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65 Scuola e culture. Materiali di antropologia della mediazione scolastica Francesca Quaratino L'identità sospesa. Contributi antropologici per una didattica interculturale nella scuola primaria Tesi di laurea Università degli Studi di Roma 'La Sapienza' - Facoltà di Lettere e Filosofia - Corso di laurea in Lettere a.a. 2000/2001 Relatore: prof. Laura Faranda - Correlatore: dott. Mauro Geraci Documento pubblicato sul sito del Dipartimento di Studi glottoantropologici e Discipline musicali il 14 luglio 2004 - http://rmcisadu.let.uniroma1.it/glotto/index.html CAPITOLO III ----------------------- LE FAMIGLIE III.1. Valori familiari. Julio e Felipe, così come quasi tutti i loro compagni stranieri, avranno buone probabilità di essere considerati per tutto il corso della loro vita in Italia “immigrati di seconda generazione”, espressione che ne sottolineerà filiazione e luogo di crescita quali aspetti centrali nella definizione dell’identità. Saranno degli uomini o delle donne arrivati in Italia o nati qui da genitori immigrati, rispetto ai quali manterranno il primato nella conoscenza della lingua del paese ospitante grazie alle acquisizioni scolastiche. Il senso della “seconda generazione”, infatti, assume generalmente significati legati ai processi di integrazione e al loro grado di realizzazione. Non è un caso, così, che uno degli aspetti più evidenti delle politiche dell’accoglienza scolastica sia quello di essere rivolto al recupero linguistico

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Scuola e culture. Materiali di antropologia della mediazione scolasticaFrancesca QuaratinoL'identità sospesa. Contributi antropologici per una didattica interculturale nella scuola primariaTesi di laureaUniversità degli Studi di Roma 'La Sapienza' - Facoltà di Lettere e Filosofia - Corso di laurea in Letterea.a. 2000/2001Relatore: prof. Laura Faranda - Correlatore: dott. Mauro Geraci

Documento pubblicato sul sito del Dipartimento di Studi glottoantropologici e Discipline musicali il 14 luglio 2004 -http://rmcisadu.let.uniroma1.it/glotto/index.html

CAPITOLO III

----------------------- LE FAMIGLIE

III.1. Valori familiari.

Julio e Felipe, così come quasi tutti i loro compagni stranieri, avranno buone

probabilità di essere considerati per tutto il corso della loro vita in Italia

“immigrati di seconda generazione”, espressione che ne sottolineerà

filiazione e luogo di crescita quali aspetti centrali nella definizione

dell’identità. Saranno degli uomini o delle donne arrivati in Italia o nati qui

da genitori immigrati, rispetto ai quali manterranno il primato nella

conoscenza della lingua del paese ospitante grazie alle acquisizioni

scolastiche. Il senso della “seconda generazione”, infatti, assume

generalmente significati legati ai processi di integrazione e al loro grado di

realizzazione.

Non è un caso, così, che uno degli aspetti più evidenti delle politiche

dell’accoglienza scolastica sia quello di essere rivolto al recupero linguistico

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solo nei casi di bambini provenienti da paesi stranieri mentre per tutti gli

altri, i Julio “capoverdiano nato a Roma” e i vari Felipe “peruviano di

Firenze”, non si preveda alcuna forma di sostegno dando per scontate le

acquisizioni di bambini nati e cresciuti nel nostro Paese.

L’attenzione delle politiche scolastiche è quasi esclusivamente orientata su

un terreno di concreta realizzazione di progetti solo per i casi nei quali la

provenienza abbia effettivamente coinciso con un viaggio, considerato tanto

più significativo sul piano delle necessità di intervento, quanto più sia stato

cronologicamente vicino all’ingresso nella scuola.

Seppure questa scelta abbia una priorità dettata dall’urgenza del problema,

bisogna riconoscere che le tensioni connesse al quadro complesso e

sfuggente della provenienza culturale vengono, così, lasciate su un piano

minore nel quale c’è molto spazio per le riflessioni teoriche su cosa sia

l’educazione interculturale ma ben poco per quanto riguarda l’effettiva

disponibilità a realizzare progetti di sostegno ai bambini e alle loro famiglie.

La migrazione è sovente ridotta a un atto fisico, a un processo di

ambientamento in altri luoghi nei quali si fa urgente l’acquisizione delle

capacità comunicative, mentre le conseguenze sul piano emotivo e delle

relazioni familiari passano in secondo piano nonostante si facciano udire con

forza anche nelle generazioni successive a quella che ha intrapreso il

viaggio.

Sono proprio gli “immigrati di seconda generazione”, infatti, a riportare alla

luce la complessità e la conseguente emergenza dei conflitti a seguito della

scelta migratoria delle proprie famiglie; prima o poi questi bambini dalla

discreta alfabetizzazione, nati negli ospedali italiani, potrebbero scrivere di

sé stessi io sono capoverdiano, peruviano, filippino ma vivo a Roma,

evidenziando come la percezione della propria presenza in Italia sia dello

stesso segno di quella paterna e materna: uomini e donne nati in altri luoghi,

ospiti del nostro paese.

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Partendo da alcune riflessioni elaborate in sede psicoterapica riportate da

Roberto Beneduce si potrebbe, così, insistere sul nesso che lega le difficoltà

dei bambini all’esperienza migratoria dei genitori: esperienza che si carica di

per sé di tensioni legate ai faticosi inserimenti nelle realtà locali e di

incertezze causate dalla difficile acquisizione di uno spazio

per l’individuo1.

La famiglia come luogo di costruzione dell’identità attraverso la continua

mediazione tra modelli non sempre coscientemente noti alle figure

genitoriali e modelli selezionati come validi ed efficaci per l’educazione dei

figli diviene centrale nei percorsi di vita di questi bambini anche alla luce

della forza con la quale i processi di trasmissione e valutazione dei valori si

impongono a padri madri e fratelli2.

La necessità di crescere i bambini secondo modelli della cultura di

provenienza porta spesso a un lavoro di analisi e di riscoperta dei valori che

noi abbiamo considerato “inconsci”3 e a un loro progressivo scivolamento

1 Beneduce R. Frontiere dell’identità e della memoria, Franco Angeli, Milano 1998, pp.183. La psichiatriae l’etnopsichiatria in particolare hanno intrapreso da tempo una proficua riflessione sulle peculiaritàdell’intervento terapeutico in presenza di pazienti immigrati; nel caso di bambini e adolescenti, poi,l’attenzione che viene attribuita alle aspettative e alle dinamiche familiari svela temi e problemi che lascuola non può rifiutarsi di prendere in considerazione. Scrive Beneduce: “Parlare di bambini figli diimmigrati e non di bambini immigrati (…) significa più in particolare mettere l’accento sul rapporto tra ledifficoltà che essi sperimentano e la migrazione cui è andata incontro la loro famiglia: il fatto decisivo perquesti bambini ed adolescenti sarebbe dunque meno l’essere nati in un altro paese quanto il far parte di unafamiglia che è emigrata, con tutto quanto questo solitamente comporta in riferimento a ruoli, legami,aspettative, rapporti generazionali”.2 Per una riflessione sull’accelerazione delle normali dinamiche familiari nel contesto migratorio si vedaMara Tognetti Bordogna “Strutture e relazioni familiari tra immigrati” relazione tenuta in occasione delconvegno Le famiglie interrogano le politiche sociali, Bologna 1999.3 Il pericolo di un fraintendimento circa il concetto di “inconscio” è sempre presente, soprattutto quandovenga usato nella sua funzione aggettivante che lo rende sinonimo di “sotterraneo”, “scarsamenteconsapevole”. Sui rischi, talvolta affrontati in piena consapevolezza, del contatto tra antropologia epsicoanalisi ci si interroga soprattutto in ambito etnopsichiatrico dove le due discipline sono chiamate acondividere percorsi interpretativi, talvolta con risultati eccellenti sul piano della riuscita dell’interventoterapeutico. La critica che Roberto Beneduce rivolge a quanti, da Ròheim a Devereux, abbiano dichiaratol’evidente implicazione tra la capacità a “guardare dentro di sé” propria della pratica psicoanalitica e“l’apprendere a guardare al proprio esterno” della ricerca antropologica aiuta ad avere ben chiari i proprilimiti formativi. “Se un buon antropologo finisce talvolta con l’essere condotto, nella sua larga esperienzadi lavoro, in prossimità dei risultati di un’analisi personale riuscita, questo non rappresenta la regola, non lotrasforma in un analista e, tanto meno, vale il contrario” . Beneduce R. Frontiere dell’identità e dellamemoria, cit. pag.45, nota 12.

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verso quelli frutto di selezione. Un caso per tutti, il più evidente, è la scelta

di parlare con i propri figli la lingua materna, percorso che tutti i genitori

attuano senza porsi domande particolari e, soprattutto, senza elaborare

alcuna riflessione di carattere emotivo e nostalgico. Nei migranti questa

lingua si fa legame con un luogo, una terra, una storia presenti nella

memoria o nella vita, poiché alcuni tornano periodicamente nei paesi di

provenienza e lì desiderano, comprensibilmente, che i figli comprendano i

nonni, i parenti e, in generale, la gente. Parlarla o meno in casa diviene,

dunque, scelta di continuare a essere, anche nella propria discendenza ciò

che si è nati.

La stessa affettività quotidiana di una madre verso i propri figli si presenta

in tutta la forza del percorso educativo culturalmente connotato e su questo

terreno il piano della consapevolezza rimane più sfumato, più soggetto

all’essere osservato e indagato nella proprie dinamiche sotterranee: abbracci,

carezze, le stesse scelte di svezzamento del neonato sono alcune delle risorse

che le donne, nel proprio ruolo di madri, hanno nel percorso di creazione o

mantenimento di un legame con il mondo di provenienza e talvolta

costituiscono la principale causa di disadattamento. D’altro canto, la nostra

stessa tradizione regionale ha prodotto quell’immagine della madre

meridionale votata al nutrimento dei propri figli maschi divenuta, poi,

simbolo della maternità di un intero paese; quindi perché, tra le variabili da

tener presenti nei processi di incontro e mediazione interculturale, non

recuperare anche quella dei processi di costruzione dell’identità a partire dai

messaggi sottili veicolati dalla relazione madre-figlio?

Sono aspetti come quelli evidenziati a porre con urgenza un ritorno alla

famiglia, alle sue dinamiche interne, evidenti o profonde che siano, quale

momento di sintesi della elaborazione di una modalità di presenza da

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proporre ai bambini che si preparano a divenire “immigrati di seconda

generazione”.

Basterebbe, d’altronde, spostare la classificazione linguistica di questi

bambini dalla necessità di sottolinearne l’appartenenza a un mondo

straniero, espressa dal termine “immigrati” - benché essi non abbiano mai

vissuto l’esperienza migratoria - a quella che ne considera la filiazione

culturale, non l’ordine di generazione o il grado di attenuazione dei tratti

della cultura di origine in base all’idea che in “seconda generazione” si sia

un po’ meno filippini che in prima e in terza ancora meno.

A confermare l’assurdità di ogni tentativo di indicare una sorta di curva

discendente nei passaggi culturali di generazione in generazione basterebbe

citare il caso degli afroamericani che duecento anni dopo il loro arrivo in

America del nord hanno rinnovato la necessità di sottolineare la propria

differenza recuperando le acconciature e gli abiti tradizionali,

riconoscendosi nella cultura hip hop e, in molti casi, “tornando” all’Islam.

Il tratto caratteristico che accomuna le esperienze di chi vive in un paese,

pur avendo le proprie origini in un altro è, semmai, quello di volgersi al

recupero della cultura degli antenati integrandola attraverso un percorso

significativo, impegnativo, talvolta straniante e psicopatologico di

mediazione con quella acquisita.

Più corretto sarebbe, invece, tentare di capire cosa significhi sul piano

emotivo, psicologico e di costruzione dell’identità essere “lontano dagli

antenati”4 o crescere in famiglie sulle quali preme il senso di solitudine e di

distanza da un sistema di riferimenti affettivi e culturali.

Il fatto è che questi bambini sono a tutti gli effetti “figli di immigrati”: lo

sono nei tratti somatici, nella lingua che parlano oltre all’italiano, in ciò che

4 ivi, .pag. 203. Nel capitolo dedicato all’ “infanzia che attraversa culture” si lascia volutamente moltospazio a considerazioni riguardanti il senso della memoria familiare e del legame con luoghi di origine

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mangiano, nell’emotività, nelle difficoltà economiche e nelle fatiche

scolastiche. Sono figli di immigrati e tali resteranno nei rapporti di lavoro, in

quelli d’amore e nel ruolo di padri e di madri. Viaggeranno, conosceranno

altre lingue, alle normali scelte educative dei figli sommeranno quella di

insegnare loro o meno ciò che essi hanno appreso dai propri genitori:

avranno, insomma, i propri, profondissimi, legami con un mondo

relativamente conosciuto eppure presente che li chiamerà costantemente ad

attuare una scelta, una selezione, un abbandono.

E’ come se le normali dinamiche di mutamento familiare si appesantissero

dell’ulteriore peso del confronto con l’Altrove, talora generatore di

incomprensioni talora luogo al quale tornare per trovare quei legami con le

culture d’origine che, ancora sulla scia di Beneduce, considereremo nella

forza con la quale impongono dinamiche di mutamento ai singoli5.

Sempre che, chiaramente, prima ancora che si inneschi questo fondamentale

processo di ricerca di immedesimazioni, i bambini non tornino nei paesi

d’origine delle proprie famiglie al termine del ciclo elementare o negli anni

dell’adolescenza. Si consideri, infatti, che nel futuro delle famiglie migranti

si prospetta spesso un ritorno legato talvolta alla delusione per ciò che esse

hanno trovato, talvolta alla fine del progetto migratorio, spesso coincidente

con la conclusione del rapporto di lavoro.

Nel primo caso si assiste anche al dramma della separazione dai genitori,

che non potendo permettersi di tornare anticipatamente nei loro paesi

decidono di allontanare i figli da un sistema educativo non condiviso,

spesso sconosciuti e al lavoro clinico di conciliazione con questo passato doppiamente segnato dallapresenza nel racconto familiare e dall’assenza sul piano effettivo dell’esperienza del singolo.5 ivi, pag.205. Beneduce scrive che operando nella zona di “ambiguo confine che attraversa desideriindividuali, critiche dei ruoli, sensi di colpa, solitudini, identità incerte […. ] è forse possibile concepirenuovamente legami vitali con le proprie culture d’origine, che possono essere tali perché non pacificatori:inscritti, cioè, per intero dentro la dimensione del conflitto e del cambiamento”.

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sovente non compreso rimandandoli in patria dai nonni. Nel secondo,

invece, sono i figli che si è deciso di far nascere nel paese della migrazione a

seguire la famiglia nel momento del ritorno, storia ben nota alle nostre terre,

e in particolare a quanti, figli di minatori e di operai italiani trasferitisi nel

Nord Europa, tornavano nelle regioni di origine dei propri padri, oramai

pensionati, vivendo la fatica e il dolore dell’accettazione della familiarità

con luoghi per loro stranieri6.

Molti bambini figli di immigrati sanno che prima o poi torneranno in patria

con le proprie famiglie, lasciando i compagni di classe, le maestre, la propria

casa e le abitudini quotidiane: sanno già, insomma, i genitori decideranno

per loro. Questa attesa, che può divenire l’argomento più forte della vita

famigliare, incide spesso su quel senso di sospensione e di incertezza che

tanto caratterizza questi bambini che, consapevoli o meno, non mettono

radici in nessun luogo, diffidano dei legami profondi e, spesso, si

sottraggono all’attività scolastica.

Come già si è detto la visibilità delle famiglie è legata essenzialmente alla

presenza delle madri che si occupano totalmente della vita dei figli sul

piano scolastico e sanitario. I padri compaiono raramente e se ci sono fratelli

e sorelle maggiori a loro è affidato il compito di riprendere i bambini a

scuola. D’altro canto queste figure fraterne sono spesso centrali nelle

dinamiche domestiche non solo sul piano del contributo all’organizzazione

della vita quotidiana, ma anche perché risultano essere il polo di riferimento

di numerose scelte, prima fra tutte quella del ritorno in terra di origine.

Trattandosi di ragazzi e ragazze oggi adolescenti è molto più facile che essi

si ribellino all’idea di dover abbandonare il paese in cui sono nati e cresciuti

6 Si veda, in proposito, “La famille entre deux rives”, il saggio di Mahfoud Boucebci contenuto inappendice al volume di Beneduce e dedicato al ritorno in Algeria dei figli di immigrati. L’autore, unopsichiatra algerino assassinato dai membri del FIS nel 1998 è stato tra i più attenti osservatori della realtàdel “rientro” dalla migrazione e delle ripercussioni sul piano dell’identità di bambini e adolescenti.

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spostando l’interesse dei genitori sui fratelli minori. Così, i bambini delle

generazioni che oggi frequentano la scuola elementare si trovano, se hanno

fratelli, a sostituirli sul piano delle attenzioni familiari e delle conseguenti

aspettative: più seguiti a scuola, più controllati sul piano sanitario, più

stimolati nel tempo libero, divengono in tutto e per tutto il polo di

riferimento e di investimento dei genitori. Con questo non si vuole

affermare che i loro fratelli subiscano una sorta di abbandono, piuttosto li si

lascia liberi di percorrere strade alternative giustificando le loro decisioni nel

nome di un’infanzia difficile, che spesso ha coinciso con i primi tempi della

migrazione. E’ come se il primogenito vivesse di quella libertà che di solito

spetta al fratello minore e questi, invece, si trovasse di fronte a tutte le

responsabilità, le ansie di prestazione e le attenzioni familiari che

solitamente appartengono all’esperienza dei primi figli quasi che il padre e

la madre si dicessero “almeno i secondi crescano bene”.

Il caso di Julio risultò emblematico. La madre, residente a Roma dal 1974,

aveva una figlia, oggi ventiquattrenne, che in piena adolescenza aveva

dichiarato la ferma intenzione di non voler rientrare a Capo Verde; memori

di questo fatto, la madre e il padre di Julio si convinsero della necessità di

tornare nel proprio paese prima che il bambino finisse la scuola media, ma

per fare questo passo erano costretti a lavorare duramente entrambi per poter

finire la casa che avevano in costruzione nell’arcipelago, con notevoli

ripercussioni sul piano della disponibilità di tempo e di denaro nella loro vita

“italiana”. Julio stesso sapeva che prima o poi sarebbe partito, tanto che una

mattina, mentre tentavamo di fargli capire l’importanza di saper leggere

correttamente, lui ci rispose che prima doveva assolutamente conoscere

bene il creolo parlato in famiglia.

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Il legame tra i membri della famiglia immigrata assume significati assai

profondi per quanto riguarda le ricadute sul nucleo delle decisioni dei

singoli, tanto che l’emersione delle tensioni e dei conflitti si presenta con

caratteristiche piuttosto simili, soprattutto in presenza di figli adolescenti. Si

potrebbe quasi dire che in questo modello famigliare le relazioni siano a

trama fitta, tanto da non permettere un’ effettiva consapevolezza della loro

portata se non attraverso la conoscenza, anche parziale ma diretta,, di tutti i

membri, compito al quale la scuola non può dedicarsi agevolmente: è

proprio in questa difficoltà di comunicazione che la presenza di un

mediatore interculturale risulterebbe decisiva per sciogliere dubbi e

reciproche diffidenze. Si immagini, infatti, che al mediatore venga data la

possibilità di incontrare a turno o in gruppo i membri della famiglia,

ripercorrendone le storie e gli itinerari formativi - nei figli grandi, ad

esempio, può manifestarsi l’interesse per attività extrascolastiche non

condivise dagli adulti - limitandosi a “raccogliere” il racconto

autobiografico non tanto nelle sua oggettività quanto nel timbro che esso

assume come insieme di “verità selettive”. I passi successivi alla

ricognizione si baseranno sul rapporto con gli insegnanti alla luce delle

difficoltà di un bambino.

Ma cosa è lecito aspettarsi da un simile intervento?

Seppure nei limiti e nella scarsa definizione di ruoli la nostra esperienza ha

evidenziato con una certa forza una grande disponibilità della famiglia a

ripercorrere, evidenziandoli, quelli che considera gli aspetti centrali

dell’esperienza migratoria; successivamente è apparso chiaro, inoltre, che è

possibile muoversi verso la cognizione consapevole che alla base dei

problemi di apprendimento di un alunno non ci siano solo resistenze

caratteriali o ritardi mentali, ma anche realtà familiari che lo pongono

nell’evidente condizione di non avere interesse per ciò che fa in classe. Si

pensi, allora, al caso di Julio: perché non riconoscere che nella pluralità dei

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suoi problemi fosse centrale quello di non avere interesse ad apprendere una

lingua considerata inutile nella prospettiva del rientro a Capo Verde? Perché

non immaginare di far precedere la collaborazione con la famiglia alla

richiesta del sostegno?

Nel periodo della nostra permanenza ponemmo la questione con una certa

urgenza e trovammo anche una discreta attenzione sia dalla parte della

maestra sia da quella dell’insegnante di sostegno; purtroppo in quei giorni le

tensioni tra Julio e Marco divennero così forti che ci costrinsero a rimandare

il progetto di lavoro con la madre, lasciandolo tuttora irrealizzato.

III.2. Lo spazio domestico.

Chiameremo dimensione domestica del bambino quella che riguarda gli

spazi fisici del rapporto familiare. Ora, ci si potrebbe legittimamente

chiedere cosa conti in una ricerca rivolta al complesso delle relazioni e dei

percorsi di inserimento scolastico una riflessione sui luoghi dell’abitare.

Ebbene, nel corso del lavoro di classe notammo che in almeno quattro casi i

bambini stranieri facevano costantemente riferimento ai propri appartamenti

per parlare di sé nella dimensione del tempo libero.

Il tema dell’alloggio sembra essere centrale per molti di loro che, non a

caso, hanno vissuto molteplici esperienze di traslochi talvolta preceduti da

un’affannosa ricerca: nella sua semplicità, talvolta sfuggente anche agli

occhi dei maestri, la Casa diviene l’affermazione della propria presenza

extrascolastica, luogo nel quale si incontrano - nelle fotografie alle pareti,

nelle cartoline, negli oggetti quotidiani - passato familiare e presente

migratorio.

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A febbraio Julio cambiò casa: ne parlava con chiunque, era entusiasta della

novità che lo avrebbe tra l’altro avvicinato alla scuola; finalmente non

avrebbe più dovuto svegliarsi alle sei per attraversare un quartiere molto

trafficato. La nuova casa era al piano terra, circondata da un giardino

condominiale nel quale il suo gatto poteva muoversi libero.

Per poter avere l’appartamento il padre aveva dovuto superare alcuni giorni

di prova come custode del condominio piuttosto lussuoso, poi, finalmente,

era stato assunto e la famiglia si era potuta trasferire nelle due camere,

bagno e cucina che costituivano l’abitazione. L’accesso all’ abitazione era in

comune con quello con quello delle cantine nelle quali Julio andava a

giocare nei giorni d’inverno.

Ma un’altra casa apparteneva alla realtà di Julio: quella in costruzione

sull’isola di San Nicolau. Il progetto prevedeva due piani da costruire su un

terreno acquistato da poco e attiguo a quello dei nonni materni; gli spazi

sarebbero stati molto ampi e la facciata avrebbe recuperato lo stile

caratteristico dell’arcipelago.

L’estate del 2001 segnò l’inizio dei lavori che si sarebbero dovuti

concludere in tempi brevi, data l’intenzione della famiglia di rientrare nella

terra di origine entro pochi anni. Per portare a termine il progetto i genitori

avevano deciso di rinunciare a turno alle ferie estive col bambino anche se la

madre già immaginava che l’anno successivo non sarebbe riuscita a

separarsi da Julio per un mese intero.

Anche il padre di Felipe aveva un portierato in un bel condominio della

zona. L’appartamento vicino alla guardiola, tuttavia, era molto piccolo per le

cinque persone che componevano la sua famiglia, tanto che i genitori

avevano affittato una casa nella campagna di Fiano Romano per poter offrire

ai figli un luogo spazioso in cui giocare il fine settimana. Felipe e i suoi la

consideravano a tutti gli effetti la loro “vera” casa, tanto che una specie di

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consiglio familiare aveva deciso di trasferirvi il computer, acquisto recente

per il quale erano stati spesi soldi faticosamente risparmiati, attorno al quale

tra adulti impegnati in corsi di informatica e bambini che volevano giocare

si passavano i sabati e le domeniche.

Questa storia dell’appartamento per il week-end inizialmente ci sembrò una

fantasia del bambino; fu la mamma, poi, a confermarci che si trattava della

realtà, per quanto costasse qualche sacrificio economico. L’asma di Felipe,

tra l’altro, era notevolmente migliorata.

Brian raccontava un po’ di meno, soprattutto non descriveva l’ambiente

quanto, piuttosto, una casa rumorosa e affollata nella quale pendeva dal

soffitto della sala da pranzo la culla del fratellino di pochi mesi: questa

immagine del neonato tornava nei racconti sul gioco, sul pranzo e,

soprattutto, in quelli del sonno costantemente interrotto durante la notte.

Dalle informazioni che possedeva la maestra emergeva il ritratto di un

vecchio edificio sulla Via Flaminia, sicuramente senza acqua corrente, tanto

che i commercianti della zona conoscevano bene i fratelli filippini che

prendevano l’acqua alla fontanella comunale caricando le taniche sulla

bicicletta. Il volontario della parrocchia che vi si recò a fine anno confermò i

disagi ma in particolare rimase molto colpito dalla presenza di un gallo

destinato al brodo e momentaneamente allevato in casa e rincorso dai

bambini, esattamente come nei racconti contadini di qualche nonno.

La casa di Ikaru era sicuramente la più bella: era un appartamento grande ed

elegante. Molte delle sue compagne parlavano con ammirazione particolare

della sua cameretta che si diceva piena di “Hello Kitty”, personaggio dei

fumetti giapponesi che - almeno nei racconti delle bambine - ne infestava

sottoforma di decorazione adesiva pareti, armadio, letto e scrivania (oltre

che la cartella, l’astuccio, le matite e i collant). Ikaru stessa parlava della

propria cameretta come di un “posto bellissimo e rosa”.

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I racconti della casa erano tra le poche cose narrate spontaneamente dai

bambini, spesso con il chiaro intento di incuriosirci.

Per Julio l’appartamento romano era il luogo dei giochi, della televisione,

del riposo e dello spazio per correre col gatto cioè della normalità della vita

di ogni bambino. Quando parlava della casa di Capo Verde, invece, ne

esagerava le dimensioni (“il palazzo”, “la grande casa”), la popolava di

animali e quando arrivò l’estate ci disse che doveva partire per aiutare a

costruirla: la mamma, che aveva acquistato il terreno con i risparmi del

lavoro da domestica, parlava spesso al bambino di questa casa grandissima e

di come sarebbe divenuta bella. Anche a noi, quando realizzammo

l’intervista, mostrò foto e planimetrie che riproducevano la futura casa di

Julio nel suo stile coloniale, col tetto spiovente e i rivestimenti di legno.

Nei discorsi familiari questo futuro spazio e la sua realizzazione venivano

quasi a rappresentare un legame materiale con Capo Verde: i mattoni, il

progetto e il denaro investito erano il simbolo concreto del ritorno possibile

e per certi versi obbligatorio. Ed effettivamente lo spazio domestico

quotidiano era interpretato con un particolare senso di precarietà dal

bambino stesso che talvolta parlava della propria casa come del posto in cui

“stare qui adesso” (qui a Roma) contrapponendola nelle fantasie al

“palazzo” di Capo Verde.

Ben diversa era la situazione di Felipe e delle sue due case, quella cittadina e

quella di campagna, nelle quali si esprimeva, come confermò la madre, il

desiderio di restare definitivamente a Roma risolvendo il problema dei

ristretti spazi quotidiani con un’alternativa da sfruttare nei fine settimana.

La scelta della famiglia non fu dettata, come si potrebbe pensare, da un

desiderio di omologazione all’ambiente sociale frequentato quotidianamente

(la metà dei bambini della II C trascorreva fuori città il sabato e la

domenica) bensì da una reale esigenza di allontanamento dal caos urbano

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nel nome del benessere dei bambini: le motivazioni in tal senso erano

talmente forti che la seconda casa non era considerata “un lusso”.

L’esperienza migratoria dei genitori del bambino era stata significamene

segnata dai luoghi di residenza, prima nel Castello di Canossa, poi in una

villa fiorentina; spesso nel parlare della vita familiare la madre sfruttava la

descrizione di questi palazzi bellissimi e sontuosi quasi a voler collocare le

vicende su uno sfondo altrettanto valido nelle dinamiche di comprensione e

di narrazione. Era come se, nel caso di Felipe e dei suoi genitori,

l’esperienza migratoria potesse essere toccata nei luoghi e in essi acquisisse

una reale concretezza: si parlava di una casa, si cercava una casa, se ne

affittava un’altra, si ricordavano minuziosamente quelle precedenti, le

suppellettili, lo stile dell’arredamento per finire poi col dire che se Fiano

Romano non fosse stato così difficile da raggiungere a causa del traffico

quotidiano era lì che si sarebbe andati a vivere definitivamente perché loro

avevano “bisogno di molti spazi e di verde” e nel condominio “soffrivano”.

Tutto sommato, dunque, anche la realtà romana di Felipe era piuttosto

indefinita e impregnata della tensione verso un altro luogo che, però, al

contrario dell’Isola di San Nicolau, era a pochi chilometri dalla città.

La casa di Brian, piena di bambini e vicina alle abitazioni di zii e cugini,

raccontava una storia di povertà che dalla famiglia veniva sentita come un

passo avanti rispetto alle condizioni di vita nelle Filippine: per questo

consideravano “normale” accettare di pagare l’affitto ad un padrone di casa

che non forniva nemmeno l’acqua corrente. Nessuno, tra maestri e volontari,

si occupò di denunciare il caso ai servizi sociali per timore di un

allontanamento dei bambini dai genitori. La diffidenza di ampi settori della

società italiana nei confronti delle strutture preposte alla difesa della

famiglia si confermò anche in questa occasione permettendo al pregiudizio e

alle paure, alimentate da casi limite raccontati dai media, di ostacolare una

giusta denuncia nei confronti di chi affittava due stanze a undici persone.

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In questa casa, come era evidente, Brian non poteva fare i compiti senza

essere disturbato dai più piccoli che giocavano e dai più grandi che

guardavano la televisione, tant’è che appena tornava da scuola prendeva la

bicicletta e pedalava sino alla via Flaminia, sul Lungotevere, in mezzo al

traffico dell’ora del rientro, talvolta con la tanica per l’acqua sul

portapacchi.

Nella sua cameretta Ikaru passava buona parte del tempo non impiegato tra

scuole di nuoto e di giapponese. Hello Kitty, immagine prodotta nel suo

paese di origine a uso e consumo dell’infanzia femminile, vegliava dalle

pareti e dai mobili. Questa specie di gatto in vestiti da bambina proponeva

un modello di piccola donna-confetto, dagli abiti rosa, i fiocchi in testa e gli

occhi rotondi al quale Ikaru si conformava completamente indossando

sempre vestiti dai colori pastello e nastri tra i capelli che la rendevano una

Hello Kitty in carne e ossa, come lei stessa amava descriversi: “io sono

Hello Kitty!” urlava quando doveva interpretare un ruolo nei giochi con le

compagne.

La camera era un rifugio nel rifugio dello spazio domestico nel quale Ikaru

trascorreva pomeriggi e sere da sola con una baby sitter. In questi luoghi

Hello Kitty era compagna, amica, forse sorella, comunque onnipresente.

Chi avesse dato avvio al processo di “accerchiamento” di Ikaru da parte di

quest’immagine, se la madre nel tentativo di avvicinare la figlia al mondo di

origine o la bambina stessa in un ipotetico desiderio di mostrare il suo

aspetto orientale, non era cosa facile da stabilire: certo è che lo scivolamento

verso il personaggio parlava con una certa evidenza del legame col

Giappone, quotidianamente riaffermato nella cameretta. Un legame, lo si

intuirà, per nulla familiare, se non nella misura in cui per molti bambini lo

diviene ciò che un mercato attento ai piccoli compratori predispone per loro,

inducendone bisogni, stimolandone l’affettività verso personaggi talmente

inconsistenti da essere, come Hello Kitty, muti e senza storia.

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III.3. Raccontarsi.

L’incontro con le famiglie e la possibilità di creare uno spazio che

permettesse loro di raccontarsi furono gli aspetti del lavoro che risentirono

maggiormente della scarsa “riconoscibilità” della nostra figura e della

conseguente diffidenza; si deve dire, per chiarire i contorni della vicenda,

che sia la madre di Felipe sia quella di Julio erano state messe al corrente

del fatto che avremmo avuto bisogno del loro contributo. Tuttavia si

crearono numerose tensioni. In primo luogo, probabilmente, la scarsa

chiarezza con la quale eravamo stati presentati al consiglio dei genitori ci

metteva in una luce poco gradita a qualcuno di essi che non esitò a

lamentarsi del fatto che il proprio figlio diventasse oggetto di ricerche

universitarie; per ovviare a questa ostilità la maestra aveva, allora, spostato

la questione sull’aiuto che avremmo potuto dare agli stranieri, quietando

l’animo di alcuni ma infastidendone altri che legittimamente si

domandavano se non fossero già sufficienti due insegnanti più il sostegno.

Tra coloro che la pensavano così c’era proprio la mamma di Julio che non a

caso si dimostrò la più attenta al nostro lavoro: cosa volevamo da suo figlio

che lui non potesse già dare con le maestre?

Resici conto delle difficoltà tentammo di incontrare la donna con l’aiuto

dell’insegnante; si trattò di un breve colloquio nel quale ci premurammo di

chiarire le ragioni della nostra presenza evidenziando il fatto che il lavoro di

sostegno svolto in classe non avrebbe assolutamente emarginato Julio, cosa

che comprensibilmente la preoccupava molto.

Con la madre di Felipe, al contrario, fu necessario rendere esplicito che non

potevamo seguire il bambino come lei avrebbe voluto e ancora una volta

spiegammo chi e perché fossimo lì.

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Come si vede l’ indeterminatezza dei ruoli mediazione e l’incertezza

generata dalla non ufficialità dei percorsi di osservazione che ne volessero

delineare le sfere di competenza si presentano sempre con molti problemi

legati alla possibilità o meno di dare fiducia a chi in quel momento se ne

occupi. I casi, nella loro polarità estrema, li avemmo sotto gli occhi con le

due mamme: una preoccupata che le nostre curiosità e i nostri concreti gesti

di aiuto facessero del figlio un “fenomeno da osservare”, l’altra così felice

che finalmente qualcuno si occupasse delle vicende del proprio bambino da

volerci costantemente incitare a “fare di più”.

Effettivamente quando conoscemmo le due donne ci rendemmo conto che

alla base delle diffidenze e della fiducia che caratterizzavano i nostri

rapporti c’erano due storie di inserimento scolastico dei figli molto differenti

tra loro.

La famiglia di Julio e il padre in particolare avevano vissuto con estrema

fatica il percorso che li aveva portati a chiedere il sostegno in seguito alla

diagnosi della neuropsichiatra: di fronte alla possibilità che un’altra persona

venisse a inserirsi nella vita scolastica del bambino, evidenziandone

nuovamente elementi di “differenza” rispetto alla classe, erano quanto meno

perplessi.

D’altro canto come dare loro torto? Non eravamo forse lì proprio per quella

differenza?

Alla mamma di Felipe, invece, quella presenza e le nostre curiosità

sembrarono una grande occasione per poter parlare di suo figlio “a qualcuno

esperto di bambini come lui”, intendendo sottolinearne la particolare catena

di problemi.

Quell’integrazione che si rivendicava da un lato sul piano dell’uguaglianza

dall’altro la si cercava su quello del riconoscimento della differenza e il

nostro stesso tentativo di incontro, diciamo pure di mediazione, seppure in

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forma embrionale, dovette necessariamente partire da condizioni opposte

ricercandone un tratto comune.

Il punto verso il quale far convergere le madri fu proprio quello della storia

di vita.

Per quanto mossa da molte incertezze, infatti, la mamma di Julio cercò in

più di un’occasione il momento per lamentarsi della crescente

emarginazione della quale, secondo lei, il figlio era vittima e quando

comprese che eravamo disponibili all’ascolto delle sue ragioni si accertò

solo del fatto che non le riferissimo alla maestra. La madre di Felipe, invece,

non ebbe neanche bisogno delle nostre domande; per tre volte ci fermò in

corridoio o per strada e ci raccontò la storia del suo bambino. Era, diciamolo

pure, la figura ideale per la nostra ricerca: disponibile, consapevole della

propria vicenda migratoria, colta, ironica, con capacità di porsi sul piano

autobiografico in maniera critica; ogni volta che la incontrammo restammo

quasi in silenzio, limitandoci a raccogliere le sue riflessioni come delle

verità già scritte a uso della nostra ricerca.

Effettivamente nel rapporto con la donna si creò una tale confidenza che a

un certo punto avemmo la sensazione di essere guidati da lei nella stessa

osservazione di classe come se le suggestioni e le censure del suo racconto

ci disegnassero la strada da percorrere. La consapevolezza che la nostra

fosse a tutti gli effetti una ricerca sul campo ci permise di recuperare un

metodo di raccolta delle informazioni che avesse ben chiara la realtà

ambigua di ogni incontro e di ogni racconto autobiografico.

La mamma di Felipe, in assoluta buona fede, ci stava rappresentando il

bambino e la sua famiglia secondo i tratti a lei più congeniali e per quanto

questa personale visione fosse di grande interesse, come ogni percorso

autorappresentativo, era necessario attribuirle uno spazio preciso per non

correre il rischio di assumerla come nostra.

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Uno dei rischi maggiori nell’incontro con le famiglie può essere, infatti,

quello di considerare verità in grado di orientare le nostre riflessioni quelle

che invece sono descrizioni dotate di una propria luce dosata sotto le

influenze delle emozioni, delle aspettative e delle capacità di

autorappresentazione del singolo. Se si eviterà di assumerli come valori di

riferimento oggettivi queste narrazioni avranno molto da dare al processo

interpretativo7.

La mamma di Julio, per esempio, considerava centrale nell’economia del

racconto la diagnosi di handicap del bambino, tanto che nel lamentarne

l’emarginazione messa in atto in classe faceva spesso riferimento alla

questione come possibile causa scatenante; le proprie convinzioni e anche

una certa malcelata ostilità nei confronti della maestra, che comunque aveva

fatto pressioni perché Julio ottenesse il sostegno, ne orientavano giudizi e

convinzioni delineando un quadro nel quale il figlio poteva apparire vittima

della situazione scolastica.

La madre di Felipe, invece, partiva dal presupposto che la diversità del

bambino non trovasse spazi nella classe numerosa e caotica per giustificarne

l’evidente disagio alla luce di una scarsa possibilità di ascolto; questo

racconto coincise solo in parte con quanto potemmo verificare noi, dal

momento che a metà anno Felipe mostrò problemi legati più alla pressione

familiare che non alla dimensione scolastica.

La raccolta della storia di vita del bambino e della famiglia dovrebbe essere

il momento principale dei percorsi di accoglienza e di mediazione; come

suggerisce Duccio Demetrio, più che una tecnica da adottare nella ricerca la

7 Si ricordi quanto scrive Geertz (in Oltre i fatti, cit., pag. 75) riguardo l’incontro etnografico: “Ogniantropologo sul campo ha fatto l’esperienza (…) d’imbattersi nel corso della ricerca in individui chesembrano lì, in qualche improbabile luogo, ad aspettare uno come voi (…) così da avere la possibilità dirispondere alle vostre domande ma soprattutto di istruirvi su cosa chiedere […]. Più avanti vengono presein considerazione le delicate implicazioni della luce che accompagna i fatti e delle sue regolazioni qualeaspetto fondamentale del racconto o, meglio, del resoconto. Ricorda Geertz : “Forse l’accoglimento diquesta idea vi costringe ad assumervi personalmente la responsabilità di ciò che dite o scrivete (…) ossianon vi consente di addossare tale responsabilità alla “realtà”, la “natura”, “il mondo” o a qualche altra ecapace riserva di verità incontaminate” (ivi, pag. 76).

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storia personale dovrebbe diventare una modalità di approccio in cui il

messaggio sia “finché non avrai chiesto a chi ti sta di fronte qualche

frammento della sua biografia sospendi ogni giudizio”8.

Non insisteremo ancora sui pericoli intrinseci alla raccolta biografica che

sono legati, come si è detto, alla difficoltà di recuperarne i tratti narrativi

prescindendo dalle verità. Vorremmo riflettere, invece, sulla disponibilità

delle famiglie e sul senso che acquista per loro l’occasione di raccontarsi a

un estraneo.

Detta così, magari come la intende Demetrio, la storia di vita sembra

appartenere a una naturale dinamica dell’incontro occultata dalla scarsa

disponibilità degli operatori, siano essi insegnanti o futuri mediatori

interculturali. Nella realtà della nostra ricerca, tuttavia, ci scontrammo con le

difficoltà più diverse tanto che riuscimmo a realizzare l’intervista con la

mamma di Julio solo a ottobre del 2001.

Generalmente le maggiori difficoltà si hanno per problemi di tempo e di

organizzazione della vita: si deve ricordare che si tratta di famiglie nelle

quali padri e madri lavorano spesso con orari lunghi e ritmi sostenuti, quindi

non sarà facile che a fine giornata abbiano voglia di incontrare figure dai

contorni poco chiari, quali noi ci presentavamo. Di solito, comunque, ad

accettare l’incontro sarà la donna che si farà portavoce o interprete della

situazione domestica.

Si tenga conto, poi, che non è scontato che questi uomini e donne in Italia da

parecchi anni abbiano piacere a raccontarsi a un perfetto sconosciuto che,

per giunta, spesso non è in grado di illustrare chiaramente cosa farà dei dati

da loro forniti. Bisognerà tenere presente questo aspetto per evitare che si

inneschi una specie di “caccia” all’intervista che invece ha senso solo se

concordata e accettata dai protagonisti; va detto, poi, che una mancata

disponibilità potrebbe essere momentanea e comunque utile alla 8 Demetrio D. Agenda interculturale, cit., pag.113

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comprensione del rapporto che i soggetti hanno con i processi di

integrazione.

Recuperare il valore euristico celato nell’atto del negare la disponibilità a

raccontare è quanto mai necessario se si intende affrontare il percorso di

mediazione nella sua complessità: così come esistono quegli individui che

Geertz considera pronti a rispondere a qualsiasi domanda esistono anche

quelli che pensano proprio di non avere “nulla da dire”.

C’è poi un terzo aspetto legato al modo in cui viene percepita la scuola dalle

famiglie immigrate. Negli insegnanti e nelle opportunità che l’educazione

pubblica fornisce ai propri figli esse vedono la più grande risorsa della scelta

migratoria mantenendo sovente un atteggiamento di vera e propria

soggezione nei confronti di chiunque incarni figure “scolastiche” spesso

interpretate secondo bizzarre gerarchie in cima alle quali sono sempre i

potentissimi bidelli9. In questo quadro non è raro che anche chi si trova a

ricoprire ruoli incerti e senz’altro deboli rispetto alla possibilità di

intervenire sulle decisioni riguardanti un bambino venga visto come parte di

quel “potere” e come tale trattato con un rispetto che nulla concede alla

confidenza.

Ora, è evidente che ovviare a simili problemi non fu facile e si dovette

cominciare proprio da un intervento sull’immagine che davamo di noi stessi

avvicinando i genitori la mattina all’ingresso e tentando di far comprendere

loro il nostro intento di porci in una zona intermedia tra famiglia e scuola.

La fase successiva fu quella di basare la confidenza prima di tutto su un

nostro atteggiamento e non cercarla disperatamente: la nostra biografia,

precedette sempre la raccolta delle storie di vita alle quali eravamo

9 ivi, pag. 42

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interessati riproponendo in tutta la sua forza di esperienza “radicale e

rischiosa”10 quella dell’incontro tra uomini.

Ci si permetta, proprio a partire da quest’ultima frase, di chiarire al di là

della genericità della lingua, che il nostro fu, invece un incontro tra donne.

Le storie che si possono raccogliere spesso sono visioni femminili delle

realtà familiari: ciò accade in primo luogo perché, come si è detto, le madri

sono maggiormente disponibili in termini di tempo e di atteggiamento

generale nei confronti dell’incontro con chiunque si occupi dei propri figli: e

questo, che non è un tratto caratteristico delle donne immigrate tuttavia

assume in esse un maggiore valore sotto il profilo dell’ “apertura” al mondo

in cui si trovano a vivere.

In questa dimensione femminile possono emergere percorsi di confidenza

profonda all’interno dei quali una donna può raccontare non solo chi è e da

dove viene ma anche come essa si legga nella maternità, nel rapporto di

coppia e nella sua femminilità da vivere nel paese che la ospita.

Tale consapevolezza di genere si ripropone con molta forza nel rapporto di

mediazione con le famiglie immigrate tanto che in alcune occasioni può

venirsi a delineare quasi come una strada eversiva rispetto agli equilibri

famigliari. Come riconosce lo stesso Beneduce che in sede psicoterapica ha

incontrato numerosi casi, a seguito dell’esperienza per certi versi

“liberatoria” del contatto con i modelli occidentali, le donne immigrate

possono maturare una vera e propria ostilità nei confronti dei propri

compagni11.

10 Lombardi Satriani Luigi M. “Intervista: ascolto e cecità” in La stanza degli specchi, cit., pag. 51. Nelsaggio dedicato all’intervista e alle sue implicazioni sul piano della relazione tra coloro che vi partecipanocontinuamente ora come intervistanti ora come intervistati Lombardi Satriani ricorda, tra l’altro, che tra lepriorità dell’incontro antropologico vi sia proprio quella di distaccarsi dal modello dell’ascolto comemestiere nelle mani di un professionista: questa riflessione andrebbe recuperata nel momento dell’intervista alle famiglie rispetto alle quali noi non siamo chiamati a formulare domande per giudicare o perguidare un percorso, ma semmai per mettere in gioco la nostra stessa capacità di elaborare un discorsoautobiografico.11 Beneduce R. Frontiere dell’identità e della memoria, cit., pag. 158-172.

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Nella mediazione stessa, soprattutto se di segno femminile, non è raro che

emergano tratti di insofferenza verso i mariti accusati di essere incapaci ad

adattarsi alla nuova realtà, alle esigenze dei figli “che vivono qui e non lì”.

Aspetti che sovente spingono a cercare nel consenso di una donna

occidentale - riconosciuto tanto più forte quanto più questa sia una sorta di

“esperta” di problematiche immigratorie – quello che può prospettarsi come

un possibile percorso di fuga da una realtà di fatica e lavoro quotidiani riletti

alla luce dell’inadeguatezza maschile e dell’insoddisfazione di coppia.

Non racconteremo i particolari della nostra esperienza in tal senso, non

sarebbe corretto, ma non è escluso che questa ricerca di solidarietà possa

essere un tratto caratteristico dell’incontro sessualmente definito tanto da

costituire una variabile fondamentale del percorso di mediazione che dia

voce alla confidenza oltre che alla memoria. Acquisire un distacco da chi

racconta le proprie vicende non vuol dire inaugurare un dialogo tiepido ma

allontanarsi progressivamente dall’idea che il nostro intervento di

mediazione possa sostituire un lavoro psicoterapeutico: si ricorderà, infatti,

che il contatto con le famiglie arriva direttamente dalla necessità di favorire

l’integrazione e l’apprendimento dei bambini e non avrebbe alcuna utilità se

venisse concepito secondo modalità esclusivamente confidenziali per certi

versi dilanianti per la famiglia stessa.

Ci potrà essere un momento in cui si immaginerà l’intervista secondo

modalità giornalistiche: noi seduti col registratore in mano, gli altri

comodamente in poltrona. Niente di più illusorio.

La realtà dell’incontro è che tanto più esso è intenso quanto più è casuale,

soprattutto se costruito secondo modalità così poco convenzionali. Corridoi

della scuola, bar, strada e marciapiedi furono i luoghi nei quali conoscemmo

le storie familiari, spesso rendendoci conto solo alla fine che avevamo

realizzato una vera intervista senza averne registrato neanche una parola. Ci

preme chiarire, tuttavia, che questa immagine del mediatore che raccoglie

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storie di vita per strada e nei locali pubblici può funzionare in una ricerca

che si dichiari in tutta la propria tensione sperimentale: interviste così

concepite sarebbero impossibili, per non dire sconfortanti per ambo le parti,

nella prospettiva di una mediazione culturale istituzionalmente riconosciuta.

Così, in un futuro, sarebbe auspicabile che fosse la scuola a favorire un

contatto mettendo a disposizione dei locali, aiutando a sostenere la

mediazione con i simboli stessi dell’ufficialità, della legittimità o del

riconoscimento di valori.

Il disordine che fu alla base della nostra esperienza di raccolta della storia di

vita viene qui riprodotto nella sua interezza e disomogeneità, lungi dal

volere essere un modello, come primo passo verso la strutturazione di un

percorso di mediazione. Si è scelto di “tratteggiare” la narrazione per

rendere con una certa fluidità le storie che furono raccolte secondo modalità

diverse.

Incontrammo la mamma di Felipe per tre volte nel corso della ricerca,

sempre nei corridoi della scuola: arrivava a metà mattina, annunciata dalla

maestra alla quale comunicava all’ingresso il desiderio di incontrarci. Le

motivazioni che la spingevano da noi erano legate alla necessità di sapere

“qualcosa sul bambino”. Ovviamente, poiché su Felipe non c’era nulla da

dire che lei già non sapesse, si finiva col parlare della vita quotidiana e della

storia della famiglia.

La donna parlava italiano molto velocemente e con una forte influenza

castigliana, tanto che non era facile seguirla. Alle domande rispondeva

parlando solo di sé, mai del marito; così raccogliemmo solo la sua storia.

Originari del nord del Perù il padre e la madre di Felipe erano partiti per

l’Italia nel 1985 lasciando le rispettive famiglie certi che avrebbero trovato

lavoro come “avevano detto” i loro parenti precedentemente immigrati.

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Nel paese di origine la donna aveva portato a termine gli studi secondari e si

era iscritta alla facoltà di Economia senza laurearsi.

In Italia aveva iniziato a lavorare col marito riuscendo ad avere un incarico

di custode presso il castello di Canossa. Qui era nata la loro prima figlia che

di Matilde di Canossa portava il nome.

Trasferitisi a Firenze avevano trovato un impiego come domestici e

domicilio in un “palazzo di signori”: qui era nato Felipe. La famiglia

frequentava la comunità peruviana del capoluogo toscano con una certa

assiduità.

Trasferitisi a Roma per cercare di “uscire” dal palazzo dei fiorentini erano

riusciti a trovare lavori separati: il marito come custode di uno stabile

signorile del quartiere Fleming, la donna come autista del pulmino per il day

hospital dei dializzati di una clinica convenzionata. Nel 1998 era nato il

terzo figlio.

Da circa un anno, come si è detto, avevano affittato una casa fuori Roma per

passare i week end in uno spazio più grande e col giardino.

Erano intenzionati a restare in Italia e la donna trovava curiose le nostre

domande circa la possibilità di un ritorno in Perù. Da dieci anni non

tornavano nemmeno a trovare i parenti con i quali si sentivano regolarmente

al telefono.

Nei suoi racconti venivano spesso ripercorse le “tappe” del soggiorno

italiano, con un particolare accento su Firenze, città nella quale avevano

vissuto le esperienze “più felici e più tristi”. Con questa espressione

sottolineava un certo rimpianto per la vita nella comunità peruviana e

l’evento della nascita di Felipe, il momento più drammatico dei suoi

racconti.

Felipe era nato all’ottavo mese di gestazione ed aveva passato alcuni giorni

in incubatrice durante i quali la madre si “tirava il latte dal seno” per

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poterglielo dare; uscito dall’ospedale si era regolarmente attaccato ma ben

presto la donna aveva “perso il latte” e si era dovuti passare a quello

artificiale.

A tre anni Felipe aveva avuto il primo episodio di asma che si era aggravata

dopo l’arrivo a Roma. Qui era iniziato un pellegrinaggio tra pediatri e

specialisti al termine del quale il bambino era risultato allergico alle proteine

del latte. Il latte tra l’altro era stato ritenuto responsabile anche delle forti

coliti del bambino che spesso non riusciva a trattenere le feci.

I genitori avevano scelto un pediatra che conoscesse l’omeopatia e ne erano

molto soddisfatti; la moglie del medico era psicologa e aveva avuto colloqui

con la mamma di Felipe in occasione dei più gravi episodi di colite del

bambino subentrati, tra l’altro, all’enuresi notturna che si era risolta al

termine della prima elementare.

Del proprio figlio la donna diceva spesso sorridendo “è piccolo, è nato

piccolo”, tanto che a fine anno andò a parlare con la maestra per consultarsi

sull’eventualità di bocciarlo pur di farlo stare con “quelli più piccoli”. L’idea

cadde in poco tempo ma durante un fugace incontro con noi ne emersero i

contorni di una scusa per allontanare il bambino dall’insegnante e dai suoi

metodi didattici dei quali padre, madre e pediatri non erano affatto convinti.

Per supplire al poco tempo dedicato al gioco nella scuola la famiglia aveva

scelto di far fare a Felipe qualsiasi attività avesse voluto: il bambino aveva

voluto iscriversi a un corso di musica e di calcetto, ma non reggendo i ritmi

di due attività settimanali, optò per lo sport con una certa delusione della

mamma che lo avrebbe preferito al corso di musica.

La testimonianza della madre di Julio fu raccolta nel corso di un’intervista

realizzata a casa sua ad ottobre del 2001: ancora una volta, come si vedrà, ci

trovammo di fronte più alla storia di una donna che non a quella di tutti i

membri della famiglia.

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La donna era arrivata in Italia nel 1974 con un contratto di lavoro

procuratole da una sorella presso una famiglia che le offriva vitto e alloggio.

Di fronte al nostro stupore per i molti anni trascorsi dal suo arrivo –legato al

fatto cha la credevamo più giovane di quanto in realtà non fosse- disse che

avrebbe anche voluto chiedere la cittadinanza italiana.

A Capo Verde aveva studiato sino alla quarta elementare.

Rimasta incinta della prima figlia aveva “deciso di tenerla” anche grazie alla

disponibilità dei datori di lavoro che le permisero di continuare a vivere da

loro per qualche anno anche se “qualche volta” aveva dovuto metterla in

collegio. Aveva lasciato quella famiglia quando si era resa conto di non

poter far crescere sua figlia in “casa d’altri”.

I viaggi estivi a Capo Verde erano stati piuttosto regolari in tutti questi anni.

Nel 1993 era nato Julio avuto dall’attuale marito del quale, con imbarazzo,

ci disse che era stato “già sposato con un’altra donna a Capo Verde” dalla

quale ha avuto due figli che lo avevano reso nonno di recente.

Attualmente la donna lavorava a servizio presso una famiglia con la quale

collaborava anche il marito, custode part-time dello stabile in abitavano.

Due anni fa, come si è detto, la coppia aveva deciso di acquistare un terreno

edificabile a Capo Verde dove poter costruire la casa nella quale andare a

vivere. Lei non sapeva dire quando ma era certa che ciò sarebbe accaduto

prima che Julio fosse diventato grande “sennò fa come sua sorella che ora è

fidanzata e non vuole più partire”.

In tutta l’intervista si parlò del bambino, della sua presunta debolezza e della

reale aggressività, ma soprattutto emerse il forte contrasto con la maestra

(espresso più nella mimica che accompagnava il discorso che non nelle

parole) generato dalla segnalazione alla psichiatra infantile.

Dell’insegnante la madre lamentava la durezza e soprattutto la richiesta

pressante di lasciare più autonomia al bambino; convinta essa stessa di

essere molto protettiva, tuttavia attribuiva la responsabilità alla realtà

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cittadina sostenendo che a Capo Verde lei “lo lasciava libero”. Aggiunse,

poi, di volere per il figlio ciò che non aveva potuto offrire alla più grande

benché fosse convinta che troppe attività non facessero bene a Julio.

La donna sosteneva che Julio a Capo Verde fosse completamente diverso:

giocava correva, aveva energia, al contrario di qui dove era “tutto molle”.

Nonostante esprimesse forti perplessità voleva continuare con le indagini

richieste dalla neuropsichiatra benché si dimenticasse da circa un mese di

telefonare all’ospedale per ritirarle.

Durante tutta l’intervista pronunciò il nome di Julio esattamente come lo si

scrive e non “all’inglese” come noi facevamo da un anno adeguandoci alla

pratica comune di maestre e compagni di classe. Le domandammo

spiegazioni e venimmo a sapere che l’equivoco era nato all’asilo quando le

maestre chiesero al bambino come si chiamasse e lui disse il proprio nome

con un’altra pronuncia minacciando di offendersi se avessero continuato a

chiamarlo come, poi, di fatto avveniva in famiglia.

Come si vede entrambe le donne, benché provenissero da paesi diversi e da

differenti percorsi formativi avevano in comune alcuni aspetti legati

all’esperienza migratoria e alle sue conseguenze.

Entrambe erano arrivate molto tempo fa e si sentivano ben integrate, tanto

da far dire alla mamma di Julio che avrebbe voluto chiedere la cittadinanza

italiana.

Entrambe lavoravano stabilmente e duramente dopo aver attraversato

l’esperienza della residenza presso il datore di lavoro senza conservarne un

buon ricordo, tanto da farle optare per l’affitto di un appartamento e l’

“uscita” dalle case che le ospitavano.

Cattoliche entrambe, molto curate nell’aspetto, quasi coetanee, piuttosto

libere nel rapporto di coppia, madri di più figli, in possesso di patente, di

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una buona competenza linguistica, tutto sembrava accomunarle tranne un

tratto caratteristico dei loro racconti: il futuro.

Le due madri quando si parlava delle prospettive prendevano strade molto

diverse: quella di Felipe pensava di cambiare casa, quella di Julio voleva

tornare a casa. Si badi, tra l’altro, che il progetto della permanenza

definitiva o temporanea aveva preso forma quasi subito dopo l’arrivo di

entrambe e quindi non aveva, almeno nei loro racconti, nulla a che vedere

con eventuali difficoltà sorte durante l’esperienza italiana della quale erano

entrambe molto soddisfatte.

Ogni progetto migratorio porta con sé aspettative dichiarate e altre più

profonde ed è esattamente sul terreno delle attese familiari che si può

iniziare a raccontare il percorso di inserimento dei bambini. Innanzi tutto

sarà necessario avere chiaro che un’esperienza di immigrazione può avere

un termine nelle intenzioni del soggetto ma non necessariamente nella

realtà: il fatto, cioè, che si desideri tornare nei paesi di origine non vuole dire

che poi si lo si farà. Potrebbe accadere, come abbiamo raccontato, che un

figlio adolescente non voglia seguire i genitori e che questi non se la sentano

di partire senza di lui; nel paese di origine, poi, potrebbero essere accaduti

avvenimenti che attenuano i legami, per esempio la famiglia intesa come

gruppo di fratelli e sorelle potrebbe essersi dispersa; da ultimo non è

scontato che si sia riusciti a “fare fortuna” quanto basta per rientrare nei

canoni di quella che la comunità di provenienza considera la condizione

dell’emigrato.

Il caso della famiglia di Julio ci costrinse a prendere in considerazione tutti e

tre gli aspetti.

La sorella maggiore non sarebbe mai tornata a Capo Verde con la madre.

Julio, poi, aveva sette anni e si avvicinava il tempo di una scelta riguardo al

suo futuro. Ma cosa avrebbe significato tornare a vivere nelle isole? La casa

in costruzione portava via molto denaro che veniva sottratto al benessere

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quotidiano facendo sentire tutti più poveri e, oltretutto, era anche necessario

affrettarne i tempi di realizzazione se non si voleva perdere la possibilità di

farvi rientro col bambino.

A Capo Verde, tuttavia, le famiglie di origine si erano ridotte proprio a

seguito dell’emigrazione di molti membri: i genitori e i fratelli della madre

di Julio, ad esempio, vivevano stabilmente a Lisbona e non tutte le estati

avevano il denaro per tornare in patria.

La nuova casa, così, avrebbe potuto anche trasformarsi in una residenza

stagionale se non avessero trovato un’armonizzazione le varie questioni in

ballo; tra tutte, come è chiaro, era quella economica a scandire i tempi della

vita e a generare frustrazioni.

Ora, benché fosse impossibile stabilire se un domani la famiglia sarebbe

tornata a Capo Verde, è certo che il progetto incideva moltissimo sulla vita e

sulle scelte dei suoi membri. Probabilmente questa attesa si riversava sullo

stesso Julio che non a caso dichiarava di voler imparare il creolo prima

dell’italiano, così come non è escluso che generasse una sorta di inibizione

nel bambino di fronte alle strutture scolastiche, aspetto che scompariva del

tutto al momento del gioco e dell’organizzazione del tempo libero. Il fatto

che in famiglia, come ammetteva la madre, si criticassero la maestra e la

scuola italiana in genere per la durezza con la quale venivano affrontate le

materie si rifletteva nell’atteggiamento di assenza e di negazione della loro

importanza ben espressi nell’atteggiamento di Julio.

In più sembrava quasi che i genitori, un tempo certi che l’esperienza

educativa italiana sarebbe stata fondamentale nella vita del figlio, iniziassero

ad avere molti dubbi sui benefici effettivi: il bambino non studiava, non

partecipava alla vita scolastica, era considerato handicappato e aveva grandi

problemi nelle relazioni di gruppo. Da queste critiche nasceva anche quel

sentimento di urgenza di un ritorno già previsto che permettesse al bambino

di attuare una sorta di rimozione degli anni passati in Italia, sentimento

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supportato anche da un insieme più complesso e meno analizzabile di fattori

che si venivano a presentare nella dimensione capoverdiana nella quale,

come si è detto, l’immagine di Julio che si offriva alla famiglia era

completamente ribaltata rispetto a quella romana.

Dunque, soprattutto per la madre, il “vero” Julio era quello capoverdiano

mentre quello che quotidianamente le ridava la scuola era un’immagine

deforme prodotta da una realtà non accettata se non parzialmente e della

quale sempre meno si era disposti ad accettare le asprezze.

Anche la madre di Felipe faceva spesso un confronto tra il comportamento

del bambino durante la settimana e quello che lei vedeva correre e scatenarsi

nella campagna romana. Consapevole che la salute precaria e gli

imbarazzanti episodi di colite mettessero il figlio in una posizione

marginale, aveva fatto di tutto per porvi rimedio pur ritenendo necessaria

una collaborazione con le insegnanti affinché aiutassero il bambino a non

vergognarsi di chiedere di andare in bagno, magari ricordandoglielo.

Tuttavia era rimasta molto delusa perché si era resa conto che nessuno aveva

capito la gravità del problema e accusava una delle due maestre di essere

“distratta con i bambini”. Fu anche a seguito di questi episodi che aveva

deciso di far fermare il figlio per un anno scolastico certa che in una classe

di bambini più piccoli qualcuno si sarebbe accorto di Felipe e dei suoi

sintomi.

Tra insegnanti che si “dimenticavano” la ricreazione, bidelle che si

occupavano di controllare che il bambino non mangiasse alimenti ai quali

era allergico e compagni di classe che si lamentavano della “puzza” Felipe

sembrava ancora più piccolo e senza voce, così piccolo che la madre

arrivava ad attribuirsi la colpa di averlo partorito in anticipo e allattato poco.

La condizione di quasi tutti gli altri bambini stranieri presenti in classe era di

segno opposto. Le famiglie erano generalmente molto soddisfatte del

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sistema educativo e se pure si manifestavano tensioni, queste si inserivano

nelle lamentele comuni a molti genitori della classe.

Come già si è accennato, poi, per molte famiglie immigrate la soggezione

nei confronti di strutture e operatori è tale che se la scuola non provvederà

negli anni a venire a creare un “ponte” che ammorbidisca l’incontro si

rischierà di far vivere nell’ombra genitori e bambini. Si pensi alla madre di

Jhon-Jhon, uscita allo scoperto dopo che il volontario della parrocchia era

andato a trovarla per convincerla (e non ce ne fu bisogno, non aspettava

altro) a lasciare che il figlio si fermasse a scuola due pomeriggi alla

settimana per recuperare.

La soluzione adottata dalla scuola F. A. per affrontare le difficoltà dei

bambini immigrati meriterebbe qualche attenzione in più.

Il contatto con le famiglie e con i bambini non è semplice e spesso chiama in

causa competenze e capacità di orientamento che dubitiamo possano

appartenere al volontariato nella forma “minima” nella quale ci si presentò,

vale a dire quella di un bravo ragazzo spinto dal desiderio di aiutare “chi sta

peggio di noi”. Si dirà “magari ce ne fosse uno in ogni scuola!” e alle nostre

critiche fu risposto sempre così. Si consideri, tuttavia, che quella di affidarsi

al volontariato è la scelta meno impegnativa per dirigente scolastico e

docenti poiché non costa niente alla scuola e non è tale da entrare nelle

dinamiche della didattica e delle relazioni con le famiglie.

A noi sembra, cioè, la meno coraggiosa o, se vogliamo, la meno onesta,

primo perché aggira le direttive contenute nelle circolari ministeriali nelle

quali è esplicito il riferimento alla collaborazione col privato sociale e non

con singoli volontari di parrocchie cittadine, secondo perché allontana il

problema considerandolo “affare da volontariato” e non per ciò che è, una

questione sempre più urgente da risolvere sul terreno dei progetti scolastici

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di mediazione interculturale chiamando in causa competenze diverse e

aprendo la scuola a un rinnovato incontro coi servizi sociali.

Sappiamo che è molto difficile portare avanti queste idee che

inevitabilmente si scontrano con l’immagine di chi quotidianamente vive

l’esperienza dell’impegno come volontario per raggiungere quelle sfere

della società dove lo Stato non riesce ad arrivare; vorremmo ricordare,

tuttavia, che molte di queste persone affrontano percorsi formativi senza i

quali non sarebbero in grado di fare i volontari nel servizio civile o nelle

comunità di recupero. Chi, al contrario, è convinto che basti essere sostenuti

da spirito di carità per operare nel quotidiano dell’emarginazione dovrebbe

trovare spazi meno delicati e complessi di quelli che riguardano i figli degli

immigrati; la scuola stessa, poi, dovrebbe opporsi all’ingresso di queste

persone nelle sue strutture. Purtroppo, invece, negli ultimi anni la realtà di

molti istituti romani è quella dei “ragazzi della parrocchia” pronti a fare ciò

che gli insegnanti non riescono più a gestire e a costi zero per la scuola.

Ma questi volontari hanno pensato mai alle difficoltà che il loro legame con

la parrocchia potrebbe avere per le famiglie musulmane o cinesi? E i

dirigenti si sono chiesti quale immagine dell’educazione pubblica potrebbe

maturare in questi genitori? Che la scuola di Stato offra il doposcuola gestito

dai parrocchiani a bambini di origine tunisina o cinese o serba è cosa

davvero difficile da far digerire a famiglie che già vivono con fatica che i

propri figli entrino in contatto con valori non condivisi, figuriamoci poi se

religiosi.

I casi, così sono due. O la scuola si affida a un volontariato che non dichiara

e non ha legami con i parroci e che presenta credenziali di competenza e di

formazione sul tema oppure sceglie tra quanti presentano progetti alle sue

strutture di finanziare quelli rivolti all’integrazione culturale e all’emersione

delle famiglie immigrate.

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In questo caso si potrà scegliere, magari, di rinunciare per qualche tempo a

prestigiosi corsi di teatro dalla dubbia valenza o alle convenzioni con le

piscine cittadine - frequentate nei pomeriggi da quasi tutti i bambini -,

recuperando il senso del servizio pubblico che non è quello di omologarsi

faticosamente all’offerta privata quanto quello di offrire a tutti le stesse

opportunità. E oggi più che mai è la scuola statale e laica che può proporre

percorsi di integrazione e di acquisizione di un diritto alla cittadinanza

altrimenti negato e offeso dall’omologazione coatta e dai tentativi di portare

le differenze su un piano esterno alla realtà delle classi e dei maestri,

affidando i bambini immigrati al volontariato improvvisato pur di

allontanare il problema.