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Persone, luoghi e memoria."L’antica piazza di Vico Equense ovvero piazzetta Croce e via Forno. Case vecchie un antico nucleo seicentesco, accanto ad una delle porte di Vico, visibile ancora nella Torre che una volta ospitava “ Bischetti il giornalaio”, burbero ed ironico al tempo stesso con noi ragazzini che compravamo le prime “strisce” di Il grande Blek e Capitan Miki e che oggi ospita una gioielleria ... "

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I percorsi del tempo

-Vico Equense-

Persone, luoghi e memoria

Biagio Cilento

Premessa

Dopo “Il vocabolario di latino” ho continuato a scrivere, un po’ incoraggiato da

alcuni amici un po’ dalle mie nipotine Raffaella e Caterina, ma sopratutto da mio

figlio Raffaele.

Chi si accinge a leggere queste brevi note, questi flashback, potrebbe avere

l’impressione che io voglia avere la presunzione di raccontare la mia vita a puntate,

ma non è così, Questo mio scrivere è quasi un flusso emozionale, l’esercizio di una

memoria involontaria.

Il destino ha voluto che trascorressi parte della mia terza età da solo… e nella

solitudine affiorano i tanti ricordi che hanno segnato il mio percorso esistenziale –

soprattutto per i primi anni giovanili – a Vico Equense. La verità è che la scrittura mi

rende meno amara la solitudine di questo particolare momento della mia vita,

scacciando sintomi depressivi e cattivi pensieri ed evitando che essi possano prendere

il sopravvento sul mio equilibrio psico-fisico già tanto messo a dura prova da una

salute precaria e cagionevole. Con questo esercizio allora, la solitudine non è

necessariamente un brutta compagnia, ed è proprio tramite la scrittura che essa

mostra anche i suoi lati positivi, come la riflessione e la tranquillità, dopo una vita

abbastanza movimentato. Il riposo, ma sopratutto la riflessione sono ciò che

permettono il riaffiorare di questa memoria involontaria e questo scritto breve è quasi

la continuazione del mio primo lavoro pubblicato l’anno scorso. Trascorro anche

buona parte del mio tempo a leggere un buon libro ma anche tutto ciò che mi capita:

riviste e quotidiani di ogni tipo, purché non parlino di politica perché la politica mi

annoia soprattutto quella dei nostri giorni e non mi stimola intellettualmente. Ho

sempre la mente impegnata, progetto sempre nuove attività, cerco sempre di praticare

una ginnastica quotidiana per la mente.

Tutto ciò però non mi basta e come accennavo prima mi lascio trasportare dai miei

ricordi, oppure me ne torno a Vico Equense e girovago per i vecchi quartieri che

hanno visto la mia infanzia e parte della mia adolescenza, in parte scomparsi o

trasformati da interventi che hanno stravolto il volto della città.

Famiglie nuove e nuovi generi di attività: alcuni conservano ancora intatto il

fascino di un tempo: sempre belli ed interessanti, restituiscono immagini di calore e di

sapori antichi e familiari.

Allora ecco che scrivere mi da sempre una grande carica e mi fa sentire più sereno

e più risolutivo. Le mie ansie si placano e mi rimane la convinzione che soltanto un

saldo riferimento affettivo possa dare più certezza alla vita e tenere lontano le angosce

e le paure.

Piazzetta della Croce

L’antica piazza di Vico Equense ovvero piazzetta Croce e via Forno. Case vecchie

un antico nucleo seicentesco, accanto ad una delle porte di Vico, visibile ancora nella

Torre che una volta ospitava “ Bischetti il giornalaio”, burbero ed ironico al tempo

stesso con noi ragazzini che compravamo le prime “strisce” di Il grande Blek e

Capitan Miki e che oggi ospita una gioielleria.

Alcune conservano ancora sulle facciate i resti di finestre antiche con gerani

rampicanti, alcune di recente costruzione, altre ristrutturate. Come pavimento, un

lastricato di vecchi basoli di pietra lavica sistemati a cardamone dalle maestranze di

un tempo e da abili scalpellini oggi rimaneggiati e sistemati diversamente proprio per

la scomparsa di quei vecchi maestri .

La piazzetta è come protetta da una grossa edicola votiva che racchiude una

silhoutte di Cristo crocifisso simbolo di fede installato nel 1799 dopo la vittoria dei

monarchici sui repubblicani e il conseguente abbattimento dell’”albero della libertà”.

Quel Cristo sembra volerla abbracciare tutta. Ogni anno, all’inizio di maggio, a

ricordare quegli avvenimenti si celebrava la festa detta “ da “gatta e do sorecio” (

della gatta e del topo n.d.r.) , si è continuata a fare per tutti gli anni cinquanta poi

poco per volta se n’è persa la memoria. Partecipava l’intero paese con illuminazioni e

fuochi di artificio, la cui intensità e bellezza dipendeva dalle offerte ricevute.

Non mancavano le solite bancarelle che vendevano di tutto: giocattoli poveri, la

palla di pezza con l’elastico, caramelle, torrone, le castagne del prete, nocciole e

zucchero filato.

Il piccolo rione si animava sin dalle prime ore del mattino e per noi ragazzi era

fonte di gioia, soprattutto perché ci permetteva di evadere dalla routine quotidiana.

Le famiglie che abitavano questo piccolo rione erano per lo più famiglie con

numerosa prole, che con modesti lavori artigianali, tiravano avanti con onore e dignità

il vivere quotidiano.

Se sono certo di ciò che scrivo è perché frequentavo spesso quei ragazzi e le loro

case. Si andava a scuola insieme si giocava a palla o a carte napoletane o ci

scambiavamo fumetti.

La famiglia più numerosa che poi era la famiglia “dominante” era quella dei

Cinquegrana. Il capo famiglia CIRO, aveva l’appalto dal comune per mantenere la

città pulita, cosa che faceva con grande scrupolo. Tutte le mattine, di buon ora,

dislocava i suoi uomini per le stradine e i rioni del paese, mercato compreso e

partivano armati solo di scope di saggina e sacchi di tela grezza dove raccoglievano i

pochi rifiuti delle case. Il consumismo non era ancora arrivato, e nessuno gettava via

niente cercando di riciclare il più possibile tutto quello che si poteva riutilizzare.

Svolse questo lavoro per circa 40 anni senza che nessun cittadino Vicano si

lamentasse.

Tutte le domeniche, in Piazza Mercato affluivano sin dall’alba i carretti detti

anche “traini”carichi di frutta e verdura provenienti dalle campagne di Pompei,

Scafati, Angri e Castellammare. Le sonagliere dei guarnimenti dei cavalli si sentivano

da lontano con lo scalpitio degli zoccoli sul basolato ed il clangore delle grosse ruote

di legno orlate di ferro. A fine giornata, i carrettieri, ricaricavano le ceste vuote e

prima di ripartire passavano per via Canale dove completavano il carico con piccoli

cumuli di rifiuti urbani, già precedentemente selezionati e preconfezionati, da

utilizzare come concime organico per le loro campagne, mentre i loro cavalli ci

lasciavano per strada il ricordo olezzante del loro passaggio.

Potremmo, oggi, definire don Ciro Cinquegrana, senza ombra di dubbio, il

precursore della raccolta differenziata, riuscendo a smaltire settimanalmente tutti i

rifiuti urbani.

“Ciruzzo”, non era soltanto un buon lavoratore e un buon padre di famiglia, era

anche un personaggio vecchio stampo, di quelli che credevano nell’amicizia e

nell’onestà, sempre disponibile, specialmente quando bisognava sedare qualche

litigio, molto frequenti nei piccoli rioni popolari.

Sono stato molto amico dei suoi figli, amicizia e stima durata nel tempo.

Il clan dei Cinquegrana non era composto soltanto dalla numerosa famiglia di

don Ciro ma anche da quelle degli altri due fratelli, don Ferdinando e don Peppiniello

detto “sigaretta”, perché portava sempre una mezza sigaretta da riserva sopra

l’orecchio grosso e un po’ a sventola. Anche loro persone di gran simpatia e bontà,

entrambi molto attaccati al loro lavoro.

Don Ferdinando gestiva un negozio di barbiere ove affluiva la maggior parte dei

cittadini ed era titolare anche della prima profumeria di Vico Equense. Era anche un

bravo suonatore di violino e spesso insieme ad un altro personaggio -di cui si parlerà

tra poco: mastu Francisco detto “o’ svizzariello”, al secolo: maestro Francesco

Cuomo calzolaio -costituivano una allegra brigata di compagni di concertino.

Essendo un vero artista sia nel taglio dei capelli che nella rasatura della barba, il

salone di don Ferdinando era il più frequentato del paese, benché non fosse l’unico.

Con dita lunghe e affusolate rendeva piacevole quei pochi minuti sulla sedia, ove si

discuteva del più e del meno con fare elegante senza mai trascendere in volgarità o in

troppa confidenza con i clienti, per poi concludere con una spolverata di talco sulla

nuca e uno scappellotto benevole se – come nel mio caso- si era dei ragazzini.

Io ero suo cliente, mi chiedeva sempre sull’andamento scolastico e se ne

compiaceva nel sentire cose buone. Alla sua morte il salone rimase aperto per un altro

po’ di tempo, poi Francesco e Riccardo ( che era un suo nipote) trovarono altri

impieghi e il salone si chiuse, mentre i figli Nicola e Sofia si dedicarono solo alla

profumeria conservando l’ eleganza nei modi e la buona educazione del papà.

“Sigaretta” invece, svolgeva il lavoro di vetturino, che sarebbe l’attuale taxista di

oggi aveva una carrozzella ed un cavallo. Con la carrozzella spesso stazionata nella

piazza del paese e poi quando nel 1950 arrivò la circumvesuviana a Vico, nella

piazzetta antistante la stazione, accompagnava qualche visitatore o i primi turisti Un

omone alto e grosso dall’aspetto burbero e un po’ minaccioso ma che non avrebbe

mai fatto del male ad una mosca.

Ricco di umanità e magnanimità, si permetteva anche un aiutante benché non ne

avesse avuto bisogno. Un povero diavolo di Castellammare, magro come un chiodo,

tanto da avvalersi il nomignolo di “mazzarella”.

“ Mazzarella”accudiva un cavallo baio, unica fonte di guadagno di “sigaretta” e

che io stesso andavo ad ammirare mentre veniva strigliato con molta cura. Il povero

“mozzarella” svolgeva questo lavoro con vera passione, non tanto per il piatto di

minestra o per la modesta percentuale sulle corse effettuate, ma per un vero e proprio

amore per l’animale. Infatti il giaciglio dove dormiva era situato proprio in un angolo

della stalla e lui dormiva con il cavallo. Ricordo che durante un’ estate molto calda

nei primi anni cinquanta a “Sigaretta” morì il cavallo, a causa di un forte colpo di

sole. Fu l’argomento del giorno per tutto il paese. Se ne parlò in tutte le famiglie e si

ebbe in gran considerazione la sventura capitata al poveretto, una manifestazione di

solidarietà che forse oggi sarebbe difficile ritrovare.

Al centro della Piazzetta della Croce vi era anche l’abitazione di “mastu Catiello” ,

catello De Martino,che in un modesto locale sottostante gestiva un’officina di fabbro

ferraio con i suoi tre figli, Mario, Peppe, e Luca. Nell’officina si riparava di tutto, da

saldature a stagno, a costruzioni di cancelli ed inferriate a riparazioni di chiavi e

lucchetti di ogni tipo. A volte si effettuavano anche pronti interventi a domicilio. Uno

di questi interventi fu fatto a casa mia: infatti, spesse volte con i miei fratelli,

giocando sul lettone grande dei miei genitori facevamo saltare gli agganci delle reti

facendo cascare tutto i letto. Quasi sempre una delle mie sorelle ci rimaneva sotto.

Allora subito si correva da mastro Catello che mandava uno dei suoi figli in aiuto e

che quasi sempre era Mario. Appena liberi da quella momentanea prigionia, si

ricominciava. Era uno dei pochi svaghi che potevamo permetterci. Questo particolare,

Mario il fabbro me lo ha ricordato ogni qualvolta ci rincontravamo a Vico ora è

morto, avrebbe avuto ottantacinque anni e lo ricordo con grande affetto.

C’é anche una bella love story da raccontare di questo piccolo rione.

Di fronte all’officina di mastro Catello abitavano i Trapani il cui capo famiglia,

Salvatore, faceva il mestiere di mediatore di animali da stalla: bovini ma sopratutto

suini. A Salvatore Trapani piaceva sempre scherzare e punzecchiare chiunque gli

capitasse a tiro. Lo sfottò era fatto sempre in modo simpatico e pieno di brio, mai

offensivo o pesante e mentre era molto gioviale e ridanciano fuori casa era invece

molto severo in famiglia, specialmente con le figliole. La famiglia Trapani era

composta da quattro figlie e un maschio; la moglie Orsolina, un pezzo di donnona

sempre indaffarata in faccende domestiche, come d’altronde tutte le donne del

quartiere. Lillina, la più grande delle figlie, era molto carina e i suoi quattordici o

quindici anni la rendevano ancora piu bella.

Anche Peppe, il figlio minore di mastro Catello era un bel ragazzo. Tra i due

ragazzi, nacque l’amore. Ma, ahimè, fidaazarsi a 15 anni a quei tempi, parliamo di

anni cinquanta, era un poco un grosso problema. Le due famiglie, benché si

stimassero molto, non permettevano gli incontri, data la giovane età dei ragazzi.

Peppe e Lillina allora, molto innamorati l’uno dell’altra, si vedevano di nascosto in

via Canale, sotto lo sguardo attento di mia madre che riconoscendo l’autenticità di

quel sentimento lasciava un poco di respiro a quei due adolescenti innamorati. Io,

sempre attaccato alla gonnella di mia madre e appena decenne, seguivo con interesse

quella semplice e bella storia d’amore.

Spesse volte la povera Orsolina – che pure sapeva- incontrandosi con mia madre le

chiedeva consigli sul da farsi, sempre con il timore che il marito Salvatore scoprisse

tutto a conoscenza.

Dopo qualche anno il braccio di ferro tra le due famiglie terminò, i due innamorati

riuscirono a coronare il loro sogno d’amore che è durato tutta un vita, ed io ricordo

ancora Lillina e Peppe, due ragazzi di quartiere e la loro storia semplice ed innocente,

fatta di sguardi timidi, di carezze e qualche bacetto, rubato di nascosto dietro un

portone od un carretto. E’ una storia forse come tante, semplice, ma nel mio ricordo di

bambino a me apparve immensa e travolgente: una storia molto bella che io, ancora

oggi ricordo a Lillina tutte le volte che la incontro, durante le mie venute a Vico. E’

sempre bella Lillina, anche con il viso un po’ triste e un po’ invecchiato non tanto

dagli anni, ma dai forti dispiaceri della vita. Peppino non c’è più e poi la perdita della

sua seconda figlia ancora in giovane età. Quando si perdono le persone che si è amato

tanto ci si porta dentro sempre il rimorso di non aver fatto abbastanza per loro.

A metà vicolo di via Pozzillo abitava la famiglia di Nicola di Lucariello, un

omaccione alto e robusto con il naso un po’ schiacciato, avendo praticato boxe in

gioventù. Molto buono, malgrado il suo aspetto, dal carattere docile ed arrendevole.

Di attività svolgeva il commercio al dettaglio di stoccafissi e di frutta e verdure in un

piccolo negozio ove amava esporre per primo tutte le primizie di stagione. Anche

Nicola, molto devoto, si prodigava insieme agli altri abitanti del quartiere nella

raccolta delle offerte per la festicciola annuale, alcuni mesi prima.

All’imboccatura, del vicolo che dava in via Filangieri, la pescheria di Antonio.

commerciante scrupoloso e molto gentile con la moglie Idarella, affabili e sopratutto

onesti; Antonio oltre ad essere un gran bell’uomo dal fisico atletico, era anche dotato

di una voce forte ed inconfondibile.

Possiamo dire che di buon mattino ci faceva da sveglia subito dopo l’arrivo del

pescato. Infatti tutti i pescatori della marina di Vico Equense gli consegnavano il

pesce appena pescato, che quando era abbondante, specie se si trattava di pesce

azzurro, alici, sardine o aguglie, faceva in modo che tutte le massaie dei vicoletti

adiacenti, mia madre compresa, ne apprendessero dalla sua potente voce e

accorressero a fare acquisti. Trattandosi di pesce a buon mercato, il pesce azzurro,

allora, il pesce dei poveri.Sempre nella piazzola la bottega di falegnameria di mastu

Vicienzo, Vincenzo Volpe silenzioso ed operoso che aveva sposato Concetta Trapani,

che era sorella di Orsolina, ed era la più grande delle Trapani. La famiglia di mastu

Vicienzo però abitava giù al Vescovado, di fronte all’ex cattedrale.

Durante le festività importanti, come il Natale o la Pasqua, si faceva a gara fra tutti

i commercianti a chi esponeva la merce più bella, la piu genuina.

Antonio, preparava il suo banco di vendita con un pesce spada e gamberoni,

spigole e orate, triglie e polipi ed altro pesce pregiato tale da riempire il banco di

colori brillanti e trasformarlo in un quadro d’autore. Non mancava la vasca colma

d’acqua con il pescato della notte ancora vivo.

Di fronte, i Petti, che addobbavano la macelleria di ogni ben di Dio, esponendo

all’esterno tutte quelle carni, soprattutto il giovedì e il venerdì santo. Decine di quarti

di bue o di maiale, insieme a salsiccie, agnelli e capretti appena macellati, tra rami di

alloro e bandiere e fili di carta colorati.

Tutto era bello, tutto era festa, anche se per molte famiglie tutto poco accessibile

perché i soldi erano pochi. Altra bella gente che a me piace ricordare, in piazzetta

della Croce, era la famiglia di Luigi “o’ pagliettiello”. Molto numerosa, composta da

cinque figli maschi e tre femmine. Da ragazzo frequentavo molto Salvatore che mia

madre chiamava semplicemente “Tatore e’ Carolina”. Carolina, era la madre, donna

di carattere forte, simpatica e piccolina di statura ma dalla voce così stridente che

quando chiamava uno dei figli dalla finestra di casa non potevi fare a meno di sentire

la sua voce anche da molto distante e soprattutto di voltarti. Anche “Tatore” ovvero

Salvatore, aveva una piccola stalla con il suo cavallo bianco ed aveva la sua piccola

attività: ogni mattino imbrigliato l’animale al carretto si recava a Castellammare di

Stabia per caricare blocchi di ghiaccio da distribuire poi ai vari utenti perché allora

erano in pochi a possedere un frigorifero. Questo mestiere gli valse il soprannme di

“Tatore do ghiaccio”, soprannome che detiene ancora adesso anche se ha smesso da

molto tempo ormai quella attività . Ad aiutarlo nella distribuzione era una delle

sorelle Rosella che benché bella e giovanissima non si vergognava affatto di portare

sulle spalle coperte solo da un telo di sacco, grossi e pesanti blocchi di ghiaccio per

fare le consegne. A volte scendendo fin giù alle spiagge presso gli stabilimenti

balneari, pur di fare una passeggiata sul carretto accompagnavo spesso Salvatore nel

suo viaggio, fino alla fabbrica del ghiaccio, specialmente d’estate quando la scuola era

chiusa, e con il permesso di mia madre.

Via e piazzetta canale

In via Canale ho avuto i miei natali insieme ai miei fratelli e sorelle per un totale di

5 figli, e vi abbiamo abitato per circa 20 anni, al primo piano di una palazzina della

famiglia Volpe.

La piazzetta era formata dal palazzo dei La Monica, un grosso casermone di 4

piani ove alloggiavano una ventina di famiglie, tutte con numerosa prole, dalla

palazzina dei Cosentino, Angela, Michela e Giosuè, dalla villetta dei nobili De

Gennaro, circondata da un bel giardino molto ben curato dalla N.D. Clementina De

Gennaro e dalla palazzina dei Petti, con al pian terreno un grosso stallaggio di animali

da macello.

In un angolo del cortile dei Cosentino vi erano 2 stalle in una delle quali “Papele’’

il trainiere, manteneva un vecchio mulo ed un cavallo, ed era sempre in polemica con

le signorine Cosentino alle quali dava fastidio l’odore di stallaggio. Il povero

“Papele”, lavoratore instancabile e uomo molto paziente cercava in tutti i modi di

mantenere pulito evitando così ogni discussione. Anche quando teneva gli animali

all’aperto per la strigliatura, si preoccupava di osservare massima igiene. Ma, i

mugugni non mancavano mai.

Ogni mattino alle tre e trenta metteva gli animali sotto traino, sempre puntuale

come un orologio, e partiva per la sua giornata di carrettiere, cosa che ha fatto fino

agli ultimi anni della sua vita, con grande dignità.

Al piano terra della palazzina Volpe, vi era il laboratorio di pasticceria di Aristide,

che sin dalle prime ore del mattino inondava tutto il rione di profumi da forno,

specialmente di sfogliatelle e babà. Tutto lavorato a mano con prodotti genuini e con

gran scrupolosità e professionalità.

Poiché il laboratorio era situato sotto casa nostra, trascorrevo buona parte della mie

ore libere ad assistere alla lavorazione dando anche una mano a lavar casseruole in

cambio di ritagli di pan di spagna o di qualche sfogliatella che durante lo sforno si

rompeva. Affisso alla parete esterna del laboratorio c’era un’edicola raffigurante S.

Giuseppe falegname, dipinta sull’intonaco. Anche noi ogni anno a marzo

movimentavamo la piccola comunità con una modesta festicciola. Piccole offerte con

le quali si acquistavano palloncini colorati, bandierine di carta, qualche lumicino e

raramente dei mortaretti.

I PETTI

I quarti di bue e di maiali macellati venivano conservati in grotte profonde una

ventina di metri scavate nel buio e situate sotto i palazzi al freso. Ogni venerdi i

fratelli Petti, di qualche anno più grandi di me, si calavano in quelle grotte per

prendere la carne e venderla al dettaglio in macelleria, gestita dal papà, don Alfonso e

dallo zio Gennarino, persona dalla simpatia grande come la sua mole. Ogni qualvolta

che si scendeva nelle grotte era per me una emozionante avventura al buio, soltanto

con un mozzicone di candela a farci luce. Oltre l’emozione non mancava un poco di

paura. Quando si giungeva sul posto, dopo un centinaio di scalini ripidi e scivolosi,

Dino il fratello maggiore mi spiegava dove esattamente ci trovavamo del vicoletto.

Insieme al fratello Gennaro, con la sola forza dei loro potenti muscoli sollevavano i

quarti di carne dai ganci affissi al muro e se le caricavano sulle nude spalle coperte

soltanto da teli di sacco e si iniziava la risalita verso l’uscita. Io reggevo soltanto il

mozzicone di candela che illuminava gli scalini. Ancora oggi nel trattenermi con loro

ricordiamo quei tempi con non poca nostalgia.

Mastro Amedeo Cuomo

Quasi a fine vicoletto di Via Canale, a piano terra vi era il laboratorio artigianale di

mastro Amedeo Cuomo. Sette-otto operai e qualche apprendista lavoravano suole e

pellami per la costruzione di scarpe di ogni tipo. Per quei tempi mastro Amedeo

poteva considerarsi un industriale di tutto rispetto tanto è vero che la Fincantieri di

Castellammare di Stabia gli aveva commissionato la costruzione e fornitura di scarpe

di sicurezza da lavoro per gli operai. Oggi potremmo affermare senza ombra di

dubbio che le prime scarpe per operai antinfortunistiche da cantiere sono nate a Vico

Equense proprio dalla bottega di mastro Amedeo Cuomo e tutte lavorate

scrupolosamente a mano con grande precisione e maestria. Per gli abitanti del

quartiere calzare scarpe nuova fatte dai “mast’Amedeo” era segno di grande privilegio

perché significava che se lo poteva permettere, ed erano scarpe che duravano una vita.

Oggi quel genere di lavoro fatto a mano è scomparso, sostituito da nuove macchine,

ma a Vico il figlio Giovanni continua a fabbricare scarpe e sandali estivi proponendo

modelli di sua creazione… un vero artigiano della scarpa fatta a mano su misura.

Sopra il Canale

Via Canale terminava con una fontanina pubblica su via Roma, proprio all’incrocio

tra via S. Sofia, via R. Bosco e via Nicotera, nasceva il quartiere di Sopra il Canale.

Le famiglie che lo popolavano erano i Dell’Amura, i Guida e gli Esposito

soprannominati gli “sferroni”, poi i De Gennaro “Pizzifierro” e gli Esposito “i

mulattieri”. Un po più, verso la piazza di Vico a metà via Roma c’erano i fratelli

Volpe, grandi commercianti di tessuti ancora oggi, la farmacia Cuomo e il forno di

don Alberto e donna Giulia Astarita.

Luigi Dell’Amura “Gigino” lavorava il pane in un modesto locale con forno a

fascine, aiutato dal figlio maggiore Antonio e da alcuni lavoranti.

Il pane allora era di due qualità, quello bianco, che costava un po’ in più e quello

nero, fatto con farina meno raffinata più a buon mercato. L’ aspetto di quest’ultimo, di

colore un scuro, non gli rendeva onore, ma posso assicurare che era il più buono.

Oggi non se ne fa più perché si guarda il lato commerciale, all’estetica piuttosto che al

sapore, e le signore moderne proverebbero anche un certo imbarazzo a richiederlo al

negoziante.

Ogni qualvolta con mio padre uscivamo per andare a caccia di buon mattino, ci

soffermavamo spesso nel forno a scambiare quattro chiacchiere.

Anche Gigino era appassionato di caccia e il più delle volte mi regalava un panino

ancora caldo che divoravo subito con avidità.

Il profumo e il sapore di quel pane mi accompagna ancora oggi. Spesse volte nel

forno, di notte, si organizzavano delle festicciole che consistevano nel cuocere

tagliatelle di casa con fagioli gialli e piccante, versare il tutto sul banco di marmo

usato per l’impasto e mangiarne tutti in fila, senza uso di posate, chinandosi in avanti

con le mani dietro la schiena.

Chiunque si trovasse a passare in quel momento era invitato a favorire. Di tutte

queste cose oggi ne rimene solo il ricordo, anche perché poi la vera specialità di

Gigino è stata la pizza. La vera pizza napoletana, che solo a vederla nascere ti fa

brillare gli occhi. Utilizzando soltanto prodotti genuini e semplici, quale farina di

grano, pomodori S. Marzano a filetti, mozzarella di vaccino, basilico fresco,

formaggio parmigiano grattugiato e olio vergine d’oliva, forno a legna costruito con

mattoni speciali a temperatura costante. Negli anni cinquanta la pizzeria si trovava in

via S. Sofia, in un giardino di aranci e limoni che oggi non esiste più da tempo, cos’

come non esistono più orti e giardini che in maggio e giugno profumavano l’aria del

centro di Vico Equense. Il grande Gigino aveva capito benissimo che per far buona

una pizza non sono sufficienti solo gli ingredienti, ma occorrono una buona

lievitazione della pasta e sopratutto una buona tecnica di cottura. Ecco perché oggi,

nella nuova pizzeria per ogni forno vi è un operaio specialista addetto soltanto alla

cottura.

Subito dopo il periodo bellico e soltanto la domenica, la pizza veniva venduta a

trance su di un banco all’aperto e anche se bastavano poche lire non tutti potevano

permettersela. Più tardi nacque la modesta pizzeria nel giardino di cui vi ho già detto e

già il sabato e la domenica il quartiere si popolava di auto che affluivano dai paesi

vicini. La pizza era così buona che a sera l’aria ne conservava il profumo,

specialmente d’estate. Man mano che il tempo passava l’afflusso di gente aumentava

sempre di più. Oggi la pizzeria è nota come “l’università della pizza”, la più grande

pizzeria del mondo e chi come me che ha viaggiato lo sa bene. Famosissima sia in

Italia che all’estero, per la sua bontà e il suo profumo, imitata ma mai eguagliata la

pizza di Gigino Dell’amura ha portato a Vico Equense non soltanto economia, ma

anche notorietà ed il paese è conosciuto nel mondo come il paese della pizza a metro.

Illustri personaggi dello spettacolo della letteratura e della musica non hanno

mancato a dedicare addirittura delle poesie, perché la pizza è poesia. Oggi tutti i figli

del cav. Luigi Dell’Amura continuano la tradizione paterna, con lo stesso impegno

instancabile e amore, facendo onore alla famiglia e al paese.

GLI Sferrone

Proprio all’incrocio tra via Nicotera e via S. Sofia vi era la famiglia di Vincenzo

Esposito detto “Sferrone”. Gestivano un grosso negozio di frutta e verdura e baccalari

in genere. Anche questa era una famiglia numerosa, tutti gran lavoratori. Di primo

mattino si recavano al mercato ortofrutticolo di Castellammare per acquistare le merci

per poi vendere al dettaglio. Prima delle otto del mattino “Antoniuccio” aveva già

preparato una grossa esposizione di ceste con frutta e verdure di ogni specie, tale da

occupare tutti il marciapiede antistante il negozio, all’interno, poi, veniva venduto il

ghiaccio a chilo, specialmente la domenica in modo da rendere più piacevole e fresca

una bevuta d’acqua o di vino.

Come ho già detto prima i frigoriferi erano un lusso solo per pochi. Il ghiaccio

veniva segato in pezzi con un rudimentale attrezzo ricavato da uno spezzone di sega

dentata, e poi pesato, forse da qui il soprannome di “Sferrone” che era appunto quel

pezzo di segone anche se la sferra o lo sferrane era il ferro di cavallo tolto dallo

zoccolo del cavallo perché logoro o rotto.

Antoniuccio con la sua stridente voce annunciava alle massaie l’arrivo di primizie,

mentre il capo famiglia Vincenzo, un grosso omaccione con i baffi bianchi se la

godeva seduto su una sedia di paglia appoggiata al muro del negozio.

Subito all’inizio di via R. Bosco abitavano pure gli Esposito “i mulattieri”.

Il capo famiglia, don Giovanni, possedeva uno stallaggio con animali da soma

prevalentemente muli ed asini, che noleggiava come aiuto rimorchio di carrettieri che

affrontavano la salita di via Bosco, che allora non era ancora asfaltata, con grossi

carichi di merce varia. Don Giovanni, consegnava uno o due animali a secondo delle

esigenze, dietro un modesto compenso già pattuito in precedenza. Sia gli asini che i

muli una volta a destinazione venivano liberati dai finimenti e lasciati ritornare nella

propria stalla da soli. Spesse volte il proprietario mi incarivaa di seguire il percorso di

ritorno degli animali o riportarli indietro. Mi prestavo con piacere; non tanto per il

compenso di cinque lire che don Giovanni mi dava, ma per il piacere di montare in

groppa al ritorno e farmi ammirare dai compagni. Alcune volte pero, causa mancanza

di sella e al trotto in discesa, cascavo sbucciandomi mani e ginocchia. Costretto poi a

medicarmi alla meglio e nascondere il tutto sia a casa che al padrone, che non mi

avrebbe più comandato. Don Giovanni “il mulattiere” era un uomo molto affabile di

vecchio stampo, mi voleva molto bene, anche perché i figli erano molto amici dei

miei zii materni e lui personalmente era amico di mio nonno Gennarino, anche lui

carrettiere.

Il Quartiere Vescovado

L’inizio di via Monsignor Natale segna il confine del quartiere del Vescovado, il

più antico di Vico Equense, con la bellissima Cattedrale dell’Annunziata a picco

sul mare, domina tutto il golfo, con il Vesuvio di fronte e le isole d’Ischia e Procida.

Unica cattedrale in stile gotico della Penisola Sorrentina.

Per la sua bellezza architettonica e la sua posizione geografica è stata ritratta da

artisti di tutto il mondo sin dal 1700. Un tempo era anche sede arcivescovile, ecco

perché tutto il quartiere prende il nome di “Vescovado”.

Al termine di via Monsignor Natale c’è il Largo dei Tigli, un tempo prosecuzione del

grande parco di Castello Giusso, con una colonna con la croce, come le tante

disseminate sul territorio, erette dopo la Rivoluzione Napoletana del 1799 e messe al

posto degli “alberi della libertà” innalzati dai rivoltosi. Il quartiere intero si sviluppa

su cardini e decumani. Il cardine (cardo) è una via che corre in linea di massima in

senso nord-sud nelle città romane basate su uno schema urbanistico ortogonale, ossia

suddivise in isolati quadrangolari uniformi, in particolare per quanto riguarda le

fondazioni coloniali. Il decumano invece una strada con orientamento est–ovest: il

decumano principale era detto Decumanus maximus. Questo incrociava

perpendicolarmente il cosiddetto Cardo Maximus, l’altra grande arteria principale. Il

decumano maggiore è appunto via Monsignor Natale mentre i due cardini sono via

Giusso e via Vescovado. Anche il Largo dei Tigli affaccia sul mare e in quella piazza

c’era il Palazzo Episcopale, trasformato nel tempo in scuole elementari e le cui uniche

testimonianze ancora visibili sono una torre circolare, una finestra in tufo del seicento

e, dal lato mare, un arco catalano che attesta l’origine quattrocentesca di tutta la

costruzione. Il nome del decumano maggiore è quello del vescovo Michele Natale

che, avendo aderito alla Repubblica Napoletana del 1799, fu arrestato e imprigionato

nel carcere della Vicaria e dopo essere stato ridotto allo stato laicale il 19 agosto, fu

condannato a morte mediante impiccagione il giorno seguente sulla Piazza del

Mercato di Napoli. Fu l’ultimo vescovo della diocesi di Vico Equense.

Sul Largo dei Tigli affacciano il Collegio convittuale dei PP. Gesuiti, già da qualche

anno andati via da Vico Equense e l’edificio della Scuola media Alessandro Scarlatti,

già negli anni cinquanta sede delle scuole elementari pubbliche del paese, che ha visto

passare sui banchi di scuola parecchie generazioni di vicani.

La scuola confina a sua volta con il Castello Giusso, altra rara bellezza di Vico

Equense. Fu fondato dagli Angioini tra la fine del 1200 e l'inizio del 1300, per

proteggere la città di Vico Equense da eventuali attacchi dal mare, forse su

disposizioni di CarloII D’Angiò. Fu poi successivamente ampliato nel '500 con la

costruzione del palazzo baronale ad opera di Federico Carafa. Cambiò più volte

proprietario nel tempo, fino a quando nel 1822 fu comprato da Don Luigi Giusso, da

cui oggi prende il nome. Nell'ultimo secolo ha ospitato la Compagnia di Gesù, ed è

oggi privato e visitabile solo durante i convegni che ospita. Nel castello, nel 1788,

morì Gaetano Filangieri, ospite della sorella, nel tentativo di guarire dalle malattie che

lo affliggevano. Una epigrafe di marmo ricorda la sua morte, all'interno dell'ex

cattedrale della SS. Annunziata.

Un tempo sede dei PP. Gesuiti, che con la Congregazione Mariana, ha accolto e

formato fino dalla prima metà degli anni ‘60 tutti i giovani del paese. I Gesuiti ci

permettevano di giocare nel bellissimo parco, ricco di lecci e querce e palme secolari.

La domenica, dopo, la celebrazione della Santa Messa e qualche ora di catechismo,

una fetta di pane e marmellata di mele cotogne, rendeva ancor più piacevoli le ore

trascorse in quel posto.

Oggi il Castello Giusso, con il suo splendido parco,è una proprietà privata; fu

venduto dai Gesuiti ad una società immobiliare che lo ha lottizzato ricavandone mini

alloggi, solo per pochi eletti. Non voglio addentrarmi nell’argomento perché non

conosco bene i dettagli e comunque preferisco non fare polemiche politiche che

all’epoca, se ricordo bene, tra il 1971ed il 1973, furono molto aspre. Il risultato è

stato che una struttura come quella, che forse sarebbe stato più giusto fosse diventata

un patrimonio di tutta la cittadinanza, è diventa un luogo privato che può essere

visitato solo su richiesta e non sempre con esito positivo.

Per il quartiere Vescovado mi limiterò soltanto alla descrizione di quello che resta

ancora – a mio avviso - il quartiere che ha conservato ancora la struttura e

l’immagine unitaria dei quartieri di un tempo e delle famiglie che vi hanno dimorato.

Appena all’inizio del quartiere è sistemata ad angolo una fontanella, negli anni

trenta e quaranta, quando l’acqua potabile non arrivava ancora in tutte le case, era

frequente vedere le donne del quartiere con secchi di zinco e bottiglioni andare a

prendere l’acqua “ncopp a funtanella” .

Di fronte alla funtanella vi era l’officina di mastro Michele Rinaldi detto “o

rammaro”, che esponeva tegami, pentole, coperchi, anfore, bracieri di rame brillanti e

lucidissimi. Mastro Michele era burbero e facilmente irritabile e quando passavano i

ragazzi della scuola media erano frequenti i rimbrotti e le ramanzine e spesso le

dolorose tirate di orecchie se qualcuno di noi finiva tra le sue mani.

Mastro Michele Rinaldi, seduto su un piccolo sgabello di legno, lavorava il rame,

generalmente utensili da cucina e pentolame, con una precisione quasi da orefice, che

il passante non poteva fare a meno di soffermarsi ed ammirare il ticchettio monotono

di un piccolo martelletto che calava con precisione sulla patina di rame con grande

maestria, creando con gli sbalzi della lastra giochi di luce e di tonalità. I colpi erano

inferti con tale maestria che era quasi impossibile pensare ad un lavoro fatto a mano, e

da una mano così ferma.

Negli anni precedenti l’ultimo conflitto mondiale e fino a tutti agli anni ‘50 le

batterie da cucina in rame lavorato erano oggetto di prestigio in un corredo nuziale per

le ragazze che si accingevano a prendere marito. Erano le prime cose che venivano

mostrate ai parenti ed agli amici con vanto. Ci si rivolgeva a mastro Michele che

dopo trattative economiche e pagamento quasi sempre a rate, stabiliva i tempi di

consegna. Mastu Michele era spesso aiutato dal figlio Antonio e rispettava gli impegni

presi da professionista serio quale era. Credo che oggi di artigiani così non se ne

trovino più.

Il vescovado è stato certamente il quartiere più ricco di artigiani dell’intera Vico

Equense. Ramai, falegnami, calzolai, panettieri, tornitori del legno e pescatori

professionisti.

Mastro Francesco Cuomo seduto su di un piccolo sgabellino con davanti il

banchetto da lavoro “o bancariello” costruiva scarpe e sandali su misura ma riparava

pure quelle vecchie perché le scarpe nuove si potevano acquistare solo una volta

all’anno. Mastu Francisco ‘o sguizzariello, piccolo di statura ma, grande nell’animo,

aveva capelli molto ricci biondi già imbiancati e occhi vispi azzurrissimi, ed era

dotato di un singolare ironia frammista ad un umorismo tagliente e caustico. La sua

simpatia e il suo carattere sempre gioviale, pronto alla battuta di spirito, lo facevano

diventare un gigante. Il soprannome lo “sguizzariello” o “svizzariello” gli derivava

proprio dalla sua carnagione chiara, per gli occhi azzurri e i capelli biondi, insomma

un piccolo svizzero, che quando prendeva un ordine non mancava di scherzare sempre

con i suoi clienti. Mastu Francisco suonava pure il mandolino e cantava e recitava e

con i suoi cinque figli le due femmine Anna ed Ida ed i tre maschi Giggino, Mario e

Rafele, aveva messo su una piccola compagnia familiare che allietava matrimoni e

feste patronali. Anna suonava il pianoforte, Ida cantava,Giggino suonava la batteria e

Mario faceva le macchiette. Abitava con la moglie Michelina e i suoi cinque figli al

numero sei di via Monsignor Natale, in uno stabile che ha ancora il più bel portale

catalano della zona. Mastu Francisco acquistò quella casa nel 1912 e oggi i suoi eredi

vivono ancora lì dopo quasi cento anni. Don Mario Buonocore, il parroco, lo invitava

spesso rappresentare la Cantata dei Pastori nel quale Mastu Francisco faceva la parte

di Razzullo scrivano e il figlio Mario quella di Sarchiapone provocando, per le gags e

la mimica irriverente, grande ilarità tra gli spettatori, nel repertorio c’era anche: la

canzone di Capodanno, la canzone di Zeza, che si faceva a carnevale e le macchiette

canzonettistiche degli anni venti e trenta, che Mastu Francisco non mancava di

rendere particolarmente piccanti tra non sensi e doppi sensi. Era una famiglia, nella

quale tutti i figli aveva studiato e nella quale nonostante i tempi grami, non mancava

mai niente e spesso si davano festicciole da ballo dove partecipavano tutte le famiglie

del quartiere. Il botteghino di Mastu Franciscu spesso era meta di pensionati che,

proprio per la sua simpatia di tanto in tanto gli tenevano compagnia conversando del

più e del meno. Era un instancabile ed onesto lavoratore la cui giornata, non scendeva

quasi mai al di sotto delle 12 ore di lavoro. Quando il cliente dopo varie misurazioni

se ne usciva con le scarpe nuove appena consegnate, “mastu Francisco” lo

accompagnava con lo sguardo ammiccante fino all’uscita dal negozio poi con l’aria

compiaciuta per il bel lavoro fatto, spesso esclamava “ chi te fa e’ scarpe comme te

faccio io nun te’ fa nisciuno” , anche in questo caso alludendo al doppio senso del

“fare le scarpe a qualcuno” ovvero del fregarlo bonariamente in qualche modo,

oppure se arrivava qualcuno trafelato che chiedeva una riparazione urgente, lui, senza

scomporsi, guardando tutto il lavoro che ancora gli restava da fare e indicando le

scarpe diceva:”mettile qua, mo’ te’ ‘nforno subbito subbito” . Quando la sera tornava

a casa con la moglie Michelina i figli e la cognata Fafina ( Serafina) si riunivano

intorno al desco e prima della cena recitavano il rosario.

Angelo Mercurio

Personaggio importante di questo quartiere, che tutte le persone della mia età

certamente non potranno dimenticare è stato il prof. Angelo Mercurio.

Grande educatore, spesso dal pugno di ferro, monarchico convinto, faceva in modo

che la scuola o la si amasse o la si amasse per forza . Immagine classica di maestro

rigido ed irreprensibile.

Appena ritornato dal secondo conflitto mondiale ove aveva servito la patria in

qualità di ufficiale di artiglieria, si era subito dedicato anima e corpo

all’insegnamento, presso l’istituto scuole elementari al Largo dei Tigli

Durante le ore di lezione, citava episodi di coraggio e di patriottismo da lui

personalmente vissuti in guerra e che noi tutti seguivamo con grande interesse.

Amava organizzare gite scolastiche e portare gli allievi all’aria aperta facendo

praticare esercizi di educazione fisica.

Preparava, gratuitamente a casa sua quanti avevano esami autunnali da riparare e

quanti si accingevano ad affrontare gli esami di ammissione alle medie, che allora

erano una cosa seria. Insegnava con il cuore la poesia della scuola e diceva a noi

allievi che se la scuola l’avessimo guardata dal di dentro ci sarebbe apparsa più bella e

più poetica quando avremmo accompagnato i nostri figli. Solo allora l’avremmo vista

dal di fuori come la vedeva lui.

Il contrario di oggi. Molte famiglie mandano i figli a scuola preoccupandosi

soltanto di scegliere accessori firmati per poter primeggiare su altri.

Nelle aule le voci degli insegnanti vengono zittite dalle urla degli di giovani

facinorosi, consapevoli che in caso di un rimprovero un po’ più sollecito saranno

difesi a spada tratta dalle loro famiglie, delegittimano un lavoro che ha smarrito senso

del dovere e vocazione , mal pagato e non più gratificante per chi lo fa, tra circolari,

decreti, leggine di ogni genere.

I poveri docenti, si vedono impotenti di fronte a tutto ciò e spesso è facile scaricare

le responsabilità della scarsa preparazione didattica degli allievi solo sugli insegnanti.

Come mi appare lontana la scuola di allora, gli anni trascorsi tra i banchi delle

elementari con le dita, sempre sporche di inchiostro, il grembiulino blu, spesso

rattoppato, e il grande fiocco bianco o tricolore o rosso a seconda dell’anno di corso

che si frequentava. Il professore Mercurio era sempre vestito con grande cura e

profumava di Pino Silvestre Vidal, aveva baffi curatissimi e sempre la brillantina nei

capelli lucidi ed ordinati. Era anche il presidente del circolo monarchico, dove c’erano

i primi flipper di legno con le figure coloratissime e gli scampanellii musicanti dei

primi prodotti pop e il biliardo che però stava pure nel Circolo dell’Azione Cattolica,

dove la sera era possibile guardare tutti insieme il Musichiere con Mario Riva e

Lascia o Radoppia. La figura antagonista al professore Mercurio era quella del

professore Frisone, più defilato, direi quasi dimesso, più paterno con noi ragazzi, che

molte volte approfittavamo della sua bontà. Angelo Mercurio organizzava la Festa

dell’Albero e credo che gli alberi che fino a qualche anno fa erano ancora nel largo

dei Tigli furono piantata da lui che vantava davanti alle scolaresche presenti le virtù

degli alberi con fiera alterigia. Lo ricordo con grande nostalgia, come la figura di un

uomo che credeva in valori stabili e duraturi, non cercati altrove, ma nel luogo dove

viveva ed operava. Un vero signore che non lesinava una tirata d’orecchia o una

“spalmata” sulle mani, se ti era comportato male in classe o con i compagni e che noi

non riportavamo a casa perché altrimenti avremmo ricevuto pure il resto. Era una

scuola che era legittimata da tutta la società quando le famiglie affiancavano insieme i

docenti nella trasmissione dei valori e quando fare il maestro di scuola o il professore

significava avere un ruolo di prestigio e di importanza nella società e nel paese.

I “tonnieri”

Altra famiglia di valenti artigiani era la famiglia Cinque detta “i tonnieri”,

soprannome storpiato dalla pronuncia, perché non erano lavoranti di tonno, ma bensì

di tornio.

Una piccola officina con torni a trasmissione a cinghia, dove veniva tornito e

lavorato il legno, per lo più utensili da cucina, tutti perfettamente levigati, cucchiai,

tavole per lavare il bucato, bastoni per tende, mestoli da cucina, mortai per la

pestatura del sale da cucina. In questa modesta officina affluivano tutti i ragazzi del

paese perché altra specialità dei “tonnieri” era la costruzione degli “strummoli”. Una

specie di trottola di legno che dopo il fissaggio di una punta di acciaio all’estremità,

veniva avvolta da un filo di spago duro “ o’ morellino” e lanciata in modo da farla

roteare per terra.

Era il gioco preferito di noi ragazzi che facevamo delle vere e proprie gare di

quartiere. Naturalmente vinceva chi aveva lo “strummolo” più veloce più forte in

legno duro e riusciva a farlo roteare più a lungo, ma soprattutto a non farselo spaccare

con una “appizzata” dallo “strummolo” di un altro . I “tonnieri” cercavano di

contentare un pò tutti in cambio di poche decine di lire. Dalla famiglia Cinque è

venuto su un bravo comandante Ciro, con il quale ho avuto l’onore di navigare anche

se per breve periodo.

“Naniello o’ furnaro”

Di fronte l’officina, dei fratelli Cinque, c’era il forno a legna di Aniello Savarese

“o forcinaro” o “ o’ furnaro” oppure “ naniello e vatassarre” ovvero Aniello figlio di

Baldassare .

Lavoratore instancabile, ogni mattino inondava il vicolo del profumo del suo

meraviglioso pane. La sua specialità era il pane nero e i biscotti di grano duro, i taralli

e le freselle. Anche nel forno di Aniello vi era sempre gente a fargli compagnia, in

cambio di piacevole tepore specie durante i mesi invernali. Ma vi era anche un altro

motivo, Aniello spesse volte con i ritagli di pasta lievitata faceva la pizza per poi

distribuirla ai presenti gratuitamente e compiacendosi nel vedere soddisfatti i

compagni.

Profumatissima e buona, forse le privazioni e la fame di allora, la facevano gustare

maggiormente. Anche Aniello era costretto a estenuanti ore di lavoro per poter portare

avanti la sua numerosa prole. Oggi, i figli avendo appreso e continuato il mestiere

paterno, hanno creato cospicue fortune e lavorando duramente con onore e dignità.

Incontrai Aniello poco prima che passasse a miglior vita ed in amicizia mi disse

che il suo fisico era minato da un brutto male, ma che sarebbe morto contento e sazio

di soddisfazioni, avendo visto dal niente realizzata la fortuna dei suoi figli. Nel

leggere tutta quella fierezza nei suoi occhi, confesso che lo lasciai commosso con un

caloroso abbraccio.

Piazza Mercato

Da via Canale, si accedeva, in piazza Mercato, altro quartiere molto popolato e

centro di raccolta di quasi tutti noi ragazzi scugnizzi di allora. Si giocava a pallone, a

nascondino, a carte o con gli “strummoli” anche se il gioco prevalente era la

“barracca”. Si tracciava una linea retta sul terreno e ad una certa distanza poi, senza

avvicinarsi alla linea tracciata, si lanciavano le monete cercando di farle arrivare il più

possibile vicino “o’ singo”, il segno tracciato, chi arrivava più vicino alla linea retta

aveva diritto a lanciare le monetine per aria predicendo quanti testa o croce sarebbero

usciti dal lancio al toccar terra delle monete. Croce vinceva testa perdeva ed il

secondo più vicino alla linea aveva diritto al secondo lancio e così via. Si giocava

anche con figurine di calciatori che il vincitore vendeva poi per pochi spiccioli o

scambiava con altre figurine. Era tutto così povero ma tutto così incredibilmente bello

e piacevole che ancora oggi ne parlo con qualche vecchio compagno di allora. Al

centro di piazza Mercato vi era una fontanina pubblica che di sera, specie d’estate,

diventava il punto di incontro di decine di massaie che con recipienti di varia fattura si

recavano ad attingere acqua necessaria per la famiglia. A volte file di alcune decine di

metri di bagnarole in stagno, damigiane, fiaschi e bottiglie attendevano il loro turno

per riempirsi.

L’ acqua corrente in casa non l’aveva ancora nessuno e come in tutte le attese là

dove c’era da fare fila vi era il prepotente o il furbo di turno, che dava inizio a

polemiche e a litigi con vetro in frantumi e che spesso richiedeva l’intervento dei

vigili. Questo anche perché le donne residenti nel quartiere vantavano diritti di

precedenza. D’estate l’acqua spesso veniva a mancare e quindi erogata ad orari e per

non fare molta fila ci si recava di buon’ ora sistemando in fila indiana i vari recipienti.

Tutti ad aspettare il fontaniere che venisse ad aprire con apposita chiave il rubinetto

della conduttura principale situato sotto un tombino di ghisa con lo stemma del fascio.

Ricordo ancora oggi la figura di Antonino il fontaniere, alto circa 1,80 molto magro,

che al momento era diventato un personaggio tra i più importanti del paese, senza di

lui niente acqua. Bastava che ritardasse di poco che la gente iniziasse a protestare.

Anche Antonino era un gran brav’uomo, viveva solo con la moglie in una quasi

latente miseria in una misera stanza in via Satriano o meglio conosciuto come il

vicolo delle carceri, perché durante il ventennio fascista erano ubicate lì le carceri del

paese . Fu proprio in quella misera stanza che una mattina a svegliarlo furono i lampi

dei flash dei fotografi e qualche giornalista. Ecco cosa era successo ad Antonino,

uomo assai religioso e timorato di Dio. Frequentava la Cappella dedicata a S. Rita,

entrando quasi sempre di nascosto dalla porticina della Sagrestia in via Canale. Ogni

domenica ascoltando la Santa Messa, celebrata dal buon don Ludovico Esposito.

Antonino stringeva sempre tra le mani il Rosario ed un’ immagine del servo di Dio

Luigi Avellino, terziario francesacano originario di Vico.Antonino pregava con

intensità il sant’uomo, affinché gli facesse la grazia di migliorare la condizione di vita

sua e della moglie. Luigi Avellino era nato il 16 aprile del 1862 nella parrocchia del

SS. Salvatore, nella zona alta di Vico da una modesta famiglia di contadini, qui dopo

un’infanzia di stenti e tribolazioni a causa di un’artride deformante tanto violenta e

progressiva da fargli perdere l’uso delle gambe e poi quello di quasi tutta la persona.

Fu in seguito trasferito nel nosocomio gli Incurabili di Napoli, grazie all’intervento

del suo direttore Luigi Ortale. Il medico, villeggiando a Vico Equense, resosi conto

delle gravi condizioni del ragazzo, preferì averlo sotto cura nel suo ospedale. Rimase

agli Incurabili diciotto anni, nei quali, il sant’uomo, nonostante l’immobilità e i dolori

che la malattia gli procurava, praticava il bene e la consolazione per gli altri malati.

Morì a 38 anni, il venerdì Santo del 1900, i resti mortali nel 1913 furono traslati nella

chiesa di S.Giuseppe maggiore e dopo la sua demolizione in quella di S.Diego

all’Ospedaletto in via Medina, da quest’ultima, nel 1963 le reliquie del Servo di Dio

furono trasportate nella chiesa di S.Salvatore in Vico Equense, dove attualmente

riposano.

Antonino il fontaniere si vantava essere stato amico di infanzia di Luigi Avellino .

Negli anni 50 era da poco uscito il gioco del totocalcio e il Sant’Uomo – come

raccontò Antonino semianalfabeta - gli apparve nel sonno, e nel sonno gli dette i 12

risultati della schedina e gli sussurrò che in caso di vincita, lui avrebbe dovuto

impegnarsi per far trasferire le sue spoglie mortali da Napoli, dove si trovavano a

Vico Equense. La stessa mattinata, il povero Antonino, ancora assonnato, col sogno

nella testa si recò al botteghino a giocare la schedina.

Allora, sulla matrice della schedina si segnava il proprio indirizzo. L’indomani

vennero estratti tutti e 12 i risultati. In tutta Italia solo 2 furono le vincite da 11,5

milioni di lire che allora erano veramente tantissimi soldi. Uno a Vico Equense l’altro

a Genova. Il caso volle che la schedina giocata a Genova fosse irregolare e che

l’intera vincita di 22.milioni di lire andasse per intero ad Antonino. Grande emozione

per il paese che dovette di lì poco cambiare il suo fontaniere. I giornali parlarono per

alcune settimane della fortuna capitata ad una famiglia tanto bisognosa e se ne parlò

anche alla radio. Antonino comprò subito un appartamentino nel Parco Aranceto,

appena costruito, ove si trasferì con la moglie Mariannina e dove visse

tranquillamente gli ultimi anni della sua vita, mantenendo fede alla promessa fatta al

Servo di Dio le cui ossa riposano oggi nella chiesa di S.Salvatore.

Il palazzo De Feo

Il palazzo De Feo era un imponente caseggiato di proprietà dei signori Migliaccio.

Era abitato da numerose famiglie quasi tutte operaie. Al primo piano abitavano i

proprietari mentre all’ultimo, viveva don Luigi Milano comandante della polizia

municipale, con la famiglia composta tutta da donne, tutte insegnanti. Una famiglia

molto per bene di cui don Luigi Milano andava molto fiero. Più in là, di fronte la

fontanina, la palazzina con giardino del sig. Di Palma Baldassarre detto “o boss” con

la sua numerosissima prole.

“O boss” era originario di Massaquano, era emigrato negli Stati Uniti già da tanti

anni, da dove però tornava spesso. Il richiamo del paese natio era più forte dei dollari.

Grande lavoratore e persona molto onesta. Con tutti i suoi figli, tranne che con i più

grandi, ho trascorso buona parte della mia infanzia. L’amicizia con loro dura ancora

oggi.

Ogni anno il 16 di dicembre si festeggia con un grosso falò al centro della piazza

di sera restandovi fino a fuoco consumato.

Accorrevano tutte le famiglie e che anche quelle dei rioni vicini ed era occasione

per ritrovarsi tutti insieme e fare quattro chiacchiere. Noi ragazzi ci preoccupavamo di

raccogliere fascine, rottami di legno e tutto ciò che potesse ardere in modo da avere il

falò più imponente e battere gli altri rioni.

Uno dei lati perimetrali della piazza era costituito dal baraccone, oggi sede della

casa, comunale. Un locale lungo circa un centinaio di metri, coperto ma senza porte

dove durante i mesi invernali ci radunavamo attorno ad un fuoco a programmare il

futuro. Durante l’immediato dopoguerra veniva usato come rimessaggio per autocarri

e jeeps militari delle truppe alleate. Ricordo che spesse volte quelli più grandi di noi,

razziavano tutto ciò che trovavano a bordo, dai pueumatici agli indumenti militari, a

recipienti di vario genere ma sopratutto benzina, che aspiravano dai serbatoi con

apposite cannucce. I più piccoli venivano utilizzati da palo. Toccò pure a me di fare la

guardia e ricordo che mi fu dato come premio una piccola tanika con qualche litro di

benzina e un nastro con alcuni proiettili di mitragliatrice, portai tutto a casa pensando

potesse servire, inconsapevole del pericolo. Avevo, allora, appena 7 anni. Altre

persone e inquilini del palazzo De Feo, che non ho dimenticato, e di cui conservo un

bel ricordo sono: la sig. Maria De Feo e Don Alberto Astarita. Maria, donna dal

carattere molto forte, non aveva paura di nulla e di nessuno, diceva sempre quello che

pensava e che riteneva giusto e se doveva mandare qualcuno a quel paese non ci

pensava su due volte. Allo stesso tempo donna di grande umanità e coraggio.

Lavorava da mattina a sera adattandosi a qualsiasi tipo di lavoro, pur di poter dare una

mano al bilancio familiare. Molto forte, mi è capitato molte volte in inverno di

incontrarla a braccia scoperte, non curante del freddo e della pioggia. Il marito

Ferdinando, detto “Iscariota” faceva il vetturino come tanti allora, e il suo guadagno

giornaliero era molto esiguo. Il soprannome di “Iscariota” gli era rimasto dopo aver

rappresentato per qualche tempo, durante la processione del venerdì Santo la figura di

Giuda Iscariota. Nome che gli faceva torto perché Ferdinando era un gran brav’uomo.

Negli anni, ho incontrato spesse volte Maria e non sono mai mancati abbracci e

baci. Si è sempre ricordata di me con affetto materno ed io di lei. L’ultima volta che ci

siamo incontrati in via Bonea, pochi mesi prima che ci lasciasse, mi abbracciò e

accarezzandomi la testa, mi disse di riguardarmi durante i miei viaggi e con gli occhi

umidi di lacrime mi sussurrò ancora “Biaggì mi sento tanto stanca” quasi a presagire

che da lì a poco ci avrebbe lasciati. Per Maria De Feo ero rimasto il ragazzo di allora,

sempre educato e rispettoso.

Don Alberto Astarita invece, gestiva insieme alla moglie, donna Giulia un

importante ed antico panificio in via Roma. Il pane di don Alberto era particolare,

fatto a settori in modo da essere più facilmente divisibile con le mani e con una

aggiunta di finocchietto selvatico nell’impasto acquistava un profumo e un sapore

unico. Come tutti i panettieri di allora aveva anche lui la sua tecnica ecco perché il

pane di una volta, era così buono, ben lievitato e cotto nel forno a fascine, una

meraviglia del palato.

A fine giornata, don Alberto, faceva ritorno a casa indossando una giacca alla

cacciatora di velluto marrone nel cui tascone portava una diecina di panini che

distribuiva ai ragazzi di Piazza Mercato. Faceva il tutto con signorilità e discrezione,

don Alberto, non amava farsi notare. Distribuiva i panini ancora caldi a quella decina

di mani alzate con amore e bontà d’animo. Si dispiaceva se qualcuno rimaneva senza.

Piazza Mercato era spesso teatro di fiere di bestiame durante importanti ricorrenze.

Vi affluivano commercianti della provincia di Napoli e di Salerno con appositi carri,

trasportavano ovini, suini, asinelli ma sopratutto bovini da carne e da latte. Durante

l’estate, poi buona parte della piazza era occupata da grossi cumuli di meloni ed

angurie di varia pezzatura che venivano venduti sia all’ingrosso che al dettaglio.

Qualche commerciante, di tanto in tanto, per richiamare l’attenzione dei passanti,

lanciava un anguria per aria, che cadendo si frantumava in mille pezzi tingendo di

rosso vivo il lastricato. Erano scene di folklore per noi ragazzi una vera e propria festa

anche perché alcune angurie rotte durante lo scarico, venivano afferrate e date in

assaggio.

Come era semplice il vivere di allora. L’onestà delle famiglie che a volte pur

rasentando la miseria vivevano con dignità quei momenti di bisogno in misterioso

silenzio ed umana sopportazione. Ecco perché di questi miei ricordi e stralci di

racconti appena accennati. Pezzi di vite di un passato scomparso Il capo famiglia,

veniva amato, rispettato ed ascoltato, tanto che in alcune famiglie veniva chiamato

“signor padre” e gli si dava del voi in segno di rispetto. Tempi in cui un “Sigaretta”

semplice vetturino che ogni mattino di buon ora usciva di casa con la sola

preoccupazione di racimolare quel tanto da poter sfamare famiglia e cavallo, dava

l’opportunità ad un “mazzarella” di guadagnarsi un piatto di minestra ed un giaciglio

nella stalla in cambio di una strigliatura di cavallo.

Ci si contentava di poco e si era felici e soddisfatti. La famiglia, restava il punto di

riferimento incrollabile. Oggi con con il benessere incondizionato e divertimenti di

ogni genere appena qualche decennio fa impensabili, i giovani non sanno più cosa

cercare e cosa vogliono esattamente.

Mai abbastanza soddisfatti, ed è per questi motivi che cercano nuovo evasioni

esterne nell’alcool, nelle droghe e trovare così emancipazione nella loro sempre più

triste solitudine. La famiglia, dunque, ritorna necessariamente ad essere il punto

cardine per il recupero e la custodia di quei valori acomparsi.

Spesso oggi nessuno è più disponibile all’ascolto, vuoi per motivi economici,

sociali o di salute e questo va ad aggravare sempre più la situazione drammatica,

traumatica, angosciante, devastante che dai giovani si estende ormai a tutti.

Piccole comunità di un tempo quando era più facile socializzare, quando la vita

non era percorsa dalla tecnologia e scandita da1 via vai frenetico di oggi. Se vogliamo

un tempo neanche tanto lontano.

Vi sono episodi nella nostra vita che non potranno mai essere dimenticati.

Episodi che a volte la segnano inesorabilmente, siano essi positivi o negativi.

Buona parte delle persone nominate oggi non esistono più, ma il loro spirito ancora

sopravvive nella memoria dei vivi e nella mia soprattutto. Infatti i ricordi sono

qualcosa di tuo che mai nessuno potrà mai portarti via. La vita è un alternanza di

dolori ed emozioni a volte anche molto violenti che la segnano fortemente. Per

fortuna rimangono i ricordi come incrollabile punto di riferimento. Senza di essi la

vita non avrebbe alcun senno.

Dal sudore di fronti spaziose ricche di saggezze e di umiltà, da mani pazienti e

callose è venuta una generazione di grandi professionisti, avvocati, medici,

comandanti di marina e valenti industriali del turismo, dell’agricoltura e del

commercio. Essi non potranno mai essere dimenticati perché sono stati dei veri

cavalieri del lavoro, cavalieri nell’animo.

Le villette comunali

Delle tre villette comunali di Vico Equense oggi ne restano soltanto due.

Quella del “Bellaria”, appena fuori del paese andando verso Castellammare è stata

chiusa al pubblico già da trenta e più anni: le panchine in granigliato di cemento,

come si usava negli anni quaranta e cinquanta, sono state divelte ed oggi, dove c’era

quel luogo di salubre tranquillità, c’è un parcheggio autobus di un albergo cresciuto a

dismisura ed un muro alto due metri che ha cancellato persino il panorama del

Castello e della mariva di Vico.

Le altre due sono la villetta con il monumento ai caduti che si affaccia sulla

spiaggia della marina di Vico e dello Scrajo sul borgo di S. Maria del toro ed il

Castello Giusso, sul Vesuvio con tutta la sua meravigliosa imponenza e sulle città di

Torre Annunziata e di Napoli.Anque questa poggio belvedere che un tempo era spazio

di ristoro, oggi, soprattutto d’estate è stato occupato da tavolini ed ombrelloni di un

vicino bar.

Ultima, ma forse, per i vicani, la più importante: la villetta a diacente a Villa

Paradiso, ovvero Villa Schettino, che mutua il suo nome proprio da quel bel vedere

situata sulla nazionale che porta a Seiano e sulla costiera Sorrentina, si affaccia sulla

spiaggia di Aequa, compresa tra punta Scutolo e la chiesa dell’Annunziata.

Da questa si può ammirare Capo Miseno e le isole di Ischia e Procida, un

panorama unico nella sua bellezza. Su questo piccolo angolo di paradiso fu scritta

addirittura una poesia dal Cav. Staneslao De Gennaro immortalata su lapide di

marmo, deposta nell’aiuola circolare centrale, oggi misteriosamente scomparsa e non

più sostituita da nessuno e che recitava:

“Vuie ca nun a cunuscite

sta fantastica luggiata

nun tardate ma currite

a gudé sta rarità”.

Anche questo belvedere è a rischio scomparsa, perché un progetto comunale

avrebbe previsto al suo interno la struttura e lo scavo per un ascensore che dovrebbe

collegare il paese con la piana sottostante.

Sia in inverno che in estate ma soprattutto d’estate, tutti i cittadini di Vico, non ne

possano fare a meno. Di primo mattino corrono ad affacciarsi a questa magnifica

“luggiata” e lì si godono il fresco e il silenzio, soprattutto nelle canicole pomeridiane

e nella controra, dove si può ancora schiacciare un pisolino.

Sono prevalentemente ex marinai, ufficiali e capitani di lungo corso che non

mancano a spettacolari tramonti o albe, quasi a placare la sete di nostalgia che li

assale ricordando gli stessi spettacoli visti sull’oceano. Quando l’orizzonte non si

distingue dal cielo e dove chi lo assiste si sente per la prima volta rapito, consapevole

del fascino dell’infinito, quando fissando le onde, nelle loro lunghe traversate

oceaniche, mentre la prua della nave consumando miglia, affidavano i loro pensieri le

loro ansie e le loro aspirazioni come a chiedere loro di fare da messaggere. Soltanto

chi ha navigato può capire quali grandi fatiche affronta un marinaio, dove a volte la

mente umana soccombe e soltanto il pensiero della famig1ia a cui tornare gli da forza

e coraggio.

Poi il ritorno a casa dove la gioia del sorriso e dell’abbraccio dei propri cari

cancella ogni forma di sacrificio e di sofferenza. Molte volte ciò non accade e dopo un

anno di duro lavoro si sente quasi un estraneo tra le mura di casa propria, a volte

vedendosi negato persino dalla propria consorte quel calore e quella dolcezza

necessarie.

Ma ritorniamo ai tramonti di casa. nostra che visti da terra ferma dove le montagne

e la città fanno da sfondo, dono sempre lo stesso anche se mai meno affascinanti. In

estate gli ultimi attimi di luce danno il benvenuto a giochi di tanti colori scintillanti ai

quali è impossibile resistere. Tutti questi colori al crepuscolo si animano

coinvolgendo chi li guarda in come per magia. Specialmente quando la luna con i suoi

raggi bianchi illumina il mare mentre il sole tramonta trasformando le acque in

argento fuso. Punta Scutolo e le Cattedrale formano un’oasi di pace e di tranquillità,

piccolo paradiso incontaminato che pare rapirti l’anima. Ecco perché i proprietari

dalla villa alle spalle della villetta comunale, i signori Guidone, vollero chiamarla

“villa paradiso”.

Le nostre villette comunali non sono soltanto mete di pesseggiate, di albe e di

romantici tramonti. Esse offrono anche un altro spettacolo che potremmo definire

unico in tutta la penisola sorrentina. Tra la seconda metà di agosto a tutto settembre,

durante il pomeriggio assolato, si leva una lieve brezza di ponentino che da punta

Scutolo lambisce tutta la spiaggia di Aequa, caporivo, il pezzolo fino ad urtare la

montagna del Vescovado. Da qui sale lambendo le cime degli oliveti collinari fino

alla frazione di S. Andrea dove sposa una corrente d’aria che scende dalle abetaie e

dai castagneti del Faito. L’incontro di queste due correnti d’aria danno luogo ad una

miscela di aria composta da iodio ed ossigeno così piacevole che sembra restituirti il

respiro. Per chi vive in questi posti meravigliosi è come se fosse cosa normale e vi si

fa l’abitudine ma basta, starne lontano per alcuni mesi per sentirne la mancanza. Chi

ritorna a Vico Equense non è soltanto per nostalgia, degli amici e parenti ma

sopratutto per gustare queste magnifiche sensazioni che il paese offre. Noi cittadini di

Vico Equense, trovandoci fuori dal proprio paese rispondiamo a chi ce lo chiede

“Sono di Sorrento”. I motivi sono due: il primo è perché durante il periodo fascista la

municipalità di Sorrento comprendeva i comuni di Meta, Piano e Sant’Agnello ai

quali è rimasto ancora oggi legato il nome di Sorrento. Noi di Vico a pochi km di

distanza avevamo assimilato questo modo di dire pur avendo diverse amministrazioni

e persino un podestà. Altro motivo, credo il più plausibile, è che nel dire “io sono di

Sorrento” sentirsi più importante, quasi invidiati, essendo Sorrento famosissima nel

mondo. Lo si legge dalla espressione quasi di invidia sul viso di chi ci era davanti,

qualche anno fa all’aereoporto di Genova mi ospita, di incontrare un vecchio collega

di lavoro, che dopo i soliti convenevoli mi chiese “ma di che parte sei esattamente di

Napoli?” ed io “sono di Sorrento”.

Che bello, mi rispose, “pensa io sono stato in vacanza, una settimana a Vico

Equense”. Mi venne da ridere; me ne chiese il motivo ed io gli risposi “io sono di

Vico Equense”. Come in una situazione di rimprovero, il collega mi rispose: “perché

ti nascondi dietro Sorrento, Vico Equense è assai più bella di Sorrento sia per la sua

posizione geografica, sia per il suo clima sempre asciutto nei mesi invernali. Vico

Equense potrebbe essere paragonabile per la sua bellezza ad una bomboniera

incastonata ai piedi dei monti lattari, il Faito e monte Comune. Un vero gioiello della

natura perché mascherare le proprie origini nascondendosi dietro “sono di Sorrento?”

Da quel preciso istante non ho più smesso di rispondere a chi me lo chiedesse “Io

sono di Vico Equense” sia in Italia che all’estero e non senza una punta di orgoglio.

Poesie

Nu terreno diventa fertile e generoso

solo se bagnato da gocce di sudore di chi lo lavora

zolle rimosse da duri colpi di vanga

che grosse e ruvide mani

alternano ritmicamente

anche sotto sole cocente o pioggia o vento.

Vico Equense ha dato i natali non soltanto a valenti artigiani e a grandi capitani di

marina mercantile, ma anche a grandi professionisti che sento il dovere di citarne

alcuni in questi miei pochi e poveri scritti. Professionisti in cui l’amore profondo ed il

rispetto per la professione, il senso di grande umanità ha fatto si che lasciassero un

ricordo indelebile, specialmente in quelli della mia generazione. Il dott. Michele

Cuomo “on Michele o farmacist” che con i suoi preziosi consigli accompagnati dai

suoi misteriosi sciroppi, oserei dire miracolosi, tutte le mamme di allora (parliamo dei

periodi ante e dopo guerra) hanno tirato su la loro numerosa prole. Professione

esercitata poi dal figlo dott. Vittoriano ed oggi con lo stesso impegno dal nipote

Michele.

Il dott. Antonio Celentano “o miereco de creature”, instancatile medico pediatrico,

sempre disponibile, ha seguito le famiglie di Vico durante e dopo il conflitto mondiale

con tutte le problematiche di allora, sia di giorno che di notte.

I dottori Elio ed Emmanuel Scaramellino, specialisti in ostreticia e chirurgia.

Anche loro sempre disponibili sia a casa che in ospedale, curando tutti senza

distinzioni sociali con lo stesso impegno e professionalità.

Al dott. Elio si può dire che gli debba la vita. Sapeva dei miei problemi epatici e un

giorno, esattamente il 6 di agosto del 1995 incontrandomi per caso mi si avvicinò e

guardadomi negli occhi mi disse “datti da fare le cose non vanno bene, altrimenti

perdi il treno”. Quello stesso giorno telefonai all’ospedala delle Molinette di Torino,

con il quale ero in contatto e il 22 dello stesso mese mi ricoverarono.

Spesso questi medici lasciavano sul comodino non soltanto la ricetta medica anche

qualche biglietto da 5000 ben conoscendo la situzione economica in cui la famiglia

versava.

Il dott. Emmanuel che oggi ha 98 anni , ha scritto di recente una sua autobiografia

“Dalla terra dei Masai a Vico Equense” che cosiglierei a tutti di leggere.

Ricordi appassionanti che coinvolgono subito chi inizia a leggerli.

Storia di una vita spesa per la professione e per la patria in armi, guadagnandosi il

rispetto non soltanto dei suoi subalterni ma sopratutto dei nemici. Il dott. Emmannel

ha operato anche durante la sua prigionia in Africa con scarsi mezzi e medicinali,

chiunque avesse avuto bisogno di aiuto, sia stato esso nemico o alleato, bianco o di

colore.

Mi capita spesso di incontrarlo, durante le mie venute a Vico e non posso fare a

meno di corrergli incontro e salutarlo. Benché ultranovantenne sempre bello ed

elegante, ricorda, tutti i suoi concittadini con grande affetto. Vive il crepuscolo della

sua avventurosa vita immerso nei ricordi e nell’affetto di sua moglie e delle sue

meravigliose figliole.

Le sue mani

Sono stanche rugose, aree dal sole

ma sono belle

perché sono le mani di mio padre.

Anche lavate non brillano mai

mantengono sempre il sorriso

di una patina bruna

il lustro della miseria e della fatica

sigillo del suo amore per me. Piccolo

mi hanno aiutato a salire gli scalini della vita

adulto,

mi hanno indicato i sentieri più brevi,

le cerco ancora nel buio

quando son solo o vacillo

e non voglio cadere.

Sono stanche, rugose, arse dal sole

ma sono belle

perché sono le mani di mio padre.

Erminio Crippa

Vorrei

Vorrei un mondo senza guerre, senza fame, senza odio,

senza malattie, un mondo più semplice

Vorrei più impegno, più sentimento in ciò che si fa

nel lavoro, nello studio, nella politica, nella famiglia

Vorrei più volontariato, quello vero, non esibizionista

perché non vi è persona più alta di chi si china ad aiutare altre

Vorrei che la gente quando si parla si tenesse per mano

guardandosi negli occhi privi di ipocrisia.

che chi comanda fosse più umano, più comprensivo

senza abusare di potere.

Vorrei che guardando il cielo stellato di sera

ognuno sentisse invadere il proprio cuore di pace e serenità

e che volgesse anche se solo per un istante il pensiero

all’Onnipotente e alla Sua Misericordia.

Soltanto così si può avere la capacità di entrare in noi stessi

e riesaminare i veri valori dell’esistenza.

Vorrei che ognuno comprendesse che siamo tutti degli eroi

al momento giusto, e che in ognuno di noi vi è qualcosa

di buono, di onesto e di magico, basta saperlo tirare fuori

al momento giusto.

Vorrei che fosse amore a muovere il cuore degli uomini

e non avidità di potere

perché a dispetto di tutto e di tutti,

l’amore è il seme della vita

non muore mai; esso è perenne come l’erba.

Tutto questo io vorrei.

Biagio Cilento

Le parole dell’amore

Non si deve aver paura di dirle le parole dell’amore

quando il cuore che vede oltre la ragione, le detta

così come non se ne deve infazionare l’uso

togliendo ad esse il magico potere nutritivo che posseggono.

In effetti cos’é l’amore se non donare, donare sempre, con calore. Calore intenso

che qui sempre in chi lo riceve ha un effetto terapeutico enorme.

Nelle persone ammalate, poi, quel calore dà dei risultati, a volte, anche superiore

a qualsiasi farmaco.

Dire ad una persona “io ti amo” è molto bello, ma secondo me, sarebbe meglio

dire “mi manchi”. Mi manca il tuo sorriso, il tuo sguardo ma sopratutto il calore che

solo tu sai donarmi e che riesci a trasmeltermi anche con una semplice stretta di

mano. Ecco perché si è sempre alla ricerca dell’amore nella vita. Una ricerca

spamodica, quasi ossessiva, tanto da perdersi, a volte.

Quando l’amore per la vita

è così intenso e forte

riesce ad addolcire anche gli ultimi

istanti prima di morire

A volte è difficile amare gli altri

ma lo è ancora di più nell’amare se stessi.

Chi è senza amore non ama la vita

e chi non ama la vita

è già morto a metà.

B. Russel

La Madonna visita poveri

Madonna visita poveri, olio su tela del maestro Cesare Calise ischitano opera del

1609. Misteriosamente scomparso il 25 novembre del 1990, per più di 15 anni se ne

persero le tracce. La comunità di Bonea, molto devota, pregava tutti i giorni e faceva

voti affinché la Madonna ritornasse al suo posto. Il quadro esposto per alcuni mesi sui

mercatini rionali di Trastevere in Roma, fu aquistato e poi rivenduto ad una galleria

d’aste.

Riconosciuta su internet da un cittadino vicano che subito ne informò l’allora

giovine sacerdote don Pasquale Vanacore. Iniziarono subito scrupolose ricerche e con

l’aiuto di Dio e della Guardia di Finanza al comando del colonnello Isidoro

Brancaccio l’opera viene rintracciata presso il museo di Lecce e riportata nella sua

parrocchia di origine’ quella di Bonea, dove il buon don Pasquale ne è divenuto

parroco.

I cittadini di Bonea e di Vico, tutti con povere offerte offrirono alla Madonna due

corone d’oro.

FINE