ii/3 assolutismo e rivoluzione a. il laboratorio che ha...
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II/3 Assolutismo e Rivoluzione
A. L’assolutismo
1. Il laboratorio che ha forgiato lo Stato in senso contemporaneo nell’Europa continentale
L’assolutismo è la fase di passaggio tra l’ordine antico e quello moderno, che inizia e prende
forma con la Rivoluzione francese. La Rivoluzione scolpì le caratteristiche di fondo dello
Stato quale oggi lo intendiamo. Ma molte di esse si erano venute formando durante
l’assolutismo.
Lo stato assoluto è una esperienza politica che si regge sulla dottrina secondo cui il sovrano
non è soggetto al diritto, ma è, invece, creatore di diritto, non è garante dell’ordine giuridico
quale gli preesiste, ma è colui che quell’ordine modifica e nel quale introduce il nuovo.
L’assolutismo, così, rompe la concezione medievale del comando come giustizia, e della
legittimazione del potere in base al diritto, per sostituirla, da un lato, con l'idea che il sovrano
è la fonte del diritto, ne è l'autore, che il diritto nasce dalla volontà del sovrano, e, dall’altro
lato, con l’idea che i poteri inerenti la sovranità si legittimano in quanto sono funzionali alla
realizzazione dell’interesse dello Stato, o interesse generale. Le prassi e le sperimentazioni
istituzionali del periodo assolutistico sono altrettanti tentativi di tradurre in pratica questi
nuovi principi. Perciò l’assolutismo è il laboratorio delle idee su cui si fonda l’architettura
organizzativa e concettuale dello stato contemporaneo, in cui gli attributi del Sovrano si
trasferiscono alla entità impersonale ‘Stato’.
La forma di governo dell’assolutismo è la monarchia assoluta, nella quale il sovrano governa, o
aspira a governare, senza il rispetto e il concorso di altri poteri, secondo quanto invece
stabiliva la concezione del governo misto dell'ordine antico. Gli organismi rappresentativi dei
ceti perdono importanza, e il Sovrano tende a governare con l’assistenza di soli organi da esso
nominati e che sono sua emanazione, i quali vanno a comporre un potere di nuovo conio, il
potere amministrativo, del quale il Sovrano è il capo.
Il modello e le idee dell'esperienza assolutista furono fornite dall’Italia, dove, come vedremo
successivamente, per una serie di circostanze, risalenti generalmente ai vuoti di potere
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lasciati dalla lontananza, in certe aree del paese, del potere imperiale, erano sorte Signorie o
principati, svincolati dalle forme politiche dell’ordine antico, e la cui esperienza formò oggetto
di influenti teorie politiche in cui prese forma l'idea del princeps absolutus, cioè sciolto
(questo il significato della parola latina ab-solutus) dall'osservanza del diritto antico, e creatore
egli stesso del diritto.
Machiavelli, osservando l'esperienza politica dei principati italiani, pose l'accento
sull'indipendenza verso l'esterno, che era l’aspetto di particolare pregnanza in Italia, i cui
territori erano tutti soggetti a una autorità superiore, imperiale o papale; Machiavelli, perciò,
chiamò Stato quella entità politica che non riconosce superiori e che è 'principio di se stessa",
e pertanto vive per la propria conservazione. L’interesse dello stato alla propria
conservazione e alla realizzazione dei propri fini, la ragion di stato, nella concezione
machiavelliana giustifica qualunque mezzo venga adottato per soddisfarlo. Con l’introduzione
dell’idea, assolutistica, per cui lo stato è portatore di propri fini, che sono inerenti alla sua
conservazione e alla sua realizzazione, faceva la sua comparsa il principio della
subordinazione dell'etica alla politica1. In Francia, Jean Bodin, costruendo una nuova teoria
giustificatrice delle aspirazioni dei sovrani suoi contemporanei che, già indipendenti verso
l'esterno erano ora intenti ad affermare la propria supremazia verso l'interno, sostenne che
della sovranità faceva parte integrante il potere di creare il diritto, e che quest'ultimo era il
frutto della volontà del sovrano, il quale era libero di abrogare il diritto previgente e crearne
uno nuovo. Nelle due dottrine sono contenute le caratteristiche d'insieme dell'assolutismo,
quali risaltavano di più dal diverso punto di osservazione in cui era collocato chi le osservava:
la configurazione di una sovranità intesa come indipendenza da poteri esterni e superiori, e
come supremazia nei confronti di qualunque altro potere che si trovi all'interno dello Stato.
Per le sue fondamentali ripercussioni in ordine alla struttura, all'organizzazione e alle
funzioni dei poteri pubblici, dell'assolutismo interessa al diritto pubblico soprattutto il
processo di formazione della supremazia verso l'interno. Questo processo si realizza
attraverso il progressivo svuotamento delle 'libertà politiche', ossia dei poteri dei ceti
dell’ordine antico, nelle cui prerogative, privilegi, usi e consuetudini consisteva la ‘legge del
1 ) V. per questa osservazione N. Picardi, La giurisdizione all’alba del terzo millennio, Giuffrè Editore, Milano,
2007, p. 92. L’opera di Machiavelli cui si fa riferimento nel testo sono i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio,
redatti intorno al 1515, reperibili in Opere Complete, Milano, 1960. Quella di Jean Bodin sono i Six Livres de la
Republique, apparsi del 1583 (edizione italiana Torino, 1988-1987).
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paese’, vale a dire quel 'diritto' a cui il Sovrano assoluto aspira a sostituirne uno nuovo e di
suo conio; ai cui apparati, organismi e magistrature, il Sovrano affianca e sovrappone, tende a
sostituire, la propria amministrazione.
La traiettoria attraverso la quale la vicenda assolutista si realizza è fatta, dunque, di due
fondamentali componenti: da un lato, la creazione di un potere nuovo, l’amministrazione, un
corpo burocratico dipendente dal sovrano e che risponde solo a lui, che assorbirà le funzioni
di cui le autonomie private vengono progressivamente svuotate e cercherà di sottrarsi sempre
di più al controllo dei propri atti da parte dei giudici, in nome del fatto che quegli atti
rispondono a una insindacabile ‘ragion di stato’. Dall’altro, e parallelamente, l’indebolimento
delle prerogative dei corpi giudiziari, interpreti e detentori del diritto antico, mediante il quale
indebolimento si esprime il venir meno delle prerogative dei vari corpi intermedi, dei ceti.
Come avremo modo di sottolineare nel corso di questo capitolo, l’emersione della
amministrazione, proprio perché avviene come pretesa di sottrarre certe aree dell’azione
statale dal sindacato giudiziario, è anche l’emersione di un modo di concepire i problemi, di
pensare, di vedere la società del tutto diverso da quello che era proprio dell’ordine antico (in
una parola: l’emersione di una nuova forma di razionalità). L’ordine antico aveva una modalità
‘giurisdizionale’ di concepire l’azione pubblica, l’effettività di ogni comando gli appariva
condizionata dalla domanda ‘è esso corrispondente al diritto’? Nell’assolutismo l’effettività del
comando sarà fondata sull’affermazione ‘esso corrisponde alla ragion di stato, all’interesse
pubblico’ che l’amministrazione del sovrano interpreta. E’ un diverso modo di fondare e
giustificare il potere, di concepire le relazioni tra stato e società, che non abbandonerà mai più
la scena del diritto pubblico europeo continentale. Anche quando, nello stato ottocentesco, si
dirà, riconoscendo più di quanto non si fosse fino ad allora fatto le esigenze di controllo del
potere pubblico, che anche l’amministrazione agisce sulla base del diritto, questa esigenza
sarà realizzata affermando anche, però, che quel diritto sulla cui base la amministrazione, il
pubblico potere, agisce, è un diritto speciale che ne protegge il compito di valutare ed attuare
l’interesse pubblico.
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2. In particolare: la fine della coessenzialità di diritto e potere. Il diritto pubblico
verso la condizione polarizzata di strumento del potere o di strumento di
opposizione al potere.
Nel corso dell’assolutismo, cambia l'idea stessa di "diritto" e di ‘potere’, e il rapporto che si
istituisce tra questi due termini. Se nell'ordine antico il diritto era dato da un insieme di
prescrizioni dell'origine più varia (contratti feudali, consuetudini, privilegi cittadini,
deliberazioni delle Assemblee degli Stati, ordini e rescritti sovrani, sentenze giudiziarie,
statuti delle corporazioni... ), di cui nessuna autorità poteva dirsi la sola fonte, il solo autore, e
del diritto si aveva una concezione che ne valorizzava la spontaneità, l’involontarietà, il
carattere pattizio e tradizionale, dunque il radicamento nel passato, nell'assolutismo prenderà
progressivamente piede l'idea che il diritto è lo strumento attraverso il quale la società viene
indirizzata verso quei cambiamenti conformi alla volontà del sovrano, e cioè utili.
Il diritto tende in quest’epoca ad assumere quella caratterizzazione, ancora oggi molto
presente nel modo in cui esso viene tematizzato, che vede il diritto come strumento del quale
la volontà politica si avvale per guidare e indirizzare la società. In questo contesto matura
perciò anche l’idea che la legge, in quanto espressiva della volontà del sovrano, è fonte del
diritto superiore a ogni altra, cioè deve trovare applicazione e rispetto anche laddove
confligga col diritto preesistente. Corrispondentemente, il potere pubblico prende in questa
fase una piegatura, che lo colloca in posizione asimmetrica rispetto alla società, in una
posizione di superiorità, e si definisce rispetto ad essa, alla sfera privata, come portatore di
propri fini (pubblici, appunto) come tali di prioritaria importanza.
D’altra parte, si genera proprio in quest’epoca, e per reazione opposta all’uso del diritto, delle
regole, come strumento per esercitare il potere in rottura con l’ordine antico, anche una
immagine contraria, che vede il diritto come antagonista rispetto al potere. Sono gemmazioni
di quest’epoca la concezione del ‘diritto naturale’ come insieme di prerogative naturali e
imprescrittibili dell’uomo e che il potere non può infrangere, rimodellare, travolgere; o le tesi
del diritto di resistenza (Locke) dei popoli davanti al tiranno2. Del resto, è proprio in nome del
2 “Le discussioni sul diritto, la loro stessa vivacità, così come l’intenso sviluppo di tutti i problemi e le teorie di
quello che potremmo chiamare il diritto pubblico, la ricomparsa dei temi del diritto naturale, del diritto
originario, del contratto ecc., già formulati nel Medio Evo in tutt’altro contesto, rappresentano, in un certo senso,
il rovescio, la conseguenza e la reazione contro il nuovo modo di governare, che si andava istituendo a partire
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conflitto tra gubernaculum e jurisdictio che l’assolutismo in Francia svolge i suoi ultimi atti,
che conducono allo scoppio della Rivoluzione.
Anche sotto questo profilo, l’assolutismo è rottura dell’ordine antico: si rompe con esso l’idea
che diritto e potere convivano nello sforzo di realizzazione della giustizia, e il diritto diviene o
strumento del potere o suo oppositore. Il diritto pubblico viene teorizzato in quest’epoca sia
come insieme delle forme in cui il potere sovrano si manifesta, sia come ambito delle
prerogative tradizionali, dei diritti, delle norme comuni e superiori anche al sovrano. Dal
primo ambito si genererà il diritto amministrativo, scienza del potere e delle sue forme e
manifestazioni; dal secondo il diritto costituzionale, scienza dei limiti del potere. Sono
mutazioni che si rifletteranno, e continuano a riflettersi, nello stesso ruolo sociale, e nella
composizione antropologica e nelle mentalità del ceto dei giuristi, diviso tra ‘consiglieri del
principe’ e critici del potere.
3. Le tappe e le componenti dell’esperienza assolutista
“Vedrete, per pagare i debiti di un giorno, stabilire nuovi poteri che dureranno nei secoli. Scavate fino in fondo, e troverete un espediente finanziario mutato in istituzione.”
(Tocqueville)
3.1. La rottura della costituzione antica Per Alexis de Tocqueville, il primo atto della storia dell'assolutismo in Francia si compì
quando il Re ottenne da nobili ed ecclesiastici l'autorizzazione a mettere tasse senza dover più
chiedere il consenso dei ceti, scaricandole sul Terzo Stato. Era la rottura della costituzione
dell'ordine antico, che si basava sul governo misto, sul potere dovere dei ceti di dare il proprio
dalla ragion di stato. Infatti il diritto, le istituzioni giudiziarie che erano state parte integrante dello sviluppo del
potere regio, ora diventano improvvisamente esterne, e come esorbitanti rispetto all’esercizio del governo
secondo la ragion di stato. Non è sorprendente, che tutti questi problemi di diritto siano sempre formulati, per lo
meno in prima istanza, da coloro che si oppongono al nuovo sistema della ragion di stato. In Francia, per
esempio, sono piuttosto i parlamentari, i protestanti, i nobili, a riferirsi all’aspetto storico-giuridico. In
Inghilterra, sono stati gli esponenti della borghesia in lotta contro la monarchia assoluta degli Stuart e, a partire
dall’inizio del sec. XVII, i dissidenti religiosi. In breve, è sempre stata l’opposizione a muovere una obiezione di
diritto alla ragion di stato, facendo così funzionare la riflessione giuridica, le regole del diritto, l’istanza del diritto
contro la ragion di stato. Per dirla in poche parole, il diritto pubblico, nel corso del XVII e del XVIII secolo, è un
diritto di opposizione”: M. Foucault, Nascita della biopolitica (Corso al Collège de France, 1978-1979), trad. it.
Feltrinelli, Milano, 2005, p. 21.
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consenso alle decisioni del Re che implicassero imposte e tasse, e il primo movimento verso
una concezione assolutistica in cui il Re stabilisce ciò che è dovuto in base alla sua volontà o
alla ragion di stato e non più nei limiti del diritto previgente e nel rispetto di esso.
Questo ruppe l'equilibrio sociale che si era sino ad allora mantenuto, e aprì un processo che
avrebbe fatto sì che agli occhi della società le antiche prerogative dei ceti elevati finissero per
apparire 'privilegi-favoritismi' insensati perché ad essi non corrispondevano più obblighi
reciproci. Poiché non si riusciva più a capire a quale corrispondente obbligazione
rispondessero, con quale funzione sociale della nobiltà essi servissero, i privilegi di cui
quest’ultima godeva a poco a poco apparvero intollerabili, conducendo alla Rivoluzione.
"Oso affermare che il giorno in cui la Nazione, stanca dei lunghi disordini che avevano accompagnato la prigionia di Re Giovanni e la pazzia di Carlo VI, permise ai re di imporre una senza il suo concorso una imposta generale e la nobiltà ebbe la viltà di lasciar tassare il Terzo Stato pur di venirne esentata, quel giorno fu posto il seme di quasi tutti i vizi e di quasi tutti gli abusi che hanno travagliato l'antico regime per il resto della sua esistenza e hanno finito col causarne la fine violenta: e ammiro la singolare sagacia di Comines quando disse: 'Carlo VII, ottenendo di imporre la taglia a piacer suo, senza il consenso degli Stati, gravò molto l'anima sua e quella dei suoi successori, e aprì nel regno una piaga che sanguinerà per molto tempo. "Nel Medio Evo i Re vivevano ordinariamente con le rendite dei loro possessi; e ai bisogni straordinari supplivano i contributi straordinari che gravavano egualmente sul clero, sulla nobiltà e sul popolo. "La maggior parte delle imposte generali votate dai tre ordini durante il quattordicesimo secolo hanno infatti questo carattere. Quasi tutte le tasse stabilite erano indirette, vale a dire pagate da tutti i consumatori indistintamente. Qualche volta l'imposta era diretta: gravava, allora, non già sulla proprietà, ma sul reddito. I nobili, gli ecclesiastici e i borghesi avevano l'obbligo di rilasciare al Re, durante un anno, il decimo, ad esempio, di tutte le loro rendite. "È vero che, fin da quel tempo, l'imposta diretta, detta taglia, non pesava mai sul gentiluomo. L'obbligo del servizio militare gratuito lo faceva esentare: ma la taglia, come imposta generale, era allora d'uso circoscritto, piuttosto applicabile nel feudo che nel regno. "Quando il re, per la prima volta, mise le tasse di sua propria autorità, capì che bisognava cominciare a sceglierne una che non sembrasse colpire direttamente i nobili, perché costoro, i quali costituivano allora per la monarchia una classe rivale e pericolosa, non avrebbero sopportato una novità per loro pregiudizievole; scelse dunque una imposta dalla quale fossero esenti, e scelse la taglia. "A tutte le differenze particolari che già esistevano, se ne aggiunse una più generica che aggravò e consolidò le altre. Da allora, a mano a mano che i bisogni del potere centrale crescevano con le sue attribuzioni, la taglia si estendeva; in breve fu decuplicata, e tutte le tasse nuove divennero taglie. Ogni anno, la diseguaglianza delle imposte separava dunque le classi e isolava gli uomini più di quanto non avesse fatto sino ad allora. Dal momento che l'imposta tendeva a raggiungere non il più capace di pagare, ma il più incapace di difendersi, si doveva arrivare a questa conseguenza mostruosa: di risparmiarla al ricco e di caricarne il povero. Si dice che Mazzarino, a corto di denaro, pensò di porre una tassa sulle principali famiglie di Parigi: ma, avendo incontrato qualche resistenza negli interessati, si limitò ad aggiungere i cinque milioni di cui aveva bisogno alla patente generale della taglia. Voleva tassare i cittadini più ricchi: si trovò invece ad aver tassato quelli più poveri, ma il Tesoro non vi perse nulla. " I prodotti delle tasse mal ripartite avevano un limite, i bisogni dei principi non ne avevano. Tuttavia, essi non volevano né convocare gli Stati per ottenerne sussidi, né, tassandola, costringere la nobiltà a reclamare la convocazione di queste assemblee.
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"Da ciò ebbe origine quella prodigiosa e malefica fecondità dello spirito finanziario che distingue così particolarmente l'amministrazione del denaro pubblico durante gli ultimi tre secoli della monarchia. "Bisogna studiare nei suoi particolari la storia amministrativa e finanziaria dell'Antico regime per capire a quali pratiche violente e disoneste il bisogno di denaro possa ridurre un governo mite, ma senza pubblicità e senza controlli, quando il tempo ha consacrato il suo potere e lo ha liberato dalla paura della rivoluzione, ultima salvaguardia dei popoli. "A ogni passo negli annali si trovano beni regi venduti e poi recuperati come invendibili, contratti violati, diritti acquisiti misconosciuti, il creditore dello Stato sacrificato ad ogni crisi, la fede pubblica continuamente ingannata. "Città, comunità, ospedali erano costretti a mancare ai loro impegni, per avere la possibilità di prestare al re. Si impediva alle parrocchie di intraprendere lavori utili per paura che, dividendo le loro risorse, pagassero con minore esattezza la taglia”3.
Tocqueville legge in modo penetrante le conseguenze sociali di una decisione politica, e ci
mostra in modo esemplare come un avvenimento che in apparenza è solo e squisitamente
politico-costituzionale investa in realtà sempre la qualità dell'intera convivenza. La rottura di
una norma fondamentale dell'ordine antico, quella che voleva le tasse imposte col consenso di
tutti i ceti, è qualcosa che si riverbera immediatamente nella società, ne corrode i legami; che
genera sfiducia verso il potere, il quale diviene sleale e appare ingiusto. La gente cominciò a
odiare i nobili e i loro privilegi, e insieme a diffidare del potere sovrano, che era arbitrario.
Vale la pena di soffermarsi su questi punto della analisi di Tocqueville, che mette in luce uno
snodo che è centrale e ritornante nella storia giuridica e politica: la società accetta diversità e
anche privilegi tra i suoi componenti, ma solo finché essi appaiono sensati, dunque proporzionati,
ragionevoli, spiegabili e utili, quando sono collocati in un equilibrio; quando questo non avviene più,
quando non si comprende più a quale utilità sociale essi rispondano, gli stessi privilegi risultano
intollerabili. I nobili mai avevano pagato tasse come gli altri; ma solo da un certo punto in poi si
cominciò a odiarli per questo. Dunque non è tanto la posizione più favorita o guarentigiata di qualcuno
o di qualcosa che, di per sé, offende il senso di giustizia, ma il fatto che quella posizione più favorita
non assolva a una obbligazione sociale che la bilancia e le sia corrispettiva. La riflessione che qui
Tocqueville conduce è di chiara marca aristotelica, laddove riprende il motivo, centrale in Aristotele,
per cui la diversità è benefica alla società in quando generi reciprocità di posizioni e di interessi, e non
separazione tra le persone, i gruppi e le classi. La stessa affermazione, mutatis mutandis, potrebbe
essere riferita al rapporto tra opinione pubblica e partiti politici in Italia oggi: il popolo, insoddisfatto
da come i politici lo rappresentano, comincia a pensare che essi guadagnano troppo. Ogni ‘casta’ è un
gruppo sociale che continua a godere di un regime particolare del quale il resto della società non
capisce più il senso perché non ne vede più l’utilità.
3 A. de Tocqueville, L’Antico regime e la Rivoluzione, Cap. II.
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Ma le ‘caste’ non nascono solo così, e anche di questo Tocqueville è ben consapevole. Come vedremo
proseguendo il nostro discorso, la nobiltà non ottenne, dall’assolutismo, solo i favori di essere
dispensata dalle tasse che fioccavano sui poveri. L’assolutismo sentiva la nobiltà sua nemica, perché
era titolare di diritti di autonomia (i poteri amministrativi e giudiziari del feudatori sul loro feudo, per
esempio; il potere, come ceto, di opporsi alla volontà sovrana nelle Assemblee generali; il fatto di
esprimere i giudici, che spesso erano aristocratici) e questi diritti di autonomia cozzavano con le
esigenze dell’assolutismo, che aveva bisogno di cancellare ogni potere che potesse essere un freno alle
sue ambizioni di dominio. Il filo conduttore dell’opera di Tocqueville, “L’Antico Regime e la
Rivoluzione”, è che assolutismo e rivoluzione sono un tutt’uno in cui avviene l’affermazione di un
potere sovrano monopolistico e accentratore che sentiva come suoi nemici tutti gli antichi centri di
autonomia e autogoverno. Per questo era anche nell’interesse del successo di questo disegno fare una
‘cattiva stampa’ agli aristocratici. Il fatto che noi tutti conserviamo nel senso comune che la rivoluzione
francese è il trionfo del popolo contro la nobiltà, mentre, secondo Tocqueville, fu più che altro il
trionfo di una concezione assolutistica del potere contro le libertà antiche della Nazione, dimostra che
una larga parte di ciò che ha reso ideologicamente vincente il blocco di pratiche, istituti, modelli
organizzativi e ideologie che si consolida nel tornante assolutismo-rivoluzione è il fatto che esso è
riuscito a imporre una lettura della storia dal suo punto di vista. E quando l’assolutismo, come
vedremo, si orienterà contro i privilegi di autogoverno della feudalità, che dava vita al corpo dei giudici
fieri oppositori dell’assolutismo, sarà esso ad avere interesse a dipingere i nobili come una casta
attaccata ai suoi privilegi. C’è infatti un secondo modo in cui nascono le caste, che insorge quando i
diritti di cui un certo gruppo sociale gode, non andando più nell’interesse del potere, non risultando
più ‘utili’, vengono dipinti come ingiustificati privilegi. Per esempio in Italia, due anni fa, quando è
stata abrogata la legge che proteggeva i lavoratori dipendenti dal licenziamento ‘ingiustificato’
offrendo la garanzia del reintegro nel posto di lavoro, il Governo e molta opinione pubblica hanno
sostenuto che quei lavoratori godevano di un ‘ingiustificato privilegio’, erano una casta superprotetta
rispetto agli altri lavoratori. Ma nessuno ha spiegato perché per rimediare a questa ingiustizia, invece
di abbassare le garanzie di cui solo qualcuno godeva, non si sono aumentate anche quelle degli altri
lavoratori: e la misura ha lasciato scontenti tutti.
Tornando a Tocqueville, dunque, la sua lettura della rottura della costituzione antica mette in
evidenza che gli abusi del potere sovrano si traducono in altrettanti attentati alla coesione della
società. Val la pena di leggere, a questo scopo, l'analisi che egli fa anche degli effetti di una
tassa iniqua, iniqua perché tratta diversamente persone che hanno interessi analoghi:
"Un'imposta particolare, detta di franco feudo, era stata messa in tempo remotissimo sui non nobili che possedevano beni nobiliari. Questa imposta creava tra le terre la stessa divisione che esisteva tra gli uomini e di continuo aumentava l'una con l'altra. Non so se il diritto di franco
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feudo abbia servito più di tutto il resto a tener divisi il gentiluomo e il non nobile impedendo loro di unirsi in quella cosa che assimila loro meglio di ogni altra, la proprietà fondiaria. Un abisso era così aperto di tanto in tanto tra il proprietario nobile e il proprietario non nobile suo vicino. "Nel quattordicesimo secolo il diritto di franco feudo è leggero ed è riscosso solo di tanto in tanto; ma nel diciottesimo, quando la feudalità è quasi distrutta, quel diritto si esige con rigore ogni vent'anni e rappresenta un anno intero di rendita. Il figlio la paga succedendo al padre. ‘questa somma’ ha detto un contemporaneo, ‘che prima si pagava una sola volta nella vita, è divenuta in seguito una imposta crudelissima’. La nobiltà stessa avrebbe voluto che fosse abolita, perché impediva ai non nobili di comprare le sue terre; ma il fisco aveva bisogno che fosse mantenuta e la aumentò”. S'intende, continuando ad aggravare tutti i danni sociali che produceva (invidie, rancori, risentimento, disunione nella società e malcontento verso lo Stato).
Osservato dal punto di vista delle prepotenti necessità finanziarie la cui soddisfazione impone
l'abbattimento dei diritti antichi, l'assolutismo è un fenomeno di 'monetarizzazione' o di
'mercificazione' dei diritti, degli status, delle prerogative di cui godevano singoli e comunità4.
Ad esso non sfuggivano i poteri detenuti dalle città o dalla comunità locali di
autoamministrarsi:
"Luigi XI aveva limitato le libertà municipali perché il loro carattere democratico gli faceva paura: Luigi XIV le distrusse senza temerle. Lo prova il fatto che le restituì a tutte le città che potevano ricomprarle. In realtà non voleva tanto abolirle, quanto mercanteggiarle, e, se le abolì davvero, fu per così dire senza pensarvi, per puro espediente finanziario, e, cosa strana, lo stesso gioco continuò a ripetersi per ottant'anni. Sette volte durante questo periodo si è venduto alle città il diritto di eleggere i propri magistrati, e, quando esse ne hanno di nuovo goduto il vantaggio, si toglie loro per rivenderglielo. Il motivo del provvedimento è sempre lo stesso, e sovente è confessato: ‘I bisogni delle nostre finanze' dice il preambolo dell'editto del
1722 , ‘ci obbligano a cercare il mezzo più sicuro per rimediarvi.’ 5
Alla stessa sorte si avviarono i diritti delle maestranze e delle corporazioni. Dalla
appartenenza a queste associazioni derivava nel Medio Evo il diritto di esercitare certe
professioni arti e mestieri, erano organismi di autogoverno delle professioni che calmieravano
offerta e domanda e tenevano il controllo dei prezzi del lavoro. Fu solo durante l'assolutismo
che esse vennero trasformate in vere e proprie caste chiuse. Chiunque volesse esercitare una
professione, arte o mestiere fu obbligato a iscriversi e intanto il sovrano lucrava sul prezzo
delle patenti che le corporazioni potevano rilasciare, costringendole periodicamente a
rinnovarle.
4 Per L. Mannori e B. Sordi, Storia del diritto amministrativo, cit., p. 128, l’assolutismo fu una ‘modernizzazione
istituzionale’ ancorata a un unico, vero obiettivo: l’aumento del gettito fiscale.
5 L’Antico Regime, cit. p.85.
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3.2. La nascita dell'amministrazione L'affermazione della sovranità verso l'interno significò una lunga e complessa opera di
svuotamento dei 'poteri intermedi', cioè delle prerogative signorili e locali che si traducevano
in poteri di autogoverno e si esprimevano in una rete di giurisdizioni, organismi e procedure
ciascuno dei quali allocava una quota di potere decisionale che poteva frenare la attuazione
del disposto sovrano. A questa opera di distruzione dei poteri intermedi si deve se tutta una
tradizione di pensiero ha descritto lo Stato come un Leviatano, il mostro biblico divoratore (è
la figura che fu adottata da Hobbes) e se la dinamica assolutista può essere descritta come un
processo di accentramento e di verticalizzazione del potere, che anticipava la forma che lo
Stato avrebbe preso con la Rivoluzione. Quell'opera di abbattimento dei poteri intermedi e di
semplificazione fu in parte il risultato, come abbiamo visto sopra, di una esigenza di
'monetizzare' i privilegi, dall'altra di una ricerca di maggiore efficienza e, e perciò di
autonomia, delle attività volte alla soddisfazione delle volontà sovrane. Per conquistarsi
efficienza, cioè “capacità raggiungere il risultato” il potere sovrano dovette rendersi
autonomo, cioè immune, dalle pressioni, dagli interessi, dai bisogni espressi dalla società, dalle
formazioni sociali e politiche intermedie, che, facendo valere i propri diritti attraverso le
forme giurisdizionalistiche dell’antico regime indebolivano, stornavano, modificavano
l’azione pubblica rendendola, appunto, meno ‘efficiente’ (e anche meno arbitraria).
La espressione e lo strumento di questa ricerca di efficienza e immunità del pubblico potere fu
l’amministrazione, un nuovo apparato dipendente dal sovrano, incaricato di portarne a
esecuzione la volontà, e pertanto non soggetto a sindacato giurisdizionale. L’assolutismo
infatti segna la nascita, cioè una fase iniziale ma già profondamente trasformativa, di un
potere, quello amministrativo, che sarà il centro dello stato contemporaneo.
Sappiamo che l'ordine antico aveva una idea 'giurisdizionale' dell'amministrazione. Quello che
veniva considerato attività amministrativa era un tipo particolare di regolamentazioni, che
vertevano sul dover fare o dover dare, che imponevano prestazioni materiali (manutenzione
delle strade, dei ponti e dei corsi d'acqua, degli edifici e dei boschi) o economiche (tasse).
Queste regolamentazioni potevano prendere la forma di ordini, rescritti, editti o ingiunzioni,
portare a esecuzione i quali, non esistendo un apparato apposito, era compito dei diretti
interessati, vale a dire degli stessi destinatari degli obblighi; se questi ultimi ritenevano di
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vedersi imposto un dovere cui non erano tenuti, si finiva davanti a un giudice, il quale poteva
accertare che quel dovere non esisteva, o non esisteva nel modo e nel quantum che era stato
imposto, o poteva riscrivere il contenuto del dovere adottando, in forma di sentenza, un
regolamento amministrativo sostitutivo di quello impugnato.
Non si fa fatica a immaginarsi che questa situazione potesse rallentare di molto o anche porre
nel nulla i regolamenti e le decisioni sovrane. Per aggirarla, nella Francia del ‘500 e ‘600 il
Sovrano ricorse alla istituzione di nuove figure istituzionali, direttamente da sé dipendenti,
non appartenenti al ceto dei giudici, delle quali la principale fu l’ intendente, un funzionario
nominato e revocabile dal Re. Gli intendenti venivano inviati nelle province, nelle
municipalità; agivano sotto la direzione di due organismi nominati dal Sovrano, uno che aveva
sede nella capitale, il Consiglio del Re e uno che aveva uffici territoriali, il Controllore generale.
L’intendente è rimasto alla storia come il prototipo del funzionario amministrativo. Una volta
che questa figura fu introdotta, i rapporti tra amministrazione e giurisdizione furono
progressivamente, ma inarrestabilmente, regolati in favore della prima.
Il processo iniziò – e nel corso dell’assolutismo vi rimase principalmente legato – dalla
fiscalità, un campo nel quale le magistrature tradizionali spesso si mettevano contro il
sovrano, e venivano perciò accusate, dagli scrittori al sovrano favorevoli, di volerne
disattendere e contrastare gli editti, di tollerare i ribelli, di criticare il sovrano6.
Inizialmente l'amministrazione intendentizia si limitò ad affiancarsi alle giurisdizioni e alle
magistrature locali, per controllare il modo in cui esse ripartivano le imposte e le
riscuotevano, per dare consigli su come risolvere le contestazioni intorno alla distribuzione
del carico fiscale; finì per avocarne i compiti, anche per effetto il divieto fatto ai giudici di
ingerirsi nelle materie amministrative, dove i giudici poterono adottare regolamenti sempre
meno numerosi, di efficacia territoriale sempre più circoscritta e di valore sempre meno
rilevante, determinando la situazione così descritta da Tocqueville: “non esisteva più in
Francia città o borgo, villaggio per quanto piccolo, fabbriceria, convento collegio che potessero
avere una volontà propria e nel disbrigo dei loro affari e nella gestione dei loro interessi”.
6 L. Mannori e B. Sordi, op. cit., p. 106.
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3.3. Svuotamento dei poteri intermedi Un primo vistoso effetto della nascita di una amministrazione quale corpo riferentesi al
sovrano fu dunque lo svuotamento delle prerogative feudali e dei compiti di
autoamministrazione dei territori. Il feudatario che non è più amministratore delle sue terre
da esse si allontana: i nobili vennero del resto obbligati a risiedere a lungo a Corte e
diventarono titolari di qualcuno dei numerosissimi uffici e incarichi di cui la Corte del sovrano
era composta7. Nelle città, le magistrature un tempo elettive divennero uffici che, come visto
in un passo di Tocqueville che abbiamo letto poco sopra, potevano essere riassunte e ri-
cedute dal re. In questo intercalare di magistrature locali divenute ormai provvisorie, ad
assumere il governo effettivo furono i funzionari dello stato, gli intendenti, che di fatto si
sovrapposero gerarchicamente a quel che rimaneva dell'amministrazione municipale.
“Nel diciottesimo secolo dirigevano tutti gli affari locali un certo numero di funzionari che non erano più scelti dal feudatario, ma erano nominati dall’intendente della provincia. Toccava a queste autorità ripartire le imposte, restaurare le chiese, costruire le scuole, radunare e presiedere l’assemblea del villaggio. Vegliavano sui beni comunali, ne regolavano l’uso, e intentavano e sostenevano i processi in nome della comunità. Non soltanto il feudatario non dirigeva più l’amministrazione di questi piccoli interessi, ma non la sorvegliava. Tutti i funzionari erano sotto il governo, o sotto il controllo, del potere centrale. Inoltre, non si vede quasi più il feudatario agire come rappresentante del re e intermediario fra lui e gli abitanti. Egli non solo non è più incaricato di raccogliere le milizie, di imporre le tasse, di rendere noti gli ordini del principe, di distribuire i suoi soccorsi. Il feudatario è ormai solo un abitante che alcune immunità e alcuni privilegi separano e isolano da tutti gli altri. Il feudatario non è che il primo abitante, hanno cura di specificare gli intendenti nelle lettere ai loro sottodelegati”.
7 La Corte risiedeva nel Giardino di Versailles, voluto dal Re Sole. La costruzione della Reggia e del giardino non
era qualcosa che avesse solo il significato di offrire al sovrano un piacere e un divertimento: fu un grande fatto di
simbolismo politico e fu anche un concreto gesto politico. Il giardino era sterminato ed ordinato, ordinato
secondo precise regole prospettiche e architettoniche: esso intendeva simbolizzare il potere del sovrano sul
territorio, lo stato appunto, che governa senza intralci un territorio immenso e lo ordina secondo regole che
esprimono una volontà raziocinante. Nel giardino c’era la reggia, circondata dalle residenze destinate ad ospitare
la corte del re; e la corte del re erano i nobili feudatari che il re obbligava a risiedere per lunghi periodi, a
rotazione, a Versailles, indebolendo così i loro legami coi loro territori, appannando la dipendenza politica dei
territori feudali ai loro titolari, e trasformando a poco a poco i nobili in alti dignitari, funzionari il cui compito era
quello di garantire in tutto lo stato la volontà del sovrano. Il giardino di Versailles celebra il trionfo dello stato
nella distruzione dei corpi intermedi: ma era anche una “illusione che compensa i difetti della realtà, e nasconde
l’insufficienza delle risorse di un sovrano considerato onnipotente.” Il significato politico di questa, e di altre
invenzioni architettoniche che rivaleggiarono con essa, come la reggia borbonica di Caserta, o il viale che collega
Torino alla reggia di Rivoli fatto costruire da Vittorio Amedeo II di Savoia nel 1711-1722 e che realizzò “in
assoluto il più esteso spettacolo allestito nel mondo coi mezzi della prospettiva”, interpretando “la posizione
strategica di Torino, scelta per questo nel 1563 come capitale dello Stato sabaudo, con una abilità figurativa
senza pari”, è stato indagato da L. Benevolo, La cattura dell’infinito, Laterza, Bari, 1991, da cui le parole tra
virgolette.
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3.4. Frenetico attivismo regolamentare È importante tener presente che per tutto il periodo assolutistico, l'attività amministrativa è
essenzialmente una attività regolamentare, che disciplina attività e comportamenti, e una
attività contenziosa, cioè di decisione sulle controversie inerenti i propri atti. Non è attività di
concreta gestione, se si eccettua il mantenimento dell'ordine pubblico, crescentemente
affidato alla gendarmeria in corrispondenza dell'interesse a 'disarmare' i nobili, le città e le
comunità locali e a lasciare solo alle autorità statali e ai loro agenti il legittimo uso delle armi
(è il processo per effetto del quale lo Stato sarà definito da Weber 'monopolista della forza').
L'esecuzione delle opere, quali strade, ospizi, altre infrastrutture, viene invece data in appalto
a società private, o demandata, come in antico, alle comunità locali: quello che cambia, come
detto, è che a dettare i regolamenti amministrativi, a controllarne l’esecuzione, a decidere
sulle controversie che ne nascono è un corpo di funzionari specializzato e direttamente
dipendente dal re, i cui atti non possono più essere impugnati giudizialmente e tanto meno
essere sostituiti da sentenze giudiziarie.
L’agire per regolamenti conferisce subito all’amministrazione quella intonazione attivistica,
dinamica, instabile, impermanente, che ne rappresenta il carattere più tipico e intramontabile:
“[Il Governo centrale] non intraprende affatto, o abbandona spesso, le riforme più necessarie, che per riuscire domandano una perseverante energia: ma cambia continuamente qualche legge o qualche regolamento. Nella sfera dove domina, nulla ha tregua. Le nuove regole si succedono con una rapidità tanto eccezionale che gli agenti, a forza di essere comandati, stentano spesso a capire come devono obbedire. Alcuni ufficiali municipali si lagnano col controllore generale in persona per la mobilità estrema dei regolamenti. “La variazione dei soli regolamenti di finanza è tale” essi dicono, “ che non permette a un ufficiale municipale, fosse pure inamovibile, di fare altro che studiare i nuovi regolamenti a mano a mano che escono, fino al punto di dover trascurare i propri interessi”8.
3.5. “Police” Il potere di emanare regolamenti particolari per tutti i cittadini di un distretto o di un
territorio venne chiamato Police, che significa ‘Polizia’. L’assolutismo è perciò anche
8 L’Antico Regime, cit., p. 109. Questo tipo di affermazioni oggi si sentono tal quali sulle bocche di tutti coloro che lavorano nell’amministrazione o hanno con essa ha che fare.
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conosciuto come ‘stato di polizia’, che significa stato nel quale sorge l’amministrazione come
potere di regolamentare la vita sociale in modo autoritativo.
Allora come ora, il potere regolamentare è di fatto, materialmente, analogo a quello legislativo.
La differenza è che si tratta di norme che vengono studiate, elaborate, scritte e poi portate a
esecuzione per un canale tutto proprio, e non coinvolgendo tutti i soggetti che sono coinvolti
nell’adozione della legge. Rispetto allo stato di giustizia, si trattava di un cambiamento
enorme. Coi regolamenti di police, il sovrano, e tutto l’apparato amministrativo che in lui si
incardinava eludeva i parlamenti giudiziari, e il loro potere di interinazione.
I trattati dell’epoca ci danno l’elenco delle materie riservate alla police del sovrano: annona,
mestieri, strade, religione, disciplina dei costumi, sanità, sicurezza e tranquillità pubblica,
scienze e le arti liberali, commercio, manifatture, arti meccaniche, servitori domestici,
braccianti, poveri9.
3.6. Disciplinamento sociale
L’elenco delle materie di police, che sono il nucleo delle competenze dell’amministrazione
moderna e contemporanea, ci fa capire come mai l’azione amministrativa sia stata definita
come una azione di disciplinamento della società. Il termine è stato adoperato dal filosofo
francese Michel Foucault proprio per descrivere la ragion di stato e le pratiche di governo che
ha generato, insieme al termine biopolitica, per evidenziare che il disciplinamento della
società passa attraverso il disciplinamento del corpo umano e delle sue azioni. Intervenire su
materie come la religione, i costumi, la sicurezza e la tranquillità, le scienze e le arti, i poveri,
significava assegnare al potere pubblico il ruolo, fino ad allora del tutto inedito, di modellare e
regolare la vita umana nei suoi aspetti più intimi.
Un passo di Foucault relativo proprio a un regolamento di police in materia sanitaria rende
l’idea del profondo cambiamento di atteggiamento, di mentalità che la nascita
dell’amministrazione e dei suoi poteri regolamentari implica.
9 L. Mannori e B. Sordi, op. cit., p. 140 citando un trattatista francese del 1640.
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“Prendete il caso della esclusione dei lebbrosi. Per tutto il Medio Evo, questo tipo di esclusione si reggeva essenzialmente su un apparato giuridico e su uno rituale e religioso, il cui scopo era separare il lebbroso da chi non lo era. I regolamenti sulla peste formulati nel XVI e anche nel XVII secolo offrono una impressione del tutto differente; seguono obiettivi differenti e soprattutto si avvalgono di altri strumenti. Essi devono letteralmente suddividere il territorio, di una regione o di una città colpite dalla peste e sottometterlo a una regolamentazione che indichi agli abitanti come e quando possono uscire, i comportamenti da seguire in casa, l’alimentazione da osservare, l’obbligo di presentarsi davanti agli ispettori e di far ispezionare la propria dimora.10”
Codificazione dei comportamenti, classificazione della popolazione, riorganizzazione del
territorio sono gli strumenti attraverso i quali la police dello stato assoluto edifica la
particolare relazione sovranità-territorio-popolo che identifica la forma politica statale.
“Si costruivano città dove non esisteva nulla. Il modello era quello dell’accampamento romano, così trasferendosi le regole dell’organizzazione militare a quella cittadina. C’è un asse di simmetria che divide in due il rettangolo della città e altre vie parallele e perpendicolari alla via mediana, cosicché la città è divisa in rettangoli, secondo una scala che va dal più grande al più piccolo. (…) Dove le traverse sono più fitte c’è la zona dei commerci, degli artigiani e dei negozi, oltre che dei mercati: più c’è commercio, più ci deve essere circolazione, più ampia deve essere la superficie delle strade e maggiore la possibilità di percorrerle. In questo semplice schema troviamo proprio il trattamento disciplinare delle molteplicità dello spazio: la costituzione, cioè, di uno spazio vuoto e chiuso, al cui interno si costruiranno le molteplicità artificiali organizzate secondo il triplice principio della gerarchizzazione, della comunicazione esatta dei rapporti di potere e degli effetti funzionali specifici a questa distribuzione, quali, ad esempio, favorire il commercio, rendere sicure le abitazioni, ecc. Funzione di igiene, dunque. In secondo luogo, garantire il commercio interno alla città. Terzo, collegare l’arrivo o la partenza delle merci da o verso l’esterno. Infine, permettere la sorveglianza, dopo che la demolizione delle mura, resa necessaria dallo sviluppo economico, aveva reso impossibile la chiusura serale della città11”.
Il disciplinamento è una tecnologia del potere che nasce con l’assolutismo: “la messa a punto, a
partire dal XVI secolo, di tutto un insieme di procedure, per incasellare, controllare, misurare,
addestrare12 gli individui, per renderli docili e utili allo stesso tempo. Sorveglianza, esercizio,
manovre, annotazioni, file e posti, classificazioni, esami, registrazioni. Tutto un sistema per
assoggettare i corpi, per dominare le molteplicità umane e manipolare le loro forze, si era
10 M. Foucault, Nascita della biopolitica, cit., p. 20. 11 M. Foucault, Sicurezza, Territorio, Popolazione (Corso al Collège de France 1977-1978), trad. it. Feltrinelli, Milano, 2004, p. 26-27.
12 E’ nell’epoca assolutista, infatti, che si forma dal metafora del dressage: la parola, che indica l’arte di addestrare
i cavalli e oggi una specifica disciplina equestre, viene trasferita alla educazione della società, a cominciare dallo
specifico addestramento di cui devono essere destinatari coloro che della società prenderanno la guida, i ‘ceti
dirigenti’.
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sviluppato nel corso dei secoli classici negli ospedali, nell’esercito, nelle scuole, nei collegi,
nelle fabbriche: la disciplina.13”
3.7. Interventismo economico
Tramite i poteri di police le competenze dell'amministrazione, e cioè dello stato, possono
spingersi in campi nuovi, dove fino ad allora non ve ne erano, dove il diritto antico non ne
contemplava. La police interviene per regolamentare i mestieri, i commerci, gli scambi: essa
risponde alle nuove esigenze di uno stato sempre più "interventista" quale fu lo stato
assolutista, il quale, fortemente interessato all'aumento della produzione della ricchezza (da
cui traeva il proprio sostegno tramite la fiscalità) fu incomparabilmente più attivo nei rapporti
economici che non in passato.
Con l’assolutismo inizia quella particolare relazione tra lo stato e l’economia, in cui a mediare i
due termini sono specifiche dottrine economiche che di epoca in epoca prevalgono14. Anche da
questo punto di vista, come da quello che riguarda l’emersione della pubblica
amministrazione, lo stato assoluto segna l’avvento nella visione della cosa pubblica di
razionalità diverse da quella giurisdizionale, che entrano in competizione con essa e tendono
ad avere su di essa il sopravvento. Con la scienza economica fa il suo ingresso un modo
razionalista, calcolante, utilitarista di concepire i rapporti sociali e il ruolo che rispetto ad essi
ha il potere pubblico.
La dottrina economica che ha caratterizzato la fase assolutista è il mercantilismo. In esso, anzi,
è stata vita la traduzione economica della dottrina della ragion di stato. Il mercantilismo fu lo
specifico modo di governare che l’assolutismo prese nel campo dell’economia: “il
mercantilismo è molto di più di una dottrina economica: è una particolare organizzazione
13 Sono le parole poste sulla quarta di copertina della classica edizione Einaudi, Torino 1976, di Sorvegliare e
punire. Nascita della prigione, la cui prima edizione francese è del 1975.
14 Nell’ordine antico, i temi economici (correttezza dei commerci, contratti commerciali) erano affrontati tramite
il diritto, e la honestas utilitas che si supponeva spettasse al commerciante teneva in collegamento la razionalità
economica con quella giuridica e investiva gli scambi economici di un aspetto etico che sarà successivamente
messo da parte. E’ un profilo questo che non possiamo qui approfondire; ad esso è dedicata l’analisi di A. Giuliani,
Giustizia e ordine economico, Giuffrè, Milano, 1997.
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della produzione e dei circuiti commerciali basata sul principio per cui lo stato deve
innanzitutto arricchirsi accumulando moneta, deve inoltre rafforzarsi attraverso l’aumento
della popolazione; e deve mettersi e mantenersi in una condizione di concorrenza permanente
con le potenze straniere.15”
Il mercantilismo affermava che la ricchezza dello stato (derivando dall’imposizione fiscale sui
consumi, sui redditi e sui beni), era tanto maggiore quanto più la società era ricca: questo rese
lo stato assoluto interessato a promuovere lo sviluppo delle attività imprenditoriali e
commerciali, anche attraverso la realizzazione delle infrastrutture di comunicazione, come le
strade e i porti, indispensabili al mercato; d’altro canto, lo portò anche a controllarle e
dirigerle, sviluppando un intenso protezionismo, orientato a favorire le esportazioni, ma a
contenere le esportazioni; perciò una traduzione delle politiche mercantiliste fu, anche, la
competizione militare ed economica con gli altri stati.
“L’internazionalismo, che aveva permeato filosofia e pratica politica nell’età di mezzo, cede alla volontà di potenza, e, tra gli strumenti della nuova visione dello Stato nazionale, assurge a sempre maggior rilievo la politica economica. Un mercante verrà ascoltato quanto un generale e sta per nascere una nuova figura di consigliere politico: l’economista16”.
Il mercantilismo favorì il capitalismo nascente in Europa tramite le componenti centrali della
visione mercantilista erano: “potere allo stato per difendere il commercio con le armi e le
barriere doganali; mercanti arricchiti dall’esportazione di prodotti finiti che fa accumulare
metalli preziosi e mantiene sul territorio nazionale la produzione di derrate alimentari”17.
Anche l’agricoltura, dunque, aveva la sua centralità, e proprio con riferimento ad essa
15 M. Foucault, Nascita della biopolitica, cit., p. 17.
16 A. Maffey, voce Mercantilismo, in Dizionario di politica, p.563.
17 A. Maffey, voce Mercantilismo, cit., p. 563. Appaiono perciò molto ingenui, o forse in mala fede, coloro che si
stupiscono di come un paese autoritario, quale la Cina, possa avere il grande sviluppo capitalistico che oggi
conosciamo: lo stato assoluto è una eloquente prova di come crescita economica e libertà, democrazia e diritti
non siano affatto naturalmente associati. Che poi il “capitalismo di stato” cinese si associ a un regime che fa
ancora riferimento al comunismo stupisce ancora meno il lettore di Tocqueville, al quale non era sfuggita la
affinità tra il capitalismo autoritario assolutista e le dottrine ‘socialiste’: “Si crede che teorie distruttive
conosciute ai nostri giorni col nome di socialismo siano di origine recente. E’ un errore: esse sono contemporanee
ai primi economisti [Tocqueville qui si riferisce ai fisiocrati, di cui noi parleremo più avanti nel testo]. Mentre
questi si servivano del governo onnipotente che sognavano cambiare le forme della società, gli altri si
impadronivano dello stesso potere per minarne le basi” (L’Antico Regime, cit., p. 211).
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Tocqueville ci lascia un caratteristico bozzetto dell’interventismo regolamentare,
minuziosissimo e capillare, della police dello stato assoluto:
“Il Governo centrale (…) pretendeva di insegnare ai cittadini l’arte di arricchirsi. Perciò, di tanto in tanto, faceva distribuire dai suoi intendenti e sottodelegati opuscoli sull’arte dell’agricoltura, fondava Società di agricoltura, prometteva premi e manteneva, con grandi spese, vivai di cui distribuiva i prodotti. Sembra che sarebbe stato più efficace alleviare il peso e diminuire la disparità degli aggravi che opprimevano allora l’agricoltura: ma si vede che non vi si è mai pensato. “Qualche volta il Consiglio voleva obbligare i privati ad arricchirsi a qualunque costo. Sono innumerevoli i decreti che costringono gli artigiani a seguire certi sistemi, a fabbricare certi prodotti, e poiché gli intendenti non bastavano a sorvegliare l’esecuzione di tutte queste regole, esistevano gli ispettori generali dell’industria che percorrevano le province per coadiuvarli. “Vi sono decreti del Consiglio che proibiscono certe colture nelle terre che il Consiglio dichiara poco adatte. Altri se ne trovano in cui si ordina di strappare viti piantate, secondo il Consiglio, in terreno cattivo. Tanto il Governo era già passato dal ruolo di sovrano a quello di tutore”.18
L’intensissima attività nel campo economico volta a promuovere la ricchezza avviene in nome
dell’utilitarismo, la sempre attuale dottrina politica ed etica enunciata da Jeremy Bentham,
secondo la quale nel campo etico, come in quello politico, occorre agire in funzione di
massimizzare ‘la felicità dei più’, dove i più non sono intesi come i più di numero, la
maggioranza della popolazione, ma quelli che hanno di più, che detengono gli interessi e la
ricchezza. La base utilitarista spiega il dinamismo instancabile e instabile di tutta l’attività
dell’amministrazione statale volta a intervenire, per modificarla, sulla realtà, e che perciò,
come Tocqueville ci ha poco sopra raccontato, cambia e ricambia regolamenti, fa e disfa le
regole: siccome ciò che è “utile” ai più, cambia nel tempo, tutta l’organizzazione sociale deve
essere continuamente modificata in funzione di quell’utile, perciò tradizioni, usi, costumi o
anche preferenze individuali devono essere “disciplinati”, posti sotto tutela, perdono
autonomia, libertà, competenza su di sé. L’utilitarismo, ha scritto recentemente Michael
Sandel, che lo riconosce come un potente motore delle concezioni contemporanee del
governo, rende per questo i diritti vulnerabili: non li considera valori in sé, ma variabili
dipendenti del calcolo utilitarista.
Il suo essere anche una concezione dell’economia o un modo di governare l’economia e con
l’economia, spiega come mai lo stato assoluto è legato alla nazionalizzazione, alla chiusura
verso l’esterno, e invece alla unificazione del territorio interno, che diviene un grande mercato
unico da governare in funzione della sua crescita e in competizione con le altre economia.
18 L’Antico Regime, cit. p. 82-83.
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Tuttavia, l'assolutismo rimase anche fortemente avvinto ai residui del vecchio ordine,
impigliato in essi che, convivendo col nuovo, resero il quadro sempre meno efficiente e
sensato: sopravviveva la divisione in ceti della società, e accanto ad essa sopravvivevano due
giganteschi freni economici: la non commerciabilità della terra e la non libera
commerciabilità del lavoro. Le contraddizioni che ciò imprimeva all’interno del sistema
sociale economico e giuridico sono le principali tra le cause che hanno spinto verso
l’abbandono del modello assolutista, ciò che in Francia avverrà traumaticamente con la
Rivoluzione, ma che avrà luogo in tutta Europa, nell’Ottocento, sotto il segno della concezione ‘
liberale’.
3.8. Conflitto dell’amministrazione con la giurisdizione: come conflitto con una
forma di razionalità divenuta ‘divergente’
Per tutelare la propria efficacia e la propria autonomia, l’amministrazione si preoccupò di
rendersi immune dalla giurisdizione: caratteristica del periodo assolutista è la sottrazione alla
giurisdizione di una vasta serie di affari, sui quali non era più riconosciuta competente a
pronunciarsi: l'amministrazione stessa, e non più il corpo dei giudici, decideva sugli eventuali
ricorsi e opposizioni dei privati.
“Se si vogliono leggere attentamente gli editti e le dichiarazioni del re pubblicati nell’ultimo secolo della monarchia, come pure i decreti del consiglio emanati in quello stesso tempo, se ne troveranno pochi in cui il governo, dopo avere preso un provvedimento, abbia omesso di dire che le contestazioni alle quali poteva dar luogo e i processi che ne potevano nascere, sarebbero stati discussi esclusivamente davanti agli intendenti e davanti al Consiglio. ‘S.M. ordina inoltre che tutte le contestazioni le quali potessero insorgere riguardo all’esecuzione del presente decreto siano portate davanti all’intendente per essere giudicate da lui, salvo appello al Consiglio. Si proibisce alle nostre Corti e ai Tribunali di prenderne conoscenza’. E’ la formula ordinaria. “Nelle materie regolate dalle leggi o dalle usanze antiche, in cui non è stata presa questa precauzione, il consiglio interviene continuamente in via di avocazione: toglie dalle mani dei giudici ordinari la questione in cui è interessata l’amministrazione, e se ne appropria. I registri del consiglio sono pieni di decreti di avocazione di questo genere. A poco a poco l’eccezione si diffonde, il fatto si trasforma in regola. Si stabilisce, come massima, non nelle leggi, ma nello spirito di coloro che le applicano, che tutti i processi nei quali sia mescolato un interesse pubblico e che nascano dall’interpretazione di un atto amministrativo, non rientrano nella giurisdizione dei giudici ordinari, i quali non hanno altro compito che pronunciarsi sulle cose private"19.
19 ) Tocqueville, p. 96.
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Il motivo del bisogno dell'amministrazione di sottrarsi ai giudici, risiedeva nella diversità dei
modi di ragionare dei giudici e di quello dell'amministrazione: il primo abituato a ricercare la
conformità al diritto, il secondo che propende a cercare le soluzioni utili al raggiungimento dei
propri scopi. "Non potrete mai immaginarvi quanto sarebbe dannoso per gli interessi
dell'amministrazione abbandonare i propri appaltatori al giudizio dei tribunali ordinari, i cui
principi non potranno mai conciliarsi coi suoi"20.
L'amministrazione nasce, con l’assolutismo, insieme con la coscienza di essere portatrice di
una sua diversa, nuova razionalità, che non si concilia con l'andamento valutativo e
possibilista, problematizzante e contestualizzante, della ragione giuridica. Il modo
‘giurisdizionalista’ di concepire il potere chiede sempre, davanti a una pretesa, a un comando,
di vedere se questa è fondata o meno su un diritto; quello ‘amministrativista’ o ‘esecutivo’ si
accontenta di vedere se quella pretesa, se quel comando, corrisponde all’utile, all’interesse
pubblico, alla ragion di stato, e se la persegue razionalmente.
In questa diversità di mentalità risiede l’inimicizia tra giurisdizione e amministrazione, e la
preoccupazione dell’amministrazione di rendersi immune dalla prima riducendone gli spazi
di sindacato, per conquistarsi efficienza: l’amministrazione sapeva che “l’esercizio giudiziario
del potere alimentava fatalmente nei suoi titolari un ethos di indipendenza e di imparzialità
che tendeva a scollarli dal vertice politico e farne cattivi conduttori di decisionalità’21.
La separazione tra giurisdizione e amministrazione che si avvia con l’assolutismo è, in altri
termini, conseguenza diretta della nuova concezione del potere, del comando, che l’avvento
dell’amministrazione rappresenta:
"L’ amministrazione è funzione di una nuova declinazione del potere, non più strumentale alla instaurazione o al mantenimento dell'ordine giuridico, ma al conseguimento di certi scopi empirici che lo stato considera come propri, e la cui volontà, in quanto espressione dello Stato, è concretizzazione dell'interesse generale22.”
20 E’ una frase estrapolata da una lettera di un controllore generale, citata da Giorgio Candeloro nella Prefazione
a L’Antico Regime e la Rivoluzione nell’edizione BUR 1981 qui adoperata.
21 L. Mannori e B. Sordi, op. cit., p. 77.
22 L. Mannori e B. Sordi, op. cit., p. 288.
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Con questa concezione emerge una nuova mentalità, che Weber chiamerà "razionalità rispetto
allo scopo", e che potrebbe essere chiamata ragione strumentale, e cioè che guarda alle cose,
alle esperienze, ai valori, in una: alla società, come un semplice mezzo per raggiungere certi
fini. Fino ad allora ci si chiedeva se un atto era giusto o meno, e tra due esigenze in conflitto si
cercava il giusto bilanciamento, come esige un punto di vista giustiziale, o giurisdizionale; ora
ci si chiedeva se è utile, conveniente, se corrisponde all'interesse generale, e se sì, a questo
interesse si dava la prevalenza, poco importando con quali mezzi, col sacrificio di quali beni,
interessi, soggetti, si raggiungeva il fine.
La razionalità rispetto allo scopo rende dominante colui che individua lo scopo, e rende
recessive ogni altra forma di ragione e di razionalità che non siano quelle strumentali: essa
permette che un punto di vista, quello del titolare dell'interesse pubblico, lo Stato, il sovrano,
prevalga assiomaticamente su ogni altro punto di vista.
Utilitarista e strumentale, la mentalità sottesa all'assolutismo è di tipo volontarista. E’ il
riflesso di un’epoca che non pensa più che l'ordine del mondo è dato e risponde a un disegno
provvidenziale, ma che esso è frutto della volontà dell'uomo. Volontarista era anche l'idea che
il diritto può essere creato da qualcuno, che diventa depositario del corrispondente potere.
Qui si apriva un secondo fronte delle lotte dei sovrani assoluti contro l'ordine antico, che fu
rappresentato dai tentativi di emancipazione dal potere giudiziario di interinazione, e da
quelli volti alla codificazione del diritto.
3.9. Il conflitto dell’amministrazione con la giurisdizione: come conflitto con il ceto giudiziario
In verità, da molto tempo i nobili francesi non partecipavano più all’amministrazione pubblica, salvo che in una sola parte: la giustizia.”
(Tocqueville)
Tra il 1614 e il 1789 non vi furono in Francia convocazioni degli stati generali. Le decisioni
fiscali ormai potendo essere prese senza il consenso degli stati, e i regolamenti di police
venendo presi e attuati al riparo dalla giurisdizione, cui era sottratta la conoscenza del
contenzioso che da essi nasceva, restava un solo campo nel quale il sovrano si trovava a
contatto ancora con la giurisdizione: quello dell'interinazione.
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Questa prerogativa giurisdizionale, che era anche prerogativa di ceto, e dunque in tutto e per
tutto caposaldo ultimo dell’antico ordine, rappresentava ormai una tangibile limitazione del
potere sovrano, che apparve perciò sempre meno sopportabile. Il conflitto con la
giurisdizione, che accompagna tutto l’assolutismo e diventerà violentissimo nelle sue fasi
finali, è, insieme, conflitto con una forma di razionalità ormai divenuta troppo ‘divergente’ da
quella, strumentale e utilitaristica, adatta ai fini dell’assolutismo, e conflitto con un
determinato gruppo sociale.
L'idea di abolire le prerogative dell'intero ceto ereditario dei giudici si affacciò più volte,
insieme a quella di istituire nuove regole di diritto al posto di quelle vigenti nel territorio
francese per effetto della manifestazione delle varie fonti di diritto allora operanti: la
consuetudine, i patti feudali, le antiche norme del diritto romano, gli statuti di questa o quella
città, di questa o quella corporazione, il diritto dei mercanti, cui si sovrapponeva, si
intrecciava, si sostituiva il diritto nuovo dei regolamenti e delle ordonnances di polizia. Tutto
ciò faceva apparire, e di fatto aveva reso (ma non del tutto per sua colpa, posto che il diluvio
dei regolamenti che manomettevano il diritto antico veniva dal governo), il sistema
giudiziario complicato e imperscrutabile, cosa che favorì l’attecchimento delle polemiche dei
filosofi illuministi contro le oscurità e gli arzigoli dei legulei. Già alla metà del 1500, del resto,
nelle pagine di Gargantua e Pantagruel, Rabelais aveva consegnato la sua indimenticabile,
enigmatica, paradossale immagine del vecchio giudice di paese, che per tutta la vita ha deciso i
suoi casi tirando ai dadi, ma solo dopo avere rigorosamente passato un certo numero di
giorni a studiare accuratamente i faldoni. Da questa pagina di grande letteratura si
sprigionava una debordante sfiducia sia nei giudici, sia nel loro modo di esercitare la ragione,
attento a ponderare le ragioni di questo e di quello, a ricercare la prova, a documentarsi, a
cercare il giusto mezzo, dunque un po’ lento, mai del tutto in bianco e nero; e perciò alla fine,
specialmente se guardato da un’ottica calcolante, strumentale, utilitarista, destinato a essere
condannato come inefficiente, complicato, e incomprensibile (con buona pace dei diritti, che
esso protegge). E’ il segno di mentalità in cambiamento: si registri però che il nostro vecchio
giudice francese tirava ai dadi, non vendeva la vittoria nella causa a questa o quella parte: la
polemica di Rabelais rivela in fondo un perdurante atteggiamento di fiducia nel servizio
offerto dalla giustizia, nell’eticità dei suoi attori, parla di una società che vede cambiare le sue
mentalità, ma non è corrosa dalla corruzione e dalla sfiducia.
Istituzioni di diritto pubblico AO 2013-2014 – Prof.ssa Silvia Niccolai
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Il primo tentativo di abbattimento, ad un tempo, del ceto giudiziario e dei limiti del sindacato
giudiziario sull’attività legislativa reale risale al 1667, con il Code Louis. Con esso, Luigi XIV
cercò di convincere il Parlamento ad approvare una raccolta di leggi, destinata, nell’ambizione
del sovrano, a prendere il posto di tutte le “ordinanze, consuetudini, leggi, regolamenti, stili o
usi differenti contrari alle disposizioni in esso contenute”. Era la chiara rivendicazione nel
sovrano del ruolo di esclusiva fonte del diritto.
Essere “sovrano” significava ormai porre il diritto (affermando l’equazione per cui il diritto è la
voluntas principis) e il principio che si tentava di affermare era che “un principe non ha bisogno
dell’antichità per comporre le leggi del suo stato”. Veniva allo scoperto il cuore del disegno
assolutista: sciogliersi dai vincoli del passato e dare alla società un ordine (sempre) nuovo, un
ordine modificabile a seconda della ragion di stato, dell’interesse pubblico, della convenienza
politica. Insieme alla riforma del diritto vigente il Code Louis sanciva anche la soggezione dei
giudici alla legge, definendola come dovere di obbedienza al principe sovrano. La nuova
concezione della sovranità richiedeva al tempo stesso sia di accentrare nel sovrano (poi nello
Stato) la produzione del diritto, sia la “subordinazione” della magistratura alla “legge”.
Il potente ceto dei giudici francesi dell’epoca riuscì a “metabolizzare” questa riforma che
attentava alle loro prerogative e nella quale essi vedevano una aggressione dispotica alle
tradizioni della “nazione”, del cui diritto millenario essi si sentivano i rappresentanti e i
garanti, ma il Code Louis fu il segnale di come la nuova concezione della sovranità richiedesse
di accentrare nel Sovrano la produzione del diritto. Sarà la Rivoluzione francese, e poi
Napoleone, a portare a termine questo processo, che ebbe altre manifestazioni, l’ultima delle
quali coincise con l’avvio della Rivoluzione.
Intorno al 1780 i ministri del re predisposero una riforma, originata a sua volta da esigenze
fiscali, che intendeva erodere le immunità fiscali dei nobili e, per farlo, voleva prima togliere ai
parlamenti il controllo sugli editti reali (posto che i parlamenti, in quanto espressione del ceto
nobiliare, mai avrebbero fatto passare quella riforma: la difesa dei diritti del paese, di cui essi
si dicevano orgogliosi tutori, era confusa e incrostata con la difesa dei privilegi di corpo). La
riforma, poi ritirata, provocò agitazioni fortissime: quelle da cui sorse la richiesta della
convocazione degli stati generali del 1789 "per lottare contro il dispotismo dei ministri e
porre fine alle depredazioni finanziarie" e affinché tornassero ad essere gli stati generali a
votare le imposte e gli stati provinciali a gestire l'amministrazione locale".
Istituzioni di diritto pubblico AO 2013-2014 – Prof.ssa Silvia Niccolai
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I primi atti di ciò che avrebbe portato alla Rivoluzione iniziarono come un desiderio di
restaurazione dell'ordine antico23.
B. Il tornante rivoluzionario e l'età napoleonica
"Lo stato nuovo facendo della cura degli interessi generali il suo obiettivo essenziale e la sua ragion d'essere,
l'amministrazione vi trova la sua piena legittimazione di funzione primaria".
(L. Mannori e B. Sordi, Storia del diritto amministrativo, p.284)
1.La stagione in cui si scrive la grammatica del potere pubblico nell’età contemporanea, e dei suoi problemi
Con la Rivoluzione francese e l’Impero napoleonico la traiettoria, avviata con l’assolutismo, di
annientamento dell’ordine antico raggiunge il suo culmine, e delinea una visione compiuta
dello Stato, della sua organizzazione e delle sue finalità. Questa stagione rappresenta ancora il
riferimento del diritto pubblico attuale, cui ha fornito le idee, le categorie, i modelli, così come
i problemi e le preoccupazioni, e probabilmente alcuni limiti caratteristici.
La grande domanda che la Rivoluzione ci apre potrebbe essere così sintetizzata, sebbene un
po’ provocatoriamente: “Siamo diventati tutti liberi dai privilegi della feudalità, o tutti soggetti
a un nuovo sovrano, potente quanto mai prima?”.
23 “Il fenomeno rivoluzione è senza passato, non ha precedenti nella storia moderna. Quando per la prima volta
nel secolo diciassettesimo questa parola viene usata in senso politico, essa, ancora con riferimento all’ordine
astronomico [dove rivoluzione indica il moto di rotazione degli astri], ha piuttosto il significato di restaurazione,
di ritorno alla regola e all’antico (restaurazione della monarchia inglese dopo la dittatura di Cromwell). Nello
stesso modo le due rivoluzioni del diciottesimo secolo furono all’inizio intese come restaurazioni ‘dell’antico
ordine di cose’ contro il dispotismo della monarchia assoluta (in Francia) e i soprusi del governo coloniale (in
America). Così in America Franklin poteva dire di non aver ‘mai sentito nessuno affermare il desiderio di
separarsi dall’Inghilterra’ e Tocqueville scrivere che in Francia, lungi dall’abbattere, all’inizio si voleva restaurare
l’Ancien régime, mentre Tom Paine proponeva addirittura di chiamare sia la francese che l’americana ‘contro-
rivoluzioni’” (R. Zorzi, Nota su Hannah Arendt, in H. Arendt, Sulla Rivoluzione, 1963, trad. it. 1983, Edizioni di
Comunità, Milano, p. XLIV). Tocqueville formula l’ipotesi che gli eventi che segnano lo scaturire della Rivoluzione,
e cioè la difesa dell’ordine antico e delle prorogative dei Parlamenti, segnassero un risveglio dell’”amore dei
Francesi per le libertà politiche”. Che però si risvegliava troppo tardi: quando essi “avevano già concepito in
materia di governo un certo numero di nozioni che non soltanto non si conciliavano facilmente con l’esistenza di
istituzioni libere, ma a queste erano quasi contrarie” (L’Antico Regime, cit., p. 214).
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2.Le costituzioni rivoluzionarie: i contenuti
Considerando nel loro insieme le Costituzioni rivoluzionarie, alcuni elementi di continuità
risaltano con evidenza, e sono essi a comporre la grammatica nuova del potere:
1. L’abbattimento della società cetuale, con l’affermazione della eguaglianza di status, o
eguaglianza giuridica dei cittadini e la titolarità in ogni uomo di alcuni diritti naturali che
ne proteggono la sfera privata e che lo tutelano nei rapporti con le autorità pubbliche, con lo
Stato. “L’Assemblea Nazionale, volendo stabilire la Costituzione francese sui principi che essa ha
riconosciuto e dichiarato, abolisce irrevocabilmente le istituzioni che ferivano la libertà e
l’eguaglianza dei diritti24. Non vi è più nobiltà, né paria, né distinzioni ereditarie, né distinzione
di ordini, né regime feudale, né giustizie patrimoniali. Né alcuno dei titoli, denominazioni o
prerogative che ne derivavano, né alcun ordine di cavalierato, né alcuna delle corporazioni o
decorazioni, per le quali si esigevano prove di nobiltà, o che presupponevano distinzioni di
nascita, né alcuna altra superiorità se non quella dei funzionari pubblici nell’esercizio delle loro
funzioni. Non vi è più né venalità, né ereditarietà di alcun ufficio pubblico. Non vi sono più
giurande, né corporazioni di professioni, arti e mestieri. La legge non riconosce più né voti
religiosi, né alcun altro impegno che sia contrario ai diritti naturali, o alla Costituzione”.
(Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del Cittadino, 1789).
2. L’affermazione che la sovranità spetta non al sovrano né allo stato ma alla Nazione,
intesa come universalità dei cittadini, che, tramite meccanismi elettivi di tipo rappresentativo,
danno vita al potere legislativo: “La sovranità è una, indivisibile, inalienabile, imprescrittibile.
Essa appartiene al popolo, nessuna frazione di popolo, né alcun individuo può attribuirsene
l’esercizio”. (Cost. del 1791, titolo III, art. 1)
3. La superiorità della legge, intesa come espressione della volontà generale, su ogni altro
atto, e dunque come volontà nella quale la sovranità della Nazione si esprime. La legge è
l’espressione libera e solenne della volontà generale. Essa è la stessa per tutti, sia che protegga,
sia che punisca (Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino).
4. La subordinazione alla legge sia della amministrazione che della giurisdizione e la
contemporanea affermazione del principio di separazione dei poteri: Gli amministratori
24 Il messaggio è chiaro: di tutte le colpe è responsabile la nobiltà.
Istituzioni di diritto pubblico AO 2013-2014 – Prof.ssa Silvia Niccolai
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non possono né ingerirsi nell’esercizio del potere legislativo, o sospendere l’esecuzione delle
leggi, né compiere alcun atto sull’ordine giudiziario, né sulle disposizioni od operazioni militari
(Cost. 1791, art. 3 cap. 4); I tribunali non possono né ingerirsi nell’esercizio del Potere
legislativo, o sospendere l’esecuzione delle leggi, né compiere atti sulle funzioni amministrative,
o citare davanti a loro gli amministratori in relazione delle relative funzioni (1791, cap. V, art.
3)
5. La ristrutturazione dei territori secondo una divisione uniforme. Il Regno è uno e
indivisibile; il suo territorio è diviso in ottantatré dipartimenti, ogni dipartimento in distretti,
ogni distretto in cantoni. Vi è in ogni dipartimento una amministrazione superiore, e in ogni
distretto una amministrazione inferiore (costituzione del 1791, titolo II, art. 1).
5. L’elenco di una serie di diritti imprescrittibili, inalienabili, fondamentali dell’Uomo e
del Cittadino. Come torneremo più avanti a osservare, questo elenco di diritti serve a limitare
la legge, che di essi non può disporre; al tempo stesso, è la legge che è incaricata di porli in
essere e regolarli.
Nel testo di seguito, che riproduce parte della Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del
Cittadino del 1789, documento-simbolo della Rivoluzione, e ancora oggi parte del patrimonio
costituzionale francese, evidenzio questi diritti in neretto scrivendo anche la definizione che si
usa normalmente per riferirsi ad essi:
Articolo 1
Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune.
Articolo 2
Il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, la
proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione.
Articolo 4
La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri: così l’esercizio dei diritti naturali di ciascun uomo ha come
limiti solo quelli che assicurano agli altri membri della società il godimento di questi stessi diritti. Questi limiti possono essere
determinati solo dalla Legge.
Articolo 7
Nessun uomo può essere accusato, arrestato o detenuto se non nei casi determinati dalla Legge, e secondo le forme da essa
prescritte. Quelli che procurano, spediscono, eseguono o fanno eseguire degli ordini arbitrari, devono essere puniti; ma ogni
cittadino citato o tratto in arresto, in virtù della Legge, deve obbedire immediatamente; opponendo resistenza si rende
colpevole. (LIBERTA’ PERSONALE – HABEAS CORPUS)
Articolo 8
La Legge deve stabilire solo le pene strettamente ed evidentemente necessarie e nessuno può essere punito se non in virtù di
Istituzioni di diritto pubblico AO 2013-2014 – Prof.ssa Silvia Niccolai
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una legge stabilita e promulgata anteriormente al delitto e legalmente applicata. (PRINCIPIO DI LEGALITA’ DELLE PENE E DEI
REATI E PRINCIPIO DI IRRETROATTIVITA’ DELLA LEGGE PENALE)
Articolo 9
Presumendosi innocente ogni uomo sino a quando non sia stato dichiarato colpevole, se si ritiene indispensabile arrestarlo,
ogni rigore non necessario per assicurarsi della sua persona deve essere severamente represso dalla Legge.
(PRESUNZIONE DI INNOCENZA E DIVIETO DI DISUMANITA’ DELLE PENE)
Articolo 10
Nessuno deve essere molestato per le sue opinioni, anche religiose, purché la manifestazione di esse non turbi l’ordine
pubblico stabilito dalla Legge. (LIBERTA’ RELIGIOSA)
Articolo 11
La libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo; ogni cittadino può dunque
parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo a rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla Legge.
(LIBERTA’ DI MANIFESTAZIONE DEL PENSIERO)
Articolo 16
Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha Costituzione.
Articolo 17
La proprietà essendo un diritto inviolabile e sacro, nessuno può esserne privato, salvo quando la necessità pubblica,
legalmente constatata, lo esiga in maniera evidente, e previa una giusta indennità. (DIRITTO DI PROPRIETA’)
Ora esamineremo questi contenuti di fondo delle Costituzioni rivoluzionarie cercando di
approfondirne il significato e cogliere le connessioni tra essi, muovendo dal loro perno:
l’eguaglianza.
Uguaglianza giuridica
A costo di inenarrabili e spaventose violenze, che ne fanno una delle pagine più sanguinose
della storia del genere umano, la Rivoluzione francese realizza dunque ciò che l’assolutismo
non era riuscito a compiere, l’abolizione dei ceti e l’affermazione della eguaglianza:
a) come eguaglianza ‘naturale’ degli uomini nei diritti, e
b) come eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge.
Rileggiamo l’importante disposizione della Dichiarazione dell’89:
Tutti gli uomini sono eguali per natura e davanti alla legge. La legge è l’espressione libera e solenne della
volontà generale. Essa è la stessa per tutti, sia che protegga, sia che punisca
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Soffermiamoci ora sulla eguaglianza davanti alla legge.
Essa fu realizzata mediante la abolizione dei ceti, che a sua volta fu il primo atto della Rivoluzione:
L’Assemblea nazionale costituente – che era l’organo in cui, inizialmente col nome di Assemblea
Nazionale, i deputati del Terzo Stato trasformarono l’Assemblea degli Stati generali - si considerò
rappresentativa del popolo e non dei ceti, con ciò realizzando ipso facto la rottura dell’ordine antico.
L’abolizione della feudalità e dei privilegi fu poi deliberata, nei disordini violentissimi del periodo della
Grande Paura, tra la ribellione della nobiltà in armi e il popolo che dava l’assalto ai castelli feudali, il 4
agosto 1789. La Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino fu approvata il successivo 26 agosto.
Fu un fatto di conseguenze immense, sul piano economico, giuridico, politico e sociale,
destinato a influenzare fino a oggi persino la psicologia sociale.
All’abolizione dei ceti conseguì infatti il travolgimento delle due fondamentali assi socio-
economiche che i ceti significavano: la non-commerciabilità delle terre nobiliari ed
ecclesiastiche, e la non-commerciabilità del lavoro, nonché il travolgimento di tutte quelle
strutture pubbliche che, in quanto esercitate sulla base di uffici ereditari, il potere dei ceti
riflettevano, e in particolare quelle relative alla giustizia, destinata a tramutarsi in un corpo di
funzionari statali.
L’abolizione dei ceti realizza, si può dire, la definitiva creazione dello stato, e ispira di sé tutta
la concezione rivoluzionaria degli istituti pubblici. Nel modo in cui le Costituzioni
rivoluzionarie li disegnano, la preoccupazione centrale dell’abbattimento dei ceti si ripropone
in ogni momento. L’insistenza sull’indivisibilità e unità della Nazione, sul fatto che nessun
corpo e nessun individuo, può ‘arrogarsela’ va in questa direzione: Ogni individuo che usurpa la
sovranità, sarà all’istante messo a morte dagli uomini liberi, proclama la Dichiarazione dei diritti
dell’uomo e del cittadino 1791.
All’abbattimento dei ceti corrisponde la nascita della cittadinanza. A come la si acquista, a
come la si perde, sono dedicate norme che sono costituzionali perché l’idea stessa di
cittadinanza è costitutiva della nuova concezione della sovranità che con la Rivoluzione si
modella definitivamente. La cittadinanza è lo status che tutti condividono, l’insieme di diritti e
obblighi di cui tutti sono titolari in quanto appartenenti allo stato, in un universo dove sono
venuti meno gli status particolari.
Frutto dell’abbattimento dei ceti è anche la riorganizzazione del territorio. Questa, che dei
territori annulla la storia particolare, è resa possibile dall’abbattimento dei centri di
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autogoverno esistenti nell’antico regime. Il territorio allora può essere ridefinito secondo
ambiti uniformi diretti da strutture amministrative, in grado di ripartirvi la volontà che
promana dal centro.
“Sarà fatta una nuova divisione del Regno in dipartimenti (…); ogni dipartimento sarà diviso in
distretti (…) ogni distretto sarà diviso in cantoni” recitava già un decreto del 1789, poi recepito nella
costituzione del 1791. Il dipartimento diventava l’unità stereotipa e uniforme di descrizione del
territorio, lo strumento per evitare la ricostituzione di potenti istituzioni locali, un’arma contro la
risorgenza di poteri signorili e locali. La consacrazione dell’unità amministrativa era consacrazione
dell’unità dello stato: “Lo Stato è uno, i dipartimenti non sono che sezioni di un medesimo tutto,
un’amministrazione comune deve dunque abbracciarli in un regime comune”, proclamavano le Istruzioni
per la formazione delle assemblee rappresentative e dei corpi amministrativi dell’8 gennaio 1790. Lo
stesso decreto prevede che “ci sarà una municipalità in ogni città, borgo, parrocchia o comunità rurale”
ma i contenuti dei compiti delle municipalità, delle comunità locali, sono stabiliti dalla legge.
Da quel momento, ciò che è locale non dipense più da forme di autonomia corporativa, ma fu definito
dalla volontà generale: organizzazione, funzioni, compiti dei corpi locali sono integralmente
disciplinati dal legislatore nazionale25.
Problematizzando l’eguaglianza: le complesse valenze di un grande principio
L’uguaglianza di status che derivò dall’abolizione di ceti rende possibile l’ uguaglianza di
fronte alla legge, perché significa che non esiste più alcuna persona che, in nome di diritti che
le vengono dal suo ceto, possa essere immune dall’applicazione della legge.
Bisogna dire subito che uguaglianza di fronte alla legge non significa anche uguaglianza nel
trattamento che la legge stabilisce. Significa che la legge vale per tutti, ma non impone alla
legge di trattare tutti allo stesso modo.
Se tutti siamo soggetti alla legge, infatti, questo vuol dire che la legge, per ciascuno di noi,
stabilisce diritti doveri ecc.; ma non che deve stabilirli uguali per tutti.
Dal punto di vista dei rivoluzionari francesi, quello che era importante affermare era che
nessuno aveva diritto per nascita a qualcosa. Nelle Costituzioni rivoluzionarie ricorrono
affermazioni di questo genere: “Tutti i cittadini essendo uguali ai suoi occhi (della legge), sono
25 Cfr. L. Mannori e B. Sordi, op. cit., p. 207.
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egualmente ammessi a tutte le dignità, posizioni e impieghi pubblici, secondo la loro capacità,
e senza altre distinzioni che quelle della loro virtù e dei loro talenti” (Dichiarazione dei diritti
dell’uomo e del cittadino, 1791). “Le funzioni pubbliche non possono diventare la proprietà di
quelli che le esercitano” (1795). “L’eguaglianza consiste nel fatto che la legge è uguale per
tutti, sia che protegga sia che punisca. L’eguaglianza non ammette alcuna distinzione di
nascita, alcuna ereditarietà di poteri” (1795).
Il dente batteva sull’abbattimento dei privilegi. L’uguaglianza di fronte alla legge voleva dire:
anche i potenti di ieri oggi sono come gli altri soggetti alla legge.
L’uguaglianza davanti alla legge non contiene però anche un diritto alla legge eguale, un
diritto al pari trattamento; che sarebbe anche irrazionale e persino ingiusto, in certi casi. Se io
metto la stessa tassa sul ricco e sul povero sto praticando l’uguaglianza davanti alla legge e
applicando una legge eguale, ma commetto un’ingiustizia. Inoltre è una necessità spesso
evidente sul piano logico quella che la legge debba fare differenziazioni: se istituisco una
scuola e ci voglio mettere degli insegnanti, è logico che ammetta al concorso solo chi ha le
qualificazioni necessarie.
Soffermiamoci allora a considerare che, nel suo nocciolo, uguaglianza di fronte alla legge vuol
dire soggezione di tutti alla legge, fermo restando che la legge poi può, tra questi tutti, regolare
il gruppo x in un modo e i soggetti y in un altro: il fatto che x e y siano soggetti alla legge non è
contraddetto dal fatto che poi la legge preveda per x un certo trattamento e per y un altro.
Come fare a rendere la legge non solo ‘eguale per tutti’ ma anche ‘giusta’, e cioè, che non fa
differenziazioni arbitrarie, che eguaglia ciò che va eguagliato e differenzia ciò che merita di
essere differenziato è un problema che, da quando esiste l’uguaglianza di fronte alla legge si è
sempre posto, e si può provare a tentare di risolverlo, per esempio, accompagnando la
formulazione dell’eguaglianza di fronte alla legge con il divieto di discriminazioni o distinzioni
arbitrarie, come fa la nostra Costituzione. Oppure ammonendo la legge che in certi casi deve
tener presenti certi criteri, che ne limitano la discrezionalità, come quando la nostra
Costituzione dice che il sistema tributario è improntato a criteri di progressività, cioè che le
tasse dovrebbero crescere più che proporzionalmente al crescere del reddito; o che anche chi
è privo di mezzi ha diritto di studiare.
Questi pochi cenni, valgano a dire che quello della legge eguale e che non fa ingiuste
differenziazioni (o ingiuste omologazioni) è un problema grande, e sul quale ritorneremo via
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via vedendo come è stato affrontato nel cambiare dei tempi e delle mentalità che presiedono
alle istituzioni. Ora è importante prendere contatto con questo aspetto: la garanzia di essere
trattati allo stesso modo, di non subire discriminazioni da parte della legge (cioè il significato
che tendiamo ad associare all’uguaglianza davanti alla legge), in realtà non è esattamente
quello che quel principio, strettamente inteso come tale, significa. Nella sua essenza, esso
invece significa che nessuno ha il potere di sottrarsi all’osservanza della legge, che tutti, cioè,
come del resto la formulazione del principio dice, le sono appunto soggetti.
Questo significa che il principio di eguaglianza davanti alla legge sancisce non tanto il diritto
dei cittadini a un trattamento eguale, ma l’”onnipotenza” del legislatore, il potere del
legislatore di dettare norme dalla cui osservanza nessuno si può sottrarre.
Infatti l’affermazione dell’eguaglianza davanti alla legge ha coinciso con una precisa esigenza
del potere pubblico statuale, e nella quale l’assolutismo si era impegnato, ma aveva fallito, cioè
l’esigenza di affermare che la volontà del sovrano è legge per tutti, si impone a tutti, nessuno
può sottrarsi dall’obbedirla; obiettivo che non poteva essere raggiunto fintantoché le
differenze di ceto facevano ostacolo alla universale applicabilità della legge.
“A meno di un anno dall’inizio della Rivoluzione Mirabeau scriveva segretamente al Re:
‘Paragonate il nuovo stato di cose con l’antico regime … Non conta dunque per nulla esser
senza parlamenti, senza paesi di Stato, senza corpi di clero, di privilegiati, di nobili? L’idea
di formare un’unica classe di cittadini sarebbe piaciuta a Richelieu: tale superficie tutta
eguale facilita l’esercizio del potere’26.”
Uguaglianza di tutti davanti alla legge, onnipotenza del legislatore
La volontà del sovrano è legge per tutti, in effetti, solo dove c’è il principio di uguaglianza
giuridica, uguaglianza davanti alla legge. L’uguaglianza di fronte alla legge è la contro-faccia
della sovranità della legge. Se non valesse per tutti, come farebbe a essere la legge sovrana? Il
principio di uguaglianza giuridica o davanti alla legge esprime perciò non solo una garanzia
che noi abbiamo nei confronti della legge, ma anche la consacrazione il potere sconfinato che
la legge rivendica su di noi, su tutti gli appartenenti alla società, il fatto che non esiste alcuno
schermo che si frapponga tra un membro della società e la volontà che la governa.
26 L’Antico Regime, cit.
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Abbiamo ottenuta l’eguaglianza per essere tutti egualmente schiavi? Si chiese Tocqueville, e
con lui se lo sarebbe chiesto e si chiede una schiera di pensatori che sono venuti dopo.
Il problema dei diritti e il tema della legalità del potere
Molti infatti hanno notato che, per come lo concepì la Rivoluzione francese, l’eguaglianza
instaura un grande vuoto tra autorità pubblica e individuo: nella relazione tra potere e
cittadino non si frappongono più – almeno nel disegno rivoluzionario – i poteri intermedi che
un tempo facevano da cuscinetto e da argine. Se i nobili francesi non possono più (come
faranno ancora i principi romani fino al 1870) chiudere con una catena il portone del proprio
palazzo, inviolabile per plurisecolari tradizioni da ogni altra autorità, nessuno può nemmeno
più sfuggire ai gendarmi semplicemente salendo sui gradini di una Chiesa: non vi è spazio
immune dal potere pubblico.
Non a caso, e proprio a partire dalle dichiarazioni rivoluzionarie, la proclamazione
dell’eguaglianza giuridica si accompagna alla affermazione di una serie di diritti ‘naturali e
imprescrittibili’ dell’essere umano27: nel momento in cui si pone la sovranità della legge e si
sente il bisogno di porle dei limiti.
Con la Rivoluzione nascono le Costituzioni, e con questa parola si intende un atto formale
superiore alla legge che sancisca la forma di stato e di governo e i diritti e le libertà dei
cittadini che sono tali anche davanti alla legge (non si intende più così, per costituzione,
genericamente l’assetto che caratterizza un certo ordinamento in un certo tempo, che è il
senso in cui abbiamo parlato di ‘costituzione antica’ per definire l’ordine medievale: non c’era
un atto costituzionale a definirlo, ma un certo assetto, un ordine dei poteri, una concezione
delle libertà c’erano, c’era una costituzione in questo senso, come ordinamento che vige e ha
certi caratteri, ma c’era non un documento costituzionale).
Sancendo il nuovo potere, che si incentra sulla illimitatezza e sull’onnipotenza della legge, si
disse dunque, anche, che però quel potere è posto dal popolo e deve rispettare qualche diritto
di cui non può disporre, proprio perché è sancito nella Costituzione, atto superiore alla legge.
27 Il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo. Questi
diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione (Dichiarazione dei diritti dell’uomo
e del cittadino). Il Governo è istituito per garantire all’uomo il godimento dei suoi diritti naturali e
imprescrittibili (1793)
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La moderna giustificazione del potere: la legalità
Era l’avvio del tempo in cui la legalità diviene la legittimazione del potere: che cosa giustifica,
legittima, l’onnipotenza della legge? Il fatto che rispetta la Costituzione, che rispetta un’altra
legge. Il potere è legittimo perché è legale.
La Rivoluzione, in cui le Costituzioni si succedettero a un ritmo rutilante ad ogni cambio nel
gruppo che conquistava il potere, e che stracciava tanto per cominciare la precedente
Costituzione, non fu un buon esempio per provare l’efficacia di questo meccanismo sotto il
profilo della sua capacità di limitare effettivamente il potere. Esso però è rimasto
caratteristico della contemporanea concezione del potere pubblico, il quale, come veniamo
dicendo, deve essere legale per essere legittimo, può creare il diritto con le leggi ma deve anche
rispettare un diritto superiore posto da una legge superiore (la Costituzione). Molto più in là
non siamo andati.
Il rischio di questo meccanismo è il legalismo e il formalismo. Se mi accontento che il potere
agisca secondo regole, vado incontro al rischio che quelle regole siano però arbitrarie
(legalismo: accontentarsi che il potere agisca secondo regole, senza discutere della
opportunità di queste ultime). Oppure vado incontro al rischio che le regole, che disciplinano
il potere, cambiano in modi ad esso convenienti: il potere rimane ‘legale’ ma si uniforma a
‘regole’ che non lo limitano affatto, ma dal punto di vista delle forme è tutto regolare
(formalismo).
L’idea di limitare il potere della legge tramite una legge superiore si collegò alle idee che
venivano da un altro grande fronte che, nell’epoca che stiamo studiando, sviluppò dottrine e
interpretazioni filosofiche che, sotto il fascino e lo sconvolgimento derivante dall’enormità
delle trasformazioni che il potere pubblico veniva conoscendo tra il ‘500 e il ‘700, si
interrogavano su cosa lo rendeva legittimo, su come giustificarlo, e su come limitarlo. Questo
fronte è rappresentato dalla teoria dei diritti naturali, rievocata anche nella Dichiarazione
dell’89 (“tutti gli uomini nascono liberi e uguali nei diritti”). Questa teoria sostiene appunto
che per natura ogni essere umano ha diritti, ed anzi è uguale nei diritti, e che questi diritti il
potere non può sottrarli, e, se lo fa, significa che è un potere illegittimo, davanti al quale,
teorizzarono alcuni, è legittima la resistenza.
Le teorie del diritto naturale arricchiscono l’uguaglianza: se al potere, dell’eguaglianza,
interessa soprattutto che rende tutti uguali davanti (o sotto) di lui, i filosofi reclamano che c’è
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una eguaglianza anche in un altro senso, una eguaglianza nei diritti: da che sorge l’idea che
tendenzialmente la legge uguale per tutti debba anche trattare tutti allo stesso modo. I diritti
‘naturali’ sono un primo argine all’arbitrio della legge perché tendono a vincolarla alla
eguaglianza di trattamento. Questo ci spiega come mai l’uguaglianza davanti alla legge tende
ad associarsi, nel senso comune, e anche negli sforzi pratici, al diritto al pari trattamento: già
nelle formulazioni rivoluzionarie riecheggiava anche questa concezione, risalente alle dottrine
del diritto naturale.
Riassumendo: secondo le teorie del diritto naturale, il sovrano legislatore era limitato al
rispetto di un nucleo fondamentale di diritti spettanti a ciascun uomo di cui uno
fondamentalissimo era il diritto all’eguaglianza di trattamento. E il modo in cui la Rivoluzione
pensò di limitare il potere era di scrivere solenni Costituzioni in cui si riconoscevano i diritti
naturali, o comunque un novero di diritti che la legge non poteva scalfire.
Questo ci permette allora di renderci conto di una cosa non priva di importanza. Vale a dire
che: il modo in cui si pensa di limitare il potere nell’epoca moderna e contemporanea è lo
specchio di come il potere è, nel frattempo, diventato. Un medesimo ordine di idee, medesime
mentalità, uno stesso immaginario pervadono sia chi crea il potere sia chi si preoccupa di esso.
Il nuovo potere come era? Era legislativo, si esprimeva in norme generali, comandi universali,
scritti, creando il diritto. Anche le Costituzioni, che quel potere dovevano limitare, erano, e
sono: leggi, generali, universali, scritte e pongono diritto. La mentalità volontarista pervade le
espressioni del potere e il modo in cui si immaginano i nuovi rimedi. Sarà forse per il fatto di
avere condiviso questa uniformità di vedute che poi i contropoteri immaginati sono sempre
stati così deboli? Nella storia, come nelle favole, certe volte si istituisce un cerchio magico: gli
attori agiscono diversamente, ma a muoverli è lo stesso incantesimo, sono tutti iscritti nello
stesso cerchio che definisce ciò che si può dire, pensare, immaginare.
La stessa nozione di diritto naturale, che si sviluppa in questo torno di tempo, come limite al
nuovo potere, usa una espressione (diritto naturale) nota sin dall’antichità ma la reinterpreta
alla luce delle nuove mentalità.
Anche i giuristi romani antichi, e quelli medievali del diritto comune conoscevano
l’espressione diritto naturale, che era anzi un perno del loro pensiero. Ma per diritto naturale
intendevano: il trattamento che si può pervenire a considerare giusto dare a qualcosa o a
qualcuno dopo una accurata indagine della sua natura. Diritto naturale, nella loro mentalità,
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significava ‘la natura della cosa’, che era oggetto dell’indagine del giurista. Rispettare il diritto
naturale significava impegnarsi a rispettare la natura della cosa, dunque a capirla, ricercarla.
La nozione antica di diritto naturale rimanda alla mentalità controversiale e dialettica propria
di un diritto senza legislatori, in cui il diritto è pensato come ricerca della norma appropriata,
che richiede interpretazione sia del materiale normativo o giurisprudenziale precedente, sia
accurata conoscenza del caso, sia confronto con le opinioni di altri giuristi.
La nozione moderna di diritto naturale è imperniata sull’idea che accanto al legislatore concreto
ci sia un altro legislatore: la Natura, la Ragione, che, come il legislatore concreto, dettano leggi,
che devono essere chiare, universali, incontrovertibili, dalle quali si può dedurre in modo
rigoroso la necessità di ritenere che a ogni uomo spettano certi diritti. Così come il diritto
positivo, quello posto dallo stato, aveva la sua fonte nella legge e da essa lo si poteva dedurre
per applicarlo ai casi concreti, anche i filosofi del diritto naturale pensavano che con
l’osservazione razionale e scientifica si potevano individuare, appunto nella Natura o nella
Ragione, le fonti dei diritti naturali.
Come vedremo, le cose diventarono presto dure per le teorie del diritto naturale. Il
convincimento che l’unico diritto che esiste è quello posto dal legislatore avrebbe presto
trionfato. Oggi, chi si appella al diritto naturale viene coperto di ridicolo.
Ma il fatto sul quale dobbiamo ben riflettere è che, quando si trovarono di fronte a un
potere che era in grado di imporsi ugualmente a tutti perché aveva spazzato via i corpi
intermedi e i contropoteri, gli uomini settecenteschi avrebbero potuto pensare: “benissimo,
lo teniamo. Da da secoli si sa che “il comando è giudizio”, è valido se corrisponde al diritto,
ossia se è coerente con la natura della cosa. Vedremo se queste nuove leggi lo sono”.
Ma essi non pensarono di allearsi con la lunga tradizione del pensiero giuridico, allenata a
ricercare l’adeguatezza del comando, la sua giusta proporzione. Pensavano, e certo non del
tutto a torto, che a ragionare così si rischia l’arbitrio, e comunque questi erano i
ragionamenti con cui gli odiatissimi giudici nobiliari avevano posto nel nulla i comandi del
Sovrano. Era un modo di ragionare, una intera visione del mondo e della società che
tramontava insieme all’ordine antico, veniva ricacciato con esso tra i ferri vecchi: dai
giudici tutto si voleva, meno che si mettessero a discutere sulla adeguatezza dei comandi,
perché quello che premeva era che quei comandi raggiungessero i loro obiettivi.
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Bastava, si pensava, essere sicuri che a quei comandi presiedesse la Ragione, e alla fine, il
diritto della legge e quello naturale non avrebbero potuto che andare naturalmente a
coincidenza.
Razionalismo
Era questa l’utopia del Razionalismo, che fa con la Rivoluzione francese il suo trionfale
ingresso nella storia politica e giuridica europea, contribuendo a plasmare il modo stesso in
cui vengono percepiti i problemi e i fini della vita sociale. Questa mentalità si radicava nel
cartesianesimo, e aveva germinato nel pensiero dei filosofi illuministi, e dei fisiocrati, negli
ultimi decenni dell’Antico Regime.
L ’onnipotenza della legge, perno della Rivoluzione, corrisponde ai desiderata di un
pensiero razionalista, quale è quello illuminista e dei pensatori del diritto naturale, perché
è lo strumento che rende possibile fare ciò che allora appariva impellente: regolare la vita
sociale con poche e semplici regole di tipo geometrico per rompere col passato e disegnare
il futuro. L’epoca che studiamo è dominata dall’idea che riforme ben congegnate e calate
dall’alto potessero cambiare le cose dall’oggi al domani e per definizione in meglio.
Anche l’uguaglianza di fronte alla legge è idea intrisa di razionalismo, perché ‘generalizza’
tutti gli uomini in un tipo astratto e fungibile; pensare che il diritto debba essere composto
da regole generali e eguali per tutti è razionalistico, perché esprime disinteresse verso il
‘particolare’, che era invece il punto su cui si concentrava il pensiero antico e in specie
quello aristotelico, che aveva alimentato la cultura dell’età di mezzo28.
In un celebre passo dell’Etica a Nicomaco si legge:
In ogni cosa, dunque, che sia continua, cioè divisibile, è possibile prendere il più, il
meno e l’uguale, e questo sia secondo la cosa stessa sia in rapporto a noi: l’uguale è
qualcosa di mezzo tra eccesso e difetto. Chiamo, poi, mezzo della cosa ciò che è
equidistante da ciascuno degli estremi, e ciò è uno e identico per tutti; e mezzo
rispetto a noi ciò che non è né in eccesso né in difetto: ma questo non è uno né
identico per tutti. Per esempio, se dieci è tanto e due è poco, come mezzo secondo la
cosa si prende sei, giacché esso supera ed è superato in uguale misura. E questo è un
mezzo secondo la proporzione aritmetica. Invece, il mezzo in rapporto a noi non deve
essere preso in questo modo: infatti, se per un individuo dieci mine di cibo sono
28 G. Gorla, Saggio su Tocqueville, Roma, 1948, p. 131.
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molto e due sono poco, non per questo il maestro di ginnastica prescriverà sei mine:
infatti, può darsi che anche questa quantità, per chi deve ingerirla, sia troppo
grande oppure troppo piccola: infatti per Milone41 sarebbe poco, per un
principiante di ginnastica sarebbe molto. Similmente nel caso della corsa e della
lotta. Così, dunque, ogni esperto evita l’eccesso e il difetto, ma cerca il mezzo e lo
preferisce, e non il mezzo in rapporto alla cosa ma il mezzo in rapporto a noi.
L’eguaglianza, dice Aristotele, si può intendere in due modi: come eguale rispetto ad altro, o
come uguale rispetto a se stesso. L’uguale rispetto ad altro (mezzo della cosa) è quello che è
misurabile: stabilito un termine di misura, per esempio di una linea lunga 10 cm, il mezzo è 5
e questo è sempre uguale per qualunque linea lunga 10 cm. Questo tipo di eguaglianza
richiede un termine di misura, o di paragone, e si realizza eguagliando i termini nuovi
all’unità di misura, o di paragone, che è stata adottata. Se io voglio sapere dove è il punto
medio di una trave di legno lunga 10 m questo punto sarà a 5 m e posso misurarlo con un
sottilissimo filo di seta: la differenza tra i materiali, legno e seta, che sto considerando, non ha
alcun rilievo. In questa concezione l’eguaglianza è un problema prettamente quantitativo e,
come tutti i ragionamenti quantitativi, può fregiarsi di una certa (pretesa) oggettività.
L’uguaglianza davanti alla legge prende molto di questa nozione: se la legge vale per te e per
me è uguale; meglio ancora se la stessa cosa che la legge dispone per te la dispone anche per
me. Per sapere se siamo trattati in modo uguale, ‘misuriamoci’ con la legge per vedere se dice
per te e per me la stessa cosa.
Dall’altra parte, nel discorso di Aristotele, c’è l’uguale rispetto a noi, l’eguale rispetto a sé (o il
mezzo in rapporto a noi), che non può essere conosciuto se non tenendo conto delle
peculiarità di quel certo soggetto, che di volta in volta è preso in considerazione. Si può ben
dire in generale che bere un litro d’acqua al giorno è una cosa buona, ma per uno che corre la
maratona tutti in giorni sarebbe troppo poco. Questo modo di intendere l’eguaglianza richiede
di domandarsi che cosa è proporzionato, congruo, appropriato rispetto alla situazione di volta
in volta considerata. In questa accezione, l’eguaglianza diviene un problema prettamente
qualitativo (perché va a verificare l’opportunità, l’adeguatezza, la congruità di certe scelte, e
dunque non può valutarle solo come tali, ma tenendo conto del contesto in cui sono immerse,
così come del tempo storico in cui se ne giudica), e, come tutti i ragionamenti qualitativi, ha
carattere valutativo. Richiede la ricerca sulla ‘natura della cosa’.
La nuova legge, questa straordinaria creatura che aveva il potere di valere per tutti, dava
garanzia di oggettività, di certezza. Davanti a leggi chiare e uguali non ci sarebbe stato bisogno
delle ricerche dei giuristi sulla ‘natura della cosa’, perché il legislatore era saggio e avrebbe da
solo previsto tutti i casi necessari; oppure, l’evidenza del contrasto col Diritto Naturale
sarebbe bastato a sconfiggere l’arbitrio. Tutto era bene che i giudici facessero, meno che
valutare la adeguatezza delle norme ai casi che regolavano, col che avrebbero solo intralciato
il Progresso della Ragione. Così le antiche mentalità furono messe nel dimenticatoio, e, come
dicevamo sopra, chi esercitava il potere e chi voleva limitarlo continuarono a girare nello
stesso cerchio ideale.
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Razionalista era, in particolare, la fisiocrazia era scuola di economisti che cominciò a
sostituirsi al mercantilismo nella seconda metà del ‘700. Secondo i fisiocrati, solo un
illuminato dispotismo29 capace di organizzare la vita sociale intorno a poche e chiare regole
avrebbe favorito il progresso e la ricchezza. Insieme all’illuminismo razionalista, la
fisiocrazia fornisce la Rivoluzione francese di quella convinzione, anche ingenua, che
gronda dalle Costituzioni rivoluzionarie: la convinzione che tutto l’assetto di una Nazione
possa essere cambiato da un giorno all’altro, che una riforma, sol perché in sé logica, poi
funzioni quando applicata a qualcosa di così complesso e vivo come la società. Nei loro
progetti, scrive Tocqueville “sopra la società vera, con la costituzione ancora tradizionale,
confusa e irregolare, con le leggi differenti e contraddittorie, i ranghi separati, le classi
immutabili, e i gravami diseguali, si elevava a poco a poco una società immaginaria, nella
quale tutto sembrava semplice e coordinato, eguale e giusto, conforme a Ragione” 30. Per
fare questo, ci voleva la legge e la soggezione di tutti alla legge.
Di fatto, lo sconvolgimento sanguinoso che la Rivoluzione significò, e i 25 e più anni di
sconquasso che determinò in tutta Europa, dimostrano da soli quanto di inaspettato, di
incontrollabile, di imprevedibile può scatenare l’applicazione alla società di una riforma
pensata a tavolino.
La separazione dei poteri
Il principio rivoluzionario di supremazia della legge significava dunque non solo e non tanto
che il potere è legittimato dal basso (dal popolo), ma esprimeva anche il fatto che la legge
prevale su tutto, e ad essa tutto si subordina. Il principio è alla radice della regola ‘moderna’
29 “Secondo i fisiocrati, lo Stato non deve solo comandare alla Nazione, ma foggiarla in un dato modo: tocca ad
esso formare lo spirito dei cittadini sopra un dato modello che si è proposto in anticipo; è suo dovere penetrarli
di certe idee e fornire al loro cuore i sentimenti che giudica necessari. In realtà i suoi diritti non hanno limiti e
quanto può fare non ha confini: non soltanto riforma gli uomini, ma li trasforma; forse dipenderebbe soltanto da
esso anche farne degli altri! “Lo Stato fa degli uomini tutto ciò che vuole” scrive Bodeau. Questa frase riassume
tutte le loro teorie. Questo immenso potere sociale immaginato dagli economisti non è soltanto più grande di tuti
quelli che essi hanno sotto gli occhi, ma ne differisce per l’origine e per il carattere. Non deriva direttamente da
Dio, non si riallaccia alla tradizione: è impersonale. Non si chiama più ‘il re’, ma ‘lo Stato’. Non è più l’eredità di
una famiglia, ma il prodotto e il rappresentante di tutti e deve far piegare il diritto di ognuno sotto la volontà di
tutti” (209)
30L’Antico Regime, cit., p. 193.
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secondo cui i poteri pubblici agiscono secondo una logica di divisione di competenze: la
divisione dei poteri.
E’ infatti nella chiave della superiorità della legge che la Rivoluzione afferma, anche qui in
polemica stridente con la concezione ‘mista’ dei poteri dell’ordine antico, la rigorosa
separazione. Il principio di separazione dei poteri concepito dalle costituzioni rivoluzionarie è
separazione tutta a garanzia della legge, e dell’amministrazione che ne porta a esecuzione i
voluti, perché vengono lasciate, e anzi si rafforzano, come vedremo, le autonomi e le immunità
della amministrazione davanti alla giurisdizione, mentre al giudice viene negato il potere di
chiedersi se la legge che deve applicare è ‘giusta’ rispetto al caso regolato.
Ha scritto Gino Gorla che con la divisione dei poteri inizia la decadenza del giudiziario. La
divisone dei poteri, ha scritto questo grande giurista italiano, “è pensata per garantire
l’indipendenza del potere esecutivo e specialmente di quello legislativo contro il potere
giudiziario”. Quest’ultimo, nell’età di mezzo, era l’unico che di indipendenza già godeva, anzi
‘invadeva’ il campo ‘altrui’ amministrando e facendo leggi. La divisione dei poteri pone ad esso
un freno, che lo farà per sempre tramontare dal rango di potere ‘politico’ che aveva esercitato
nel passato.
3.La traiettoria delle forme di governo tra Rivoluzione e Impero
Secondo uno schema che sarà tipico di ogni costituzione contemporanea, tutte le Costituzioni
rivoluzionarie contengono, oltre alle norme sui diritti e i doveri, e a quelle sulla
amministrazione e sulla giurisdizione, sul territorio e la cittadinanza, norme che descrivono la
forma di governo: chi esercita la legislazione, a chi spetta il Governo, cioè la guida della
amministrazione e della politica generale. Le costituzioni che si succedono nel periodo
rivoluzionario segnano in questa materia i grandi cambiamenti che le differenziano l’una
dall’altra. Gli smottamenti, le crisi, gli assestamenti che si verificarono a questo livello furono
la ragione del loro drammatico susseguirsi. Dopo che il principio monarchico, ancora
parzialmente conservato dalla Costituzione del 1789 – che formula come forma di governo la
monarchia limitata, ossia mantiene il Monarca (soggetto alla legge) affiancandogli i Corpi
legislativi – viene definitivamente travolto, fu per sempre perduta la certezza che nei secoli
aveva indicato, tramite la linea dinastica, il detentore del potere supremo. Noi non ci
soffermeremo sul complesso repertorio delle forme di governo di questo periodo, se non per
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segnalare che, attraverso la successione dalla monarchia limitata al Direttorio e poi al
Consolato, che segna la salita al potere di Napoleone Primo Console, poi incoronato
Imperatore nel 1801, la vocazione ‘democratica’ della rivoluzione viene inarrestabilmente
travolta dall’accentramento nel Capo del Governo del potere di esprimere la volontà generale.
E’ interessante ricordare che nella Costituzione del 1799 (che istituisce il Consolato:
Napoleone è il Primo Console), il legislativo diventa chiamato solo ad approvare le proposte di
legge del Governo (studiate e redatte dal Consiglio di Stato): “Saranno promulgare nuove leggi
soltanto nel caso in cui il progetto sarà proposto dal governo e decretato dal Corpo
legislativo”. Era la volontà del potere esecutivo che diventava legge, ossia il sogno dei sovrani
assoluti.
Mentre si svolgeva la serie impressionante di cambiamenti che tra Rivoluzione e Impero
investono la forma di governo, due linee andavano consolidandosi, per essere consegnate
come patrimonio acquisito allo stato ottocentesco: la burocratizzazione della giurisdizione e
la consacrazione della amministrazione come cuore dell’attività dello stato.
4.La burocratizzazione della giurisdizione
Ci siamo ormai detti molte volte che il vero soggetto pubblico che, con la Rivoluzione e il
periodo napoleonico, riuscirà effettivamente subordinato a qualcosa, e molto ridimensionato
rispetto al passato, è in realtà il giudice, di cui la Rivoluzione ricorda molto bene, e perciò
esorcizza e annulla, il potere di valutare il diritto che è chiamato ad applicare, di
domandarsene l’adeguatezza al caso regolato. Per chi era preoccupato di assicurare
onnipotenza alla legge, un potere che si nutre della capacità e della possibilità di individuare,
tra le molte fonti disponibili (la consuetudine, l’analogia coi precedenti, la dottrina, il diritto
straniero), il diritto da applicare è naturalmente nemico e sospetto: la legge avrebbe troppo
facilmente finito per risultare una delle tante fonti che il giudice prendeva in considerazione
nella sua opera di riconoscimento del diritto applicabile .
Vediamo come questo progetto fu messo in pratica.
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La Rivoluzione per prima cosa sopprime, coi diritti feudali, la giustizia signorile, istituendo il
principio per cui la giustizia è demandata “ai soli tribunali istituiti per legge e secondo le
forme determinate dalla legge”31.
Poi si impegna a introdurre un ‘codice delle leggi’32, un riordino del diritto vigente che
ponendo nel nulla il diritto antico e la storia, le tradizioni, gli usi e le mentalità di cui è
espressione, e che riordini anche il modo di ragionare dei giudici.
Soprattutto, la Rivoluzione è molto attenta all’esigenza di ricondurre i giudici alla ‘soggezione’
e cioè all’”obbedienza” della legge, tramite la creazione di due istituti molto importanti e
completamente nuovi, e vistosamente orientati a impedire che il giudice, nel decidere una
controversia e nell’interpretare la legge, potesse contraddirne la volontà: il referé legislatif, in
forza del quale il giudice, in caso di dubbio, doveva rivolgersi al corpo legislativo perché
interpretasse esso stesso il proprio testo, e il Tribunale (poi Corte) di Cassazione, incaricato di
“annullare le sentenze che contengono una violazione esplicita della legge”, che rimase come
modello delle Corti di Cassazione, o Corti supreme di legittimità, adottate in tutti gli Stati
europei continentali, e che sono i giudici chiamati verificare se, nel decidere un caso, il giudice
ha scelto la norma adatta e ne ha dato una corretta interpretazione33. I poteri interpretativi
del giudice venivano ridotti; e la giurisdizione veniva organizzata secondo un ordine
gerarchico che ricordava quello adottato per la amministrazione, cui in effetti la giurisdizione
era ormai equiparata, come potere a sua volta chiamato a dare ‘ applicazione ‘ alla legge e ad
esso subordinato.
La legislazione napoleonica proseguì in questo solco con una legge sull’organizzazione
giudiziaria (1810) che organizzava la magistratura in gradi analoghi all’esercito; ribadiva
l’unicità della giurisdizione (c’è una sola giurisdizione, quella dello stato); attribuiva al
governo il controllo sul reclutamento e la carriera dei magistrati.
31 “Nous les avons enterrés tout vivants!” (Li abbiamo seppelliti ancora vivi!) esclamò un deputato all’uscita della
seduta che, rinnovando un editto immediatamente anteriore alla Rivoluzione, del 1788, abolì i Parlamenti. La
citazione in N. Picardi, La giurisdizione all’alba del terzo millennio, Giuffrè, Milano, 2005, p. 145.
32 Il codice delle leggi civili e penali è uniforme per tutta la Repubblica (1793).
33 Nella formulazione della Costituzione dell’anno III (1795): “Il tribunale di cassazione non può mai giudicare
nel merito delle liti; ma cassa le sentenze pronunziate su procedure nelle quali le forme sono state violate, o che
contengono qualche contravvenzione esplicita alla legge, e rinvia il merito del processo al tribunale che deve
giudicarlo”. Nel modello del 1795 sedevano nella Corte rappresentanti del Governo (il Direttorio), che potevano
denunciare al tribunale di cassazione gli atti nei quali i giudici hanno ecceduto dei loro poteri.
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Anche l’impresa della codificazione, promessa ma non compiuta dalla Rivoluzione, fu
realizzata da Napoleone, che nel 1804 fece approvare un codice, passato alla storia come
Codice Napoleone, che raccoglieva il diritto privato vigente in Francia, che fornì il modello a
tutte le codificazione sui presero mano gli Stati italiani preunitari e poi il Regno d’Italia, e che
ha cambiato per sempre la concezione del diritto in Europa continentale.
La codificazione
La codificazione del diritto risponde all’idea che uno stato nazionale, sovrano nel suo
territorio, non potrebbe considerarsi tale se all’interno dei suoi confini e nei rapporti tra i suoi
cittadini venisse applicato un diritto che lo stato non ha posto. La codificazione completa la
formazione dello stato realizzando la ‘nazionalizzazione’ (o statizzazione) del diritto.
Naturalmente, la codificazione non significò e non poteva significare ricreare tutto il diritto ex
novo34. I codici contennero quella che in gran parte non era che una riformulazione, una
raccolta e una sistematizzazione del grande corpus del diritto comune per come si era venuto
formando nei secoli. La vera novità non stava in ciò che il codice disponeva, ma il principio che
la sua esistenza poneva: codificazione significa raccogliere in un unico testo il diritto allo scopo
di stabilire che solo ciò che è in quel testo è diritto (proibisce, obbliga) perché solo l’autorità che
ha approvato, voluto e promulgato quel testo è capace di porre il diritto.
Se, in molti casi, i redattori dei codici spesso non fecero che riscrivere la definizione di mutuo,
di locazione o di matrimonio che nei millenni la giurisprudenza aveva sviluppato, molto, anzi
tutto, cambiava comunque. Quello che cambiava, era che da quel momento in poi il giudice che
si occupava di mutuo, di locazione o di matrimonio la fonte delle sue decisioni era la legge (il
codice) francese, non più il sapere giuridico. Il giudice doveva trarre le corrispondenti
definizioni e le corrispondenti conseguenze da quello che era scritto nel codice e non da
proprie valutazioni inerenti il caso concreto o risalenti a criteri di equità che la giurisprudenza
aveva sviluppato e che potevano mettersi in concorrenza con quello che sembrava giusto al 34 In effetti, si trattò, a differenza di molti altri istituti rivoluzionari, di una ‘innovazione nella tradizione, perciò
saggia e durevole” (N. Picardi, op. cit., 151): se i codici sono la cosa che di quell’epoca più ha durato e più ha
avuto influenza, si deve al fatto che essi non furono scritti da quei philósophes iperrazionalisti ed astratti, e del
tutto inesperti della cosa pubblica, contro cui Tocqueville indirizza il suo dileggio, ma – per l’appunto - da esperti
giuristi dalla grande pratica, estremamente consapevoli di quello che facevano e della delicatezza dell’operazione
di innestare il codice sul grande corpo del diritto comune. Parla da sé anche il fatto che, nell’adattamento del
codice per l’Italia, fu coinvolta uno dei più grandi giuristi italiani di tutti i tempi, Gian Domenico Romagnosi.
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sovrano. Egli doveva applicare il diritto francese, il codice civile di Francia; non il diritto
romano comune, risultato della millenaria opera della giurisprudenza. Come ebbe
orgogliosamente a dire un giurista francese del tempo:
“Io non conosco il diritto romano; io insegno il Code Napoléon”
che era una chiara dichiarazione di rottura con l’autorità del passato e una orgogliosa
rivendicazione del carattere ormai nazionale del diritto.
Le norme di procedura (norme del tutto nuove che disciplinarono il processo, che sino ad
allora si svolgeva secondo criteri stabiliti autonomamente dalle diverse giurisdizioni) si
preoccuparono di chiarire che le sentenze emesse in stati stranieri non valevano in Francia,
ribadendo il carattere statuale del diritto, anche in questo senso non più “comune” ma diverso
da stato a stato (perché risalente a diversi ‘sovrani’).
L’idea che la fonte del diritto fosse la legge dello Stato faceva con evidenza del diritto uno
strumento di riforma, di cambiamento, di innovazione, di superamento dei vincoli, delle
chiusure, dei privilegi del passato. Codificando il diritto, molto, infatti, del passato venne
conservato, ma molto fu travolto. Istituti millenari ma non più consoni a una borghesia
imprenditoriale vennero cancellati, a partire da tutti i limiti che circondavano la circolazione
economica della proprietà immobiliare. Idee nuove sulla società e sui modi di vivere si
imposero: per esempio una nuova idea di famiglia, e di come trasmettere i patrimoni familiari:
il codice Napoleone introdusse il divorzio (ma non nella versione che ne fu stesa per l’Italia).
Il percorso che abbiamo descritto è stato enormemente influente nel nostro Paese, che ne ha
ricevuto segni indelebili. La legislazione rivoluzionaria e napoleonica cui abbiamo fatto
riferimento, e quella in materia amministrativa cui ci riferiremo avanti, fu recepita nelle
Repubbliche giacobine che si costituirono tra il 1776 e il 1779, e in particolare nelle
Repubbliche cispadana e cisalpina, napoletana e romana. Durante il periodo di occupazione
napoleonica, la legislazione francese venne direttamente applicata in vari stati italiani
preunitari, realizzandosi così un travaso di esperienze, di mentalità, di idee e di principi che
sarebbe rimasto operante anche dopo la Restaurazione e fino all’unità d’Italia. I primi codici
del Regno, emanati intorno al 1865, erano ampiamente ispirati al Code Napoléon. Tuttavia, il
nostro codice del 1865 manteneva l’equità (cioè l’apprezzamento del giudice nel caso
concreto) tra le fonti del diritto. Un segno del fatto che, nel bene e nel male, la nostra
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esperienza non è mai stata statualista sino in fondo e non ha mai del tutto sposato il rigoroso
positivismo alla francese.
Infatti, una caratteristica dei codici civili adottati sul modello del Primo grande codice francese
è stata quella di contenere una disposizione che si è assunta il ruolo di indicare quali sono le
fonti del diritto, cioè gli atti al cui contenuto il giudice può guardare per risolvere le
controversie, e una disposizione che detta ‘norme sull’interpretazione’ cioè stabilisce i criteri
che il giudice deve seguire per interpretare la legge. Vincolandolo, in primo luogo alla lettera
della legge; e vietandogli di ricorrere a fonti ‘culturali’ come i precedenti giudiziari o la
dottrina.
In questo modo la legge – manifestazione della volontà del potere politico- diventava l’atto dal
quale ogni altra manifestazione normativa ricavava la sua possibilità di esistenza e le sue
condizioni di validità: la legge diventava la fonte di riconoscimento del diritto, cioè l’unico atto
abilitato a stabilire quali altri atti producono norme obbligatorie, che il giudice deve applicare
e le persone osservare, con la conseguenza che nessun atto, fatto o criterio, che la legge non
abilitasse a produrre diritto, poteva costituire punto di riferimento per le valutazioni del
giudice nella decisione di una controversia.
E’ in questo modo che legge (dunque in linea teorica il sovrano, lo stato) diventava così la
principale fonte di riconoscimento del diritto e non più la giurisdizione.
Riflessi sulla ragione giuridica: l’avvento della logica dimostrativa e del sillogismo giudiziale nel
ragionamento giuridico
Un’altra implicazione della ‘statizzazione’ del diritto realizzatasi nel tornante rivoluzionario e
napoleonico, ed esemplata nella codificazione, si è manifestata, e in modo molto durevole, sulla
‘logica giuridica’ sul modo di ragionare che da allora si ritenne appropriato utilizzare in diritto.
Contrariamente a quanto abbiamo visto fosse il modo diffuso di pensare nell’epoca del diritto
comune, la codificazione, che realizzò l’idea che tutto il diritto sia solo quello espresso nella
legge o nelle altre fonti che essa autorizza a produrlo, ha permesso di pensare che fosse
possibile e doveroso per il giurista fare ricorso a una logica dimostrativa di tipo matematico (in
grado, si pensava, di garantire una certezza dello stesso tipo di quella scientifica e perciò di
evitare arbitri).
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La legge dettata dal sovrano, dallo stato, che si proponeva di essere generalmente valida e per
una serie infinita di casi, di offrire la risposta a tutte le ipotesi, venne immaginata come la
‘premessa necessaria’ del ragionamento del giudice, che doveva dedurre dalla legge le
conseguenze necessarie, e in tal senso limitarsi ad ‘applicare’ la legge al caso concreto.
Questo tipo di ragionamento si chiama ‘sillogistico’ e serve a far apparire il ragionamento del
giudice come neutrale ed avalutativo. Il sillogismo giudiziale consisterebbe in questo tipo di
deduzione: Se è vero A (che la legge punisce l’omicidio con una certa pena) ed è vero B (che
Tizio ha commesso omicidio) allora ne consegue C (la pena che A fissa). Questa ricostruzione,
imponendo al giudice di farsi ‘bocca della legge’, vuole impedire al giudice di tener conto di
elementi circostanziali e concreti, che differenziano tra loro i casi simili, vuol garantire
all’applicazione della legge universalità e oggettività. Il sillogismo giudiziale vuole ottenere la
neutralità del giudice; meglio, gli vuole imporre di proteggere gli stessi interessi, gli stessi
valori, gli stessi punti di vista che il legislatore (cioè l’organo politico) ha inteso proteggere.
L’attività del giudice diventò così quella di tecnico specializzato nella esatta esegesi
(interpretazione) della volontà del legislatore, una volontà che si differenzia da stato a stato.
Così anche la formazione del giurista cambiò, il giurista iniziò a formarsi studiando il diritto (le
leggi) valide nel suo paese e preoccupandosi specialmente di conoscere bene il diritto (cioè le
leggi) del suo paese, e il diritto venne insegnato come un insieme autoreferenziale di precetti
che avevano in sé la propria origine e giustificazione. Le ragioni politiche, economiche,
storiche, che stavano dietro l’introduzione di questa o quella norma, non dovevano interessare
al giurista. Tantomeno egli doveva preoccuparsi del contenuto di ciò che applicava, se fosse
giusto, ingiusto, coerente o meno con altre leggi, ragionevole, contradditorio o meno. Era un
altro modo per sancire la separazione tra diritto e politica, e tra diritto, società e storia, e, con
questo, per distanziarsi dalle idee che circa il diritto, il suo ruolo e le sue espressioni avevano
dominato prima della creazione dello Stato.
Si delinea un contesto in cui la legge è la fonte superiore a tutte le altre, e le deve essere data
obbedienza da tutti, a partire dai giudici; essi non concorrono più, come un tempo, a creare il
diritto, non sono portatori dei valori e delle tradizioni, né di un sapere professionale che si
forma autonomamente, e con il quale la legge potrebbe entrare in contraddizione; tanto meno
essi sono portatori di un modo di usare la ragione, equitativo, volto alla ricerca di una
composizione ragionevole delle controversie, alternativo a quello del legislatore. Trasformare
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la giurisdizione in una funzione dello Stato ha significato, in una parola, eliminarne
l’autonomia, nel senso di capacità di darsi criteri di giudizio.
Le metafore cambiarono: la magistratura (non si parlava più di ‘giurisdizione’) veniva
paragonata normalmente all’esercito e su di esso rimodellata: i giudici-burocrati erano divisi
per gradi, organizzati verticisticamente, e immaginati come i fedeli esecutori e difensori della
legge dello Stato.
Il positivismo giuridico
Superiorità della legge, statizzazione del diritto, avalutatività del giudice, sillogismo giudiziale
ono i cardini del positivismo statualista che ha informato di sé la concezione della giurisdizione
dominante per tutto l’Ottocento, ben rappresentata da questo passo, scritto nel 1894,
dall’influentissimo giuspubblicista italiano Vittorio Emanuele Orlando:
“Nel Medio Evo il giudice non di rado doveva trovare il diritto da applicare al caso singolo, onde può dirsi
che partecipasse al potere legislativo, nel senso che oggidì vi si dà. Ma il sistema dei codici, in questo
secolo prevalso e di cui l’Italia usa, suppone invece una rigorosa separazione della funzione legislativa
dalla giudiziaria, e quindi l’obbligo strettissimo di applicare il testo legislativo, senza eluderlo né per
ragioni di equità né col pretesto di far prevalere un preteso spirito della legge alla chiara espressione di
essa”.
Il positivismo statualista asserisce che è diritto solo quello che viene posto, nelle forme
previste dall’ordinamento e dalle autorità ciò preposte. Solo lo Stato (attraverso i suoi organi e
con atti tipici) pone il diritto; solo ciò che è posto dallo Stato (attraverso i suoi organi e con
atti tipici) è diritto.
5.La consacrazione dell’amministrazione
L’acquisto dei compiti di concreta gestione, oltre a quelli regolamentari e contenziosi
Anche l’amministrazione compie, con la Rivoluzione una trasformazione epocale, ma nel
senso dell’espansione, della crescita e del rafforzamento dei suoi poteri. Intanto, non è più
solo attività regolamentare o contenziosa, ma anche attività di concreta gestione degli
interessi. Una volta scomparsi i corpi intermedi, è infatti l’amministrazione ad assumersene i
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compiti: “Nel 1789 l’amministrazione è già vista sia come titolare di compiti di regolazione
(tutela, sicurezza, salubrità) sia di erogazione (beneficienza, educazione, incentivazioni) sia di
gestione patrimoniale (proprietà pubbliche, strade, foreste)” 35.
La strutturazione in corpo burocratico gerarchicamente organizzato
Per tutto il periodo rivoluzionario, l’amministrazione rappresentò peraltro un organismo
fragile e complicato perché le costituzioni rivoluzionarie ne fecero un corpo elettivo, che agiva
collegialmente, ma che non era rappresentativo. Una struttura contraddittoria che si rivelò
disfunzionale. Con Napoleone l’amministrazione diviene invece professionale, burocratica,
nominata, monocratica, accentrata e gerarchica. Una legge del 1810 introdusse le nuove
figure del Prefetto nel Dipartimento, Sottoprefetto nell’Arrondissement, Sindaco nel comune,
tre funzionari monocratici nominati dal governo e al cui fianco i sopravvissuti organi elettivi
conservarono solo funzioni di proposta e di riparto dell’imposta36. Queste figure, lo si noti ora
di passaggio, furono tosto imitate dal Piemonte sabaudo, e avrebbero fornito il modello
dell’amministrazione italiana dello stato unitario.
Il carattere monocratico assunto dagli organi amministrativi ha una grande importanza:
“negando la collegialità si nega la rappresentanza, e con essa quella caratterizzazione sociale
che l’amministrazione, pur in forme tanto variegate, aveva sempre mantenuto. Da questo
momento il carattere collettivo degli interessi pubblici non sarà più associato all’idea
elementare che, proprio per questa loro natura, essi richiedono di essere esercitati in forma
parimenti collettiva. Proclamando che ‘soltanto il prefetto sarà incaricato
dell’amministrazione nel suo Dipartimento’ la legge napoleonica dichiara in sostanza che la
società è divenuta il semplice oggetto di una funzione amministrativa di esclusiva pertinenza
statale, che il suo consenso è irrilevante davanti all’azione amministrativa, in quanto si
considera già interamente speso nel momento di formazione della legge, e che perciò da quel
momento lo Stato è diventato l’unico rappresentante di qualunque interesse pubblico37” .
35 ) “La Nazione si è dotata di una amministrazione comune, di una amministrazione generale, di cui è titolare in
via esclusiva, e proprio a questa amministrazione ha affidato il compito di colmare il vuoto creato dalla
abolizione dei corpi”: Mannori e Sordi, p. 216.
36 Cfr. L. Mannori e B. Sordi, op. cit., p. 219 e 247.
37 L. Mannori e B. Sordi, op. cit., p. 248.
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Il consolidamento del principio per cui l’amministrazione si giudica da sé e la nascita della
giustizia amministrativa
Dal canto suo, il processo di immunizzazione della amministrazione dalla giustizia ordinaria
che l’assolutismo aveva realizzato viene confermato e perfezionato dalla Rivoluzione,
nonostante essa fosse partita dal proposito opposto. Le liti in materia di imposta diretta, sui
lavori pubblici, sulla contrattualità amministrativa furono conferite alla conoscenza delle
stesse amministrazioni distrettuali e dipartimentali, nel 1789 si ribadisce che i ricorsi per
incompetenza contro i corpi amministrativi non rientrano in nessun caso nella competenza
dei tribunali ma saranno portati al re, come capo dell’amministrazione generale, il che
equivaleva a rimettere alla amministrazione il controllo su tutta la sua attività; nel 1795 e nel
1797 si vietò ai tribunali di ‘prendere conoscenza di atti dell’amministrazione, di qualunque
specie essi siano “ e di sottoporre a giudizio “qualunque operazione si esegua dietro ordine
del Governo, per mezzo dei suoi agenti immediati, e con fondi forniti dal Tesoro pubblico”38 .
Le ragioni della scelta della rivoluzione di affidare alla sola amministrazione il giudizio sui
suoi atti sono almeno due: la diffidenza dei rivoluzionari verso un potere che, benché fosse
ormai un pallido riflesso del suo antenato premoderno, sollevava sempre il ricordo delle
turbolente corti di antico regime e della loro scarsa disponibilità a farsi controllare e dirigere;
la loro consapevolezza del fatto che, proprio per essere stata la giurisdizione ridotta a una
attività di meccanicistica applicazione della legge, essa era tanto più strutturalmente inidonea
a statuire su quelle materie, quelle concernenti la cura dell’interesse pubblico, ‘in cui
l’amministrazione dispone di una latitudine di apprezzamento che esclude l’esistenza di uno
stretto rapporto di conformità alla legge’ 39. In altri termini, il gatto si mordeva la coda: avere
ridotto la giurisdizione al sillogismo deduttivo era un motivo in più che spingeva a sottrarre
alla cognizione dei giudici ordinari quegli atti amministrativi che eseguono la legge ma “per
loro natura” devono anche integrarla, completarla, adattarla, tramite l’apprezzamento del
caso concreto, dando conformazione concreta all’interesse pubblico che l’amministrazione
persegue.
38 Op. ult.cit., p. 241 e 243.
39 Op.ult.cit., 245. Le parole tra virgolette sono del francese Chevallier.
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La legislazione dell’anno VIII , con Napoleone completa l’itinerario individuando nel Consiglio
di Stato, a livello centrale, e nei Consigli di prefettura, a livello dipartimentale, i due organi di
giustizia dell’amministrazione. Il giudice speciale per l’amministrazione, che veniva così
istituito, era composto a sua volta di funzionari amministrativi nominati dal Governo.
La definitiva conquista dell’esecutorietà
Sommata ad una amministrazione che ormai agiva attivamente svolgendo una miriade di
compiti che incidevano sui comportamenti e i beni dei privati, la sottrazione degli atti
dell’amministrazione al controllo giudiziario generò una caratteristica rimasta da allora
distintiva dell’atto amministrativo: l’esecutorietà, cioè la capacità dell’amministrazione di
portare a compimento i propri atti, apprendendo i beni o la persona dell’interessato, da sola,
senza bisogno, come invece deve fare il privato, di rivolgersi prima al giudice per vedere
accertata la legittimità della propria pretesa: “il comando amministrativo divenne così capace
di imporre al cittadino una immediata obbedienza solo in virtù di una sua propria e intrinseca
forza40”.
Con questo, prendeva forma definitiva quel ‘potere esecutivo’ che si è dimostrato così bene
capace di violare la libertà e i beni delle persone, che contro di esso si rivolgono, in essenza, le
fondamentali garanzie costituzionali che proteggono i beni essenziali, come la libertà
personale. L’art. 13 della vigente Costituzione italiana ha di mira proprio l’esecutorietà
quando richiede, affinché qualcuno possa essere ‘arrestato o altrimenti privato della libertà
personale’ che ciò non soltanto avvenga ‘nei casi e modi previsti dalla legge’ ma anche ‘dietro
atto motivato dell’autorità giudiziaria’.
Il problema della tutela dei diritti davanti all’amministrazione e alla sua forza esecutoria è
uno dei nodi più tormentosi del modello di convivenza realizzato dallo stato contemporaneo.
In Francia, quando i cittadini si trovarono messi davanti in modo evidentissimo al fatto che
‘grazie alla loro immunità dal controllo dei tribunali, le statuizioni amministrative si erano
aggiudicate la capacità di creare o modificare unilateralmente la posizione giuridica dei loro
destinatari, indipendentemente dal consenso di questi ultimi” , in un momento storico in cui vi
era però ancora chi ricordava il clima panprocessualistico, la concezione giudiziale del potere,
40 L. Mannori e B. Sordi, op. cit., p. 261.
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viva nell’antico regime, qualche reazione si fece sentire subito, e si impose almeno nel campo
dell’istituto dell’espropriazione.
“Preoccupato del diffuso malcontento che il meccanismo puramente amministrativo dell’esproprio
inaugurato nel 1807 aveva suscitato, l’imperatore riconobbe che, in effetti, ‘se si può incidere la proprietà dei
cittadini senza (…) che i magistrati nulla possano fare per opporvisi, è chiaro che la proprietà non è
garantita nell’ambito dell’Impero’. In una celebre nota indirizzata nell’estate del 1809 al ministro della
giustizia egli sottolineava che, tutto sacrificando alla ‘ridicola mania’ della separazione dei poteri, ‘ si era
voluto che la giustizia fosse indipendente dal Governo e per renderla indipendente la si era annullato e si
erano messi tutti i proprietari alla mercé del Governo stesso”. Conformemente a questi rilievi, la legge 8
marzo 1808 riservò all’autorità giudiziaria la competenza esclusiva di pronunciare l’esproprio su istanza
dell’amministrazione. Ciò non significò, ovviamente, un ritorno al ‘governo dei giudici’ di premoderna
memoria, dal momento che i tribunali erano ora chiamati soltanto a verificare la correttezza del
procedimento seguito dall’amministrazione per addivenire alla dichiarazione di pubblica utilità, e dunque
all’esproprio, e non ad assumere decisioni di merito. Resta il fatto che in materia espropriativa
l’amministrazione venne privata del suo privilegio formalmente più rilevante, quello di fabbricarsi
autonomamente i suoi titoli esecutivi. Le fu anche imposto di seguire una procedura minutamente regolata e
aperta alla partecipazione degli espropriandi e dei terzi per addivenire all’individuazione dei beni da
espropriare, mentre la delicatissima determinazione dell’indennità espropriativa venne attribuita prima
all’autorità giudiziaria, poi dal 1833, sull’esempio inglese, a una giuria di proprietari fondiari. Molti degli
elementi propri dell’antica amministrazione giustiziale riemergono dunque in questa disciplina. Di fronte
all’enorme valore simbolico della proprietà fondiaria, baluardo e palladio di tutti i diritti borghesi, i privilegi
dell’amministrazione si smorzano, la distanza tra lo stato e il cittadino tende a ridursi, e il sindacato
giudiziario a riespandersi correlativamente. Naturalmente si trattò di un regime di eccezione mai ritenute
estensibile a materie diverse. Ma esso offre una prova di come la grande vittoria riportata dall’esecutivo
all’inizio del secolo non avesse cancellato del tutto la memoria di un altro modo di amministrare in cui lo
stato non si ponesse come super-soggetto, interprete unico e sovrano del rapporto tra interesse pubblico e
privato41.
L’autonomia del potere regolamentare dalla legge
Oltre alla immunità dalla giurisdizione, l’amministrazione conquista nel periodo considerato
anche una autonomia dal potere legislativo. Il potere regolamentare, configurato dalla
Rivoluzione come ‘esecuzione della legge’, “si libere subito dalla sua subordinazione alla legge,
per conquistarsi uno spazio d’azione del tutto autonomo: il Direttorio emanò regolamenti a
getto continuo nelle più svariate materie anche senza autorizzazione legislativa e talvolta
modificando addirittura le leggi.” Negli anni della dittatura imperiale si arriverà a sostenere
che ‘tutto ciò che è di amministrazione è oggetto di solo regolamento’ e che ‘ il legislatore ‘ non
deve occuparsi che dell’imposta e delle leggi civili generali’). Sono premesse durature: tutto
l’Ottocento “non avrà dubbi sulla legittimità dei regolamenti autonomi, che appariranno come
il naturale riflesso della missione generalista affidata all’amministrazione. Gli
41 L. Mannori e B. Sordi, op. cit., p. 264.
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amministrativisti ottocenteschi insegneranno infatti che ‘la sorveglianza del potere esecutivo
dovendo essere continuativa e il suo dovere essendo di mostrarsi nello stesso momento
ovunque lo chiamino i bisogni della società, questo potere deve, anche per mezzo di
regolamenti, agire con una attività eguale a quella del corso degli eventi’ e che ‘il potere
regolamentare, indispensabile al compimento della missione affidata alla autorità
amministrativa, costituisce uno degli elementi essenziali del potere esecutivo’42 “
6. Trasformazione senza rivoluzione: cenno all’“assolutismo illuminato” dell’area
germanica
Prima di lasciare il tema dell’assolutismo, e delle sue trasformazioni, occorre gettare un sia
pur rapidissimo sguardo all’area in cui la transizione tra ordine antico e moderno si è
verificata senza rivoluzione, e cioè all’area germanica (Austria, Germania, paesi scandinavi). In
questa area, la formazione dello stato è avvenuta in maggiore continuità con le strutture
politiche e giuridiche preesistenti, rispetto alla esperienza francese. Oltre a significare, spesso,
una maggiore conservazione delle autonomie politiche dei territori compresi nella sovranità
statale, questo processo più graduale significò anche una molto più lenta, e meno traumatica,
sostituzione del diritto di fonte statale al diritto tradizionale (romano e consuetudinario), che
ha continuato, in Germania per esempio, a essere considerato vigente fino a tutta la metà
dell’800 accanto al diritto di fonte statale - legislativa. In queste aree, minore fu anche la
contrapposizione tra il potere sovrano e quello giurisdizionale, perché qui i magistrati
storicamente non avevano avuto quella posizione di inamovibilità e indipendenza che aveva
caratterizzato i giudici francesi, e pertanto “i magistrati non potevano rappresentare un serio
ostacolo alla politica di concentrazione del potere perseguita dalla monarchia43”.
Particolarmente insistita, nelle teorie di area germanica sviluppate per giustificare la
sovranità dello stato, non è la ‘ragion di stato’, ma il bene comune. Si insegnava che lo stato
serviva a curare il bene comune (Gemeinwhol) della comunità, e si accentuava, nel
caratterizzare la funzione sovrana, anziché la volontà, la doverosità. Le “quattro obbligazioni
fondamentali del principe”, si teorizzò all’epoca, si distinguevano in due gruppi principali:
quelle attinenti alla sicurezza (difesa esterna e ordine pubblico interno) e quelle attinenti al
42 L. Mannori e B. Sordi, op. cit., p. 253.
43 N. Picardi, La giurisdizione, cit., p. 136.
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benessere (produzione e circolazione della ricchezza). Il potere pubblico, in quest’area, è
messo a tema come ‘dovere’, come ‘servizio’.
Queste teorie insistevano in altri termini che il sovrano aveva il dovere di curare il bene
comune per questo aveva i corrispondenti poteri. Questa è la via attraverso la quale anche
nell’area germanica vennero in evidenza e acquistarono speciale importanza le funzioni
amministrative. L’obiettivo dello stato in questa area geografica e culturale fu prima formare i
“funzionari del principe” (che diverranno i “servitori dello stato”), poi dare vita al “diritto del
principe”, prima creare numerose ed efficienti burocrazie, ripartiti nei diversi rami
dell’amministrazione e della giurisdizione, ma tutti scelti nominati e gerarchicamente
subordinati al sovrano, poi provvedere alla codificazione, razionalizzazione e unificazione
dell’ordinamento normativo.