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Le origini brianzole Achille Ratti nasce nel 1857 a
Desio, in Brianza, tra Monza e
Como, quarto di cinque figli. Il
padre è direttore di filande. Da
molte generazioni i Ratti
esercitano l’arte della seta
(filatura e tessitura).
Molto si è scritto sulle radici
brianzole del futuro pontefice: il
cardinale Confalonieri, a lungo
suo segretario particolare, ha
scritto: “Il papa amava tanto la
Brianza non solo perché era
brianzolo, ma per la grande
vitalità della gente, per la capacità
di godere del lavoro e di
mettercela sempre tutta in ogni
circostanza”.
Sulla formazione spirituale del piccolo
Achille ha un influsso significativo lo
zio, don Damiano Ratti, prevosto di
Asso, legato da speciale amicizia con
l’arcivescovo di Milano, Nazari di
Calabiana, senatore del Regno e tra i
pochi oppositori italiani dell’infallibilità
pontificia al Vaticano I.
A dieci anni entra nel Seminario di S.
Pietro Martire a Milano; poi passa in
quello di Monza per approdare al
Collegio arcivescovile S. Carlo di
Milano dove prepara la licenza liceale
che ottiene al liceo Parini.
Primeggia in greco e nell’ebraico.
Continua gli studi nel Seminario
teologico da dove, dopo il terzo corso,
passa al Collegio Lombardo di Roma,
appena riaperto nei pressi della chiesa
di S. Carlo al Corso.
Gli anni della formazione
Tra i suoi compagni al Collegio
Lombardo c’è anche Giacomo Radini
Tedeschi che, nominato vescovo a
Bergamo nel 1905, avrà come
segretario il futuro papa Roncalli.
Ordinato prete nel 1879, nel 1882 si
laurea in teologia alla Sapienza, in
diritto canonico all’Università
Gregoriana e in filosofia presso
l’Accademia S. Tommaso.
Prima di lasciare Roma, viene ricevuto
in udienza privata da Leone XIII, che
lo avrebbe esortato a “essere tra i
propugnatori del ritorno della filosofia
scolastica tomistica” e a “dire a tutti
che questa è la volontà del papa”, così
da salvare la diocesi dei santi
Ambrogio e Carlo “dall’inquinamento
filosofico di una scuola che fa proprio
l’antesignano abate Rosmini”.
Studioso brillante
Nell’anno accademico 1882-1883 gli
vengono affidati i corsi di sacra
eloquenza e di teologia dogmatica al
Seminario teologico di Milano. In
quell’anno incontra don Giovanni
Bosco all’oratorio di Valdocco.
Dopo cinque anni di insegnamento
entra a far parte dei “dottori” della
Biblioteca Ambrosiana.
La sua produzione scientifica è intensa
e di alta qualità storica: oltre settanta
scritti che vengono pubblicati dalle
più significative riviste del tempo,
come l’Archivio Storico Lombardo, i
Rendiconti dell’Istituto Lombardo di
Scienze e Lettere e il Giornale Storico
della Letteratura Italiana.
Grande appassionato di alpinismo,
compie varie escursioni, come quella
dell’ottobre 1913, quando resta per
quattro notti nella capanna sulla vetta
della Grigna settentrionale.
I libri e la montagna
Dai suoi lavori emerge una grande
conoscenza delle lingue e della paleografia,
e una vasta cultura storica e filosofica.
Nel 1904, in un discorso per il 25° di
sacerdozio, non esita a esaltare “i treni di
lusso che traversano regioni fino a ieri
riservate alle foreste vergini e ai deserti di
neve e d’arena; Edison, il signore
dell’elettricità; Marconi, gloria nostra”, e
ringrazia la Provvidenza “d’averci serbati a
tanta grandezza d’ogni umano progresso”.
All’Ambrosiana stringe amicizie
importanti: Mercati, van Ortroy, Roncalli,
Ferrini.
Svolge anche altre attività: riordina
l’archivio storico diocesano, esamina resti
e reliquie di santi e di martiri, riordina la
pinacoteca e il museo, predica alla
comunità tedesca di Milano.
Uomo dai mille
interessi
Non è chiara il ruolo giocato da Ratti nei momenti difficili
delle polemiche antimoderniste che coinvolgono anche il
card. Ferrari.
Comunque in una lettera del 1900 a Gallarati Scotti –
sospetto di modernismo – egli scrive: “Ai miei auguri
sono lieto di poter unire quelli… del buon barone von
Hügel… con il quale ho pranzato presso un altro degno e
dotto sacerdote, padre Genocchi… Al principio del mio
soggiorno romano pranzai pure con il p. Semeria”.
Durante gli anni trascorsi all’Ambrosiana, di cui diventa
prefetto nel 1907, Ratti compie vari viaggi all’estero per
studi, ma anche per due missioni “ufficiali”: nel 1891
accompagna l’amico Radini Tedeschi che porta la berretta
cardinalizia all’arcivescovo A.G. Gruscha e nel 1893
viene incluso come segretario dello stesso Radini nella
missione inviata da Leone XIII a Parigi per rimettere la
berretta rossa al nuovo arcivescovo di Bordeaux e a quello
di Rodez.
Incarichi prestigiosi
Nel 1911 Pio X lo chiama alla Biblioteca Apostolica
Vaticana. Tre anni dopo ne diventa prefetto. Ratti si
impegna a sviluppare la Biblioteca e le raccolte annesse.
Nel 1918 Benedetto XV decide di inviare mons. Ratti a
Varsavia come visitatore apostolico per la Polonia e la
Lituania, nonostante manchi di esperienze internazionali. In
un primo momento, si pensa che Ratti debba soltanto
aiutare la Chiesa polacca a riorganizzarsi e a definire i
propri rapporti con il nuovo Stato; ma nel 1919 viene
consacrato vescovo e nominato nunzio apostolico a
Varsavia e il suo mandato si estende a “tutti i territori già
soggetti ai Romanov”.
Ai primi entusiasmi subentrano nel nunzio costanti
preoccupazioni per l’accentuato nazionalismo dei polacchi
e per le divergenze con il card. Bertram di Breslavia, che
parteggia per la sovranità tedesca in Alta Slesia e osteggia i
cattolici di rito orientale.
Dissapori ci sono anche con parte dei vescovi polacchi,
specie con Sapieha, di Cracovia, favorevole a una Chiesa
“più polacca e meno romana”. Quando i bolscevichi
invadono Varsavia, nel 1920, Ratti non lascia la città come
invece fa il governo polacco che si trasferisce a Posen.
Nominato alto commissario per garantire l’imparzialità
della Chiesa nel plebiscito che doveva attribuire l’Alta
Slesia alla Germania o alla Polonia, Ratti - che pure
segnala la parzialità e inattendibilità di Bertram - è
considerato dai Tedeschi troppo filopolacco Ratti;
d’altra parte, con il suo atteggiamento di riserbo finisce
per scontentare gli stessi Polacchi che minacciano la
rottura delle relazioni diplomatiche con il Vaticano.
L’ambasciatore tedesco presso la Santa Sede, von
Bergen, denuncia l’inesperienza del nunzio a Varsavia
che viene a trovarsi in contrasto con il nunzio in
Germania, Eugenio Pacelli, che gode la piena fiducia
del Segretario di Stato vaticano, il cardinale Gasparri.
Dopo alcune contestazioni pubbliche, Ratti è
richiamato in Italia. Rientrato a Roma nel 1921, è
trasferito alla sede arcivescovile di Milano, dove da
poco è morto il card. Ferrari.
Creato cardinale nello stesso anno, resta nella
metropoli lombarda soltanto pochi mesi, perché
diventerà papa nel conclave del febbraio 1922.
Fa in tempo a partecipare alla solenne inaugurazione
dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.
Nel conclave seguito alla morte di Benedetto XV,
iniziato il 2 febbraio 1922 e conclusosi il 6 (il più
lungo del Novecento), Achille Ratti viene eletto
papa al 14° scrutinio. Dopo le prime candidature
dello spagnolo Merry del Val, già segretario di Stato
di Pio X, e di Maffi, vescovo di Pisa, emergono i
nomi di La Fontaine, patriarca di Venezia, e di
Gasparri.
Ratti partito con 4 voti, raggiunge i 42 su 53, grazie
alla convergenza su di lui del gruppo di Gasparri. Il
cardinale De Lai, che capeggia i nostalgici di Pio X,
avrebbe condizionato i voti del proprio gruppo
all’impegno di non confermare Gasparri alla
Segreteria di Stato.
Il nuovo pontefice sceglie il nome di Pio XI, forse
per segnalare una non discontinuità con Pio X;
adotta come motto “Pax Christi in Regno Christi”
per sintetizzare il suo programma; conferma
Gasparri come segretario di Stato sia per l’appoggio
ricevuto in conclave, sia perché, date le sue prove
non brillanti in Polonia, ha bisogno di un grande
diplomatico e giurista che guidi la sua “cancelleria”.
Elezione
al pontificato
Il pontificato di Pio XI dura 17 anni ed è segnato da
eventi decisivi per la storia del Novecento. Egli
deve affrontare:
- un difficile primo dopoguerra
- quattro dittatori: Mussolini, Hitler, Stalin e Franco
- la grande crisi finanziaria del 1929
- le guerre coloniali
- la situazione del Messico
- la guerra di Spagna
- le leggi razziali tedesche e italiane
- la preparazione del secondo conflitto mondiale
Un grande successo è rappresentato dalla soluzione
della “questione romana”, con il recupero di una
pur minuscola sovranità territoriale, la creazione
dello Stato Vaticano con le sue leggi, il concordato
con l’Italia fascista che servirà da modello per tutti i
successivi accordi con gli Stati totalitari.
Con le due prime encicliche (Ubi arcano Dei, 1922; Quas Primas, 1925) Pio
XI affronta i problemi di politica internazionale: depreca il nazionalismo,
auspica il ritorno alla cristianità medievale nella prospettiva di una
restaurazione del Regno di Cristo. Qualcuno ha parlato di una sorta di nuova
Unam Sanctam di Bonifacio VIII nel Novecento.
L’Azione Cattolica è da lui pensata come lo strumento principale per restaurare
il potere della Chiesa nella vita pubblica, in stretta obbedienza alle direttive e
alle gerarchie ecclesiastiche. A questo disegno si collegano le encicliche sociali
degli anni 1929-1931: Divini illius Magistri, 1929; Casti connubii, 1930;
Quadragesimo anno, 1931; esse esprimono lo spostamento dell’interesse dal
rapporto con lo Stato al rapporto con la società, in seno alla quale i laici devono
impegnarsi a risolvere cristianamente i vari problemi (educativo, familiare e
sociale) posti alla vita collettiva. L’attenzione alla società si accompagnava
all’attenzione alla persona e alla sua responsabilità come al primo e principale
fattore nel gioco dei rapporti sociali.
Pur mantenendo una visione fortemente gerarchicizzata dell’azione della
Chiesa attraverso i laici, il pensiero di Pio XI contiene alcune virtualità
innovative che saranno sviluppate dai successori.
Dal punto di vista più
propriamente religioso il
pontificato di Pio XI, oltre che
per il giubileo ordinario del
1925 e quello straordinario nel
XIX centenario della
Redenzione (1933), si
caratterizza per una
successione senza precedenti di
beatificazioni e canonizzazioni.
Tra i nuovi santi da lui
proclamati Teresa di Lisieux,
Roberto Bellarmino,
Bernadette Soubirous e
Giovanni Bosco.
Sul piano culturale, va registrata l’importanza attribuita dal pontefice alle
scienze esatte e naturali, provata anche dalla creazione della Pontificia
Accademia delle Scienze, dove vengono chiamati anche scienziati non
cattolici.
Con la costituzione Deus scientiarum Dominus del 1931 l’istruzione
ecclesiastica superiore viene considerata con un approccio moderno e
rigoroso, anche se l’atteggiamento nel campo biblico mostra l’orientamento
conservatore di papa Ratti. Egli non esita a perseguire gli epigoni del
movimento modernista e soprattutto il loro più illustre esponente, Ernesto
Buonaiuti: questi viene privato della cattedra nel 1931 per il suo rifiuto del
giuramento al fascismo.
Pio XI ha ormai dimenticato le relazioni personali e le aperture intellettuali di
quando era bibliotecario ambrosiano e frequentava, come si è detto, von
Hügel, lodando inoltre Dio per la grazia versata su Paul Sabatier, il letterato
protestante autore di una fortunata biografia di san Francesco d’Assisi.
L’orientamento culturale del pontificato
Le scelte politiche di Pio XI
Nell’arco del pontificato Pio XI deve affrontare spinose questioni politiche.
Ecco le più importanti:
- la Rivoluzione d’ottobre in Russia, con la successiva nascita di partiti
comunisti in varie parti del mondo cattolico
- l’avvento del fascismo in Italia e del nazismo in Germania,
- le guerre coloniali del duce
- l’asse Roma-Berlino
- la guerra di Spagna
- l’annessione dell’Austria al “Reich” hitleriano
- lo smembramento della Cecoslovacchia
Questa situazione obbliga il papato, che con gli accordi del Laterano del 1929
ha recuperato il suo posto nella comunità delle nazioni, a una pericolosa
navigazione tra i numerosi scogli del mare delle ideologie. Nonostante
l’esperienza, la preparazione e l’abilità di segretari di Stato del calibro di
Gasparri e Pacelli, non poche delle scelte politiche del pontificato lasceranno
tracce non facilmente cancellabili.
La marcia su Roma e la presa del potere da
parte di Mussolini cambiano radicalmente il
quadro politico italiano. Il duce si inserisce
nel solco della politica ecclesiastica
“conciliatorista” degli ultimi governi liberali,
che ha il suo punto forte nelle intese parigine
del 1919 tra Orlando e monsignor Cerretti, le
quali prevedono un accordo che assegni un
piccolo territorio alla Santa Sede e un
concordato che regoli la condizione della
Chiesa e la vita religiosa in Italia.
Le tappe che portano agli accordi del
Laterano sono: il ripristino del crocefisso nei
locali pubblici, l’insegnamento della
religione cattolica nelle scuole materne ed
elementari, il progetto Rocco di riforma
della legge delle guarentigie, le trattative
Barone-Pacelli, le pressioni di Mussolini sul
re, la firma del trattato e del concordato l’11
febbraio 1929 nei Palazzi Lateranensi.
I Patti Lateranensi
La politica concordataria seguita da Pio XI in Italia è collegata a un ben preciso
disegno: far rivivere lo Stato cattolico, servirsi del regime totalitario per
rafforzare il potere gerarchico nella Chiesa.
Basilare è il riconoscimento concordatario della capacità di enti canonicamente
eretti di acquistare, possedere e amministrare i beni ecclesiastici, e la clausola
che vieta ogni attività di carattere politico (ma anche culturale, sindacale,
sportivo ecc.) del clero e delle associazioni del laicato cattolico.
Si aggiungano:
- l’esenzione del clero da ogni carica civile incompatibile in base a disposizioni
canoniche
- il quasi generale esonero dalle imposte per gli enti ecclesiastici
- l’insegnamento religioso sostanzialmente obbligatorio nelle scuole
- l’efficacia civile dei matrimoni religiosi e il riconoscimento delle sentenze
ecclesiastiche in materia con l’indissolubilità anche civile di tali matrimoni
Il fascismo rinuncia al vecchio programma liberale dello Stato laico, della
separazione fra Chiesa e Stato, dello Stato indifferente in materia religiosa.
La Chiesa rinuncia a un disegno di rafforzamento interno per la sua necessaria
espansione esterna.
Nella prima parte del pontificato, Pio XI intrattiene con il regime fascista
relazioni sostanzialmente buone, anche se nessuna delle due parti riesce a
raggiungere gli scopi che si era prefissa: da parte del papa quello di ricostruire
in Italia uno “stato cattolico”, e da parte del duce quello di “fascistizzare” la
Chiesa.
I momenti di crisi – già avvertiti nel corso delle trattative concordatarie – si
acuiscono nel 1931 e nel 1938 e sono collegati alle polemiche per l’Azione
Cattolica. La Santa Sede intende farne uno strumento per proteggere i cattolici
militanti dall’inquinamento ideologico fascista, in attesa di tempi migliori che
ne consentano la trasformazione in classe dirigente per sostituire quella
fascista.
Gli accordi del 1931 non dissolvono diffidenze reciproche. Il duce obbliga Pio
XI ad attenuare le riserve solennemente avanzate nell’enciclica Non abbiamo
bisogno (1931) e a ridurre gli spazi di operatività dell’Azione Cattolica
eliminando dalla dirigenza delle associazioni quanti appartengono a partiti
antifascisti, in primo luogo il Partito Popolare di Luigi Sturzo, obbligato, nella
prospettiva dell’intesa concordataria, all’esilio già nel 1924.
Le relazioni con il regime fascista
La condanna
del nazismo
e del
razzismo
Le continue intimidazioni verso i militanti cattolici provocano la
durissima reazione di Pio XI: nel gennaio del 1938 minaccia
Mussolini di scomunica del fascismo e del regime. Febbrili
trattative portano a una breve tregua: viene
eliminata l’incompatibilità tra iscrizione all’Azione Cattolica e
al Partito Fascista, disposta la restituzione delle tessere fasciste
ritirate (con perdita di uffici e impieghi) e assicurato dal governo
che agli ebrei non sarebbe stato inflitto “trattamento peggiore di
quello usato loro per secoli e secoli dai Papi”.
Tra il 1937 e 1938 c’è una svolta verso il nazismo: Pio XI fa
preparare un’enciclica, la Humani generis unitas, contro il
razzismo e l’antisemitismo. Mentre i testi precedenti, come la
Non abbiamo bisogno del 1931, erano di compromesso, ora si
passa a condanne più dure, come l’enciclica Mit brennender
Sorge del marzo 1937 - scritta dal cardinale Faulhaber
arcivescovo di Monaco e integrata personalmente dal Segretario
di Stato, Pacelli.
Nello stesso tempo, l’enciclica Divini Redemptoris condanna
fermamente il comunismo, “satanico flagello”, anche sull’onda
delle persecuzioni religiose in Russia, iniziate con la
Rivoluzione d’ottobre.
Alla fine di giugno il papa affida al gesuita americano La Farge l’incarico di
preparare la bozza di un’enciclica contro il razzismo e l’antisemitismo. La
preparazione si svolge nel più rigoroso segreto a Parigi. Alla fine di settembre
La Farge consegna la bozza a preposito generale Ledóchowski perché la faccia
pervenire al papa. Questi la trattiene fino a metà gennaio 1939. Il testo,
accompagnato da una nota di sollecito di monsignor Tardini, verrà trovato
sulla scrivania del papa il giorno successivo alla sua morte, avvenuta il 10
febbraio 1939.
La forte coscienza, sia pure al termine del pontificato, delle pericolosità del
paganesimo nazista e di un antisemitismo che va ben al di là dell’antico
antiebraismo ecclesiastico, appare evidente dal progetto di enciclica e dal
discorso del 6 settembre del 1938, quando, all’indomani dei primi
provvedimenti razziali fascisti, Pio XI, visibilmente commosso, dichiara che
l’antisemitismo è incompatibile con il pensiero e la realtà biblica, che “noi
siamo della discendenza spirituale di Abramo, [...] siamo spiritualmente dei
semiti” (ma L’Osservatore Romano e La Civiltà Cattolica, omettono ogni
riferimento al problema ebraico). Tale rifiuto dell’antisemitismo è nuovo nel
magistero ecclesiastico.
Grande attenzione è riservata al problema delle
missioni. Nel 1922, con l’aiuto di monsignor Roncalli,
trasferisce da Lione a Roma, l’Opera per la
propagazione della Fede delinea il suo programma
missionario nel discorso di Pentecoste del 1922.
Invia come delegato apostolico in Cina monsignor
Celso Costantini, che nel 1924 vi presiede il primo
concilio nazionale cinese. E nel 1926 consacra in S.
Pietro i primi sei vescovi di quel Paese.
Inoltre, una serie di inviati papali partono per
l’Indocina, il Sudafrica, l’Africa inglese e il Congo
belga, mentre viene data nuova sistemazione ai
cristiani di rito malabarico e malankarese e attribuito
specifico carattere “missionario” al giubileo del 1925.
Nel corso dell’anno giubilare il pontefice fa
organizzare in Vaticano una grande mostra
missionaria che riscuote molto successo di pubblico e
solleva vasto interesse nella stampa e in quella parte
dell’opinione pubblica che coniuga l’espansione
missionaria con quella coloniale.
Nell’enciclica Rerum Ecclesiae del 1926, Pio XI
riprende le linee essenziali già delineate da
Benedetto XV nella Maximum Illud (1919).
Egli vuole separare nettamente l’opera di
evangelizzazione da qualsiasi interesse politico
delle potenze europee e favorire la formazione di
un clero indigeno. Gli effetti si vedono: negli
anni 1922-1925 i fedeli soggetti alla
Congregazione “de Propaganda Fide” passano
da 12 a 18 milioni.
D’altro canto le divisioni tra cristiani
d’Occidente e d’Oriente, osservate e
sperimentate direttamente durante la nunziatura
di Varsavia, spingono papa Ratti a impegnarsi
subito sulla strada dell’unità. Tra il 1926 e il
1928, con la nomina di Sincero e di Cicognani
alla Congregazione per la Chiesa Orientale, egli
tenta di rimettere in movimento processi a lungo
paralizzati anche per quanto sta accadendo in
Russia.
Nel 1925 istituisce una “Commissio pro Russia”,
affidata a padre d’Herbigny, con l’intento di
portare soccorso alle popolazioni russe affamate,
ma anche di riportare l’ortodossia russa al
cattolicesimo romano. Ma già nel 1927, con la
morte del patriarca di Mosca Tikhon e la sempre
più difficile situazione dei cattolici, le illusioni
svaniscono.
Sul fronte dei rapporti con i Riformati, le
“conversazioni private” di Malines con gli
anglicani, sotto la regia del cardinale Mercier,
impostano un dialogo, purtroppo rapidamente
interrotto, che riprenderà solo dopo il Concilio
Vaticano II.
Va detto che Roma resta reticente di fronte alle
prime, concrete manifestazioni dell’ecumenismo
alla fine degli anni Venti: con l’Enciclica
Mortalium animos, del 1928, Pio XI ribadisce
che ogni prospettiva unitaria non può che essere
un ritorno a Roma delle Chiese separate.
Prospettiva
unionista
Michel d’Herbigny, SJ
1880-1957
Nel 1928 si svolge a Roma il sinodo
armeno e nel 1929 la terza conferenza
episcopale ucraina. Vengono
gradualmente organizzati collegi per la
formazione del clero dei Paesi orientali:
etiopico, ruteno, rumeno, ecc.
Viene messa in cantiere la creazione di
un collegio russo che si realizza alla fine
degli anni Venti sotto la direzione dei
Gesuiti: il “Russicum” completa il
tessuto istituzionale della politica
unionista di papa Ratti al cui servizio
vengono poste importanti risorse e
un’intensa azione diplomatica.
L’elezione nel 1925 di Basilio III al
patriarcato ecumenico di Costantinopoli
è l’occasione di un primo, timido e
incerto riavvicinamento tra Roma e
Costantinopoli.
Quanto a Noi, Venerabili Fratelli, ben sapete che fino dagli inizi del Pontificato
Ci siamo proposti di adoperarCi con ogni mezzo per spianare ai popoli pagani
l’unica via della salute recando ogni giorno più oltre, per mezzo dei predicatori
apostolici, la luce della verità evangelica.
In tale proposito Ci parve di fermare il Nostro desiderio su due punti, ambedue,
più che opportuni, necessari, e l’uno strettamente unito con l’altro; vale a dire,
1) il numero molto maggiore di operai evangelici, ben formati e corredati di
svariate cognizioni, da inviarsi nelle sterminate regioni ancora prive della
cultura cristiana, e 2) la maggiore intelligenza del dovere che stringe i fedeli a
cooperare a un’Opera così santa e fruttuosa con entusiasmo e fervore, con
l’assiduità delle preghiere e con la generosità. E non fu questo anche lo scopo
per cui volemmo che sorgesse la Mostra Missionaria Vaticana? […]
E veramente i predicatori evangelici potrebbero ben affaticarsi, e versar sudori,
e dare anche la vita per condurre i pagani alla religione cattolica; potrebbero
usare ogni industria, ogni diligenza e ogni genere di mezzi umani; ma tutto ciò
non gioverebbe a nulla, tutto cadrebbe a vuoto, se Dio con la sua grazia non
toccasse i cuori degli infedeli per intenerirli e trarli a sé […].
Enciclica Rerum Ecclesiae sulle missioni (1926)
È necessario che i Vescovi e tutti i cattolici si
adoperino concordemente perché il numero dei
sacri legati cresca e si moltiplichi. Pertanto se in
ogni vostra diocesi vi sono giovinetti o chierici o
sacerdoti, che diano segno di essere da Dio
chiamati a così sublime apostolato, anziché
contrastarli in alcun modo, dovete col favore e
con l’autorità vostra secondarne le propensioni e i
desideri. […]
Affrontate di buona voglia, per amor di Cristo e
delle anime, la perdita di qualcuno dal clero, se
pur perdita debba dirsi; giacché se vi priverete di
qualche coadiutore e compagno delle vostre
fatiche, il Divino Fondatore della Chiesa
certamente supplirà o col versare più copiose
grazie sulla diocesi o col suscitare nuove
vocazioni al sacro ministero. […]
Cercate d’istituire presso di voi l’Unione
Missionaria del clero, o, se già è istituita,
incitatela col consiglio, con l’esortazione, con
l’autorità vostra ad un’azione sempre più viva.
[…].
Innanzi tutto richiamiamo l’attenzione vostra su quanto importi che gl’indigeni
vengano ascritti al clero: se ciò non si fa con tutte le forze, riteniamo che il
vostro apostolato non solo riuscirà monco, ma troppo a lungo ne deriveranno
ostacolo e ritardo allo stabilirsi e all’organizzarsi della Chiesa in codeste
regioni.
Volentieri confessiamo e riconosciamo che in qualche luogo si è già cominciato
a riflettere e a provvedere con l’erigere Seminari, nei quali giovani indigeni di
belle speranze vengono debitamente istruiti e formati per ascendere alla dignità
sacerdotale e per ammaestrare nella fede cristiana persone della propria razza;
nondimeno siamo ancora troppo lontani dal traguardo a cui è necessario si
giunga in tal materia.
Voi ricordate quel che il Nostro predecessore di felice memoria Benedetto
XV lamentò a questo proposito: «Purtroppo vi sono ancora delle regioni in cui,
benché la Fede cattolica vi sia penetrata da secoli, non vi si riscontra che un
clero indigeno assai scadente. Parimenti vi sono parecchi popoli, che pure hanno
già raggiunto un alto grado di civiltà, sì da poter presentare uomini
ragguardevoli in ogni ramo dell’industria e della scienza, e tuttavia, benché da
secoli sotto l’influenza del Vangelo e della Chiesa, ancora non hanno potuto
avere Vescovi proprî che li governassero, né sacerdoti così influenti da guidare i
loro concittadini» (Maximum illud).
Non dovete credere che i sacerdoti indigeni siano fatti solo per assistere i
missionari nei compiti di minor momento e per completare in qualche modo
l’opera loro.
A che, di grazia, debbono mirare le Sacre Missioni se non a questo, che la
Chiesa di Cristo si istituisca e si stabilisca in tanta immensità di paesi?
E da che cosa la Chiesa sarà formata presso i pagani, se non da tutti quegli
elementi con i quali già presso di noi si formò, vale a dire dal popolo e dal clero
proprio di ciascuna regione, e dai propri religiosi e religiose?
Perché mai impedire al clero indigeno di coltivare il campo suo proprio e
nativo, che è quanto dire di governare il suo popolo?
Per poter procedere ogni giorno più spediti nel guadagnare a Cristo sempre
nuovi infedeli non vi gioverà sommamente il lasciare ai Sacerdoti indigeni le
stazioni, perché le custodiscano e le coltivino più vantaggiosamente?
Anzi, essi riusciranno utilissimi quanto mai, e più di quanto si possa credere,
nell’allargare sempre più il regno di Cristo. «Infatti il Sacerdote indigeno - per
usare le parole dello stesso Nostro predecessore - avendo comuni con i suoi
connazionali l’origine, l’indole, la mentalità e le aspirazioni, è
meravigliosamente adatto a instillare nei loro cuori la Fede, perché più di ogni
altro conosce le vie della persuasione. Perciò accade spesso che egli giunga con
tutta facilità dove non può arrivare il missionario straniero» (Maximum illud).
Che dire poi della scarsa conoscenza della lingua per cui i missionari stranieri
riescono talora così impacciati nell’esprimere il loro pensiero che ne restano
molto indebolite la forza e l’efficacia della loro predicazione?
Si supponga che per una guerra o per altri avvenimenti politici nel territorio di
una missione si soppianti un governo con un altro, e si chieda o si decreti
l’allontanamento dei missionari stranieri di una determinata nazione; si
supponga altresì - cosa certo più difficile da avvenire - che gli indigeni,
raggiunto un grado più alto di civiltà e quindi una certa maturità civile,
vogliano, per rendersi indipendenti, cacciare dal loro territorio governatori,
soldati e missionari della nazione straniera da cui dipendono, e che ciò non
possano fare se non col ricorrere alla violenza.
Quale rovina, domandiamo, sovrasterebbe allora in quei paesi sulla Chiesa, se
non si fosse provveduto pienamente alle necessità della popolazione convertita
a Cristo disponendo come una rete di sacerdoti indigeni per tutto quel
territorio? […].
Da quanto abbiamo detto, Venerabili Fratelli e Figli Diletti, consegue essere
necessario fornire i vostri territori di un numero tale di sacerdoti indigeni, che
bastino da soli sia a estendere i confini della società cristiana, sia a reggere la
comunità dei fedeli della propria nazione, senza dover contare sull’aiuto del
clero avventizio.
Celso Costantini
1876-1958
Nasce a Castions di Zoppola
(Udine) in una famiglia di
modeste condizioni, 2° di dieci
fratelli. Il padre è un piccolo
imprenditore edile.
Lavora come muratore dall’età di
undici anni. Nel 1892 entra nel
seminario di Portogruaro, dove
rimane fino al 1897, quando si
trasferisce a Roma dove consegue
la laurea in filosofia.
Ordinato sacerdote nel 1899,
svolge per molti anni attività
pastorale in Veneto fino al.
È un appassionato di arte sacra:
fonda e dirige la rivista Arte
sacra.
Poco dopo lo scoppio della prima guerra mondiale, viene nominato reggente
della parrocchia di Aquileia e conservatore di quella basilica.
Vi giunge l’8 luglio 1915 e vi rimane per due anni durante i quali ha modo di
farsi conoscere e apprezzare dai numerosi e autorevoli visitatori della città. Con
la disfatta di Caporetto deve lasciare Aquileia, seguendo come cappellano le
vicende dell’esercito nella ritirata, durante la quale si interessa per il
salvataggio di opere d’arte.
All’indomani dell’armistizio viene nominato vicario generale della diocesi di
Concordia; lasciata la carica per l’arrivo del nuovo vescovo, per poco tempo è
direttore del Museo archeologico di Aquileia. Per le sue qualità di prete
estremamente attivo, aperto ai problemi della cultura e insieme fornito delle
necessarie doti diplomatiche, ben introdotto negli ambienti militari e
nazionalisti, nel 1920 viene nominato delegato apostolico di Fiume, dove dal
settembre 1919 si è insediato Gabriele D’Annunzio.
Deve mediare tra le opposte correnti del clero di lingua italiana, portato a
parteggiare per D’Annunzio, e quello croato, tendenzialmente ostile.
Stabilisce buoni rapporti con D’Annunzio ma evita di lasciarsi coinvolgere
nell’impresa fiumana e non manca di formulare critiche.
Nel giugno 1922 viene convocato a Roma. In considerazione delle sue doti
diplomatiche, Pio XI decide di nominarlo delegato apostolico in Cina.
Costantini va in Cina dopo che precedenti tentativi, esperiti dalla S. Sede
durante il conflitto mondiale per istituirvi una rappresentanza diplomatica,
hanno incontrato l’opposizione del governo francese, che continua a
considerarsi investito del protettorato delle missioni cattoliche in Estremo
Oriente.
A Costantini tocca il compito di realizzare i programmi della S. Sede: potenziare
nelle missioni l’importanza del clero indigeno, fino allora tenuto in posizione
subordinata, e sottrarre le missioni a qualsiasi tipo di protettorato straniero, in
particolare quello della Francia, per evitare che da parte cinese le missioni
vengano considerate uno strumento della politica colonialista delle potenze
occidentali. Compito non facile, perché urta contro interessi radicati e sconvolge
posizioni di privilegio.
Egli può appoggiarsi ad alcuni missionari più aperti alle nuove idee, come il
belga padre Lebbe; da altri, soprattutto francesi, viene invece fatto oggetto di
violente critiche.
L’opera di Costantini è coronata da fatti di grande importanza, fra i quali:
- il 1° concilio plenario cinese, celebrato a Shanghai nel giugno 1924;
- la consacrazione episcopale, avvenuta a Roma nell’ottobre 1926, di sei
vescovi cinesi, i primi dopo tre secoli, dato che il primo vescovo cinese, il
domenicano Gregorio Lo (1616-1691), era rimasto senza successori;
- la fondazione della università cattolica di Pechino (1929).
All’inizio del 1933 deve tornare in Italia per sottoporsi a controlli medici che
portano al suo definitivo richiamo dall’Estremo Oriente. Però egli smette di
occuparsi di problemi missionari: anzi, la nomina a consultore della
Congregazione di Propaganda Fide prima (1933), a segretario della stessa nel
1935 e a rettore del Pontificio Ateneo urbano poi, gli consentono di continuare
da una posizione direttiva e centrale la riforma delle missioni.
In questo periodo viene autorizzata dal S. Uffizio su richiesta di Propaganda la
traduzione del rituale nella lingua parlata in Oriente (1942), estesa poi alla
messa (1949); viene istituita la gerarchia in Cina (1946) e inaugurato il
Collegio di S. Pietro apostolo (1948).
Nel 1953 Costantini è creato cardinale. Muore a Roma nell’ottobre 1958, alla
viglia del conclave che eleggerà papa Giovanni XXIII.