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Nato il 16 luglio 1904 a Ixelles (Bruxelles), il piccolo Lèon Joseph a soli
quattro anni perde il padre e viene cresciuto con grandi sacrifici dalla
madre, aiutata dallo zio sacerdote.
Frequentata la scuola dei Padri Maristi di Schaerbeek, nel 1929 entra nel
seminario di Malines dal quale è inviato per gli studi a Roma, come
alunno del Collegio Belga e dell’Università Gregoriana, dove ottiene il
dottorato in filosofia e in teologia (1927) e il diploma in diritto canonico
(1929).
Tra i suoi maestri si contano almeno tre figure che segnano la storia della
Chiesa belga (e non solo) del XX secolo:
a) il card. Mercier, pioniere dell’ecumenismo e animatore delle
«conversazioni di Malines» durante le quali dal 1921 al 1926 si
incontrarono teologi cattolici e anglicani;
b) dom Beauduin, fondatore dell’abbazia di Chevetogne e figura di spicco
del movimento liturgico;
c) padre Lebbe, delle Missioni Estere di Parigi, tra i primi a far conoscere
all’Europa cristiana del XX secolo la complessa realtà cinese.
Il 4 settembre 1927, Suenens è ordinato prete dal
card. van Roey e destinato all’insegnamento di
filosofia morale e di epistemologia al seminario di
Malines, dove rimane fino al 1940, anno in cui la
guerra coinvolge anche il Belgio.
Per tre mesi è cappellano militare nel sud della
Francia, finché non diventa vice-rettore
dell’Università di Lovanio, dalla quale proverranno
molti protagonisti del Concilio.
Qui durante la guerra fonda un circolo di scambi
teologici al quale partecipano, tra gli altri, Cerfaux,
Moeller, e Philips.
In questo periodo pubblica vari articoli sul
rinnovamento ecclesiale, liturgico ed ecumenico.
Nel 1943 subentra al rettore dell’università,
arrestato dai nazisti; anche il suo nome viene
incluso in un elenco di 30 soggetti da eliminare, ma
le forze alleate giungono prima che questo accada.
Il 16 dicembre 1945, monsignor Suenens viene
consacrato vescovo ausiliare di Malines, dove ha
esercita per 15 anni l’incarico di vicario generale.
Una delle sue opere edite in questi anni, L’Église in
état de mission, è tradotta in italiano con la prefazione
di mons. Montini.
Nel 1961 è nominato arcivescovo di Malines, che
ridefinisce i suoi confini e diventa Malines-Bruxelles;
come motto episcopale sceglie: «Nello Spirito Santo e
in Maria»:
«Il mio motto – “Nello Spirito santo e in Maria” –
acquistava crescente importanza. Nel cuore del Credo
professiamo che Gesù “è nato dallo Spirito Santo e da
Maria”. Non è un passato che ormai non ci appartiene
più: dobbiamo perpetuare il mistero nella Chiesa, in
ogni tempo, e non dissociare mai la Chiesa
istituzionale dalla Chiesa carismatica, due aspetti
della medesima realtà».
I vescovi e i teologi belgi hanno esercitato un influsso decisivo nell’impostazione del
Concilio, tanto che per scherzo ci si riferiva a loro chiamandoli quelli del “Lovaniense
secundum”. Suenens ne parla così:
«Nessuno ha mai dubitato della fedeltà a Roma della Chiesa del Belgio, fedeltà che fu
perfino leggendaria al tempo dello scisma d’Occidente. Essa andava di pari passo, sul
piano teologico, con la piena consapevolezza della responsabilità episcopale. A
spiegare l’accordo unanime dei vescovi e dei teologi belgi su questo piano concorrono
diversi fattori. La nostra generazione era stata contrassegnata dalle “Conversazioni di
Malines” nel corso delle quali il card. Mercier leggeva il celebre Memorandum del
benedettino dom Beauduin sulla “Chiesa anglicana, annessa ma non assimilata”.
La tesi collegiale era stata avvalorata da un importante Rendiconto dell’episcopato,
opera di mons. Van Roey, certamente non un progressista, che allora era vicario
generale del card. Mercier. Inoltre la Facoltà di Teologia di Lovanio e i lavori
ecumenici al monastero di Chèvetogne avevano ben disposto gli animi a sostenere con
forza la tesi collegiale. Non bisogna trascurare il ruolo giocato da dom Beauduin nella
decisione di convocare un concilio. Egli ci aveva infatti parlato a più riprese della
necessità di completare il Vaticano I e di meglio equilibrare primato e collegialità.
Si era intrattenuto in lunghe discussioni con mons. Roncalli allora delegato apostolico
nei Balcani […]. Giovanni XXIII mi disse, poco dopo l’annuncio della morte di
Beauduin: “Ora dall’alto del cielo vedrà tutto ciò che aveva sognato quaggiù”.
D’altra parte, Beauduin aveva confidato a un amico intimo: “Se Roncalli diventa papa,
ci sarà un concilio”».
Giovanni XXIII lo crea cardinale nel concistoro del 19 marzo 1962,
nominandolo nella Commissione centrale preparatoria del Concilio; la
stima che il Papa nutre per il cardinale belga è notevole, tanto da
affidargli, tra l’altro, la presentazione dell’enciclica Pacem in terris
all’assemblea dell’ONU:
«Il papa si augurava che il messaggio della Pacem in terris - il suo
testamento spirituale – fosse diffuso ampiamente nel mondo e
acconsentì con gioia a esaudire il desiderio degli ambienti dell’Onu a
New York, affinché un prelato del Vaticano presentasse l’enciclica. Un
bel mattino Giovanni XXIII mi fece telefonare per chiedermi di essere
suo messaggero e portavoce a un’assemblea delle Nazioni Unite e di
consegnare a U Thant, segretario generale della organizzazione, una
copia con dedica della Pacem in terris».
Alla ripresa della 2ª
sessione del Concilio,
Paolo VI gli affida il
compito di tenere il
discorso commemorativo
di Giovanni XXIII, visto
il particolare legame di
amicizia tra i due.
Nella lettera inviata a
Suenens dal Segretario
di Stato card. Cicognani
il 7 settembre 1963 si
legge:
«[…] Sua santità ha ritenuto che nessuno più di Sua Eminenza sia in grado
di rievocare papa Giovanni XXIII dinanzi all’illustre assemblea nella
stessa aula che ospita il concilio per il quale egli ha offerto le sue
sofferenze e la sua vita.
È papa Giovanni XXIII che dopo averle affidato la sede arcivescovile di
Malines-Bruxelles, l’ha elevata alla porpora cardinalizia e subito dopo l’ha
associata strettamente ai lavori del concilio ecumenico, dapprima nella
fase di preparazione, quindi nel suo svolgimento.
Ed è ancora a lei che diede l’incarico di presentare la sua enciclica Pacem
in terris dianzi a un pubblico d’élite quale l’assemblea della Nazioni Unite
di New York.
Il Santo Padre – di cui conosce bene la profonda stima e il vivo affetto nei
suoi riguardi – mi ha inoltre incaricato di affidarle a suo nome la cura di
pronunciare in sua presenza il discorso di commemorazione in onore del
suo predecessore, che resta per tutti il papa della pace e del concilio».
(Lettera a Suenens del Segretario di Stato card. Cicognani il 07.09.1963)
Suenens rimane alla guida della
sua diocesi per 17 anni, fino
all’ottobre del 1979, ricoprendo
anche l’incarico di presidente di
Pax Christi e della Conferenza
episcopale belga.
È tra gli elettori dei papi
Giovanni Paolo I e Giovanni
Paolo II.
Dedica gli anni conclusivi a
sostenere e far conoscere il
movimento del Rinnovamento
dello Spirito.
Muore a Bruxelles il 6 maggio
1996, all’età di 92 anni, e viene
sepolto nella cattedrale di St.
Rumbolds.
«Contrariamente a quanto avveniva solitamente,
Giovanni XXIII mi creò cardinale subito dopo la
mia elezione ad arcivescovo. Voleva in tal modo
darmi la possibilità di collaborare all’allestimento
del concilio, in qualità di membro della
commissione centrale preconciliare. Al momento
della mia nomina, la commissione era a metà dei
lavori. Scoprii con sorpresa che i documenti e i
progetti da sottoporre al concilio non riflettevano
affatto le speranze scaturite dall’annuncio di questo
concilio: mancavano d’ispirazione e di grandi
vedute. Era un’impressione condivisa da alcuni
cardinali europei che facevano parte della
commissione prima di me. Senza accordo
preventivo, le nostre reazioni erano identiche. I
cardinali Döpfner, König e Alfrink avevano già
reagito, ma senza successo. Abbiamo perfino
inviato una lettera collettiva a Giovanni XXIII,
lettera firmata da un dozzina di noi, dove dicevamo
al papa che gli schemi preparati dalla Curia erano
insufficienti e che il concilio li avrebbe di
scuramente scartati».
Creato cardinale
(19 marzo 1962)
Nel dicembre 1961, qualche
settimana dopo la sua nomina ad
arcivescovo di Malines-
Bruxelles, Suenens attirò
l’attenzione di Giovanni XXIII
dedicando la sua prima Lettera
pastorale a una visione dinamica
della funzione episcopale. La
Lettera di quaresima, che seguì
da vicino il primo testo, era una
riflessione assai originale per il
tempo, totalmente finalizzata al
particolare significato del
Concilio convocato da papa
Giovanni. Il pontefice fu subito
conquistato da quelle riflessioni e
lo chiamò a lavorare in una delle
Commissioni preparatorie
Progetto esposto
a Papa Giovanni
«Abbiamo lavorato con accanimento per gettare
le basi per uno schema De episcopis incentrato
sulle grandi questioni pastorali […].
Alla fine riuscimmo ad affidare l’elaborazione
dello schema a mons. Morcillo di Saragozza,
futuro vescovo di Madrid, che fece un ottimo
lavoro.
Durante le riunioni della commissione, sedeva di
fronte a noi un temibile difensore dello Status
quo: il caro e santo padre gesuita Cappello. Era
stato nostro professore di diritto canonico – che
conosceva letteralmente a memoria – e ci
schiacciava con la sua scienza. La sua presenza
suscitava in noi un discreto complesso
d’inferiorità ma la sua santità era un
incoraggiamento.
Era famoso a Roma: il suo confessionale nella
chiesa di Sant’Ignazio non era mai vuoto […].
Questi lavori di preparazione al concilio
rappresentarono un’iniziazione e un
apprendistato preziosi negli anni del concilio a
venire».
Ben prima del Vaticano II, Suenens è già sulla
scena internazionale. Durante la sua
collaborazione alla Legio Mariae, specie dal
1948-1950, si sforza di convincere i vescovi
francesi ad accogliere il movimento irlandese
che fino ad allora ha incontrato grande ostilità in
Francia.
Non senza sorpresa, qualche anno più tardi, il
vescovo ausiliare di Malines, ancora giovane e
poco noto, ottiene un accesso diretto a Pio XII e
lo convince a introdurre nel suo discorso
d’inaugurazione al Congresso mondiale per
l’apostolato dei laici (Roma, ottobre 1957) il
suggerimento di rompere il “monopolio”
attribuito all’Azione Cattolica permettendo così
anche agli altri movimenti una libera espansione.
L’affermazione all’epoca produce l’effetto di
un’esplosione; se ne sente ancora l’eco sette anni
più tardi nell’aula conciliare del Vaticano II.
Apertura ai movimenti laicali già prima del Concilio
«Tra i miei appunti ritrovo la mia
prima impressione di alcuni membri
del gruppo. Cicognani: deludente,
visibilmente più conservatore del papa
e in contraddizione con lui; anche
laddove il papa apre una porta, lui la
chiude. Malgrado ciò, la sua età farà sì
che si possa passarvi sopra e a fianco,
ma non siamo della stessa idea.
Siri: dice sempre no, anche di fronte
alle cose più elementari. Sarà il
maggiore ostacolo da superare.
Döpfner: molto bene, ma poco
brillante nell’uso dell’italiano che è
lingua comune.
Montini: in accordo con Döpfner e
con me, formiamo un trio. Più
interessato all’aspetto “Chiesa ad
extra” che a quello “Chiesa ad intra”».
Impressioni sul consiglio
direttivo del Concilio
«Osservazione generale sugli schemi. Riguardo agli schemi, ecco il
pensiero comune di molti membri stranieri della Commissione Centrale.
Così come furono elaborati, questi schemi erano troppo giuridici e
senz’anima, particolarmente gli schemi elaborati dalla Commissione
dottrinale. Questi schemi portavano troppo l’impronta “Santo Uffizio” e
si presentavano troppo come degli avvertimenti, non come esposizioni
positive, sintetiche e di grande apertura.
Dopo che questi schemi primitivi hanno subito il nutrito fuoco delle
critiche della Commissione Centrale e che essi saranno emendati, si può
sperare che diventeranno più accettabili. […]
Non ci si dovrebbe meravigliare però che i Padri del Concilio non
approvino facilmente questi schemi, anche corretti, e sembra
auspicabile che si possa, se necessario, accettare anche qualche schema
nuovo proposto eventualmente da un certo numero di Padri al Concilio.
Questa eventualità è da prevedere e il regolamento dovrebbe renderla
possibile […]».
«Fin da principio fu evidente che lo schema sulla Chiesa non avrebbe messo
d’accordo l’assemblea […]. Si trattava di uno scontro fra due diverse concezioni
della Chiesa. Il sant’Uffizio aveva elaborato uno schema intriso di un’ecclesiologia
contrassegnata dal carattere canonico e strutturale della Chiesa senza la prioritaria
evidenziazione dei suoi aspetti spirituali ed evangelici.
Si trattava, a nostro avviso, di passare da un’ecclesiologia giuridica a
un’ecclesiologia comunitaria incentrata sul profondo mistero della Chiesa, la
Trinità. Per guadagnare tempo, dinanzi al grave scontento del card. Ottaviani che
durante la seduta plenaria denunciò lo “scandalo”, avevo chiesto a mons. Philips di
preparare senza indugio un nuovo schema, ancor prima che venisse scartato lo
schema originario.
Alla fine, poiché come previsto prevalse il voto negativo, si aprì la strada per quella
che sarebbe diventata la costituzione Lumen gentium. Avevo scelto mons. Philips,
laureato in teologia a Roma (con una tesi su sant’Agostino). Insegnava teologia
dogmatica a Lovanio e incarnava nella sua persona una sorta di “via media” che
non impauriva né il card. Ottaviani né il segretario padre Tromp. Per di più,
essendo senatore cooptato in Belgio, oltre a considerevoli doti diplomatiche
possedeva il senso del dibattito parlamentare».
«L’accenno ai carismi nel testo provvisorio della
Lumen gentium scatenò la reazione del card.
Ruffini che ne chiese la soppressione sostenendo
che i carismi erano forse una prerogativa della
Chiesa primitiva ma che considerarli come ancora
attuali poteva generare equivoci. Viceversa, la mia
opinione era che bisognava parlarne e che i carismi
dello Spirito Santo erano parte integrante della vita
cristiana e dell’evangelizzazione. Il concilio scelse
questa prospettiva e le riflessioni sui carismi
vennero integrate nel testo conciliare con tono
sapiente e moderato ma decisamente positivo […].
Reclamando il riconoscimento dei carismi di tutti i
battezzati, tenni a sottolineare prima di concludere
che la parola “battezzato” non faceva distinzione
tra uomini e donne […].
Dovetti intercedere di persona presso Paolo VI
affinché le donne che partecipavano al concilio da
uditrici potessero ricevere la Comunione dalla sua
mano. No riuscii a ottenere che Barbara Ward,
illustre e insigne economista della Columbia
University intervenisse durante un dibattito».
Le donne al Concilio
Giacomo Lercaro nasce il 28 ottobre 1891 a
Quinto al Mare (Genova), da una famiglia di
condizioni modeste.
A 11 anni entra nel seminario di Genova,
dove diventa prete nel 1914, a 23 anni. Dopo
la laurea in Teologia trascorre alcuni mesi a
Roma presso il Pontificio Istituto biblico.
Costretto a rientrare nella Città della Lanterna
per l’entrata in guerra dell’Italia, presta il
servizio militare come soldato di sanità.
Nel 1923 assume l’insegnamento di Sacra
Scrittura e di patrologia, che terrà fino al
1937, quando diventa parroco della basilica
di S. Maria Immacolata, tra le più importanti
della città.
Prepara il VII Congresso eucaristico
nazionale (Genova 1923); contribuisce alla
nascita dell’Apostolato liturgico (1930)
insieme ad altri giovani preti genovesi come
Giuseppe Siri ed Emilio Guano; partecipa al I
congresso liturgico nazionale (Genova,
1934).
Giacomo Lercaro
Nutre speciale interesse per la
catechesi, la liturgia, le questioni
sociali e la condizione giovanile,
ambiti pastorali che gli saranno più
congeniali.
Da parroco incoraggia la
partecipazione dei laici alla liturgia,
la loro valorizzazione in ambito
ecclesiale e la riscoperta delle fonti
bibliche e patristiche.
La sua è una posizione teologica
equilibrata: né cedimenti innovativi
né ostinato tradizionalismo, con la
disponibilità ad affrontare situazioni
oggettivamente difficili.
Anche per questo nel 1947 viene
scelto come vescovo di Ravenna e
poi, nel 1952, di Bologna: diocesi di
“frontiera”, per il tradizionale
anticlericalismo delle Romagne ex
pontificie e per il dominio politico
delle sinistre.
Pastore “militante”
Eletto cardinale nel 1953, insieme a
Roncalli, guida la diocesi felsina
con piglio militante. Parla di
Bologna come di una “diocesi
malata”; organizza un gruppo di
religiosi (i “frati volanti”) affidando
loro il compito di combattere gli
avversari politici nei comizi
elettorali; tenta di rovesciare il
dominio amministrativo delle
sinistre spingendo G. Dossetti a
candidarsi nel 1956 alla carica di
sindaco del capoluogo; esprime
platealmente il proprio sdegno di
fronte all’invasione sovietica
dell’Ungheria (1956) facendo
suonare a lutto le campane.
Anche a Bologna punta molto sulla
partecipazione dei fedeli alla
liturgia, si impegna nella catechesi;
raccoglie fondi per la costruzione di
nuove chiese nella periferia urbana.
Vescovo di Ravenna
e poi di Bologna
Agli inizi degli anni Sessanta, è noto sul piano
internazionale come esperto di liturgia e
anticomunista. Mentre sembra profilarsi la fase
discendente della sua vita (ha ormai 70 anni),
l’attenuarsi della tensione internazionale, l’aprirsi
della stagione politica italiana del centro-sinistra e
soprattutto l’elezione di Giovanni XXIII lo rimettono
in gioco, dando inizio a una nuova stagione.
Partecipa all’intero Vaticano II, stabilendo contatti
quotidiani con vescovi di tutto il mondo. Relativizza
le questioni italiane e bolognesi. È costretto a
misurarsi con temi nuovi e stimolanti: il ruolo dei
vescovi, la Chiesa dei poveri, la guerra e la pace.
Nel Concilio assume ruoli importanti, presiedendo
varie sedute. Risulta tra i candidati alla successione
di Giovanni XXIII nel conclave del 1963. Figura tra i
“grandi elettori” di Paolo VI. Rimase a lungo
esponente della maggioranza conciliare di
orientamento innovatore, anche se verso la fine del
Concilio verrà un po’ emarginato.
Nella “trasformazione” di Lercaro sembra aver giocato un
ruolo determinante la collaborazione sempre più stretta con
don Dossetti. Qualcuno ha parlato di un “secondo esordio”
dell’episcopato petroniano del Lercaro, dopo il Vaticano II.
Anche i rapporti tra Chiesa e il Comune cambiano
profondamente, tanto che nel 1966 la giunta comunista
conferisce a Lercaro la cittadinanza onoraria.
È soprattutto il tema della pace a offrire l’opportunità di un
cammino comune. Nell’acceso confronto sulla guerra in
Vietnam, l’amministrazione comunale e altri settori
popolari sono ostili all’escalation militare americana. Sul
fronte cattolico le posizioni risultano divaricate tra chi
osteggia la linea americana e chi mantiene una linea di
equidistanza tra i contendenti, in linea con la DC nazionale
e il papa stesso.
Il messaggio di Paolo VI che il 1 gennaio 1968 istituisce la
Giornata mondiale per la pace contribuisce a far
precipitare la situazione bolognese. Lercaro tiene
un’omelia in cattedrale, dove condanna i bombardamenti
americani in Vietnam del Nord. Poche settimane la S. Sede
lo informa che il papa ha accolto le sue dimissioni per
raggiunti limiti di età. Ritiratosi, Lercaro muore nel 1976.
Giuseppe Dossetti
(1913-1996)
Quando inizia il Concilio, Dossetti è nel
pieno della sua maturità umana,
intellettuale e spirituale:
- ha alle spalle un’intensa stagione di studi
canonistici, culminata nella cattedra
universitaria di diritto ecclesiastico;
- una ricca e complessa esperienza politica
ai vertici della Democrazia cristiana negli
anni del 2° dopoguerra e della
ricostruzione;
- un coinvolgimento con ruoli di
primissimo piano nell’Assemblea
costituente;
- un’iniziativa creativa nell’ambito della
ricerca teologica;
- la recente generazione di una «famiglia»
monastica, coeva con l’abbandono della
condizione laicale e l’accesso al
sacerdozio.
- La sua vita è caratterizzato da un
incessante impegno interiore, alimentato da
un’ascesi severa, una fervida preghiera e
una crescente familiarità con la Bibbia.
Sia nella antepreparatoria che in quella
preparatoria del Concilio, affidata alle
Commissioni guidate dal Segretario di Stato
card. Tardini, Dossetti non fu coinvolto.
Egli però non era rimasto inerte né passivo:
accanto all’impegno nelle ricerche per
l’edizione del volume Conciliorum
oecumenicorum decreta (con le decisioni
approvate dai concili lungo i secoli),
promosse una serie di incontri a Bologna con
qualificati teologi europei.
Il suo coinvolgimento diretto nel Vaticano II
iniziò nel febbraio 1962, da da Bologna,
mediante scambi con Lercaro sui testi
preparatori del Concilio.
Il 5 novembre 1962, quando il Concilio
lavorava da quasi un mese, Lercaro lo
chiamò a Roma perché lo rappresentasse nei
lavori del «gruppo sulla povertà»,
un’iniziativa informale ai margini del
Concilio. Ben presto Dossetti sarà coinvolto
nella complessa vicenda conciliare.
Oltre che teologo di Lercaro, Dossetti
diventa anche consulente autorevole e
ricercato di alcuni tra i leader
dell’assemblea conciliare.
I nodi tematici sui quali il suo
contributo è specialmente significativo
vanno dalla concezione della Chiesa
alla collegialità episcopale e al rilievo
determinante del battesimo come fonte
dell’appartenenza alla Chiesa.
Ben presto anche i problemi del
funzionamento dell’assemblea attirano
il suo interesse e la sua esperienza di
studioso del diritto canonico e di antico
parlamentare: sarà il principale
ispiratore delle istanze per una revisione
del Regolamento conciliare. Le sue
proposte sfociano nell’istituzione della
Commissione di coordinamento,
preposta a tutta l’attività conciliare.
«I 13 anni trascorsi tra la fine della guerra mondiale e il 1° annunzio del Concilio
hanno implicato anche per la Chiesa cattolica gravi ripercussioni dell’enorme
mutamento globale, che qualcuno forse avvertiva, ma che i più parevano ignorare
ancora negli ultimi anni del pontificato di Pio XII.
Anzi, forse proprio a questa ignoranza complessiva fu provvidenzialmente dovuta
la nomina di papa Giovanni: una figura lungamente emarginata nella Chiesa, solo
molto recentemente accreditata dal successo della sua nunziatura parigina e del
suo episcopato veneziano, e comunque già avanzato in età, sì da essere scelto
intenzionalmente per un pontificato breve e di transizione.
Se i Cardinali avessero lucidamente considerato il complesso di problemi che si
stavano ponendo alla Chiesa e al mondo, non avrebbero probabilmente eletto
Roncalli, ma avrebbero cercato altri.
Del resto, la conferma di questa generale inconsapevolezza è data dalla
pubblicazione delle risposte dei vescovi alla consultazione che di essi fu fatta non
tanti mesi dopo, in preparazione del Concilio: risposte che nella totalità non
lasciano intravedere nessuna visione panoramica dei problemi e nessun approccio
serio ai punti nodali del grande rivolgimento storico in corso, neppure da parte di
coloro che poi nel Concilio emersero pian piano - per un dono dello Spirito
attualizzato dalla vastità mondiale del confronto e del dialogo reciproco - come le
personalità più dotate e capaci di intuizioni vaste e di apporti validi»
(G. Dossetti, Oliveto di Monteveglio, 28 ottobre 1994)
Le Lettere dal
Concilio constano di
201 missive che
Lercaro invia, con
una scadenza quasi
quotidiana, ai giovani
ospiti
dell’arcivescovado
bolognese nel corso
dei 4 periodi
conciliari.
All’interno
dell’epistolario, le
notizie sul Concilio
sono disperse in una
miriade di piccole
annotazioni, non
sempre facili da
organizzare in modo
sistematico.
Lettere dal Concilio
«Stamane ci fu l’apertura del Concilio; non sto a descrivervi la cerimonia veramente
solenne, perché penso che l’avete seguita per la TV […]. Non mi sono mai sentito
così immerso nella Chiesa di Dio come oggi: la presenza del Papa, di tutto, o quasi,
il S. Collegio, dei Vescovi di tutto il mondo, intorno all’altare che stava al centro e
sul quale prima si celebrò il Sacrificio, poi si collocò in trono il Vangelo; lo sguardo
del mondo intero fisso sull’avvenimento, come si rendeva evidente dalla presenza
delle delegazioni di tante Nazioni e dalla presenza delle Chiese separate…; tutto
questo faceva sentire la vitalità della Chiesa, la sua unità e varietà insieme; la sua
umanità e divinità; e in me, che me ne sentivo membro investito di funzioni e di
poteri qualificati, creava un senso profondo di gioia e di riconoscenza al Signore.
Mi trovavo a sedere nell’aula conciliare tra il card. Wishinsky (applauditissimo
lungo tutto il corteo e oggetto di simpatia della folla) e il card. Mc Intyre; avevo
davanti i cardinali Spellmann, Ruffini e Cagiano (Buenos Ayres); poco distante
erano il Presidente Segni con il suo seguito e il Principe Alberto del Belgio; quasi di
fronte vedevo l’abate e un monaco di Monastero Calvinista di Taizé: erano tutti
questi segni visibili della presenza efficiente della Chiesa nel mondo.
Davvero sentivo il bisogno che lo Spirito Santo guidi questa impresa da cui tutti
attendono tanto; ma la preghiera ripetuta della immensa assemblea, seguita dalla
preghiera di tante anime nel mondo, tutto dava garanzia che lo Spirito del Signore
sarà con noi in questo lavoro» (11.10.1962)
«Il Papa, dopo la lettura del Motu proprio lasciò l’aula e si iniziarono i lavori
aprendo la discussione sul tema della “libertà religiosa”. Erano iscritti a parlare
21 cardinali: parlarono solo 8 perché il tempo mancò: tesi opposte, o almeno
diverse. C’è però tutta la speranza che la Dichiarazione, salvo utili ritocchi, sia
approvata. Sarà un buon passo avanti.
Quando saremo insieme ne parleremo; praticamente il senso è questo: che nessun
uomo possa essere da altri e soprattutto dallo Stato, coartato o comunque limitato
nei suoi diritti civili per motivo della sua professione religiosa, non solo privata,
ma pubblica e non solo personale, ma associata e con diritto di propagare le sue
idee religiose, salvo allo Stato il diritto di intervenire quando fosse leso, non
l’ordine pubblico soltanto, ma il bene comune.
Particolarmente forti furono in favore i cardinali americani Spellmann e
soprattutto Cushing (che parla il latino orribilmente); ottimo tra gli italiani il
card. Urbani a nome e per conto dei Vescovi della Lombardia e Venezie»
(15.09.1965)
Sul decreto de libertate religiosa
«In concilio ancora battaglia aperta sulla
libertà religiosa. Abbiamo avuto alcune voci
particolarmente notevoli: il card. Beran, forte
delle sue esperienze personali, ha confermato
che dal momento in cui nella sua patria fu
menomata e poi negata la libertà religiosa, ne
seguì un male immenso; ma – affermò – era
forse la conseguenza storica dell’ipocrisia
creata dall’intolleranza religiosa dei Cattolici
quando, nei secoli passati, erano al potere.
Il card. Cardijn si rifece ai suoi 60 anni di
esperienza fra i giovani operai di tutto il
mondo (è il fondatore della JOC): la
dichiarazione sulla più ampia libertà religiosa
è attesa tra i giovani di tutto il mondo, come
la premessa per un utile dialogo.
Il Vescovo di Oslo assicurò che sarebbe uno
scandalo per il mondo del Nord Europa una
menomata affermazione della libertà religiosa
ed esaltò la libertà di cui gode in Norvegia la
esigua minoranza cattolica» (20.09.1965)
Paolo VI e il card. Beran
«Una lettera del Papa con cui dissuadeva di portare in Concilio la questione del
sacerdozio uxorato mi sollevò da un lavoro che da giorni continuava e che oggi
avrebbe avuto il suo momento più difficile in un colloquio per il quale avevo chiesto
di far visita al Patriarca Maximos questo pomeriggio […].
Non bisogna fare confusioni; non si è mai dato che uno già sacerdote fosse
autorizzato a sposarsi (se non per dispensa, quando già avesse una famiglia
illegittima e, però, privandolo dell’esercizio di ogni potere sacerdotale e riducendolo
allo stato laicale); ma in Oriente uomini sposati possono accedere al sacerdozio; e
anche in Occidente il celibato entrò presto ma, come legge per tutto il rito latino,
solo nel secolo XII. Ora da un lato gli Orientali (duce Maximos) volevano presentare
la loro tradizione; dall’altro Vescovi occidentali che, come nel Brasile, hanno
pochissimi preti, chiedevano l’introduzione del clero uxorato – cioè di ordinare
sacerdoti uomini sposati – per supplire alla mancanza di clero.
Tutto questo sarebbe stato per sé legittimo; ma la situazione ormai inderogabile per
cui le discussioni e proposte conciliari dilagano nella stampa, interpretate nei modi
più strani, consigliava di riservare, se mai, il problema all’esame di organi più
ristretti (ad es. il Sinodo dei Vescovi) e quando il problema stesso fosse più maturo
(ad es. con l’esperimento dei diaconi) […]. Ora la gatta è pelata e anche Maximos ha
ritirato il suo intervento» (11.10.1965)
La discussione sul celibato dei preti
«Al mattino una congregazione generale
pesante, che ha visto però passare
finalmente lo schema sull’atteggiamento
della Chiesa di fronte alle religioni non
cristiane (praticamente lo “schema sugli
Ebrei”): è passato, ma con lo stesso
numero di voti contrari (250) che aveva
avuto nelle tappe precedenti: motivi
politici, razziali e anche atteggiamenti
religiosi male intesi hanno determinato
questi voti negativi su un testo che è
cristallino e profondamente cristiano. Ma
forse anche quei 250 “non placet” sono
provvidenziali: i paesi arabi crederanno o
almeno possono credere che i loro
Vescovi e patriarchi cattolici sono rimasti
sensibili alle pressioni esercitate su di
loro e non creeranno loro ulteriori
difficoltà» (15.10.1965)
Schema sugli Ebrei
«Stiamo votando il famoso schema XIII: “la Chiesa nel mondo presente” […].
Così come ora si presenta lo schema è assai migliorato nell’impostazione generale
o, direi meglio, nello spirito e nella presentazione e soluzione dei singoli problemi.
Lo spirito generale è meno razionalistico, più biblico ed evangelico: il Concilio,
dopo avere esaminato alla luce della parola di Dio la complessa situazione del
mondo moderno con il suo progresso e le sue carenze, e averne dato un giudizio
che, pur restando fondamentalmente ottimistico, non nasconde i pericoli che il
progresso tecnico stesso rappresenta, se non c’è un progresso spirituale e morale,
segnala in Cristo, nella parola e nella legge dell’Amore la possibilità di una
soluzione, che sarà completa però oltre la terra, ove è la meta.
Questa è la sintesi brevissima, meglio, il pensiero della prima parte, generale; nella
seconda si esaminano alcuni problemi ritenuti di particolare importanza. È notevole
in questo testo, come ora si presenta, la dignità della forma accompagnata e ispirata
sempre da un profondo senso di interesse alle sorte dell’umanità e dal desiderio di
un colloquio profondo.
Pur essendoci ancora divisioni tra i Padri su alcuni punti e pur restando migliorabili
talune pagine, direi che è prevedibile un voto positivo; sarà così coronata, come
speriamo, la lunga fatica: con la presente, lo schema ha avuto già cinque, anzi, sei
redazioni!» (15.11.1965)
I rapporti tra Chiesa e mondo contemporaneo
Nei suoi discorsi al Concilio, Lercaro propose una
“Chiesa povera e dei poveri”. Egli individuava una
stretta connessione tra la presenza di Cristo
nell’Eucaristia, che fonda e costituisce la Chiesa, e
nei poveri. I poveri un “sacramento” di Cristo
povero che la Chiesa deve riconoscere, onorare e
servire.
Per i cristiani la povertà non è semplice mezzo per
l’ascesi personale, ma chiamata alla conversione
che riguarda l’identità stessa della testimonianza
della Chiesa nel mondo, inviata dal suo Signore e
Maestro, che da ricco si fece povero per arricchire
noi uomini (cfr. 2Cor 8,9), a evangelizzare i poveri
e a condividerne le fatiche e le attese di riscatto e
liberazione, seguendo le sue orme.
Perciò Lercaro chiese che il testo sulla Chiesa
fosse riscritto a partire dal mistero del Cristo
povero e che quello della povertà della Chiesa
fosse “l’unico tema di tutto il Vaticano II”.
Il discorso lercariano ottenne una certa risonanza
sia dentro che fuori dell’assise conciliare, ma non
fu accolto il suggerimento di considerare la povertà
come tema prospettico del Vaticano II.
La Chiesa e i poveri
«Oggi giornata libera da Congregazione, ma
impegnatissima e faticosa. Veramente il
Concilio sta stringendo ogni giorno di più e
gli incontri si susseguono senza posa.
Stamane, su loro invito, ho tenuto una
conversazione sullo schema della Liturgia ai
Vescovi del Brasile: una cosa molto
interessante perché sono aggiornati e aperti.
Ho poi veduto il prof. Alberigo del Centro di
Documentazione di Bologna, che farà ogni
15 giorni circa un programma sul Concilio
alla TV: sarà cosa di rilievo, perché non si
tratterà di cronaca, ma di una visione più
profonda dei lavori del Concilio, resa
accessibile al pubblico attraverso i mezzi di
una accorta trasmissione. Ho avuto la visita
di due giornalisti redattori di “Città Nuova”
che arriva anche a casa: sul numero che esce
domani ci sarà qualcosa. Ho veduto pure P.
Martimort, francese, noto per i suoi studi
liturgici» (19.10.1962)
I rapporti con i giornalisti
Giuseppe Alberigo)
(1926-2007)