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N ote e discussioni I radicali italo-americani e la società italiana di Adriana Dadà L’individuazione di un’area “radicale” dell’emi- grazione italiana negli Stati Uniti può essere estremamente difficile se non àncora questa definizione generica a punti di riferimento pre- cisi. Riteniamo innanzi tutto opportuno che il problema venga affrontato tenendo conto del ruolo del capitalismo nello sviluppo economi- co, sociale e politico del sub continente norda- mericano e al tempo stesso della lotta intrapre- sa contro di esso dal movimento “radicale” al fine di instaurare un assetto dei rapporti di produzione della vita sociale di tipo socialista. In questo quadro, per “radicalismo” italoame- ricano, intendiamo quella parte del movimento operaio che critica la società capitalista nelle sue strutture portanti ed oppone a questa il progetto di una società nuova, non più basata sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e sullo sfruttamento, una società da realizzarsi mediante una rottura violenta degli equilibri di potere esistenti, che faccia propri, come valori positivi, l’internazionalismo proletario, la soli- darietà di classe, la scomparsa del dominio dell’uomo sull’uomo. Ciò premesso, poiché la comunità degli emi- grati italiani negli Stati Uniti è caratterizzata al suo interno dal permanere di un tessuto sociale abbastanza stratificato e definito — costituisce infatti una microsocietà nella più grande socie- tà americana — il suo studio può fornire un contributo per spiegare portata e significato del radicalismo nella storia degli Stati Uniti. Alla contrapposizione padrone-salariato, si assom- ma infatti la divisione prominenti-cafoni, riflet- tendo dinamiche interne proprie del paese di origine. È proprio per questo motivo che ac- quista interesse analizzare, all’interno di questa società separata, che importanza assuma una delle componenti, quella radicale, che si pone come un settore del più vasto movimento ope- raio statunitense, superando perciò stesso le contraddizioni e i limiti della nazionalità in un’ottica di classe. È tuttavia evidente che, se da una parte è necessario tener presente per l’analisi di questo settore del movimento operaio statunitense le radici storiche, le esperienze di lotta vissute nel paese di origine e le costanti relazioni con que- sto, è all’interno dell’elaborazione teorica, stra- tegica e delle esperienze di lotta del movimento operaio complessivo esistente negli Stati Uniti che va collocata la ricerca. Questa impostazio- ne dell’analisi su direttrici parallele deriva dalla constatazione che, soprattutto fra i partiti so- cialisti e gli altri raggruppamenti sindacalisti, sindacalisti rivoluzionari e anarchici (per indi- care questi raggruppamenti useremo d’ora in- nanzi il termine radicale, anche se per molti versi lo giudichiamo insoddisfacente) operanti nei due paesi è molto intenso. L’analisi comparata del fenomeno è tanto più necessaria ove si tenga conto che ci trovia- mo di fronte a mutamenti ed elaborazioni teo- riche più generali che investono le strutture politiche e sindacali del movimento operaio di molti altri paesi: basti pensare a Germania, “Italia contemporanea", giugno 1982, n. 146-147.

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Page 1: I radicali italo-americani e la società italiana · 2019-03-05 · I radicali italo-americani e la società italiana 133 movimento operaio intemazionale come un momento di lotta

N ote e discussioni

I radicali italo-americani e la società italianadi Adriana Dadà

L’individuazione di un’area “radicale” dell’emi­grazione italiana negli Stati Uniti può essere estremamente difficile se non àncora questa definizione generica a punti di riferimento pre­cisi. Riteniamo innanzi tutto opportuno che il problema venga affrontato tenendo conto del ruolo del capitalismo nello sviluppo economi­co, sociale e politico del sub continente norda­mericano e al tempo stesso della lotta intrapre­sa contro di esso dal movimento “radicale” al fine di instaurare un assetto dei rapporti di produzione della vita sociale di tipo socialista.

In questo quadro, per “radicalismo” italoame- ricano, intendiamo quella parte del movimento operaio che critica la società capitalista nelle sue strutture portanti ed oppone a questa il progetto di una società nuova, non più basata sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e sullo sfruttamento, una società da realizzarsi mediante una rottura violenta degli equilibri di potere esistenti, che faccia propri, come valori positivi, l’internazionalismo proletario, la soli­darietà di classe, la scomparsa del dominio dell’uomo sull’uomo.

Ciò premesso, poiché la comunità degli emi­grati italiani negli Stati Uniti è caratterizzata al suo interno dal permanere di un tessuto sociale abbastanza stratificato e definito — costituisce infatti una microsocietà nella più grande socie­tà americana — il suo studio può fornire un contributo per spiegare portata e significato del radicalismo nella storia degli Stati Uniti. Alla contrapposizione padrone-salariato, si assom­

ma infatti la divisione prominenti-cafoni, riflet­tendo dinamiche interne proprie del paese di origine. È proprio per questo motivo che ac­quista interesse analizzare, all’interno di questa società separata, che importanza assuma una delle componenti, quella radicale, che si pone come un settore del più vasto movimento ope­raio statunitense, superando perciò stesso le contraddizioni e i limiti della nazionalità in un’ottica di classe.

È tuttavia evidente che, se da una parte è necessario tener presente per l’analisi di questo settore del movimento operaio statunitense le radici storiche, le esperienze di lotta vissute nel paese di origine e le costanti relazioni con que­sto, è all’interno dell’elaborazione teorica, stra­tegica e delle esperienze di lotta del movimento operaio complessivo esistente negli Stati Uniti che va collocata la ricerca. Questa impostazio­ne dell’analisi su direttrici parallele deriva dalla constatazione che, soprattutto fra i partiti so­cialisti e gli altri raggruppamenti sindacalisti, sindacalisti rivoluzionari e anarchici (per indi­care questi raggruppamenti useremo d’ora in­nanzi il termine radicale, anche se per molti versi lo giudichiamo insoddisfacente) operanti nei due paesi è molto intenso.

L’analisi comparata del fenomeno è tanto più necessaria ove si tenga conto che ci trovia­mo di fronte a mutamenti ed elaborazioni teo­riche più generali che investono le strutture politiche e sindacali del movimento operaio di molti altri paesi: basti pensare a Germania,

“Italia contemporanea", giugno 1982, n. 146-147.

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Francia, Argentina, Inghilterra, Svezia (')■ In­oltre, in particolare per quanto concerne la storia del movimento operaio negli Stati Uniti, riteniamo sia indispensabile approntare un me­todo di ricerca che tenga conto della sua parti­colare composizione, caratterizzato com’è dal­l’esistenza, ancora in quegli anni, di vari rag­gruppamenti etnici a base linguistica che, con strutture politiche e sindacali loro proprie, pa­rallele o integrate nella struttura più generale, forniscono l’ossatura del movimento operaio statunitense. Una tale struttura organizzativa ha come conseguenza inevitabile, accanto al trasferimento di esperienze vissute dal luogo di nascita al paese di immigrazione, il riflettersi delle esperienze politiche e sindacali dei gruppi etnici all’interno del movimento operaio statu­nitense sui rispettivi movimenti operai dei paesi di origine, e la nascita di una rete di relazioni e di sentimenti internazionalisti che vanno al di là del fatto organizzativo.

Non a caso, ad esempio, il primo ventennio del secolo vede l’emergere sia negli Stati Uniti che in Italia, ma non solo in essi all’interno del movimento operaio, di organizzazioni sindaca­n te rivoluzionarie e anarco-sindacaliste, con­trapposte alle organizzazioni riforniste e tra- deunioniste. Sintomatica dei profondi legami che uniscono in questo periodo il movimento operaio italiano a quello statunitense è resi­stenza di continui scambi di esperienze e di lotta

e, conseguentemente, di analisi teoriche sulla fase dello sviluppo capitalistico in quel periodo e sulle alternative da opporvi 0 . È a tutti noto il parallelismo fra l’evacuazione dei figli degli scioperanti, a scopo di resistenza e di propa­ganda, durante il lungo e difficile sciopero di Parma del 1908 e il ripetersi dello stesso feno­meno a Lawrence nel 1912, dove, forse non a caso, ben 7.000 lavoratori erano di origine ita­liana. Ma altri fenomeni, solo in parte studiati, ci paiono significativi; basti pensare ai legami sul piano dell’elaborazione teorica che intercor­rono fra la proposta industrialistica di Corri- doni 0 e le tendenze similari dell’IWW. Resta­no senz’altro da analizzare ancora aspetti inte­ressantissimi che caratterizzano entrambe le si­tuazioni, e che per ora si possono solo segnalare allo studioso, quale la contemporanea influen­za dei gruppi radicali sulle strutture sindacali e sui partiti riformisti; in particolare, per l’Italia, l’incidenza del sindacalismo rivoluzionario e dell’Unione sindacale italiana sulle strutture della Confederazione generale del lavoro e, per gli Stati Uniti, l’incidenza dell’Industrial Wor- kers of thè World sulle strutture e sulle scelte politiche dell’American Federation of Labor (4).

Con questo lavoro cercheremo comunque di focalizzare almeno alcuni dei problemi segnala­ti rispetto ad un periodo determinato che va dal 1916 al 1926, considerato da alcuni settori del

Comunicazione presentata al II congresso internazionale di storia nordamericana, tenuta a Milano il 14-17 giugno 1979 sul tema “Radicalismo negli Stati Uniti”.(') Per una visione complessiva della seconda internazionale, vedi George D.H. Cole, Storia del pensiero socialista, voi. 3, Bari, Laterza, 1972. Interessanti gli approfondimenti di alcuni studiosi che hanno partecipato al convegno su “Il sindacalis­mo rivoluzionario nella storia del movimento internazionale”, tenuto a Ferrara il 2-5 giugno 1977, i cui Atti sono pubblicati su “Ricerche storiche”, 1981, n. 1. Particolarmente si segnalano gli interventi di J. Julliard, Les rapports parti-syndicats dans le révolutionnaire à l'anarco-syndacalisme. La fondation de l’A IT de Berlin e décembre 1922; George Haupt, Dimensions internationales du syndacalisme révolutionnaire: les rapports avec la Seconde Internationale; A. Souchy, Le syndacalisme révolutionnaire en Allemagne et en Suède; M. Villeumier, James Guillaume et son role dan le synsacalisme révolutionnaire international; Bruno Cartosio, Strategia rivoluzionaria della IWW; Adriana Dadà, Aspetti di storia del sindacalismo statunitense.(2) Interessante in questo senso il saggio di B. Cartosio, cit.(3) Oltre a B. Cartosio, o. cit., si veda Maurizio Antonioli, Sindacalismo rivoluzionario italiano e modelli organizzativi: dal modello industrialista di Corridoni ai Sindacati Nazionali d ’industria (1911-14), “Ricerche storiche”, genn.-giu-1975, n. 1, pp. 147-177.(4) Mentre per gli Stati Uniti questi aspetti della storia sindacale sono ancora poco esplorati, per l’Italia, si veda, tra l’altro l’interessante intervento di Idomeneo Barbadoro al convegno sucitato.

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movimento operaio intemazionale come un momento di lotta prerivoluzionaria seguito da una reazione capitalista, antiproletaria e re­pressiva di ogni libertà. Un periodo, quello bellico e postbellico, di speranze, ma anche di sconfìtte a livello intemazionale per il movi­mento operaio, che si concretizza in Italia con la presa del potere da parte del fascismo in funzione antiproletaria e di salvataggio del grande capitale monopolistico. Negli Stati Uni­ti, invece, dopo la distruzione “militare” delle organizzazioni o gruppi radicali, impegnati nel­la lotta anticapitalista, la restaurazione verrà attuata con metodi meno autoritari, ma in complesso simili, se si considera che il movi­mento operaio dovrà subire per anni sindacati gialli, reazione, closed shop (5).

Non essendo possibile, nei limiti di spazio che ci sono dati, seguire passo passo tutta la storia e l’evoluzione delle relazioni dei gruppi radicali italoamericani con il movimento ope­raio statunitense e con quello italiano, ci limi­tiamo a sottolineare alcuni momenti importan­ti e abbastanza sconosciuti di questo rapporto.

Uno dei più significativi, che testimonia i legami che uniscono i movimenti operai dei due paesi tramite la componente dei lavoratori ita­liani immigrati, è dato dalla massiccia campa­gna che nel 1916 viene intrapresa in Italia per difendere gli accusati d’omicidio per lo sciopero del Mesabi Range nel Minnesota, tra i quali l’italiano Carlo Tresca (6). Lo sciopero nella zona del Mesabi Range, una delle più ricche di

ferro nel mondo, era estremamente importante nella strategia dell’Industrial Workers of thè World, che l’aveva organizzato perché colpiva direttamente gli interessi del potente trust, l’U- nited States Stei Corporation, e la stessa pro­duzione bellica.

Nell’Italia già in guerra, dove quindi la posta è soggetta a stretta censura — grazie a questa censura è stato possibile in parte ricostruire gli avvenimenti a cui accenniamo — e le riunioni pubbliche, le manifestazioni, i comizi sono proibiti. Malgrado ciò il proletariato italiano dà prova di un forte spirito internazionalista.Nei mesi fra la fine di agosto e il dicembre 1916 (data del rilascio di Tresca), ogni giorno in qualche parte d’Italia, socialisti, sindacalisti, anarchici, si riuniscono, manifestano contro gli Stati Uniti e per la liberazione di Carlo Tresca (7). La campagna, promossa dal “Comitato fiorentino prò Carlo Tresca (*), avrà momenti significativi nella manifestazione nazionale a Milano 1*8 ottobre al Teatro del popolo, che vide la partecipazione, stando alle fonti del ministro degli Interni, di oltre 1.000 per­sone i9).

“Al comizio aderivano con regolari rappre­sentanze: 18 comuni socialisti, 7 federazioni di mestiere, 36 CdL, 25 leghe, 24 federazioni, un centinaio di sezioni e 50 circoli giovanili sociali­sti, 53 associazioni anarchiche, una ventina di aggruppamenti sindacalisti, 60 associazioni va­rie fra cui mutue e gruppi anarchici” (10). So-

(5) R.K.. Murray, Red Scare. A Study in National Histeria, Minneapolis, University of Minneapolis Press, 1955; W. Preston, Alines and Dissenters, New York, Harper e Row, 1963; Ronald Radosh, ¡¡sindacato imperialista. Dipartimento di Stato, CIA e sindacato americano, Torino, Rosemberg & Selliers, 1978; Fester R. Dulles, Storia del movimento operaio americano, Milano, Comunità, 1953.(6) Sullo sciopero del Mesabi Range vedi l’esauriente saggio di P.S. Foner, History o f the Labord Movement in the United States, voi. IV: The Industriai Workers o f the World 1905-17/New York, International Publishers, 1976, pp. 486-517; oltre alle memorie autobiografiche di alcuni leaders dell’IWW; W.D. Haywood, Bill Haywood’s Book. The autobiography. New York, International Publishers, 1974, pp. 290-293; Gurley Flynn, Laribelle. Fra sindacalismo rivoluzionario e comuniSmo. La vita di una militante americana, voi. 2, Milano, La Salamandra, 1976, pp. 146-149.(7) Dall’agosto al dicembre decine di manifestazioni, in circoli, sedi di partito e sindacali si tengono in molte parti d’Italia, come risulta dalla voluminosa cartella dell’ACS, CPC, busta 5208.(8) Cfr. Prefettura di Firenze a ministero dell’Interno, Firenze, 29 agosto 1916, in ACS, CPC, busta 5208; comitati simili si formeranno nelle principali città.(’) Cfr. Telegramma del Prefetto di Milano a! ministero dell'Interno, 9 ottobre 1916, ivi.(I0) Gino Cerrito, L’antimilitarismo anarchico in Italia nel primo ventennio del secolo, Pistoia, Edizioni R.L., 1968, p. 57.

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prattutto le organizzazioni sindacali sono im­pegnate nella campagna perché individuano nella lotta per la liberazione dei compagni d’America un momento importante della lotta anticapitalista. Così accanto a prese di posizio­ne di organi esecutivi del Partito socialista ("), della CGL, dell’USI (I2), ci sono ordini del giorno, telegrammi di sezioni di tali organizza­zioni, di Camere del Lavoro (13). Molti giornali socialisti e anarchici aprono sottoscrizioni; per esempio “Il libertario” de La Spezia stampa una “scheda pro-liberazione Carlo Tresca da spedire direttamente a De Gregoris, New York”, cioè direttamente a comitati negli Stati Uniti, in questo caso un comitato legato a un periodico socialista molto importante “fi prole­tario” (14). La Camera del lavoro di Bergamo e provincia, pubblica addirittura nel novembre un numero unico dal titolo “Per la liberazione di Carlo Tresca” (,5); la Società Editrice Avanti! pubblica un opuscolo di 32 pagine del socialista Caroti che avrà ampia pubblicità e diffusione dal titolo Per Carlo Tresca. Un episodio della lotta di classe, Solidarietà intemazionale (l6).

Le autorità italiane cercheranno di bloccare

questa campagna con intimidazioni, arresti (17), sequestri di tutto il materiale a stampa che arrivava per posta dagli Stati Uniti e che potes­se “avere lo scopo di provocare agitazioni in favore del Tresca anche in Italia” (18), giungen­do nel novembre del 1916 a proibire l’introdu­zione nel regno del giornale diretto da Carlo Tresca negli Stati Uniti “L’avvenire” (l9). La proposta e la propaganda per la liberazione di Tresca si svolge sui temi della lotta al “feroce capitalismo degli Stati Uniti”, della lotta inter­nazionale per difendere i diritti e le conquiste dei lavoratori, accanto ai temi della propagan­da antimilitarista che impegni in quegli anni il movimento operaio italiano (2o).

Ai primi di dicembre l’agitazione si intensifi­ca con comizi che si svolgono parallelamente a quelli che negli Stati Uniti il Comitato associa­zione difesa ha indetto per il 2 dicembre in molte città. Il Comitato associazione difesa in una lettera all’“Avanti” aveva infatti chiesto “Decisa organizzazione comizi simultanei Ame­rica sabato due dicembre. Necessitasi facciasi altrettanto Italia e altre città Europa, dove può giungere influenza compagni italiani. Dopo

(■■) R. Prefettura di Milano al ministro dell'Interno, Milano, 2 settembre 1946, ACS, CPC, busta 5208.(I2) ACS, CPC, busta 5208, passim.C3) Ivi, 80 Leghe della Camera del lavoro di Carrara e provincia riunite a convegno il 15 ottobre, per es., votano un odg pubblicato censurato su “Guerra di classe”, 21 ottobre 1916, p. 3. Da uno spoglio del materiale di archivio e della stampa periodica risultano comizi, riunioni, odg votati, da Camera del lavoro e da altre organizzazioni sindacali e politiche ogni giorno in ogni parte d’Italia, dalla riunione a Roma del 15 settembre alla Casa del popolo con 700 persone a quella presso il Circolo socialista di Ardenza di Livorno con 70 persone, per fare solo alcuni esempi.(,4) La scheda originale si trova in ACS, CPC, busta 5208.(is) »per la liberazione di Carlo Tresca”, n.u. pubblicato dalla Camera del lavoro di Bergamo e provincia, 20 settembre 1916, pp. 4, originale in ACS, CPC, busta 5208.(16) C. Caroti, Per Carlo Tresca. Un episodio della lotta di classe. Solidarietà internazionale, Milano, Società Editrice Avanti!, 1916, pp. 32. L’opuscolo è segnalato costantemente in quei mesi su “L’Avanti!”; ne verrà fatta una distribuzione massiccia insieme al numero unico citato al comizio di Milano dell’8 ottobre, R. Prefettura di Milano a! ministero delITnterno, 10 ottobre 1916, ACS, CPC, busta 5208. Milano.(17) Esemplare il comportamento delle forze dell’ordine per il comizio dell’8 ottobre a Milano, Fra gli altri sono segnalati a Brescia fermi di persone sospettate di recarsi al comizio di Milano (telegramma del Prefetto di Brescia al ministero delITnterno), 8 ottobre 1916, ACS, CPC, busta 5208 col quale si segnala l’arresto a tal titolo di sei anarchici.(18) Cfr. Estratto n. 7759 del 14 ottobre 1916 del Reparto censura militare posta estera di Bologna a ministero delITnterno, che segnala il sequestro di 130 copie de “L’avvenire” inviate in data 1 settembre a Camere del lavoro di diverse città “ritenendo che l’invio di tale numero di copie possa avere lo scopo di provocare agitazioni in favore del Tresca anche in Italia”.(” ) Il ministro Segretario di Stato per gli Affari dell’interno nel novembre del 1916 vieta l’introduzione nel Regno de “L’avvenire” il periodico diretto da Tresca.(2o) Su questi temi innumerevoli gli articoli, particolarmente su “L’Avanti!” e “Guerra di classe”, vedi del resto anche l’opuscolo di C. Caroti, Per Carlo Tresca, cit., particolarmente p. 1.

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comizi, mandate telegramma protesta Presi­dente Washington Governatore Saint Paul Minnesota District Attomey Duluth Minneso­ta” (21).

D governo italiano, fin dalle prime notizie dell’arresto, soprattutto a causa delle agitazioni in Italia, aveva chiesto informazioni alle autori­tà consolari negli Stati Uniti, le quali avevano assicurato fin dal 7 agosto il governo che si sarebbero interessate per avere elementi più precisi, facendo però notare la delicatezza del caso per le difficoltà derivanti dai limiti posti dall’ordinamento giudiziario degli Stati Uniti agli interventi delle autorità federali negli affari interni di uno stato (p).

Tarchiani, più tardi, non mancava di segna­lare alle autorità italiane che Tresca era uno di coloro “che hanno contribuito, e purtroppo con risultati notevoli, a trattenere in America centi­naia di migliaia (calcolo siano 350.000) di ita­liani chiamati alle armi e formare quella enorme caterva di disertori che oggi sono una vergo­gna, domani saranno un grosso problema na­zionale e difficile da risolversi con giustizia e decoro” (23).

Ma come sappiamo, nonostante le polemi­che che il caso Tresca scatenerà (24), Tresca e gli altri venivano liberati il 16 dicembre. Il fatto è salutato con soddisfazione e una punta di or­goglio dalle organizzazioni che hanno parteci­pato alla campagna di solidarietà. Sia l’USI che il partito socialista sui loro periodici salutano Tresca “a nome del proletariato d’Italia, insie­me ai suoi compagni di causa; insieme a tutti i forti agitatori della nostra consorella del Nord

America: la Federazione industriale dei lavora­tori del mondo. Il proletariato d’Italia è esul­tante di questa vittoria, e sa di avervi contribui­to: ed ha l’orgoglio di avervi contribuito solo, senza soffocare lo spirito della sua agitazione, nella morbida stretta di sentimentalismi confu­sionari” (25). “D proletariato intemazionale sen­tì ferito se stesso ed insorse. Tutta l’Italia prole­taria, malgrado lo stato di guerra, tenne centi­naia e centinaia di corniti, e addì 17 dicembre 1916, Carlo Tresca e compagni, essendo stata ritirata la falsa accusa, furono restituiti alla libertà” (26). L’arresto di Tresca e compagni nel Minnesota era stato solo l’avvisaglia di un pro­getto più vasto di attacco alle posizioni del movimento operaio e della sinistra più in gene­rale. Negli anni dal 1917 al 1920 il capitale monopolistico americano, portata a compi­mento una fase di espansione capillare nel mer­cato mondiale, sviluppa aU’intemo del paese un attacco alle forze di sinistra che si muove su più piani. Il pretesto della guerra viene usato per chiamare all’unità la nazione, superando gli interessi di classe, da un lato attraverso una propaganda ideologica di massa in difesa dei valori americani, e dall’altro stipulando un’al­leanza dichiarata con l’American Federation of Labor, la quale garantisce al padronato una tregua nello scontro di classe, in cambio della partecipazione alla mobilitazione bellica.

Gli effetti nelle strutture stesse delle organiz­zazioni di classe sono profondi perché l’AFL, istituzionalizzandosi in quel periodo, riesce ad isolare e a criminalizzare interi settori produtti­vi che vedevano una forte presenza della sini-

(21) Telegramma della R. Prefettura di Milano al ministero deH’Interno, Milano, 12novembre 1916, ACS, CPC, busta 5208.(22) Numerosa la corrispondenza del R. Consolato generale d’Italia a New York con il ministero delPInterno a partire dal 7 agosto 1916, in ACS, CPC, busta 5208.(23) Letteradi Alberto Tarchiani a S.E. Borsarellidi Rifreddo, sottosegretario per gli Affari Esteri, Roma, 15 dicembre 1916, ACS, CPC, busta 5208.(24) In occasione del processo Tresca con Joseph Ettor e E. Gurley Flynn si resero impopolari perché ottennero di scindere il loro caso dal gruppo di arrestati, venendo così scarcerati: P. Renshaw, Il sindacalismo rivoluzionario negli Siati Uniti, Bari, Laterza, 1970, pp. 188-9.(25) “Guerra di classe”, 23 dicembre 1916.(26) “Almanacco socialista”, 1911, p. 248.

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stra sindacalista (27). Questo clima si accentua con la vittoria in Russia dei bolscevichi; lo spettro del contagio scatena ancora più l’azione repressiva del padronato e del potere giudizia­rio. Ai linguaggi più o meno spontanei di lavo­ratori dell’I WW, si aggiunge l’uso capillare del­la violenza fisica anche mediante il ricorso a vigilantes, assoldati attraverso agenzie private tipo Pinkerton, mentre si inasprisce l’intervento del potere giudiziario, anche mediante l’ema­nazione di ordini di cattura e di espulsione dagli Stati Uniti, il ricorso a processi giudiziari, come nel caso di Sacco e Vanzetti che rimarrà em­blematico del clima di questo periodo negli Stati Uniti.

Quando si arriva a processi, questi infatti si caratterizzano spesso per l’impossibilità di assi­curare i diritti della difesa in mezzo al castello di prove artefatte montate da agenzie private e potere giudiziario P ).

La IWW è l’organizzazione più colpita da questa repressione. fi 5 settembre 1917 ¿ i agen­ti del dipartimento di Giustizia organizzano irruzioni simultanee in quarantotto sezioni e incriminano successivamente 165 dirigenti del- l’IWW per aver ostacolato i programmi della produzione bellica, con scioperi, sabotaggi, per aver incitato alla diserzione, per associazione a delinquere P ). Tutte imputazioni che dimo­stravano chiaramente come lo scopo vero fosse quello di mettere sotto accusa la IWW per la strategia e i suoi metodi di lotta e quello di eliminare definitivamente questa organizzazio­ne della vita politica e sindacale degli Stati Uniti. Essa era rimasta in effetti la sola forza organizzata che si opponeva al clima di colla­borazionismo che univa il sindacato tradeu- nionista, l’AFL e il padronato (3o).

D’altra parte l’alleanza fra sindacato tradeu- nionista e capitale era dettata da una oggettiva convergenza di interessi, poiché avrebbe per­messo di sfruttare il periodo bellico come ele­mento propulsore dello sviluppo capitalistico statunitense, non solo per l’enorme sviluppo quantitativo della produzione e quindi, in que­sta fase, dell’occupazione, ma per le profonde trasformazioni che avrebbe apportato nel campo dell’organizzazione del lavoro, dello svi­luppo tecnologico e del controllo sociale, una volta eliminato e asservito ai propri scopi la capacità di lotta anticapitalistica del movimen­to operaio.

Sarebbe così venuto a mancare il tessuto sociale e politico che permetteva alla IWW di vivere, di svolgere una funzione propulsiva del­la lotta di classe e dello sviluppo di migliori condizioni di vita per i lavoratori. L’ambiente radicale italoamericano sarà colpito dall’onda­ta di arresti, di accuse, di processi e poi di deportazioni in maniera considerevole, e farà da tramite diretto con il movimento operaio italiano per ottenere la solidarietà attiva. Fin dal 17 ottobre 1917 di fronte al processo ai dirigenti dell’IWW che si tiene a Chicago, il Comitato di difesa dell’IWW di S. Francisco invia ai giornali “L’avvenire anarchico” di Pisa, “L’Avanti!”, “Cronaca libertaria” di Milano, una lettera circolare accompagnata da una lista di sottoscrizione che, spiegata la situazione in cui si trova il movimento operaio negli Stati Uniti, conclude “Non illudetevi; il problema che verrà risolto a Chicago non è quello di decidere se questi uomini hanno cospirato con­tro il Governo, ma bensì l’altro di determinare se la mano d’opera organizzata ha il diritto, malgrado qualsiasi provocazione, di darsi allo

(27) Vedi particolarmente R. Radosh, Il sindacalo imperialista, cit., passim; C. Bock, L"‘altro" movimento operaio negli Stati Uniti, in AA.VV., La formazione dell'operaio massa negli Stati Uniti 1898-1922, Milano, Feltrinelli, 1976, passim.(28) Sul periodo, vedi G. Bock, op. cit., R. Murray, Red Scare, cit.; P. Renshaw, Il sindacalismo rivoluzionario negli Stati Uniti, cit.(29) Ivi, pp. 187 sgg.(30) P. Radosh, op. cit.; J.S. Gams, The'decline o f thè IWW, new York, Columbia University Press, 1932; Rebel Voices. An IWW Anthology, a cura di J.L. Kornblush, Ann Arbor, University of Michigan Press, 1972.

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sciopero in tempo di guerra” (31).Il 25 ottobre il Comitato generale di difesa

dell’IWW invia da Chicago al periodico “L’in­temazionale” e alla Camera del lavoro di Par­ma, due fogli di sottoscrizione che verranno, fra gli altri spediti, sequestrati dalla censura milita­re. La lettera di accompagnamento del Comita­to che il censore riporta merita particolare at­tenzione. Dice, tra l’altro, “Se uomini possono essere arrestati per abbandono del lavoro, la schiavitù sarà la nostra sorte, perché non ab­biamo altri mezzi per migliorare la nostra con­dizione che lo sciopero. Rinunciare a questo diritto è rinunciare alla libertà, assieme a tutte le probabilità di migliorare le nostre condizioni” (32). Comunicazioni simili vengono inviate a “Critica sociale”, alla Federazione dei lavorato­ri del mare, e a molte altre associazioni operaie e a periodici (33). Il processo ai militanti del- l’IWW che si svolge a Chicago dall’aprile all’a­gosto 1918, le vere e proprie messe in stato di assedio di intere zone e quartieri nei quali si procede a retate, arresti di centinaia di militanti dal novembre 1919 al 1920, sono conosciute come i “raids di Palmer” e terrorizzeranno inte­re zone. Diverrà cosi facile ricorrere in modo indolore, per l’isolamento creato, a deportazio­ni che colpiranno gli immigrati radicali più attivi di varie nazionalità. I radicali italoameri- cani sono sempre molto attivi nel tenere al corrente della situazione statunitense il proleta­riato italiano: “Bisogna che il proletariato ita­liano sia messo a larga conoscenza del nostro processo, di questo che è uno dei più importan­ti processi intemazionali”, scrivono Angelo Faggi e Arturo Giovannitti, due noti sindacali­sti dagli Stati Uniti ad Armando Borghi (M).

In Italia il movimento, operaio nelle sue va­rie componenti segue con particolare attenzio­ne quegli avvenimenti, come si può verificare

dallo spoglio di giornali socialisti, anarchici, sindacalisti di quel periodo. La censura militare poi ci ha conservato alcuni dei volantini che venivano inviati dagli Stati Uniti appositamen­te per i lavoratori italiani a Camere del lavoro, organizzazioni operaie e ai giornali.

Si distingue senz’altro nella campagna di informazione e di solidarietà per i lavoratori statunitensi, l’Unione sindacale italiana, che non perde occasione per segnalare, in manife­stazioni e sul periodico “Guerra di classe”, la gravità della situazione per il movimento ope­raio di quel paese. Al comizio per il 1 maggio del 1918 organizzato alla Casa del popolo di Milano, il segretario della locale sezione del- l’USI informa i presenti della situazione in cui si trovano i militanti dell’IWW, facendo notare che “fra costoro vi sono nuovamente Arturo Giovannitti e Carlo Tresca”. “Tale rivelazione produce grande impressione”, nota “Guerra di classe” che riporta i fatti (35).

Nonostante la situazione di isolamento il proletariato italiano vive con la guerra le diffi­coltà di avere notizie in periodo bellico, i gior­nali della sinistra sono attivi nel seguire l’evol­versi del processo, e nel denunciare le manovre del capitalismo contro la classe operaia statuni­tense. Anche in seguito nella stampa radicale italiana si continuerà a seguire con particolare attenzione la situazione sociale e politica statu­nitense fino a che le libertà formali lo permette­ranno. Altrettanto avviene a partire dalla fine della guerra, negli Stati Uniti, dove i giornali italoamericani seguono con particolare atten­zione la situazione italiana, nel “biennio rosso” per l’entusiasmo che l’evolversi degli avveni­menti produce poi per denunciare l’azione del fascismo di progressiva distruzione delle con­quiste proletarie e di costruzione di un appara­to statale repressivo.

(31) La lettera circolare in ACS, Min. Int. Div. Gen. P.S., Div. A. Gen. 1918, busta 47.(32) Ivi. n Ivi.(34) “Guerra di classe”, 28 agosto 1918, p.I.(35) Ivi, 16 maggio 1918.

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138 Adriana Dadà

La maggior parte della storiografia sul fa­scismo e sulla comunità italoamericana ha sot­tovalutato il ruolo degli antifascisti negli Stati Uniti, ritardando l’inizio di una loro presenza consistente agli anni seguenti il 1929 e dimenti­cando quindi una parte consistente dell’antifa­scismo. Ciò è avvenuto a causa di una errata impostazione che tiene conto dell’influenza de­gli intellettuali sull’ambiente economico e poli­tico statunitense, dimenticando il ruolo delle masse antifasciste, molto consistente fino al 1926, nel ritardare l’affermazione del fascismo fra gli italiani negli Stati Uniti e nel denunciare all’opinione pubblica il fenomeno fascista negli anni da noi considerati i36).

Gli anni dal 1922 al 1924 sono per il fascismo quelli del massimo sforzo nel tentativo di creare una presenza stabile nella società statunitense ma senza molto successo. Solo nel 1925, conse­guentemente alla generale riorganizzazione del­le strutture dei fasci all’estero che ha come tappe fondamentali il I Congresso dei fasci all’estero, tenutosi a Roma nell’ottobre (37) e la successiva costituzione della Lega fascista del Nord America, il fascismo potrà disporre di un’organizzazione stabile. D progetto tendente a costruire una presenza fascista fra gli emigrati passa in quegli anni attraverso il tentativo co­stante di penetrazione all’intemo di organizza­

zioni patriottiche, mutualistiche e assistenziali, come l’Ordine figli d’Italia, un’organizzazione patriottica-massonica che fino al 1923 risultava essere “indipendente” e che il fascismo riesce a far dichiarare fascista, provocando la scissione delle logge dello stato di New York (38). Mal­grado queste iniziative abbiano successo in al­cuni campi, il fascismo deve tuttavia subire a livello organizzativo e di massa dure sconfitte prima a New York, dove il fascio fondato nel 1921 ebbe vita breve (39), poi ogniqualvolta cerca di organizzare manifestazioni propagan­distiche utilizzando personaggi legati al fascis­mo. Ne sono una prova le manifestazioni che accompagnano il viaggio di Bottai negli Stati Uniti nel 1921 (4o) e quelle contro Locatelli nel 1924 a New York, New Haven, Philadelphia, Utica (41).

A questa strategia di penetrazione dei fascisti infatti le forze operaie e democratiche della comunità italoamericana oppongono strutture già esistenti come la Camera del lavoro di New York, riorganizzano e rafforzano in nome del comune nemico organismi unitari come l’Alle­anza operaia antifascista del Nord America (42). A partire dal 1923 viene inoltre intrapresa la campagna di denuncia all’opinione pubblica del ruolo svolto dall’ambasciatore italiano Cae- tani, presentato come strumento principale del-

(3‘) In tal senso vedi Adriana Dadà, Contributo metodologico per una storia dell’emigrazione e dell’antifascismo italiani negli Stali Uniti, Firenze, “Annali dell’Istituto di Storia”, 1979, I, pp. 197-218.(37) Enzo Santarelli, Storia del fascismo, voi. II, Roma, Editori Riuniti, 1973, pp. 105-6.(3S) B. Aquilano, L’ordine Figli d’Italia, New York, Società tipografica italiana, 1925; D. Saudino, Ilfascismo alla conquista deU’OFI, “La parola del popolo”, dicembre 1958-gennaio 1959, pp. 247-56.(39) D. Saudino, op. cit.(4°) Il fascista Bottai fischiato a Utica. “Il martello”, New York, 1921, n. 32, p. 1; P. Scipione ¡lavoratori di Philadelphia insorgono contro l’on. Bottai, ivi, 1921, n. 33, pp. 1-2.(41) Ego Sum C. [C. Tresca], Signor Locatelli non si infierisce impunemente contro un morto, ivi, 1924, n. 24, p. 1, che descrive la manifestazione di New York in cui gli antifascisti accolgono Locatelli al grido di “Abbasso Mussolini” e al canto di “Bandiera Rossa”; La lotta contro il fascismo si intensifica, ivi, 1924, n. 36, pp. 1-2 che descrive le accoglienze niente affatto favorevoli degli antifascisti a Philadelphia, New York, New Haven, Utica.(42) Un ruolo particolarmente attivo nella lotta contro il fascismo svolsero infatti la Camera del lavoro di New York e le altre organizzazioni sindacali nelle quali gli elementi socialisti italiani avevano un peso, significativamente ITnternational Ladies Garment Workers Union e l’Amalgamated Clothing Workers Association; vedi, fra l’altro, M. De Ciampis, Storia del movimento socialista rivoluzionario italiano, “La parola del popolo", 1958-59, n. 37 pp. 136-63.

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I radicali italo-americani e la società italiana 139

la penetrazione del fascismo negli Stati Uniti (43). Particolarmente attivi in questa battaglia sono il settimanale anarchico “fi martello” e il suo direttore Carlo Tresca che inizia una cam­pagna di stampa contro Caetani e le sue attività negli Stati Uniti.

I camuffamenti, le piccole astuzie, le nume­rose amicizie non solo nell’ambiente dell’emi­grazione usate dall’ambasciatore per evitare la reazione dell’opinione pubblica e delle autorità statunitensi alla penetrazione, vengono sma­scherati. Ne emerge una complessa e documen­tata inchiesta sulle attività del fascismo nel Nord America che nel marzo 1923 viene pre­sentata alla stampa americana attraverso John L. Spiwak, della International New Service. La capillare e ben orchestrata campagna di stam­pa delle forze antifasciste riesce a tal punto che ben 500 giornali americani pubblicano i risulta­ti dell’inchiesta i44).Visto il ruolo centrale svolto in questa azione del periodico “Il martello” e dal suo direttore, l’ambasciata italiana si sforza di imporre attra­verso le autorità americane la sospensione della pubblicazione e compie ripetuti interventi con­tro Carlo Tresca fino al suo arresto (45). Alla luce di questi fatti acquista un rilievo specifico la lettera di Caetani a Mussolini del 28 giugno 1923 nella quale l’ambasciatore, a proposito della strategia dell’organizzazione dei Fasci al­l’estero e della circolare “Fasci all’estero”, af­ferma “... non voglio tacere la mia opinione che se la circolare per malaugurata sorte cadesse nelle mani dei Tresca e dei Giovannitti, verreb­

be pubblicata da tutti i giornali degli Stati Uniti e mi metterebbe in serissimo anzi doloroso imbarazzo” i46).

Anche negli anni seguenti si rileva, dalle rela­zioni redatte dall’ambasciata e dai consolati, che l’Alleanza antifascista — la quale dopo un periodo di crisi, si è organizzata sul finire del 1925 — ha ancora una discreta influenza e il periodico che essa ispira, “Il nuovo mondo” (47), come il già ricordato “Il martello” e i gruppi anarchici ad esso collegati, sono fra i nemici più irriducibili della penetrazione fascista negli Sta­ti Uniti t48). Malgrado ciò tuttavia la propa­ganda antifascista è complessivamente debole e non in grado di influenzare l’opinione pubblica americana, mentre il fascismo, dotato di mezzi e di complici alleanze, si riorganizza attraverso una ristrutturazione di Fasci all’estero, tenendo il 14 novembre del 1925 il I congresso fascista d’America, promosso dalla Lega fascista del Nord America (49). Gli scontri con morti e feriti che spesso si verificano nella comunità italiana fra fascisti ed antifascisti (5o), sono come sem­pre frequenti, continuando una tradizione di lotte anche fisiche fra opposte fazioni che ha sempre caratterizzato la comunità italiana negli Stati Uniti. Intanto l’Italia, grazie al piano di difesa della lira messo in atto dal governo fasci­sta a partire dal settembre del 1925 potrà garan­tire agli Stati Uniti una relativa stabilità interna del paese, presupposto necessario volto a rassi­curare sulla possibilità di onorare gli impegni presi. Fin dal 14 novembre del ’25 l’Italia potrà così stipulare un accordo relativo al pagamento

(43) Vedi, in tal senso, Gian Giacomo Migone, Aspetti intemazionali della stabilizzazione della lira, in Problemi di storia dei rapporti fra Italia e Stati Uniti, Torino, Rosemberg & Selliers, 1971; Idem, La finanza americana e Mussolini, “Rivista di storia contemporanea”, 1973, n. 2, pp. 145-85.(44) E. Valentini, Quel che il fascismo ha prodotto fra noi, “Il martello”, 1923, n. 23, p. 1.(45) J.P. Diggins, L’America Mussolini e il fascismo, Bari, Laterza, 1972, pp. 147-8.(4é) Fondazione Roffredo Caetani, Archivio Gelasio Caetani, Caetani e Mussolini, Wash, DC, 28 giugno 1923.(47) Fondato a New York il 16 novembre 1925, il periodico vivrà fino al 1931 svolgendo un’utilissima campagna di coordinamento delle forze antifasciste e sindacaliste.(48) Vedi in particolare le Relazioni dell’ambasciata d’Italia a Washington e del Consolato generale di New York al ministero degli Esteri, in ACS, Min. Int., Div. Gen. P.S. Div. A. gen. 1926, busta 86.(49) D. Saudino, Il fascismo alla conquista dell'OFI, cit.(50) A. Dadà, Contributo metodologico per una storia dell’emigrazione e dell’antifascismo italiano negli Stati Uniti, cit., passim.

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140 Adriana Dadà

dei debiti di guerra, seguito dopo pochi giorni da un prestito allo stato italiano di ben 60 milioni di dollari da parte della Banca Morgan, oltre a cospicui finanziamenti ai maggiori complessi industriali del paese. La situazione economica rimane però critica tanto che negli anni seguenti il governo italiano dovrà intra­prendere un’azione di “normalizzazione” eco­nomica connessa a quella politica che porta con le leggi eccezionali del novembre 1926, al pieno controllo del paese da parte del governo fascista (5I)

Alla fine del 1925 e per tutto il 1926 gli antifascisti negli Stati Uniti, sia attraverso l’Al­leanza antifascista che i vari organi di stampa, prendono iniziative che preoccupano non po­co, come vedremo, il governo italiano. Un pressante invito viene rivolto agli italiani negli Stati Uniti affinché non investano in lire e con­servino i loro risparmi in dollari, si chiede loro di sospendere l’invio di rimesse in Italia; agli italiani si chiede di ritirare i loro risparmi dalle casse del regno (52). Appelli, comizi, volantini invitano a boicottare l’economia italiana, non acquistando merci italiane (53). Il “Nuovo mondo”, “D martello”, “Giustizia”, l’organo del- l’Intemational Ladies Garment Workers Union, riprendono questi slogans, diffondendo le parole d’ordine del boicottaggio della lira che contrasta con il piano di stabilizzazione mone­taria che il fascismo sta attuando in quegli anni e che minaccia di diffondere un clima di sfidu­cia nei confronti della moneta italiana.

È in tutti gli antifascisti italoamericani piena coscienza delle implicazioni che la collusione di interessi fra finanza americana e fascismo avrà sulla possibilità per le organizzazioni contrarie al governo italiano di continuare ad operare

liberamente nel territorio degli Stati Uniti. Ne é prova l’appello del segretario dell’Alleanza an­tifascista, Piero Allegra “Nessuno può discono­scere che l’accordo avvenuto sui debiti di guerra fra i governi d’America e d’Italia ha accentrato contro di noi antifascisti l’ira dei reazionari capitalisti d’America perché essi non vedono, certamente, di buon occhio una nostra campa­gna contro i loro creditori. E per esser più chiaro: essendo certi gruppi di capitalisti ameri­cani divenuti, in conseguenza di questo accor­do, padroni delle industrie e dei commerci d’I­talia, faranno di tutto per frenare il nostro grido di dolore contro quel governo di briganti e di assassini che ruba e massacra il popolo d’Italia”e4).

Una coscienza della situazione politica e so­ciale italiana e statunitense che merita attenzio­ne e rivaluta, assieme agli altri elementi che derivano dall’analisi dei riflessi in Italia di que­sta propaganda, l’azione dell’antifascismo ita­liano negli Stati Uniti. In Italia infatti il materia­le di propaganda contro la stabilizzazione eco­nomica e politica inviato con ogni mezzo dagli antifascisti italoamericani non è rimasto senza effetti alla luce del dispaccio telegrafico del mi­nistero dell’Interno ai prefetti del 27 maggio 1926: “Risultano diffusi manifestini editi Ame­rica intitolati “L’ultima rapina del Governo Fa­sciata Italiano: mettere in salvo i vostri risparmi (55)” stop. In detti manifestini a firma di sette fuorusciti vengono rivolte violente e oltraggiose espressioni contro poteri nostro stato et viene vergognosamente insinuato che governo in­tenda appropriarsi parte depositi a risparmio per pagamento debiti guerra, stop. Prego Vos­signoria dare necessarie disposizioni per rassi­curare pubblico” (*). Adriana D adà

(51) G.G. Migone, Aspetti internazionali della stabilizzazione della lira, cit., ;E. Santarelli, Storia del fascismo, cit.(5t) Vedi il volantino in tal senso, riportato da A. Dadà, op. cit., pp. 216-218.(52) Fra gli innumerevoli articoli che appaiono in questi giornali segnaliamo quello significativo di C. Tresca, Appello all'azione: lavoratori boicottate ilgovenofascista. “Il martello”, 1926, n. 18, p. I, coi seguenti sottotitoli: Non spedite ¡vostri risparmi in Italia; Ritirate i vostri risparmi dalle casse postali del regno: Non comprate le lire.(5*) P. Allegra, AANA [Alleanza Antifascista del Nord America], “Il martello”, 1925, p. 46, p. 3.(55) Il volantino è quello citato nella nota 52.(5‘) ACS, Min. Int., Div. Gen. P.S., Div. A. g e v., busta 86.

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Esperimenti di razionalizzazione e programmazione industriale negli Usa. 1919-1929

di Nino Galloni

1. Premesse. La più recente storiografia ameri­cana ha teso a rivedere alcuni luoghi comuni sugli anni venti e soprattutto sulla figura e l’opera di Herbert Hoover (')•

In effetti, il vecchio giudizio storiografico, sorretto anche dalla constatazione della brusca spaccatura creatasi con la crisi del 1929 e col periodo di trasformazione che furono gli anni trenta, aveva delle solide basi negli studi sia degli economisti contemporanei sia della mag­gior parte degli storici del movimento operaio (2). L’apparente chiarezza, nelle cause della crisi del ’29, nonché la disponibilità di statistiche affidabili e la convinzione che gli anni venti erano stati un periodo “morto” per il movimen­to operaio, aggravarono l’equivoco.

(') Per una rassegna critica della bibliografia degli Anni Sessanta sugli “Anni Ruggenti” e l’opera di Herbert Hoover, cfr. Burl Noggle, The Twenties: A New Historiographical Frontier, “Journal of American History”, settembre 1966, pp. 299-3 1 4. Per un aggiornamento cfr. Gary Dean Best, The Politics o f American Individualism: Herbert Hoover in Transition, Westport (Conn.), Greenwood Press, 1975; J.J. Huthmacher & W.I. Susman (a cura di), Herbert Hoover and the Crisis o f American Capitalism, Cambridge (Mass.), Schekman Pubi, Co., 1973; J.Hoff Wilson, Herbert Hoover: Forgotten Progressive, Boston, Little Brown & Co., 1975; poi anche M.L. Fansald & G.T. Mazuzan, The Hoover Presidency: A Deappraisal, State University of New York Press, Albany, 1974; ed, infine, E.E. Robinson & Vaughn D. Bornet, Herbert Hoover: President o f the U.S., Hoover Institution Press, Stanford (California), 1975; particolarmente interessanti sul nuovo ordine manageriale di Hughes, Wallace e Hoover sono poi i contributi di Ellis W. Hawley, The Great War and the Search fo r a Modern Order, A History o f American People ang Their Institutions, 1917-1933, St. Martin’s Press, 1979 e William E. Akin, Technocracy and the American Dream: The Tecnocrat Movement, 1900-1941, Berkeley: University of California Press, 1977. Esistono poi anche numerose e interessanti monografìe locali sull’argomento: per tutti vedila brillante analisi di Howard L. Preston, Automobile Age Atlanta: The Making o f a Southern Metropolis, 1900-1935, University of Georgia Press, 1979. Le carte di Herbert Hoover sono state pubblicate dal Goverment Printing Office, Public Papers o f the Presidents: Herbert Hoover, National Archives and Records Service, Washington, 1974.(2) Citiamo, qui per brevità, solo il vecchio lavoro di Simon S. Kuznets, Secular Movements in Production and Prices, Boston, New York, Houghton & Mifflin Co., 1930, specialmente p. 327; e R.O. Boyer & H.H. Morais, Labor’s Untold Story, Limited Electrical Radio and Machine Workers of America, 1955.(3) Si veda ad es. P. Carpignano, Immigrazione e degradazione: mercato del lavoro e ideologie della classe operaia americana durante la Progressive Era, in A.A.V.V. La formazione dell'operaio massa negli USA 1898-1922, Milano, Feltrinelli, 1976, spec. pp. 232 e sgg.

D’altra parte, storici e critici più recenti dei movimenti di protesta o hanno teso a fermare le loro ricerche al periodo della Grande Guerra (salvo poi riprenderle con i grossi scioperi e le svolte degli anni trenta) oppure, anche per di­fendere una visione correttamente “progressi­va” del movimento operaio, hanno accolto la tesi — che faceva parte della vecchia storiogra­fia — del ristagno o del semplice peggioramen­to nelle condizioni dei lavoratori 0 .

Così si spiega perché il compito di sollevare la scorza che copriva alcuni interessanti aspetti degli anni venti sia stato, sostanzialmente, svol­to dagli storici del management più che da quelli dell’economia o dei movimenti di protesta.

In effetti, l’utilizzazione di fonti sufficiente-

“Italia contemporanea", giugno 1982, n. 146-147.

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142 Nino Galloni

mente credibili ed omogenee (4), permette di giungere a conclusioni affini a quelle degli sto­rici più recenti: alcuni aspetti degli anni venti possono essere approfonditi alla luce della con­statazione che il prototipo della società attuale andrebbe ricercato non solo nel periodo di trasformazione degli anni trenta, ma anche nel decennio precedente.

D’altra parte che, con lo sviluppo capitalisti- co, si sarebbe aggravato il contrasto tra forze produttive e posizioni di rendita e che questo avrebbe spinto i centri di potere sempre più lontani dalla proprietà privata fino a preparare, qualora si accettasse un’ottica “progressiva”, la formazione di un governo di ingegneri e di tecnici era già stato — subito dopo la guerra — evidenziato da Thorstein Veblen (5).

In questa sede, invece, vorremmo tentare di approfondire le connessioni tra il gruppo dei tecnici-ingegneri guidato da Hoover e alcuni aspetti dell’economia capitalistica: il rapporto fra la caduta del saggio di profitto e le tecniche di management della forza lavoro, con alcune considerazioni sulle differenze fra “taylorismo” e “fordismo” (6).

In un’altra sede ci proponiamo di approfon­dire un momento che, dalle fonti utilizzate C7), appare centrale per la comprensione delle ca­ratteristiche del movimento operaio nord- americano: la svolta dell’AFL nel 1925 che rappresentò, prima ancora dei fermenti creatisi negli anni trenta, il punto di arrivo del sindaca­lismo di mestiere.

2. Caduta del saggio di profitto e classe diri­

gente. La guerra aveva indicato o ribadito alcuni insegnamenti: 1) per garantire maggiori profitti era necessario che l’aumento della produzione si accompagnasse a progressivi aumenti nella standardizzazione; 2) ad un certo punto nella crescita delle dimensioni delle imprese il siste­ma tayloristico, che privilegiava l’“operaio- massa” rispetto a quello qualitativo professio­nalmente, mostrava dei limiti; 3) infine e, più importante, uomini ben addestrati, anche se con macchinari meno avanzati, potevano pro­durre ad un ritmo più intenso ed a costi minori di uomini male organizzati, ma con macchinari più efficienti.

In altre parole, il momento organizzativo dell’impresa, il management, rivelava in alme­no due occasioni la centralità del suo ruolo nei confronti degli investimenti in macchinario quando era necessario ottenere la diminuzione dei costi e la crescita della produzione: tecniche organizzative più razionali permettevano un migliore utilizzo dei vecchi investimenti e quin­di un abbassamento nella proporzione di questi rispetto ai profitti ed ai salari; per le stesse ragioni un investimento in nuovo macchinario risultava incoraggiato se era possibile ottenere che la produttività crescesse in modo più che proporzionale all’investimento stesso. In segui­to a queste indicazioni, dunque, l’organizzazio­ne dell’impresa aveva cominciato ad evidenzia­re la sua autonomia ed a porsi come scienza applicata: osservando le stesse variabili da un punto di vista teorico, invece, il problema cen­trale dello sviluppo produttivo pareva concre-

(4) Bureau of Labor Statistics (US department of Labor), “Monthley Labor Review” (d’ora in poi DOA) anni: 1921-25 e 1927-28; American Trade Association Executives, Annual Conventions, proceedings (d’ora in poi ATAE) anni 1921-1929; “Industrial Management — The Engineering Magazine” (d’ora in poi IM) di Chicago e “Factory and Industrial Manage­ment” (d’ora in poi FIM) di New York s.s.a.a.; National Industrial Conference Board (d’ora in poi NICB) documenti e rapporti vari.(5) T. Veblen pubblicò su “The Dial” nel 1919 e su “Freeman” un paio di anni dopo, diversi articoli sull’argomento che furono subito raccolti nel volumetto The Engineers and The Price System, New York, B.W. Huebsch, 1921: i nostri riferimenti riguardano soprattutto le pp. 83 e 138 sgg.(6) Cfr. C.S. Maier, Between Taylorism and Technocracy: European Ideologies and the Vision o f Industrial Productivity in the 1920’s, “Journal of Contemporary History”, voi. 5, n. 2 del 1970, pp. 27-61 e Benjamin Coriat, La Fabbrica e il Cronometro, Milano, Feltrinelli, 1979, pp. 46-49, 59.(7) Sono stati soprattutto utilizzati i proceedings delle Annual Conventions dei sindacati dell’abbigliamento, dell’edilizia e delle miniere.

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Razionalizzazione e programmazione industriale negli USA 143

tizzarsi nel rapporto che esisteva fra l’aumento della massa dei profitti e la diminuzione del saggio di profitto. Con la crescita nella dimen­sione delle imprese, infatti, e con la crescita nel rapporto capitale-addetto, la massa dei profitti tendeva ad aumentare, mentre tendeva a dimi­nuire il saggio del profitto (*).

Ora, i continui investimenti in capitale fisso, finalizzati allo sviluppo produttivo ed alla di­minuzione del costo della forza lavoro nelle due direzioni dell’aumento del prodotto per addet­to e della utilizzazione di manodopera meno specializzata, potevano portare alla crescita del­la massa dei profitti fino al punto in cui il saggio dei profitti tendeva ad annullarsi (9).

L’unico modo per garantire una crescita del­la produzione senza una caduta rovinosa del saggio di profitto, pareva consistere in una più razionale organizzazione della forza lavoro: il sistema tayloristico fino alla prima guerra mondiale e l’introduzione di alcuni tipi di cot­timo subito dopo, risultavano oramai superati se si voleva puntare ad una crescita ulteriore del sistema produttivo. Il problema, come era nella migliore tradizione americana, non venne af­frontato da un punto di vista teorico (10), ma da un punto di vista empirico. L’emergente grup­po di tecnici-ingegneri che pilotò lo sviluppo industriale della società nordamericana nel cor­so degli anni venti, si fece portatore di un pro­

getto che implicava, da una parte, la formazio­ne di una coscienza manageriale socializzata al punto da escludere la prevalenza dell’imprendi­torialità individuale a guida del progetto stesso, e, dall’altra, un sistema di standardizzazione e semplificazione produttiva che doveva tra­scendere l’ambito locale e collegarsi con l’espe­rimento di società consumistica e massificata a livello nazionale.

3. Taylorismo e fordismo. In altre parole, il superamento del sistema tayloristico — che aveva già mostrato la corda durante la guerra e subito dopo, quando si incontravano difficoltà di fronte ad improvvisi aumenti della domanda — avvenne sul terreno della riorganizzazione della pianta mansioni per linee, dell’introdu­zione di nuove mansioni per il “tecnico della produzione”, soprattutto della formazione di un nuovo “tipo” di operaio.

In effetti, la presenza ed il lavoro del tecfuco della produzione e degli altri ingegneri addetti a migliorare il funzionamento complessivo di macchinati diversi, necessitava di un lavoratore più specializzato del comune operaio di catena e capace di modificare rapidamente, insieme con gli altri compagni di linea, velocità di ese­cuzione e modalità delle operazioni lavorative: proprio perché si dimostrava necessario elimi­nare o ridurre notevolmente il numero dei sor­veglianti sugli operai singoli, adesso che il con-

(8) Ciò accade perchè il saggio del profitto è dato dalla divisione fra il plusvalore e le spese variabili più gli investimenti in capitale fisso; e mentre, con lo sviluppo industriale, i profitti aumentano, il saggio di essi diminuisce con la crescita del denominatore. Il primo a porre in questi termini il problema fu Karl Marx sia nella seconda parte dei Grundrisse sia, soprattutto, nel terzo libro de II Capitale, Avanzini e Torraca, Roma, 1966, voi. V, pp. 98-174). le critiche che sono state avanzate alla costruzione marxiana ed alle possibilità di calcolare materialmente profitti e saggio del profitto, non intaccano questo punto: vedi, da ultimo, I. Steedman, Marx dopo Sraffa, Roma Ed. Riuniti, 1980, passim.(9) Infatti

P = PVc + w

dove p è il saggio di profitto, pv la massa dei profitti (o valore della produzione depurato dei costi), c il capitale fisso e w gli esborsi interni (o salari); la crescita di pv dipende dalla crescita dei volumi produttivi e la crescita di c dall’intensificarsi del capitale: in prospettiva, quindi, al crescere dei profitti corrisponde la diminuzione dip perché cresce il valore del rapportoc/w.(10) Teoricamente, che particolari tecniche di management potessero frenare la caduta del saggio di profitto, era già stato individuato da Marx, loc. cit., p. 127 e sgg. Ma non era stato conseguentemente approfondito probabilmente perché ciò avrebbe potuto significare il presupporre, fra capitale e lavoro, un terzo elemento, con una sua dinamica, una sua storia: l’elemento organizzativo, l’imprenditorialità.

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trollo doveva avvenire sulle operazioni com­plessive degli uomini e delle macchine (n).

In questo senso non doveva meravigliare che un rappresentante del mondo imprenditoriale si lamentasse del fatto che “troppi operai ora conoscono solamente una piccola parte dei processi di ogni linea di produzione” (12), e che sostenesse che “è responsabilità così dei lavora­tori come degli imprenditori che, quando viene formato un sindacato, sia richiesto un notevole grado di conoscenza e specializzazione nel set­tore, fra i requisiti di iscrizione” (13). Era senz’al­tro vero, in poche parole, che “D maggior dan­no, la più grande differenza fra il sistema mani­fatturiero (artigianale) e quello industriale, con­siste nel grande numero di operai che non pos­sono usare la loro intelligenza” (14).

Ed un dirigente della Cooley & Marvin Co.,C.M. Bigelow, affrontando i risvolti tecnici del problema, notava che non occorreva solo tener conto della quantità dei prezzi prodotti, perché la velocità non doveva esser l’unico elemento di valutazione, ma occorreva prestare maggiore attenzione alla qualità del lavoro svolto; ciò era particolarmente vero per quelle operazioni in cui la velocità di produzione non era costante: “le operazioni produttive devono andare avanti non ad un ritmo costante, ma a velocità diverse se si vuole uniformizzare la qualità del prodot­to” (15). E. Bigelow era in grado di portare numerosi esempi riguardanti l’industria chimi­ca, quella tessile e quella del legno (,6): in effetti, per abbassare i costi di tutta una serie di lavora­zioni, dove la variabile indipendente non era la velocità predeterminata del macchinario, ma i tempi e modi delle operazioni necessarie al completamento del ciclo del prodotto, non si vedeva altra soluzione che l’incentivazione del lavoro dell’operaio.

In altre parole, il problema che gli ingegneri della New Era si trovarono di fronte, consiste­va, per la maggior parte dei settori produttivi, nella ricerca di un nuovo tipo di organizzazione del lavoro, in cui l’operaio fosse maggiormente e diversamente coinvolto al fine di aumentare la sua produttività: al fine di frenare, sul terreno della mobilità e delle migliorate capacità della forza lavoro, i rischi di abbassamento eccessivo del saggio di profitto in conseguenza dei mas­sicci investimenti in capitale fisso.

Su questo punto il materiale a nostra dispo­sizione mostra due tendenze sostanzialmente differenti: da una parte il sistema di H. Ford, basato sulla specializzazione in operazioni semplici e singole del macchinario e degli ad­detti; dall’altra un sistema, che chiamiamo “di squadra”, più complesso, basato sulla mobilità operaia, cioè sulla capacità di eseguire più ope­razioni produttive su una stessa linea. Il primo tipo prevaleva nell’industria metalmeccanica, il secondo nella chimica, nel legno, in parte del tessile, nell’alimentare. Da questo punto di vi­sta il fordismo manifestava una semplice conti­nuazione del sistema tayloristico che, aumen­tando l’intensità di capitale e la dimensione delle imprese, portava all’aumento dei profitti e alla caduta del saggio di profitto; salvo poi contrastare questa caduta col taglio dei tempi di lavorazione e la progressiva eliminazione dei tempi morti. In realtà, anche il fordismo diffe­riva profondamente dal taylorismo per almeno due aspetti che analizzeremo tra poco. Invece, il sistema di squadra, che richiedeva più cono­scenze produttive da parte degli operai e dei tecnici, permetteva di utilizzare più razional­mente gli uomini ed i macchinari giocando più sulla qualità dell’attività delle squadre che sul semplice taglio dei tempi. Infatti, se il processo

(") Vedi le testimonianze al proposito di due “addetti ai lavori” E.H. Fish in IM, 1919, n. 2, p. 81 e sgge J.M. Vorhees, ivi, 1921, n. 6, p. 436.(12) E.H. Fish, ari. cit., p. 82.('3) Ivi, p. 82.(>") Ivi.(15) C.’M. Bigelow, Establishing Basic Saves Time Study Work, IM, 1919, n. 2, p. 17.(16) Ivi, p. 17 e 18. Vedi anche, sempre di Bigelow, Installing Management Methods in The Woodworking Industry, IM, luglio 1919, p. 1 e sgg.

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di smantellamento dei vecchi mestieri operai continuava a ritmo serrato, venivano anche eliminate diverse categorie prettamente manua­li e unskilled: tutti i processi di assemblaggio e pre-assemblaggio e ogni altra operazione di raccolta e di trasporto dei materiali veniva compiuta non più manualmente ma attraverso nuovi tipi di carrelli, spesso aerei, piccoli trucks e scale mobili; tanto che, solo fra il ’27 ed il ’28, i tempi di produzione furono mediamente ta­gliati del 50% (17). Lo stesso H. Ford aveva investito in questo tipo di macchinario, in me­no di un anno, 15 milioni di dollari (,8).

4. Fordismo e società dei consumi. In realtà, dunque, il fordismo rappresentò una eccezione, seppure importantissima perché riguardava l’industria metalmeccanica, del sistema che la New Era stava sperimentando (19). Il sistema di Ford, per la specializzazione dell’operaio su una sola operazione, infatti, contrastava so­stanzialmente con le esigenze di mobilità inter­na della forza lavoro evidenziate dalle trasfor­mazioni tecnologiche degli anni venti e differiva notevolmente dal sistema di Taylor perché por­tava il problema della razionalizzazione nell’u­so della forza lavoro anche fuori dalla fabbrica.

Il fordismo permise, in primo luogo, anche per il più deciso annullamento dei tempi morti, la quasi completa eliminazione della necessità di scorte e quindi delle spese di magazzino (2o): in altre parole, il “ciclo completo” finì per iden­tificarsi col “ciclo integrato” ed ogni unità pro­duttiva risultò — come mai era accaduto in precedenza — aperta, direttamente dipendente e immediatamente coordinata alle fornitrici di

materie prime, semilavorati, ecc. In secondo luogo, questa visione integrata del processo produttivo aveva il suo riscontro nell’ideologia che era alla base di quella classe dirigente. Ecco come lo stesso H. Ford, in un’intervista conces­sa al giornalista S. Crowters e pubblicata da “World Work” nell’ottobre del 1926 spiegò la sua posizione: “Gli affari sono scambio di beni. I beni sono acquistati in quanto incontrano bisogni. I bisogni sono soddisfatti in quanto sono avvertiti. Ed essi si fanno sentire soprat­tutto nelle ore di ozio. Un uomo che lavorava 15 o 16 ore al giorno, desiderava solamente un angolo per dormire e un po’ di cibo. Non aveva tempo per avvertire nuovi bisogni. Nessuna industria poteva essere costituita per i suoi bi­sogni, perché non poteva che desiderare cose estremamente semplici f21).

Da quest’ultimo punto di vista le posizioni di Ford si saldavano con quelle del gruppo di ingegneri guidato da Hoover. Già nel febbraio del 1921, alla Convenzione di Syracuse del- 1’“American Engineering Council’s Executive Board”, Herbert Hoover aveva chiarito che “Non vi è limite al consumo salvo che nella capacità complessiva di produrre; stabilito il livello dell’offerta è possibile sostituire nuovi oggetti a quelli la cui domanda è giunta a saturazione^22). Nella sua ottica ogni aumento della produzione doveva significare un miglio­ramento diretto dello standard di vita delle masse ed Hoover fu profeta del consumismo anche nella sua accezione più materiale se “me­diante un’azione costruttiva un esercito di uomini potrebbe esser liberato da questo mo-

(n) MLR, 1928, n. 5, p. 43; anche F. Prentiss, More Tools Made with fewer Men, in “Iron Age”, New York, 29 marzo 1928, pp. 857-862. IM, 1928, n. 2, p. 52.(I8) IM, 1927, n. 4, p. 193.C9) Cfr. ad es. MLR. 1925, n. 6, p. 6 e DOA, 1921, n. 10, p. 2.(2o) Per quanto riguarda Ford cfr. Coriat, La fabbrica e il cronometro, cit., p. 49; per quanto riguarda altre esperienze in questo senso cfr. MLR, 1927, XXV, 2, p. 34.F ) MLR, 1926, n. 6, p. 14.F ) MLR, 1921, n. 4, p. 143.

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dello produttivo che si occupa solo dei bisogni più impellenti per trasformare gli attuali con­sumi di lusso in una necessità del domani (23).

5. Standardizzazione e semplificazione indu­striale. E sempre alla Convenzione di Syracuse, Hoover aveva abbozzato la strategia della nuova classe dirigente per quanto riguardava razionalizzare e standardizzare la produzione:

“Le perdite del nostro sistema produttivo sono misurate dalla disoccupazione, il tempo perduto nei conflitti di lavoro per l’alto turn­over, l’incapacità di assicurare il massimo livel­lo produttivo dovuta sia alle difficoltà di adat­tamento che alla mancanza di interesse negli uomini. Oltre a ciò vi è una notevole area di perdita per il cattivo coordinamento nella grande industria, i fallimenti delle aziende di trasporto, carbonifere e di produzione dell’e­nergia che debbono continuamente interrom­pere la loro attività. Vi sono ancora altre cause di perdita, dovute alla mancanza di standardiz­zazione, alla speculazione, alla cattiva organiz­zazione del lavoro, all’inefficienza del macchi­nario, e ad un centinaio di altre cause. Vi è un forte grado di abbassamento della produzione rispetto ai notevoli risultati del 1918, quando, col 20 per cento dei nostri operai impegnati nell’esercito, producevamo il 20 per cento in più di quanto produciamo adesso. Noi non stiamo producendo, probabilmente, più del 60 o 70 per cento della nostra capacità; perciò, se potessi­mo sincronizzare tutti i nostri sforzi a livello nazionale, potremmo già produrre beni e servi­zi in più per il 30 o il 40 per cento. (24)”.

Traspare, dalle parole di Hoover, l’esigenza di riprendere, dall’esperienza della guerra, que­gli aspetti di coordinamento a livello nazionale, si potrebbe quasi dire di “programmazione li­berale” ovvero “meramente indicativa”, che

avevano rappresentato un momento notevole nel superamento dell’ideologia dell’individua­lismo americano.

Così, quando, nello stesso 1921, Herbert Hoover sostituirà Me Collough al ministero del Commercio, queste forme di programma­zione indicativa troveranno il loro concreta- mento nelle politiche finalizzate a mandare avanti e potenziare il programma di standar­dizzazione del prodotto e dei macchinari, di semplificazione dei processi industriali, di ra­zionalizzazione nella domanda e nell’utilizza­zione della forza lavoro (25). Già per la metà del 1927 il gruppo di lavoro di Hoover “aveva indicato metodi pratici per semplificare dicias­sette processi produttivi e su questi aveva otte­nuto, mediamente, l’adesione del 75 per cento degli operatori economici. In altre parole, in base ai risultati resi noti dagli stessi imprendito­ri, il 75 per cento della produzione delle indu­strie rappresentate in queste diciassette linee produttive fu realizzato in conformità coi si­stemi di semplificazione proposti” (26).

D’altra parte il programma di standardizza­zione e semplificazione della produzione che era stato lanciato dal governo in collaborazione con vari organismi del management tecnico, non aveva trovato un’accoglienza immediata­mente favorevole negli ambienti imprenditoria­li di vecchio stampo (27). Proprietari e managers non di estrazione tecnica mostravano una certa preoccupazione di fronte all’affermarsi di pro­cessi che avrebbero diminuito la varietà di pro­dotti di una stessa specie e quindi le possibilità di scelta dei consumatori, in una parola, che sembravano sminuire l’importanza del merca­to, per privilegiare esageratamente la centralità dei processi produttivi in senso stretto f28). In particolare, poi, mentre le semplificazioni dei

(” ) Ivi, p. 144.(24) Ivi, p. 143, lo stesso tipo di analisi viene ripetuta da Hoover in un’altra occasione cfr. DOA, 1921, n. 11, p. 10.(J5) Per una sintesi del lavoro svolto dal gruppo di Hoover negli Anni Venti al ministero del Commercio vedi gli atti del IX Congresso (1928) dell’ATAE: specialmente p. 139.(2‘) Ivi, p. 140.(27) Cfr. ad es., ATAE, IV, proceedings, p. 65 e 67.(28) Cfr. Engineers’ Report on Industriai Waste, in MLR, 1921, n. 3, pp. 7-17.

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modi produttivi finirono per non trovare serie resistenze, la standardizzazione pareva pregiu­dicare alcuni fondamenti del mito americano dell’individualità e implicare “la possibilità di escludere l’iniziativa individuale se il prodotto diviene troppo standardizzato” i29).

Ingegneri e managers di estrazione tecnica, invece, avevano aderito entusiasticamente alla campagna promossa dall’American Enginee­ring Societies e da Hoover, anche perché, stan­dardizzazione e semplificazione significavano innanzitutto lo spostamento del reale potere decisionale a favore di coloro che controllava­no i processi produttivi rispetto al ramo com­merciale della dirigenza aziendale: in altre paro­le, al pubblico, approfittando anche delle carat­teristiche del pubblico americano, si sarebbero imposti certi prodotti già standardizzati e, quindi, massificati. La promozione del prodot­to si sarebbe ridotta ad una farsa. Le politiche di marketing o la stessa pubblicità, nonostante la loro apparente centralità, non erano altro che la conseguenza seppure necessaria, della produzione di massa; e quest’ultima dipendeva strettamente dai modi di produzione imposti dal nuovo gruppo dirigente dell’industria a li­vello nazionale, i tecnici e gli ingegneri. Da questo punto di vista, anche nell’ambito della singola fabbrica, i programmi di standardizza­zione e semplificazione coincisero con una fase profondamente diversa: al manager classico che si faceva carico dell’organizzazione della classe operaia attraverso i suoi uomini di fidu­cia, si sostituiva il tecnico che si inserisce diret­tamente nei processi produttivi scalzando, con i suoi nuovi metodi i resti della classe operaia di mestiere (3o).

Con questo, però, non si verificò, almeno in campo ideologico, un vero e proprio rovescia­mento di posizioni, quanto piuttosto un pro­gressivo slittamento su un programma di socie­

P ) ATAE, ull. cit., p. 71.(3°) Qui basti Engineers’ Report, ecc., cit., p. 10.(31) Intervento in ATAE, ull. cit., p. 215.(32) /vi, p. 216 ep. 218.

tà basato marcatamente su forme consumisti­che e massificate. Benjamin A. Javits, l’autore del famoso M ake Everyone Rich, sintetizzava bene le posizioni dei nuovi padroni, che dove­vano mediare i resti di un individualismo con­servatore con l’emergere di una società a sua volta standardizzata nelle esigenze e semplifica­ta nelle aspirazioni di fondo: “ogni persona in ogni affare potrà avere successo, in base alla natura delle cose, come riuscirà ad assicurare profitti alle sue attività, e quest’ordine industria­le si svilupperà nella misura in cui ognuno otterrà più alti salari, meno ore di lavoro, e tutto ciò che l’applicazione dell’intelligenza umana ai problemi dell’uomo permette duran­te il tempo libero” (31).

Tutto sommato, nell’idea che “consuming power is thè builder of business”, si ritrovavano gli stessi concetti espressi da Herbert Hoover in svariate occasioni “e deve quindi necessaria­mente esse vero”, concludeva Javits, “se questa civiltà andrà avanti, che ogni persona diverrà ricca come ogni altra, fino a che il reddito e i beni da consumare diventeranno sufficiente- mente simili. In altre parole, il miglior servizio telefonico che io posso avere, sarà il miglior servizio telefonico che Ford potrà avere; la migliore automobile sarà la più economica poiché chi possiede la migliore automobile be­neficierà del miglioramento delle stesse strade, e così delle stazioni di servizio, delle gomme o di ogni altra parte e accessorio, ed aumenteranno sicurezza e confort sulle autostrade. Lo stesso discorso, può farsi, in pratica, per ogni altra cosa della nostra vita” (32).

6. L ’associazionismo industriale. Stretta- mente collegato e coordinato con i nuovi im­pulsi che venivano dai tecnici-ingegneri di Hoover, dal governo e da alcuni ambienti im­prenditoriali fu il movimento di razionalizza­zione ed organizzazione commerciale e indù-

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striale che faceva capo alle associazioni profes­sionali e di categoria. L’associazionismo non rappresentava un fenomeno nuovo per gli Stati Uniti (33). Ciò che, però, lo venne a caratterizza­re durante gli anni venti fu l’ulteriore matura­zione della coscienza collettiva della classe diri­gente ed una certa continuità del movimento impostato durante il decennio precedente i preparativi di guerra p 4). In particolare, l’idea di una sorta di programmazione imprendito­riale, basata sul coordinamento fra i vari settori del mondo produttivo, le realtà locali ed il governo federale e che si concretizzava in una politica di informazioni industriali estrema- mente articolata, permise un notevole sviluppo del movimento associativo nazionale durante il decennio successivo alla guerra (35). ^

La sola American Society of Trade Associa­tion, che si era rifondata nell’ottobre del 1920 a Lenox col nome di American Trade Associa­tion Executives (ATAE), vide crescere la mem­bership delle sue associazioni di settore dalle iniziali 117 alle 454 nel 1929 (36). Muovendosi nelle due direzioni dei gruppi imprenditoriali e del pubblico, l’ATAE trasformava informa­zioni, pubblicità e statistiche in fattori che con­

dizionavano direttamente le scelte del pubblico e le scelte imprenditoriali: nel momento in cui i livelli produttivi che la classe dirigente voleva conseguire richiedevano un quadro ed una di­mensione realmente nazionali, l’informazione non veniva più a rappresentare un mero dato storico, ma un avvertimento, un condiziona­mento per il futuro, una indicazione opera­tiva (37).

Non a caso anche le autorità pubbliche ave­vano espresso serie preoccupazioni per il fatto che la pubblicazione sistematica delle statisti­che economiche, dei dati sulla produzione, la domanda e i prezzi, potendo condizionare le scelte degli operatori economici, venisse utiliz­zata a scopi decettivi oppure monopolistici (38). In particolar modo, la openpricepolicy finì per destare sospetti, poiché, di fatto, imponeva agli imprenditori di tutto un settore di adeguarsi agh standards ed ai modelli produttivi più avanzati se volevano mantenere la concorrenza con gli imprenditori che offrivano una merce secondo un prezzo e delle caratteristiche rese di dominio pubblico (39). In realtà, infatti, l’asso­ciazionismo industriale non voleva affatto per­fezionare un modello di libera concorrenza fra i

(33) Il movimento associazionistico non va confuso con le organizzazioni finalizzate alla difesa degli interessi di categoria come la NAM o l’AFL, né con organismi aventi come fine la realizzazione di progetti immediati, guadagni, limitazioni della concorrenza, ecc. come holdings, trusts e cartelli. Scopo fondamentale di un’associazione in base al materiale documentati- vo disponibile, appariva quello di offrire un servizio, in forma cooperativa e al di là degli interessi immediati e particolari di chi ne faceva parte. Per queste differenziazioni cfr. ATAE, proceedings della I convention, p. 20 e sgg.; Ivi, p. 108 e 109; ATAE, II, pp. 34-48. Per un discorso generale sull’associazionismo americano e le sue varie fasi; cfr. ad es. Principels of Association Management, ASAE & Chamber of Commerce of U.S., Washington, 1975, pp. 5-10.Ma la differenza fra una associazione ed un trust spesso non era del tutto pacifica ed, in alcuni casi, il potere giudiziario si mosse in modo sfavorevole alle associazioni nazionali, ravvisando un attentato alla produzione in occasione di politiche che praticavano, ad esempio, condizionamenti indiretti sull’offerta informando della saturazione della domanda: per questo ed altri problemi che riteniamo a margine della nostra ricerca vedi comunque G.D. Webster & A.L. Herald, Anti-trust Guide for Association Executives, Washington, 1979, pp. 58-111.(34) Vedi ad es. sul ruolo delle associazioni nazionali, in rapporto a quelli che erano stati i principi della “Progressive Era”, le posizioni espresse in ATAE, V, p. 66 e sgg, ivi, X, p. 21 e sgg.(35) A titolo esemplificativo, ATAE, II, p. 231; nel solo ramo tipografico, in meno di un anno, dal 1919 al 1920, più di 125 città avevano aderito al programma di cooperazione nella standardizzazione lanciato dall’associazione di settore: ATAE, I, p. I l i ; per la cooperazione nel ramo della commercializzazione dei prodotti agricoli, v. ATAE, II, pp. 188-89; per lo sviluppo del movimento associativo a livello locale, Principles o f Association etc, cit., p. 9.(«) ATAE, X, pp, 286-89.(37) ATAE, II, pp. 240-42.(38) Ivi, p. 239.(39) Nelle parole di uno dei sostenitori del nuovo sistema, Clark McKerker, l’open price significava “this is known to both competitors and customers, that is marked wherever practicable in plain figures on every article produced, that is accurately printed in every price list issued a price about which there is no secrety, no evasions, no preferences”, ATAE, II, p. 230.

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cui presupposti ci sarebbero state la libera ini­ziativa, la responsabilità individuale e quindi le differenze nella tipologia e nei prezzi delle mer­ci. Nel progetto dei più illuminati dirigenti del movimento associazionistico rientrava la sosti­tuzione, settore per settore, di un sistema basa­to sulla imposizione generale e immediata del­l’adeguamento agli standards raggiunti dai più avanzati operatori, al posto delle forme di con­correnza e di oligopolio (4o).

Tutto questo doveva significare — e fu forse il più importante contributo del movimento associazionistico — che il progresso tecnico non avrebbe più dovuto conseguire alla con­correnza fra imprese, ma doveva essere impo­sto direttamente dalla classe dirigente. Ma il movimento associazionistico industriale potè difendere gli interessi generali del sistema com­plessivo e della sua classe dirigente anche in altre direzioni. Le stesse analisi di mercato e poi la promozione di prodotti nuovi nonché l’im­pulso dato dalla standardizzazione dei sistemi di vendita contribuirono ad assicurare conti­nuità ad un processo produttivo che, se aveva il suo centro di comando in fabbrica, necessitava della continua apertura di sbocchi all’esterno (41). Inoltre, ed in collaborazione con l’Ameri- can Engineering Standard Committee che li aveva proposti, vennero introdotti dei codici di sicurezza sul lavoro che, oltre a realizzare note­voli risparmi sugli incidenti non svolsero una funzione secondaria nei processi di standardiz­zazione della produzione: come dimostrarono le esperienze nel campo delle impalcature, delle trasmissioni di energia, dei macchinari abrasivi,

nelle fonderie e via dicendo (42). Ed infine, altre forme di razionalizzazione delle pratiche im­prenditoriali come la standardizzazione dei contratti, la codificazione delle regole di com­mercio, i controlli sui prodotti, contribuirono a garantire alla società americana, presa nel suo complesso, una sorta di continuità — seppur sminuita nei suoi contenuti più profondi — dell’esperienza di riorganizzazione produttiva precedente alla prima guerra mondiale; la con­tinuità, notevolmente omogenea, del cosiddet­to “modo di vita americano” nella coscienza collettiva della classe dirigente e dei ceti medi (43).

7. Tentativi di governo del ciclo congiuntura­le. Attraverso questo cambiamento, questa nuova disciplina della produzione industriale, gli imprenditori più avanzati pensavano di ar­rivare a regolarizzare il ciclo economico. Soste­neva, ad esempio, il segretario della National Machine Tool Builders’ Association: “Se gli uomini d’affari contribuissero anche solamente a costruire un sistema di informazioni e impa­rassero ad usarlo, la violenza delle fluttuazioni nella produzione e nel commercio potrebbe essere annullata” f44).

In effetti, durante gli anni Venti, salvo qual­che eccezione, l’infanzia delle analisi macroe­conomiche (è proprio di questo periodo la cre­azione del “National Bureau of Economie Re­search” di W. Mitchell) fu caratterizzata dal prevalere delle preoccupazioni che venivano dalle piccole crisi che duravano pochi mesi o, al massimo, un anno: sembrava soprattutto ne­cessario capire, prevenire od evitare brusche

(40) Le associazioni nazionali svolsero un ruolo di primaria importanza nel campo della ricerca applicata: secondo dati della Camera di commercio degli Stati Uniti, nel solo 1925, gli imprenditori organizzati in “Trade Associtions” spesero 35 milioni di dollari nella ricerca realizzando tagli nei costi di produzione per circa 500 milioni, cfr. DOA, 1925, 12, p. 8; vedi anche ATAE, X, pp. 29-30.(41) Per la differenza fra la promozione dell’uso di un prodotto e la promozione di un prodotto, vedi l’intervento di T.W. Vinson della National School Supply Association di Chicago alla IV Convenzione dell’ATAE, pp. 75 e 78; per le analisi di mercato, ivi, pp. 47esgg.; per la standardizzazione e la programmazione dei sistemi di vendita, v., ad. es., ATAE, III, p. 185, oppure IX, p. 144.(42) MLR, 1923, n. 3, p. 1-8; ancora, MLR, 1922, n. 4, pp. 759-161; XI Annual Congress of National Safety Council, Detroit, 28 Agosto-1 settembre 1922; MLR, 1924, n. 1, p. 191 e MLR, 1922, n. 3, p. 1 e sgg.(43) Per una sintesi delle attività dell’ATAE in questa direzione, vedi l’intervento di F.D. Jones (Trade Association Counsel) alla IV Convenzione, pp. 84-100.(44) ATAE, III, p. 207.

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cadute negli affari a livello congiunturale (45).Su questo punto si era notevolmente raffor­

zata l’idea che molte di queste piccole crisi fossero dovute al sottoconsumo e che ci fosse un rapporto fra livello della domanda e disoc­cupazione. In questo senso si esprimeva G. Summer Small, come direttore della “C.E. Knoeppel and Co.”: l’equilibrio doveva essere trovato assicurando prezzi bassi, costi bassi, e buoni salari f46).

Su questa ovvia linea convergevano non so­lo il Piano per la Ricostruzione, presentato dall’AFL al Senato nel gennaio del 1919, dove si leggeva che la “disoccupazione è dovuta al sottoconsumo e il sottoconsumo è causato dai bassi o insufficienti salari” (47), ma anche il gruppo imprenditoriale che faceva capo al Na­tional Industrial Council che, addirittura, so­steneva, contro la disoccupazione, una politica governativa di deficit-spending f48). Insomma: sulla carta c’erano strumenti efficaci contro le crisi congiunturali. Inoltre, come molti storici hanno sufficientemente dimostrato, la stessa manovra della spesa pubblica per sostenere la domanda era una politica già abbondantemen­te praticata prima degli anni trenta, anche se, in tempo di pace, ciò avveniva più a livello delle amministrazioni statali e locali che a livello dell’amministrazione federale (49).

Ora, proprio perché queste manovre erano approvate in situazioni di momentanea diffi­coltà, vale la pena di notare, senza entrare nel merito delle cause della crisi del ’29, come non possa che meravigliare, soprattutto durante il periodo di crisi successivo al crollo della Borsa, la riluttanza del Governo ad approvare misure

massiccie di tipo anticongiunturale a sostegno della domanda. L’unica spiegazione di fondo del fenomeno è che le crisi cicliche e la stessa congiuntura macroeconomica erano conside­rate da un punto di vista meramente tecnico, come un accidente risolvibile autonomamente, grazie alla saggezza tecnica della classe dirigen­te. Ogni fenomeno, durante gli anni venti, era spiegato ed analizzato in termini apolitici ed aveva solo una sua precisa collocazione scienti­fica e tecnica. Inoltre proprio per questo, la manovra di razionalizzazione dell’offerta e del­la produzione era preferita a quella di raziona­lizzazione o, più semplicemente, di crescita del­la domanda: trattata, quest’ultima, o come pre­supposto ideologico (gli alti salari dei lavoratori americani) o come — e non sempre — extrema ratio quando le scorte di magazzino crescevano oltre il livello di guardia.

8. Alcune conclusioni: il politico e l’econo­mico. Cominciando a trarre qualche conclu­sione dall’analisi di alcuni aspetti dell’intervento dei tecnici-ingegneri di Hoover sul sistema in­dustriale nordamericano, potremmo innanzi­tutto notare come l’esperienza degli anni venti abbia presentato, nell’economia capitalistica, sia il momento anarcoide sia quello di organiz­zazione a livello statale dei problemi di divisio­ne nazionale del lavoro.

E mentre il primo momento è stato preva­lentemente evidenziato dalla storiografia meno recente, come si accennava all’inizio, e da molti studiosi della crisi del ’29, anche di ispirazione marxiana, il secondo momento ha avuto modo di evidenziarsi maggiormente nei lavori degli storici più recenti. In realtà, questi ultimi, più

(4S) Vedi Kuznets, Secular Movements in Production and Price, cit., e W.C. Mitchell, Business Cycles, New York, 1927. Per uno studio delle posizioni degli economisti negli Anni Venti, vedi l’interessante rassegna di J. Tobin, The Monetary Interpretation o f History, in “The American Economical Review”, 1965, n. 3, pp. 464-485.(,6) G. Sumner Small, Principles fo r Stabilizing Prosperity, 1M., 1919, n. 1, p. 24.(<’) MLR, 1919, n. 3, p. 64.(«) DOA, 1921, n. 9, p. 6.(4i) Alcuni esempi: perla Pennsylvania: due Kelly Bills (H.R. 13415 del 17 dicembre 1918 e H.R., 15652 del 5 febbraio 1919), per lo Iowa il Kenyon Bill (S. 5397 del 21 gennaio 1919), peril Colorado il Taylor Bill (H.R. 15993 del 15 febbraio 1919); per un elenco di interventi dei singoli stati cfr. anche MLR, n. 4, 1929, pp. 184-186; per una rassegna dei piani di opere pubbliche nelle città per favorire l’occupazione, v. per tutti, DOA, 1921, 9, p. 5.

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Razionalizzazione e programmazione industriale negli USA 151

che capovolgere la storia del periodo in que­stione, hanno colmato delle lacune su impor­tanti caratteristiche degli anni venti e, spesso, hanno reso giustizia a personaggi come Her­bert Hoover, che pure appariranno, dopo la crisi del ’29, assolutamente lontani dal com­prendere le necessità del loro presente.

Ma proprio questo tipo di dinamica nel rap­porto fra il nuovo, il vecchio e la trasformazio­ne rende pressante la domanda: esiste qualcosa prima ed oltre l’intelligenza o la capacità degli uomini, la sensibilità e la maturità della classe dirigente, che pone la necessità di una trasfor­mazione industriale o sociale e che poi non si accontenta del progresso realizzato, ma spinge verso una nuova necessità, che, sovente, gli stessi uomini, la stessa classe dirigente, non sono più in grado di capire e di controllare?

La risposta potrebbe essere assai semplice: lo sviluppo quantitativo della domanda e della produzione comporta degli adeguamenti che sono, prima, prevalentemente economici (con­centrazione, introduzione di metodi più effi­cienti di lavoro, di nuovo macchinario), dopo, prevalentemente politici (organizzazione delle forze produttive oltre l’ambito della singola impresa) man mano che aumenta la socializza­zione del sistema industriale stesso. Si può an­che affermare con sicurezza che questo passag­gio avvenne, materialmente, con la prima guer­ra mondiale, coscientemente con l’esperienza del gruppo di Hoover dopo la guerra, ma che le basi del fenomeno erano state gettate durante la “Progressive Era”: anche se i primi anni del secolo avevano espresso ideologie e vedute che il dramma della guerra aveva fondamental­mente stravolto.

In questo senso, la specificità dell’esperienza degli anni venti consistette nell’introduzione del fattore di governabilità diretta del modello di sviluppo: la razionalizzazione produttiva (stan­

dardizzazione, semplificazione e nuove tecni­che di management) che veniva promossa a livello nazionale e la stessa preoccupazione per gli equilibri congiunturali sono indicatori in­equivocabili di quanto si sostiene.

Il modello entrò in crisi perché era incomple­to. Viste con occhio retrospettivo quasi tutte le esperienze appaioni esperimenti: e, agli anni venti mancava la prospettiva di progresso del fattore politico: come lo sviluppo del capitale richiedeva una crescita più che proporzionale nella produttività e nella professionalità della forza lavoro per compensare la caduta del sag­gio di profitto, così, ad uno sviluppo della pro­duzione più che proporzionale alla crescita del numero degli occupati nel settore industriale, doveva corrispondere uno sviluppo di sbocchi interni reali e non solo finanziari.

In altre parole, il gruppo dei tecnici-ingegneri di Hoover si era posto il problema di coordina­re e razionalizzare la crescita produttiva a livel­lo nazionale, indicando piani e prospettive che dovevano coinvolgere i singoli rami produttivi. Ma, in pratica, ci si voleva fermare a questo, pretendendo quasi di erigere una barriera ad ogni ulteriore intromissione della politica negli affari della produzione: come se, innescato un modello di consumi di massa, si potesse poi fermarne l’ulteriore sviluppo.

La soluzione del governo dei tecnici- ingegneri rappresentò, anche nelle indicazioni del Veblen, la necessaria conseguenza di un’al­tra contraddizione che lo stesso Veblen aveva ritenuto di individuare all’interno del sistema industriale americano, già nei primi anni del secolo: quella fra progresso tecnologico e be­nessere individuale, identificato, sempre da Ve­blen, con il “senso degli affari” (5o). Tale con­traddizione avrebbe dovuto svilupparsi paralle­lamente a quella tra forze produttive e posizioni di rendita e avrebbe portato, per necessità, alla

(5o) T. Veblen, The Theory o f Business Enterprise, tr. it., La teoria dell'impresa, Milano, Franco Angeli, 1970, specialmente p. 281 e sgg.

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152 Nino Galloni

vittoria della tecnocrazia sull’“affarismo”. Ma il vero vincitore, sospinto dall’evoluzione del si­stema capitalistico stesso, sarebbe stato un altro.

In questo senso e dal punto di vista della nostra ricerca, la crisi del modello di sviluppo degli anni venti fu, prima di tutto, crisi politica: incapacità della società e della stessa classe diri­gente a tradurre lo sviluppo economico in ter­mini politici, in termini di potere, di coinvolgi­mento diretto degli strati emergenti della popo­lazione nel meccanismo socio-produttivo.

I tecnici che si trovarono alla guida della società nord-americana negli anni venti, in real­tà, avevano capito che la valorizzazione del

capitale non poteva avvenire solamente sotto la bandiera dei profitti immediati dei gruppi im­prenditoriali, ma non potevano prefigurare gli strumenti atti a costituire un sistema dominato da specifiche e dirette competenze dello stato nel meccanismo di creazione del plusvalore.Insomma: gli ingegneri di Hoover e lo stesso Ford avevano coscienza, come abbiamo visto in precedenza, dell’attualità di un modello con­sumistico razionalizzato industrialmente, ma non della necessità di rifondazione politica e statale che un siffatto modello avrebbe dovuto comportare.

Nino Galloni