i licenziamenti per giusta causa e giustificato … · datore di lavoro le gravi violazioni dei...
TRANSCRIPT
I LICENZIAMENTI
PER
GIUSTA CAUSA e GIUSTIFICATO MOTIVO SOGGETTIVO
* * * * *
Nel nostro ordinamento il licenziamento individuale – cioè la risoluzione del
rapporto di lavoro per volontà del datore di lavoro – deve trovare, a parte le
residuali ipotesi di licenziamento ad nutum ex art. 2118 c.c. (riguardanti, ad
esempio, i dirigenti, i lavoratori domestici, i lavoratori ultrasessantenni con
diritto a pensione), fondamento in un motivo socialmente giustificato,
dipendente dalla condotta del lavoratore (c.d. licenziamento per giusta causa
o per giustificato motivo soggettivo) o da ragioni legate all’attività
produttiva, o all’organizzazione del lavoro (c.d. licenziamento per giustificato
motivo oggettivo).
L’art. 1 della L. n. 604/66 stabilisce infatti che “Nel rapporto di lavoro a
tempo indeterminato, intercedente con datori di lavoro privati o con enti
pubblici, ove la stabilità non sia assicurata da norme di legge, di
regolamento e di contratto collettivo o individuale, il licenziamento del
prestatore di lavoro non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell’art.
2119 del codice civile o per giustificato motivo”.
Mentre l’art. 2119 c.c. stabilisce che il licenziamento per giusta causa (GC)
può essere intimato senza preavviso “qualora si verifichi una causa che non
consente la prosecuzione, anche provvisoria del rapporto”, l’art. 3 L. n. 604
cit. prevede due ipotesi di licenziamento per giustificato motivo: l’uno
soggettivo (g.m.s.), determinato da “un notevole inadempimento degli
obblighi contrattuali del prestatore di lavoro”,l’altro oggettivo (g.m.o.)
motivato da “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del
lavoro e al regolare funzionamento di essa”.
Nella presente relazione tratterò soltanto dei licenziamenti motivati da ragioni
inerenti al comportamento del lavoratore e cioè di quelli per giusta causa
(GC) o per giustificato motivo soggettivo (g.m.s.). Trattasi di licenziamenti
ontologicamente disciplinari – in entrambi il recesso datoriale trova la sua
1
giustificazione in un inadempimento notevole del prestatore - (Cass. S.U. 1
giugno 1987), tra di loro in rapporto di differenza quantitativa e non
qualitativa (per tutte Cass. n. 14551/00).
La giusta causa (art. 2119 c.c.; art. 1 L. 604/66) si sostanzia in un
comportamento (anche extra-aziendale: Cass. 4 settembre 1999 n, 9354)
talmente grave da non consentire la prosecuzione, anche provvisoria, del
rapporto. Ne consegue che il datore di lavoro può recedere in tronco, senza
obbligo di dare il preavviso. Si tratta di ipotesi in cui qualsiasi altra sanzione
risulta insufficiente a tutelare l’interesse del datore di lavoro (Cass. 10
settembre 2003 n. 13284), al quale non può pertanto essere imposto l’utilizzo
del lavoratore in un’altra posizione (Cass. 19 gennaio 1989 n. 244).
Il licenziamento per giustificato motivo soggettivo (art. 3 L 604/66) è invece
determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del
lavoratore; detto inadempimento non è così grave da rendere impossibile la
prosecuzione provvisoria del rapporto, con la conseguenza che il datore di
lavoro ha l’obbligo di dare il preavviso.
La Cassazione, al fine di chiarire quali siano gli elementi da tenere in
considerazione per valutare se ci sia impedimento alla prosecuzione anche
provvisoria del rapporto, ha statuito che (Cass. n. 12197/99):
Nel caso di giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento, i fatti addebitati devono rivestire il carattere di grave negazione degli elementi del rapporto di lavoro, ed in particolare dell'elemento della fiducia, che deve continuamente sussistere tra le parti; la valutazione relativa alla sussistenza del conseguente impedimento alla prosecuzione del rapporto deve essere operata con riferimento non già ai fatti astrattamente considerati, bensì agli aspetti concreti afferenti alla natura ed alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, nonché alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi ed alla intensità dell'elemento intenzionale e di quello colposo e ad ogni altro aspetto correlato alla specifica connotazione del rapporto che su di esso possa incidere negativamente. (Nella specie la S.C. ha annullato con rinvio la sentenza con cui il giudice di merito aveva rigettato l'impugnativa di licenziamento comminato per il rifiuto di far controllare il contenuto di una borsa all'uscita dello stabilimento, in relazione all'astratta tipologia dell'infrazione, senza procedere a verifiche circa l'esistenza di precedenti disciplinari a
2
carico dell'interessato - vantante un'anzianità di 25 anni di servizio -, la natura delle mansioni e il presunto valore dei beni tutelati, costituiti, secondo l'allegazione del lavoratore, da prodotti alimentari di non particolare valore).
I licenziamenti disciplinari – per la cui irrogazione il datore di lavoro è tenuto
a seguire la procedura di cui all’art. 7 S.L. – sono statisticamente la maggior
parte dei licenziamenti.
Per dare un’idea numerica della loro frequenza rispetto agli altri
licenziamenti, vi fornisco alcuni dati rilevati presso la Cancelleria del
Tribunale di Varese.
Attualmente (si tratta di dati rilevati all’inizio del mese di novembre 2009)
avanti la sezione lavoro del nostro Tribunale pendono n. 70 cause di
impugnazione di licenziamenti.
Di queste:
- n. 20 riguardano licenziamenti per GC
- n. 6 riguardano licenziamenti per g.m.s.
- n. 18 riguardano licenziamenti per g.m.o.
- n. 19 riguardano licenziamenti orali
- n. 5 riguardano licenziamenti di dirigenti
- n. 1 riguarda licenziamenti collettivi
- n. 1 per superamento periodo di comporto
Come si vede, anche tenendo conto del particolare momenti storico di crisi
economica (ciò che giustifica situazioni di riorganizzazione aziendale, di
riduzione di costi e di manodopera che spesso portano il datore di lavoro a
irrogare licenziamenti per g.m.o.), se si sommano i numeri relativi ai
licenziamenti per GC e g.m.s. si ha un dato superiore rispetto a quello dei
licenziamenti per g.m.o. (26 a 18).
CASISTICA
E’ la più varia anche perché, come afferma la Suprema Corte nella sentenza
Cass. n. 7819/01:
Il potere di risolvere il contratto di lavoro subordinato per
3
il caso di notevole inadempimento degli obblighi contrattuali deriva al datore di lavoro direttamente dalla legge ( art. 3 della legge n. 604 del 1966), e non necessita, per il suo legittimo esercizio, di una dettagliata previsione, nel contratto collettivo o nel regolamento disciplinare predisposto dal datore di lavoro, di ogni possibile ipotesi di comportamento illecito integrante il suddetto requisito, spettando al giudice di verificare, ove si contesti la giustificatezza del recesso, se gli episodi addebitati integrino l'indicata fattispecie legale. Pertanto, anche se non specificamente previste dalla normativa negoziale, costituiscono ragione di valida intimazione del recesso del datore di lavoro le gravi violazioni dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro, quei doveri, cioè, che sorreggono la stessa esistenza del rapporto, quali sono i doveri imposti dagli artt. 2104 e 2105 cod. civ., e, specificamente, quelli derivanti dalle direttive aziendali. La contrattazione collettiva prevede normalmente una elencazione di fatti che
giustificano il licenziamento. L’opinione dominante nega l’efficacia
preclusiva alle previsioni collettive, dovendosi fare riferimento alla nozione
legale di notevole inadempimento (si veda Cass. n. 15334/07 secondo cui
l’elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei
contratti collettivi ha valenza meramente esemplificativa e non esclude,
perciò, la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per
altro grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della etica
comune o del comune vivere civile, alla sola condizione che tale grave
inadempimento o tale grave comportamento, abbia fatto venir meno il
rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore).
Quindi la classificazione e le tipologie che richiamerò, lungi dall’essere
esaustive, costituiscono una sorta di raggruppamento di massima di
fattispecie concrete che si possono assimilare per argomenti. Molte di queste
fattispecie, è bene ribadirlo, possono essere ricondotte sia alla GC che al
g.m.s. a seconda della valutazione della loro gravità.
Proprio a proposito di questa omogeneità delle due nozioni occorre
4
evidenziare come sia possibile, da parte del giudice di merito, la cd.
conversione giudiziale d’ufficio del licenziamento per GC in licenziamento
per g.m.s. quando al fatto venga attribuita una gravità minore di quella
legittimante il recesso in tronco ma pur sempre tale da fondare la facoltà di
licenziamento (Cass. n. 17604/07, n. 12781/05 e 3048/96 secondo cui detto
principio si basa sul dovere di valutazione del dedotto inadempimento
colpevole del lavoratore). La conversione d’ufficio trova il suo limite nella
regola generale dell’immutabilità della contestazione sicché essa non può
effettuarsi quando vengano mutati i motivi posti a base dell’iniziale
contestazione e quando la conversione necessiti l’accertamento di fatti nuovi
e diversi da quelli inizialmente addotti dal datore di lavoro a sostegno del suo
recesso (Cass. 27 febbraio n. 2204). Non è consentito al Giudice invece
dedurre una volontà diversa rispetto a quella dell’espulsione e pertanto non si
può convertire il licenziamento con o senza preavviso in una diversa sanzione
conservativa (cfr. Cass. 9 novembre 2000, n. 14551), salva specifica
domanda in tal senso da parte del datore di lavoro.
Tipologia di GIUSTA CAUSA
* INSUBORDINAZIONE
La giurisprudenza qualifica in termini di insubordinazione quei
comportamenti suscettibili di incidere negativamente nell’organizzazione
aziendale attraverso la disapplicazione delle disposizioni del datore di lavoro.
Si tratta di una nozione più vasta del semplice rifiuto di adempiere (C
87/5804). In genere l’insubordinazione è comportamento che rientra nel
g.m.s., anche se nei casi più gravi può esservi anche licenziamento in tronco.
Si tenga presente che nell’insubordinazione possono rientrare anche fatti di
rilevanza penale quali ingiurie, diffamazione, minacce, percosse, etc.
All’interno dell’ampia categoria dell’insubordinazione si possono distinguere
diverse fattispecie:
- Aperta contestazione delle direttive aziendali: Nel confermare una sentenza
di merito che aveva ritenuto legittimo il licenziamento di un lavoratore per
5
aver impedito all'amministratore unico della società datrice di lavoro di
affiggere nella bacheca aziendale disposizioni riguardanti l'organizzazione
del lavoro e l'individuazione delle mansioni dei singoli dipendenti, la Cass. n.
1752/2000 ha precisato che L'aperta contestazione di direttive aziendali - specialmente se accompagnata da modalità comportamentali dirette a contestare pubblicamente il potere direttivo del datore di lavoro - configura una violazione del disposto dell'art. 2104, secondo comma, cod. civ. suscettibile di legittimare il licenziamento del lavoratore. - Eccesso di critica. Cass. n. 10511/98 Le opinioni espresse dal lavoratore dipendente, anche se vivacemente critiche nei confronti del proprio datore di lavoro, specie nell'esercizio dei diritti sindacali, non possono costituire giusta causa di licenziamento, in quanto espressione di diritti costituzionalmente garantiti o, quanto meno, di una libertà di critica. Peraltro, qualora il comportamento si traduca in un atto illecito, quale l'ingiuria o la diffamazione, o comunque in una condotta manifestamente riprovevole può riscontrarsi, sotto il profilo sia soggettivo che oggettivo, quella gravità necessaria e sufficiente a compromettere in modo irreparabile il vincolo fiduciario, così da non consentire la prosecuzione anche provvisoria del rapporto (nel caso di specie la S.C. ha ritenuto incensurabile la decisione del giudice di merito in ordine alla sussistenza della giusta causa di licenziamento, con riferimento alla diffusione ad organi di stampa di notizie lesive dell'onore e della reputazione del datore di lavoro risultate prive di fondamento).
In una recente sentenza la Cassazione ha stabilito (n. 29008/08) che L'esercizio da parte del lavoratore del diritto di critica nei confronti del datore di lavoro, con modalità tali che, superando i limiti del rispetto della verità oggettiva, si traducono in una condotta lesiva del decoro dell'impresa datoriale, suscettibile di provocare con la caduta della sua immagine anche un danno economico in termini di perdita di commesse e di occasioni di lavoro, è comportamento idoneo a ledere definitivamente la fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro, integrando la violazione del dovere
6
scaturente dall'art. 2105 cod. civ., e può costituire giusta causa di licenziamento. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva riconosciuto la legittimità del licenziamento irrogato ad un proprio dipendente da una impresa che svolgeva servizio di smaltimento rifiuti, per aver costui reso affermazioni - come privato cittadino in tre distinte assemblee pubbliche, con successiva ampia eco sulla stampa locale - ritenute gravemente lesive dell'immagine e del prestigio dell'azienda datrice di lavoro, in quanto si assumeva che questa non aveva inviato del materiale derivante dalla raccolta differenziata al recupero, al riciclaggio e allo smaltimento differenziato, ma l'aveva destinato all'inceneritore).
La Corte d’Appello di Torino, proprio con riferimento ai limiti dell’eccesso
di critica nei confronti del datore di lavoro, ha affrontato la questione se
possa ravvisarsi un eccessivo atteggiamento di critica allorquando un
lavoratore intenti una causa di mobbing che venga poi rigettata per mancanza
delle condotte discriminatorie ascritte al datore di lavoro. Invero, nel caso
analizzato dal Tribunale di Mondovì (sentenza del 11.12.2007) in cui il
lavoratore era stato licenziato per aver ingiustamente accusato l’azienda di
averlo fatto oggetto di comportamenti vessatori e persecutori e di averlo
illegittimamente trasferito ad altro reparto (accuse che erano risultate
infondate e respinte con sentenza), il Giudice del Lavoro aveva ritenuto
sussistere la GC per il solo fatto di aver intentato una causa di mobbing
rilevatasi infondata, richiamando a tale proposito una sentenza della Cass.
143/00.
La C.A. di Torino, con sentenza del 29.4.2008, dopo aver sottolineato che
nella fattispecie analizzata dalla Suprema Corte le accuse di mobbing erano
state pubblicizzate divulgando la propria iniziativa giudiziaria a mezzo
stampa, ha accolto l’appello proposto dal lavoratore statuendo che
“...promuovere un giudizio nei confronti del proprio datore di lavoro è un
diritto del lavoratore e se l’esercizio di tale diritto viene mantenuto nei
corretti canali giudiziari, non potrà mai fondare un successivo
licenziamento. Tale comportamento costituirebbe mera ritorsione”.
7
- Comportamenti oltraggiosi, minacce o percosse al datore di lavoro o a
preposti. La valutazione dei Giudici di merito si fa particolarmente severa in
presenza di fattispecie di questo tipo; la giurisprudenza della Cassazione
sottolinea in ogni caso la necessità che il giudice motivi adeguatamente in
ordine all’oggettiva gravità del fatto e alla veridicità, o no, della pretesa
provocazione dell’offeso.
Si segnala come in una fattispecie la C.A. di Torino abbia accolto l’appello
proposto avverso una sentenza del Tribunale di Vercelli (che aveva ritenuto
illegittimo, siccome sproporzionato, il licenziamento irrogato ad un
lavoratore per aver scagliato contro il proprio superiore gerarchico – che lo
aveva richiamato circa il suo ritardo ad iniziare la prestazione lavorativa –
una confezione di succo di frutta) sottolineando come il gesto del lancio del
contenitore del succo di frutta fosse di per sé un comportamento di obiettiva
gravità, a prescindere dal verificarsi di un danno alla persona del superiore
preso di mira dal lancio.
In una sentenza il Tribunale di Roma (sentenza del 14.6.2007) ha ritenuto
legittimo il licenziamento irrogato ad un lavoratore per aver inviato al
dirigente della società datrice di lavoro una lettera anonima contenente
minacce del tipo ““adesso so dove abiti, visto che ti piace rovinare le
persone per i tuoi interessi…non avendo più niente da perdere, sappi che la
prossima è per te”. Alla lettera era allegata una pallottola calibro 12. Nel
caso di specie il Tribunale ha analizzato anche la problematica della
possibilità o meno per l’imprenditore di effettuare indagini e perizie
grafologiche prima di elevare la contestazione e senza incorrere nella
violazione del diritto di difesa. Sul punto il Tribunale ha sottolineato come la
Suprema Corte (v. sent. n. 12027/03), in materia di licenziamenti disciplinari,
abbia costantemente affermato la legittimità delle indagini preliminari del
datore di lavoro - volte ad acquisire elementi di giudizio necessari per
verificare la configurabilità (o meno) di un illecito disciplinare e per
identificarne il responsabile - purché all'esito delle stesse il datore proceda (ai
sensi dell'art. 7, secondo e terzo comma, della legge n. 300 del 1970) alla
rituale contestazione dell'addebito, con possibilità per il lavoratore di
8
difendersi.
* RIFIUTO DI ESEGUIRE LE PRESTAZIONI
Trattasi di una figura riconducibile all’insubordinazione anche se ha
connotati suoi particolari. Caso tipico di rifiuto ad eseguire le prestazioni è
quello che scaturisce dalla convinzione - da parte del lavoratore - che l’ordine
impartitogli dal superiore gerarchico di espletare una determinata attività
comporti in suo danno un demansionamento.
Non c’è dubbio che sussiste GC di licenziamento quando il lavoratore,
deducendo un illegittimo demansionamento, non si limiti al rifiuto della
prestazione ma abbia posto in essere atti autonomamente illegittimi (quali il
pronunciare espressioni ingiuriose e sprezzanti nei confronti del datore o del
superiore gerarchico). A prescindere da tale ipotesi, la Cassazione (sentenza
n. 29832/08) ha stabilito che Nel rapporto di lavoro subordinato non è legittimo - ed è sanzionabile con il licenziamento per giusta causa - il rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione lavorativa dovuta, a causa di una ritenuta dequalificazione, ove il datore di lavoro adempia a tutti gli altri obblighi derivantigli dal contratto (pagamento della retribuzione, copertura previdenziale ed assicurativa etc.), essendo giustificato il rifiuto di adempiere alla propria prestazione, "ex" art. 1460 cod. civ., solo se l'altra parte sia totalmente inadempiente, negli altri casi potendo il lavoratore rifiutare lo svolgimento di singole prestazioni lavorative non conformi alla propria qualifica, ma non potendo rifiutare lo svolgimento di qualsiasi prestazione lavorativa.
Particolari problemi sorgono allorquando il lavoratore rifiuti di rendere la
prestazione lavorativa adducendo che la stessa possa essere dannosa alle
proprie condizioni di salute o che sia stata richiesta senza che il datore di
lavoro abbia adottato le misure di prevenzione e di sicurezza richieste dalla
legge o senza che abbia impartito il necessario addestramento al lavoratore.
Secondo l’insegnamento della Corte di Cassazione (sent. n. 21479 del 2005)
“Nei contratti a prestazioni corrispettive, quando una delle
9
parti giustifica il proprio inadempimento con l’inadempimento dell’altra, occorre procedere alla valutazione comparativa del comportamento dei contraenti non soltanto in riferimento all’elemento cronologico delle rispettive inadempienze ma anche in relazione ai rapporti di causalità e di proporzionalità di tali inadempienze rispetto alla funzione economico – sociale del contratto al fine di stabilire se effettivamente il comportamento di una parte giustifichi il rifiuto dell’altra di eseguire la prestazione dovuta tenendo presente che va, in primo luogo, accertata la sussistenza della gravità dell’adempimento cronologicamente anteriore, perchè quando questo non è grave, il rifiuto dell’altra parte di adempiere non è di buona fede e, quindi, non è giustificato”. Va inoltre aggiunto che il requisito della buona fede
previsto dall’art. 1460 c.c. per la proposizione dell’eccezione “inadimplendi
non est adimplendum” sussiste quando nella comparazione tra
inadempimento cronologicamente anteriore e prestazione corrispettiva
rifiutata, il rifiuto sia stato determinato non solo da un inadempimento grave,
ma anche da motivi corrispondenti agli obblighi di correttezza che l’art. 1175
impone alle parti in relazione alla natura del contratto e alle finalità da questo
perseguite.
Applicando tali principi la Suprema Corte ha ritenuto legittimo il rifiuto del
lavoratore, a fronte dell’inadempimento datoriale, e conseguentemente
illegittimo il provvedimento espulsivo in una fattispecie in cui il lavoratore,
esattore presso un casello autostradale, avendo subito diverse rapine ed
avendo chiesto alla datrice di lavoro l’adozione di misure idonee a garantire
la sicurezza degli esattori, dopo alcune diffide scritte, aveva sospeso
unilateralmente la prestazione, venendo licenziato.
Ancora, è stato ritenuto illegittimo il licenziamento nell’ipotesi in cui il
dipendente, trasferito da un reparto ad un altro più pericoloso, abbia rifiutato
la prestazione adducendo che prima il datore di lavoro doveva adempiere al
proprio obbligo di provvedere ad impartirgli la formazione professionale e le
istruzioni del caso (C. App. Torino sentenza 22.1.2008).
La Suprema Corte, con sentenza n. 9576/05 ha affermato che Nel caso in
10
cui il datore di lavoro non adotti, a norma dell'art. 2087 cod. civ., tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e le condizioni di salute dei prestatori di lavoro, il lavoratore ha - in linea di principio - la facoltà di astenersi dalle specifiche prestazioni la cui esecuzione possa arrecare pregiudizio alla sua salute; conseguentemente, se il lavoratore prova la sussistenza di tale presupposto, è ingiustificato il licenziamento intimato a causa del relativo inadempimento, ferma restando la necessità di valutare l'eventuale responsabilità disciplinare del lavoratore anche dal punto di vista dell'elemento soggettivo. Un’ipotesi particolare di rifiuto di eseguire la prestazione è quella che si
verifica quando il lavoratore risulti assente ingiustificato dal posto di lavoro e
non ottemperi al dovere di rispettare l’orario di lavoro.
In una sentenza del 15.6.2000 il Giudice del Lavoro del Tribunale di Biella
aveva ritenuto illegittimo il licenziamento per GC irrogato ad una lavoratrice
madre la quale, rientrata dalla maternità, dopo aver inoltrato richiesta per
ottenere il part time, orario necessario per poter portare e prelevare dall’asilo
nido il figlio, e aver ottenuto provvedimento di diniego da parte del datore di
lavoro, si era di fatto autoridotta la prestazione lavorativa, presentandosi ogni
giorno sul posto di lavoro secondo l’orario da lei richiesto. Secondo il
Giudice di merito un siffatto comportamento non era sanzionabile con il
provvedimento espulsivo più grave derivando lo stesso da un comportamento
illegittimo dello stesso datore di lavoro.
La C.A. di Torino (sentenza 6.2.2001) ha riformato la sentenza del primo
Giudice sottolineando come la lavoratrice sia incorsa in un grave
inadempimento rispetto al proprio obbligo di rendere la prestazione
lavorativa, non potendo certo farsi giustizia da sé e avendo a disposizione la
possibilità di adire le vie legali per verificare se avesse o meno diritto ad
ottenere il part time.
* COMPORTAMENTI SCORRETTI E CONTRARI AI DOVERI
DERIVANTI DAL RAPPORTO DI LAVORO.
11
Poiché il lavoratore è tenuto a comportarsi sul luogo di lavoro in maniera
corretta, ad adempiere alla propria obbligazione di espletamento dell’attività
lavorativa con diligenza, rientrano in questa categoria di infrazioni
disciplinari tutti i comportamento inadempienti sia sul piano della correttezza
dei rapporti personali con i colleghi, sia sul piano dell’adempimento della
prestazione lavorativa.
Alcuni esempi:
- Scarsa produttività. La Cassazione, nel pronunciarsi in ordine al
licenziamento intimato per scarso rendimento, ha ripetutamente affermato
che lo stesso deve ritenersi legittimo quando risulti provato, sulla scorta della
valutazione complessiva dell’attività resa dal lavoratore stesso ed in base agli
elementi dimostrati dal datore di lavoro, “una evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente, ed a lui imputabile, in conseguenza dell’enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento, avuto riguardo al confronto dei risultanti dati globali riferito ad una media di attività tra i vari dipendenti ed indipendentemente da una soglia minima di produzione” (v. Cass., 22.2.2006 n. 3876, che ha confermato la sentenza di
merito che aveva ritenuto legittimo il licenziamento del lavoratore dato che le
risultanze acquisite comprovavano il notevole calo del rendimento negli
ultimi anni del rapporto comparato in percentuale con quello dei colleghi e
l’imputabilità dello scarso rendimento alla negligenza del lavoratore, nonché
Cass. 3.5.2003 n. 6747, che, affermando il principio per cui la negligenza del
lavoratore licenziato per scarso rendimento può essere provata anche solo
attraverso presunzioni, ha confermato la sentenza impugnata che aveva
ritenuto raggiunta la prova della negligenza sulla base di una serie di elementi
presuntivi e cioè del fatto che altri due produttori operanti nella medesima
zona avevano raggiunto e superato gli obiettivi annuali assegnati, che la
lavoratrice licenziata aveva raggiunto gli obiettivi prefissati quand’era stata
affiancata da un altro collega nelle visite ai possibili clienti, che la stessa
usava effettuare le visite ai potenziali clienti solo nel suo comune di
residenza).
12
- Gravi offese a colleghi e alterchi. Si tratta di fattispecie molto frequenti
nella pratica quotidiana, verificandosi spesso che all’interno dei luoghi di
lavoro, a fronte di differenti vedute su come dividersi il lavoro o su come
collaborare, i dipendenti entrano in conflitto e si rivolgono tra di loro con
frasi offensive.
Quando tali espressioni costituiscono gravi offese alla dignità e all’onore del
collega, è ovvio che le stesse possono essere idonee, oltre che ad incidere
negativamente sull’organizzazione del lavoro, a ledere in maniera irreparabile
il vincolo fiduciario tra lavoratore e datore di lavoro.
Richiamo a questo proposito due precedenti che all’apparenza possono
sembrare simili ma che, per alcuni aspetti differenti, hanno portato i giudici
di merito a soluzioni opposte. In entrambi i casi si è trattato di un alterco tra
un lavoratore italiano ed un lavoratore extracomunitario di colore; in
entrambi i casi il lavoratore italiano ha fatto allusione alla pelle nera del
collega, ciò che ha indotto il datore di lavoro ad irrogare il licenziamento per
GC ritenendo la cosa gravemente offensiva dell’onore del cittadino
extracomunitario siccome espressione a fondo razzista.
Con sentenza del 26.6.2008 il Tribunale di Aosta ha respinto il ricorso
presentato da un lavoratore avverso il licenziamento per GC irrogatogli per
aver “offeso gravemente un collega di lavoro, indirizzandogli epiteti
discriminatori e razzisti”. Invero, era risultato pacifico che il ricorrente al
termine del turno di lavoro notturno, compilando il consueto rapporto sulla
produzione, aveva apposto – nello spazio riservato ai nominativi dei
lavoratori presenti nel turno – oltre all’abbreviazione del proprio nome
(“MIC”), il termine “NEGER” (successivamente cancellato con tratti di
penna, ma tuttora leggibile) ad indicare il collega di nazionalità marocchina.
Ritenuta sussistente l’evidente offensività del termine usato - appartenente ad
un linguaggio discriminatorio e razzista-, il Giudice ha confermato la
legittimità del licenziamento per GC.
In un caso da me trattato (sentenza Trib. Va del 15.5.2007), viceversa, ho
ritenuto illegittimo il licenziamento per GC irrogato ad una lavoratrice la
13
quale, dopo aver ricevuto una direttiva lavorativa da parte di una collega di
pari livello e che non aveva poteri gerarchici su di lei, le ha risposto con la
seguente frase: “rifiuto di ricevere ordini da te e i neri non dovrebbero essere
accettati in Italia”. Effettuata istruttoria su quanto avvenuto il giorno
dell’alterco e sui rapporti intercorsi in precedenza tra le parti (la lavoratrice
licenziata aveva in più occasioni aiutato la collega, divenuta sua amica e che
frequentava anche al di fuori dell’attività lavorativa), ho ritenuto di dover
collocare la frase –assai sconveniente e riprovevole- come priva di un
effettivo e convinto atteggiamento razzista e discriminatorio della italiana
nei confronti della collega della Costa d’Avorio (l’intercorsa amicizia tra le
due è stata valutata da me come sintomatica del fatto che non vi fosse un
aprioristico atteggiamento razzista nei confronti delle persone di colore), con
conseguente mancanza della connotazione di quella gravità che è richiesta in
simili casi per l’adozione della sanzione disciplinare più grave.
* VIOLAZIONE DELL’OBBLIGO DI FEDELTA’, RISERVATEZZA
L’art. 2105 c.c. sancisce che il lavoratore ha un obbligo di fedeltà nei
confronti del datore di lavoro: non deve cioè trattare affari, per conto proprio
o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti
all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in
modo da poter recare ad essa pregiudizio.
La violazione di un siffatto obbligo può, nei casi più gravi, legittimare il
licenziamento per GC.
Alcune fattispecie concrete:
- Obbligo di fedeltà: E’ sicuramente ravvisabile una violazione dell’obbligo
di fedeltà nel comportamento del dipendente che esegua lavori per conto di
terzi durante l'orario di lavoro, siano essi in concorrenza o meno; peraltro,
nell’ipotesi di un lavoratore che ha effettuato lavori operai di mera
manovalanza durante le ferie, è stata esclusa la configurabilità dell’attività
concorrenziale, trattandosi di mansioni che non consentono di acquisire
particolari cognizioni né segreti da divulgare o sfruttare a fini propri
(sentenza Tribunale di Bergamo, 17.4.2008)
14
- Dovere di riservatezza: Problema della produzione in giudizio, in una
controversia intentata dal lavoratore nei confronti del datore di lavoro, di
documenti aziendali dei quali lo stesso è in possesso proprio in virtù
dell’attività lavorativa prestata. In questi casi si pone il problema di quale sia
il limite della produzione di documenti aziendali riservati quando tale
produzione sia necessaria per far valere o difendere un proprio diritto.
Il Tribunale di Novara (sentenza del 13.12.2007) ha ritenuto illegittimo il
licenziamento per giusta causa intimato al lavoratore per asserita violazione
degli obblighi di segretezza a cui sono tenuti i dipendenti per avere prodotto,
tra i documenti depositati nell’ambito di precedente giudizio promosso per
impugnare una precedente sanzione disciplinare, una planimetria della
raffineria ove egli lavorava (documento che il datore di lavoro riteneva avere
carattere riservato per ragioni di sicurezza e di segreto industriale e che il
lavoratore aveva fotocopiato senza autorizzazione). Il Tribunale di Novara,
richiamata la giurisprudenza della S.C. che, distinguendo tra sottrazione da
parte del lavoratore di documenti aziendali di carattere riservato e produzione
in giudizio di copia di detti documenti al fine di esercitare il diritto di difesa,
considera pienamente lecita quest’ultima condotta, ha ritenuto nel caso
sottoposto alla sua attenzione non provato che la riproduzione della
planimetria prodotta in giudizio fosse stata ottenuta dal ricorrente abusando
delle attrezzature tecnologiche aziendali e durante l’orario di lavoro; ha
ritenuto, pertanto che non sussistessero gli elementi costitutivi della
fattispecie in relazione alla quale l’art. 55 CCNL prevede la sanzione
disciplinare del licenziamento senza preavviso.
Le stesse considerazioni sono state svolte in un altro caso in cui, al fine di
ottenere differenze retributive, il lavoratore si era impossessato e aveva
fotocopiato, senza esserne autorizzato, del foglio presenze aziendale.
- Contestazione dell’inosservanza agli obblighi di riservatezza e fedeltà
perpetrata attraverso dichiarazioni rilasciate durante la partecipazione ad una
trasmissione televisiva andata in onda presso una emittente locale da parte di
un lavoratore che aveva la qualifica di rappresentante sindacale (ordinanza
Trib. Va 20.3.2007). In questo caso il Giudice ha ritenuto non sussistere la
15
GC dal momento che, visionato il dvd relativo alla trasmissione televisiva
(ove si dibatteva sul tema della sicurezza del nucleare nella provincia di
Varese; il lavoratore era stato ivi invitato come ospite posto che svolgeva le
mansioni di guardia giurata presso il Centro di Ispra), ha escluso che le
affermazioni del dipendente si siano tradotte in un abuso del diritto di critica
e del corretto esercizio delle libertà sindacali; ciò anche tenuto conto del
contesto in cui il lavoratore ha esposto il suo punto di vista, ovvero
nell’ambito di un dibattito con immediato diritto di replica da parte dei
controinteressati, ciò che ha evitato ogni possibile fraintendimento sul
contenuto delle medesime.
* INFRAZIONI VARIE AL REGOLAMENTO E ALLA DISCIPLINA
AZIENDALE
Si trovano fattispecie di diverso contenuto:
- inosservanza al divieto di fumare: la condotta viene dalla giurisprudenza
valutata come giustificante il licenziamento in tronco ogni qual volta il
divieto derivi, tra l’altro, dalle condizioni dell’ambiente di lavoro (es.
ambiente infiammabile, reparto ospedaliero ove si trovano degenti o neonati,
ecc.) In un caso recente il Tribunale di Varese (sentenza 17.7.2009) ha
ritenuto sussistere la GC del licenziamento avendo valutato che il fatto di
fumare presso la postazione sulla linea di produzione ove vengono utilizzati
materiali altamente infiammabili, costituisca condotta potenzialmente
pregiudizievole per l’incolumità dei colleghi e la sicurezza degli impianti.
- avere la lavoratrice selezionato numerose volte, nell’arco temporale indicato
di circa tre mesi, un numero telefonico privato dalla propria postazione di
lavoro col fine di evitare di ricevere telefonate in entrata al call center al
quale era addetta e dunque per evitare di svolgere correttamente il proprio
lavoro. In questo caso il Tribunale di Milano (sentenza del 21.5.2008) ha
valutato che la sanzione del licenziamento appariva proporzionata in
considerazione delle mansioni svolte dalla lavoratrice, addetta al servizio di
call center. Il Giudice di Milano ha invero evidenziato come “...il sistematico
16
utilizzo improprio del telefono sul posto di lavoro – già di per sé grave –
assume un valore ancor più disdicevole nella fattispecie che ci occupa,
proprio perché la mansione lavorativa è per sua natura svolta per mezzo del
telefono. In altri termini, se nell’ambito di un call center il telefono non viene
utilizzato per i servizi da rendere alla clientela committente, ma piuttosto per
motivi personali, ciò significa che il lavoratore si sottrae almeno in parte alle
mansioni cui è tenuto...”.
- mancato rispetto del regolamento da parte di una guardia giurata la quale,
anziché presentarsi al proprio turno di servizio con l’uniforme indossato (così
come prescritto in apposito ordine di servizio da lui sottoscritto), era solita
recarsi sul posto di lavoro ed indossare ivi l’uniforme.
In tale occasione il Tribunale di Napoli (sentenza del 14.1.1997) ha ritenuto
che “Nella fattispecie il presentarsi in servizio, in aperto contrasto con un
preciso ordine di servizio per ben due volte consecutivamente, senza
indossare l'uniforme, seppure con l'intento di farlo in un momento
antecedente alla presa delle consegne ed in perfetto orario, unitamente al
diverbio litigioso ed ingiurioso con un superiore passando poi alle vie di
fatto e cagionando lesioni personali, integrano gli estremi di un
comportamento che, anche se non previsto dall'art. 91 c.c.n.l. vigente, è
obiettivamente grave, giusta causa di recesso...”.
- mancato rispetto del regolamento della carta fedeltà da parte della cassiera
di un supermercato. In questa fattispecie, sottoposta alla mia attenzione
(sentenza Tribunale di Varese del 10.10.2008), all’esito dell’istruttoria,
poiché è stata fornita la prova unicamente del fatto che la cassiera era solita
utilizzare impropriamente la propria Card solo in occasione dell’accesso al
supermercato da parte di suoi familiari (e nulla è emerso con riferimento ad
altri avventori), ho ritenuto che la sanzione del licenziamento per GC fosse
sproporzionata dal momento che il dovere di utilizzare in maniera corretta la
tessera a punti trova la sua ratio nell’evitare di cagionare danni all’azienda e
nell’evitare di vanificare lo sforzo di fidelizzare i clienti. “Nel caso di specie
deve escludersi sia che la condotta della lavoratrice abbia arrecato un grave
17
danno economico (si osservi come i punti accumulati sulla tessera nel giro di
quasi 6 mesi siano meno di 500) sia che abbia vanificato gli sforzi
commerciali posti in essere attraverso la campagna a punti, posto che, come
è stato provato dalla ricorrente, la carta fedeltà è stata prevalentemente
utilizzata dal marito, persona avente un interesse ed una propensione a fare
la spesa in quel supermercato a prescindere dal possesso di una carta
sconti....”.
* ABBANDONO DEL POSTO DI LAVORO
In genere rientra nel g.m.s. ma nei casi più gravi tale condotta è stata dalla
giurisprudenza valutata come G.C.. Così Cass. n. 6241/05 quando cioè
dall’abbandono può derivare un pregiudizio all’incolumità delle persone o
alla sicurezza degli impianti. In un altro caso la Cass. n. 9840/02 ha ritenuto
sussistere la GC quando l’abbandono sia stato posto in essere da un
dipendente con mansioni di custodia o di sorveglianza: L'abbandono del posto di lavoro da parte di dipendente cui siano affidate mansioni di custodia e sorveglianza configura - a differenza del momentaneo allontanamento dal posto predetto - mancanza di rilevante gravità idonea, indipendentemente dall'effettiva produzione di un danno, a fare irrimediabilmente venir meno l'elemento fiduciario nel rapporto di lavoro ed a integrare la nozione di giusta causa di licenziamento, anche in difetto di corrispondente previsione del codice disciplinare, atteso che, nelle ipotesi di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il potere di recesso del datore di lavoro deriva direttamente dagli artt. 1 e 3 legge n. 604 del 1966, norme esprimenti precetti di sufficiente determinatezza.
* COMPORTAMENTI CONNESSI CON LA MALATTIA
La malattia del lavoratore assume rilevanza sotto specifici profili nell’ambito
del g.m.s. o della GC. Di per sé è ormai pacifico che l’eccessiva morbilità
non costituisce un grave inadempimento contrattuale ma un’ipotesi autonoma
di recedibilità dal contratto (per superamento del periodo di comporto).
18
Le situazioni legate alla malattia che possono avere rilevanza dal punto di
vista della sussistenza del g.m.s. di licenziamento o di GC possono essere
connesse:
- alla mancata comunicazione della malattia nei termini previsti dalla
contrattazione collettiva (Cass. n. 3194/89: l’inosservanza del termine
previsto dal contratto collettivo entro il quale il lavoratore assente ha
l’obbligo di giustificare la sua mancata prestazione lavorativa mediante
l’invio del certificato medico può legittimare il licenziamento per GC,
dovendo però essere tenuto necessariamente conto dell’elemento soggettivo
del comportamento inadempiente, ossia la gravità della colpa);
- svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per
malattia può giustificare il recesso del datore di lavoro, in relazione alla
violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici
obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, oltre che nell’ipotesi in cui tale
attività esterna sia di per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza della
malattia, dimostrando quindi una fraudolenta simulazione, anche nell’ipotesi
in cui la medesima attività, valutata con giudizio ex ante, in relazione alla
natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare
la guarigione ed il rientro in servizio (es. Cass. n. 14046/05 che ha
confermato la sentenza di merito che ha riconosciuto legittimo il
licenziamento di un dipendente che era stato sorpreso a lavorare con
mansioni di carico e scarico merci e servizio ai tavoli nel circolo ricreativo
gestito dalla moglie durante un periodo di assenza dal servizio per distorsione
al ginocchio).
In una recente sentenza (Cass. n. 9474/09) la Suprema Corte ha ulteriormente
chiarito: L'espletamento di altra attività, lavorativa ed extralavorativa, da parte del lavoratore durante lo stato di malattia è idoneo a violare i doveri contrattuali di correttezza e buona fede nell'adempimento dell'obbligazione e a giustificare il recesso del datore di lavoro, laddove si riscontri che l'attività espletata costituisca indice di una scarsa attenzione del lavoratore alla propria salute ed ai relativi doveri di cura e di non ritardata guarigione, oltre
19
ad essere dimostrativa dell'inidoneità dello stato di malattia ad impedire comunque l'espletamento di un'attività ludica o lavorativa. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione della corte territoriale che aveva ritenuto non contrastante con i doveri del dipendente nel periodo malattia la condotta di un aiuto medico, con rapporto di lavoro a tempo parziale, che, pendente un ciclo riabilitativo per l'insorgenza di coxoartrosi post-necrotica, guidava una moto di grossa cilindrata, prendeva bagni di mare e prestava attività di direttore sanitario presso altro presidio sanitario). In linea di massima l’assenza alla visita di controllo durante le fasce orarie,
benché possa dar luogo a sanzioni quali la perdita del trattamento economico,
non integra di per sé un inadempimento sanzionabile con il licenziamento.
Cass. n. 3226/08 ha peraltro affermato che
In tema di controlli sulle assenze per malattia dei lavoratori dipendenti, volti a contrastare il fenomeno dell'assenteismo e basati sull'introduzione di fasce orarie entro le quali devono essere operati dai servizi competenti accessi presso le abitazioni dei dipendenti assenti dal lavoro, ai sensi dell'art. 5, comma quattordicesimo, d.l. 12 settembre 1983 n. 496, convertito con modificazioni dalla legge n. 638 del 1983, la violazione da parte del lavoratore dell'obbligo di rendersi disponibile per l'espletamento della visita domiciliare di controllo entro tali fasce assume rilevanza di per sè, a prescindere dalla presenza o meno dello stato di malattia e può anche costituire giusta causa di licenziamento.
* COMPORTAMENTI COSTITUENTI REATO
Bisogna distinguere tra l’ipotesi in cui la condotta delittuosa sia posta in
essere nell’esercizio delle proprie mansioni da quella in cui il lavoratore
commetta un reato nella vita privata e subisca la carcerazione preventiva o
riporti una condanna penale.
In caso di reato commesso dal lavoratore nell’esercizio della mansioni, spetta
al Giudice accertare in concreto se i fatti siano tanto gravi da costituire GC o
g.m.s..
20
La valutazione che deve effettuare il Giudice del Lavoro è svincolata da
quella del Giudice penale.
Il Giudice del Lavoro è anzi spesso chiamato a valutare l’incidenza del fatto
prima che venga celebrato il processo penale. Ciò anche in considerazione
del fatto che, per il principio dell’immediatezza della contestazione, il datore
di lavoro è tenuto a elevare la contestazione disciplinare non appena i fatti da
contestare gli appaiono ragionevolmente sussistenti, non potendo egli
legittimamente dilazionare la contestazione fino al momento in cui ritiene di
averne assoluta certezza (v. fra le molte, Cass. 12/5/05 n. 9955; Cass. 13/6/06
n. 13621)
I fatti aventi rilevanza penale sono così gravi da legittimare – in linea di
massima - il licenziamento dal momento che sono normalmente idonei a
incidere irrimediabilmente sulla fiducia. La Cass., con sentenza n. 5299/00,
ha peraltro censurato il metodo applicativo seguito dal Giudice di merito dal
momento che lo stesso aveva dato acritico rilievo alla astratta qualificabilità
come reati di determinati comportamenti, senza la necessaria considerazione
degli elementi soggettivi e della concreta incidenza pregiudizievole sulla
sfera del datore di lavoro.
Valutata in concreto l’incidenza di determinate condotte configuranti fatti di
rilevanza penale sul vincolo fiduciario, la giurisprudenza ha ad esempio
ritenuto sorretto da GC il licenziamento nei seguenti casi:
- mancata registrazione da parte di una cassiera di tre importi (per un totale di
circa €. 25) e mancata emissione del relativo scontrino (Cass. n. 4212/97 ove
si sottolinea il fatto che È irrilevante, ai fini della sussistenza della giusta causa di licenziamento, l'assenza (o la modesta entità) di un danno patrimoniale a carico del datore di lavoro, ove il comportamento illecito del prestatore abbia determinato il venir meno del requisito della fiducia);
- appropriazione di ingenti somme versate dagli assicurati da parte del
dipendente di una compagnia di assicurazione (Cass. n. 8305/05);
- concessione di prestiti in denaro a colleghi di lavoro a tassi di interessi
usurai (Cass. n. 10315/00);
21
- attività di contrabbando da parte dei un dipendente della Compagnia
Tirrenia consistito nel trasporto sulla nave, e conseguente introduzione in
Italia, di n. 160 pacchetti di sigarette di contrabbando (Tribunale di Napoli);
- ipotesi della cassiera di un Autogrill reiteratamente sorpresa, all’esito di una
serie di controlli sul suo operato di cassiera (effettuati avvalendosi di apposita
società Lodge Service s.r.l.), a non effettuare la registrazione nella cassa di
vendite a favore di avventori che avevano effettuato acquisiti e versato il
corrispettivo prezzo (Tribunale di Varese 19.11.2008);
- ipotesi relativa ad alcuni casellanti dell’Autostrada che incassavano,
pedaggi in valuta straniera per un importo superiore al pedaggio effettivo,
senza dare resto, ma, soprattutto, senza versare alla società autostrade
l’eccedenza e senza annotare nell’apposito rapporto giornaliero gli episodi,
consegnando un rapporto dove le risultanze di cassa danno un risultato di
sostanziale pareggio (ordinanza del Tribunale di Napoli 10.1.2002 che si
segnala per l’articolata motivazione in punto possibilità o meno per il datore
di lavoro di effettuare controlli del personale avvalendosi di società di
investigazione privata. Il giudice di Napoli, ha sul punto ricordato come la
S.C., in più occasioni, ha ritenuto legittimi i controlli posti in essere da
dipendenti di un'agenzia investigativa, i quali, operando come normali clienti
e non esercitando potere alcuno di vigilanza e controllo, verifichino
“l'eventuale appropriazione di denaro (ammanchi di cassa) da parte del
personale addetto”. Una simile attività investigativa è stata ritenuta dalla
Suprema Corte non in contrasto con gli artt. 3 e 4 SL).
Con riferimento al fatto delittuoso posto in essere dal lavoratore nella vita
privata, sorgono due problemi: 1) possibili profili della rilevanza della
carcerazione preventiva e 2) rilevanza della condanna penale.
Qualora il lavoratore sia assente dal lavoro in quanto in stato di carcerazione
preventiva o comunque di detenzione per fatti non commessi in ambito
lavorativo, l’opinione prevalente ritiene che non si sia in presenza di un
inadempimento di obblighi contrattuali, ma piuttosto di un fatto oggettivo
determinante una sopravvenuta impossibilità temporanea della prestazione
22
lavorativa. La persistenza o meno, nel datore di lavoro, di un apprezzabile
interesse a ricevere le ulteriori prestazioni del lavoratore deve pertanto essere
valutata alla stregua di criteri oggettivi, riconducibili a quelli fissati
nell’ultima parte dell’art. 3 L. n. 604/66 (g.m.o.).
Con riferimento all’ulteriore problema della incidenza della condanna penale
per fatti estranei all’attività lavorativa, si osserva come la giurisprudenza
prevalente sia in linea di massima orientata a ritenerla irrilevante. I fatti alla
base di una condanna, peraltro, possono costituire GC di licenziamento tutte
le volte in cui siano di natura tale da far ritenere il lavoratore inidoneo alla
prosecuzione del rapporto (così ad esempio allorquando la sentenza di
condanna, oltre ad accertare che il dipendente è abituale consumatore di
sostanze stupefacenti, lo abbia condannato per spaccio ed il lavoratore è
preposto a svolgere mansioni che lo mettono in contatto diretto con l’utenza).
Varese, 4.12.2009
Elena Fumagalli
23