la compongono.

Nel caso dell’approccio “territoriale”, seguito dalla più recente letteratura in mate-ria di sviluppo locale, al contrario, si attribuisce al territorio un ruolo attivo e in conti-nua trasformazione. Secondo questa impostazione, gli ambiti locali assumono un ruolofondamentale nel determinare le caratteristiche dello sviluppo.

Il modello centro-periferia di Krugman (1995) e i cosiddetti modelli di rete (approcciodistrettuale4, cluster industriali5, milieu innovateur6, approccio relazionale7, etc.) sono unesempio di suddetta impostazione. Essi danno un ruolo centrale al territorio inteso nonsolo come fattore fisico, ma di contesto più generale, nel quale le imprese, le Istituzioni,i cittadini, operano insieme per perseguire lo sviluppo. In definitiva, l’economia territo-riale è considerata come un insieme di relazioni o stock di beni relazionali.

L’ottica è quella di integrare le relazioni tra imprese nelle loro principali accezionicon i luoghi dove tali relazioni si formano e si sviluppano, avendo questi ultimi una nuovacentralità in un contesto sempre più globalizzato; in quanto, i fenomeni delle delocaliz-zazioni produttive, l’internazionalizzazione delle imprese, le reti trasnazionali, hanno por-tato ad interpretare lo “spazio” non più come una sorgente di costo (si veda tutta la let-teratura italiana in materia distrettuale – l’opera di Becattini e della scuola di Firenze -o i contributi della letteratura internazionale, da Krugman, Fujita e Porter in poi) macome un fattore di sviluppo, in un’ottica di gerarchia e di reti fra luoghi8.

Il confronto e simbiosi tra scuole di pensiero simili – quella distrettualistica italiana equella dei modelli core-periphery prevalentemente americana – hanno consentito di dareuna base di teoria economica all’interpretazione dello sviluppo, con particolare riferi-mento ai tradizionali fattori d’agglomerazione produttiva legati alla situazione socio-isti-tuzionale (scuola distrettualista) e alle sue determinanti tecnologico-economiche, qualieconomie di scala e costi di trasporto (Modelli core-periphery) che hanno interessato condiversa intensità le regioni del NEC9 ma anche quelle del nostro Mezzogiorno (Viesti,2000 10).

Il territorio, insieme alle tecnologie e alle organizzazioni, per dirla con Storper(1997), fa parte di una nuova “santa trinità” degli elementi cardine dell’economia regio-nale. Un paradigma eterodosso, elaborato negli anni settanta al fine di spiegare i fenome-

I fattori dello sviluppo regionale

4 Tra gli altri: Becattini,(1989); Sabel, (1989), Sforzi(1990), Garofoli (1991).

5 Porter (1990): nel suo libro“The competitive Advan-tage of Nations” affermatestualmente: “l’unità ele-mentare di analisi per capi-re il vantaggio nazionale èil settore industriale. Le na-zioni hanno successo nonper settori industriali, però,ma in aggregati o cluster(grappoli) di settori indu-striali, connessi da relazioniverticali e orizzontali”.

6 Tra gli altri: Aydalot,(1986); Maillat and Perrin(1992).

7 Tra gli altri: Lorenzoni(1990); Lipparini (1995).

8 Per una rassegna aggior-nata sul dibattito econo-mico: Istituto Tagliacarne,Impresa e Territorio (a curadi G. Garofoli), Il Mulino,2003.

9 Con questa divisione si in-dicano le regioni italianedel Nord Est e del Centro.

10 Viesti G. (2000), Come na-scono i distretti industriali,Laterza; Viesti G. (a curadi), Mezzogiorno dei di-stretti, Meridiana Libri.

ni di deindustrializzazione nelle regioni di antica industrializzazione e successivamentematurato a cavallo degli anni ottanta e novanta, quando si è cercato di interpretare i feno-meni di rinascita delle economie regionali.

Il quadro teorico che ne consegue, potrebbe essere giudicato, però, insufficiente oparziale nello spiegare le dinamiche di sviluppo locale in un contesto di globalizzazionedell’economia che ha evidenziato l’importanza della dimensione sovranazionale deifenomeni economici.

Ciò pone al centro del dibattito economico alcuni quesiti di estremo interesse: unprimo interrogativo è se un simile processo possa portare alla convergenza dei percorsi disviluppo regionale. Un secondo si riferisce al ruolo del territorio nei modelli di svilup-po locale e se esso continui ad avere quella centralità che ha assunto fin dagli anni ses-santa.

Sul primo punto alcuni economisti non hanno dubbi: se negli anni trenta si ritene-va la tecnologia capace di favorire una maggiore convergenza, oggi questo ruolo lo haassunto la concorrenza, grazie all’intensificazione delle relazioni internazionali tra sog-getti economici e all’elevata mobilità dei fattori produttivi. Quindi, seguendo uno sche-ma teorico tipico della scuola marginalista, i citati elementi determinano una conver-genza nei livelli di produttività e più in generale dei prezzi.

Altri, al contrario, sono concordi nel ritenere che la globalizzazione, se favorisce alcu-ne economie regionali deprime altre, determinando una accentuazione degli squilibriregionali non solo tra paesi ricchi e paesi poveri ma anche all’interno dei primi.

Un’ampia letteratura in materia, afferma, ad esempio, che l’introduzione della mone-ta unica nell’Unione europea accentuerà nel tempo i divari regionali. Ciò avverrà a causadi un processo di spostamento dei capitali da regioni meno concorrenziali verso regionipiù produttive, con l’effetto di determinare concentrazioni di specializzazioni produttivea tutto favore delle regioni più ricche rispetto a quelle più povere e conseguente aumen-to dei divari occupazionali e di reddito a tutto favore delle prime (Krugman, 1995;Capuano, 1998; Cencini, 1999).

Rispetto al secondo quesito, un filone di pensiero sostiene che, dagli anni novanta, sistia verificando una costante perdita di centralità da parte del territorio come fattore disviluppo. L’internazionalizzazione dei mercati finanziari, gli effetti determinati dall’intro-duzione dell’euro finalizzata al completamento di un reale mercato unico europeo, l’ar-monizzazione delle politiche economiche (aspetto macro) e l’affermarsi di processi didelocalizzazione produttiva (aspetto micro) partiti soprattutto da quelle latitudini dove ilterritorio aveva un importante ruolo nei modelli di sviluppo locale (si veda ad esempio

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cosa è successo nei distretti industriali del Nord Est o dell’Emilia - Romagna) sarebberosolo alcuni esempi di un processo in atto e dell’irrilevanza dei fattori legati al territorio.

Dunque, i processi di crescita stanno dando vita ad una “a - territorialità” dello svi-luppo, proprio nel momento in cui le politiche regionali, in particolare nelle aree piùdeboli del paese, sono sempre più pensate e gestite a livello locale ma condizionate inmaniera crescente da dinamiche macroeconomiche e da centri decisionali che spessosono fuori regione se non addirittura fuori del paese interessato.

Al contrario, altri autori sono più cauti nel giungere a conclusioni su di un processoche tutto può dirsi tranne che concluso e ritengono che la globalizzazione, grazie ad unacrescente capacità dei territori di attrarre conoscenza e innovazione, potrà coincidere conle esigenze della domanda locale (Favaretto, 2000).

Su questa posizione, pur riconoscendo l’importanza di riconsiderare il ruolo del ter-ritorio nei modelli di sviluppo locale, si collocano i “neolocalisti”11 tra i quali si inseriscela scuola di pensiero dell’Istituto Tagliacarne a cui appartiene l’Autore.

In conclusione, la risposta che proviene dalla rivisitazione delle principali correnti dipensiero che da Marshall ai nostri giorni hanno dato importanza al concetto di econo-mia e sviluppo locale e da alcune analisi originali proposte dall’Autore nei capitoli diquesto libro è la seguente: la teoria economica moderna, al fine di determinare i suoi modelliinterpretativi, non può prescindere dal ruolo ricoperto dal livello mesoeconomico (livello intermedio)12come luogo di formazione dei meccanismi di trasmissione e di mediazione economica tra i merca-ti nazionali dei beni reali e della moneta e le scelte di politica economica (livello macro) da un lato,e la singola impresa e più in generale dei soggetti economici (livello micro) dall’altro.

1.2 Il livello mesoeconomico tra macro e microeconomia

Il livello mesoeconomico solo di recente ha assunto rilevanza nel dibattito economi-co come variabile analitica all’interno dei processi economici e dello sviluppo locale.Dalla Fig.1 di pag.15, in cui si è fatto un tentativo di organizzare le principali teorie emodelli di sviluppo regionale a seconda di come questi considerano il ruolo del terri-torio nella formazione della catena del valore, è evidente come per molto tempo gli eco-nomisti ne hanno sottovalutato il significato e, solo negli anni più recenti, la logica ter-ritoriale e la differenziazione nei percorsi di sviluppo (gli “n” modelli di sviluppo locale

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11 In Italia, uno dei riferimen-ti culturali di questa cor-rente di pensiero econo-mico è sicuramente l’As-sociazione Italiana diScienze Regionali (AISRE).

12 Il termine mesoeconomi-co o mesoeconomia an-cora non è presente nei di-zionari dei termini econo-mici. Il primo elementodella parola, meso, derivadalla parola greca mésosche significa medio. A talfine, in questa sede, si cer-cherà di fornire un contri-buto definitorio che certa-mente non ha pretese dicompletezza.

determinati dalle specifiche caratteristiche produttive e dal differente peso dei settorinella formazione del PIL) è stata accettata dalla comunità scientifica.

Secondo i teorici del localismo, lo sviluppo locale è fortemente condizionato daicomportamenti degli attori locali dello sviluppo, dal contesto istituzionale locale esoprattutto dall’esistenza di relazioni, formali e informali, tra imprese. A tal proposito, èd’estrema importanza tutta l’ampia letteratura sui distretti industriali che ha le sue radicinel pensiero dell’economista inglese Alfred Marshall e al suo esplicito riferimento alleeconomie esterne all’impresa (Becattini, 1989).

Il territorio, come visto in precedenza, è considerato come un fattore della produzio-ne e dello sviluppo alla stessa stregua del lavoro e del capitale ma non nel senso fisico deltermine (si pensi al fattore “terra” nella teoria classica), quanto come luogo dove gli attorilocali dello sviluppo (imprese, Istituzioni, cittadini, etc.) organizzano la “produzione”.

A tal proposito, noi riteniamo che esiste una curva di domanda e offerta quante sonole realtà territoriali che per convenzione individuiamo nella ripartizione amministrativadella provincia, con un Prodotto Interno Lordo del territorio (Yter) che si fonda sui con-sumi dei suoi abitanti (Cter); sugli investimenti, sia pubblici (Gter), realizzati dagli Entilocali e/o direttamente dallo Stato centrale, sia privati (Iter), determinati dal tessuto diimprese ivi localizzate; su di una autonoma attività di esportazioni/importazioni (Eter –Mter); l’insieme di questi elementi contribuisce alla formazione del reddito dei suoi abi-tanti partecipanti alla produzione del territorio e alla loro propensione al risparmio.

Formalmente potremmo così definire l’equazione:

Yter = Cter + Iter + Gter + Eter – Mter

Assistiamo, quindi, alla creazione di un passaggio intermedio (il livello “mesoecono-mico”) nella creazione della ricchezza di un Paese, che si inserisce nella formazione della“catena del valore” e concorre a determinare le relazioni e i comportamenti esistenti trasingoli soggetti economici (il livello “microeconomico”) e le variabili economicheaggregate (il livello macroeconomico). Quindi, se è vero che la ricerca economica negliultimi venti anni ha concentrato i suoi sforzi nel fornire i fondamenti microeconomicialla macroeconomia13, un nuovo filone di ricerca è nato per fornire i “mesofondamenti”sia alla macro che alla microeconomia.

La conseguenza di un simile ragionamento, è la seguente:l’efficacia della politica economica di un Paese (politica monetaria restrittiva/espansiva, politica di

13 Il problema di ricavareuna macroeconomia dal-l’analisi microeconomicasi è posto sia per la nuovamacroeconomia classicache la nuova scuola key-nesiana. La prima, par-tendo dall’indirizzo teori-co walrasiano, la secondadalla teoria dei mercatiimperfetti.

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bilancio, politica dei redditi, etc.) dipenderà da come il livello mesoeconomico reagirà agli input eso-geni, sia in termini temporali (immediati al tempo t, ritardati al tempo t + 1) che di trend (rea-zione dello stesso o differente segno). Nei casi estremi, gli interventi di politica economica potrebbe-ro risultare “neutrali” o addirittura controproducenti per la singola economia locale.

In base a questi principi, anche se i processi di globalizzazione ne sfumeranno i con-fini e ridurranno d’importanza gli elementi di contiguità territoriale (il concetto di “metadistretto14” o i processi di delocalizzazione conosciuti dai distretti industriali ne costitui-scono solo un esempio), non cancelleranno il territorio come fattore caratterizzante losviluppo endogeno di una determinata area.

Lo sviluppo basato su fattori endogeni, quindi, individua un nuovo ruolo del terri-torio: non più importante per le sole risorse di cui è dotato (risorse naturali, lavoro, etc.)e come mero luogo di produzione (ciò rappresenta la vecchia concezione dei distretti)ma soprattutto come luogo dell’attività di ideazione e progettazione imprenditoriale (larisposta alla concorrenza dei Paesi di nuova industrializzazione come la Cina). Un nuovoposizionamento competitivo basato sulla capacità innovativa dei sistemi locali trainata dafattori materiali e immateriali (ambiente, servizi, infrastrutture, etc.) ivi localizzati.

In ogni caso, la ricerca della crescita non sempre è risultata convergente tra regionicon livelli di sviluppo di partenza differenti (come d’altronde vorrebbe la teoria neoclassi-ca della convergenza) ne ha avuto una diffusione sul territorio, secondo dei sentieri dellacrescita equilibrata o di steady state. Anzi, lo sviluppo è comunque per sua stessa naturadirompente e squilibrato, con fasi che spesso rappresentano dei momenti di rottura coni passati tassi e processi di crescita di una realtà e spesso rompono equilibri, semmai ineconomia ve ne fosse esistito uno.

Un esempio di sviluppo squilibrato è quello trainato dalle esportazioni secondo lateoria della base economica e delle esportazioni e crescita cumulativa. A differenza dei modellineoclassici dove la crescita è esclusivamente fondata sulle risorse locali (approccio validoper insiemi economici di grandi dimensioni), lo sviluppo (in particolare per regioni dipiccole dimensioni) secondo queste teorie è determinato da fattori esogeni quali ladomanda di esportazioni.

Da un punto di vista empirico, come si vedrà successivamente, alcuni riscontri diqueste teorie li ritroviamo nel modello di sviluppo perseguito nel cosiddetto “triangoloindustriale italiano” durante gli anni sessanta-settanta.

I percorsi di sviluppo regionali sono stati da sempre il risultato di una contrap-posizione tra territori, tra centro e periferia, di egemonia economica di una regione

14 Per “meta distretto” si in-tendono le aree temati-che di intervento di tipoorizzontale, non limitateda un territorio omoge-neo e determinate sullabase dell’integrazione in-tersettoriale dei sistemiproduttivi delle diversesotto aree che li compon-gono. In altri termini, sitratta di aree non neces-sariamente caratterizzateda contiguità fisica, chesono assemblate sullabase dell’intensità dei le-gami di filiera dei sistemiproduttivi che vi insisto-no. Attualmente questoprincipio è stato utilizza-to dalla Regione Lombar-dia per l’individuazionedei distretti industrialidella regione.

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rispetto ad altre e all’interno delle stesse tra aree con caratteristiche diverse e livellidi reddito diversi.

La teoria della causazione circolare cumulativa (il processo di sviluppo regionale tende adivergere piuttosto che a convergere), il modello del filtering down (l’esistenza gerarchica diaree urbane, dove diversi livelli di offerta di economie esterne portano a fenomeni diconcentrazione/decentramento tra aree) o il modello del polo di sviluppo (attraverso le eco-nomie esterne l’industria motrice genera un effetto cumulativo e moltiplicativo concen-trato nello spazio; modello perseguito in alcune realtà del nostro Mezzogiorno attraver-so l’intervento straordinario degli anni cinquanta, sessanta), sono solo degli esempi di teo-rie che seguono un “approccio ineguale allo sviluppo” (per una rassegna più completadelle teorie dello sviluppo si rimanda al Cap. 2 del libro).

Di conseguenza, in un contesto regionale dove è evidente che la realtà economica èformata da numerosi percorsi di sviluppo locale (a questo proposito il caso italiano èemblematico), è più coerente parlare di come gestire lo sviluppo che non quello di ridur-re gli squilibri. Infatti, a nostro avviso, le traiettorie dello sviluppo locale dovrebberoessere lette in termini trasversali ai territori uscendo da un “localismo estremo” ed in unalogica non strettamente settoriale ma di filiera.

Da ciò ne consegue che la logica di perseguire politiche di sviluppo locale come stru-mento per ridurre le distanze tra gruppi di regioni forti e gruppi di regioni deboli, secon-do un approccio di automatico susseguirsi di fasi di crescita, deve essere necessariamentesuperata. Nel Cap. 3 di questo libro si è, infatti, sostenuto che le province italiane hannoda tempo abbandonato dei processi di convergenza lineare, ma hanno perseguito neglianni novanta un sentiero di crescita che potremmo definire di “convergenza non lineare”dove le distanze in termini di PIL pro capite seguono un percorso di tipo “sinusoidale”.

Questa visione è in antitesi rispetto all’approccio di sviluppo equilibrato perseguitodal modello neoclassico il quale teorizza l’annullamento delle disparità esistenti tra leregioni nel lungo periodo, in cui la convergenza dei livelli di sviluppo è certa e non esi-stono rapporti di dominanza e di dipendenza tra le regioni.

In conclusione, tuttavia, nonostante gli studi realizzati in anni recenti sia a livelloempirico che teorico, e l’interessante evoluzione e affinamento della base teorica diriferimento, incontriamo ancora difficoltà a parlare «con piena dignità scientifica di unadimensione locale della crescita economica» (Bramanti, Maggioni, 1995). E’ noto comesono ancora presenti, e solo parzialmente superate, le problematiche che si incontranonel definire lo stesso concetto di regione economica15 essendo tutte le definizioni parzialie/o insufficienti e soprattutto riferite ad unità territoriali troppo estese o spesso ina-

15 A questo proposito sulconcetto di regione si ve-da Boudeville (1966) eMeyer (1963) e più di re-cente Markusen (1987).

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deguate per una corretta analisi statistico-economica del territorio e delle sue traietto-rie di sviluppo.

Ciò è stato possibile soprattutto per l’assenza di fondamenti mesoeconomici dellateoria dello sviluppo regionale che ha impedito un collegamento organico e funzionaletra le teorie macroeconomiche e la tradizionale scuola di pensiero neoclassica legata aicomportamenti di singoli soggetti economici.

Logica funzionale (regione omogenea-

ruolo passivo del territorio)

Logica territoriale

(ruolo attivo del territorio)

• L’approccio neoclassico(ad un settore e a due settori)

• L’approccio dello sviluppo per tappe

• Teoria weberiana della localizzazione

• Teoria delle zone centrali(Christaller, Loesch e Isard)M

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• Base esportazioni

• Il modello di Richardson

• Causazione circolare cumulativa

• Il modello Kaldor/Dixon/Thirlwall

• I modelli del polo di sviluppo

• La teoria del filtering-downed il ciclo di vita del prodotto

• Modello centro/periferia di Krugman

• Modelli di network:- approccio distrettuale- approccio del milieu innovativo- approccio relazionale

• Modello di sviluppo non lineareMod

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Figura 1 - Territorio e modelli di sviluppo regionale

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Figura 2 - Esempi di modelli di sviluppo in Italia dal 1960 ad oggi

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Modello grande impresa

Quota occupati GI nell’area 15,1%

Quota occupati GI media Italia 12,1%

Quota pil industria nell’area 37,1%

Quota pil industria media Italia 30,6%

Fonte: elaborazione propria su dati Istituto G.Tagliacarne-ISTAT

Modello località centrali

Quota pil terziario nell’area 85,0%

Quota pil terziario media Italia 68,5%

Fonte: elaborazione propria su dati Istituto G.Tagliacarne

Modello distrettuale

Quota occupati PMI nell’area 91,6%

Quota occupati PMI media Italia 87,9%

Quota export sul totale nell’area 39,3%

Quota export sul totale non area 60,7%

Fonte: elaborazione propria su dati Istituto ISTAT

Modello agro-alimentare

Quota pil agricolo sul totale nell’area 8,7%

Quota pil agricolo sul totale media Italia 3,3%

Quota export agro-alimentare nell’area 9,5%

Quota export agro-alimentare media Italia 6,5%

Fonte: elaborazione propria su dati Istituto G.Tagliacarne-ISTAT

Modello monocentrico

Il 10-15% dei comuni concentranocirca il 65-70% dell’occupazionee della ricchezza prodotta

Fonte: elaborazione propria su dati Istituto G.Tagliacarne-ISTAT

Figura 3 - Alcuni modelli di sviluppo in cifre

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2Introduzionealle principaliteoriedello svilupporegionale

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n questa parte del lavoro si esporranno, in forma schematica e a scopo meramen-te didattico senza avere la pretesa di dare una esaustiva panoramica della vasta let-teratura, le principali teorie dello sviluppo regionale, rimandando a manuali e testioriginali per gli eventuali e necessari approfondimenti.

Come Armstrong e Taylor (1985, testo preso a riferimento di questo capitolo) auto-revolmente affermano nel loro manuale, sulle cause che determinano la crescita econo-mica non c’è assoluto accordo tra gli economisti. Se alcuni seguono il sentiero tracciatodai neoclassici, dando un ruolo da protagonista nel processo di crescita ai fattori dal latodell’offerta (offerta di lavoro, stock di capitale, progresso tecnico, etc.), altri prediligono,secondo l’insegnamento keynesiano, il ruolo svolto dai fattori della domanda. Altri ancoraindividuano nelle dinamiche degli scambi internazionali un importante determinante dellacrescita. Queste tre famiglie di filoni di analisi non danno particolare importanza allo spa-zio, cosa che invece, pur in un contesto teorico marginalista, è rilevante nelle teorie dellalocalizzazione e nei modelli di rete.

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2.1 Il modello neoclassico16

Come è noto in letteratura, la funzione di produzione aggregata rappresenta uno deipunti di riferimento della teoria neoclassica17 della crescita. In un contesto economicodove il progresso tecnico non esiste, la produzione deve la sua esistenza a due fattori, ilcapitale e il lavoro:

Qt = F (Kt, Lt)

dove:Qt è la produzione al tempo t, Kt è lo stock di capitale al tempo te L è la forza lavoro al tempo t.

Dato il livello dell’offerta del capitale e di lavoro, il tasso di crescita della produzioneè espresso come funzione dei tassi di crescita del capitale e del lavoro in un contesto direndimenti costanti e di concorrenza perfetta, si può esprimere il seguente semplicemodello di crescita:

dove: rappresenta la crescita della produzione, quella dello stock di capitale e quella della forza lavoro. Le costanti α e 1 - α rappresentano, rispettivamente, il contri-buto degli input di capitale e di lavoro alla produzione globale.

Questa equazione mostra come il prodotto per addetto possa aumentare soltanto sela crescita del capitale eccede quella dell’offerta di lavoro.

16 Il modello neoclassicodella crescita presentauna prima ipotesi ad unsettore (molto semplifi-catrice della realtà), e unaipotesi a due settori (piùrealistica). Considerate lefinalità del nostro testoconsidereremo solo l’i-potesi più semplice.

17 Essa indica nel linguag-gio corrente la “teoriaeconomica marginali-sta”. Il termine fu coniatodal sociologo e economi-sta Th. Veblen.

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Giuseppe Capuano

La più nota e utilizzata funzione della produzione è quella proposta originariamen-te nel 1928 dall’economista P.H. Douglas e dal matematico C.W.Cobb (funzione diCobb-Douglas), che grazie alle sue numerose proprietà formali viene spesso utilizzata neimodelli di crescita.Tra queste citiamo i rendimenti di scala costanti, i prodotti marginalicrescenti di entrambi i fattori e l’elasticità di sostituzione tra i fattori costante e uguale auno. Essa è una funzione del tipo rappresentato nella Fig.4.

Approfondendo l’analisi si giunge alle seguenti conclusioni: il prodotto per addettoaumenta con l’aumentare del capitale pro capite a disposizione dei lavoratori (processonoto come capital deepening). Inoltre, in assenza di progresso tecnico, il processo non puòandare all’infinito in quanto il capitale - come del resto anche il lavoro - è caratterizza-to da rendimenti marginali decrescenti.

Di conseguenza Q/L aumenterà ad un tasso decrescente come si evince dalla Fig. 4.

Nota: Se la F(K,L) è una funzione omogenea di primo grado Q=F(K,L) implica Q/L=F(K/L).

Figura 4 - Prodotto per addetto e rapporto capitale / lavoro

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Il modello neoclassico può essere reso più realistico se consideriamo anche l’esisten-za del progresso tecnico. L’effetto “progresso tecnico” consentirà di spostare verso l’altola funzione della produzione per addetto, e dato il livello del rapporto capitale/lavoro siavrà un aumento del prodotto per addetto rispetto ad una situazione in assenza di pro-gresso tecnico (Fig. 5).

Di conseguenza l’equazione della crescita con progresso tecnico sarà la seguente:

dove:

è il progresso tecnico.

Figura 5 – L’effetto del progresso tecnico sul prodotto per addetto

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Giuseppe Capuano

In conclusione, secondo il modello neoclassico i differenziali di crescita del prodot-to per addetto e, quindi, del tasso di crescita delle regioni, sono dovuti sostanzialmente aidifferenziali di crescita del rapporto capitale/lavoro e del progresso tecnico (esogeno).

Si giunge, quindi, a dimostrare che il tasso di crescita della produzione (secondo unprocesso che coinvolge i salari le cui variazioni sono date dagli squilibri domanda/offer-ta) tende ad eguagliare il tasso di crescita dell’offerta di lavoro e quello del progresso tec-nico. Essendo le due grandezze considerate costanti, il modello neoclassico porta allaconclusione che il livello del reddito, quando tale eguaglianza è verificata, si trova in unsentiero di steady state18 e, se ciò non si verifica, converge verso di esso.

Una versione più forte della teoria esclude anche la necessità della presenza di unosquilibrio sul mercato del lavoro per avere una convergenza verso la steady state, anzi pre-suppone l’esistenza di un perfetto equilibrio.

Dal dibattito scaturito dai risultati di ricerche empiriche è stato evidente, in ognimodo, come non vi sono prove di processi diffusi di convergenza tra le economie regio-nali. Questa evidenza è in netta contraddizione, come visto in precedenza, rispetto aquanto teorizzato dai neoclassici. Al fine di superare le difficoltà create alla scuola neo-classica, durante gli anni ottanta è nata la “teoria della crescita endogena”19.

Secondo i neoclassici gli elementi fondamentali della convergenza sono due: pro-gresso tecnico esogenamente dato e la produttività marginale decrescente del capitale, inconnessione con una funzione di produzione con rendimenti costanti di scala.

I teorici della crescita endogena affrontano i problemi connessi alle difficoltà di veri-ficare la convergenza, seguendo principalmente due strade che possono essere combina-te oppure no:

❏ il progresso tecnico da esogeno diventa endogeno;❏ il concetto di capitale si allarga, considerandolo un fattore riproducibile, e quindi

eliminando il concetto della sua produttività marginale decrescente.

La teoria, quindi, recupera il concetto di rendimenti crescenti di scala che già altri,da Adams Smith a Alfred Marshall a Nicolas Kaldor, avevano teorizzato e utilizzato nelleloro analisi. Un approccio, in ogni modo, da sempre inviso ai neoclassici perché mal siconciliava con il principio di concorrenza perfetta e più in generale con la loro teoriadei prezzi.

In questi modelli, la crescita della produttività non ha più origine da un progressotecnico endogeno, ma dallo stato interno delle tecnologie utilizzate e dall’organizzazio-

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18 Nell’analisi economica lostato stazionario rappre-senta una condizioneideale del sistema eco-nomico caratterizzata daun prodotto netto co-stante, invariabilità deiprocessi produttivi e as-senza di accumulazione edi crescita. Già Carl Marxnel Capitale e gli econo-misti classici (in particola-re Davide Ricardo), si rife-cero a questo principionelle loro formulazioniteoriche.

19 Per un approfondimentosulla teoria della crescitaendogena, tra gli altri:Boggio, L. e Serravalli, G.(1999); Solow M. R.,(1994).

ne dell’impresa. Situazioni che il modello neoclassico o aveva trascurato o consideratoeccezionali.

Altra spiegazione della riduzione degli squilibri regionali, sempre nel mondo neo-classico, è costituita dai movimenti interregionali dei fattori della produzione verso i ter-ritori dove i rendimenti sono più elevati: il lavoro si sposterà verso realtà dove i salari sonopiù elevati e il capitale dove i rendimenti sono maggiori. Nei modelli neoclassici dellacrescita il livello dei salari sarà alto nelle regioni dove è elevato il rapporto capitale/lavo-ro, e quindi il rendimento netto sull’investimento in capitali sarà basso. La principale con-seguenza è che i fattori della produzione si muoveranno in direzione opposte: afflusso dilavoro e deflusso di capitali nelle regioni ad alti salari; il contrario nelle regioni a salaribassi, dove si registrerà un maggiore afflusso di capitale.

Questo aspetto introduce un argomento di estrema attualità che associa il modelloneoclassico con gli effetti del commercio internazionale sulla crescita.

2.1.1 Modello neoclassico e commercio internazionale: il caso delle delocalizzazioni produttive

Il teorema del pareggiamento dei prezzi dei fattori, affermando che il libero commerciotenderà a parificare i prezzi dei fattori nelle varie regioni smentisce, almeno parzialmen-te, quanto assunto dalla teoria neoclassica.

La relazione tra commercio e prezzi dei fattori regionali è importante. In ciascunaregione, la specializzazione della produzione per l’esportazione provoca un aumentoeffettivo della domanda derivata per i fattori in precedenza abbondanti, diminuendo, allostesso tempo, quella per i fattori scarsi.

Come risultato, le differenze interregionali nei prezzi dei fattori - anche in assenzadi spostamenti dei fattori stessi - tenderanno a ridursi, ed “il commercio funziona, quindi,come perfetto sostituito della mobilità fattoriale, poiché esso implica il pareggiamento dei prezzi deifattori anche in condizioni di immobilità dei fattori della produzione” (Krauss e Johnson, 1974).

Osservando questo fenomeno da una prospettiva leggermente diversa, una regione conuna abbondante dotazione di lavoro e bassi salari, esporta lavoro sostanzialmente in duemodi: direttamente, tramite il deflusso di questo fattore, ed indirettamente, sotto forma diservizi lavorativi incorporati nei beni nella cui esportazione si è specializzata la regione.

Il commercio, quindi, agisce come sostituto degli spostamenti, consentendo alleregioni di utilizzare intensivamente il loro fattore relativamente più abbondante. Ciò

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Giuseppe Capuano

porta a due diversi tipi di beneficio. In primo luogo, i prezzi dei fattori vengono pareg-giati in tutte le regioni. In secondo luogo, l’economia nel suo insieme se ne avvantaggia,poiché commercio e specializzazione sono più efficienti dell’autarchia, e tutte le regionine trarranno beneficio.

Se questo approccio è realistico, i processi di delocalizzazione di fasi o dell’intera pro-duzione da regioni di paesi relativamente ricchi (si veda ad esempio il caso del Veneto odell’Emilia Romagna) in regioni di paesi relativamente poveri (si veda ad esempio lelocalizzazioni produttive presenti a Timisoara in Romania da parte di imprese trevigia-ne) sono dettati da una strategia di breve-medio periodo che sarà probabilmente scon-fessata nel lungo periodo.

Questo perchè l’introduzione materiale dell’euro, ha eliminato le frontiere tra eco-nomia internazionale ed economia regionale nell’Unione europea e nel medio-lungoperiodo, l’integrazione europea riduce le differenze in termini di salari tra le regioni,enfatizza le specializzazioni produttive locali e i rendimenti crescenti dei fattori della pro-duzione e cambierà la nozione di “spazio”, da non intendersi più come dizione limitataal territorio dove è localizzata l’azienda (le imprese si deterritorializzano), ma comeambiente economico più vasto, a volte sovranazionale, da cui deriveranno la crescitasostenuta e la determinazione del ciclo economico di un’area.

Ne scaturisce un modello di sviluppo europeo con una componente di internazio-nalizzazione maggiore.Tale componente è centrata non soltanto sul miglioramento dellapropensione all’esportazione delle singole regioni, ma su una serena consapevolezza del-l’esistenza di una incipiente attività di delocalizzazioni di parti di “distretto” o di fasi diproduzioni aziendali di imprese non distrettuali, da aree più sviluppate o comunque a svi-luppo industriale avanzato, verso realtà dell’Est Europa a più bassi salari. Da un punto divista teorico, la “fase di delocalizzazione” potrebbe essere collocata, in relazione al distret-to, come successiva alla “fase di maturità” nel ciclo di vita del distretto marshalliano20.

Questi avvenimenti hanno anche cambiato l’approccio teorico di riferimento utile aspiegare il perchè degli scambi internazionali (ormai regionali) in Europa, rendendo supera-to il modello ricardiano dei vantaggi comparati (al centro dell’analisi sono poste le differen-ze di produttività del lavoro e quindi dei salari) e, più in generale, l’approccio neoclassico.

Molto spesso l’esplorazione dei mercati esteri attraverso le esportazioni ha rappre-sentato per le imprese italiane una prima fase dell’approccio ai nuovi mercati, che suc-cessivamente si è sviluppata, in alcuni casi, in investimenti diretti all’estero o in varie ini-ziative di internazionalizzazione. Infatti, se dai primi anni novanta si è assistito, da un lato,ad un brusco rallentamento della crescita multinazionale dell’industria italiana, dall’altro,

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20 Per “distretto marshallia-no” si intende la capacitàdi un territorio di coniuga-re economia e società nel-l’ambito di un ambientecaratterizzato da processidi agglomerazione di im-prese, spesso di piccole emedie dimensioni, conspecializzazione mono-settoriale, nel quale han-no un ruolo importante leeconomie esterne o più ingenerale le esternalità.

è andato aumentando il numero di investitori italiani all’estero secondo un processodelocalizzativo.

In particolare, il processo di internazionalizzazione produttiva ha riguardato semprepiù le PMI, polarizzandosi verso i settori con maggiori vantaggi competitivi (tessile, abbi-gliamento, cuoio, pelletteria, calzature e prodotti in legno), la meccanica strumentale el’alta tecnologia.

Il sistema produttivo italiano inserito in questo scenario dinamico, deve essere pron-to a conquistare nuovi mercati e ad accrescere la propria competitività anche attraversouna riorganizzazione della catena del valore sul territorio.

La crescente tendenza all’innovazione e l’evoluzione della società dell’informazione, haconsentito anche al sistema di piccole e medie imprese di rispondere ai cambiamenti impo-sti dalla globalizzazione, sfruttando le opportunità legate alla presenza diretta all’estero eall’ampliamento delle potenzialità produttive e commerciali che da essa scaturiscono.

In generale, la delocalizzazione della filiera produttiva può conseguire i suoi obietti-vi attraverso joint venture, accordi di fornitura di lungo periodo21 e acquisizioni o crea-zione in loco di unità produttive. Quest’ultima tipologia di IDE si può definire “labour(resource) seeking”.

Se quanto detto è vero, e comunque considerando la delocalizzazione di attività pro-duttive una “normale” strategia aziendale da non demonizzare e comunque perseguita datempo dai grandi gruppi industriali italiani, va fatta qualche precisazione.

Il problema della competitività del tessuto produttivo locale e/o del distretto, trovasolo parziale soluzione con delocalizzazioni che hanno queste caratteristiche, in quantonon sempre a bassi salari corrispondono livelli di produttività soddisfacenti (in genere, inpaesi a bassi salari con livello di sviluppo inferiore, la produttività media è inferiore rispet-to ai paesi economicamente più avanzati) ne è possibile ricreare e realizzare in loco tuttequelle attività e quel “microclima” tipico del territorio distrettuale di origine (ad esem-pio la creazione di network locali).

In effetti, le scelte localizzative dovrebbero essere pensate in termini soprattutto diproduttività complessiva dell’investimento realizzato e del potenziale mercato di sbocco,in quanto un’analisi costi-benefici centrata solo sul costo della manodopera può esserevalida nel breve periodo ma presentarsi fallimentare in quello medio-lungo.

Inoltre, la delocalizzazione comporta una riorganizzazione della “rete” nella nuovaarea prescelta, in quanto essa dovrà ricreare e realizzare in parte o in toto tutte quelleattività e quel “microclima” tipico del territorio distrettuale di origine.

Alla luce di queste brevi considerazioni, si arriva alla conclusione che non per tutti i

21 Essa è anche chiamata“traffico di perfeziona-mento passivo”, in quan-to le imprese grazie allosfruttamento di un parti-colare regime di tariffedoganali, trasferisconofasi di produzione all’e-stero, reimportando i se-milavorati, rifinendo ilprodotto in Italia.

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settori merceologici la competitività può essere individuata prevalentemente nei costirelativi al fattore lavoro ne è possibile ricreare ovunque le medesime condizioni tipichedelle economie di agglomerazione presenti soprattutto in un distretto.

Comunque, sembrerebbe che una simile strategia trovi la sua migliore applicazionenei settori labour intensive e/o con alta elasticità della domanda nei confronti del prezzo.In prospettiva, in ogni caso, anche per questi settori, in base al “teorema del pareggio deiprezzi dei fattori” dovuto al commercio interregionale, a nostro avviso lo scenario di rife-rimento cambierà.

Infatti, il vantaggio assoluto dei livelli salariali nei Paesi dell’Est tenderà aridursi/scomparire a causa di un aumento della domanda di manodopera dall’area comu-nitaria, dei movimenti dei lavoratori “in entrata” nell’Ue, e soprattutto grazie al gradua-le ingresso, dal 2004, di questi Paesi nell’Unione europea, che li costringerà a seguire unapolitica economica più vicina al dettato di Maastricht.

A questo proposito l’esempio della Repubblica Ceca è emblematico, dove salari e costidi produzione, dal 2001, seguono un trend al rialzo, soprattutto nelle aziende a capitalestraniero. Ciò che è avvenuto nella Repubblica Ceca è solo una incipiente fase di un pro-cesso piu’ complesso. In un primo momento si porrà in essere un modello dualistico dovei salari saranno più elevati nelle imprese a capitale straniero rivolte prevalentemente all’ex-port; al contrario, i salari saranno più bassi nelle imprese locali proiettate soprattutto sulmercato domestico. Nel medio – lungo periodo, per un effetto “dimostrazione”, i salaridel secondo gruppo di imprese tenderanno ad eguagliare il livello salariale del primogruppo, con l’effetto di un generalizzato aumento del monte salari dell’economia.22 Questiprocessi e la loro gestione rappresenteranno una ulteriore sfida per le prospettive di cre-scita delle imprese a capacità produttiva in parte o totalmente delocalizzata e per avere suc-cesso, le iniziative imprenditoriali dovranno avere necessariamente una visione rivolta aimercati di sbocco e non solo ad una mera ricerca di manodopera a basso costo.

2.2 Lo sviluppo esogeno trainato dalle esportazioni

I modelli regionali di crescita basati sull’effetto trainante delle esportazioni (export-ledgrowth) rifiutano le spiegazioni fornite dal modello neoclassico, dando una particolareimportanza alle componenti della domanda secondo l’insegnamento keynesiano. Le evi-denti carenze del modello neoclassico basato prettamente sui fattori dell’offerta e del pro-

22 Su questo argomento: A.Graziani (1979) (a cura di),L’economia italiana dal1945 a oggi, il Mulino,Bologna, pag. 225 – 262.

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gresso tecnico, sono colmate secondo questi economisti dal fatto che le regioni possonocommerciare tra di loro e che proprio la differenza tra la propensione ad esportare di unaregione rispetto ad un’altra determina i differenziali di crescita tra una realtà e l’altra.

I modelli della base economica furono tra i primi modelli formali per la determina-zione del reddito regionale collegati ad un settore di base che ha come principale merca-to di sbocco le vendite ad altre regioni. Il reddito prodotto da questo settore, come sivedrà, secondo il modello, determinerà il reddito totale della regione che a sua volta con-diziona l’andamento del reddito percepito dal settore non di base (proiettato sul mercatolocale).Ampliando l’approccio potremmo individuare in questo modello uno dei primi aconsiderare le vendite extraregionali e quindi le esportazioni, un volano della crescita.

A questo seguirono altri approcci come quello della “base delle esportazioni” che,partendo dal principio che lo stimolo iniziale allo sviluppo regionale può essere indivi-duato nelle esportazioni di materie prime, fu esteso successivamente al commercio deiprodotti industriali.

Molti limiti sono stati attribuiti a tali teorie in quanto l’influenza della domanda este-ra sulla crescita di una regione dipende da tanti altri fattori, sia dal lato della domanda (adesempio il livello del reddito dei paesi/regioni importatrici) che dell’offerta (ad esempiotutti quei fattori che determinano la competitività di un regione sui mercati esteri).

Un’interessante evoluzione di tali teorie fu dovuta prima a Kaldor (1970) e poi aDixon e Thirlwall (1975) che collegarono le esportazioni regionali con il processo di cau-salità cumulativa. In pratica, il processo di crescita creato dalle esportazioni può generareun processo cumulativo.

In particolare, secondo Kaldor la rapidità con la quale si determina la crescita dellaproduzione pro capite di una regione viene spiegata soprattutto dalla capacità di que-st’ultima di sfruttare le economie di scala e nei benefici dettati da una più intensa spe-cializzazione, in particolare nel settore manifatturiero rispetto a specializzazioni “land-based” come l’agricoltura o il settore minerario.

Le regioni con queste caratteristiche cresceranno più rapidamente secondo un pro-cesso di tipo cumulativo che le renderà più concorrenziali rispetto ad altre, rinforzandola propria specializzazione grazie all’espansione delle proprie esportazioni.

Dixon e Thirlwall specificano quanto già intuito da Kaldor spiegando in modo rigo-roso i meccanismi che determinano il processo di causazione cumulativa tenendo contodi un effetto di ritorno che lo sviluppo regionale ha sulla competitività e quindi dei volu-mi di prodotti esportati. Il circolo virtuoso che lega competitività-esportazioni-produ-zione-produttività-crescita permette agli autori di legare il proprio approccio a quello

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Giuseppe Capuano

dettato dalla Legge di Verdoorn (1949) secondo la quale “la crescita della produttività è inparte determinata dalla crescita della produzione”.

A tal proposito, un altro elemento può essere aggiunto al circolo virtuoso quale ladensità di impresa, in quanto, a nostro avviso, la presenza di una fitta rete di unità pro-duttive presenti sul territorio favorisce la capacità di esportare del sistema produttivo.Infatti, da una verifica empirica, incrociando il dato provinciale della propensione all’ex-port con quello della densità di impresa, è evidente come le realtà che esportano di piùin termini di PIL sono, spesso, anche quelle con i valori di impresa più elevati.

Da un punto di vista macroeconomico, invece, ci sono alcune attinenze tra il model-lo di sviluppo in questione e quello seguito in Italia dalla seconda metà degli anni cin-quanta. Infatti, l’Italia, ed in particolare le regioni del Nord Ovest (il cosiddetto “trian-golo industriale”) secondo alcuni economisti (Ackley, 1961) ha conosciuto il boom eco-nomico nel periodo 1958-1963 grazie ad un meccanismo di questo genere. Inoltre, larelativa arretratezza di molte realtà del nostro Mezzogiorno, è addebitata proprio ad unabassa propensione all’export , come lo sviluppo di molti distretti industriali italiani è attri-buito al dinamismo conosciuto dalla componente estera. Non è un caso che le realtà pro-vinciali a maggiore presenza distrettuale sono anche quelle a più alta intensità di impre-se, con una maggiore propensione ad esportare e, quindi, con un più elevato valore delPIL pro capite.

In sintesi, partendo dall’assunto della causazione cumulativa, arricchendolo connostre considerazioni, si potrebbe arrivare alla seguente conclusione dimostrata dai datipresenti nella tab. 1:

la crescita della produttività è in parte determinata dalla crescita della produzione chebeneficia degli effetti della componente estera della domanda aggregata. Quest’ultima ètanto più importante quanto maggiore è la presenza di uno spesso tessuto di impresaorganizzato “in distretti” o comunque dove le relazioni sono fitte sul territorio. Il risul-tato è un tasso di crescita e un valore del PIL pro capite più elevato.

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Pos Prov. Propensione Pos Prov. Propensione Pos Prov. Propensione

1 Vicenza 56,82 Gorizia 54,93 Prato 48,24 Reggio E. 46,15 Arezzo 46,06 Pordenone 45,47 Modena 44,88 Chieti 43,09 Treviso 42,510 Siracusa 42,311 Como 39,512 Mantova 39,513 Novara 38,814 Vercelli 36,815 Bergamo 36,216 Biella 35,917 Lecco 35,618 Varese 34,119 Lucca 32,920 Verona 32,621 Belluno 32,422 Ancona 32,123 Cuneo 31,124 Milano 30,825 Udine 29,426 Bologna 29,127 Parma 28,628 Torino 28,329 Brescia 28,230 Frosinone 27,831 Padova 27,832 Rieti 27,733 Pistoia 27,734 Alessandria 27,735 Massa Carrara 27,5

36 Ascoli Piceno 27,137 Firenze 25,338 Pesaro e Urbino 24,339 Venezia 24,340 Pisa 24,241 Latina 24,142 Pavia 23,943 Macerata 23,744 L’Aquila 23,445 Forlì 23,046 Terni 22,847 Isernia 21,548 Teramo 21,549 Asti 21,550 Ravenna 21,151 Piacenza 20,452 Ferrara 19,953 Cremona 19,854 Siena 19,855 Trieste 18,456 Potenza 18,157 Lodi 17,758 Trento 17,259 Bolzano 16,560 Rovigo 16,061 Rimini 15,662 Verbania 15,463 Cagliari 14,464 Bari 14,265 Livorno 13,666 Aosta 12,767 Matera 12,368 Savona 11,969 Taranto 11,870 Sondrio 11,8

71 Avellino 11,772 Perugia 11,773 Genova 11,374 Napoli 11,375 Brindisi 10,676 Salerno 10,177 Caserta 9,278 Imperia 8,479 Lecce 7,980 La Spezia 7,881 Caltanissetta 7,882 Pescara 7,683 Catania 6,484 Roma 6,485 Viterbo 5,986 Campobasso 5,787 Sassari 4,588 Foggia 4,589 Ragusa 4,190 Grosseto 4,091 Messina 3,992 Trapani 3,693 Palermo 2,894 Oristano 2,395 Benevento 2,196 Nuoro 2,197 Vibo Valentia 2,198 Reggio Calabria 1,599 Agrigento 1,4100 Crotone 1,3101 Cosenza 0,8102 Enna 0,7103 Catanzaro 0,6

ITALIA 22,5

Fonte: elaborazione propria su dati Istituto G.Tagliacarne-ISTAT

Tab. 1 - Graduatoria delle province italiane per grado di propensione all’export (2002)

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IL MOLTIPLICATORE DELLA BASE ECONOMICA

Al fine di ottenere il moltiplicatore della base economica si scompone il reddito tota-le della regione in due componenti:

T = S + B

dove:T = reddito regionale totaleS = reddito percepito nel settore non di base (che “serve” la regione)B = reddito percepito nel settore di base

S = sT

Dove unendo le equazioni 1 e 2 otteniamo:

T = (1 / 1 - s) * B

dove 1 / (1 - s) è il moltiplicatore della base economica

ESPORTAZIONI E CRESCITA CUMULATIVA

Il modello viene esposto formalmente attraverso quattro relazioni funzionali:1) crescita del volume della produzione e crescita della produttività;2) aumento dei costi di produzione e tasso di inflazione;3) crescita delle esportazioni dipende dal tasso di inflazione dei prezzi della regione,

dal tasso di inflazione dei principali concorrenti e dalla crescita mondiale;4) crescita del volume della produzione con la crescita delle esportazioni.

1)

dove:

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2)dove:

3)

dove:

η e σ rappresentano l’elasticità della domanda rispetto ai prezzi, e ε quella rispettoal reddito;

4)

dove:

Possiamo ottenere il tasso di equilibrio della crescita del volume della produzionesostituendo le equazioni 1, 2 e 3 nella 4, e risolvendo per . Questo ci dà:

2.3 La teoria di Heckscher-Ohlin

Un paese ha un vantaggio comparato negli scambi internazionali nella produzione diquei prodotti per i quali, relativamente ad altri, ha una maggiore disponibilità di risorseproduttive, in quanto il lavoro non è l’unico fattore della produzione. Una spiegazione,quest’ultima, più realistica dei processi economici che assegna anche ad altri fattori dellaproduzione un ruolo da svolgere. Questo è il principio sul quale si basa la teoria svilup-pata da Eli Heckscher nel 1919 e successivamente riproposta da Bertil Ohlin (1933)23

nota in letteratura come il teorema di Heckscher-Ohlin. Secondo i due economisti svedesi,il commercio internazionale è in larga misura determinato dalle differenze nelle dota-zioni di risorse e poiché questa teoria mostra l’importanza dell’interazione tra le pro-porzioni in cui i fattori produttivi sono disponibili nelle diverse economie nazionali e laproporzione in cui essi sono utilizzati nei diversi settori, spesso si definisce come teoriadella proporzione dei fattori.

La teoria non solo perfeziona, mediante l’introduzione di altri fattori della produ-zione, come ad esempio il capitale, la spiegazione data da Ricardo alle cause del com-mercio internazionale24, ma tenta anche di dare una concisa esplicitazione delle cause delvantaggio comparato.

Non è possibile applicare meccanicamente questa teoria per spiegare le cause delcommercio interregionale, anche se essa, come vedremo, costituisce un importante puntodi partenza per gli economisti che hanno intrapreso un percorso di verifica sia teoricache empirica. Dal momento che le regioni hanno relazioni commerciali con il resto delmondo, le variabili che influenzano i flussi commerciali internazionali sono evidente-mente importanti anche per esse e quindi, le teorie che ne spiegano le cause, sono ragio-nevolmente applicabili, oltre alla componente internazionale del commercio, anche aquella interregionale di una regione.

Il commercio interregionale è molto più libero per innumerevoli e intuibili motividel commercio internazionale e le cause che ne determinano la specializzazione nonsono certamente riconducibili ad una unica spiegazione.

La versione più semplice del teorema di Heckscher-Ohlin afferma che esistonosolo due fattori della produzione, il lavoro e il capitale. La causa di fondo del vantag-gio comparato è data dalla dotazione iniziale di lavoro e capitale di ogni regione.Secondo questo ragionamento, una regione dotata della risorsa lavoro si specializzeràin prodotti labour intensive (ad esempio nel settore tessile) o viceversa, se dotata di capi-tale si specializzerà in attività capital intensive (ad esempio nella produzione dell’acciaio).

I fattori dello sviluppo regionale

23 Ancora oggi questa teo-ria desta un forte interes-se ed è una delle più im-portanti dell’economiainternazionale. Essa dauna visione complessa earticolata del commerciointernazionale che con-trasta con i modelli mate-matici più rigorosi e sem-plificati che la seguirono.

24 Secondo il modello ricar-diano dei vantaggi com-parati (David Ricardo(1817), Sui principi dell’e-conomia politica e dellatassazione) il lavoro è ilsolo fattore di produzio-ne e il vantaggio compa-rato si può determinaresolo per effetto di diffe-renze internazionali nellaproduttività del lavoro.Queste ultime, pur im-portanti nello spiegare lecause del commercio in-ternazionale, non sonoesaustive in quanto, que-st’ultimo, è anche deter-minato da differenze nel-la dotazione di risorse diogni paese.

L’ipotesi che esistono solo due fattori della produzione, oltre a non rispondere allarealtà, non corrisponde al lavoro iniziale di Heckscher-Ohlin, in quanto l’importanzadelle risorse naturali per il processo produttivo è evidente. Inoltre, noi aggiungiamoanche il fattore ”territorio” inteso non solo come elemento fisico ma come l’insiemedi attività, relazioni, come ambiente economico favorevole all’attività economica diuna determinata regione. Esso influenza fortemente lo sviluppo di specializzazioni pro-duttive di una determinata area.

Una ulteriore ipotesi del teorema di Heckscher-Ohlin che deve essere abbandonataè quella relativa ai rendimenti costanti. A livello regionale tale ipotesi è estremamenteirrealistica. Pur se non vi sono economie interne di impianto, da tempo si è riconosciu-ta l’esistenza di economie esterne e di agglomerazione che influenzano l’attività produt-tiva in alcune aree e ne favoriscono la localizzazione (ad esempio aree densamente popo-late o a forte presenza di localizzazioni industriali).

Un’altra importante ipotesi posta dal teorema di Heckscher-Ohlin riguarda l’assen-za di mobilità fattoriale tra le varie regioni.

Se l’aggiunta delle risorse naturali ai fattori capitale e lavoro ha migliorato ilmodello di base ed è comunque stata abbastanza agevole, abbandonare l’ipotesi diassenza di mobilità fattoriale in modo da rendere il modello più realistico non è altret-tanto facile.

Il fattore fondamentale che nel teorema determina il vantaggio comparato è l’ab-bondanza locale di lavoro o di capitale. Se questi ultimi possono essere alimentati daun afflusso dei fattori o ridotti da un loro deflusso, il risultato è che la teoria non puòpiù prevedere quali sono i prodotti per i quali una regione mantiene un vantaggiocomparato.

Quindi, se i fattori possono circolare liberamente la teoria di Heckscher-Ohlin vienea cadere25. E proprio questa potrebbe essere la ragione per cui tale teoria non è riuscitaa prevedere la specializzazione commerciale all’interno del Regno Unito (Smith,1975)oppure le specializzazioni produttive dei distretti italiani, dove la distanza tra una area el’altra è relativamente piccola - se paragonata, ad esempio, con la situazione degli Usa.

In conclusione, il semplice teorema a due fattori di Heckscher-Ohlin sostiene che ilnocciolo della specializzazione regionale consiste nell’abbondanza locale di fattori. Ledettagliate verifiche empiriche condotte su questa teoria indicano che il teorema diHeckscher-Ohlin non fornisce, di per sé, una spiegazione adeguata. In considerazione diciò, gli studiosi si sono rivolti allo sviluppo di spiegazioni alternative più radicali cheesporremo in sintesi nel paragrafo successivo.

25 Il commercio regionale elo spostamento dei fatto-ri sono collegati tra loroanche per quanto preve-de il teorema del pareg-giamento dei prezzi deifattori. A tal proposito siveda il par.2.1.1.

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2.3.1 Verso il superamento del teorema di Heckscher-Ohlin

Alcune versioni più complesse e articolate del teorema di Heckscher-Ohlin, soprat-tutto quelle che tengono conto delle risorse naturali e del capitale umano come fattoriaddizionali, possono sicuramente spiegare meglio il contesto economico nel quale ven-gono a formarsi le specializzazioni produttive delle regioni.

Tali versioni, in ogni modo, non sono da sole sufficienti, in quanto una visione piùcompleta delle dinamiche e le cause che caratterizzano il commercio interregionalerichiede uno sforzo aggiuntivo che non sia il semplice abbandono di alcune delle ipote-si meno realistiche del teorema di Heckscher-Ohlin.

In questa sede esamineremo brevemente cinque tesi alternative.Le prime due, ossia la teoria del divario tecnologico di Posner (1961) e la teoria del ciclo

del prodotto di Vernon (1966), sono molto simili, in quanto entrambe evidenziano l’impor-tanza del ruolo svolto dall’innovazione e dal progresso tecnico.

Le spiegazioni che traggono origine dalla teoria della localizzazione industriale (terzateoria di Hay 1979; Harrigan 1982), poi, sono molto diverse dal teorema di Heckscher-Ohlin. Inoltre, esiste la possibilità che il commercio interregionale abbia le stesse pecu-liarità degli scambi “infrasettoriali” che caratterizzano il commercio internazionale (quar-ta teoria di Grubel e Lloyd 1973).

Iniziamo con la teoria del divario tecnologico. Essa sostiene che “una regione in grado didar vita ad un ampio flusso di nuovi prodotti ed innovazioni ne trarrà un vantaggio perla produzione dei prodotti stessi”.

Vantaggio che non potrà essere permanente, anche se è possibile che ci sarà un ritar-do temporale prima che le altre regioni possano produrre il medesimo prodotto.

Nello stesso filone di pensiero della teoria del divario tecnologico si può collocare lateoria del ciclo del prodotto di Vernon. Comunque simile, ma non identica.Tale teoria sostie-ne che alcune regioni possono costituire, ad un certo stadio del ciclo di vita di un pro-dotto, la localizzazione migliore per la sua produzione, mentre in stadi successivi altreregioni potrebbero risultare preferibili.

A tal proposito sono stati identificati tre stadi. Nel primo stadio, quello innovativo, èla regione che è più capace di fornire i necessari input di ricerca e sviluppo ad alto livel-lo e di manodopera altamente specializzata che monopolizzerà la produzione;

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Nel secondo stadio, il prodotto diviene più standardizzato, e si cominciano ad intro-durre le tecniche di produzione di massa;

Nell’ultimo stadio, quello di maturazione, le regioni dove i salari sono più bassi e conabbondanza di manodopera semispecializzata, risultano avvantaggiate per la produzionedi massa del prodotto ormai altamente standardizzato.

Un terzo filone per la spiegazione della specializzazione del commercio regionale sibasa sull’analisi della localizzazione industriale. Un’analisi particolarmente interessante, datoche pone in evidenza alcune variabili, trascurate dal teorema di Heckscher-Ohlin, cheinfluenzano la specializzazione produttiva regionale.

La teoria tradizionale della localizzazione, ad esempio, sostiene che l’insediamentodelle attività industriali avverrà nei luoghi dove i costi di produzione sono minori (costidi trasporto, non presi in considerazione dal teorema di Heckscher-Ohlin, e della mano-dopera).

I costi di localizzazione, inoltre, sono fortemente condizionati dalle economie ester-ne di scala e di agglomerazione. Anche in questo caso aspetti trascurati dal teorema diHeckscher-Ohlin, nonostante la loro potenziale importanza per la spiegazione della spe-cializzazione regionale.

Un quarto approccio è determinato dal fenomeno del commercio infrasettoriale che haattirato negli ultimi anni molta attenzione.

Le teorie del commercio internazionale finora esaminate, supponevano che ogniregione si concentrasse sui propri prodotti caratteristici, che esportavano in cambio diprodotti diversi. Cosa vera ma incompleta, in quanto, tra le regioni, riveste una notevoleimportanza anche il commercio infrasettoriale.

Ultimo, ma non meno importante, è il commercio di beni intermedi. Spesso trascuratodalla ricerca a livello regionale. Le teorie della localizzazione partono dal principio chele economie regionali si specializzino in prodotti, e quindi, in tutti gli stadi della loro pro-duzione. Ciò rappresenta una parte della realtà se consideriamo che anche la specializza-zione per stadi di produzione è molto diffusa.

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2.4 L’approccio input-output nei modelli di economia regionale26

La predisposizione di una particolareggiata analisi dei legami input-output (tra setto-ri produttivi) esistenti all’interno di una regione rappresenta uno strumento alternativoalla costruzione di modelli di economie regionali.

L’approccio input-output è stato sviluppato da Leontief negli anni ‘30, con notevolesuccesso applicativo, inclusa l’analisi dell’impatto regionale.

La rete di legami “input-output” presenti in una economia (regionale/nazionale) puòessere formalizzata e costituire una chiara fotografia mediante la costruzione di unaTavola delle transazioni (o matrice dei flussi). In essa si registrano le connessioni tra i varisettori produttivi e quindi, tutti i flussi produttivi che si verificano all’interno dell’eco-nomia regionale durante un determinato periodo (generalmente un anno).

La costruzione di una tavola input-output per l’economia regionale non si limita adavere come obiettivo, pur importante, la descrizione dei flussi input-output, in quanto,dopo aver quantificato le relazioni settoriali, è possibile valutare l’effetto sull’intero siste-ma di qualsiasi variazione si verifichi nella domanda finale.

La tecnologia produttiva è a “coefficienti tecnici fissi” (a volte nota come tecnologiadi Leontief). Ciò significa che l’industria J, per poter raddoppiare la sua produzione (out-put), dovrebbe raddoppiare i fattori della produzione impiegati (input).

La relazione tra output e input rimane costante nel tempo per il quale ogni previ-sione viene formulata:

flusso di output dal settore i al settore j, intendendo i come riga e j come colonna;

Dall’equazione si evince che il flusso di output dal settore i al settore j costituisce unaproporzione fissa del prodotto lordo del settore j. Se il prodotto lordo del settore jaumenta di 1 unità, vi è allora bisogno di aij input extra dal settore i. Il coefficiente aij siottiene dalla tavola delle transazioni semplicemente dividendo xij per xj. 26 A tal proposito: Leontief,

W. (1953); Leontief, W.(1956).

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2.5 La teoria Weberiana della localizzazione

Il principale obiettivo della teoria di Weber (1909) della localizzazione è il supera-mento dell’ipotesi di territorio omogeneo (come visto nel Cap 1 essa è presente neimodelli macroeconomici regionali, sia di tipo neoclassico che Keynesiano) e introduce ilconcetto di regione nodale. La conseguenza di tale approccio è quello di considerare ilterritorio come eterogeneo all’interno di un contesto regionale più vasto.

La teoria weberiana inserisce nell’analisi della localizzazione l’importante ruolo svol-to dall’agglomerazione (diffusione sul territorio delle attività produttive) e della distanzamisurata sulla base degli spostamenti, considerando la collocazione delle imprese in rela-zione ai costi di trasporto e del peso di localizzazione. Il calcolo del costo di trasportoviene introdotto attraverso la stima delle isopadane.

Per isopadana si intende una curva che esprime uguali costi di trasporto. Supponendoche il trasporto sia possibile in tutte le direzioni, si otterranno curve di costi di trasportoconcentriche.

Il centro della curva rappresenterà il luogo dove il costo di trasporto è minimo.L’isopadana sarà definita “critica” se identifica il luogo geometrico delle curve a minorcosti di trasporto.

Ciò significa che non è possibile individuare un punto avente un costo di trasportominimo al di fuori di quella isopadana, in quanto, in caso contrario, l’impresa preferiràun’altra localizzazione.

I costi dello spostamento sono pari al prodotto tra peso di localizzazione (del totaledelle merci), distanza dello spostamento e costo unitario di trasporto.

Ci sarà convenienza alla delocalizzazione se:

A > Ldt

dove:

A= vantaggio in termini di economia di agglomerazione;L d e t = peso di localizzazione, distanza dello spostamento e costo unitario di tra-sporto.

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Giuseppe Capuano

2.5.1 La teoria delle zone centrali

La teoria della localizzazione trascurava, evidentemente, il ruolo dei servizi in unaeconomia moderna. La teoria delle zone centrali, in considerazione della crescenteimportanza del settore dei servizi nella formazione del PIL e, più in generale, della vitaeconomica, arricchisce il dibattito teorico cercando di colmare una lacuna. Infatti, puresaminando il problema della localizzazione delle attività economiche, la teoria ponevaal centro della riflessione la localizzazione delle attività terziarie con una considerazionedel mercato più marcata di quanto rilevasse la teoria weberiana.

La definizione di località centrali si riferisce al luogo dove si forniscono una vastagamma di beni e servizi alla popolazione del suo entroterra (regione complementare),che esprime quella domanda.

Gli elementi chiave della teoria sono la soglia della domanda (livello minimo per quan-tificare l’offerta di un servizio) e la sua entità (ambito territoriale entro il quale il servizioviene offerto). Partendo da questi due elementi è possibile definire l’area che caratteriz-za la zona d’influenza di un’impresa rappresentata da una forma esagonale. Quest’ultimaè la figura geometrica più indicata per delimitare il mercato di riferimento, in quantoconsente la massima agglomerazione delle aree, in coerenza con l’esigenza di minimizza-re i costi di trasporto.

Inoltre, partendo dalla considerazione che non tutti i servizi sono uguali e nonrispondono alla medesima domanda, si introduce il concetto di “rango dei servizi offer-ti” (ad esempio i servizi di rango superiore o rari). Si definisce, quindi, una “gerarchia deicentri” in cui sono offerti questi beni e servizi.

Seguendo l’approccio di W. Christaller (1933) la ripartizione gerarchica delle località sirealizza in modo che una zona che offre beni e servizi di livello gerarchico superiore, for-nisce anche tutti quelli dei livelli gerarchici inferiori.

I punti centrali della teoria sono sostanzialmente due:

❏ esiste una relazione stabile tra la popolazione di una zona centrale e quella dell’a-rea di mercato che la zona centrale serve;

❏ l’ampiezza del centro, quanto quella della popolazione da esso servita, aumenteràal crescere del livello gerarchico, in coerenza con l’aumento delle funzioni delcentro all’aumentare del livello gerarchico del centro stesso.

Tali aspetti rappresentano un punto di debolezza della teoria, dandogli scarsa flessibilità.

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In risposta ai limiti dell’approccio di Christaller e la fine di introdurre una maggio-re flessibilità nel modello delle località centrali,A. Lösch (1954) ha sviluppato la teoria dellelocalità centrali.

Egli sostiene che il rapporto tra i ranghi delle diverse località non è fisso e definito,ma esiste la possibilità di sviluppo di centri e di aree con dimensioni molto diverse aseconda dell’offerta di beni e servizi. Nel modello viene meno anche il principio che icentri di ordine superiore forniscono tutti i servizi di rango inferiore con la possibilità dispecializzazioni di centri con diverso ordine gerarchico. Emerge la possibilità di identifi-care un sistema di centri urbani specializzati.

L’impostazione dei due modelli, comunque, ha un importante limite: essi considera-no la ripartizione della popolazione in modo omogeneo sul territorio, senza rilevare nes-suna differenza. Ciò, ovviamente, non si verifica nella realtà, e poiché dalla numerositàdella popolazione dipende l’ampiezza del mercato (quindi la dimensione degli esagoni)occorre un correttivo che successivamente sarà introdotto da Isard (1956).

Egli introduce il concetto di differenziazione della dimensione degli esagoni in ragio-ne della diversa distribuzione spaziale della popolazione e dei mercati di riferimento. Inquesto modo il modello delle località centrali può meglio comprendere le dinamichedello sviluppo urbano.

In tutti i modelli esposti brevemente in precedenza non si assegna al mercato unruolo determinante, se non marginalmente come nella teoria delle località centrali.

Il modello centro-periferia di Krugman (1995), al contrario, cerca di colmare questalacuna. Infatti, pur considerando l’importanza dei vantaggi localizzativi, il modello, par-tendo proprio dalle caratteristiche del mercato, spiega la localizzazione delle imprese inun determinato territorio come un problema che favorisce un percorso cumulativo didiversificazione dello sviluppo regionale27.

Il modello centro-periferia, infatti, spiega la concentrazione o i deflussi di attività eco-nomiche e, più in generale, dei fattori produttivi, da e verso alcune aree geograficheconiugando alcuni aspetti localizzativi con quelli dello sviluppo delle attività produttive.

Krugman, inoltre, arricchendo l’impianto teorico, inserisce alcuni elementi trascura-ti dalle tradizionali teorie della localizzazione:

❏ non c’è un unico percorso di localizzazione;❏ la funzione di equilibrio è legata al ruolo svolto da particolari circostanze stori-

che.

27 A questo proposito il ri-chiamo al circuito dellacausazione circolare cu-mulativa è evidente.

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Giuseppe Capuano

Secondo questo Autore la localizzazione geografica di attività produttive è favorita datre fattori principali: la presenza di economie di scala elevate; costi di trasporto bassi; edinfine, un quota elevata della produzione non fissa sul territorio come nel caso dell’in-dustria manifatturiera. La presenza di queste tre condizione favorisce il formarsi di uncircolo virtuoso che si autoalimenterà e che porterà ad una maggiore concentrazionedelle attività produttive in luoghi dove la domanda è più elevata che a sua volta si autoa-limenterà grazie alla stessa maggiore concentrazione di imprese.

Il modello, comunque, non spiega le cause dell’inizio di un simile processo, chepotrebbe essere attribuito ad un caso della storia o alle aspettative che un simile feno-meno genera.

La teoria introduce, da un punto di vista formale una doppia modellistica, la prpr imaimamacrmacroo (come una struttura del tipo nucleo-periferia possa emergere su scala nazionale),la seconda micrseconda microo (sono considerati gli aspetti di localizzazione delle attività economi-che) e prevede la possibilità di path-dependence28 con possibili percorsi di crescita diver-genti tra loro.

Qualche riflessione aggiuntiva merita un simile approccio, soprattutto a seguito delletrasformazioni in atto dovute alla globalizzazione. Castells (1996) sostiene che l’econo-mia globale non è simmetrica ma si muove per linee asimmetriche, superando una chia-ve di lettura centro-periferia dei fenomeni economici.

Una geografia economica che supera, anche in Italia, il concetto Nord-Sud, se è veroche, come nelle regioni settentrionali esistono fenomeni di declino industriale ovvero diriconversione produttiva, in alcune realtà del nostro Mezzogiorno, si individuano luoghidi eccellenza o sistemi produttivi locali estremamente interessanti dal punto di vista dellivello di sviluppo raggiunto.

Quindi, anche la realtà italiana si presenta territorialmente policentrica e diffusa, concaratteristiche da economia matura. Da qui, la conclusione che ragionare in terminiesclusivamente dicotomici (sviluppato-sottosviluppato; centro-periferia; aree costiere-aree interne, etc.) per spiegare le traiettorie dello sviluppo, può essere oggi limitativo epoco calzante rispetto alle reali caratteristiche di molte economie regionali.

28 Per path-dependence siintende la condizione da-ta dal confronto tra alter-native diverse, quando lascelta dipende dall’ordi-ne in cui le alternative so-no state considerate.

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3I processidi convergenzae divergenzatra le provinceitaliane:il modello dellaconvergenzanon lineare

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a teoria marginalista ipotizza che le forze del mercato si trovino tendenzial-mente in equilibrio, in una situazione di concorrenza perfetta in cui non esi-

stono asimmetrie informative (l’informazione sui mercati è ampiamente diffusa tra i sog-getti economici), e in un contesto di assoluta mobilità e sostituibilità dei fattori della pro-duzione (capitale e lavoro).

Inoltre, la funzione di produzione è caratterizzata da rendimenti di scala costanti, ren-dimenti marginali decrescenti del capitale e del lavoro, con un tasso costante e predeter-minato di crescita della produttività, e da un progresso tecnico “free good” esogenamen-te dato29.

Ciò porta alla conclusione, se tale ipotesi è verificata, che Paesi o regioni con ugua-li tecnologie e con la medesima propensione al risparmio creino dei meccanismi “auto-matici” di convergenza (misurati attraverso i valori del PIL pro capite) tra le regioni piùforti e quelle più deboli, con una crescita dello stock di capitale e del reddito pro capitemaggiore nelle seconde. Le diverse performance regionali sono determinate dal fatto chele regioni meno sviluppate, caratterizzate da un più basso stock iniziale, pur registrandorendimenti decrescenti del capitale sperimentino una discesa meno rapida. In altri ter-mini, esisterebbe una relazione inversa tra variazioni del tasso di crescita e livello iniziale

L 3.1 Il dibattito teorico

3.1.1 La critica all’approccio marginalista

29 Negli anni ottanta, al finedi superare i limiti dell’ap-proccio neoclassico, na-sce la “teoria della crescitaendogena”. Essa affrontail problema della non-con-vergenza, sostituendo l’i-potesi di progresso tecni-co come free good conquella di progresso tecni-co endogeno e allarga ilconcetto di capitale (fatto-re riproducibile), al fine dieliminare ogni fattore adesso complementare e, diconseguenza, anche lecause della sua produtti-vità marginale decrescen-te. Per un approfondi-mento sul tema: Solow M.R., op.cit.; Musu e Cazza-villan (1997); Boggio,L.,Seravalli, G., op.cit.

del reddito pro capite, nota in letteratura come convergenza beta assoluta30, che, partendodall’equazione di convergenza marginalista o neoclassica fornita dal modello di Solow(1956) e Swan (1956), potremmo esprimere come segue:

dove il termine di sinistra rappresenta il tasso di crescita del reddito pro capite in undeterminato periodo di riferimento (0,t), il coefficiente b è il tasso di convergenza versouno stato di equilibrio (steady state) e (y/l)o rappresenta il livello di reddito pro capite dipartenza, dove y sintetizza il reddito e l la popolazione residente.

Una variante a questo approccio è rappresentata dal contributo di J. G.Williamson(1973) che, a differenza dei teorici neoclassici che consideravano nei loro modelli solo ifattori capitale e lavoro, esamina anche la capacità che una elevata domanda e un altolivello dei consumi di una regione hanno di attrarre investimenti, rispetto a realtà localicon un livello di domanda inferiore.

Egli sostiene, secondo una visione storicistica dell’economia, che esiste una significa-tiva relazione tra squilibri regionali e livello di sviluppo di un Paese, dove, in una fase ini-ziale della crescita, la presenza di squilibri è minore. Nelle fasi successive di raggiungi-mento del proprio “take off” e di maturità, gli squilibri andranno progressivamente adaumentare, per poi ridursi e quindi scomparire del tutto, seguendo un andamento “cam-panulare” della crescita. In pratica si considera lo sviluppo come un processo a tappe, nelquale, a differenza dell’approccio “neoclassico puro”, pur arrivando alle stesse conclusio-ni, si sottolinea l’esistenza di squilibri regionali transitori che spariranno grazie ad un pro-gressivo adeguamento strutturale di medio-lungo periodo.

Entrambi gli approcci semplificano le fasi dello sviluppo e rappresentano, in manieraschematica, l’economia reale che è invece molto più complessa e meno “equilibrata”.Alcontrario, l’evidenza empirica smentisce la continuità nel tempo della riduzione deglisquilibri regionali. La teoria marginalista della convergenza assoluta, basandosi su unapproccio parametrico (convergenza Beta e Sigma), può essere accettata solo in partico-lari casi, nei quali il livello di sviluppo di partenza è eccezionalmente basso, costituendoun caso particolare di un principio più generale.

Ciò si verifica principalmente perché non sempre le fasi di sviluppo sperimentate daun paese o da una regione sono necessariamente identiche e caratterizzate dalla medesi-

30 Oltre al concetto di con-vergenza beta, in lettera-tura è presente anche ilconcetto di convergenzasigma, che indica una ri-duzione nel tempo dellavariabilità del prodottopro capite.

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ma intensità e durata; inoltre, i differenziali di crescita non sono temporanei e spesso ven-gono amplificati dalla presenza di imperfezioni dei mercati dalla presenza/assenza di eco-nomie esterne e/o economie di agglomerazione e dai rendimenti crescenti/decrescentidelle attività produttive31.

La conclusione, alquanto semplicistica rispetto alla reale dinamica dei fenomeni eco-nomici, alla quale perviene l’approccio neoclassico, è che i differenziali regionali di svi-luppo sono meramente temporanei, destinati nel lungo periodo (processo di convergen-za) ad essere assorbiti grazie ai meccanismi sprigionati dalle libere forze del mercato.Inoltre, tale approccio presuppone un’altra condizione, pur in forma latente e poco dibat-tuta: i percorsi di sviluppo locale, pur partendo da condizioni iniziali diverse, tendono adassumere le stesse caratteristiche, secondo le traiettorie di crescita settoriali indicate dalla“teoria dei tre settori” di Colin Clark (1951).

Anche in questo caso, i differenti livelli di sviluppo conosciuti negli ultimi decennidai sottosistemi regionali (ad esempio le province) che qualificano qualsiasi sistema eco-nomico «maturo» rendono obsoleta una simile visione dello sviluppo locale, e la prova èrappresentata dal fatto che le economie provinciali non si comportano uniformementerispetto agli input di politica economica (comunitaria, nazionale e regionale) e non rea-giscono con la stessa intensità e cadenza temporale agli impulsi provenienti dal “centro”.

Nella realtà, l’influenza dei diversi livelli di sviluppo, le peculiarità produttive locali ele caratteristiche geografiche del territorio, insieme ad altri fattori endogeni ed esogenial sistema subregionale, condizionano fortemente i comportamenti degli operatori eco-nomici e, quindi, l’andamento dell’economia locale, vanificando gli effetti dell’utilizzo distrumenti di politica regionale troppo spesso standardizzati e non adeguatamente cali-brati.

L’evidenza empirica tratta da una nostra elaborazione con la “clusterizzazione” delcontributo dei principali settori economici (agricoltura, manifatturiero, turismo e servi-zi) alla formazione del PIL delle 103 province italiane dimostra come si sia in presenzadi 412 valori32 diversi (Tab. 2) relativi ad un solo anno di riferimento (1999).

Questo risultato non è ovviamente esaustivo, ma rappresenta sicuramente una proxydi come ogni realtà locale conosca una diversa traiettoria del proprio sviluppo e take-offdifferenziati nel tempo.

I fattori dello sviluppo regionale

31 Le relazioni empirichepresentate, note anchecome “leggi di Kaldor”,potremmo riassumerlecome segue: forte corre-lazione positiva tra tassodi crescita del reddito etasso di crescita dellaproduzione manifatturie-ra; tra crescita della pro-duttività e crescita dellaproduzione all’internodel settore manifatturie-ro; effetto indotto dallacrescita della produzionemanifatturiera sul trasfe-rimento intersettorialedell’occupazione. Cita-zione ripresa da: N.Kal-dor, Causes of the SlowRate of EconomicGrowth in the UnitedKingdom, CambridgeU.P., Cambridge, 1966.

32 Il dato è il risultato delprodotto dei quattro in-dicatori per le 103 provin-ce italiane.

3.1.2 Le recenti evoluzioni del dibattito

La più recente letteratura in materia, criticando l’approccio parametrico (neoclassi-co), ha tentato di spostare l’attenzione da questi concetti, essendo misure medie e sinte-tiche allo studio analitico in termini dinamici di tutta la distribuzione per classi di reddi-to di un’economia secondo un approccio non parametrico (Quah, 1993). La critica partedall’assunto che utilizzando l’equazione della crescita, che comprende tra i regressori illivello del PIL pro capite iniziale con coefficiente Beta, se si perviene ad un risultato disegno negativo (e significativo del coefficiente), lo stesso viene interpretato come con-vergenza condizionata “tout court”, ma non si raggiunge l’obiettivo in quanto non siidentificano i Paesi che divergono da quelli che convergono33.

Pos Prov. Valore

Agricoltura Industria Servizi Turismo

Pos Prov. Valore Pos Prov. Valore Pos Prov. Valore

1 Ragusa 17,872 Oristano 14,193 Foggia 12,714 Siracusa 12,295 Matera 9,796 Viterbo 9,557 Cremona 9,398 Caserta 9,279 Enna 9,2610 Agrigento 8,75

1 Lecco 40,92 Vicenza 39,03 Biella 38,24 Reggio E. 38,25 Bergamo 37,76 Modena 37,57 Treviso 36,98 Varese 35,49 Novara 34,810 Belluno 34,5

1 Roma 84,52 Trieste 83,93 Palermo 83,04 Genova 81,45 Messina 81,36 Catania 80,37 Reggio C. 80,18 Napoli 80,19 Agrigento 78,910 Aosta 78,5

1 Bolzano 15,52 Rimini 10,83 Savona 83,04 Genova 10,05 Imperia 8,66 Belluno 8,17 Siena 7,78 Grosseto 7,49 Livorno 7,410 Trento 7,1

94 Torino 0,9495 Firenze 0,8496 Roma 0,6897 Como 0,6498 Lecco 0,5499 Trieste 0,50100 Varese 0,42101 Milano 0,39102 Genova 0,31103 Prato 0,13

94 Cosenza 9,995 Vibo Valentia 9,296 Ragusa 9,097 Trapani 9,098 Messina 8,999 Enna 8,6100 Oristano 8,4101 Agrigento 7,7102 Reggio C. 7,3103 Imperia 6,5

94 Cuneo 57,195 Cremona 56,496 Novara 56,197 Bergamo 55,198 Modena 55,199 Treviso 54,6100 Mantova 54,4101 Lecco 54,2102 Reggio E. 52,9103 Vicenza 52,8

94 Bari 2,295 Ragusa 2,296 Siracusa 2,197 Avellino 2,098 Torino 2,099 Taranto 2,0100 Milano 1,9101 Vercelli 1,7102 Prato 1,5103 Biella 1,3

Fonte: Unioncamere - Istituto G.Tagliacarne

Tab. 2 - Peso percentuale del valore aggiunto dei settori sul totale - 1999 (prime e ultime dieci province)

33 Tra gli altri, Bernard eDurlauf (1995) hanno mo-strato come lo stimatoreBeta nelle regressionicross-country non rag-giunga l’obiettivo perchénon permette di identifi-care l’intensità e la dire-zione dei movimenti deidiversi Paesi/Regioni.

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Giuseppe Capuano

Inoltre, lo stesso Quah sostiene che le regressioni basate sul tasso di crescita medio diciascun Paese sarebbero accettabili solo nel caso in cui essi evidenziassero, nel corso deglianni, un tasso di crescita del PIL stabile. Ciò che, invece, nella realtà non avviene.

Partendo da queste critiche, altri autori (Boggio, Serravalli, op.cit.) sostengono cheper accertare la convergenza si può utilizzare il concetto di Sigma-convergenza, che basal’approccio sulla varianza dei livelli del PIL pro capite tra Paesi/regioni. Anche questoapproccio, in ogni modo, presenta dei limiti di tipo statistico e l’alternativa è di spostarel’attenzione non più sull’utilizzo di misure medie, o comunque di sintesi (come perse-guito dall’approccio di tipo parametrico) quanto sullo studio dell’evoluzione dinamicadella distribuzione per classi di reddito (approccio non parametrico), o più semplice-mente, come nel nostro caso, valutare le variazioni del PIL pro capite a livello provincia-le in un periodo relativamente ampio (sette anni), studiandone i processi di convergen-za/divergenza rispetto ad un valore medio nazionale, attraverso il calcolo della varianzae dello scarto quadratico medio.

3.1.3 La “convergenza non lineare” (CNL)

In questo quadro teorico si è svolta la nostra analisi, che, applicando un approccionon parametrico alle dinamiche del PIL pro capite delle province italiane, è giunta allaseguente conclusione: le economie locali in Italia e soprattutto nelle province, hannoconosciuto una CNL dove i percorsi di sviluppo non tendono ad un automatico annul-lamento degli squilibri nel lungo periodo ma perseguono un percorso di tipo “sinusoi-dale” che porta solo in alcuni casi ad un annullamento/riduzione degli squilibri inizialied interessano, nel lungo periodo, realtà territoriali diverse. Si tratta di una altalenanteriduzione-aumento-riduzione dei divari regionali. Secondo il nostro approccio, la lettu-ra degli avvenimenti di lungo periodo non può essere fatta in modo dicotomico in ter-mini di convergenza o divergenza. La realtà economica, infatti, non si presenta in formecosì nette e lineari.34

Ciò è dovuto ad una velocità non costante della crescita (come d’altronde già veri-ficato da Quah in un lavoro del 1993 (op.cit.) in relazione a 118 Paesi) che può assume-re, in alcuni casi e in determinati periodi, anche valori negativi, aumentando il gap coni valori medi di riferimento e modificando la geografia degli squilibri regionali. Questopunto differenzia la nostra tesi dalla “scuola delle divergenze” ed in particolare dalla “teo-ria della causazione circolare cumulativa” (Myrdal, 1957; Hirschman, 1958).

34 Su questo aspetto teori-co si veda: G. Capuano,L’osservatorio economi-co: strumento quanti-qualitativo per la lettura el’analisi delle dinamicheeconomiche e dei pro-cessi di convergenza/di-vergenza, Memoria di Li-cenza presentata alla Fa-coltà di Scienze Econo-miche, Università dellaSvizzera Italiana, Lugano,2000 - ripreso anche in:IRE, Monitor strutturale:10 anni di crescita econo-mica tra divari e conver-genze interregionali, Lu-gano, 2002 - nel quale sidimostra che, anche dalconfronto tra le dinami-che del PIL del Canton Ti-cino e di alcune provincedella Lombardia, che in-sieme formano l’area tici-nese, oltre al fatto che l’i-potesi neoclassica dellaconvergenza assoluta oper tappe progressivenon è verificata, siamo difronte a percorsi chesembrerebbero seguirel’ipotesi della “conver-genza non lineare”; G.Capuano (2001), “I pro-cessi di convergenza e ipercorsi di sviluppo loca-le”, in Del Colle E. (a curadi), Lo Stato di salute deicomuni. Una ricerca sullecondizioni economiche,sociali e demografichedei comuni italiani, Fran-co Angeli, Roma.

I fattori dello sviluppo regionale

Secondo questa teoria, lo sviluppo regionale tende, comunque, ad innescare dei pro-cessi di divergenza più che di convergenza, in quanto i differenziali di reddito tendonoad accentrarsi anziché restringersi. Ciò è provocato dal fatto che gli effetti di diffusione(positivi) presenti nelle aree meno sviluppate risultano inferiori agli effetti di riflusso(negativi), alimentando quindi e consolidando gli squilibri esistenti.

La conclusione è che dovremmo assistere a processi di divergenza tra regioni stori-camente sviluppate e non sviluppate, a tutto favore delle prime. Al contrario, a nostroavviso, non è possibile dare una lettura degli avvenimenti di lungo periodo in manieradicotomica (convergenza/divergenza), seguendo un approccio deterministico (i casi dellastoria hanno determinato il livello di sviluppo di una regione o i differenziali di crescitatra di esse). La realtà economica non si presenta in forme così nette e lineari e i percor-si di sviluppo di medio-lungo periodo possono capovolgere i rapporti di forza tra regio-ni con livelli di sviluppo di partenza differenziati.

3.2 La verifica sul “campo” della “convergenza non lineare” (CNL)35

3.2.1 I limiti dell’utilizzo del PIL pro capite come misura del livello di sviluppo

Le basi teoriche della nostra tesi si fondano su di una articolata verifica empirica chesi è avvalsa dell’utilizzo delle variazioni annuali del PIL pro capite a livello provinciale (ilimiti presentati dall’indicatore sono notori in letteratura). Per ridurre al massimo l’erro-re, prima di iniziare le elaborazioni, si è proceduto a delle semplici quanto importantiverifiche, come descritto successivamente.

Il PIL pro capite come indicatore statistico è notoriamente definito come unamisura in valore dei beni e servizi finali prodotti in un determinato paese ed è utiliz-zato come indicatore di sintesi del livello di sviluppo raggiunto da un certo ambito ter-ritoriale (ad esempio una regione, provincia o comune36). L’utilizzo dell’indicatore, inparticolare ai fini dell’analisi della crescita di realtà territoriali (ad esempio le province,NUTS III) pone una serie di problemi e limiti evidenziati da tempo dalla letteraturaeconomica internazionale. Esso esclude dal calcolo i servizi non retribuiti (ad esempioil lavoro delle casalinghe, il volontariato), non tiene conto delle dinamiche demografi-

35 I dati utilizzati nel para-grafo sono relativi alla se-rie storiche del valore ag-giunto provinciale dell’I-stituto G. Tagliacarne, cal-colato a prezzi base (com-prese le imposte indirettealla produzione e i contri-buti correnti sui prodottied escluse le imposte indi-rette sui prodotti ed i con-tributi correnti sulla pro-duzione) e a prezzi corren-ti secondo quanto defini-to dal Sec 95. In preceden-za il v.a. era calcolato al“costo dei fattori”.

36 I più recenti dati disponi-bili del reddito pro-capi-te comunale in Italia risal-gono al 1987, con unapubblicazione del Bancodi Santo Spirito. L’IstitutoTagliacarne da alcuni an-ni ha iniziato una speri-mentazione che dovreb-be portare ad un aggior-namento di questi dati.

64

Giuseppe Capuano

che (ad esempio il più elevato tasso di natalità al Sud e il tasso di invecchiamento dellapopolazione più alto al Nord), mentre non viene decurtato dei danni che il processoproduttivo apporta all’ambiente.

Limiti che possono presentare degli inconvenienti, con fenomeni di distorsione deidati e, quindi, inficiare le conclusioni di carattere economico37. In ogni caso, come d’al-tronde conferma anche la Commissione europea, al momento non esistono misure alter-native, altrettanto valide, del livello di sviluppo.

La Commissione ritiene che il PIL pro capite in termini di SPA (standard di poteredi acquisto) sia l’indicatore chiave per valutare i livelli di sviluppo economico delle regio-ni e le loro disparità di andamento.

Il suo ruolo è sancito dai regolamenti dei Fondi strutturali e dall’art.87 (3)a delTrattato sulla politica delle concorrenza e viene utilizzato anche da numerose istituzioniinternazionali (tra cui Banca Mondiale, FMI,OCSE, etc.). Esso può evidenziare un muta-mento nel rapporto tra un’economia ed un’altra non solo a causa di una differenza neltasso di crescita del PIL in termini reali (la cosiddetta “convergenza reale”), ma anche pereffetto di un cambiamento nel livello dei prezzi relativi. Questo aspetto distorce l’analisidelle variazioni del PIL pro capite nel tempo, in quanto un suo aumento relativo, deter-minato da una riduzione nel livello relativo dei prezzi, potrebbe avere implicazioni leg-germente differenti rispetto ad un aumento determinato da una crescita relativa del PILreale. L’indicatore alternativo più semplice consiste nella misurazione del PIL pro capitein Euro anziché in SPA. In questo modo si evidenzia il valore di mercato della produ-zione in ciascuna regione, anziché i livelli di reddito reale. Tale indicatore, comunque,accresce l’entità delle differenze a livello regionale, dato che i livelli dei prezzi sono posi-tivamente correlati con la ricchezza di una regione: un basso livello del PIL pro capitepresente nelle regioni economicamente sfavorite, tende ad essere parzialmente compen-sato da un minore costo della vita.

Quindi, pur tenendo conto dei problemi e dei limiti evidenziati in precedenza, anchela nostra analisi sulla convergenza si è fondata sullo studio dell’evoluzione di lungo perio-do del PIL pro capite (Y/P = Y/L * L/P) delle province (1995-2002), dove Y/P = PILpro capite;Y/L = produttività media del lavoro; L/P = tasso di occupazione. Tali com-ponenti svolgono un importante ruolo nel determinare le dinamiche del PIL pro capitedelle singole realtà territoriali e quindi dei processi di catching up; infatti, distinguendo ilPIL pro capite nelle due componenti rappresentate dalla produttività del lavoro e dallaquota di occupati sulla popolazione, si rileva come la formula risenta, nel primo caso,della dotazione di capitale, del livello di tecnologie presenti e della struttura settoriale del-

37 A questo proposito: Gua-rini, R. e Tassinari, F., Sta-tistica Economica, Il Muli-no, 2000.

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I fattori dello sviluppo regionale

I pro

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vince

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l’occupazione. Sulla seconda influiscono principalmente le caratteristiche del mercato dellavoro, oltre ai fattori socio-demografici (ad esempio il tasso di invecchiamento dellapopolazione).

In uno studio dell’ISAE (2001) relativo alle regioni appartenenti all’Ue 12, si rilevaesserci stato un processo di convergenza dei livelli di produttività all’interno dei 12 statimembri considerati (tra cui l’Italia). Il PIL pro capite, però, non ne ha beneficiato sia perla presenza di un “effetto divergenza” dei tassi di occupazione, sia a causa della relazionenegativa esistente tra produttività e occupazione. La conclusione è che le regioni carat-terizzate da bassi livelli di produttività relativa erano quelle che avevano incrementi deltasso di occupazione inferiori alla media comunitaria.

3.2.2 I risultati dell’analisi provinciale nel periodo 1995-2002

L’approccio CNL trova una sua evidenza empirica grazie all’analisi delle dinamiche delPIL pro capite delle province italiane nel periodo 1995-2002, che per certi aspetti aggior-na alcune analisi realizzate negli anni scorsi38 per periodi immediatamente precedenti.

Il primo risultato è dato dallo studio dell’evoluzione del coefficiente di variazione delnumero indice del PIL pro capite provinciale nel periodo considerato. Esso ci rivela che ilcoefficiente si riduce nel Mezzogiorno (dallo 0,14 del 1995 allo 0,12 del 2002) portando-si sui livelli delle province del Centro (rimasto invariato nel periodo a quota 0,12) e avvi-cinandosi alle province del Nord (0,11), che al contrario registrano un leggero incremen-to rispetto al 2001 (0,10). Ciò fa supporre che, pur restando evidenti gli squilibri territo-riali tra le aree, all’interno delle province del Mezzogiorno, in particolare negli ultimi anni,si è assistito ad un lento ma costante processo di crescita che interessa tutte le province, pre-messo che ha consentito di ridurre gli squilibri interni all’area. Cosa che non avviene nelleprovince settentrionali, dove si afferma invece l’esistenza di un “Nord nel Nord”.

Il secondo risultato che scaturisce dalla nostra analisi è che il principio della conver-genza assoluta sembrerebbe verificato solo quando il livello di reddito pro capite di par-tenza è molto più basso rispetto al valore medio di riferimento: nel nostro caso tale valo-re è stato individuato convenzionalmente, in analogia alle direttive comunitarie39, al disotto del 75% del dato medio dell’Italia. Infatti, nella graduatoria delle prime 10 provinceitaliane, costruita in base alla variazione cumulata del PIL pro capite nel periodo 1995-2002 (Tab.3), seguono un percorso di convergenza lineare solo le prime tre (Crotone,ViboValentia e Matera); ben 3 province, con un valore del PIL pro capite superiore al 75% (nel-

38 Tra gli altri: S. Fabiani, G.Pellegrini, Convergenza edivergenza nella crescitadelle province italiane, Ri-cerche quantitative per lapolitica economica, 1997.

39 In analogia al Regola-mento relativo ai FondiStrutturali, una regione(NUTS II) è ritenuta in ri-tardo di sviluppo quandopresenta un livello sogliadel PIL pro capite ugualeo inferiore al 75% dellamedia comunitaria(EUR15 =100).

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Giuseppe Capuano

l’ordine di PIL pro capite, Bolzano, Massa Carrara e Isernia) evidenziano un andamento“sinusoidale”, in quanto, alcune delle sette osservazioni effettuate (dal 1995 al 2002) hannopresentato un andamento del PIL pro capite altalenante (Tab.4). Quest’ultimo gruppo siarricchisce di 11 province se si allarga la graduatoria alle prime 30.

La conclusione che si può trarre è la seguente: è poco verificata la relazione inversatra livello di partenza del reddito e tasso medio di crescita (convergenza beta assoluta),ma si rileva in molti casi una relazione diretta, in quanto si è evidenziato che le provin-ce con un livello di sviluppo di partenza più elevato hanno registrato tassi di crescita piùsostenuti rispetto alle province con un PIL pro capite di partenza più basso, e molte diesse presentato un andamento non lineare (sia in termini di convergenza che di diver-genza).

Quindi, soprattutto nel caso delle province cosiddette “intermedie” (convenzional-mente si è utilizzato il range compreso tra 75 e 115 del valore medio Italia=100), la velo-cità del processo di convergenza o rallenta o addirittura si trasforma in divergenza rispet-to ad un valore medio, dando vita ad un percorso che potremmo definire a “balzi” o ditipo sinusoidale, e che noi definiamo di “convergenza non lineare”.

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I fattori dello sviluppo regionale

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Pos Prov. Var. % N.I.95-02 1995 Pos Prov. Var. % N.I.

95-02 1995 Pos Prov. Var. % N.I.95-02 1995

1 Crotone 7,19 48,32 Vibo Valentia 6,35 55,93 Matera 6,00 63,54 Isernia 5,95 77,55 Grosseto 5,94 85,86 Potenza 5,79 70,47 Massa Carrara 5,61 83,68 Ragusa 5,56 68,29 Bolzano 5,48 139,910 Enna 5,39 54,611 Belluno 5,27 120,512 Sassari 5,27 74,413 Trapani 5,24 61,414 Siena 5,18 104,415 Benevento 5,18 63,916 Napoli 5,13 60,617 Reggio Calabria 5,12 62,518 Ravenna 5,09 113,419 Catanzaro 5,03 64,420 Catania 5,03 63,021 Oristano 4,97 68,022 Lecce 4,94 58,123 Cosenza 4,92 59,224 Campobasso 4,91 75,025 Agrigento 4,90 56,926 Genova 4,89 100,927 Avellino 4,88 67,328 Forlì 4,87 118,329 Venezia 4,86 117,730 Terni 4,84 93,531 Messina 4,83 68,432 Gorizia 4,79 108,633 Salerno 4,79 68,034 Firenze 4,77 124,035 Taranto 4,76 66,0

36 Palermo 4,67 63,837 Ascoli Piceno 4,62 95,138 Rovigo 4,57 99,639 Pescara 4,56 85,340 Pesaro Urbino 4,54 96,841 Bari 4,52 68,042 Pistoia 4,52 99,243 Macerata 4,52 96,344 Caserta 4,51 63,045 Asti 4,50 98,946 Lucca 4,49 104,447 Ancona 4,45 110,048 Arezzo 4,36 104,249 Piacenza 4,35 109,450 Cremona 4,32 113,251 Chieti 4,26 87,152 Rimini 4,25 122,453 Roma 4,24 120,054 Savona 4,22 110,055 Treviso 4,16 119,456 Pavia 4,15 104,157 Lodi 4,14 106,958 Verbano C. O. 4,14 96,859 Ferrara 4,10 106,760 Perugia 4,10 99,961 Alessandria 4,10 107,962 Latina 4,09 92,363 Trento 4,08 125,164 La Spezia 4,07 102,465 Novara 4,06 117,166 Imperia 4,06 105,867 Livorno 4,06 105,268 Bologna 4,04 139,869 Padova 4,04 112,970 Varese 4,02 114,1

71 Foggia 4,02 59,572 Cagliari 4,01 75,573 Torino 4,00 122,174 Milano 4,00 154,675 Cuneo 3,89 123,776 Mantova 3,81 129,377 Frosinone 3,78 86,078 Parma 3,78 132,379 Modena 3,74 142,180 Nuoro 3,74 70,281 Sondrio 3,71 104,082 Verona 3,69 119,483 Rieti 3,68 84,384 Teramo 3,64 85,385 Brindisi 3,64 70,886 Pisa 3,53 110,687 Caltanissetta 3,53 60,588 Vicenza 3,49 127,189 L’Aquila 3,44 85,590 Bergamo 3,40 122,091 Udine 3,38 116,192 Trieste 3,35 112,993 Brescia 3,34 122,894 Vercelli 3,33 111,795 Biella 3,23 116,896 Siracusa 3,14 79,497 Reggio Emilia 3,09 133,498 Pordenone 2,98 122,799 Viterbo 2,93 90,1100 Prato 2,76 126,0101 Como 2,68 114,6102 Lecco 2,34 119,7103 Aosta 2,31 136,2

ITALIA 4,29 100,0

Fonte: Unioncamere - Istituto G.Tagliacarne

Tab. 3 - Tassi medi annui di crescita del PIL pro capite e numeri indice - 1995/2002 (Dato Italia=100)

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Giuseppe Capuano

Pos Province N.I. 95 N.I. 96 N.I. 97 N.I. 98 N.I. 99 N.I. 00 N.I. 01 N.I. 02

1 Crotone 48,3 49,4 49,5 51,6 52,9 54,3 56,1 58,52 Vibo Valentia 55,9 55,3 57,3 57,1 57,8 57,4 59,3 64,23 Matera 63,5 66,1 66,2 69,2 73,1 70,6 70,9 71,24 Isernia 77,5 79,8 82,0 82,3 78,5 82,1 86,1 86,65 Grosseto 85,8 86,2 87,9 89,1 91,9 92,1 92,5 95,86 Potenza 70,4 71,6 73,0 72,4 73,4 73,5 74,2 77,87 Massa Carrara 83,6 83,3 85,4 83,9 84,0 85,4 88,9 91,38 Ragusa 68,2 68,4 70,1 69,6 69,5 70,7 71,2 74,39 Bolzano 139,9 142,2 139,1 143,0 139,6 144,2 148,9 151,510 Enna 54,6 55,0 58,8 56,6 56,1 58,1 58,9 58,811 Belluno 120,5 119,8 120,0 121,1 120,3 122,7 123,9 128,712 Sassari 74,4 75,2 76,0 77,5 78,4 78,2 80,3 79,413 Trapani 61,4 61,6 60,9 60,5 61,6 63,4 62,7 65,414 Siena 104,4 104,9 107,0 108,6 110,5 113,0 109,5 110,915 Benevento 63,9 64,2 65,0 63,9 64,0 62,7 64,1 67,816 Napoli 60,6 60,4 62,8 64,0 63,7 63,3 63,7 64,117 Reggio Calabria 62,5 61,0 62,8 62,4 62,9 62,1 64,8 66,118 Ravenna 113,4 114,9 111,9 112,7 112,0 113,0 117,1 119,719 Catanzaro 64,4 65,0 65,6 63,0 64,5 65,1 67,1 67,720 Catania 63,0 61,3 61,4 61,4 62,8 63,4 64,1 66,221 Oristano 68,0 69,7 71,3 69,6 75,4 70,2 72,2 71,122 Lecce 58,1 58,9 57,7 58,4 59,2 59,9 60,4 60,723 Cosenza 59,2 58,1 59,3 60,1 62,8 62,4 63,2 61,824 Campobasso 75,0 75,8 80,2 75,7 75,6 76,4 77,0 78,125 Agrigento 56,9 57,8 59,6 57,3 57,0 55,3 56,2 59,226 Genova 100,9 102,7 104,3 104,6 105,1 106,2 107,4 105,027 Avellino 67,3 66,3 67,1 66,2 67,3 69,4 71,3 70,128 Forlì 118,3 120,6 117,9 118,9 118,9 118,7 118,6 123,029 Venezia 117,7 117,8 118,1 118,3 117,6 117,5 121,4 122,330 Terni 93,5 92,1 91,3 90,3 92,5 93,1 93,4 97,0

ITALIA 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0

Fonte: Unioncamere - Istituto G.Tagliacarne

Tab. 4 - Andamento del PIL pro capite provinciale - 1995/2002

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I fattori dello sviluppo regionale

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Graf. 2 – Convergenza beta assoluta del PIL pro capite provinciale (Anni 1995-2002)

Graf. 1 - Coefficiente di variazione del numero indice del PIL pro capite provinciale (Anni 1995/2002)

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Giuseppe Capuano

Fonte:Elaborazione propria su dati Unioncamere - Istituto G.Tagliacarne

Fonte:Elaborazione propria su dati Unioncamere - Istituto G.Tagliacarne

In conclusione, una lettura delle dinamiche dei percorsi di sviluppo locale può esse-re valida seguendo gli automatismi della teoria marginalista della convergenza solo incontesti palesemente in ritardo di sviluppo e solo per periodi di tempo ben limitati. Alcontrario, quando si utilizzano le stesse categorie concettuali per studiare dinamiche cheinteressano gruppi di province caratterizzate da livelli di sviluppo intermedio/alto, ovve-ro tendenze di sviluppo di lungo periodo di economie non sviluppate, la stessa funzionerisulta essere inadeguata e si preferisce utilizzare il concetto di “convergenza non lineare”.

Graf. 3 - Coefficiente di variazione del numero indice del PIL pro capite provinciale (Anni 1995/2002)

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I fattori dello sviluppo regionale

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3.3 I fattori che contribuiscono alla “convergenza non lineare”

In questo lavoro non ci si è limitati a verificare gli andamenti economici sintetizzatiattraverso lo studio del PIL pro capite, ma si è cercato anche di individuare i fattori checontribuiscono alla permanenza degli squilibri territoriali. Essi sono molteplici, a partireda una differente dose di progresso tecnico incorporato nella funzione di produzione,dalla presenza di rendimenti di scala crescenti, ad una produttività marginale non sempredecrescente del capitale, secondo quanto verificato dalle più recenti “teorie dello svilup-po endogeno” (Romer, 1986; Lucas, 1988).

Oltre a queste concause spesso riprese dalla letteratura specialistica, in questa sede sipropongono altri elementi che a nostro avviso condizionano, e non poco, la permanen-za degli squilibri territoriali. Grazie alla disponibilità di dati provinciali in serie storica,abbiamo verificato alcuni fattori che direttamente (popolazione, tasso di occupazione eproduttività media del lavoro) o indirettamente (fattori che potremmo definire di conte-sto, come la reattività della crescita del PIL alle variazioni del tasso di apertura verso imercati esteri e alla riduzione del costo del danaro) hanno alimentato gli squilibri terri-toriali nel corso del tempo.

Formalmente potremmo descrivere quanto in precedenza affermato con la seguenteequazione:

dove:il termine di sinistra rappresenta il differenziale tra il PIL pro capite delle province i

e j in un determinato anno;il termine di destra rappresenta la differenza dei contributi forniti, negli n anni pre-

cedenti a quello di riferimento, da fattori socio-economici diretti e indiretti alla forma-zione del PIL pro capite delle province i e j.

Le nostre elaborazioni relative al periodo 1998-2002 hanno preso in considerazionei seguenti indicatori:

❏ saldo migratorio e naturale della popolazione residente;❏ tasso di occupazione;❏ tasso di interesse a breve per flussi di cassa;❏ tasso di apertura verso l’estero;

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Giuseppe Capuano

pervenendo ad un eloquente risultato: se si escludono 7 casi su 984 verifiche, nessu-na provincia conserva la stessa posizione in graduatoria relativa al singolo indicatore neidue anni presi a riferimento (1998 e 2002) e rispetto a tutti gli indicatori utilizzati. Unrisultato che è stato determinato da livelli diversi dell’indicatore rilevato e dalla presenzadi differenziali, in alcuni casi rilevanti, tra un anno e l’altro.

La conclusione che se ne trae è che esiste una forte variabilità dei fattori che deter-minano lo sviluppo, ne condizionano il tasso di crescita del PIL pro capite e il suo livel-lo, e, cosa più importante ai fini del nostro lavoro, contribuiscono alla creazione di diffe-renziali provinciali in termini di crescita relativa.

3.4 Le traiettorie dello sviluppo delle province italiane attraverso l’analisi del PIL

Dopo una lettura delle dinamiche di sviluppo delle province italiane attraverso lastrumentazione teorica fornita dall’ampia letteratura della convergenza, in questo para-grafo cercheremo una valutazione di tipo qualitativo dei percorsi di sviluppo intrapresidalle economie locali nel periodo 1995-2002. I cicli economici che si sono susseguiti inquesto periodo, non sembrano aver inciso sulla distribuzione del PIL pro capite in Italia,se è vero che le prime quattro province più ricche nel 1995 (nell’ordine, Milano,Modena, Bolzano e Bologna) sono le stesse del 2002. Milano risulta sempre al primoposto, questa volta seguita da Bolzano, Bologna e Modena. In fondo alla graduatoria delleprovince ritroviamo Crotone, come nel 1995, seguita da Foggia (che perde tre posizionirispetto al 1995) ed Enna (terzultima nel 1995).

Se agli estremi della graduatoria non si sono verificati evidenti ribaltamenti, in quan-to il trend di crescita del PIL non è stato tale da permettere un radicale riposizionamen-to competitivo delle province (non è un caso che le posizioni delle prime e delle ultime10 province sono state generalmente mantenute), significativi cambiamenti si sono avuti,invece, nelle realtà a sviluppo intermedio o che hanno conosciuto un consolidamentodelle traiettorie di sviluppo attraverso processi di riconversione economico-produttivaintrapresi durante le fasi del ciclo più favorevoli. Cambiamenti conosciuti, almeno quel-li più evidenti, soprattutto dalle province del Centro-Nord, contro un “fisiologico” movi-mento, tranne casi isolati, delle realtà del Mezzogiorno.

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Una lettura del cambiamento, quest’ultima, che probabilmente supera un approcciodicotomico “Nord-Sud” spesso alla ricerca di probabili, ma comunque deboli, segnali diriduzione degli squilibri tra le province: tra l’inizio e la fine del periodo considerato, ilMezzogiorno passa (dato Italia=100) da 65,8 a 68 contro il 119,6 e il 118 del Centro-Nord. Una riduzione del divario che risulta essere trainata nel periodo 1995-2002 dallamaggiore crescita di molte province meridionali rispetto a quelle del Nord: delle dieciprovince con il più alto tasso di crescita cumulato, ben sette appartengono infatti al

Province pos. 02 N.I. 02 pos. 95 N.I. 95

Milano 1 152,6 1 155,4Bolzano 2 150,6 3 139,1Bologna 3 136,5 4 139,1Modena 4 135,4 2 140,8Firenze 5 129,0 11 125,1Parma 6 127,9 7 133,3Belluno 7 127,4 20 119,3Roma 8 124,6 13 123,6Reggio Emilia 9 122,9 6 133,7Mantova 10 122,9 8 127,4

Province pos. 02 N.I. 02 pos. 95 N.I. 95

Vibo Valentia 94 64,1 101 56,1Palermo 95 64,0 91 62,5Caserta 96 63,4 92 62,2Lecce 97 61,6 97 59,1Cosenza 98 61,3 98 58,7Agrigento 99 60,5 100 57,9Caltanissetta 100 58,8 95 61,0Enna 101 57,7 102 54,2Foggia 102 57,5 99 58,5Crotone 103 56,9 103 47,2

Fonte: Unioncamere - Istituto G.Tagliacarne

Tab. 5 - Prime 10 e ultime 10 province italiane per PIL pro capite - 1995/2002

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Giuseppe Capuano

Mezzogiorno. In particolare Crotone, nonostante l’ultimo posto in graduatoria per il PILpro capite, evidenzia segnali di recupero posizionandosi al primo posto per tasso di cre-scita. Ciò le consente di migliorare il numero indice del PIL pro capite che, posto il datoItalia=100, passa dal 48,3 del 1995 al 56,9 del 2002.

Proprio dall’analisi dei dati di Crotone emerge come le traiettorie dello sviluppolocale debbano essere lette in termini trasversali alle tradizionali grandi ripartizioni ter-ritoriali ed in una logica non strettamente settoriale ma di filiera, e che richiedono policyrivolte più alla ricerca dello sviluppo (più elevati tassi di crescita) che non alla riduzionedegli squilibri tra province forti e province deboli del Paese, che tra l’altro ne rappresen-tano una mera conseguenza.

Passando all’analisi dei singoli dati provinciali, segnali chiaramente positivi provengo-no da Siena, che nel periodo 1995-2002 guadagna 18 posizioni (dal 47° al 29° posto).Una performance dovuta soprattutto ad un processo di internazionalizzazione dell’eco-nomia iniziato nei primi anni novanta ed a un modello produttivo integrato sostenutodal settore manifatturiero di qualità (soprattutto farmaceutico-biomedicale-meccanico) edalla filiera agroalimentare-turismo. Ugualmente interessante la performance diRavenna, che guadagna nello stesso periodo ben 15 posizioni (dal 31° al 16° posto), e diGenova, che ne guadagna 13, passando dal 52° al 39° posto.

Un cenno particolare merita il capoluogo ligure che, distinguendosi in ciò dal restodella regione (da La Spezia in particolare), deve molto di questa performance ad un pro-cesso di riconversione economica forse tra i più forti fra le “tradizionali” capitali dell’in-dustria italiana, con un terziario che oggi pesa per l’80,3% (8° posto nella graduatoria set-toriale) nella formazione del PIL contro appena il 19,2% dell’industria (85° posto dellagraduatoria settoriale).

Un processo di terziarizzazione conosciuto dalle altre capitali dell’industria italianadegli anni sessanta-settanta, quali Torino (15° posto nella graduatoria del PIL pro capite)e Milano, che consente loro di mantenere sostanzialmente le posizioni del 1995; senzaescludere peraltro Roma che, in questo contesto, si conferma al primo posto per peso delterziario nella formazione del PIL (87,1%) e guadagna cinque posizioni in termini di PILpro capite (dal 13° all’8° posto).

Tra le realtà locali, che al contrario hanno accusato vistosi arretramenti, rientrano inparticolare quelle province della cosiddetta “distrettualità tradizionale”, legate ad unmodello di specializzazione produttiva tradizionale, ad alta elasticità della domanda rispet-to al prezzo ed esposte fortemente alla concorrenza dei Paesi di NuovaIndustrializzazione (NICs) come la Cina. Ci riferiamo nell’ordine a Lecco (passata dal

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22° posto del 1995 al 47° del 2002), Como (dal 29° al 50° posto), Prato (dal 22° al 47°posto) e Pordenone (dal 19° al 31° posto). Realtà provinciali dove il peso dell’industrianella formazione del PIL è tra i più alti d’Italia, con punte del 45,9% a Lecco (1° postoin Italia), del 40% a Pordenone (9° posto) e del 39,9% a Prato (10° posto).

Province a vocazione distrettuale, a forte presenza industriale (soprattutto made in Italy)che come si evince anche dal “Rapporto PMI 2002”dell’Unioncamere-Istituto Tagliacarnee dalle analisi delle Camere di Commercio locali risultano in evidente crisi da alcuni anni.Una situazione di particolare disagio presenta l’industria del pratese, il cui peso in terminidi PIL si riduce tra il 1995 e il 2002 di circa cinque punti percentuali, e del lecchese dovela riduzione si assesta contemporaneamente sui quattro punti percentuali.

Una perdita di posizioni determinata anche da un andamento dell’economia sostan-zialmente stagnante negli ultimi anni, ascrivibile soprattutto alla debolezza dei mercatiesteri. Infatti, nell’ordine, Lecco, Como, Prato e Pordenone registrano il 102°, il 101°, il100° e il 98° posto nella graduatoria relativa ai tassi di crescita cumulati del PIL nell’in-tervallo 1995-2002. Un andamento peggiore registra solo Aosta (ultima in graduatoria)che perde anch’essa 14 posizioni in termini di PIL pro capite.

Un altro indicatore del cambiamento delle traiettorie dello sviluppo è la crescenteimportanza del settore agricolo e della filiera agroalimentare nella formazione del PIL.Infatti, nelle realtà provinciali a maggior valenza della filiera agroalimentare (le prime 15province più agricole d’Italia), dopo il “tradizionale” buon posizionamento di Mantova(10° posizione nella graduatoria italiana del PIL pro capite) ritroviamo gli interessantimiglioramenti di Vibo Valentia e Isernia (+ 7 posizioni), Grosseto (+ 6 posizioni), Matera(+ 6 posizioni), Ragusa (+ 3 posizioni) e Benevento (+ 3 posizioni). Province con untessuto imprenditoriale formato da micro-piccole imprese con una spiccata vocazioneagroalimentare di qualità ed una organizzazione produttiva sul territorio di tipo sistemi-co, in alcuni casi caratterizzata dalla presenza di prodotti tipici con marchio di tutela (ades. DOP, IGP, etc.).

A supporto di questa lettura della geografia economica italiana va rilevato che, secon-do la graduatoria dei tassi di crescita del periodo 1995-2002, nelle prime 15 provinced’Italia ben 7 sono realtà a forte vocazione agroalimentare. Questi sono tutti segnali cheindicano come, dopo il processo di industrializzazione conosciuto dall’Italia negli annicinquanta-sessanta a cui è seguito il periodo post-industriale con l’avvento della terzia-rizzazione dell’economia e dello sviluppo diffuso caratterizzato dall’impresa minore edistrettuale degli anni ottanta-novanta, oggi siamo in presenza di un nuovo fenomenocaratterizzato dalle filiere produttive a forte valenza agroalimentare.

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Giuseppe Capuano

Non è un caso che, con tutta la prudenza che l’argomento impone, nell’arco ditempo considerato, le province del Mezzogiorno presentano dinamiche interessanti sia intermini di crescita del PIL (ben 9 province delle 15 che hanno registrato un tasso di cre-scita cumulato del PIL più elevato appartengono al Mezzogiorno) che di performancesettoriali, con particolare risalto della filiera agroalimentare, che in una fase di crescita ral-lentata, è probabilmente il comparto che ha tenuto meglio il mercato.

Detto ciò, i segnali di riduzione degli squilibri territoriali in termini di PIL pro capi-te appaiono sostanzialmente deboli dovuti ad una maggiore omogeneità (al ribasso) nelleperformance economiche. Probabilmente la risposta a questa apparente contraddizione èindicata dal fatto che la crescita segnata dalle province meridionali non è stata abbastan-za forte e il risultato finale osservato è da attribuire, tra l’altro, ad un rallentamento dellearee economiche del Centro-Nord, notoriamente più aperte al ciclo economico inter-nazionale e dove il peso della componente pubblica sul totale dell’economia, relativa-mente basso, costituisce un fattore di stabilizzazione del ciclo minore rispetto al Sud.

Prov. Pos. 02 Peso % 02 Peso % 95 Prov. Pos. 02 Peso % 02 Peso % 95

Oristano 1 10,5 9,9Foggia 2 9,9 12,6Ragusa 3 9,6 15,5Cremona 4 8,1 9,1Mantova 5 7,8 8,7Matera 6 7,6 10,1Viterbo 7 7,2 8,3Benevento 8 7,1 8,2Enna 9 6,9 8,0Ferrara 10 6,7 7,6Vibo Valentia 11 6,6 6,4Rovigo 12 6,6 8,0Grosseto 13 6,3 6,6Catanzaro 14 6,2 5,6Imperia 15 6,0 11,0

Lucca 89 1,1 2,1Belluno 90 1,0 1,1Massa Carrara 91 1,0 1,4Trieste 92 0,8 0,9Biella 93 0,8 1,4Como 94 0,8 0,7Firenze 95 0,8 0,9Torino 96 0,7 0,9Roma 97 0,6 0,7Lecco 98 0,5 0,4Verbano-Cusio-Ossola 99 0,4 1,0Genova 100 0,4 0,5Varese 101 0,4 0,4Prato 102 0,3 0,3Milano 103 0,3 0,3

Fonte: Unioncamere - Istituto G.Tagliacarne

Agricoltura

Tab. 6 - Prime 15 e ultime 15 province italiane per peso dell’agricoltura, dell’industria e deiservizi sul PIL - 1995/2002

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Prov. Pos. 02 Peso % 02 Peso % 95 Prov. Pos. 02 Peso % 02 Peso % 95

Roma 1 87,1 84,6Palermo 2 84,0 80,9Trieste 3 83,6 81,3Messina 4 83,3 80,4Napoli 5 81,7 78,7Catania 6 80,8 77,1Imperia 7 80,4 75,3Genova 8 80,3 79,5Vibo Valentia 9 79,1 76,6Grosseto 10 78,8 76,6Reggio Calabria 11 78,8 77,9Agrigento 12 78,8 76,6Massa Carrara 13 78,4 74,0Aosta 14 78,2 73,5Catanzaro 15 77,7 76,8

Belluno 89 60,2 57,0Prato 90 59,8 55,0Brescia 91 59,4 55,0Biella 92 59,0 52,5Cuneo 93 58,1 54,5Pordenone 94 57,3 53,7Cremona 95 57,0 54,2Treviso 96 56,9 52,1Modena 97 56,3 52,9Novara 98 56,1 53,4Bergamo 99 55,9 51,6Vicenza 100 55,2 50,5Mantova 101 54,9 50,4Lecco 102 53,7 50,1Reggio Emilia 103 52,0 51,1

Fonte: Unioncamere - Istituto G.Tagliacarne

Servizi

Prov. Pos. 02 Peso % 02 Peso % 95 Prov. Pos. 02 Peso % 02 Peso % 95

Lecco 1 45,9 49,5Reggio Emilia 2 44,7 45,3Bergamo 3 42,7 47,1Vicenza 4 42,7 47,3Novara 5 41,8 44,1Modena 6 40,9 43,9Treviso 7 40,9 45,0Biella 8 40,2 46,2Pordenone 9 40,1 42,2Prato 10 39,8 44,7Belluno 11 38,9 41,9Varese 12 38,8 44,0Como 13 38,1 42,1Brescia 14 37,4 41,3Mantova 15 37,3 40,9

Ragusa 89 17,9 16,9Foggia 90 17,1 17,0Napoli 91 16,7 19,6Enna 92 16,7 18,3Catania 93 16,7 19,3Catanzaro 94 16,0 17,7Agrigento 95 15,9 16,2Reggio Calabria 96 15,8 14,1Trieste 97 15,6 17,7Grosseto 98 14,8 16,8Vibo Valentia 99 14,3 17,0Messina 100 14,0 16,1Palermo 101 13,8 16,2Imperia 102 13,7 13,8Roma 103 12,4 14,6

Industria

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Da ultimo, l’analisi dei dati delle serie storiche del PIL con le relative articolazioni(valori pro capite e di settore) fornisce ulteriori indicazioni. L’attenzione delle policy,come già accennato, dovrebbe avere tra le priorità (uscendo da una lettura tradizionaledei fenomeni economici su base regionale) soprattutto la determinazione di maggioritassi di crescita, più che la riduzione degli squilibri, che notoriamente possono essereconseguiti anche in un contesto di sviluppo territoriale debole. Conseguire lo sviluppoe non gestire gli squilibri, potrebbe essere un buon punto di partenza per la riflessionedegli attori locali dello sviluppo e per le Autorità centrali competenti.

Prov. Var. % 95-02 n.i. 95 Prov. Var. % 95-02 n.i. 95

Crotone 7,19 48,3Vibo Valentia 6,35 55,9Matera 6,00 63,5Isernia 5,95 77,5Grosseto 5,94 85,8Potenza 5,79 70,4Massa Carrara 5,61 83,6Ragusa 5,56 68,2Bolzano 5,48 139,9Enna 5,39 54,6Belluno 5,27 120,5Sassari 5,27 74,4Trapani 5,24 61,4Siena 5,18 104,4Benevento 5,18 63,9

L’Aquila 3,44 85,5Bergamo 3,40 122,0Udine 3,38 116,1Trieste 3,35 112,9Brescia 3,34 122,8Vercelli 3,33 111,7Biella 3,23 116,8Siracusa 3,14 79,4Reggio Emilia 3,09 133,4Pordenone 2,98 122,7Viterbo 2,93 90,10Prato 2,76 126,00Como 2,68 114,60Lecco 2,34 119,70Aosta 2,31 136,2

Fonte: Unioncamere - Istituto G.Tagliacarne

Tab. 7 - Prime 15 e ultime 15 province italiane per tasso medio di crescita del PIL pro capite- 1995/2002

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Cartina 1 - Mappatura provinciale in base al numero indice del PIL pro capite - Anno 2002

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Fonte: Unioncamere - Istituto G.Tagliacarne

Cartina 2 - Mappatura provinciale in base al peso dell’agricoltura sul PIL - Anno 2002

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Fonte: Unioncamere - Istituto G.Tagliacarne

Cartina 3 - Mappatura provinciale in base al peso dell’industria sul PIL - Anno 2002

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Fonte: Unioncamere - Istituto G.Tagliacarne

Cartina 4 - Mappatura provinciale in base al peso dei servizi sul PIL - Anno 2002

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Fonte: Unioncamere - Istituto G.Tagliacarne

4Il ruolodel risparmionello svilupporegionale

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A partire dagli anni ’60 quasi tutti i piani di sviluppo elaborati neiPaesi in via di sviluppo (PVS), hanno seguito implicitamente l’uso dei modelli di Harrod(1948) e Domar (1958) o di loro derivazione (successivamente denominati H-D). Questimodelli appartengono alla tradizione keynesiana, in quanto accolgono in pieno la “teo-ria del reddito” di J. M. Keynes (1936)40.

Il modello H-D è uno dei più semplici modelli macroeconomici dello sviluppo ed èil primo che utilizza esplicitamente il meccanismo dell’acceleratore41, trasformando la teo-ria del reddito nazionale (statica e di breve periodo) in teoria dello sviluppo (dinamica e dilungo periodo). La caratteristica di questo modello è quella di considerare la propensioneal risparmio (s/y) come variabile data e costante42, con la conseguenza che il tasso di svi-luppo di equilibrio del sistema economico è determinato dal valore di questa variabile.

In questo contesto le scelte individuali sulla ripartizione delle risorse tra consumi einvestimenti sarà fondamentale per la determinazione del tasso di sviluppo, relegando insecondo piano le decisioni degli imprenditori-investitori43.

Per comprendere meglio quanto svilupperemo successivamente, faremo un esempiopratico del modello, utilizzando degli elementari esempi numerici.

Se la popolazione di un paese/regione aumenta del 2% l’anno, per ottenere una cre-scita del reddito pro capite del 2%, occorrerà che il reddito nazionale/regionale cresca del4%. Ipotizzando che il rapporto marginale capitale-prodotto sia 3 (ciò significa che peraumentare il prodotto di 1 Euro sarà necessario investirne 3), per conseguire un aumen-

A 4.1 Il risparmio nel modello Harrod-Domar40 I tratti principali della teo-

ria keynesiana sono i se-guenti: eguaglianza tra ri-sparmio e investimento;l’investimento determinail risparmio; la domandaaggregata determina il li-vello di produzione ed ècomposta da consumi, in-vestimenti, spesa pubbli-ca e esportazioni nette.

41 La teoria dell’investimen-to basata sul principiodell’acceleratore consi-dera che gli investimentisiano stimolati dall’accre-scimento della domandafinale. Se quest’ultimafosse stazionaria, gli inve-stimenti sarebbero limi-tati alla mera sostituzionedei beni capitali obsoleti,in base alla seguente re-lazione: I = b (Xt – Xt-1). Il coeffi-ciente b, che misura ilrapporto tra aumento direddito e aumento delfondo capitale investito,è l’acceleratore. Per unapprofondimento sul te-ma: A. Graziani (1981),Teoria Economica, ESI,Napoli, pp.439- 455.

to del reddito del 4% bisognerà risparmiare e investire il 12% del PIL. Infatti, la formulafinale del modello è rappresentata dal rapporto: G = s/br dove: G è il tasso di accresci-mento del reddito; s è la propensione al risparmio; br è il coefficiente di capitale. In ter-mini numerici il rapporto nel nostro esempio sarà: 12%/3 = 4%.

Questa impostazione è stata sostenuta da numerosi economisti del sottosviluppo (adesempio Lewis, 1963; Myint, 1967, etc.), i quali ritenevano che una economia per raggiun-gere il “take-off” dovrà risparmiare ed investire più del 10% del reddito nazionale/regionale.

Tale tesi è stata comprovata da alcuni studi sul risparmio riguardante i paesi occi-dentali durante il loro decollo economico.

Considerando con riserva la possibilità di applicazione di modelli economici e risul-tati empirici dei Paesi occidentali ai PVS o comunque a regioni in ritardo di sviluppodei Paesi industrializzati, riteniamo che il problema vada differenziato a seconda che siconsiderino i primi o i secondi.

La realizzazione dei piani di sviluppo nei PVS ha visto nell’accumulazione del capi-tale, prima ancora della mancanza di un’adeguata propensione ad investire, uno dei mag-giori problemi. Infatti, i modelli di sviluppo che si rifacevano a quello di H-D non hannodato i risultati sperati, a causa di un’insufficiente livello del risparmio necessario a favo-rire l’espansione degli investimenti.

Al contrario, il problema centrale del nostro Mezzogiorno, è antitetico a quello deiPVS, in quanto il livello del risparmio potrebbe risultare sufficiente (grazie anche alrisparmio generato in altre realtà del nostro Paese e dai trasferimenti dovuti alla PubblicaAmministrazione) a garantire una potenzialità d’investimento elevata, mentre la verastrozzatura del modello è rappresentata dalla insufficienza degli investimenti e dalla lorobassa produttività dove sono realizzati.

Di conseguenza, nel caso dei PVS, sarà il valore del numeratore (propensione alrisparmio) ad essere troppo basso da poter generare un tasso di crescita sufficientementeelevato; nel Mezzogiorno, invece, è il livello degli investimenti ad essere insufficiente,dando origine ad un tasso di accrescimento “effettivo” del reddito, inferiore al tasso diaccrescimento “giustificato”, dalle risorse disponibili e creare fenomeni di divergenzarispetto alle economia regionali più forti del nostro Paese.

I risparmi, quindi, superano gli investimenti (esiste anche un gap negativo tra depositi eimpieghi realizzati nella macroregione) e ciò si manifesta generalmente in un accumularsidelle scorte e quindi in un eccesso del coefficiente di capitale “effettivo” rispetto a quello“giustificato”. La conseguenza è il perpetuarsi degli squilibri Nord-Sud e la realizzazione ditassi di crescita insufficienti per il conseguimento del “take-off” dell’economia meridionale.

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Giuseppe Capuano

42 Nella teoria postkeyne-siana la propensione al ri-sparmio non è considera-ta costante come nellateoria keynesiana ma di-pende dalla distribuzionedel reddito nazionale trasalari (la propensione al ri-sparmio dei salariati è piùbassa) e profitti (la pro-pensione degli imprendi-tori è più elevata). Di con-seguenza, la propensionemedia al risparmio dell’in-tera collettività dipenderàdalla distribuzione delreddito nella società.

43 Altre correnti di pensierohanno sostenuto posizio-ni opposte, ponendo ilruolo dell’imprenditore-investitore in primo pianorispetto alle scelte indivi-duali. Tra questi si veda laposizione dei Post-Key-nesiani come J. Robinson,N. Kaldor, R. Kahn e L. Pa-sinetti. Per una esposizio-ne generale sul pensieropostkeynesiano: I. Musu(1980), I neokeynesiani,Bologna, Il Mulino.

In conclusione, seguendo l’impostazione di H-D, è la propensione al risparmio adeterminare il tasso di sviluppo di equilibrio di una economia, e solo interventi che nedeterminino il livello (in aumento/diminuzione), prescindendo da variazioni della pro-duttività del capitale, possono accelerare o ritardare lo sviluppo.

4.2 Una rivisitazione della teoria del “ciclo vitale” di Modigliani e sua applicazione ad una economia a basso livello di sviluppo

Il livello della propensione al risparmio e del volume di reddito risparmiato in unaeconomia, in un determinato periodo è sempre stato ritenuto di estrema importanza nelquantificare il grado di sviluppo raggiungibile da un paese/regione.

J.M. Keynes considerava il risparmio come mero residuo derivante dalla scelta delsoggetto economico di quanto destinare al consumo del reddito percepito, e teorizzavauna relazione diretta tra incremento del reddito ed incremento del risparmio (Y=sY),anche se la quantificazione di tale relazione non risultava proporzionale.

Dallo studio delle serie storiche relative ai Paesi occidentali, però, tale incrementonon si registrava, nonostante l’aumento del livello del reddito.

Modigliani dette negli anni sessanta una brillante spiegazione della contraddizioneche si aveva tra l’ipotesi Keynesiana e la realtà economica. Egli elaborò una teoria del“ciclo vitale” secondo la quale i soggetti economici risparmiano durante la loro età lavo-rativa per disinvestire durante la vecchiaia44.

La formulazione di tale teoria ha vissuto due momenti fondamentali: il primo risaleall’elaborazione di un lavoro presentato nel 1958 nel quale si sosteneva che la domandadi beni di consumo dipende oltre che dal reddito corrente anche dal reddito futuro atte-so.Tale ipotesi risulta irrilevante quando la differenza tra i due redditi è tendente a zero,mentre al contrario essa è di estrema importanza in economie in fase di sviluppo.

Modigliani parte dalla considerazione che un individuo risparmi per preservarsi dafluttuazioni di reddito future e contro l’incapacità di produrre reddito durante la vec-chiaia, quindi egli fa le proprie scelte basandosi su un livello medio del reddito ritenutonormale. In una economia dove sia crescita del reddito che della popolazione siano rite-nute stazionarie, il risparmio netto ne risulterebbe nullo.

Al contrario, in una società progressiva, dove sia il reddito che la popolazione abbia-no degli incrementi netti positivi, vi sarà un risparmio netto positivo, dovuto sia al fattoche le classi che risparmiano, ossia quelle più giovani, sono più numerose di quelle anzia-

44 Per un approfondimentosui principali scritti scien-tifici di Franco Modiglia-ni: Modigliani, Reddito,Interesse e Inflazione,scritti scientifici raccoltida Tommaso e FiorellaPadoa-Schioppa, Einau-di, 1987, Torino.

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I fattori dello sviluppo regionale

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ne, sia perché, essendo il reddito previsto per la vecchiaia commisurato ad un redditomedio crescente, l’ammontare di reddito risparmiato sarà maggiore.

Il secondo momento della teoria del “ciclo vitale” è rappresentato da uno studio appar-so nel 196345, dove Modigliani riformulò parzialmente quanto ora detto, sostenendo che ilconsumo (e quindi il risparmio),dipende dall’insieme di risorse in possesso del soggetto eco-nomico e cioè: a) reddito corrente; b) ricchezza accumulata; c) reddito futuro atteso.

Dato che si presume che il reddito futuro atteso sia proporzionale al reddito corren-te, si può ritenere che il consumo dipenda solo dalle prime due grandezze (reddito cor-rente e ricchezza cumulata), potendo scrivere: Ct = Wt + cXt dove: W rappresenta laricchezza accumulata e c rappresenta l’influsso esercitato sul consumo dal reddito cor-rente e dal reddito atteso (Xt).

Dalle considerazioni fatte da Modigliani sul perché si possa avere un livello anzichéun altro del volume di risparmio presente in una economia, riferendoci al caso specificodi una economia regionale in fase di sviluppo come il Mezzogiorno d’Italia, riteniamoche le motivazioni addotte da Modigliani per spiegare il livello del risparmio in una eco-nomia nazionale o regionale che non sia fortemente sviluppata, presentano qualchepunto debole, nel senso che la teoria del “ciclo vitale” è valida a spiegare il livello dirisparmio quando si tratta di economie avanzate; al contrario presenta qualche problemadi tipo esplicativo quando l’analisi si sposta su realtà in fase di sviluppo.

Per dare una evidenza empirica alle nostre affermazioni daremo successivamentealcuni dati sull’andamento della popolazione e del risparmio nel Mezzogiorno confron-tandoli con quelli del Centro-Nord d’Italia e traendone alcune conclusioni.

La popolazione nel Mezzogiorno è passata dai 18 milioni 874mila unità del 1971 ai20 milioni 475mila del 2002 (Tab.8), passando dal 34 al 35,9% sulla popolazione totaleitaliana, contro una riduzione del peso delle regioni del Centro-Nord (65% nel 1971contro il 64% del 2002).

1971 1981 1991 2001

Centro-Nord

Mezzogiorno

Italia

35.262

18.874

54.137

36.504

20.053

56.557

36.241

20.537

56.778

36.054

20.251

56.306

2002

36.598

20.475

57.073Fonte: ISTAT

Tab. 8 - Andamento della popolazione (migliaia di unità)

45 Modigliani, F. (1963), The“Life Cycle” Hipothesisof Saving: Aggregate Im-plications and Test, in “American Economic Re-view”, vol. 53.

90

Giuseppe Capuano

Tale andamento ha portato ad un invecchiamento della popolazione italiana più forteal Centro-Nord che al Sud. Seguendo la teoria di Modigliani, il risparmio nelle regionimeridionali avrebbe dovuto avere un trend migliore rispetto al Centro-Nord. Invece, l’e-videnza empirica sembrerebbe confutare tale ipotesi: se al Nord la propensione al rispar-mio del sistema economico macroregionale, nell’ultimo decennio, è stata pari a circa il21%, nel Mezzogiorno risulta pari a circa il 17%. Inoltre, il risparmio delle regioni delCentro Nord nello stesso periodo è cresciuto del 23% contro il 19% del Sud.

1971 1981 1991 2000*

Più di 65 anni

Totale

Indice di vecchiaia

6.101.820

54.136.547

41,9

7.475.719

56.556.911

66,8

8.700.185

56.778.031

105,2

10.555.935

57.844.017

127,1

* Il dato non censuario relativo alla popolazione presenta una notevole differenza con quello presente nella tabella precedente(censuario, 2001) a causa delle diverse modalità di calcolo.

Fonte: ISTAT

ITALIA

1971 1981 1991 2000

Più di 65 anni

Totale

Indice di vecchiaia

n.d.

n.d.

n.d.

5.212.362

36.564.493

75,2

6.052.997

36.240.547

124,4

7.256.540

36.993.866

154,4

CENTRO-NORD

1971 1981 1991 2000

Più di 65 anni

Totale

Indice di vecchiaia

n.d.

n.d.

n.d.

2.263.357

19.992.418

44,2

2.647.188

20.537.484

63,9

3.299.395

20.850.151

91,5

MEZZOGIORNO

Tab. 9 - La popolazione italiana e l’indice di vecchiaia

91

I fattori dello sviluppo regionale

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A nostro avviso tale situazione è spiegabile con l’inserimento nel ragionamento teo-rico anche del concetto di “aspettativa” e di differenti tipologie di fonte di reddito.

Nel modello presentato da Modigliani una popolazione più giovane, è sinonimo dimaggiore produttività e maggiore occupazione, caratteristiche tipiche di una economiaaltamente sviluppata, con un relativo incremento del volume di reddito risparmiato. Alcontrario in una economia in fase di sviluppo, come quella del Mezzogiorno, una popo-lazione in crescita è una delle cause della maggiore disoccupazione (Tab. 10). L’alto livel-lo della disoccupazione meridionale produce una rilevante quota di redditi da trasferi-mento di vario genere (a volte integrate anche da redditi derivanti da “lavoro nero”), attia compensare il mancato reperimento di redditi da lavoro (Tab. 11).

Caratteristica di queste particolari fonti di reddito è che esse hanno una più bassapropensione media al risparmio dovuta sia all’esiguità dell’importo pro-capite dei sussi-di sia alla temporaneità della loro erogazione.

Partendo da questo assunto e ampliando il campo di applicazione della riflessione,noi sosteniamo che esistono non una ma n propensioni medie al risparmio quante sono le tipo-logie di fonti di reddito dalle quali è generata, in quanto i comportamenti umani sono diffe-

Reddito lavorodipendente

Reddito liberaprofessione

Reddito datrasferimento

Reddito dacapitale

Centro-Nord

Mezzogiorno

Italia

41,0

38,1

40,0

14,4

15,3

14,6

21,5

28,0

23,2

22,9

18,6

22,1

Totale

100,0

100,0

100,0Fonte: BANCA D’ITALIA

Tab. 11 - Struttura del reddito familiare (2000)

1981 1991 2001 2002

Centro-Nord

Mezzogiorno

Italia

7,2

13,9

9,2

6,5

19,9

10,9

5,0

19,3

9,5

4,7

18,3

9,0Fonte: ISTAT

Tab. 10 - Tasso di disoccupazione

92

Giuseppe Capuano

renziati in base alle caratteristiche, in termini di valore e durata, del reddito percepito e,soprattutto, di quello atteso.

Questa nostra conclusione si basa sui principi dettati dall’economia comportamentale edin particolare sul concetto di “contabilità mentale”, che unisce la scienza economica allapsicologia. Questa idea, sviluppata da Richard Thaler dell’Università di Chicago, sottoli-nea come uno degli errori più comuni e costosi legati al denaro, ovvero la tendenza avalutare il valore, ad esempio di un euro, minore di un altro euro a seconda della fontedi reddito e della sua quantità46.

Formalizzando una simile conclusione si può descrivere il fenomeno con la seguen-te equazione:

S/Y = Sj/Yj + Sn/Yn

dove:S/Y è la propensione media al risparmio totale;Sj/Yj è la propensione media al risparmio determinata da redditi da lavoro dipen-

dente/autonomo;Sn/Yn è la propensione media al risparmio determinata da altre fonti di reddito (in

particolare sussidi, trasferimenti, etc.);

Più le caratteristiche delle fonti di reddito si avvicinano a quelle da lavoro dipenden-te/autonomo (reddito costante nel tempo, adeguato almeno ai livelli minimi di settore,etc.) maggiore, a parità di condizioni, è la propensione media al risparmio (S/Y) di unaregione rispetto a quelle dove la composizione del reddito vede le fonti di reddito “nonpermanenti” o che si avvicinano alla “gratuità” (Sn/Yn), avere un peso più elevato.

Questa affermazione ben si sposa con un assunto già conosciuto nella letteratura eco-nomica con il quale si afferma che le regioni economiche con più basso livello di redditohanno una propensione al consumo (C/Y) più elevata rispetto a realtà a reddito più alto.

Altra componente che influenza la formazione del risparmio, sono le aspettativeriguardanti la possibilità di uno sviluppo accelerato o comunque con tassi di crescita piùelevati rispetto al resto del Paese. Esse sono mediamente peggiori perché basate su infor-mazioni di tipo storico che ne influenzano fortemente la formazione.

La differenza di segno delle aspettative tra una realtà regionale più ricca rispetto aduna più povera non è l’unica, in quanto, a parità del trend previsto, i comportamenti sonodiversi secondo il livello del reddito: in un paese avanzato economicamente, la presenza

46 Per un approfondimentosull’economia comporta-mentale: Belsky, G. andGilovich, T, (2003), Soldial vento, Etas.

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di aspettative negative favorisce il risparmio per far fronte ad una diminuzione in termi-ni reali del reddito futuro atteso con una conseguente contrazione dei consumi; in unaeconomia più debole avviene generalmente il contrario.

Infatti, in economie in fase di sviluppo, come possono essere considerate molte regio-ni del Mezzogiorno, le aspettative negative sulla crescita, coadiuvate da livelli di redditopro-capite medio-bassi e da particolari fonti di reddito (in particolare da trasferimenti,sussidi, etc.), portano ad una diminuzione della propensione media al risparmio del siste-ma o comunque ad un suo livello più basso rispetto ad una situazione di “ottimo pare-tiano” ed a un aumento dei consumi.

Altro aspetto riguarda la formazione del reddito futuro atteso. In una economia infase di sviluppo esso risulta essere indipendente rispetto al reddito corrente o comunquenon avere un forte legame. Ciò è in parte spiegabile in base all’esperienza storica deitrend di crescita del PIL. Lo sviluppo di una economia si manifesta quasi sempre per“balzi” e l’esempio del “boom” italiano nel periodo 1958-1963 o l’esempio dei Paesi dinuova industrializzazione ne sono una prova47.

Solo se la crescita è graduale e costante nel medio-lungo periodo (come quella sta-tunitense alla quale Modigliani fa riferimento), il reddito futuro atteso è proporzionale alreddito corrente. Ciò non accade per le motivazioni esposte in precedenza in quelle eco-nomie nazionali o regionali in fase di sviluppo/deboli. Per questo motivo uniformare ilreddito futuro atteso con quello corrente nella funzione al consumo è discutibile quan-do si analizza il livello del consumo in una economia del secondo tipo. Inoltre, anche lapropensione al consumo è condizionata, secondo le tesi esposte in precedenza, dalla fontidi reddito che lo generano.

Da ciò la funzione del consumo potrà essere scritta nella forma seguente:

1) C = Cr + Cf ;2) Cr = Cn + Cj;3) C = Cn + Cj + Cf ;

dove :Cr = reddito corrente;Cj è il consumo determinato da redditi da lavoro dipendente\autonomo;Cn è il consumo determinato di altre fonti di reddito;Cf è il consumo determinato dalle aspettative sul reddito futuro atteso.

94

Giuseppe Capuano

47 In questa direzione va an-che il modello econometri-co del Ministero del Tesoronel Piano di Sviluppo delMezzogiorno 2000-2006che, grazie all’input degli in-vestimenti generati daiFondi Strutturali, aveva pre-visto una crescita tanto ele-vata (5-6% annuo, tasso trevolte superiore alla crescitamedia registrata dal Mezzo-giorno nella seconda metàdegli anni novanta), da rias-sorbire in parte la disoccu-pazione meridionale e uncambiamento della struttu-ra sociale, in quanto il sotto-sviluppo del Sud non hacause solo economiche, masoprattutto culturali e politi-che; in pratica “crescita piùcambiamento” come affer-mava H. Singer (1975), Thestrategy of economic deve-lopment, Mac.Millan. Peruna critica ai risultati in ter-mini di tasso di crescita delmodello econometrico delMinistero del Tesoro: Ca-puano, G., Il ciclo di vita del-l’Osservatorio EconomicoLocale. Un approccio teori-co alla lettura delle dinami-che del territorio, W.P. Istitu-to Tagliacarne, n.27.00.

Considerando l’equazione del reddito in termini keynesiani ossia Y = C + S e andan-do a sostituire al secondo membro la funzione del consumo e al risparmio (modificatacon la componente determinata dalle aspettative) come da noi esposte ed integrate inprecedenza, avremo:

4) Y = (Cn + Cj + Cf) + (Sj + Sn + Sf)5) Y – Cn – Cj – Cf = (Sj + Sn + Sf)

L’equazione 2) può anche essere espressa in funzione del consumo totale introdu-cendo dei coefficienti che esprimono il rapporto tra il consumo derivante dalle altre fontidi reddito, da lavoro e dalle aspettative sul reddito futuro atteso.

Più elevato sarà il valore dei sussidi erogati (componente importante delle “altre fontidi reddito” in una realtà economica debole), maggiori saranno le aspettative negative neitermini spiegati precedentemente, più alti saranno i consumi, e di conseguenza più bassosarà il livello di reddito risparmiato.

In conclusione, la teoria del “ciclo vitale” può spiegare meglio il livello di risparmioin un paese economicamente avanzato, mentre la teoria del “ciclo vitale integrata” (comesi sintetizza nella 4), ci sembra più efficace nel tentare di spiegare la formazione delrisparmio in una regione in fase di sviluppo o a economia debole di un paese industria-lizzato come potrebbero essere alcune realtà regionali del nostro Mezzogiorno.

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5Debito pubblico,redistribuzionedel redditoe squilibriregionali

CA

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n questo ultimo capitolo si analizzerà un particolare aspetto di finanza pubblica,quale il finanziamento del deficit dello Stato attraverso il debito pubblico ecome quest’ultimo ha impattato sulla distribuzione del reddito e su come la suaformazione abbia contribuito agli squilibri regionali Nord-Sud.

Al centro della nostra analisi è lo studio delle dinamiche del debito pubblico nelperiodo compreso tra il 1975 ed il 1985 (anno in cui per la prima volta il debito pub-blico superò il valore complessivo del PIL), anni cruciali per la formazione del debitodello Stato sui livelli che ancora oggi conosciamo. La nostra tesi è che la forte crescita deldebito pubblico di quegli anni e il suo successivo mantenimento su livelli superiori al100% del PIL ha influito negativamente sulla riduzione degli squilibri Nord-Sud a tuttovantaggio delle regioni settentrionali del Paese.

L’analisi svolta è un evidente esempio di come fattori di natura palesemente macroe-conomica e di apparente neutralità sul livello mesoeconomico, hanno un impatto note-vole nella determinazione delle traiettorie dello sviluppo regionale.

5.1 Lo scenario economico di riferimento

Dalla fine degli anni ’50 gli Stati europei si sono dotati di un regime di protezione socia-le che non aveva precedenti nelle economie occidentali: il cosiddetto “Welfare State”.

L’impostazione macroeconomica che accompagnava la costituzione dello “Statosociale”, era prevalentemente Keynesiana e prevedeva un aumento dell’intervento delloStato nell’economia tramite l’incremento dei livelli di spesa.

I 99

La spesa pubblica doveva essere lo strumento di politica economica atto a sollecitarela crescita del PIL ed assumere il ruolo di ammortizzatore sociale nell’intento di elevareil tenore di vita dei soggetti economici con livelli di reddito medio-bassi.

In ogni caso questo tipo di intervento statale era l’espressione di una situazione con-giunturale che negli anni sessanta presentava alti tassi di crescita del PIL (in media 5-6%annuo) e forti incrementi dell’occupazione (aumento medio annuo dell’1-1,5%).

Il favorevole andamento ciclico subì una inversione di tendenza negli anni ’70.Le cause principali che portarono al mutamento dello scenario dell’economia inter-

nazionale le ritroviamo principalmente nell’aumento dei prezzi delle materie prime ali-mentari negli anni 1970-72 e nelle due crisi petrolifere (1973–1974 e 1978-1979) e intutti gli effetti a catena che da esse generarono.

Questo decennio fu caratterizzato (come i primi anni ’80) da una fenomeno scono-sciuto alle economie europee fino ad allora: la stagflazione, ossia un mix tra alti tassi d’in-flazione e elevata disoccupazione (Tab.1).

La presenza di questo fenomeno mise in discussione tutta l’impostazione Keynesiana,a cominciare dal ruolo svolto dallo Stato nell’economia a finire alla validità empirica della“curva di Phillips”48.

Nonostante lo scenario economico internazionale fosse cambiato radicalmente insenso negativo, si vollero mantenere gli stessi livelli di spesa, anzi essi aumentarono in ter-

Paese 1961-70 1971-80 1985Infl. Disoc. Infl. Disoc. Infl. Disoc.

Belgio 3.1 2.2 7.1 5.5 6.0 13.8Danimarca 5.8 1.1 10.1 3.8 4.2 9.1Germania 2.7 0.8 5.1 2.7 2.1 8.4Grecia 2.5 °*° 13.6 °*° 18.0 8.3Francia 4.3 0.9 9.5 3.8 5.8 10.7Irlanda 4.6 4.5 13.8 7.4 5.7 17.1Italia 3.8 5.2 14.6 6.0 8.6 12.6Lussemburgo 2.5 0.1 6.7 0.3 3.7 1.7Paesi Bassi 4.1 1.0 7.8 4.5 2.4 13.2Regno Unito 3.9 1.9 13.3 4.2 5.3 12.0

Fonte: Commissione Europea, Relazione Economica Annuale 1985-86

Tab. 12 - Inflazione e disoccupazione nell’Europa a 10

48 Per “curva di Phillips” siintende la relazione em-pirica rilevata dall’econo-mista inglese A.W.Philli-ps (1914-1975) tra varia-zione dei salari (successi-vamente trasformata daR.G.Lipsey in tasso di in-flazione) e livello della di-soccupazione in uno stu-dio sull’economia britan-nica apparso nel 1958.

100

Giuseppe Capuano

mini reali, passando nella Ue dal 37,9% del PIL nel 1970 al 51,5% del PIL nel 1985.Tale incremento portò inevitabilmente ad una crescita dei deficit nazionali. Ciò si

verificò in quanto se la spesa pubblica poteva essere agevolmente finanziata con prelieviobbligatori in anni di forte crescita, in un periodo in cui il tasso di crescita del PIL eradebole o addirittura negativo (1981-1983) l’equilibrio tra entrate e uscite degli Stativeniva a rompersi.

Altra caratteristica presente nella spesa pubblica negli anni settanta - ottanta è lamodificazione della sua struttura.

Se nel 1973 le spese in conto capitale rappresentavano mediamente il 4,1% del PIL,esse cadevano al 2,9% nel 1982, mentre le spese in conto corrente delle AmministrazioniPubbliche aumentavano, nello stesso periodo, dal 35% al 47% del PIL 49.

Tutto ciò andava contro gli stessi principi Keynesiani, ai quali essa si era ispirata, datoche, J.M. Keynes teorizzava che solo le spese per investimenti fossero finanziate in defi-cit e non certo, anche e soprattutto quelle per trasferimenti.

Non a caso, nella Ue, il deficit pubblico dal 3,1% del PIL nel 1971-80 passò al 5,7%nel 1982, per poi discendere al 5,2% del 1985, al 4,6% nel 1986 e al 4,4% nel 1987.

Ovviamente la situazione dei singoli Paesi Ue si presentava alquanto eterogenea (Tab.13): vi erano alcuni Paesi dove il deficit superava il 10% del PIL (Irlanda, Portogallo eItalia), altri in cui il saldo del bilancio statale era in attivo (Lussemburgo e Danimarca).Di conseguenza, quando si parla di media Ue in quel periodo, bisogna considerare lostato di eterogeneità in cui si presentavano le singole economie, situazione che, attraver-so il rispetto dei parametri di Maastricht, si è abbastanza modificata a favore di una mag-giore omogeneità.

Nonostante tutto, gli Stati europei hanno ancora oggi l’esigenza di contenere undeficit strutturale che comunque si è molto ridimensionato negli ultimi anni, in partico-lare in Italia (da alcuni anni il deficit di bilancio è al di sotto del 3% in termini di PIL).

49 M.Albert - R.J.Ball, Peruna ripresa dell’econo-mia europea negli anni’80, in Documenti di La-voro, Parlamento Euro-peo, 1983.

101

I fattori dello sviluppo regionale

Deb

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ri ...

5.2 La crescita del debito pubblico negli anni ottanta

La presenza di un elevato deficit di bilancio, a partire dalla fine degli anni settanta,determinò in Italia un forte aumento del debito pubblico.

Le alternative di finanziamento del debito possono essere generalmente le seguenti:a) espansione della base monetaria;b) aumento della pressione fiscale;c) ricorso al debito pubblico;d) prestiti esteri.

A riguardo della base monetaria la tentazione di far ricorso all’espansione degliaggregati monetari (M1; M2; M3) in quegli anni era molto forte. Essa si attuava princi-palmente tramite un processo di monetizzazione del debito pubblico. La Banca centralesottoscriveva dei titoli pubblici, rimpiazzando con un debito non remunerato (la mone-ta Banca centrale) i titoli di Stato con remunerazione reale.

Paese 1970 1973 1981 1982 1983 1984 1985 1986 1987

Belgio -2.2 -3.3 -12.6 -11.1 -11.7 -9.8 -9.3 -8.9 -8.1Danimarca 4.1 5.2 -7.1 -9.3 -7.3 -4.2 -1.9 2.4 3.2Germania 0.2 1.2 -3.9 -3.4 -2.5 -1.9 -1.1 -0.7 -0.3Grecia °*° °*° -10.6 -9.4 -8.9 -10.1 -13.9 -9.5 -6.4Spagna 0.7 1.1 -3.0 -5.8 -5.4 -5.0 -6.2 -5.1 -4.7Francia 0.9 0.9 -1.8 -2.5 -3.2 -2.9 -2.6 -2.4 -2.6Irlanda °*° °*° -15.8 -14.2 -11.8 -9.7 -11.4 -9.6 -9.Italia -3.5 -7.0 -11.7 -12.7 -12.4 -13.0 -14.0 -12.7 -12.8Lussemburgo 2.7 3.3 -2.3 -1.3 -0.8 1.5 4.2 3.7 2.6Olanda -1.2 1.0 -5.2 -7.1 -6.5 -6.3 -5.1 -5.2 -5.8Portogallo °*° °*° -10.1 -8.8 -7.1 -7.7 -11.1 -11.2 -11.2Regno Unito 3.0 -2.7 -2.7 -2.4 -3.7 -4.2 -3.1 -3.2 -2.9

UE a 12 0.3 1.0 -5.2 -5.7 -5.6 -5.4 -5.2 -4.6 -4.4

Fonte: Commissione Europea

Tab. 13 - Evoluzione del deficit del bilancio dello Stato (in % del PIL)

102

Giuseppe Capuano

Infatti, in uno studio dell’OCSE 50 si dimostrava che, anche se non vi era una rela-zione diretta e proporzionale tra crescita del deficit pubblico e base monetaria, esistevanegli anni ’70 un preciso rapporto causa-effetto (Tab. 14).

Ma la spinta a finanziare il deficit tramite l’aumento della base monetaria dovevarientrare per problemi di natura inflazionistica, che portarono i governi europei ad appli-care una politica monetaria restrittiva con un aumento dei tassi d’interesse, che seguen-do a ruota la crescita dell’inflazione, aumentavano il costo medio del debito.

Se si fosse seguita all’infinito tale politica, la crescita del PIL nominale sarebbe statanecessariamente maggiore, con un tasso di inflazione costantemente accelerato, superio-re ai tassi d’interesse pagati per il debito corrente, ottenendo la riduzione del debito pub-blico, del deficit e dell’onere sul debito in termini di PIL, operando anche la possibilitàdi far aumentare la spesa.

Di conseguenza negli anni ’80 si conobbe una situazione economica in cui la poli-tica di spesa risultava espansiva e la politica monetaria restrittiva. Il risultato fu l’annulla-mento dei reciproci effetti, dove gli incrementi di produzione e domanda interna messiin essere dalla politica di bilancio espansiva, furono quasi totalmente frenati dall’aumen-to dei tassi d’interesse51.

Per quanto riguarda la pressione fiscale, in quel periodo aumentò fortemente, limi-tando i margini di manovra negli anni successivi, portando la pressione fiscale in Europaai livelli poi conosciuti anche negli anni novanta52.

Paese 1970 1975 1982

USA 5.9 10.2 12.2Giappone 16.9 14.5 7.6Germania Fed. 8.9 11.5 6.9Francia 15.0 15.7 11.3Gran Bretagna 9.4 7.1 11.4Italia 14.9 15.7 17.5Belgio 8.1 15.3 7.7Danimarca 4.8 27.0 11.1

Fonte: FMI, Statistiques Financières Internationales, 1983.

Tab. 14 - Espansione monetaria in alcuni Paesi occidentali (in %)

I fattori dello sviluppo regionale

50 P. Atkinson - A. BlundellWignall, Financement dudéficit budgétaire et con-trole monétaire; R. Price,Déficit du secteur public:problémes et implicationem matiére de politique;i due lavori sono stati pre-sentati dall’OCSE nel1983.

51 M. J. de Larosiére, Les ré-centes augmentationsde la dette pubbliquemenacent la reprise éco-nomique, in Bulletin delFMI del 10 settembre1984.

52 Già C. Clark affermavache una pressione fiscaledel 25% poteva provoca-re fenomeni inflazionisticimentre J.M. Keynespreannunciava la rivolu-zione se tale pressioneavesse superato il 50%.

Mediamente nei paesi della CEE, nel 1984, essa era pari al 46,4%, per assestarsi suquesti valori sia nel 1985 (46,3%) che nel 1986 (46%).Anche in questo caso la situazio-ne nell’Unione Europea si presentava eterogenea: in Danimarca e Olanda la pressionefiscale era pari al 55%, in Italia al 48%, in Germania al 46%, in Francia al 45%, in GranBretagna al 41%, in Grecia al 25%, e in Spagna al 26,3%.

In ogni caso, per ragioni di ordine economico-sociale e per il livello della spesa pub-blica, interventi sul volume delle entrate, sia in aumento che in diminuzione, erano tec-nicamente improponibili se non si fossero verificati mutamenti sia qualitativi che quan-titativi del bilancio degli Stati membri.

Secondo l’annuale relazione della Banca centrale spagnola del 1986, una soluzioneduratura del deficit pubblico doveva basarsi sulla riduzione della spesa pubblica, in quan-to, come confermava l’esperienza maturata, gli intenti di risolvere il problema con unaumento delle entrate, senza ridurre la spesa, finiscono spesso per creare una situazionenella quale il maggior volume di introiti fiscali finanzia un livello superiore di spesa.

A questo proposito, è rilevante ai fini del nostro lavoro sottolineare la composizionedi alcune voci delle entrate dei vari Stati Ue nel periodo 1970 - 1985. Se le imposte indi-rette rappresentavano un peso alquanto invariato in termini di PIL tra il 1970 ed il 1985(anzi una leggera diminuzione), le imposte dirette crebbero dal 10,3% del 1970 al 13,2%del 1985 (Tab. 15).

Questi dati confermano l’ipotesi che i redditi da lavoro dipendente erano quelli chemaggiormente subirono l’aumento della pressione fiscale sia per far fronte agli aumentidella spesa pubblica sia, come vedremo successivamente, per l’aumento dell’onere degliinteressi sul debito pubblico. E cosa più preoccupante è che l’andamento della strutturaproduttiva europea, a partire da quel periodo, si indirizzò sempre più ad aumentare il pesodel lavoro autonomo sul totale, a discapito del lavoro dipendente, con la conseguenza di

1970 1982 1985

Imposte indirette 13.9 13.5 13.8Imposte dirette 10.3 13.0 13.2

Fonte: EUROSTAT

Tab. 15 - Struttura delle entrate della UE (in % del PIL)

104

Giuseppe Capuano

concentrare in maniera crescente la pressione fiscale su un numero decrescente di con-tribuenti.

Questo dato è ancora più rilevante se lo commisuriamo all’aumento pro-capite deiredditi da lavoro dipendente nei singoli Paesi Ue nel triennio 1983 - 85.

Dalla Tabella 5 si nota che in termini reali i redditi da lavoro dipendente pro-capitecrebbero di poco tra il 1983 ed il 1985, anzi in alcuni Paesi (come ad esempio inDanimarca e Olanda), subirono un decremento. Al contrario, le imposte dirette si atte-starono su incrementi reali consistenti in tutti i Paesi (ad accezione dell’Olanda e dellaFrancia nel 1985) o, in molti casi, si registrò un aumento più che proporzionale delleimposte dirette sulla crescita conseguita dai redditi del lavoro dipendente. Gli unici Paesidove l’aumento dei redditi da lavoro dipendente crebbero maggiormente sia rispetto alleimposte dirette che all’inflazione furono l’Italia, la Francia e l’Irlanda (1985), anche se ilnostro Paese nel 1983 fece registrare il più alto incremento delle imposte dirette(+25,2%) nella Comunità Europea di allora.

Quanto rilevato ci sarà di estrema utilità per le conclusioni di questo breve saggio.In riferimento ai punti c) e d) se si considera modesto il finanziamento della spesa

pubblica italiana tramite i prestiti esteri (è il caso ad esempio della Germania), non ci

Paese 1983 1985RDL ID infl. RDL ID infl.

Belgio 6.7 1.9 7.5 5.7 7.4 4.9Danimarca 6.4 13.3 7.1 3.7 9.5 4.2Germania 3.9 3.6 3.2 3.2 6.3 2.1Grecia 19.7 17.6 19.5 19.0 23.2 18.0Francia 10.9 11.9 9.4 5.9 4.6 5.8Irlanda 19.3 15.1 8.3 7.0 6.8 5.7Italia 16.0 25.2 14.9 10.2 8.9 8.6Lussemburgo 6.6 18.6 9.1 4.9 6.1 3.7Paesi Bassi 3.4 -2.4 2.8 1.4 0.1 2.4Regno Unito 8.7 6.6 5.2 7.7 8.6 5.3

CEE 10.1 11.1 8.7 6.8 8.1 6.0

Fonte: elaborazione propria su dati EUROSTAT

Tab. 16 - Redditi da lavoro dipendente (RDL), imposte dirette (ID), tasso di inflazione (infl.) (var.%)

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rimane che analizzare il ricorso al debito pubblico, che è stato lo strumento di politica dibilancio maggiormente utilizzato fino ad oggi.

Infatti, tra il 1975 ed il 1986 il valore del debito pubblico in percentuale al prodottointerno lordo italiano crebbe enormemente, superando nel 1985 la “barriera” del 100%in termini di PIL (tab. 17), fino a raggiungere nel 1994 il suo valore più alto (il valore deldebito pubblico italiano raggiunse in quell’anno il 124,9% del PIL).

Anche in altri Paesi europei tale percentuale superò in quegli anni il valore del pro-dotto interno lordo (oltre all’Italia, anche Belgio e Irlanda), mentre in altri subì un incre-mento molto forte (Danimarca).

Una delle ragioni di questo processo indiscriminato di crescita lo si deve alla sotto-valutazione per molto tempo del problema, in quanto l’accelerazione dell’inflazione (inquel periodo a “due cifre”), con la caduta dei tassi d’interesse reali, provocò l’effetto diridurre temporaneamente il livello del debito pubblico sul reddito nazionale.

Paese 1973 1981 1982 1983 1984 1985 1993 1994 1995

Belgio 63.2 88.1 96.1 105.1 111.6 118.3 135.2 133.5 131.3Danimarca 5.0 43.6 52.7 62.7 67.6 66.3 81.6 78.1 73.3Germania 18.6 36.4 39.5 41.7 42.0 42.7 48.0 50.2 58.0Grecia °*° 33.0 36.7 41.4 49.9 56.8 111.6 109.3 110.1Spagna °*° 21.0 26.2 32.1 39.3 46.3 60.0 62.6 65.5Francia 25.1 26.0 29.1 30.7 29.3 31.8 45.3 48.5 52.7Irlanda 65.5 89.8 96.6 107.7 113.6 115.7 96.3 89.1 82.3Italia 62.5 73.2 80.0 87.6 94.5 103.0 119.1 124.9 124.2Lussemburgo 20.5 14.0 14.4 14.8 14.8 14.5 6.1 5.7 5.9Olanda 43.4 50.3 55.6 62.3 67.0 70.6 81.2 77.9 79.1Portogallo °*° 59.0 62.2 70.9 75.7 81.2 63.1 63.8 65.9Regno Unito 63.3 51.1 57.7 57.4 58.7 56.9 48.5 50.5 53.9

UE a 12 40.35 44.9 49.8 53.4 56.0 58.9 65.9* 68.0* 71.0*

Fonte: Commissione Europea

(*) I valori relativi agli anni 1993, 1994 e 1995 sono il risultato di una media considerando l’Ue a 15 e non a 12.

Tab. 17 - L’indebitamento pubblico in Europa (in % del PIL)

106

Giuseppe Capuano

D’altro canto il forte incremento dei tassi di crescita degli anni ’60 e inizio anni ’70aveva fatto pensare, erroneamente, che tale crescita potesse persistere all’infinito e per-mettere di finanziare senza problemi il debito pubblico.

Ciò si spiega col fatto che quando il tasso di crescita del PIL è elevato il valore deldeficit pubblico diminuisce (effetto combinato di maggiori entrate fiscali e minori speseassistenziali) facendo decrescere anche il valore del debito dello Stato in termini del PIL.

La situazione è molto differente quando la crescita dell’economia è debole, i deficitsono alti e i tassi d’interesse reali tendono a crescere. Questa ipotesi rispecchia fedelmentela reale situazione economica verificatasi nella Ue nei primi anni ottanta, con il risultato diaccrescere sia il debito pubblico che l’onere degli interessi pagato dallo Stato sullo stesso.

5.3 L’impatto del debito pubblico sulla redistribuzione del reddito

Dopo la descrizione dello scenario di riferimento nel quale si è determinata lacrescita del debito pubblico tra il 1975 ed il 1985, arriviamo alla formulazione dellaprima tesi sostenuta in questo capitolo: il debito pubblico ha determinato un effetto redi-stributivo del reddito.

Già nel XIX secolo alcuni economisti si ponevano il problema del deficit dello Stato ese fosse irrilevante finanziarlo con ulteriori imposte o facendo ricorso al debito pubblico.

Davide Ricardo, in un primo momento, sosteneva la tesi “dell’equivalenza” per poidisconoscerla successivamente dicendo che se le imposte riducono i consumi, il debitoriduce il risparmio e se nel breve periodo esso ha un effetto espansivo sull’economiarispetto alle imposte, nel lungo periodo provoca delle strozzature nell’accumulazione delcapitale53.

Altri economisti, rifacendosi alla prima tesi di Ricardo, ritengono che il debito pub-blico non provochi un “effetto ricchezza” ma che esso crei un “effetto zero” per l’interacollettività, con un processo di traslazione del debito tra una generazione e l’altra54, men-tre altri ancora sono di opinione nettamente contraria55. In questo ultimo filone si poneil nostro lavoro, dove si tenta di dimostrare che il debito pubblico favorisce una redistri-buzione del reddito all’interno del Paese, quindi esso è un fenomeno che produce effet-ti netti e non nulli.

La nostra tesi si basa sul fatto che i soggetti che sono titolari di titoli di Stato e chequindi usufruiscono del pagamento degli interessi, sono differenti e numericamente

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53 D. Ricardo, On the Princi-pales of Political Eco-nomy and Taxation, in J.R. Mc Culloch, The Worksof Davide Ricardo, Cam-bridge, 1951.

54 R. Barro, Are Governe-ment Bonds Real Wealthin Journal of PoliticalEconomy, nov. dic. 1984,pp. 1095-1117.

55 W. Buiter - J. Tobin, DEBTNeutraly: A Brief Reviewof Doctrine and Eviden-ce, in Social Security vs.Private Saving, a cura diG.von Fustemberg, Cam-bridge (Mass), 1980, pp.39-63.

meno numerosi rispetto a coloro sui quali grava il maggior peso della pressione fiscale: ilavoratori dipendenti (vedere paragrafo precedente).

Con questo non si vuol dire che i lavoratori dipendenti non posseggono titoli di Stato,ma che la percezione degli interessi sui titoli da loro posseduti li compensa solo in parte delleimposte pagate allo Stato per far fronte al maggiore onere in conto interessi. Onere che trail 1975 e il 1985 in molti Paesi Ue, assunse un peso rilevante sul valore del PIL (tab. 18).

Per questi motivi non siamo d’accordo con chi sostiene che “i debiti di una nazionesono debiti che la mano destra deve alla mano sinistra, senza indebolire il corpo sociale56

ma siamo più vicini alle posizioni di Antonio de Viti De Marco57, E. F. Schumacher58 e W.H. Beveridge59 e più in generale alla visione dei Post Keynesiani della stratificazionesociale sostenendo che: se per lo Stato il debito pubblico può rappresentare una “partitadi giro” certamente non lo è per l’intera collettività, in quanto aumenta i redditi di alcu-ni cittadini nella stessa misura in cui le imposte necessarie al servizio del debito dimi-nuiscono quelle degli altri e tale situazione diventa un grave ostacolo per una qualsiasipolitica basata sull’eliminazione degli squilibri economico-sociali tendente a ridurre le

Paese 1973 1981 1982 1983 1984 1985 1993 1994 1995

Belgio 63.2 88.1 96.1 105.1 111.6 118.3 135.2 133.5 131.3Danimarca 5.0 43.6 52.7 62.7 67.6 66.3 81.6 78.1 73.3Germania 18.6 36.4 39.5 41.7 42.0 42.7 48.0 50.2 58.0Grecia °*° 33.0 36.7 41.4 49.9 56.8 111.6 109.3 110.1Spagna °*° 21.0 26.2 32.1 39.3 46.3 60.0 62.6 65.5Francia 25.1 26.0 29.1 30.7 29.3 31.8 45.3 48.5 52.7Irlanda 65.5 89.8 96.6 107.7 113.6 115.7 96.3 89.1 82.3Italia 62.5 73.2 80.0 87.6 94.5 103.0 119.1 124.9 124.2Lussemburgo 20.5 14.0 14.4 14.8 14.8 14.5 6.1 5.7 5.9Olanda 43.4 50.3 55.6 62.3 67.0 70.6 81.2 77.9 79.1Portogallo °*° 59.0 62.2 70.9 75.7 81.2 63.1 63.8 65.9Regno Unito 63.3 51.1 57.7 57.4 58.7 56.9 48.5 50.5 53.9

UE a 12 40.35 44.9 49.8 53.4 56.0 58.9 65.9* 68.0* 71.0*

Fonte: Commissione Europea

(*) I valori relativi agli anni 1993, 1994 e 1995 sono il risultato di una media considerando l’Ue a 15 e non a 12.

Tab. 18 - Valore dell’onere degli interessi sul debito pubblico in rapporto al PIL (%)

56 J.F. Melon, Essai politi-que sur le commerce,1791, pag.296.

57 A. De Viti De Marco, Prin-cipi di Economia Finanzia-ria, Torino, 1961, pag. 402.

58 E.F. Schumacher, La fi-nanza pubblica e il suorapporto con la piena oc-cupazione, in AA.VV., L'e-conomia della piena oc-cupazione, Torino, 1979,pag. 138.

59 W. H. Beveridge, Full Em-ployment in a Free So-ciety, London, 1948, pag.201.

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Giuseppe Capuano

disuguaglianze nella distribuzione dei redditi.I dati in nostro possesso riferiti ai possessori di titoli di Stato di alcuni Paesi europei e degli

Stati Uniti d’America nella metà degli anni ottanta confermano questa linea di pensiero.Infatti, nella tabella 8, si riscontra che tra i detentori di titoli pubblici le “famiglie”

non superano mai la soglia del 50% del totale dei titoli emessi.Al contrario, come in Italia(42%), Germania (40%), e USA (27%), il settore famiglie, in quel periodo, aveva una per-centuale di detenzione di titoli pubblici molto più piccola.Anche in Spagna si ha lo stes-so fenomeno, dove le famiglie, pur essendo conteggiate insieme alle imprese non finan-ziarie, che generalmente detengono titoli di Stato per valori intorno al 5-10%, registra-no il 43% del totale di obbligazioni pubbliche emesse.

Inoltre, bisogna puntualizzare che, in alcune contabilità nazionali, come quella italia-na, nella voce “famiglie” si comprendono anche piccole imprese artigiane e industriali enaturalmente anche tutti quei soggetti economici che percepiscono il proprio redditocon un lavoro autonomo. Questi ultimi, nell’aggregato, sono proprio i detentori dei red-diti più alti che maggiormente risultano possessori di titoli di Stato.

Se la realtà italiana rappresenta il caso più evidente di questo fenomeno, dalle tabel-le mostrate in precedenza riteniamo che la maggior parte dei Paesi Ue sia interessataall’”effetto redistributivo” dovuto all’espansione del debito pubblico. Lo stesso LordBeveridge, il padre del “Welfare State” britannico, già negli anni ‘40 paventava qualchepreoccupazione a questo proposito.

Tale tesi è sostenuta dal fatto che sono i redditi medio-alti ad avere una propensioneal risparmio maggiore e quindi con crescenti possibilità di allocare il proprio risparmioanche e soprattutto in periodi di stagnazione economica, nell’acquisto di titoli di Stato.

(1984) Italia Belgio Danimarca Spagna USA

Famiglie 42 64* 40 43* 27Altri 58 36 60 57 73

di cui: Banche 53 28 33 42 43Assicurazioni 1 8 8 11 23Imprese ind. 4 - 5 - 0.5

* In questi Paesi il dato è comprensivo anche della quota spettante alle imprese (Spagna) e altri (Belgio)

Fonte: elaborazione propria su dati BankItalia e OCSE (1985)

Tab. 19 - Detentori di Titoli di Stato in alcuni Paesi occidentali (in %)

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Anche la Commissione Ue nella relazione economica annuale 1985-1986 riconob-be una simile eventualità dicendo testualmente:“non è escluso poi che sorgano proble-mi di distribuzione del reddito tra titolari di obbligazioni e i lavoratori dipendenti”60. Inpratica, il valore degli interessi, pagato tramite la tassazione, viene trasferito da coloro cheli pagano a coloro che li ricevono, dal contribuente allo Stato, al creditore verso lo Stato.

(ID)

(RLD)

(Infl.)

Graf. 4 - Evoluzione grafica del reddito da lavoro dipendente (RDL), imposte dirette (ID), inflazio-ne (Infl.) (media UE a 10)

1975 1978 1982 1984 1985

DepositiImprese 21.0 19.9 20.7 20.8 20.1Famiglie 72.6 71.9 74.5 74.8 75.6Altri (P.A.) 6.4 8.2 4.8 4.4 4.3

100.0 100.0 100.0 100.0 100.0

ImpieghiImprese 79.0 85.6 83.5 83.4 84.5Famiglie 8.0 8.9 11.5 11.1 12.1Altri (P.A.) 13.0 5.5 5.0 5.5 3.4

100.0 100.0 100.0 100.0 100.0

Fonte: Banca d’Italia

Tab. 20 - Depositi e impieghi per categorie (in %)

60 Commissione Europea,Relazione EconomicaAnnuale 1985-86, Bruxel-les, nov. 1985, pag. 63.

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Giuseppe Capuano

Fonte: Commissione UE

1974 1978 1982 1984 1985

Titoli di Stato 32.9 53.6 60.0 65.5 67.5Titoli di altri emittenti 67.1 46.4 40.0 34.5 32.5

100.0 100.0 100.0 100.0 100.0

Fonte: Banca d’Italia

Tab. 21 - Investimenti in titoli (in %)

(Debito Pubblico)

(Onere interessi)

Graf. 5 - Evoluzione grafica del debito pubblico e l’onere per interessi sul debito pubblico (in % del Pil, media UE a 10)

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Fonte: Commissione UE

In realtà, il contribuente, in parte è ricambiato delle imposte da lui pagate con i ser-vizi pubblici, ma questi ultimi sia per l’inefficienza presente nell’amministrazione statale,sia per la cattiva allocazione delle risorse pubbliche, certamente è compensato in manie-ra meno che proporzionale.

Di conseguenza, l’abnorme crescita del debito pubblico ha favorito la formazione dei“rentiers” da interessi sui titoli di Stato a tutto discapito dei lavoratori dipendenti, arri-vando al paradosso che se l’intervento dello Stato nell’economia e la creazione del“Welfare State” era destinato a regolare le forze del mercato dirigendole verso una piùequilibrata distribuzione della ricchezza nazionale, la degenerazione del ruolo dello Stato,da strumento equilibratore a “Stato assistenziale”, portò a favorire i “rentiers” a tuttodiscapito delle classi medio-basse.

1974 1978 1982 1984 1985

Tassi sui prestiti in Lit. 14.31 16.86 23.08 19.07 17.51Tassi lordi sui depositi 8.06 10.66 15.03 12.93 11.66Differenza 6.25 6.20 8.05 6.14 5.85

Tassi impieghi int. Lit. n.d. 18.90 26.60 22.30 20.30Tassi raccolta int. Lit. n.d. 9.40 13.20 11.90 10.80

- 9.50 13.40 10.40 9.50

Fonte: Banca d’Italia - Relazione annuale 1985 - Tav.AD 14

(1) Sui depositi - solo per quelli superiori a 20 milioni di lire.(2) Sui prestiti - solo per quelli superiori a 30 milioni di lire fino al 1979, 50 milioni di lire dal 1980 al 1983, 80 milioni di lire dal 1984.

Calcolati su depositi e impieghicensiti dalla Centrale Rischi (1)

Rendimenti a costi unitari stimati dalla Banca d’Italia (2)

Tab. 22 - Differenziali dei tassi

112

Giuseppe Capuano

5.4 L’impatto del debito pubblico sugli squilibri regionali

Nella presente sezione esamineremo la seconda tesi sostenuta nel capitolo: la crescitadell’indebitamento dello Stato ha favorito l’aumento degli squilibri regionali in Italia.

Il nostro ragionamento parte dai dati presenti nella tabella 8: il settore bancario èquello che maggiormente detiene titoli di Stato negli anni ottanta.

Per quanto riguarda le imprese e le società di assicurazioni, in tutti i Paesi rappresen-tano valori non trascurabili sul totale.

Questi dati mettono in evidenza un aspetto del problema molto interessante.La maggior parte delle aziende creditizie, industriali e assicurative hanno i loro cen-

tri decisionali generalmente in quelle aree che presentano maggiori caratteristiche didinamicità economica (ad esempio la Lombardia in Italia oppure la Catalogna in Spagna,etc.) specialmente in quei Paesi dove i problemi regionali sono più gravi e accentuati. Unfenomeno che si è molto stressato negli ultimi anni, con la “scomparsa” del sistema cre-ditizio meridionale.61

Di conseguenza, la maggior parte degli interessi percepiti dalle aziende di credito rap-presentano un flusso di reddito aggiuntivo verso le regioni più sviluppate che va adaggiungersi ai flussi di reddito percepiti dai detentori di titoli di Stato residenti nelleregioni medesime.

Considerando l’entità del fenomeno, potremmo ritenere che esso ha contribuito cer-tamente negli ultimi anni ad aumentare gli squilibri regionali in Italia e all’interno dellastessa Ue.

In questo caso ritroviamo che, in base a politiche regionali basate sull’afflusso di spesapubblica in regioni dove la propensione al consumo è maggiore62 (generalmente quellemeno sviluppate) per favorire la diminuzione degli squilibri regionali, le stesse hannoportato, tra i molti effetti positivi anche alcuni negativi.Tra questi si possono considera-re i trasferimenti di ingenti flussi di redditi supplementari alle regioni a crescita superio-re in virtù del pagamento dell’onere degli interessi sul debito pubblico, con la conse-guenza che se tali politiche dovevano favorire le aree più deboli, con il ricorso al debitopubblico per coprire il fabbisogno dello Stato, si è prodotto un effetto di ritorno a tuttovantaggio delle regioni più forti.

Si pensi, ad esempio, che in Italia, nel 1985, lo Stato ha pagato per l’onere degli inte-ressi sul debito pubblico 46.6 miliardi di euro di cui 27.9 miliardi di euro sono andatialle aziende creditizie e non, e che il nuovo piano per lo sviluppo del Mezzogiorno del-l’epoca prevedeva uno stanziamento in 9 anni di 62mild di euro pari a 6,9mild di euro

113

I fattori dello sviluppo regionale

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61 Nel 1990 le banche consede legale nel Mezzo-giorno erano pari a 313contro le 168 del 2001.Nello stesso periodo lefusioni/acquisizioni ge-stite da banche del Norde che hanno interessatole banche del Sud sonostate 219. Su questo ar-gomento: Istituto Taglia-carne, Le dinamiche cre-ditizie a livello provincia-le, Collana “Le Ricer-che”, giugno 2003.

62 H. Richardson, EconomiaRegionale, Bologna,1970.

all’anno, ossia circa il 25% di ciò che le aziende finanziarie e non, percepivano per il pos-sesso di titoli di Stato in un solo anno.

In conclusione, il forte accrescersi del debito pubblico, nel periodo 1975-1985, èstato uno dei fattori che ha contribuito all’accentuazione/mancata riduzione degli squi-libri economici, sia dal punto di vista della distribuzione dei redditi, provocando un anda-mento a tutto vantaggio delle fasce di reddito più elevate, sia dal punto di vista delladiminuzione degli squilibri regionali, accentuandoli a tutto favore delle regioni più ric-che, tramite un flusso aggiuntivo di reddito.

La conclusione di policy che si trae dal nostro ragionamento è che una sana politicache tenda a ridurre le differenze a livello sociale e regionale deve assolutamente include-re nel suo programma la riduzione del debito pubblico che altrimenti, in particolare inquei periodi dove esistono degli alti tassi d’inflazione, determina una divaricazione a for-bice tra percettori di reddito da lavoro dipendente e regioni deboli da un lato, e percet-tori di reddito da lavoro autonomo e da capitale e regioni forti dall’altro, a tutto vantag-gio dei secondi.

Questo particolare aspetto del problema, determinato dall’aggravarsi della situazionedebitoria dello Stato nei confronti dei privati, non sempre viene rilevato quando si ana-lizzano gli effetti che un crescente debito pubblico ha sull’economia.

Spesso le analisi economiche si soffermano sull’accrescimento che il debito pubblicoesercita sul livello della pressione fiscale (in particolar modo gli economisti di scuolamonetarista), o sulla struttura dell’imposizione, che tende a gravare maggiormente suiredditi da lavoro dipendente (economisti di scuola keynesiana).

Oppure, si cerca di mettere in evidenza i vantaggi che un minore livello del debitodello Stato conferisce ad una economia, sia in termini di allocazione del risparmio pri-vato, sia sul livello degli investimenti (essendo la pressione fiscale minore e il livello deitassi d’interesse più bassi, gli investimenti produttivi sono incentivati)63.

63 Sull'influenza esercitatasui tassi d'interesse daldebito pubblico e quindisugli investimenti si vedala "teoria dello spiazza-mento" ad opera della"scuola di St. Louis". A ri-guardo degli effetti sul ri-sparmio si veda il lavorodi J.E. Meade, Is the Na-tional Debt a Burden?, inOxford Economic Pa-pers, giugno 1958.

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5.5 Conclusioni

Dopo circa dieci anni dal momento in cui l’Italia raggiunse il più alto valore deldebito pubblico (1994 = 124,9%) e dopo diciotto anni dal momento che il debito pub-blico superò per la prima volta la barriera del 100% in termini di PIL (1985 = 103%) enonostante gli sforzi realizzati per rispettare i parametri di Maastricht (il parametro rela-tivo al debito pubblico è pari al 60% del PIL), al 2003, il valore del debito è fermo al106,2 in termini di PIL, con una stima per il 2005 pari al 102,6% e una previsione diconseguimento dell’obiettivo europeo solo nel 2013. Un risultato che sarà raggiunto conestrema difficoltà se i livelli di deficit pubblico rimarranno superiori al 2% in termini diPIL (valore medio dell’ultimo triennio) e soprattutto se l’avanzo primario (differenza traentrate e uscite), dai valori positivi del 5,5% del PIL della fine degli anni novanta, è scesoal 2,6% nel 2003, con una stima per il 2004 pari al 2,5% del PIL.

Ciò è ancora più importante se consideriamo che la spesa per interessi in valore delPIL si è assestata intorno al 5% e che difficilmente, considerati gli attuali livelli dei tassidi interesse, potrà migliorare.

Se tutto ciò è vero, molto probabilmente le “colpe” dei padri ricadranno nel prossi-mo futuro sui figli e gli squilibri regionali Nord-Sud, fermo restando la struttura pro-prietaria dei titoli di Stato, avranno maggiore difficoltà a ridursi. 115

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