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IL FOGLIO ANNO XV NUMERO 284 DIRETTORE GIULIANO FERRARA MERCOLEDÌ 1 DICEMBRE 2010 - 1,30 Non riesci a fare a meno del Foglio? Leggilo anche su iPad e iPhone quotidiano Redazione e Amministrazione: via Carroccio 12 – 20123 Milano. Tel 02/771295.1 Sped. in Abb. Postale - DL 353/2003 Conv. L.46/2004 Art. 1, c. 1, DBC MILANO Milano. Il paese più generoso nei con- fronti dell’euro è, da sempre, uno dei più euroscettici. A ragione, probabilmente, al- meno a giudicare dai risultati che premia- no la Svezia del premier di centrodestra Friedrich Reinfeldt: l’economia sta cre- scendo a pieno ritmo, a un tasso del 4,8 per cento: certo, la disoccupazione, seppur in calo, resta all’8 per cento, ma la crisi del- l’auto dopo il 2009 nero è ormai superata, mentre tornano a fiorire investimenti e nuovi posti di lavoro (140 mila entro la fine dell’anno). Inoltre il deficit pubblico di Stoccolma, membro dell’Unione europea ma non della zona euro, si man- tiene al di sotto della soglia del 3 per cento sul pil, men- tre il debito pubblico (il 36 per cento sul pil) è dentro i parametri di Maastricht. Un miraggio per tutti gli altri paesi europei, considerato che anche ieri sono saliti a li- vello record gli spread sui rendimenti dei decennali di Italia, Spagna, Irlanda e Bel- gio nei confronti del bund tedesco, mentre l’euro ha toccato il nuovo minimo rispetto al dollaro da 11 settimane. Non solo: per il Financial Times le tensioni sui debiti pub- blici si potranno far sentire anche sul mer- cato dei bond privati. Insomma, non ci sarebbe da stupirsi se il ministro delle Finanze, Anders Borg, il vero artefice dell’exploit, famoso tra i col- leghi per il suo codino da pirata e un orec- chino d’oro, si sedesse sulla riva del fiume a osservare i crucci dei colleghi di Bruxel- les. Al contrario mister Borg è senz’altro, e non da ieri, uno dei pompieri più attivi a spegnere i focolai di crisi dell’euro. A mag- gio, nel momento più delicato della crisi greca, fece scalpore il suo violento attacco a tedeschi e francesi, a suo dire troppo ri- gidi con Atene: “Vi state comportando co- me un branco di lupi”. La Svezia, infatti, non solo ha contribuito con 598 milioni di euro al prestito a Dublino ma ha anche fat- to pressioni, con successo, su Copenaghen perché la Danimarca facesse altrettanto. Solo il Regno Unito è stato più munifico nei confronti dell’Irlanda, ma in quel caso l’ap- parente generosità si spiega con l’esposi- zione delle banche inglesi nei confronti di Dublino. Soccor so scandinavo Perché la generosa Svezia non assiste inerte all’eurotracollo Tensioni sui debiti dei paesi periferici Ma Stoccolma aiuta Dublino in nome di export e solidarietà nordica Ft: rischi per i bond privati Meglio di Fellini e di Antonioni. Il gran cinema di Monicelli è tutto in una frase: “Mai alle Maldive” Ma quale cinico? L’ anno scorso aveva dettato il suo epi- taffio, a gentile richiesta di un com- pilatore di almanacchi. Sta nel volumet- to “Meglio qui che in riunione”, raccol- ta di auto-epitaffi uscita da Rizzoli. Per quasi tutti gli intervistati, l’occasione di una vanitosa e adolescenziale spirito- saggine. Tra i pochi a salvarsi, Mario Monicelli che sulla sua tomba voleva far incidere: “Non andò mai alle Maldive”. Un modo per prendere le distanze dal- l’Italia che non gli piaceva, forse anche dai cinepanettoni. L’Italia dove uno co- me lui era considerato un po’ troppo ci- nico, come ha ribadito Carlo Verdone appena saputa la notizia. Non era cini- co: era un regista di commedie, e Ver- done per primo dovrebbe sa- pere che il grado zero della risata è l’uomo che scivola sulla buccia di banana, non il samari- tano che gli fascia la testa, lo consola e chiama l’ambu- lanza. Era un regista di commedie come “L’armata Branca- leone”, con la sua parlata finta medievale e l’ac- cozzaglia di dispe- rati, da allora rimbalzata da un titolo di giornale ad un altro per raccontare la po- litica e la tentazione gruppettara e liti- giosa che in Italia son quasi la stessa co- sa. Era il regista dei “Soliti ignoti”, altra formula tuttofare che rende bene il ca- rattere nazionale e l’indigena arte di ar- rangiarsi. Era il regista della “Grande guerra”, di cui ricordiamo la saggia sen- tenza “Peccato di pantalone, pronta asso- luzione”. Oltre a un grande Alberto Sor- di e un grande Vittorio Gassman, cialtro- ni in massimo grado eppure irresistibili. Il film, girato nel 1959, vinse il Leone d’o- ro a Venezia e fu il candidato italiano al- l’Oscar. Assieme al “Sorpasso” di Dino Risi, racconta il paese reale più fedel- mente della visionarietà felliniana o del- le sparizioni antonioniane. Era il regista che si guardava in cagne- sco con un giovane Nanni Moretti alla trasmissione televisiva “Match” condotta negli anni 70 da Alberto Arbasino. E se c’è da dar sfogo alla nostalgia, ora che Nanni Moretti si avvia verso l’età che aveva Monicelli allora, non viene in men- te nessun giovanotto che possa sfidare il regista del “Caimano” con la stessa teme- rarietà e la stessa furia. Da Pietro Ger- mi, morto troppo presto, ereditò il copio- ne di “Amici miei” e ne fece un film di culto. Zingarate, schiaffi alla stazione, la supercazzola sono saldi nell’immagina- rio collettivo più della pipa di Luciano Lama o della spilla di Rita Levi Montal- cini che comparivano sul megaschermo di “Vieni via con me” mentre la notizia del suicidio cominciava a circolare. Tra i nostri preferiti, il melodramma operaio “Romanzo popolare”, “Speria- mo che sia femmina” (con lo zio Gugo svanito che fa la maglia) e “Parenti ser- penti”: ritrattino di famiglia che in una cinematografia meno imbalsamata della nostra avrebbe fatto morire d’invidia re- gisti molto più giovani di lui. “Smettila di mangiare gelati, mi vieni su con un culo che fa provincia”, dice la mamma alla fi- gliola già sovrappeso. Una stufa a gas di- fettosa risolverà il problema dei vecchi genitori che nessuno vuole accudire. Roma. La riforma dell’Università propo- sta dal governo Berlusconi è stata approva- ta ieri dalla Camera, superando così il pas- saggio più atteso dell’iter legislativo che potrebbe concludersi in Senato già nei pri- mi giorni di dicembre. Mentre in Aula pro- cedeva il confronto tra i deputati, migliaia di ricercatori e studenti di scuole superio- ri e università sono scesi in piazza nelle città italiane per manifestare il loro dissen- so che, soprattutto a Roma, è sfociato anche in scontri con le forze dell’ordine. Al cen- tro delle proteste ci sono le risorse: secon- do i contestatori, sarebbero infatti troppo esigue quelle destinate agli atenei e al si- stema dell’istruzione in generale. Ma le co- se stanno veramente così? In realtà sempre più osservatori sconfes- sano, dati alla mano, l’equazione “più sol- di uguale più qualità”. L’ultima smentita del mantra arriva da un rapporto pubbli- cato in queste ore da McKinsey, colosso americano della consulenza. L’analisi, ba- sata sugli indici Pisa (Programme for Inter- national Student Assessment), calcolati dall’Ocse per valutare l’apprendimento de- gli studenti, prende in esame 20 stati con diversi tipi di sistema scolastico (debole, buono, ottimo, eccellente) accomunati però da un costante miglioramento. L’analisi di- mostra, attraverso una correlazione tra va- lore dell’indice Pisa e spesa per studente in migliaia di dollari, che è possibile mi- gliorare il sistema scolastico non tanto con continue iniezioni di liquidità, ma attraver- so una serie di riforme mirate. Lo dimostra per esempio il fatto che tra il 2000 e il 2007 gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno aumentato i finanziamenti al- le scuole superiori rispettivamente del 21 e del 37 per cento, eppure entrambi hanno visto peggiorare la capacità d’apprendi- mento dei propri alunni. Se si escludono infatti quei paesi in cui il traguardo da rag- giungere è ancora quello di insegnare a leggere, scrivere e far di conto – spiegano gli esperti di McKinsey – un istituto in af- fanno potrà migliorare la sua posizione so- lo con migliori sistemi di insegnamento, mentre una realtà caratterizzata da buoni risultati accrescerà la sua competitività ri- cercando un corpo docente più qualificato. Così, per esempio, hanno incrementato la qualità del loro servizio alcuni istituti degli Stati Uniti, le scuole della Sassonia in Ger- mania e quelle delle tigri asiatiche (Singa- pore, Hong Kong, Corea del sud). In Italia si spende quasi come ad Harvard Nel rapporto, l’Italia non viene diretta- mente presa in esame, tuttavia dallo studio emergono alcuni dati. Il nostro paese spen- de tra i 7 mila e gli 8 mila dollari per stu- dente, classificandosi, secondo l’indice Pi- sa, come un buon sistema scolastico. A pa- rità di spesa però, lo stato canadese del- l’Ontario e l’Olanda ottengono performan- ce migliori, e con la medesima cifra la Fin- landia ha raggiunto l’eccellenza mondiale. Discorso analogo si può fare per l’univer- sità. Come ha spiegato Andrea Graziosi in un libro appena pubblicato dal Mulino (“L’università per tutti”), “una laurea italia- na costa alle famiglie quasi la metà di quel- la garantita da Harvard, e più di quella as- sicurata da altre ottime università america- ne”. Per questo, nonostante Graziosi non manchi di muovere critiche alla riforma in discussione, “il primo obiettivo dovrebbe essere quello di migliorare l’uso delle ri- sorse già oggi disponibili, tanto di quelle dello stato quanto di quelle delle famiglie”. “Spendere di più senza cambiare le re- gole, anzi gli incentivi, non avrebbe senso”, dice al Foglio Roberto Perotti, docente al- l’Università Bocconi e autore del libro “L’università truccata” (Einaudi). Qual è dunque la direzione da prendere? “Non si tratta di aumentare i fondi, ma di imitare il sistema inglese, con ‘review’ triennali e indipendenti sulle spese dei singoli dipar- timenti universitari – spiega l’economista – Solo alla luce dei risultati, poi, si assegna- no o si tolgono le risorse”. Su questo fron- te la riforma Gelmini, sostiene Perotti, è troppo timida: “La legge non peggiora la si- tuazione, ma la montagna ha partorito un topolino”. Di diverso avviso Francesco Gia- vazzi, che ieri sul Corriere della Sera ha elencato i punti di forza della riforma: abo- lizione dei concorsi, più meritocrazia nel reclutamento, governance degli atenei me- no autoreferenziale, l’assegnazione di una parte dei fondi in base ai risultati. “Una riforma da difendere”, secondo l’editoriali- sta del Corriere. Più per le regole che intro- duce che per i soldi che distribuisce. Non sono i soldi a pioggia a far risollevare gli atenei La priorità è cambiare le regole:le voci dei prof., lo studio di McKinsey Più Gelmini e meno fondi Roma è stata “assediata da una vera e propria tenaglia militare, che ricorda altre epoche e altre capitali: Ro- ma blindata e sequestrata come Santiago del Cile” ai tempi di Pinochet. E’ duro il giudizio di Ni- chi Vendola, presidente di Sinistra ecolo- gia libertà, sulla gestione dell’ordine pub- blico da parte del ministro dell’Interno, Roberto Maroni, nel giorno delle proteste studentesche contro l’approvazione della riforma Gelmini dell’università. “A una ge- nerazione che reclama nello studio il dirit- to al futuro – insiste il governatore della Puglia – si risponde con i mezzi cingolati, con la repressione, facendo di Roma una cartolina della Santiago degli anni Settan- ta. Una gestione criminale dell’ordine pub- blico che alimenta le spinte estremistiche, mentre ai giovani dovremmo prestare il massimo ascolto, come fece Aldo Moro nel ‘68”. Ecco, finalmente, un’analisi puntuale della realtà fornita dal nuovo leader del centrosinistra. Lucida, pacata, sapiente, guai se fosse rimasta riservata. Fortuna che è tutto un fiorire, a questo punto, di Wiki- pendola e di Nichileaks. Roma. Lo spread tra i titoli di stato de- cennali spagnoli e i bund tedeschi ha rag- giunto ieri il massimo storico di 311 punti di base. Secondo quanto riferito dal mini- stro dello Sviluppo economico, Paolo Ro- mani, Silvio Berlusconi avrebbe commen- tato la notizia, durante il Consiglio dei mi- nistri, sottolineando che il dato mostra che la Spagna “sta peggio di noi”. Ma non è il dato cruciale di finanza pubblica spagnola a terrorizzare i mercati: lo stock di debito pubblico rispetto al pil sfiora il 70 per cen- to (mentre quello dell’Italia è sul 116 per cento). Tuttavia, il deficit d’esercizio minac- cia di toccare il 10 per cento nel 2010 (ri- spetto al 5 per cento dell’Italia). Di questo passo, il rapporto tra debito pubblico e pil arriverà, secondo l’Economist Intelligence Unit, al 90 per cento del pil nel 2013 (men- tre era appena il 38 per cento nel 2007). La tendenza fa tremare le piazze. C’è molto di più di questi dati, come rive- la un rapporto del Banco de España, la Banca centrale spagnola, diramato ieri in versione preliminare. L’analisi ha il crisma del servizio studi dell’istituto che, a sua vol- ta, lo ha commissionato a César Alonso- Borrego dell’Università Carlos III di Ma- drid. La ricerca scava nelle determinanti di economia reale che hanno reso la Spa- gna molto fragile. In particolare, lo studio esamina l’andamento della produttività e della competitività nel periodo 1983-2006, ossia da quando il paese stava per entrare in quella che ora è l’Ue (l’ingresso avven- ne il primo gennaio 1986) fino alla vigilia della crisi finanziaria (un 2006 euforico in cui Zapatero ancora mostrava i muscoli). Il lavoro documenta quali sono i fattori determinanti di economia reale, più di quelli bancari, che hanno causato, dalla nascita dell’euro (ossia negli ultimi dieci anni), un aumento dell’85 per cento del di- savanzo dei conti con l’estero. La perdita di quote di mercato internazionale ha radici in politiche industriali e del lavoro che hanno funzionato come un boomerang, con- cludono gli autori: avevano l’obiettivo di rendere la Spagna più produttiva e più competitiva ma l’hanno appesantita e in- fiacchita. I titoli spagnoli ballano sui mercati Le zavorre non solo bancarie dell’economia zapateriana Siesta madrilena (segue a pagina quattro) (segue a pagina quattro) La Giornata * * * * * * In Italia Nel mondo LA RIFORMA UNIVERSITARIA PASSA ALLA CAMERA, STUDENTI IN RIVOLTA. Il disegno di legge Gelmini ha ottenuto 307 sì, 252 no e 7 astensioni; il testo passa ora all’esame del Senato. Durante la giornata il governo era stato battuto due volte su emendamenti presentati da Fli, Api e Pd. Anche ieri blocchi e manifestazioni in tut- ta Italia, con pesanti conseguenze sulla cir- colazione stradale e ferroviaria. “Gli stu- denti veri stanno a casa a studiare, quelli in giro a protestare sono dei centri sociali e fuori corso”, ha commentato il presiden- te del Consiglio Berlusconi. Anche il pre- sidente della Camera Fini ha criticato “gli estremisti che hanno bloccato Roma e cau- sato gravi incidenti”. Il leader del Pd Ber- sani ha solidarizzato con gli studenti, accu- sando di “irresponsabilità” il governo. Bossi: “Questa è passata. Speriamo sia un buon segno. Altrimenti c’è solo il voto”. *** Tensioni sui titoli di stato, lo spread tra Btp decennali e Bund tedeschi è salito a 210 punti base, nuovo livello massimo dal- la nascita dell’euro. “Ma in Spagna sono so- pra i 400 punti”, ha osservato Berlusconi. Il sottosegretario alla presidenza del Consi- glio, Gianni Letta, ha espresso invece la “forte preoccupazione che dai mercati pos- sa arrivare un affondo sull’euro, tentando di coinvolgere nel contagio irlandese an- che paesi più solidi come la Spagna, il Por- togallo e magari anche l’Italia”. *** A ottobre la disoccupazione sale di poco: 8,6 per cento rispetto all’8,3 di settembre (il dato più alto dal 2004). In leggero calo la di- soccupazione giovanile: 26,2 per cento (-0,4 rispetto al mese precedente). *** Nassiryah, la Cassazione rinvia a gennaio la decisione sul ricorso dei familiari delle vittime della strage del 2003, costituitisi parte civile per ottenere i risarcimenti non ancora ottenuti. *** Azzerata la cosca mafiosa di Partinico (Pa- lermo): 23 gli arrestati tra boss e gregari. A Napoli, blitz contro il clan Misso: 21 arresti. *** Niente funerali per Mario Monicelli, oggi la salma verrà portata al rione Monti di Ro- ma e poi alla Casa del cinema; domani la cremazione. Il presidente della Repubbli- ca Napolitano: “Sarà ricordato da milioni di italiani per come ha saputo farli sorri- dere, commuovere e riflettere”. *** I calciatori in sciopero, salta la sedicesi- ma giornata di campionato, sabato 11 e do- menica 12 dicembre. La Lega di serie A e l’Associazione calciatori non hanno trovato l’accordo sul rinnovo del contratto. *** Borsa di Milano. FtseMib -1,08 per cento. L’euro chiude stabile a 1,30 sul dollaro. LA COMMISSIONE EUROPEA APRE UN’INDAGINE SU GOOGLE. L’Autorità an- titrust dell’Ue sospetta l’azienda america- na di “abuso di posizione dominante nelle ricerche su Internet”. La Commissione ha specificato che “l’attivazione della proce- dura non significa che ci siano al momen- to prove di infrazioni”. Google, che si è det- ta disponibile a collaborare con le autorità europee, sarà indagata anche per avere concesso un trattamento preferenziale ai propri prodotti nei risultati delle ricerche. *** L’Iran ha accettato di negoziare sul pro- prio programma nucleare. Le trattative si terranno a Ginevra il 6 e 7 dicembre. “Nel- le discussioni preliminari non si entrerà nel merito”, ha detto il presidente irania- no, Mahmoud Ahmadinejad, che ha chiesto che Brasile e Turchia siano presenti. *** Ségolène Royal si candiderà alle primarie del Partito socialista francese in vista del- le presidenziali del 2012. “E’ arrivata l’ora di farsi avanti con chiarezza”, ha detto la presidente della regione Poitou-Charentes. *** L’esercito algerino ha attaccato una cellu- la di al Qaida nella provincia di Chlef, nel- la parte occidentale del paese. Due terrori- sti e quattro militari sono rimasti uccisi. *** L’Iraq ha rimandato il censimento nazio- nale a causa di una disputa sulle procedu- re da attuare nella regione del Kurdistan. *** Un attacco informatico al Pakistan, lan- ciato dal territorio indiano, ha oscurato trentasei siti del governo di Islamabad. Un pachistano del Nord Waziristan, Ka- rim Khan, intende denunciare la Cia e gli Stati Uniti per l’uccisione di suo figlio e suo fratello in un raid di un drone americano. *** Cinque operai palestinesi sono stati feriti dall’esercito israeliano perché si sono avvi- cinati troppo al confine con la Striscia di Gaza mentre raccoglievano ghiaia. Il leader palestinese Abu Mazen ha fat- to appello a Hamas perché liberi il capora- le israeliano Gilad Shalit. *** Un quindicenne ha tenuto in ostaggio per cinque ore 23 studenti e un’insegnante in un college di Marinette, nel Wisconsin, per poi tentare di suicidarsi. *** In Messico, diciotto cadaveri sono stati scoperti dalle autorità in 11 fosse a Puerto Palomas, alla frontiera con gli Stati Uniti. *** L’Ecuador offre la residenza ad Assange. Il fondatore di Wikileaks sarà accolto “sen- za alcuna condizione”, ha detto il vicemi- nistro degli Esteri di Quito, Kintto Lucas. Questo numero è stato chiuso in redazione alle 21 Roma. Tamir Pardo è uno “sciusciuista”. Sono coloro che lavorano nei reparti più segreti dell’intelligence israeliana e che fanno “shhh”, per invitare al silenzio. Non parlano mai del proprio lavoro. Pardo è stato scelto come nuovo capo del Mossad, il servizio segreto di Gerusalemme. Con la sua nomina, il premier Netanyahu ha scrit- to il finale di una storia iniziata trent’anni fa. Pardo era il braccio destro di Yoni Ne- tanyahu, il fratello del premier caduto a Entebbe, quando i commandos israeliani liberarono 104 ostaggi in un aeroporto ugandese. L’operazione di salvataggio, co- me dirà Yitzhak Rabin, “è diventata leggen- da”. Israele spedì un’unità di élite in un paese distante 3.200 km, cogliendo di sor- presa i terroristi con un misto di astuzia e forza. Tutti i passeggeri erano stati rapiti in quanto ebrei e furono liberati in quanto ta- li. L’Operazione Yonatan era così chiamata dal nome del colonnello Netanyahu, che guidò l’incursione, ma pagò con la vita. Fino alla nomina, Pardo era noto come “T.”, l’anomimo vice di Meir Dagan, la sto- rica guida del servizio segreto d’Israele che ha rimesso “il coltello tra i denti” al Mos- sad, per usare le parole di Ariel Sharon che lo aveva scelto. Era dal 1997 (da una fal- lita azione contro Hamas ad Amman) che il Mossad non colpiva in un paese arabo. Molte azioni da allora sono state classifica- te sotto la responsabilità di Dagan-Pardo, dall’eliminazione recente di un capo di Ha- mas a Dubai all’omicidio dell’imprendibile leader di Hezbollah Imad Mughniyeh, no- to come “lo Sciacallo sciita”. Pioniere della tecnologia dei servizi se- greti, lauree in storia e scienze politiche, padre di due figli, Pardo è anche noto come “il bulldozer”. Ha vinto su una concorren- za straordinaria. Per il posto di Dagan era- no circolati nomi altisonanti, dal capo del- l’intelligence militare Amos Yadlin al capo del servizio segreto interno Yuval Diskin, che ha ideato gli omicidi mirati dei capi terroristi. Il premier Netanyahu ha preferi- to “T.”, di cui a malapena si conosceva l’ini- ziale (il Jerusalem Post ieri ha storpiato il suo nome in “Fredo”, per capire quanto po- co si sapesse di Pardo). Pardo è ben voluto dalle tre ex teste di cuoio che governano Israele: Bibi, Napo- leone e Boogie. Cioé Netanyahu, Ehud Ba- rak e Moshe Yaalon, vice premier che fu a capo di quell’élite della guerra conosciuta come Sayeret Matkal, o più semplicemen- te “l’Unità”. Pardo è un veterano della Sayeret, modellata sulle Sas inglesi e che dalle Sas ha preso pure il motto: “Chi osa vince”. Pardo ha ricevuto ben tre premi as- segnati, nel giorno dell’indipendenza, a chi rischia la vita in missioni segrete per la si- curezza d’Israele. E’ un grande esperto di Iran e vive nel piccolo moshav di Nirit, a un tiro di schiop- po dai cecchini palestinesi dall’altra parte della Green Line in Cisgiordania. Ieri Yos- si Melman, giornalista esperto di intelli- gence e autore di un libro sul Mossad, ha detto che non è un caso che l’arrivo di Par- do coincida, a Teheran, con l’uscita di sce- na di un altro scienziato iraniano. Il duo Dagan-Pardo avrebbe lanciato il “program- ma decapitazione” per eliminare scienzia- ti iraniani coinvolti nel nucleare. Come Ali Mahmoudi Mimand, il padre del program- ma missilistico, e Ardenshir Hassenpour, il massimo fisico militare di Teheran. Pardo si è fatto una grande fama nella Neviot, l’intelligence informatica leggen- daria per installare microspie e telecame- re in strutture nemiche. Sarà una coinci- denza, ma il sistema nucleare iraniano è andato recentemente in tilt a causa di uno strano virus informatico chiamato Stuxnet. Si è poi scoperto che il virus conteneva una parola, Hadassa, che in ebraico signi- fica “mirto”, e che può anche essere letta come Hadassa, il nome della principessa Ester. Nella Bibbia il libro di Ester narra del piano di Aman, consigliere del re di Persia, per sterminare tutti gli ebrei. Con un sotterfugio, Ester smaschera il complot- to e sul patibolo ci finisce Aman, invece degli ebrei. Il “bulldozer”che difenderà Israele Chiamano così Tamir Pardo, il nuovo capo del Mossad. Esperto d’Iran, ha ricevuto tante medaglie per aver rischiato la vita in missioni segrete. A Entebbe era al fianco del fratello di Netanyahu DI MARIAROSA MANCUSO Mosca, dal nostro inviato. Chi aspettava un discorso politico è rimasto deluso. Nel suo terzo messaggio alla nazione, il capo del Cremlino, Dmitri Medvedev, ha messo da parte la teoria per discutere di tasse e natalità e si è rivolto alle famiglie trascu- rando gli ufficiali dell’amministrazione. Ha parlato a quelli che, fra un anno o poco più, sceglieranno il nuovo presidente russo. “Avremo presto a che fare con la stessa si- tuazione demografica de- gli anni Ottanta, quando le nascite erano troppo po- che – ha detto ieri nella sa- la di San Giorgio, di fronte ai deputati della Duma e agli uomini del governo – E’ una minaccia seria e una sfida alla nostra nazio- ne”. Medvedev ha propo- sto una serie di misure straordinarie per i genito- ri che hanno più di tre figli: sussidi sino a tremila rubli ogni mese (quasi cento euro) e terra per costruire nuove case. E’ una piccola svolta nella carriera po- litica di Medvedev. Sinora, la sua passione per le nuove tecnologie e la promessa di riforme liberali hanno avuto un grande im- patto a Parigi come a Washington, dove gli annunci del presidente sono accolti come una rivoluzione, ma nelle strade di Mosca molti sono ancora convinti che il vero lea- der del paese sia il primo ministro, Vladi- mir Putin. “E’ difficile ricordare che cosa abbia detto nei due anni scorsi – ha scrit- to Vladimir Ryzhkov del quotidiano Mo- scow Times alla vigilia del discorso – Le di- scussioni astratte sul bisogno di moderniz- zare si dimenticano in fretta, e le riforme superficiali portano un grande disappun- to nell’opinione pubblica”. Ieri, nel discor- so di 72 minuti trasmesso in ogni angolo del paese, il presidente ha cercato di spie- gare che può occuparsi dei russi, non sol- tanto della Russia. Molti analisti credono che Medvedev pensi già al voto del 2012. Putin lo ha scel- to come successore tre anni fa, i due han- no un piano per governare il paese sino al 2020, ma nessuno sa dire chi sarà il prossi- mo presidente. Se il premier e il presiden- te mostrano un’alleanza solida, i loro staff non evitano la competizione: cercano mag- giore spazio per il loro uomo sui giornali e si lamentano quando un programma tele- visivo concede troppo spazio all’altro. Cablo da Mosca C’è un nuovo Medvedev a parlare in tv a tutta la Russia (chissà perché?) Il discorso annuale del presidente è una svolta super concreta che assomiglia a un messaggio elettorale per il 2012 La diarchia “fino al 2020” Washington. Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha parlato di un in- contro “produttivo” con i leader repubbli- cani del Congresso, anche se l’accordo sui tagli fiscali dell’era Bush non è stato trova- to e Obama ha affidato al segretario del Te- soro, Timothy Geithner e al direttore del- l’ufficio budget, Jack Lew, l’incarico di la- vorare con le parti per trovare un “terreno comune”. I leader del Congresso nominati dopo le elezioni di midterm hanno visto Obama alla Casa Bianca innanzitutto per discutere la ratifica del trattato Start are- nato al Senato e i tagli fiscali voluti da George Bush in scadenza a fine anno. Su questi due dossier Obama cerca un com- promesso con i leader repubblicani prima dell’insediamento della nuova maggioran- za alla Camera e il nuovo speaker, John Boehner e il leader dell’opposizione al Se- nato, Mitch McConnell, non stanno mo- strando grande disponibilità al dialogo, an- zi. Obama aveva convocato i vertici del Con- gresso già il 18 novembre, ma Boehner e McConnell hanno declinato: avevano biso- gno di più tempo per fare strategia. Oltre ai due parlamentari del Gop hanno parte- cipato all’incontro i rispettivi vice, Eric Cantor e Jon Kyl (il senatore che sta bloc- cando lo Start) e gli omologhi democratici. In una column pubblicata dal Washing- ton Post, Boehner e McConnell scrivono che gli elettori “chiedono che ci dedichia- mo a impedire un innalzamento delle tas- se e a ridurre la spesa di Washington”, e no- nostante le parole di fiducia a margine del meeting, si legge la volontà di non accetta- re il compromesso di Obama sui tagli fisca- li (rinnovarli per due anni, ma non per i single con un reddito superiore ai 200 mi- la dollari, 250 mila per le famiglie). Il con- gelamento degli stipendi federali annun- ciato lunedì da Obama è una mano tesa al Gop, ma molti lo vedono come un trucco: nei prossimi cinque anni farà risparmiare 28 miliardi di dollari, contro un debito pre- visto per lo stesso periodo di 4.250 miliar- di. Per convincere i repubblicani ad accet- tare una miniagenda bipartisan prima del- l’insediamento del nuovo Congresso, Oba- ma dovrà concedere qualcosa in più. Obama offre ai repubblicani una contropartita debole per ratificare lo Start e trattare sui tagli fiscali Cablo da Washington D . M ED VEDEV OGGI NEL FOGLIO QUOTIDIANO INDAGINI SUL SUICIDIO ANNULLA i significati, ma non è senza significato. La fede, il materia- lismo, l’oriente estremo (inserto I) IL TOSTO VESCOVO DOLAN. Il conservatore che non s’aspettavano e che le canta al NYT (inserto IV)

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Milano. Il paese più generoso nei con-fronti dell’euro è, da sempre, uno dei piùeuroscettici. A ragione, probabilmente, al-meno a giudicare dai risultati che premia-no la Svezia del premier di centrodestraFriedrich Reinfeldt: l’economia sta cre-scendo a pieno ritmo, a un tasso del 4,8 percento: certo, la disoccupazione, seppur incalo, resta all’8 per cento, ma la crisi del-l’auto dopo il 2009 nero è ormai superata,mentre tornano a fiorire investimenti e

nuovi posti di lavoro (140 milaentro la fine dell’anno). Inoltreil deficit pubblico di Stoccolma,membro dell’Unione europeama non della zona euro, si man-tiene al di sotto della sogliadel 3 per cento sul pil, men-tre il debito pubblico (il 36per cento sul pil) è dentro iparametri di Maastricht. Unmiraggio per tutti gli altripaesi europei, consideratoche anche ieri sono saliti a li-vello record gli spread suirendimenti dei decennali diItalia, Spagna, Irlanda e Bel-gio nei confronti del bundtedesco, mentre l’euro ha

toccato il nuovo minimo rispettoal dollaro da 11 settimane. Non solo: per ilFinancial Times le tensioni sui debiti pub-blici si potranno far sentire anche sul mer-cato dei bond privati.

Insomma, non ci sarebbe da stupirsi seil ministro delle Finanze, Anders Borg, ilvero artefice dell’exploit, famoso tra i col-leghi per il suo codino da pirata e un orec-chino d’oro, si sedesse sulla riva del fiumea osservare i crucci dei colleghi di Bruxel-les. Al contrario mister Borg è senz’altro, enon da ieri, uno dei pompieri più attivi aspegnere i focolai di crisi dell’euro. A mag-gio, nel momento più delicato della crisigreca, fece scalpore il suo violento attaccoa tedeschi e francesi, a suo dire troppo ri-gidi con Atene: “Vi state comportando co-me un branco di lupi”. La Svezia, infatti,non solo ha contribuito con 598 milioni dieuro al prestito a Dublino ma ha anche fat-to pressioni, con successo, su Copenaghenperché la Danimarca facesse altrettanto.Solo il Regno Unito è stato più munifico neiconfronti dell’Irlanda, ma in quel caso l’ap-parente generosità si spiega con l’esposi-zione delle banche inglesi nei confronti diDublino.

Soccorso scandinavo

Perché la generosaSvezia non assisteinerte all’eurotracolloTensioni sui debiti dei paesi periferici

Ma Stoccolma aiuta Dublino innome di export e solidarietà nordica

Ft: rischi per i bond privati

Meglio di Fellini e di Antonioni.Il gran cinema di Monicelli è tutto

in una frase: “Mai alle Maldive”

Ma quale cinico?

L’anno scorso aveva dettato il suo epi-taffio, a gentile richiesta di un com-

pilatore di almanacchi. Sta nel volumet-to “Meglio qui che in riunione”, raccol-

ta di auto-epitaffi uscita da Rizzoli. Perquasi tutti gli intervistati, l’occasione diuna vanitosa e adolescenziale spirito-saggine. Tra i pochi a salvarsi, MarioMonicelli che sulla sua tomba voleva farincidere: “Non andò mai alle Maldive”.Un modo per prendere le distanze dal-l’Italia che non gli piaceva, forse anchedai cinepanettoni. L’Italia dove uno co-me lui era considerato un po’ troppo ci-nico, come ha ribadito Carlo Verdoneappena saputa la notizia. Non era cini-co: era un regista di commedie, e Ver-done per primo dovrebbe sa-pere che il grado zerodella risata è l’uomo chescivola sulla buccia dibanana, non il samari-tano che gli fasciala testa, lo consolae chiama l’ambu-lanza.

Era un regista dicommedie come“L’armata Branca-leone”, con lasua parlata fintamedievale e l’ac-cozzaglia di dispe-rati, da allora rimbalzata da un titolo digiornale ad un altro per raccontare la po-litica e la tentazione gruppettara e liti-giosa che in Italia son quasi la stessa co-sa. Era il regista dei “Soliti ignoti”, altraformula tuttofare che rende bene il ca-rattere nazionale e l’indigena arte di ar-rangiarsi. Era il regista della “Grandeguerra”, di cui ricordiamo la saggia sen-tenza “Peccato di pantalone, pronta asso-luzione”. Oltre a un grande Alberto Sor-di e un grande Vittorio Gassman, cialtro-ni in massimo grado eppure irresistibili.Il film, girato nel 1959, vinse il Leone d’o-ro a Venezia e fu il candidato italiano al-l’Oscar. Assieme al “Sorpasso” di DinoRisi, racconta il paese reale più fedel-mente della visionarietà felliniana o del-le sparizioni antonioniane.

Era il regista che si guardava in cagne-sco con un giovane Nanni Moretti allatrasmissione televisiva “Match” condottanegli anni 70 da Alberto Arbasino. E sec’è da dar sfogo alla nostalgia, ora cheNanni Moretti si avvia verso l’età cheaveva Monicelli allora, non viene in men-te nessun giovanotto che possa sfidare ilregista del “Caimano” con la stessa teme-rarietà e la stessa furia. Da Pietro Ger-mi, morto troppo presto, ereditò il copio-ne di “Amici miei” e ne fece un film diculto. Zingarate, schiaffi alla stazione, lasupercazzola sono saldi nell’immagina-rio collettivo più della pipa di LucianoLama o della spilla di Rita Levi Montal-cini che comparivano sul megaschermodi “Vieni via con me” mentre la notiziadel suicidio cominciava a circolare.

Tra i nostri preferiti, il melodrammaoperaio “Romanzo popolare”, “Speria-mo che sia femmina” (con lo zio Gugosvanito che fa la maglia) e “Parenti ser-penti”: ritrattino di famiglia che in unacinematografia meno imbalsamata dellanostra avrebbe fatto morire d’invidia re-gisti molto più giovani di lui. “Smettila dimangiare gelati, mi vieni su con un culoche fa provincia”, dice la mamma alla fi-gliola già sovrappeso. Una stufa a gas di-fettosa risolverà il problema dei vecchigenitori che nessuno vuole accudire.

Roma. La riforma dell’Università propo-sta dal governo Berlusconi è stata approva-ta ieri dalla Camera, superando così il pas-saggio più atteso dell’iter legislativo chepotrebbe concludersi in Senato già nei pri-mi giorni di dicembre. Mentre in Aula pro-cedeva il confronto tra i deputati, migliaiadi ricercatori e studenti di scuole superio-ri e università sono scesi in piazza nellecittà italiane per manifestare il loro dissen-so che, soprattutto a Roma, è sfociato anchein scontri con le forze dell’ordine. Al cen-tro delle proteste ci sono le risorse: secon-do i contestatori, sarebbero infatti troppoesigue quelle destinate agli atenei e al si-stema dell’istruzione in generale. Ma le co-se stanno veramente così?

In realtà sempre più osservatori sconfes-sano, dati alla mano, l’equazione “più sol-di uguale più qualità”. L’ultima smentitadel mantra arriva da un rapporto pubbli-cato in queste ore da McKinsey, colossoamericano della consulenza. L’analisi, ba-sata sugli indici Pisa (Programme for Inter-national Student Assessment), calcolatidall’Ocse per valutare l’apprendimento de-gli studenti, prende in esame 20 stati condiversi tipi di sistema scolastico (debole,buono, ottimo, eccellente) accomunati peròda un costante miglioramento. L’analisi di-mostra, attraverso una correlazione tra va-lore dell’indice Pisa e spesa per studentein migliaia di dollari, che è possibile mi-gliorare il sistema scolastico non tanto concontinue iniezioni di liquidità, ma attraver-so una serie di riforme mirate.

Lo dimostra per esempio il fatto che trail 2000 e il 2007 gli Stati Uniti e il RegnoUnito hanno aumentato i finanziamenti al-le scuole superiori rispettivamente del 21 edel 37 per cento, eppure entrambi hannovisto peggiorare la capacità d’apprendi-mento dei propri alunni. Se si escludonoinfatti quei paesi in cui il traguardo da rag-giungere è ancora quello di insegnare aleggere, scrivere e far di conto – spieganogli esperti di McKinsey – un istituto in af-fanno potrà migliorare la sua posizione so-lo con migliori sistemi di insegnamento,mentre una realtà caratterizzata da buonirisultati accrescerà la sua competitività ri-cercando un corpo docente più qualificato.Così, per esempio, hanno incrementato laqualità del loro servizio alcuni istituti degliStati Uniti, le scuole della Sassonia in Ger-mania e quelle delle tigri asiatiche (Singa-pore, Hong Kong, Corea del sud).

In Italia si spende quasi come ad HarvardNel rapporto, l’Italia non viene diretta-

mente presa in esame, tuttavia dallo studioemergono alcuni dati. Il nostro paese spen-de tra i 7 mila e gli 8 mila dollari per stu-dente, classificandosi, secondo l’indice Pi-sa, come un buon sistema scolastico. A pa-rità di spesa però, lo stato canadese del-l’Ontario e l’Olanda ottengono performan-ce migliori, e con la medesima cifra la Fin-landia ha raggiunto l’eccellenza mondiale.Discorso analogo si può fare per l’univer-sità. Come ha spiegato Andrea Graziosi inun libro appena pubblicato dal Mulino(“L’università per tutti”), “una laurea italia-na costa alle famiglie quasi la metà di quel-la garantita da Harvard, e più di quella as-sicurata da altre ottime università america-ne”. Per questo, nonostante Graziosi nonmanchi di muovere critiche alla riforma indiscussione, “il primo obiettivo dovrebbeessere quello di migliorare l’uso delle ri-sorse già oggi disponibili, tanto di quelledello stato quanto di quelle delle famiglie”.

“Spendere di più senza cambiare le re-gole, anzi gli incentivi, non avrebbe senso”,dice al Foglio Roberto Perotti, docente al-l’Università Bocconi e autore del libro“L’università truccata” (Einaudi). Qual èdunque la direzione da prendere? “Non sitratta di aumentare i fondi, ma di imitareil sistema inglese, con ‘review’ triennali eindipendenti sulle spese dei singoli dipar-timenti universitari – spiega l’economista –Solo alla luce dei risultati, poi, si assegna-no o si tolgono le risorse”. Su questo fron-te la riforma Gelmini, sostiene Perotti, ètroppo timida: “La legge non peggiora la si-tuazione, ma la montagna ha partorito untopolino”. Di diverso avviso Francesco Gia-vazzi, che ieri sul Corriere della Sera haelencato i punti di forza della riforma: abo-lizione dei concorsi, più meritocrazia nelreclutamento, governance degli atenei me-no autoreferenziale, l’assegnazione di unaparte dei fondi in base ai risultati. “Unariforma da difendere”, secondo l’editoriali-sta del Corriere. Più per le regole che intro-duce che per i soldi che distribuisce.

Non sono i soldi a pioggia a far risollevare gli ateneiLa priorità è cambiare le regole: le voci

dei prof., lo studio di McKinsey

Più Gelmini e meno fondi

Roma è stata “assediata dauna vera e propria tenagliamilitare, che ricorda altreepoche e altre capitali: Ro-ma blindata e sequestratacome Santiago del Cile” ai

tempi di Pinochet. E’ duro il giudizio di Ni-chi Vendola, presidente di Sinistra ecolo-gia libertà, sulla gestione dell’ordine pub-blico da parte del ministro dell’Interno,Roberto Maroni, nel giorno delle protestestudentesche contro l’approvazione dellariforma Gelmini dell’università. “A una ge-nerazione che reclama nello studio il dirit-to al futuro – insiste il governatore dellaPuglia – si risponde con i mezzi cingolati,con la repressione, facendo di Roma unacartolina della Santiago degli anni Settan-ta. Una gestione criminale dell’ordine pub-blico che alimenta le spinte estremistiche,mentre ai giovani dovremmo prestare ilmassimo ascolto, come fece Aldo Moro nel‘68”. Ecco, finalmente, un’analisi puntualedella realtà fornita dal nuovo leader delcentrosinistra. Lucida, pacata, sapiente,guai se fosse rimasta riservata. Fortuna cheè tutto un fiorire, a questo punto, di Wiki-pendola e di Nichileaks.

Roma. Lo spread tra i titoli di stato de-cennali spagnoli e i bund tedeschi ha rag-giunto ieri il massimo storico di 311 puntidi base. Secondo quanto riferito dal mini-stro dello Sviluppo economico, Paolo Ro-mani, Silvio Berlusconi avrebbe commen-tato la notizia, durante il Consiglio dei mi-nistri, sottolineando che il dato mostra chela Spagna “sta peggio di noi”. Ma non è ildato cruciale di finanza pubblica spagnolaa terrorizzare i mercati: lo stock di debitopubblico rispetto al pil sfiora il 70 per cen-to (mentre quello dell’Italia è sul 116 percento). Tuttavia, il deficit d’esercizio minac-cia di toccare il 10 per cento nel 2010 (ri-spetto al 5 per cento dell’Italia). Di questopasso, il rapporto tra debito pubblico e pilarriverà, secondo l’Economist IntelligenceUnit, al 90 per cento del pil nel 2013 (men-tre era appena il 38 per cento nel 2007). Latendenza fa tremare le piazze.

C’è molto di più di questi dati, come rive-la un rapporto del Banco de España, laBanca centrale spagnola, diramato ieri inversione preliminare. L’analisi ha il crismadel servizio studi dell’istituto che, a sua vol-ta, lo ha commissionato a César Alonso-Borrego dell’Università Carlos III di Ma-drid. La ricerca scava nelle determinantidi economia reale che hanno reso la Spa-gna molto fragile. In particolare, lo studioesamina l’andamento della produttività edella competitività nel periodo 1983-2006,ossia da quando il paese stava per entrarein quella che ora è l’Ue (l’ingresso avven-ne il primo gennaio 1986) fino alla vigiliadella crisi finanziaria (un 2006 euforico incui Zapatero ancora mostrava i muscoli).

Il lavoro documenta quali sono i fattorideterminanti di economia reale, più diquelli bancari, che hanno causato, dallanascita dell’euro (ossia negli ultimi diecianni), un aumento dell’85 per cento del di-savanzo dei conti con l’estero. La perdita diquote di mercato internazionale ha radiciin politiche industriali e del lavoro chehanno funzionato come un boomerang, con-cludono gli autori: avevano l’obiettivo direndere la Spagna più produttiva e piùcompetitiva ma l’hanno appesantita e in-fiacchita.

I titoli spagnoli ballano sui mercatiLe zavorre non solo bancarie

dell’economia zapateriana

Siesta madrilena

(segue a pagina quattro)

(segue a pagina quattro)

La Giornata* * * * * *In Italia Nel mondo

LA RIFORMA UNIVERSITARIA PASSAALLA CAMERA, STUDENTI IN RIVOLTA.Il disegno di legge Gelmini ha ottenuto 307sì, 252 no e 7 astensioni; il testo passa oraall’esame del Senato. Durante la giornata ilgoverno era stato battuto due volte suemendamenti presentati da Fli, Api e Pd.Anche ieri blocchi e manifestazioni in tut-ta Italia, con pesanti conseguenze sulla cir-colazione stradale e ferroviaria. “Gli stu-denti veri stanno a casa a studiare, quelliin giro a protestare sono dei centri socialie fuori corso”, ha commentato il presiden-te del Consiglio Berlusconi. Anche il pre-sidente della Camera Fini ha criticato “gliestremisti che hanno bloccato Roma e cau-sato gravi incidenti”. Il leader del Pd Ber-sani ha solidarizzato con gli studenti, accu-sando di “irresponsabilità” il governo.

Bossi: “Questa è passata. Speriamo siaun buon segno. Altrimenti c’è solo il voto”.

* * *Tensioni sui titoli di stato, lo spread tra

Btp decennali e Bund tedeschi è salito a210 punti base, nuovo livello massimo dal-la nascita dell’euro. “Ma in Spagna sono so-pra i 400 punti”, ha osservato Berlusconi. Ilsottosegretario alla presidenza del Consi-glio, Gianni Letta, ha espresso invece la“forte preoccupazione che dai mercati pos-sa arrivare un affondo sull’euro, tentandodi coinvolgere nel contagio irlandese an-che paesi più solidi come la Spagna, il Por-togallo e magari anche l’Italia”.

* * *A ottobre la disoccupazione sale di poco:

8,6 per cento rispetto all’8,3 di settembre (ildato più alto dal 2004). In leggero calo la di-soccupazione giovanile: 26,2 per cento (-0,4rispetto al mese precedente).

* * *Nassiryah, la Cassazione rinvia a gennaio

la decisione sul ricorso dei familiari dellevittime della strage del 2003, costituitisiparte civile per ottenere i risarcimenti nonancora ottenuti.

* * *Azzerata la cosca mafiosa di Partinico (Pa-

lermo): 23 gli arrestati tra boss e gregari. ANapoli, blitz contro il clan Misso: 21 arresti.

* * *Niente funerali per Mario Monicelli, oggi

la salma verrà portata al rione Monti di Ro-ma e poi alla Casa del cinema; domani lacremazione. Il presidente della Repubbli-ca Napolitano: “Sarà ricordato da milionidi italiani per come ha saputo farli sorri-dere, commuovere e riflettere”.

* * *I calciatori in sciopero, salta la sedicesi-

ma giornata di campionato, sabato 11 e do-menica 12 dicembre. La Lega di serie A el’Associazione calciatori non hanno trovatol’accordo sul rinnovo del contratto.

* * *Borsa di Milano. FtseMib -1,08 per cento.

L’euro chiude stabile a 1,30 sul dollaro.

LA COMMISSIONE EUROPEA APREUN’INDAGINE SU GOOGLE. L’Autorità an-titrust dell’Ue sospetta l’azienda america-na di “abuso di posizione dominante nellericerche su Internet”. La Commissione haspecificato che “l’attivazione della proce-dura non significa che ci siano al momen-to prove di infrazioni”. Google, che si è det-ta disponibile a collaborare con le autoritàeuropee, sarà indagata anche per avereconcesso un trattamento preferenziale aipropri prodotti nei risultati delle ricerche.

* * *L’Iran ha accettato di negoziare sul pro-

prio programma nucleare. Le trattative siterranno a Ginevra il 6 e 7 dicembre. “Nel-le discussioni preliminari non si entrerànel merito”, ha detto il presidente irania-no, Mahmoud Ahmadinejad, che ha chiestoche Brasile e Turchia siano presenti.

* * *Ségolène Royal si candiderà alle primarie

del Partito socialista francese in vista del-le presidenziali del 2012. “E’ arrivata l’oradi farsi avanti con chiarezza”, ha detto lapresidente della regione Poitou-Charentes.

* * *L’esercito algerino ha attaccato una cellu-

la di al Qaida nella provincia di Chlef, nel-la parte occidentale del paese. Due terrori-sti e quattro militari sono rimasti uccisi.

* * *L’Iraq ha rimandato il censimento nazio-

nale a causa di una disputa sulle procedu-re da attuare nella regione del Kurdistan.

* * *Un attacco informatico al Pakistan, lan-

ciato dal territorio indiano, ha oscuratotrentasei siti del governo di Islamabad.

Un pachistano del Nord Waziristan, Ka-rim Khan, intende denunciare la Cia e gliStati Uniti per l’uccisione di suo figlio e suofratello in un raid di un drone americano.

* * *Cinque operai palestinesi sono stati feriti

dall’esercito israeliano perché si sono avvi-cinati troppo al confine con la Striscia diGaza mentre raccoglievano ghiaia.

Il leader palestinese Abu Mazen ha fat-to appello a Hamas perché liberi il capora-le israeliano Gilad Shalit.

* * *Un quindicenne ha tenuto in ostaggio per

cinque ore 23 studenti e un’insegnante inun college di Marinette, nel Wisconsin, perpoi tentare di suicidarsi.

* * *In Messico, diciotto cadaveri sono stati

scoperti dalle autorità in 11 fosse a PuertoPalomas, alla frontiera con gli Stati Uniti.

* * *L’Ecuador offre la residenza ad Assange.

Il fondatore di Wikileaks sarà accolto “sen-za alcuna condizione”, ha detto il vicemi-nistro degli Esteri di Quito, Kintto Lucas.

Questo numero è stato chiuso in redazione alle 21

Roma. Tamir Pardo è uno “sciusciuista”.Sono coloro che lavorano nei reparti piùsegreti dell’intelligence israeliana e chefanno “shhh”, per invitare al silenzio. Nonparlano mai del proprio lavoro. Pardo èstato scelto come nuovo capo del Mossad,il servizio segreto di Gerusalemme. Con lasua nomina, il premier Netanyahu ha scrit-to il finale di una storia iniziata trent’annifa. Pardo era il braccio destro di Yoni Ne-tanyahu, il fratello del premier caduto aEntebbe, quando i commandos israelianiliberarono 104 ostaggi in un aeroportougandese. L’operazione di salvataggio, co-me dirà Yitzhak Rabin, “è diventata leggen-da”. Israele spedì un’unità di élite in unpaese distante 3.200 km, cogliendo di sor-presa i terroristi con un misto di astuzia eforza. Tutti i passeggeri erano stati rapiti inquanto ebrei e furono liberati in quanto ta-li. L’Operazione Yonatan era così chiamatadal nome del colonnello Netanyahu, cheguidò l’incursione, ma pagò con la vita.

Fino alla nomina, Pardo era noto come“T.”, l’anomimo vice di Meir Dagan, la sto-rica guida del servizio segreto d’Israele cheha rimesso “il coltello tra i denti” al Mos-sad, per usare le parole di Ariel Sharonche lo aveva scelto. Era dal 1997 (da una fal-lita azione contro Hamas ad Amman) cheil Mossad non colpiva in un paese arabo.Molte azioni da allora sono state classifica-te sotto la responsabilità di Dagan-Pardo,dall’eliminazione recente di un capo di Ha-mas a Dubai all’omicidio dell’imprendibileleader di Hezbollah Imad Mughniyeh, no-to come “lo Sciacallo sciita”.

Pioniere della tecnologia dei servizi se-greti, lauree in storia e scienze politiche,padre di due figli, Pardo è anche noto come“il bulldozer”. Ha vinto su una concorren-za straordinaria. Per il posto di Dagan era-no circolati nomi altisonanti, dal capo del-l’intelligence militare Amos Yadlin al capodel servizio segreto interno Yuval Diskin,che ha ideato gli omicidi mirati dei capiterroristi. Il premier Netanyahu ha preferi-to “T.”, di cui a malapena si conosceva l’ini-

ziale (il Jerusalem Post ieri ha storpiato ilsuo nome in “Fredo”, per capire quanto po-co si sapesse di Pardo).

Pardo è ben voluto dalle tre ex teste dicuoio che governano Israele: Bibi, Napo-leone e Boogie. Cioé Netanyahu, Ehud Ba-rak e Moshe Yaalon, vice premier che fu acapo di quell’élite della guerra conosciutacome Sayeret Matkal, o più semplicemen-te “l’Unità”. Pardo è un veterano dellaSayeret, modellata sulle Sas inglesi e chedalle Sas ha preso pure il motto: “Chi osavince”. Pardo ha ricevuto ben tre premi as-segnati, nel giorno dell’indipendenza, a chirischia la vita in missioni segrete per la si-curezza d’Israele.

E’ un grande esperto di Iran e vive nelpiccolo moshav di Nirit, a un tiro di schiop-po dai cecchini palestinesi dall’altra partedella Green Line in Cisgiordania. Ieri Yos-si Melman, giornalista esperto di intelli-gence e autore di un libro sul Mossad, hadetto che non è un caso che l’arrivo di Par-do coincida, a Teheran, con l’uscita di sce-na di un altro scienziato iraniano. Il duoDagan-Pardo avrebbe lanciato il “program-ma decapitazione” per eliminare scienzia-ti iraniani coinvolti nel nucleare. Come AliMahmoudi Mimand, il padre del program-ma missilistico, e Ardenshir Hassenpour, ilmassimo fisico militare di Teheran.

Pardo si è fatto una grande fama nellaNeviot, l’intelligence informatica leggen-daria per installare microspie e telecame-re in strutture nemiche. Sarà una coinci-denza, ma il sistema nucleare iraniano èandato recentemente in tilt a causa di unostrano virus informatico chiamato Stuxnet.Si è poi scoperto che il virus contenevauna parola, Hadassa, che in ebraico signi-fica “mirto”, e che può anche essere lettacome Hadassa, il nome della principessaEster. Nella Bibbia il libro di Ester narradel piano di Aman, consigliere del re diPersia, per sterminare tutti gli ebrei. Conun sotterfugio, Ester smaschera il complot-to e sul patibolo ci finisce Aman, invecedegli ebrei.

Il “bulldozer” che difenderà IsraeleChiamano così Tamir Pardo, il nuovo capo del Mossad. Esperto

d’Iran, ha ricevuto tante medaglie per aver rischiato la vita in missioni segrete. A Entebbe era al fianco del fratello di Netanyahu

DI MARIAROSA MANCUSO

Mosca, dal nostro inviato. Chi aspettavaun discorso politico è rimasto deluso. Nelsuo terzo messaggio alla nazione, il capodel Cremlino, Dmitri Medvedev, ha messoda parte la teoria per discutere di tasse enatalità e si è rivolto alle famiglie trascu-rando gli ufficiali dell’amministrazione. Haparlato a quelli che, fra un anno o poco più,sceglieranno il nuovo presidente russo.“Avremo presto a che fare con la stessa si-tuazione demografica de-gli anni Ottanta, quando lenascite erano troppo po-che – ha detto ieri nella sa-la di San Giorgio, di fronteai deputati della Duma eagli uomini del governo –E’ una minaccia seria euna sfida alla nostra nazio-ne”. Medvedev ha propo-sto una serie di misurestraordinarie per i genito-ri che hanno più di tre figli: sussidi sino atremila rubli ogni mese (quasi cento euro)e terra per costruire nuove case.

E’ una piccola svolta nella carriera po-litica di Medvedev. Sinora, la sua passioneper le nuove tecnologie e la promessa diriforme liberali hanno avuto un grande im-patto a Parigi come a Washington, dove gliannunci del presidente sono accolti comeuna rivoluzione, ma nelle strade di Moscamolti sono ancora convinti che il vero lea-der del paese sia il primo ministro, Vladi-mir Putin. “E’ difficile ricordare che cosaabbia detto nei due anni scorsi – ha scrit-to Vladimir Ryzhkov del quotidiano Mo-scow Times alla vigilia del discorso – Le di-scussioni astratte sul bisogno di moderniz-zare si dimenticano in fretta, e le riformesuperficiali portano un grande disappun-to nell’opinione pubblica”. Ieri, nel discor-so di 72 minuti trasmesso in ogni angolodel paese, il presidente ha cercato di spie-gare che può occuparsi dei russi, non sol-tanto della Russia.

Molti analisti credono che Medvedevpensi già al voto del 2012. Putin lo ha scel-to come successore tre anni fa, i due han-no un piano per governare il paese sino al2020, ma nessuno sa dire chi sarà il prossi-mo presidente. Se il premier e il presiden-te mostrano un’alleanza solida, i loro staffnon evitano la competizione: cercano mag-giore spazio per il loro uomo sui giornali esi lamentano quando un programma tele-visivo concede troppo spazio all’altro.

Cablo da Mosca

C’è un nuovo Medvedeva parlare in tv a tutta laRussia (chissà perché?)Il discorso annuale del presidente è una

svolta super concreta che assomigliaa un messaggio elettorale per il 2012

La diarchia “fino al 2020”

Washington. Il presidente degli StatiUniti, Barack Obama, ha parlato di un in-contro “produttivo” con i leader repubbli-cani del Congresso, anche se l’accordo suitagli fiscali dell’era Bush non è stato trova-to e Obama ha affidato al segretario del Te-soro, Timothy Geithner e al direttore del-l’ufficio budget, Jack Lew, l’incarico di la-vorare con le parti per trovare un “terrenocomune”. I leader del Congresso nominatidopo le elezioni di midterm hanno vistoObama alla Casa Bianca innanzitutto perdiscutere la ratifica del trattato Start are-nato al Senato e i tagli fiscali voluti daGeorge Bush in scadenza a fine anno. Suquesti due dossier Obama cerca un com-promesso con i leader repubblicani primadell’insediamento della nuova maggioran-za alla Camera e il nuovo speaker, JohnBoehner e il leader dell’opposizione al Se-nato, Mitch McConnell, non stanno mo-strando grande disponibilità al dialogo, an-zi. Obama aveva convocato i vertici del Con-gresso già il 18 novembre, ma Boehner eMcConnell hanno declinato: avevano biso-gno di più tempo per fare strategia. Oltreai due parlamentari del Gop hanno parte-cipato all’incontro i rispettivi vice, EricCantor e Jon Kyl (il senatore che sta bloc-cando lo Start) e gli omologhi democratici.

In una column pubblicata dal Washing-ton Post, Boehner e McConnell scrivonoche gli elettori “chiedono che ci dedichia-mo a impedire un innalzamento delle tas-se e a ridurre la spesa di Washington”, e no-nostante le parole di fiducia a margine delmeeting, si legge la volontà di non accetta-re il compromesso di Obama sui tagli fisca-li (rinnovarli per due anni, ma non per isingle con un reddito superiore ai 200 mi-la dollari, 250 mila per le famiglie). Il con-gelamento degli stipendi federali annun-ciato lunedì da Obama è una mano tesa alGop, ma molti lo vedono come un trucco:nei prossimi cinque anni farà risparmiare28 miliardi di dollari, contro un debito pre-visto per lo stesso periodo di 4.250 miliar-di. Per convincere i repubblicani ad accet-tare una miniagenda bipartisan prima del-l’insediamento del nuovo Congresso, Oba-ma dovrà concedere qualcosa in più.

Obama offre ai repubblicani unacontropartita debole per ratificarelo Start e trattare sui tagli fiscali

Cablo da Washington

D. MEDVEDEV

OGGI NEL FOGLIO QUOTIDIANO

INDAGINISUL SUICIDIO

ANNULLA i significati, ma non èsenza significato. La fede, il materia-lismo, l’oriente estremo (inserto I)

IL TOSTO VESCOVO DOLAN. Ilconservatore che non s’aspettavanoe che le canta al NYT (inserto IV)

Page 2: IL FOGLIO · 2016. 11. 22. · IL FOGLIO ANNO XV NUMERO 284 DIRETTORE GIULIANO FERRARA MERCOLEDÌ 1 DICEMBRE 2010 - € 1,30 Non riesci a fare a meno del Foglio? Leggilo anche su

ANNO XV NUMERO 284 - PAG 2 IL FOGLIO QUOTIDIANO MERCOLEDÌ 1 DICEMBRE 2010

Molti tituli

Incontri sacri a Castel Gandolfo,una metafisica della vanità e uncolloquio con Ennio Morricone

“I miei Papi”, di Gaetano Bonicelli (Marcia-num Press, 195 pp., 19 euro)

Essere vescovo della diocesi laziale diAlbano non è cosa di poco conto. Sotto lagiurisdizione di Albano, infatti, si trova Ca-stel Gandolfo, la località dove sorge la vil-la pontificia nella quale il Papa si reca pertrascorrere le vacanze. Il vescovo di Alba-no, dunque, incontra tutte le estati il Pon-tefice e con lui ha la possibilità di legarein un’amicizia tutta particolare. GaetanoBonicelli, oggi arcivescovo emerito di Sie-na, è questa amicizia che descrive nellesue memorie che vanno a ripercorrere tan-ti aneddoti, non soltanto le estati a Castel-lo di Paolo VI e Giovanni Paolo II, ma an-che i ricordi personali di Pio XI, Pio XII,Giovanni XXIII fino a Benedetto XVI. Ca-stel Gandolfo era probabilmente da sem-pre nei suoi destini. Racconta: “QuandoPio XII morì ero a Roma e nel pomeriggiopensai di fare un salto a Castello, a render-mi conto della situazione che aveva colpi-to la chiesa… Dopo Frattocchie, la via Ap-pia sale verso Castel Gandolfo con un ret-tilineo di circa un chilometro. Prima del-la curva che immette nella cittadina, sullasinistra si apre il grande cancello che por-ta alla villa pontificia. Stranamente lo tro-vai spalancato e io entrai senza che nessu-no mi bloccasse. Alla porta solo due guar-die svizzere e vicino alle scale due gendar-mi pontifici che mi indicarono il piano do-ve avrei potuto salire per venerare la sal-ma del Papa defunto. Fu così che, senza al-cuna difficoltà, mi trovai nella stanza diPio XII che giaceva ancora nel suo letto.Pregai un momento, ma non potei fare ameno di pensare all’isolamento del Papae in pratica a come era venuta meno ognidirezione, se a me fu possibile questoestremo pellegrinaggio”. La partenza diBonicelli per Albano, nel 1975, la decisePaolo VI. Bonicelli divenne inizialmenteausiliare della diocesi. Scrive: “Il cardina-le Baggio mi confidò che Paolo VI aveva al-quanto esitato, prima di questa designazio-ne. Infatti, conosceva bene la bontà e la ri-servatezza di monsignor Macario – Raffae-le Macario, vescovo di Albano dal 1966 al1977, ndr – ma conosceva anche un poco iltemperamento del candidato Bonicelli.Sorridendo chiese al prefetto della Con-gregazione dei vescovi: ‘Ma non sarà mette-re troppo fuoco vicino all’acqua troppofredda della situazione?’ Così infatti mi ri-cordava e mi accettava”.

“Vanità”, di Mario Andrea Rigoni (Aragno,110 pp., 10 euro)

Similmente a quanto teorizzò ArthurSchopenhauer, tragicamente convinto chetutto l’universo e l’intera esistenza dell’uo-mo fossero dominati da un’irrazionale einarrestabile volontà di vivere, Mario An-drea Rigoni pensa che la vanità sia stata econtinui a essere il motore di ogni azioneumana. E la vanità di cui egli parla assomi-glia almeno in parte alla volontà scho-penhaueriana, nel suo essere tanto ferocequanto nullificante, tanto inutile e vuotaquanto irrefrenabile e aggressiva. La pri-ma parte del libro è dedicata a delineareuna breve metafisica della vanità, attraver-so la quale l’autore propone al lettore lacertezza della desolante nullità del mon-do. Nella seconda breve sezione, intitola-ta “Con Leopardi”, Rigoni si fa prendereper mano dal grande Recanatese, che infatto di riflessioni sulla vanità ha davveroben pochi rivali, e lo segue lungo la via del-la serena e triste consapevolezza del vanoaffannarsi degli uomini. Le meditazioni diRigoni continuano nella quarta sezionedel volume, recante il titolo “Nel regno diClio”, che si conclude con le seguenti signi-ficative considerazioni: “Che cosa mi haspinto a scrivere questo libretto? Una dop-pia vanità: la vanità di scrivere e la vanitàdi scrivere sulla vanità. Dimenticavo un’al-tra ragione: il desiderio di erigere un pic-colo muro, per quanto vano, contro questastessa vanità”. Il libro termina con una pic-cola antologia di citazioni di autori di ognitempo che si sono cimentati col tema tan-to caro a Rigoni: partendo da Omero e pas-sando attraverso la Bibbia, troviamo, tragli altri, Shakespeare e Nietzsche, Calde-ron de la Barca e Montale, Proust e Cioran.

“Lontano dai sogni”, di Ennio Morricone(Mondadori, 162 pp., 18 euro)

Lo scacciapensieri siciliano negli spa-ghetti western di Sergio Leone, e il mottet-to degli indios in “Mission”. La musica dis-sonante nei primi incubi di Dario Argen-to, e il tema martellante dell’ “Indagine suun cittadino al di sopra di ogni sospetto” diElio Petri. La voce intensa di Joan Baeznell’inno per Sacco e Vanzetti, e la siglacantata in “Uccellacci e uccellini” di Paso-lini. L’epica di sapore verdiano del “Nove-cento” di Bertolucci, e i virtuosismi piani-stici dell’altro “Novecento” protagonista di“La leggenda del pianista sull’oceano”…Oscar alla carriera nel 2007, Ennio Morri-cone è un compositore di colonne sonoreche ha attraversato la storia del cinema co-me pochi altri anche se, lo confessa, all’ini-zio sognava di fare l’artista puro. E un po’si vergognava di quell’attività “alimenta-re” in cui ha invece dimostrato come sipuò fare ugualmente storia della musicaanche accompagnando i sogni dei frequen-tatori di cinematografi. Ma non è l’unicaconfessione di questo libro-dialogo conAntonio Monda. Quando pianse dopo lasconfitta della monarchia al referendumperché gli sembrava che se ne andasse vial’Italia del Risorgimento. Il tifo per la Ro-ma. Le nostalgie per la messa in latino, equelle mai rinnegate per Craxi, anche sepiù di recente è stato amico di Rutelli eVeltroni. Quando riconobbe in Sergio Leo-ne un vecchio compagno delle elementari.E anche qualche segreto del mestiere. Adesempio, l’insistenza si bemolle-la-do-si,perché nella notazione tedesca corrispon-dono al nome di Bach.

Napoli. La Divina Commedia è stata ri-pubblicata in Iran, grazie al lavoro di Fa-rideh Mahdavi Damghani, che ha curato laseconda traduzione in persiano dell’operadantesca. Questa versione, ci dice, è più la-vorata nella poetica perché si avvicini allapurezza lessicale dei classici persiani del-l’islam, in un’operazione che svela la pro-gressiva rivalutazione di Dante in Iran co-me poeta legato non solo alla politica, maanche alla spiritualità.

La traduttrice dice di avere mantenutointatto l’ordine cosmologico cristiano cheregge la Commedia, anche se, per poterlapubblicare in un paese come l’Iran, ha do-vuto autocensurare i versi ostili all’islam.Nella nota all’autocensura, Farideh Mah-davi Damghani specifica che non ha tradot-to le terzine “troppo divergenti dalla fede e

dal diritto islamici”, come quelle in cui, nelCanto XXVIII dell’Inferno, Dante scrive:“Vedi come storpiato è Maometto! / Dinan-zi a me sen va piangendo Alì, /fesso nel volto dal mento al ciuf-fetto”– la pubblicazione delladescrizione della pena di Mao-metto e Alì in qualità di “se-minator di scandalo e di sci-sma” sarebbe incompatibilecon le politiche iraniane dipunizione per le invettivecontro l’islam.

La traduttrice si spingepiù in là e giustifica la sua vi-sione dicendo che “Dante nonavrebbe mai voluto offendere il puro islam,e se l’ha fatto è stato soltanto perché la to-talità della popolazione europea nutriva

paura nei confronti dei musulmani comerisentimento per le crociate”. La letturadella traduttrice, che dimostra la sua vo-lontà di comprendere la visione dantesca,

è in linea con le considerazioni diEdward Said, che, nel suo libro“Orientalismo”, aveva sottoli-neato l’“inevitabilità cosmolo-gica” di quelle terzine. L’auto-censura era già stata attuataanche nella prima traduzio-ne della Commedia, antece-dente alla rivoluzione del’79, pubblicata da Shoja’od-

din Shafa – a cui FaridehMahdavi Damghani rimprovera l’uso di unlessico prosaico, senza slancio poetico, e diun periodare che fa trasparire Dante so-prattutto come poeta politico.

La traduttrice, che paragona Dante a Ru-mi, il massimo poeta della mistica islamica,si dice entusiasta della “ritrovata” religio-sità dantesca: “Per noi persiani leggereDante è come leggere l’Amore, in senso as-soluto, e poi, conoscere Dio”. La Commediaera un testo praticamente bandito, resoinaccessibile e venduto a un prezzo esorbi-tante. Ora, per diffondere un’opera cosìcontroversa, bisogna giocare la carta dellaspiritualità. Tuttavia, la volontà della tra-duttrice di conferire a Dante uno slanciospirituale sempre maggiore e la grande dif-fusione della sua edizione della Commediadimostrano una nuova predisposizione del-la classe erudita iraniana alla ricezionedella cultura religiosa europea, nonostantele attuali censure politiche.

Omar Ghiani

Roma. “Dal Mediterraneo al Giordano,gli ebrei sono minoranza”. L’annuncio chocproviene dal più famoso demografo israe-liano, Sergio Della Pergola, studioso di fa-ma mondiale all’Università ebraica di Ge-rusalemme. Della Pergola è noto per averintrodotto il tema della demografia nell’a-nalisi del conflitto israelo-palestinese. Igiornali israeliani hanno dedicato alla suaricerca ampi servizi di copertina. Un “pa-reggio demografico” tra ebrei e arabi sututto il territorio dal Mediterraneo al Gior-dano era atteso per il 2015. “Ci siamo già”,fa sapere Della Pergola al Foglio. Un son-daggio del Ma’ariv rivela che per gli israe-liani il problema demografico è “la minac-cia”, quasi quanto i missili sulle rampe dilancio di Teheran. Della Pergola sottolineache la popolazione ebraica d’Israele crescepoco, ma costantemente: 80 mila l’anno.Tuttavia non basta a pareggiare la demo-grafia araba. “C’è una domanda che assil-la Israele dalla guerra del 1967: quandoverrà la data in cui gli ebrei non saranno

più maggioranza su tutto il territorio? Conquesto rapporto diciamo che è già succes-so. Gli ebrei sono oggi il 49,8 per cento frail fiume Giordano e il Mediterraneo. Sareb-bero appena il 50,8 se anche non conside-rassimo i lavoratori stranieri, che comun-que sono persone vive che abitano da anniin Israele. Ciò che diciamo ha implicazio-ni politiche. Abbiamo studiato tutto quelloche è ‘contenzioso’, scontro politico. Mettia-mo insieme Israele, West Bank, Gaza, Ge-rusalemme est, il Golan, i 200 mila lavora-tori stranieri, i non ebrei in Israele. Più didue milioni di palestinesi in Cisgiordania,270 mila a Gerusalemme est, un milione emezzo a Gaza; 1,2 milioni gli arabi cittadi-ni d’Israele. Mettendo assieme Israele piùl’entità autonoma palestinese, che sia go-vernata da Hamas o da Fatah, emerge unquadro in cui gli ebrei sono diventati mino-ranza. E’ la prima volta”. Il professore con-sidera tre parametri: ebraicità, democra-zia, territorialità. Di questi parametri – lagrande Israele, l’Israele ebraica e l’Israele

democratica – se ne possono avere al mas-simo due: il grande stato ebraico, ma nondemocratico; la grande Israele democrati-ca, ma non ebraica, oppure uno stato ebrai-co e democratico, ma non grande. DellaPergola spiega così l’impossibilità di unostato binazionale unico di ebrei e arabi.“Chi parla di binazionalità è stupido o vio-lento. Non si negano le identità nazionali.Guardiamo al Belgio, che si sta disgregan-do, o alla Cecoslovacchia. O al bagno di san-gue in Jugoslavia; a Cipro greci e turchi sisono scissi su linee geografiche”.

Della Pergola non si fa illusioni ireniste:crede che il processo di pace debba conclu-dersi col riconoscimento della naturaebraica di Israele. E questo potrà avveniresoltanto con la separazione fisica e politi-ca di arabi ed ebrei. La proiezione demo-grafica impone a Israele una scelta doloro-sa: meno territori per garantire un futuroebraico dello stato, come aveva capito nel2005 Ariel Sharon. “Da mezzo secolo faccioil demografo. Senza soluzione politica, i da-

ti che portiamo ci metterebbero di fronte auna situazione drammatica. Gli arabi au-mentano sempre più, sia dentro a Israele,sia nei Territori palestinesi. Senza i Terri-tori palestinesi, Israele avrebbe l’80 percento di popolazione ebraica. Con i Territo-ri palestinesi si scende al 50 per cento. Sen-za Gaza ma con la Cisgiordania, gli ebrei so-no fra il 60 e il 62 per cento. Questo è oggi.Domani queste cifre andranno ridimensio-nate in modo inesorabile, togliendo uno odue punti assoluti per ogni decennio. Setieniamo il West Bank, fra circa un venten-nio saremmo 54 a 46. E non avremo avutocerto altre ondate di emigrazione di massacome dall’Unione sovietica. Sopravviveràallora lo stato ebraico?”. Della Pergola sabene tuttavia che, oltre ai suoi numeri, c’èanche un grave problema di sicurezza. “Og-gi per atterrare a Tel Aviv l’aereo fa un go-mito sopra i Territori palestinesi. Se Ha-mas governasse anche lì, con una fiondaabbatterebbero un velivolo”.

Giulio Meotti

Consigli per innamorarsi di Dante (e tradurlo) nell’Iran degli ayatollah

WINTER’S BONE di Debra Granik, con Jen-nifer Lawrence, John Hawkes (Torino 28)

C’è il banjo, che non promette mai bene(lo abbiamo imparato vedendo “Un tran-

quillo weekend di paura” diretto da JohnBoorman). Previsione azzeccata: vedremoscuoiare scoiattoli e smembrare cadaveri,in puro stile gotico americano. Se il filmnon fosse scritto, girato e recitato benissi-mo – da Jennifer Lawrence, premiata a Ve-nezia come attrice emergente per “TheBurning Plain” – saremmo fuggiti dopo laprima scena. Quando la mamma giace rim-becillita dalle medicine, una sedicenne ac-cudisce i fratellini piccoli, il padre ha pa-gato la cauzione ipotecando la casa e oranon si fa trovare, con il rischio che la fami-

glia muoia di freddo e fame. Il white trashdel Missouri senza segreti.

ALTITUDE di Kaare Andrews, con JessicaLowndes (Rapporto confidenziale)

Non salite su quell’aereo. C’è una ragaz-za al comando, un bullone che comincia auscire dal suo alloggiamento subito dopo ildecollo, quattro passeggeri usciti da unfilm demenziale. Qualche birra di troppoprepara alla meta: il concerto dei Coldplaysenza dover fare code in autostrada. Il nuo-vo fidanzato della pilota sarebbe contrario,ma siccome già lo prendono in giro perchéè secchione e colleziona fumetti, sale a bor-do con la faccia da funerale. Arriva la tem-pesta, la torre di controllo non risponde,una vecchia storia di famiglia si delinea apoco a poco. Horror canadese poco verosi-

mile ma molto divertente.

LAS MARIMBAS DEL INFIERNO di JulioHernàndez Cordòn (Torino 28)

Ricetta per un film latinoamericano dafestival. Un personaggio di poche parole esguardo fisso, un oggetto o una missione as-surda, tre passi fino al palco per ritirare ilpremio (almeno il Cipputi, che Torino dedi-ca ai film sul lavoro). Don Alfonso suona lamarimba, strumento a percussione guate-malteco. E’ la cosa più preziosa che ha, damettere al riparo quando lo minacciano diestorsione, con varie scenette ai confinidella surrealtà: marimba trascinata sulmarciapiede, marimba nel deposito-appar-tamento, marimba contesa a suon di pugni.Farà coppia con un ex satanista e suonato-re di heavy metal di nome Blacko. Conver-

tito all’ebraismo, non vuol lavorare di saba-to, giorno in cui si guadagna meglio.

JACK GOES BOATING di Philip SeymourHoffman, con Amy Ryan (Festa mobile)

Gli attori che diventano registi si conce-dono sempre troppi primi piani. Indulge al-la vanità anche Philip Seymour Hoffman,ma è così bravo – facce e mosse sempre di-verse da cane bastonato – che lo perdonia-mo. Guida una limousine per conto terzi,non ha una fidanzata, non sa nuotare nonsa cucinare. Imparerà a far (quasi) tutto,dopo che l’amico gli presenta una ragazzasolitaria, sfigata, eppure rompicoglioni co-me di rado capita. Parla di continuo, hauna psicologia contorta, pensa che chiun-que la voglia molestare, e il povero Jack siinnamora all’istante.

Mosca. Si tingeva i capelli di nero corvi-no come fosse ancora una ragazzina, anchenelle ultime foto pubbliche al fianco di Pu-tin, che ieri assieme al presidente Medve-dev ha pianto la scomparsa della più gran-de poetessa russa vivente. Bella Achmadu-lina era sempre stata bellissima e distan-te, fragile e malata negli ultimi anni, quan-do il debole per l’alcol ne aveva minato ilfisico. Poetessa sovietica, più che russa, conla passione per la Georgia, e anche la leg-genda che avesse un’ascendenza italiana.Di certo per l’Italia aveva una passione, alpunto che nella casa di Mosca nel quartie-

re di Aeroport si era creata un angolino dipiante e fiori che chiamava il suo “milan-skij balkon”. Racconta quest’episodio Eve-lina Schatz, artista e poetessa, da cin-quant’anni ponte culturale tra Mosca e Mi-lano, e che della Achmadulina fu amica.“Era un poeta, un grande poeta” dice al te-lefono dalla sua casa di Mosca. Aveva avu-to quattro mariti, tutte grandissime perso-nalità: il primo, Evgeny Evtushenko, vulca-nico poeta oggi quasi novantenne, poi ildrammaturgo Yuri Nagibin, e Eldar Kuliev,regista cinematografico. L’ultimo, e il vedo-vo di una donna da tutti amatissima, è Bo-

ris Messerer, scenografo teatrale di grandetalento. “Fu il suo vero marito” continua laSchatz, “colui che più di tutti, amorevol-mente, costantemente, la sorreggeva in unmondo in cui Bella chiaramente non si ri-conosceva”. Un ricordo dell’Achmadulinagiovane e affascinante protagonista dell’e-ra del disgelo krusceviano viene anche daVittorio Strada, insigne slavista che al tem-po viveva a Mosca: “Bella allora era la mo-glie di Evtushenko e un membro fondamen-tale della nostra cerchia, assieme ai poetiVoznesenskij, Rozhdestvensky e Vinokurov.Ma aveva qualcosa di diverso, di distacca-

to, un’aura molto particolare. Non posso di-re che avesse la stessa addolorata ieraticitàdella Achmatova, ma tra le due poetessec’era senz’altro un filo ideale. Evtushenkodiceva sempre che Bella era un poeta, nonuna poetessa. E così l’Achmatova. Come senel mettere al femminile questo termine cifosse qualcosa di sminuente”. L’Achmadu-lina è considerata l’erede dell’Achmatova,anche se negli anni ’60, con lo scandalo delNobel rifiutato, era Boris Pasternak a esse-re l’idolo di una cerchia di poeti che si il-ludeva di un cambiamento che sembravaarrivato e che invece non arrivò mai. (mb)

La vanità perdonabile di Seymour Hoffman e un bel po’ di horror

Addio alla bellissima Achmadulina, “la più grande poetessa sovietica”

La demografia spaventa Israele, gli ebrei sono diventati minoranza

Lunedì 6 dicembre un celebre pianistaamericano, compositore, direttore e pa-

dre di tre notevoli figli musici compie no-vant’anni: è Dave Brubeck. Tutto il mondodel jazz e non solo si appresta alla ricorren-za. La Sony Music lancia sul mercato undoppio cd che contiene 21 brani scelti frai migliori (non sempre) di Brubeck. Fra lo-ro c’è l’immancabile Take Five, contenutoall’origine nel lp Time Out del 1959 che permerito di quel brano – scritto dal non di-menticato sassofonista Paul Desmond, nonda Brubeck – vendette più di un milione dicopie, primo album di jazz in ordine ditempo a toccare questo vertice. Brubeck ar-riva nel club dei novantenni in buona for-ma. Dimostra alcuni anni di meno e suonaancora bene. I suoi capelli sono tutti bian-chi, ma dice “meglio bianchi che non aver-li più”. Proprio vent’anni fa ha superato unperiodo difficile: sembrava stanco e con-vinto che la sua grande stagione fosse fini-ta. Poi si è ripreso. David Warren Brubecknasce a Concord, in California, il 6 dicem-bre 1920. La madre è pianista, ma la figuradominante della famiglia è il padre, riccoamministratore di un’azienda zootecnica.

Dave è destinato a succedergli, e infatti èquasi obbligato a studiare veterinaria. Lamusica è un hobby, iniziato a quattro annicon lo studio del pianoforte e del violoncel-lo. E’ durante il periodo del college che de-cide di lasciar perdere i campi, iscrivendo-si prima ai corsi musicali del College of Pa-cific e poi al Mills College di Oakland do-ve il compositore Darius Milhaud insegnateoria e composizione. Diventa uno deisuoi allievi più attenti e non viene affattodanneggiato da una crescente passione peril jazz, alla quale lo stesso Milhaud non èestraneo. Si accosta tuttavia alla musicaafro-americana dall’esterno, con la menta-lità del musicista colto e un tantino altezzo-so, malgrado il rifiuto opposto dal diretto-re d’orchestra Stan Kenton all’offerta del-le sue prime composizioni. Nel 1946, insie-me a Dave van Kriedt sassofonista arran-giatore e ad altri alunni di Milhaud, fondaun ottetto sperimentale e nel 1948 riesce aportarlo in sala di registrazione a SanFrancisco. E’ il momento in cui i musicistidel jazz moderno, dopo l’esplosione nel1945 del cosiddetto “bebop”, cercano dimettere ordine in quei suoni coraggiosi ma

difficili per il pubblico. In varie zone degliStati Uniti, seguendo l’esempio di LennieTristano, numerosi musicisti di valore co-me Gene Roland, Jimmy Giuffre e GilEvans stanno approdando a risultati fra lo-ro simili, smorzando le tinte forti del bebope offrendo un vocabolario sommesso e ri-cercato. E’ il cool jazz (meglio cool bop se-condo la felice definizione di LeonardBernstein): e Brubeck, forse più per meri-to di van Kriedt che proprio, vi si inseriscecon grande autorità. Opere come Preludee Fugue On Bop Themes ricevono lodi una-nimi, la prima per un’inedita solennità re-ligiosa; la seconda per la splendida tradu-zione nel linguaggio del jazz del contrap-punto e della fuga. Ma tutta la produzionedell’ottetto (e di un successivo, effimerotrio) è di singolare interesse per le incur-sioni nel terreno poliritmico e politonale,fino a quel momento quasi sempre evitatodalla musica afro-americana. Purtroppo,però, molti musicisti di jazz debuttano concoraggio, curiosità, senso dell’avventura epoi scivolano nella routine, tuttavia trovan-do spesso una formula di sicuro effetto sul-la platea. Di questo fenomeno Brubeck è

un esempio tipico, per cui pressappoco dal1951 provoca una frattura fra milioni di ap-passionati che continuano ad adorarlo, e lacritica internazionale che gli riserva non dirado recensioni severe. Tutto comincia,nell’anno citato, con la riunione del quar-tetto: al classico trio pianoforte-contrab-basso-batteria si aggiunge il suono flauta-to del sax alto di Paul Desmond. In breveDave Brubeck Quartet diventa un caso ati-pico nel jazz, perché riesce a proporre unaricetta che tiene l’ascoltatore in bilico frauna impetuosa seduta d’improvvisazione euna rigorosa esibizione concertistica. Ilsuccesso è enorme: Time dedica a Brubeckuna copertina. Sono le università e i colle-ge americani, nei quali Brubeck riesce a te-nere concerti continuamente ripetuti, a de-cretargli una popolarità priva di preceden-ti nel jazz. E peraltro il vero Brubeck, chegli esperti hanno consegnato da tempo al-la storia del jazz, è quell’altro: quello del-l’ottetto che i jazzofili un po’ maniaci delDopoguerra (“così eravamo noi”, cantaPaolo Conte) ascoltavano ogni sera fino aconsumare i solchi del disco.

Franco Fayenz

Così il grande Dave Brubeck trasformò la musica jazz in cool jazz

MARIAROSA MANCUSO A TORINO 2010

Far finta di essere sani. Demografica-mente parlando è quello che facciamo

da una quindicina d’anni a questa parte, daquando è cominciata la lenta risalita deltasso di fecondità: dall’1,19 figli in mediaper donna del 1995 all’1,42 del 2008. Ed ec-co che nel 2009 la flessione all’1,41 scoper-chia una realtà che va ben al di là dellaperdita centesimale. Essa, infatti, si verifi-ca contemporaneamente all’aumento dellapopolazione immigrata di oltre 400 milaunità. E finisce col mostrare che entrambii fattori che hanno sostenuto la pur semprecontenuta ripresa della fecondità italianapotrebbero risultare già esauriti. Primo fat-tore: le nascite procrastinate delle quasi eultra quarantenni stanno venendo meno

perché sempre meno sono e saranno que-ste ultime, conseguenza del fatto che a par-tire dal biennio 1974-1975 le nascite sonocrollate. La men che mediocre risalita del-la fecondità delle italiane è destinata a fer-marsi in conseguenza della esiguità futuradelle donne della fascia d’età di 35-45 an-ni che l’hanno sostenuta. Quanto alle immi-grate, la loro fecondità non ha fatto che di-minuire: superava 2,6 figli in media sei-set-te anni fa, sta scendendo a 2,3, continua ascendere. Si avvicinano ai costumi demo-grafici delle italiane a velocità molto mag-giore del previsto.

Altri segnali lasciano intendere chequesta sarà la strada, cosicché l’Italia po-trebbe rimangiarsi quel pochissimo di vi-

talità demografica acquisito ultimamentee che tuttavia non le è bastato neppure afrenare l’invecchiamento della popolazio-ne. Salito, nonostante i milioni di immigra-ti assai più giovani degli italiani, a 144 an-ziani di 65 e più anni ogni 100 bambini eragazzi fino a 14 anni: record assoluto. Mail segnale principale di quel che ci aspet-ta è dato dal tracollo dei matrimoni, chenel 2009 si sono fermati a 230 mila, con unaperdita di 16 mila unità rispetto al 2008 eun tasso di nuzialità scivolato sotto i quat-tro matrimoni l’anno ogni mille abitanti.Cinquant’anni fa, con dieci milioni di abi-tanti in meno, si contavano oltre 400 milamatrimoni l’anno. Fatevi i vostri conti, esemmai aggiungeteci che per la prima vol-

ta calano, di quattromila unità, pure i ma-trimoni civili che parevano destinati ai piùradiosi destini. Mentre molti paludati pro-fessori continuano a non mettere neppurein relazione matrimoni e figli, convinti chele coppie di fatto non saranno da meno diquelle matrimoniate nel metterne al mon-do, mentre una conferenza nazionale sisvena in chiacchiere senza cogliere che ilproblema assolutamente centrale è la fa-miglia che non c’è e mentre l’intellettua-lità va per tetti, a incontrare generazionidi figli unici che si battono con determina-zione perché l’università italiana restiquella che è – tanto mica hanno da pensa-re alla famiglia, loro.

Roberto Volpi

La ripresina demografica italiana è già finita, anche tra gli immigrati

Il signor B. e il suo confes-sore. “Quante volte, figlio

mio?” “Ventisette”.(Cfr. Massimo D’Alema al convegno

italoindiano dell’Ispi: in due anni il go-verno è andato in Libia 27 volte, in Indiamai).

PICCOLA POSTAdi Adriano Sofri

Oriana, eri una grandeintervistatrice ma puregli intervistati erano grandi e questoaiuta. Lo dimostra “Intervista con il mi-to” in cui Rizzoli ha raccolto i tuoi in-contri con i divi del cinema. Il principeAntonio De Curtis, smessi i panni diTotò, non temette di svelarsi misantro-po, misoneista, antidemocratico visce-rale: “Amo le strade vuote, l’eleganzadella notte: bella quanto il giorno è vol-gare. Il giorno… che schifo! Le automo-bili, gli spazzini, i camion, la luce, lagente… che schifo!”. Te lo immaginiCarlo Verdone, esempio contempora-neo di comico triste, dichiarare “Lagente, che schifo”? E Vincenzo Salem-me, esempio contemporaneo di comiconapoletano? (Dicono che i problemi diNapoli siano la munnezza, la politica, lacamorra, ovvio, però aggiungerei alla li-sta il problema dell’essere passata daTotò a Vincenzo Salemme: ma forse tusaresti riuscita a cavare qualcosa perfi-no da Vincenzo Salemme, chissà).

PREGHIERAdi Camillo Langone

Voleva essere autosuffi-ciente. Non accettava neppure che l’a-limentari di via dei Serpenti – nel suorione, Monti, che oggi lo ricorderà conun abbraccio sincero – gli portasse a ca-sa la spesa, “No, il maestro deve faretutto da sé”, raccontavano con rispetto.Un piccolo appartamento al primo pia-no, una grande vita, la semplicità deiracconti degli inizi, “Carlo Ponti ci co-strinse, a me e Steno, a diventare regi-sti per ‘Totò cerca casa’, a noi sembra-va già un miracolo essere sceneggiato-ri”. Il coraggio del soldato durante laSeconda Guerra Mondiale, la forza disuperare il suicidio del padre Tomaso(il racconto, cinque anni fa, sul Corrie-re della Sera, riaprì una grande ferita emi spiegò la sua durezza, che moltiscambiavano per cinismo). Della vo-lontà di uccidersi parlava, a volte, perscherzo: minacciava di diventare ka-mikaze, per tagliare corto con i suoiamici anti-Berlusconi: mi faccio esplo-dere io, e non ci pensate più. Un modoironico per dissimulare l’angoscia di pe-sare sugli altri, una minaccia per lui piùinsostenibile della morte stessa.

Dolce e amaro, forte e fragile. Chissàcom’era da ragazzo, Mario Monicelli…Lo incontrai alla metà degli Ottanta,quando Capalbio era solo un paesinocon due trattorie e una immensa spiag-gia libera. Francesca Barzini e LauraBallio, chiacchierando fra lago e mare,mi presentarono una toscanaccia ecce-zionale: Chiara Rapaccini, illustratricedi favole, creatrice di storie e fumettiper grandi e piccoli. Era lei, la fidanza-ta scandalosa del grande regista cheaveva quarant’anni più di lei. Vivevamoun tempo senza fretta, senza telefonini,ci si ritrovava a parlare dei massimi si-stemi e di stupidaggini. Mario, genio delcinema e della vita – di cui sapeva tan-to, ma proprio tanto – sembrava il piùgiovane di noi trentenni. Aveva avutogià tutto, allora: mogli, figli, straordina-ri successi, denaro, belle case, decine diamici. A settant’anni, raccontava, forseposso stare un po’ in pace. Da quell’a-more che scavalcava tutte le regole delbuon senso, intanto, nasceva la meravi-gliosa Rosa, oggi bella e grande venten-ne. Una scommessa vinta: Mario è statoper lei più padre di tanti giovani mari-ti, e la grande famiglia che la circon-derà si allargherà all’infinito.

Il suicidio impone un grande rispetto.La vita e il libero arbitrio (che è il suoinscindibile complemento) per molti dinoi sono un dono di Dio. Per Mario, uo-mo terreno e terrestre come pochi, chis-sà. E’ impossibile giudicare chi scegliedi interrompere il flusso delle emozio-ni prima che si inaridiscano nel contodei globuli, nella frequenza delle flebo,nel sorriso di chi ti porge una garza o uncuscino. Dobbiamo solo ricordare, sen-za interpretare e senza troppe cerimo-nie, un uomo dalle scelte nette e corag-giose. Fino all’ultima.

L’OSSERVATRICEROMANA

di Barbara Palombelli

Page 3: IL FOGLIO · 2016. 11. 22. · IL FOGLIO ANNO XV NUMERO 284 DIRETTORE GIULIANO FERRARA MERCOLEDÌ 1 DICEMBRE 2010 - € 1,30 Non riesci a fare a meno del Foglio? Leggilo anche su

Roma. L’ala sindacalpolitica affine allasinistra è più disposta al dialogo e alla trat-tativa rispetto al passato. L’area moderatae centrista inizia ad avere qualche dubbiosul modello Pomigliano.

Il nuovo corso di Sergio Marchionne nelLingotto continua a far discutere, inne-scando posizioni e opinioni inedite. Ieri,nel corso di un convegno sul futuro dellerelazioni industriali dopo Pomigliano or-ganizzato dall’Università Bocconi di Mila-no, il segretario generale della Cgil, Su-sanna Camusso, ha ribadito la linea aper-turista inaugurata dopo l’elezione al verti-ce della confederazione di corso Italia alposto di Guglielmo Epifani: “Su Mirafioriabbiamo avviato un confronto, vediamo co-me si sviluppa, sono sempre contraria amettere delle date, servirà il tempo neces-sario”, ha risposto Camusso a chi comeMarchionne conta di chiudere l’accordo suMirafiori entro otto giorni. Negli ultimigiorni non è soltanto il leader della Cgil

proprio al modello dello stabilimento cam-pano il vertice della Casa automobilisticatorinese guarda con attenzione pure perMirafiori.

Proprio sulle “lezioni di Pomigliano”s’incentra un’analisi dell’ex ministro delLavoro nel governo Dini, Tiziano Treu,scritta per l’ultimo numero della rivista Ita-lianieuropei dell’omonima fondazione diGiuliano Amato e Massimo D’Alema. Sep-pure da posizioni riformiste e quasi mode-rate, l’ex esponente della Margherita e at-tuale vicepresidente della commissioneLavoro del Senato scorge alcune anomalienell’accordo su Pomigliano.

La premessa generale di Treu è asettica:“Pomigliano e altri casi simili di difficoltàaziendali hanno implicazioni generali:pongono ai sindacati e alle imprese italia-ni il problema di come affrontare una com-petizione globale sempre più dura, non so-lo nel settore auto”. E’ sulle clausole del-l’accordo di Pomigliano che riguardano

malattie e sciopero che si appuntano leperplessità, anzi le critiche del Treu giu-slavorista: “E’ discutibile”, scrive l’ex mi-nistro del Lavoro, la clausola che autoriz-za l’azienda a sospendere l’integrazionedell’indennità di malattia nel caso di as-senteismo anomalo.

“Prassi gestionali efficaci – aggiungeTreu – dovrebbero trovare rimedi (preven-tivi e repressivi) più corretti a simili aber-ranti comportamenti (come provano altreesperienze aziendali)”. “Delicata” è anchela parte dell’intesa dello stabilimento cam-pano che prevede sanzioni in caso di scio-peri e di comportamenti lesivi degli impe-gni assunti dalle parti. La clausola su cuisi appuntano i “dubbi maggiori” di Treu?E’ quella che prevede la sanzionabilità del-la violazione da parte dei singoli lavorato-ri delle condizioni dell’accordo: “Lo scio-pero – scrive Treu – è tradizionalmente ri-tenuto un diritto individuale non negozia-bile”.

che ad aver avuto un atteggiamento più dia-logante verso le richieste del gruppo auto-mobilistico. Anche Maurizio Landini, a ca-po dei metalmeccanici della Fiom-Cgil, hausato toni più morbidi del passato: venerdìscorso, al termine dell’incontro fra il verti-ce della Fiat e i sindacati su Mirafiori, si èmostrato conciliante e attendista.

Significative anche le parole di ieri diGiorgio Airaudo, responsabile nazionaleauto della Fiom: “Non siamo contrari allenewco a priori”, ha detto Airaudo sulla pro-posta di Marchionne per lo stabilimento to-rinese che ricalca l’esempio di Pomigliano.“Noi siamo disposti a discutere, a fare pro-poste e a prenderci impegni – ha aggiuntoAiraudo al quotidiano la Repubblica di ie-ri – anche se vorremmo conoscere tutto ilpiano Fiat. Prendiamo sul serio Marchion-ne. Va bene azzerare le polemiche”. Dettoquesto, per i metalmeccanici della Fiom-Cgil la trattativa per Mirafiori “non puòconcludersi come a Pomigliano”, anche se

municazione politica (Rothschild si rivolgea Mandelson chiamandolo “primo mini-stro”, e non si capisce perché poi nel tito-lo del documentario abbia voluto infilareun punto interrogativo). Il dietro le quintedei dibattiti elettorali, i primi della storiabritannica, è da vedere e rivedere finchénon si impara a memoria. Quando ancora itre candidati premier – Brown, DavidCameron e NickClegg – stanno

parlando, Mandelson, accompagnato dal-l’inviso Alastair Campbell (genio della co-municazione pure lui, guarda Brown in di-retta tv e dice un secondo prima di lui lestesse parole, ma le dice meglio), è già al la-voro per dire che il primo ministro è statoefficace e convincente, nulla a che vederecon gli altri due ragazzini. I giornalistismettono di ascoltare i tre che si confron-tano su economia e immigrazione, e tampi-nano Mandelson per intervistarlo, per de-lineare l’esito del dibattito partendo dallesue parole, non da quelle dette dai tre con-tendenti. I politici diventano irrilevanti difronte alla potente macchina dello spin.

Con tono calmo e deciso poi Mandelson ras-sicura Brown al telefono: sei andato benis-simo, il format funziona perfettamente perte, gli altri non sono nulla al tuo confronto.Mandelson naturalmente non credevanemmeno a una parola, ma il lavoro dellospin è anche e soprattutto questo: dire la

cosa giusta al mo-mento giusto, farla sembrare vera anche senon lo è.

Mandelson è talmente bravo in quest’ar-te che ormai non sbaglia più. La sua perfi-dia è magnifica: quando parla con GeorgeOsborne, attuale cancelliere dello Scac-chiere, per esempio. I due hanno avuto piùdi uno screzio, a causa di uno scandalo le-gato a oligarchi russi e navi di lusso nelleisole greche. Così quando Osborne e Man-delson si trovano vicini, aspettando di es-sere intervistati insieme, il primo chiede:“Allora quando esce il tuo film?”, e il se-condo risponde: “Non presto, ho deciso diallungare i tempi, voglio girare qualche

Milano. Il documentario su Peter Man-delson (o forse sarebbe meglio dire “di” Pe-ter Mandelson, ché non c’è inquadratura,parola, sorrisetto, vasetto di yogurt, cravat-ta e sospiro che non siano stati intensa-mente studiati dall’ex ministro e architet-to del New Labour britannico) è un ma-nuale imprescindibile per chi vuole farepolitica. C’è tutto: la comunicazione, lospin, la leadership, l’odio, l’ironia, la pas-sione. Gli spettatori ideali di “Mandelson:the real prime minister?”, presentato alFestival di Londra e poi trasmesso sullaBbc, sono: i leader, i sedicenti leader,i candidati leader, i delfini più o me-no traditori, soprattutto coloro checonsiderano un loro diritto fare i lea-der, anche se gli difetta il carisma permettere insieme quattro amici a cena.

Mandelson, “il terzo uomo” contro-verso, antipatico, snob, insofferente deldecennio blairiano nel Regno Unito, mo-stra ciò che è necessario sapere per im-parare, prima di tutto, qual è il proprioposto. Dice senza l’ombra di un ramma-rico che lui non ha mai pensato di po-ter fare il capo del New Labour, “Gor-don (Brown, ndr) e Tony (Blair, ndr) era-no stati eletti dieci anni prima di me, iosoltanto nel 1992”, spiega. Mandelsonnon ha mai aspirato alla poltrona di pri-mo ministro, perché ha capito fin dall’ini-zio che non l’avrebbe ottenuta. Meglio ren-dersi indispensabili dove davvero si può,meglio non disperdere le energie alla ri-cerca di un obiettivo irraggiungibile (eraun ottimo consiglio anche per Brown, ilquale però non l’ha saputo accogliere, e an-zi ha odiato chiunque gliel’ha fatto presen-te, Mandelson compreso, naturalmente).

Così “il principe delle tenebre” si è da-to allo spin. Il documentario di HannahRothschild, girato nei sei mesi che hannopreceduto il voto dello scorso maggio in cuihanno prevalso i conservatori, dà una di-mostrazione eccezionale dell’arte della co-

Il nuovo business di Lord Mandelson, il Principe delle tenebre

Schizofrenia sindacalpolitica a sinistra sullo stile Marchionne

scena anche a Corfù”. Osborne pietrificatotace, Mandelson furbissimo guarda drittoin camera, e ride.

E’ uno dei pochi momenti “umani” di tut-to il film, assieme alle lacrime mentre sa-luta i giovani che lavorano per lui al mini-stero (lacrime è eccessivo: occhi lucidi, maper lui vale come un pianto a dirotto), allaripresa in mutande con calzini e gambe or-rendamente bianche, ai giochi in vestagliacon il cagnolino. Per il resto non c’è molto:“Non ho una vita, io – dice – Lavoro sempre,quando non lavoro dormo, ogni tanto guar-do la tv”. La dedizione è così assoluta (maivista tanta gente sbadigliare, mentre Man-delson imperterrito legge e lavora) chel’unica preoccupazione di Mandelson èquella di riabituarsi a non essere sem-pre sotto pressione: “Non so che cosavoglia dire stare tranquilli”, ammette.Né vuole esserlo, tranquillo. Dallasettimana prossima, secondo tutti igiornali inglesi che ieri si giravanotra le mani impazienti i pochi par-ticolari già trapelati, Mandelsonentrerà nel business: sta per apri-re uno studio internazionale diconsulenze, ed è abbastanza faci-le prevedere su che cosa consi-glierà i suoi clienti.L’ebbrezza dello spin, soprattutto in

tempi cupi come quelli attuali del New La-bour, è indispensabile. “Ti sei preparato aquesto momento?”, chiede la Rothschildmentre tornano a casa in auto, alle cinquedel mattino, nella notte in cui il Labour haperso le elezioni. “No – risponde seccoMandelson – Lo sto facendo adesso”. Equando la regista spossata lo implora di la-sciarsi un po’ andare, di concedersi alle te-lecamere, di non studiare ogni parola, diuscire dai panni dello spin doctor perfettoMandelson la saluta così: “Che cosa vuoi dame, Hannah? Io sono un politico di profes-sione, non una soubrette. Grazie a tutti, ar-rivederci”.

LO SPIN DOCTOR DEL NEW LABOUR TORNA CON IL VIDEO DEFINITIVO SULLA POLITICA INGLESE, E UN SECONDO LAVORO

Nell’albero genealogico stanno i rap-porti dei diplomatici della Repub-

blica di Venezia; i sicari che gli Statiitaliani del Rinascimento utilizzavano“con un modus operandi non del tuttodissimile da quello delle moderne or-ganizzazioni criminali”; il lungo duellotra l’intelligence pontificia e quelladell’Inghilterra protestante; i cospira-tori risorgimentali; la Contessa di Ca-stiglione; la Piccola vedetta lombardadi Edmondo De Amicis, che poi esistet-te davvero e portava il nome in futurodestinato a ben differenti notorietà diGiovanni Minoli.

Il padre fondatore si chiama Giusep-pe Govone: un eroe della Prima guerrad’indipendenza che come ufficiale dicollegamento in Crimea sarà uno deidue italiani a partecipare anche allaCarica dei Seicento, avendo un cavalloucciso sotto di lui e ricevendo dalla Re-gina Vittoria l’Ordine del Bagno; crea-tore poi a 34 anni dell’Ufficio informa-zioni e operazioni militari presso lo Sta-to maggiore dell’Arma sarda, poche set-timane prima dello scoppio della Se-conda guerra d’indipendenza. Si suici-derà però a 45 anni, in seguito a unesaurimento nervoso per le polemichecontro i tagli al bilancio del Regio eser-cito da lui voluti.

Non è il solo eroe dell’Intelligenceitaliana a cadere sul campo. Eugenio DeRossi, “fanatico del velocipede e del

Touring Club”, “positivista dell’intelli-gence italiana”, è ad esempio una stardei nostri Servizi all’epoca della BelleÉpoque, quando l’organizzazione si ar-ticola tra uno spionaggio affidato so-prattutto a bersaglieri e un controspio-naggio in cui eccellono i carabinieri; l’I-talia manda agenti in quantità in Africa,sotto la veste di esploratori e geografiche in realtà sondano il terreno per lefuture imprese coloniali; e gli stessi di-rigenti non sanno bene se il prossimonemico sarà la Francia o l’Austria, purufficialmente alleata nella Triplice. Ap-punto contro l’Austria, ormai diventatogenerale, De Rossi riceverà una feritada mitragliatrice che lo lascerà paraliz-zato a vita, nel guidare un assalto nel1915. Pietro Verri, specialista delle ope-razioni coperte in Africa orientale enello Yemen, dopo essersi infiltrato apreparare lo sbarco in Libia nel 1911 ca-de in battaglia contro i turchi.

Manfredi Talamo, l’ufficiale dei cara-binieri che alla testa della squadra Pdel Sim dal 1938 è riuscito a violare qua-si tutte le ambasciate straniere a Roma,recuperando i codici statunitense e ju-goslavo e sgomitando varie reti di agen-ti stranieri, catturato dai tedeschi men-tre lavora ormai per la Resistenza, fi-nirà alle Fosse Ardeatine.

Ma anche durante la Grande Guerral’Intelligence italiana aveva fatto un col-po magistrale, utilizzando scassinatoriprofessionisti per violare la cassafortedel vice-console austriaco a Zurigo, cheera poi un importante dirigente dellospionaggio asburgico. E sempre duran-te la Grande guerra inizia un lavoro conle nazionalità dell’Impero Austro-Unga-rico che in periodo fascista involverà inun appoggio a terroristi e operazioni didestabilizzazione da stato canaglia. Co-sì come è da stato canaglia l’opera con-tro gli antifascisti di cui sarà il “capo-lavoro”, diciamo così, l’uccisione deifratelli Rosselli.

La storia si chiude col passaggio dalSim del periodo fascista, ufficialmentechiuso nel 1944, al nuovo Sifar che na-sce nel 1948, assieme ai tre Sios di For-za Armata. E con la morale: “pregio edifetto dell’intelligence militare italia-na consiste nella costante prevalenzadella dimensione umana, dalla raccoltaall’analisi delle informazioni, passandoper le vigenti metodologie operative”.

LLIIBBRRIIAndrea Vento

IN SILENZIO GIOITE E SOFFRITE Il Saggiatore, 508 pp., 19,50 euro

Roma. Ha un titolo shakespeariano, ed èuna storia davvero shakespeariana quelladell’ascesa e caduta di Merrill Lynch rac-contata in un libro appena uscito negli Sta-ti Uniti, “All the Devils Are Here”, operadi due giornalisti economici molti stimatiin America, Joe Nocera (New York Times)e Bethany McLean (Vanity Fair). Il libro èsulla grande crisi, ma uno dei capitoli piùavvincenti riguarda proprio il mito MerrillLynch. Mito nazionalpopolare, perché adifferenza degli altri colossi sommersi osalvati della grande crisi (da Bear Stearnsa Lehman Brothers, da Goldman Sachs aCitigroup) la banca del toro rampante èsempre stata un’altra cosa: banca com-merciale prevalentemente per le famiglie,banca “di sistema” si potrebbe dire, daquando fu fondata nel 1914 dal cattolico efilantropo Charles Merrill, famoso per lasua visione messianica dell’azionariatodiffuso. “Portare Wall Street a MainStreet” era la sua parola d’ordine che si

le serali di General Motors, poi a Harvarddov’è il solo nero del suo anno. Poi nel 1986con l’ingresso fatale a Merrill, come re-sponsabile dei “junk bond”, le obbligazio-ni spazzatura. Appena entrato comincia afar fuori progressivamente la cultura no-ri-sk e bon ton della banca newyorchese. Haun’unica ossessione, raccontano Nocera eMcLean: l’invidia per Goldman Sachs, ban-ca meno antica, meno pop ma sicuramentepiù aggressiva, che macina utili e regalastipendi clamorosi ai suoi manager. Peremulare Goldman O’Neal rovinerà se stes-so e la gloriosa Merrill.

Ha alcune intuizioni geniali, degne delvecchio Charles Merrill: prevede (uno deipochi) lo scoppio della bolla di Internet,nel 2000, e comincia a licenziare migliaia didipendenti fin da molto prima. Sale tutti igradini, diventa cfo e poi presidente, e con-tinua a licenziare. Alle rimostranze deipiani alti (cattolici e paternalisti) oppone lasua visione: Wall Street non si risolleverà

tanto presto, e al diavolo la cattiva pubbli-cità e il politicamente corretto. Nel frat-tempo, diventa amministratore delegato, eha una fascinazione: i Cdo, le famigerateobbligazioni collaterali ai mutui, un busi-ness in cui la banca non era mai entrata neisuoi 93 anni di storia, e dev’essere per que-sto che non riesce a fare i profitti di Gold-man. Ma O’Neal colma rapidamente il gap:nel 2006 Merrill diventa il più grande“spacciatore” di Cdo d’America, passa da1 a 40 miliardi di esposizione nel giro di 18mesi. I profitti si impennano, i bonus an-che: O’Neal, ceo dal 2002, guadagna 48 mi-lioni di dollari l’anno.

Nell’ottobre 2007, il crac: la banca an-nuncia svalutazioni per 7,9 miliardi. Vienevenduta nel 2008 a Bank of America con uncontributo di 45 miliardi di dollari da par-te del Tesoro (poi restituito). O’Neal vienecacciato, pur con una buonuscita di 161 mi-lioni. Il nuovo ceo, paradossalmente, èJohn Thain, ex top manager di Goldman.

sarebbe poi realizzata nei decenni, conuna filiale Merrill a ogni angolo di stradaanche nel Midwest. Negli anni d’oro Mer-rill divenne la più grande piazzista di tito-li tranquilli alla middle class, cavalcandol’onda lunga degli anni Ottanta e stabilen-do anche un codice preciso per cui“mother Merrill”, com’era soprannomina-ta fino a qualche anno fa, non amava il ri-schio, faceva pochi utili ma sicuri, ed eradominata da una dirigenza rigorosamentecattolico-irlandese e paternalista.

Tutto cambia quando arriva un corpoestraneo come Stanley O’Neal, protagoni-sta moderno della saga, che porterà Merrillprima sull’altare e poi nella polvere. Unpersonaggio più diverso dalla cultura di“mother Merrill” non si potrebbe immagi-nare: afroamericano, nipote di schiavi e fi-glio di contadini di Wedowee, Alabama, do-ve “guardare negli occhi un bianco potevaavere conseguenze serie”, O’Neal puntatutto sul riscatto sociale, prima a 13 anni al-

Un libro svela cosa lega la crisi di Merrill con il mito di Goldman

ANNO XV NUMERO 284 - PAG 3 IL FOGLIO QUOTIDIANO MERCOLEDÌ 1 DICEMBRE 2010

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EEDDIITTOORRIIAALLII

Contro il vuoto politico

Roma fradicia e paralizzata dai corteicontro la riforma dell’Università,

prove di guerriglia urbana attorno aMontecitorio, stazioni ferroviarie occu-pate in molte città mentre il governo an-dava sotto due volte in Aula. Nella gior-nata decisiva del dibattito parlamentaresulla riforma Gelmini, che superato loscoglio di Montecitorio approda ora aipiù pacifici lidi di Palazzo Madama, lospettacolo non è stato dei migliori e nonva in ogni caso sottovalutato, se è un se-gnale del cattivo clima del paese. E’ pro-babile che la giornata di ieri sia stata ilmassimo sforzo per bloccare la legge daparte di studenti che saranno pure unaminoranza – come ha furbamente dettoFini, mentre come sempre più aderenteal comune sentire Berlusconi commen-tava che “gli studenti veri sono a casa astudiare” – ma hanno per un giorno pre-so la piazza. Non interessa tanto, in que-sto momento, stabilire se la protestaesprime davvero una repulsione verso lamaggioranza o solo un’ala più aggressiva.Piacerebbe invece capire perché maiquegli studenti si battono con tanto ac-canimento per difendere l’universitàcom’è, quando è evidente a tutti, a loroper primi, che così non serve che a per-petuare un sistema incapace di fornire laformazione necessaria per un futurosempre più difficile e competitivo. Natu-ralmente quelli che protestano controquesta riforma ne chiedono “un’altra”, in

realtà vorrebbero solo che i cittadini conle loro tasse pagassero i costi crescenti diun meccanismo inceppato, che produceprecarietà e non professionalità.

Il caso dei “precari” è quello emble-matico. Si sono modellati gli atenei in ba-se a criteri occasionali o casuali, si sonofondate facoltà e corsi di laurea senzastudenti, affollati di personale che nonviene mai sottoposto a verifica attraver-so i concorsi, a loro volta organizzati inmodo clientelare o nepotistico. La di-stribuzione di “pezzi di carta” sempremeno rappresentativi di una formazioneeffettiva produce poi una difficoltà al-l’entrata nel mondo del lavoro. E’ questo,burocratico e improduttivo, il mondo cuiaspirano davvero i giovani? E’ difficilecrederlo e loro stessi non lo credono. Ilpunto critico sta nel distacco dal mondoproduttivo (non solo di merci ma anchedi idee e di informazione, naturalmente)che ha separato università e società rea-le. Ci si agita per la cultura, per la scien-za, per il sapere, considerati come valo-ri astratti, e per questo non si compren-de lo sforzo di una riforma che cerca diriannodarli alla società e quindi all’av-venire concreto delle generazioni. Non èun’utopia quella che spinge alla prote-sta, non un disegno razionale anche se didifficile o impossibile realizzazione. E’purtroppo, solo il timore di dover ab-bandonare la sonnecchiosa tradizioneper immergersi nella competizione.

Secondo il commissario per gli Affarieconomici e monetari, Olli Rehn, che

ha detto di ritenere fondamentalmentevalido il piano italiano di rigore varatodal governo, il rapporto deficit-pil nel2012 potrebbe non scendere ai livelli pro-spettati dal governo. L’esecutivo infatti hadetto di puntare a un deficit che sia parial 2,7 per cento del prodotto interno lor-do, mentre Bruxelles sostiene che la di-scesa potrebbe attestarsi a 3,5 per cento.

Ciò perché il pil può non crescere nel-la misura ipotizzata e perché egli nutredubbi sull’entità effettiva dei recuperidi evasione, rispetto a quelli program-mati. Rehn ammette che le stime dellaCommissione sono opinabili e che oc-corre ancora un po’ di tempo per con-frontarle con quelle del ministero del-l’Economia. C’è la sensazione che, piùche di vere rettifiche della previsioneitaliana, si tratti di una linea prudenzia-le nata dal fatto che sia la Grecia chel’Irlanda in passato hanno presentatostime del loro andamento economicotroppo ottimistiche. E anche le stime dicrescita del pil di Spagna e Portogallo,su cui si basano le previsioni di gettito fi-scale, si stanno rivelando eccessive. Ladinamica delle entrate italiane del 2010,

finora, sono in linea con le previsioni.Occorre aspettare i gettiti dell’autotas-sazione di novembre e quelli degli altritributi a fine dicembre per tirare le som-me dell’anno. Su tale base, e con la di-namica del pil e del commercio estero(favorito dal deprezzamento dell’euro),si potranno modificare nel caso le stime.La discesa dell’euro provoca anche unamaggiore inflazione, che può far salireil pil nominale.

Ieri il direttore esecutivo del Fmi, Ar-rigo Sadun, ha detto che i conti italianisono a posto e che non ci sarà bisogno diuna manovra correttiva: “L’Italia, doposolo la Germania, è il paese Ue più vici-no al raggiungimento degli obiettivi fi-scali”. Comunque la manovra correttivamassima che l’Italia dovrebbe attuarenon costituisce un fatto drammatico, néda un punto di vista quantitativo, né daquello qualitativo. Infatti essa potrebbeessere attuata in due tempi, una primatranche nel 2011 di 0,4 punti del pil per6 miliardi di euro e una seconda nel 2012per altri 6. Ma andrebbe annunciata su-bito all’inizio del 2011 o, ancor meglio,alla fine del 2010 sulla base di previsio-ni rettificate, per prevenire che montiun rischio Italia.

E’difficile sottrarsi a una sensazionedi sconforto di fronte ad avveni-

menti che, pur differenti tra loro, sem-brano abbracciarsi in un assedio cupo edisordinato attorno a una politica im-pacciata, indecisa nei comportamentianche quando alza la voce. Assistiamoperplessi al blocco delle città a opera dimanifestanti che vogliono impedire unariforma necessaria; alla propalazione suscala planetaria di documenti riservatiche, almeno nel nostro paese, sollecitanosolo curiosità pruriginose raddoppiandoil gioco maligno delle interviste alleescort di villa e di Palazzo; a un giocoparlamentare confuso e intriso di insidiemiopi e di personalismi. E’ un sistemacapace solo di produrre una politica vuo-ta, oppure è un vuoto politico che sta mi-seramente crollando? La risposta non èautomatica. Va pur detto che elementi diuna politica costruttiva ci sono. A partireproprio dalla riforma dell’Università, unrisultato politico rilevante, soprattutto sesi considera il quadro devastato dei rap-porti parlamentari con cui si deve con-frontare. Nelle ondate della crisi finan-ziaria, l’Italia, con una politica oculata

anche se impopolare, sta tenendo bottameglio di altri paesi. Le chiacchiere sul-l’amico Putin prevalgono sull’intesa diLisbona tra America e Russia, ma que-st’ultimo è un fatto politico di dimensio-ni forse addirittura storiche.

Questo però non basta, perché nell’al-tro e altrettanto rilevante aspetto, quel-lo della costruzione del consenso e del-la gestione delle relazioni politiche, sonostati compiuti errori gravi e probabil-mente irrimediabili. Quello che dovevaessere il centro di aggregazione dei mo-derati si è indebolito per l’insofferenzaal confronto politico interno, mentrequello che aveva l’ambizione di presen-tarsi come il baricentro del riformismosi è incartato in una lotta senza soste perla leadership. In questo clima la vacuitàsembra prevalere sulla durezza dei con-tenuti politici reali, il gossip sul ragio-namento, l’invettiva sul confronto e qual-cuno può pensare persino che le sorti delpaese si decidano su qualche tetto e nonin Parlamento. Per questo è tanto più ne-cessario riprendere la decisione dellapolitica, e spazzare l’immagine di asse-dio, per quanto fumoso, da tutt’intorno.

Non manovrare sui conti

Quel che gli studenti non sanno

Serve cautela prima di parlare di altre manovre depressive

Nel giorno della riforma si sono presi la piazza. E se fosse solo paura?

Il brutto clima intorno alla politica si spazza via solo con la politica

Oggi su www.ilfoglio.it il barsport in video di LanfrancoPace e Maurizio Crippa sulcampionato; “Nichi, ma che

stai a dì?”, la raccolta delle frasi più folgo-ranti di Vendola sul blog Cerazade; il blogdi Julian Assange svelato dal blog Cico.

Page 4: IL FOGLIO · 2016. 11. 22. · IL FOGLIO ANNO XV NUMERO 284 DIRETTORE GIULIANO FERRARA MERCOLEDÌ 1 DICEMBRE 2010 - € 1,30 Non riesci a fare a meno del Foglio? Leggilo anche su

ANNO XV NUMERO 284 - PAG 4 IL FOGLIO QUOTIDIANO MERCOLEDÌ 1 DICEMBRE 2010

Al direttore - Dice il Cav. che stanno peggioa Madrid. Non sapevo che stesse a Barcellona.

Maurizio Crippa

Al direttore - Brevi osservazioni sulle “pri-marie incubo” del Pd, il pezzo apparso ieri sulFoglio. A Napoli il Pd non solo non “deve”candidare Umberto Ranieri ma i dirigenti na-zionali del Partito democratico sono da mesialla ricerca di una diversa candidatura, unesterno al Pd nella convinzione (a me pare il-lusoria) che questa sia la strada per fronteg-giare l’ondata di diffidenza verso il centrosi-nistra che da tempo amministra la città (eprobabilmente per tenere a bada i residui deipotentati che hanno fatto il bello e il cattivotempo nel centrosinistra a Napoli negli ulti-mi 15 anni e vedono Ranieri come il fumo ne-gli occhi). In quanto ai santi in paradiso leisa bene che io non ne ho e non li cerco. Né gli“attuali santi del paradiso” cui il pezzo allu-de si intratterrebbero su tali materie. Cono-scendo quei santi lei sa bene che le cose stan-no così. Circa le primarie, vorrei fosse chiaroche coloro che a Napoli non le vogliono lavo-rano per un candidato esterno “unico” nonper evitare concorrenti insidiosi a Ranieri. Fi-guriamoci! Le primarie sono viceversa l’uni-ca via attraverso la quale la mia folle idea dicandidarmi a sindaco di Napoli potrebbeprendere corpo. In quanto a Cantone è il ca-so di ricordare che sono stato io con una ini-

ziativa del tutto personale a chiedergli di can-didarsi e ho rinunciato ad insistere quandoCantone ha scritto un editoriale sul Mattinoper spiegare le ragioni della sua indisponibi-lità. La ringrazio. Un caro saluto.

Umberto Ranieri

Umberto Ranieri è persona indipenden-te, schiva, intelligente e perbene. Si candi-da a sindaco di Napoli e, per quanto mi ri-guarda personalmente, gli faccio i miglioriauguri. Le approssimazioni dell’informa-zione politica, o anche solo gli innuendo,sarà lui a scusarli, e sa che sono, anche inrelazione alla pallida verità possibile neimedia, ferri del mestiere.

Al direttore - Lei rimprovera a BenedettoXVI di aver fatto un passo indietro nell’agonedella battaglia, di aver ammainato la bandie-ra della ragione e di aver issato quella della fe-de, bandiera che lei non può seguire. Io la ve-do in modo diverso. L’invito a muoversi “comese Dio ci fosse” rivolto all’occidente relativistae ateo è nobile e realistico, ma è un obiettivominimo, per certi aspetti propedeutico. Se unteologo può avanzare questa proposta, un Pa-pa, un pastore, non può che far proprie le pa-role di Paolo agli ateniesi: “Quello che voi ado-rate senza conoscere io ve lo annuncio”. Si po-trebbe dire: “Quello che voi rispettate senza co-noscere io ve lo annuncio”. Una sorta di lette-

ra di Benedetto agli elefantini. L’asticella si al-za, e mai ho visto un elefantino fare il salto inalto. Ma non è il Papa a indietreggiare, forsel’elefantino lo vede allontanarsi perché un pas-so indietro l’ha fatto lui. Con stima profonda.

Gianluca Brenna, Firenze

Al direttore - Quello che lei, amico mio com-battente, definisce un libro “malinconico e in-

telligente”, che fa perdere almeno in parte“quell’attrazione trasgressiva” suscitata dallasfida tipicamente ratzingeriana, a me pare unlibro coraggioso e cordiale, del coraggio e del-la cordialità che non si accampano dietro lestellette di un generale ma che costituiscono la

stoffa dell’uomo, e dell’uomo cristiano qualun-que. Semplice, diretto, e paziente anche con uninterlocutore molto preparato ma poco fanta-sioso e un po’ uggioso nella sua verbosità equestionarietà eurocentrica, questo Papa Rat-zinger, devo dire la verità, lo trovo anch’io conun’ombra di tristezza (ma meno male che la vi-ta è triste mi diceva mio padre Giuss, altrimen-ti sarebbe disperata), ma di una tristezza sana,propria della fede, propria di Cristo. Ecco, pro-pria di Colui che, con tutta l’intelligenza e l’or-goglio che hanno certi amici combattenti, è lìche aspetta l’uomo che non si accontenta di ri-posare sul più perfetto dei punti e virgola.

Luigi Amicone

Vi adoro. Siamo tra papisti.

Al direttore - Non è facile giudicare il gestodi Mario Monicelli.

Donato Carini, Palermo

Dovessi restare solo, molto vecchio, affa-ticato da un cancro e dal tedio di vivere an-cora; e se mai accadesse che, ricoverato nelreparto solventi di un ospedale romano, iomi buttassi dal quinto piano e perdessi lavita nella nera malinconia di una giornatadi pioggia battente; potrebbe succedereche qualcuno scriva, come per Monicelli,che è stato “lo sberleffo di un laico”.Mandatelo affanculo.

Dicono che è stato lo sberleffo di un laico. Ma vaffanculo

(segue dalla prima pagina)L’analisi pone in primo luogo l’accento

sulla politica del lavoro, che negli anni Ot-tanta e Novanta ha destato attenzione (e an-che ammirazione) in diversi paesi dell’U-nione per la flessibilità di una regolazioneminima. Lo studio afferma che “l’alta per-centuale di lavoratori a termine e interina-li ha ridotto la produttività sia nel manifat-turiero sia nei servizi, anzi specialmentenei servizi che hanno utilizzato tali tipolo-gie di rapporti di lavoro come la norma”.Inoltre l’alta percentuale di occupazione atempo ha inciso negativamente sulla fide-lizzazione dei lavoratori alle imprese ehanno frenato incentivi a migliorarsi trami-te la formazione.

Lo studio rileva anche gli effetti tutt’al-tro che positivi della regolazione – spessodi competenza di enti locali – su prodotti eservizi intermedi, come quelli pubblici lo-cali, poiché rappresenta un costo pesanteaggiuntivo sulla produzione dell’output fi-nale. L’analisi che ha il timbro della Ban-ca centrale spagnola è severa nei confron-ti dell’outsourcing: i servizi trasferiti al difuori dell’azienda manifatturiera soventefiniscono in comparti protetti e dove la con-correnza è limitata. Interessante notareche la Germania ha seguito la strategia op-posta: integrare i servizi nel manifatturieroper aumentare la catena del valore e il gra-do d’internazionalizzazione.

L’analisi non fa riferimento a un aspettoessenziale: avere ritardato di venti anni(con poche eccezioni quali l’istituzione delPolitecnico di Barcellona) la riforma dell’I-struzione e dell’Università messa a puntocon Unesco e Banca mondiale all’inizio de-gli anni Settanta. Un ritardo nella forma-zione di capitale umano che pesa ancora.

Giuseppe Pennisi

Sontuoso pranzo napoletano al Sanlo-renzo in onore del nuovo ambasciotorea Londra Alain Economides. Settantainvitati da Marina e Francesco Monca-da di Paternò. Il principe Ruspoli, iprincipi di Sirignano, i reali di Grecia,i principi di Kent, Rocco e Aliai Forte.Molto gradita l’orchestrina napoletana.Ha avuto successo “Luna rossa” in unassolo di mandolino. Che nostal-gia per l’Italia avita!

Alta Società

(segue dalla prima pagina)Anche per la Danimarca, l’aiuto trova

una spiegazione nel coinvolgimento irlan-dese della Danske Bank. Ma i legami eco-nomici di Stoccolma con la terra dellaGuinness sono assai più modesti. L’inter-scambio commerciale, poco più di 400 mi-lioni di euro nei primi dieci mesi dell’anno,è inferiore a quello con la Lombardia. Nétanta attenzione può essere giustificata sol-tanto dalla presenza a Dublino del colossodelle tlc Ericsson, o di Ikea, sbarcata a Du-blino nel 2009, o dagli undici punti vendi-ta di H&M, altro marchio emergente delmade in Sweden. Non è quindi facile tro-vare una spiegazione di pura convenienzaal comportamento svedese. A meno di nonsposare la teoria della carambola: Stoccol-ma è consapevole che il crollo dell’Irlandapotrebbe contagiare le economie baltichein cui sono coinvolte le banche scandinave.Non a caso, man mano che s’aggravava lacrisi della finanza di Dublino, nel mirinosono finite la Seb Bank o Swedbank, gli isti-tuti più presenti nel Baltico. Il sostegno aDublino serve a impedire che la crisi, dirimbalzo, si trasmetta ai partner di Stoccol-ma, facendo ripiombare la Svezia in reces-sione: “Un’economia aperta e dipendentedall’export come la nostra non può prospe-rare in un continente in crisi”, dice Borg.

La generosità svedese ha una spiegazio-ne logica, forse più lungimirante della po-litica di non impegno di Norvegia e Svizze-ra. Atteggiamento miope agli occhi di Borg.Il “miracolo” svedese, infatti, è la combina-zione di vari fattori: l’ottimo comportamen-to del sistema bancario, che ha imparato lalezione degli anni Novanta, quando fu ne-cessario un salvataggio pubblico per evita-re la bancarotta; la nuova flessibilità delmercato del lavoro; il vantaggio di poterusare la leva monetaria. A conferma che lanascita dell’euro è stata senz’altro un gros-so affare soprattutto per chi ha preferitostare ai margini del club, nota qualche ma-lizioso e inveterato euroscettico.

Ugo Bertone

Siesta madrilena

Produttività farlocca e troppocapitalismo regolato. Il Bancode España declassa Zapatero

Aiuto scandinavo

Ericsson, Ikea, H&M sono igrandi gruppi che non vogliono

mollare la (ex) tigre celtica

Non sottovalutate il Risorgimento, dice RiallRoma. Lucy Riall, esperta inglese di Ga-

ribaldi, porta su Alberto Mario Banti e lasua tesi del Risorgimento da buttare ungiudizio meno severo degli italiani . “E’ giu-sto affrontare un argomento, che continuaa suscitare un tifo da stadio, con maggiordistacco, per sottolinearne le peculiarità.Ma il dibattito sollevato da Banti trascuraun punto cruciale, la scoperta cioè di unaserie di fonti inedite mai considerate. E’questa la novità del libro di Banti, che per-mette di capire come fu veramente vissutoil Risorgimento, come lo compresero i con-temporanei”. Senza questa prospettiva, lostesso libro della Riall su Garibaldi (Later-za, 2007) non sarebbe mai uscito, dice lastudiosa. Eppure, le riserve non mancano.“Trovo interessante ciò che Banti scrivesulla Lega e sul tentativo di creare una na-zione fittizia come la Padania; ma il proble-ma è il partito politico, non il nazionalismo.D’altra parte, la sua è una visione troppopsicologistica. Banti insiste sulla compo-nente etnica, tutta terra e sangue, ma comericorda Giovanni Sabbatucci quella fu unodegli elementi, non l’unico. Il Risorgimen-to, infatti, fu un fine in sé, una battaglia perla libertà, la democrazia, la solidarietà coipopoli oppressi. Cavour era convinto chel’unità d’Italia avrebbe arricchito tutti, ilfatto che poi ciò non accadde non significache non fosse una ragione chiave. InveceBanti sembra sottovalutare l’importanza diquesto ideale, sino a smarrire le ragionidella battaglia politica in mezzo a tutto il

materiale riesumato”. Anche il legame traRisorgimento e fascismo lascia la Riall unpo’ perplessa: “Dissento sul metodo. Le pa-role sono le stesse ma i concetti e i signifi-cati cambiano col tempo. Libertà e nazio-ne, per esempio, non avevano per il fasci-smo lo stesso significato che avevano per ilRisorgimento”. Insomma, la continuità lin-guistica non implica quella ideologica. “Ilfascismo rubò il suo vocabolario al Risorgi-mento, ne mutò il lessico, salvo poi svuotar-lo dando una connotazione di destra a ter-mini che erano appannaggio della sinistra.Come mai? Cosa spinse i democratici ver-so questo slittamento? Sono queste le do-mande che uno storico deve porsi”, insisteLucy Riall. Infine, l’ultima obiezione del-l’inglese riguarda il neopatriottismo del-l’ex presidende Carlo Azeglio Ciampi:“D’accordo a tentare di rivitalizzare, da si-nistra, l’eredità del Risorgimento. Ma reite-rare la retorica risorgimentale può causa-re risentimento. E invece, basta partecipa-re a un convegno del Centocinquantenario,come quello sull’incontro di Teano, persentire ancora un coro di voci implorantela giustizia sociale, il diritto alla democra-zia, l’ideale di libertà che animarono il Ri-sorgimento. Sicché, se la commemorazioneufficiale risulta inefficace, non ha alcunaimportanza per quanti ancora sognano direalizzare quegli ideali. Il Risorgimentoimplica un giudizio della nazione su sestessa, per questo risulta incompiuto”.

Marina Valensise

I somari del Risorgimento secondo PennacchiIl Premio Strega Antonio Pennacchi non

conosce Alberto Mario Banti, ma quandocerchiamo di riassumergli le sue tesi si di-ce felice di non conoscerlo. “Eviterei dimandare mio figlio a scuola da lui”. Restaperò il problema più generale del Risorgi-mento come mito fondante del nostro pae-se. “Il problema non è che il Risorgimentosia più o meno un mito fondante. Il Risor-gimento è un fatto storico e da quel fattostorico è nata quel poco di unità del nostropaese. Se i fattori di integrazione socialeservono, se l’uomo è un animale politico eper raggiungere la sua felicità deve essereintegrato vieppiù con gli altri, è ovvio chela dimensione di uno stato nazionale confe-risce all’individuo maggiori capacità di fe-licità e di spazio che una dimensione tri-bale o localistica. Lo stato nazione è unodei passaggi che servono per costruire lafelicità dell’uomo. L’Italia oggi è un paeseinfelice, non perché ci sia troppo stato, maperché non ce n’è abbastanza”. Il che nontoglie che al processo risorgimentale sipossano imputare una quantità di aporie.“Su questo non si discute. Fu un processominoritario, nasce nella testa di pochi, na-sce anche contro i bassi istinti delle mas-se popolari, nasce violentando gli interes-si del sud. Se poi prendiamo un grande ree una grande regina come Francesco II e lamoglie che sulla fortezza di Gaeta sfidanole palle dell’ammiraglio Persano, e li con-frontiamo con la fuga dell’8 settembre, ca-piamo che sul piano dell’etica gli ultimi

Borboni sono superiori agli ultimi Savoia.Il problema è stato il fascismo, che ha sput-tanato con la sua fine ingloriosa un concet-to di Patria in cui la gente aveva creduto”.Però per Pennacchi il “deprezzamento”della Patria dipende anche da quel che èstato fatto dopo. “Hanno voluto fare le re-gioni, che non esistevano nella storia. Co-sa hanno da spartire bergamaschi e mila-nesi, reatini e napoletani di Cassino o diFormia?”. Pennacchi delinea una propostadi riforma istituzionale sua. “Federalismodei municipi. Aboliamo le regioni e le pro-vince, lasciamo solo municipalità e statocentrale”. Poi c’è la polemica nata dal filmdi Martone: il Risorgimento non è spettaco-lare né si presta allo spettacolo. “E chi l’hadetto?”. L’hanno detto in tanti. “Manica distronzi! E’ questo il difetto degli intellet-tuali italiani. Ci vorrebbe Stalin, a mandar-li tutti in Siberia. Non l’ho visto, ma non hodubbi che sia un buon film: Martone è unobravo, e alla sceneggiatura ci lavora De Ca-taldo, che è un marpione. Ma ammettiamopure che si tratti di un cattivo film. Questonon significa che la storia del Risorgimen-to non si presti a essere raccontata. Signi-fica che Martone e De Cataldo non l’hannosaputa raccontare”. E chi potrebbe raccon-tarla? “Questi somari se lo sono letti Giu-seppe Cesare Abba? Io ho già da racconta-re il fascismo e le bonifiche, non ho tempodi raccontare il Risorgimento. Se no ti fareivedere io come si fa!”.

Maurizio Stefanini

- Dopo Bersani, Piovanie Vendola – e purtroppoGranata – in veste di sali-tetti, è opportuno lanciareil fenomeno del sali-tette,

con obiettivi di lotta ed esemplari idea-li per scalate dimostrative. Attivarsi.

- Anche Carlo Petrini vuole aderire aFLI. Ci toccherà mangiare pane e cico-ria allo slow food. O si dice show food?Informarsi. Attivarsi.

- Grandi preparativi per la presenta-zione del libro di Aldo Cazzullo. Io, Ca-sini, Pisanu. Moderatore Pierluigi Batti-sta. Praticamente il nuovo establish-ment liberale. Forse è opportuno invita-re Luca Cordero di Montezemolo. Noper carità quelli di Val Cannuta.

CASA TULLIANI

Temino fatto da un uomo di 50 an-ni alla scuola serale per prendere la li-cenza di terza media (parificata). Inizio:Sarebbe bello avere una morosa che la-vora nella redazione della Gabanelli,così mi dice in anticipo di quale azien-da quotata in Borsa parlano male nellaprossima puntata di “Report”. Così pos-so fare insider trading. Di sicuro quel ti-tolo al lunedì crolla. Lo faccia anchecon le azioni quotate alla Borsa di NewYork poi vediamo se sono contenti. Vo-to: 5-. Grazie, mi bastava il 3 1/2.

INNAMORATO FISSOdi Maurizio Milani

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ANNO XV NUMERO 284 - PAG I IL FOGLIO QUOTIDIANO MERCOLEDÌ 1 DICEMBRE 2010

INDAGINI SUL SUICIDIOAnnulla tutti i significati, ma non è senza significato. La fede, il materialismo, l’oriente estremo

Vi è solamente un problema filosoficoveramente serio: quello del suicidio.

Giudicare se la vita valga o non valga la pe-na di essere vissuta, è rispondere al quesi-to fondamentale della filosofia”: così scri-veva Albert Camus nel “Mito di Sisifo”.Questa frase ritorna attuale oggi con il di-battito sull’eutanasia, che andrebbe a mioavviso affrontato, appunto, insieme al pro-blema del suicidio (e a quello della disgre-gazione familiare e della solitudine, meta-fisica e quotidiana).

Non è infatti un caso che la richiesta dilegalizzazione dell’eutanasia cresca con ilcrescere, nel nostro occidente, del ricorsoagli anti depressivi e al suicidio. Recente-mente l’Oms ricordava che nel 2000 sonomorte per suicidio circa un milione di per-sone, ben più che in tante guerre e cala-mità messe insieme, mentre “negli ultimi45 anni il tasso di suicidio è cresciuto del65 per cento in tutto il mondo, in particola-re tra i giovani”. Uno psicoterapeuta comeViktor Frankl, che sperimentò la durezzadel lager, disse che quando c’è un perché,tutti i come diventano sopportabili. Se soperché vivo, se la preziosità della vita mi èchiara, se la vita come dono è un’idea ra-dicata, ogni circostanza, benché dura, di-venta più facilmente tollerabile.

Scriveva ancora Frankl, il quale defini-va il nostro tempo “l’epoca del vuoto esi-stenziale”: “Se una persona è riuscita aporre le basi del significato che essa cer-cava, allora è pronta a soffrire, a offrire sa-crifici, a dare anche, se fosse necessario, lapropria vita per amore di quel significato.Al contrario, se non esiste alcun significa-to del suo vivere, una persona tende a to-gliersi la vita ed è pronta a farlo anche setutti i suoi bisogni, sotto ogni aspetto, sonostati soddisfatti”.

L’uomo è capace di adeguarsi a tutto, oquasi: solo che lo spirito sostenga il corpo,e se stesso; solo che lo spirito non sia an-cora più debole del corpo. Se c’è un per-ché, tutti i come divengono più o meno sop-portabili. E non vi è dubbio, a mio parere,che il perché vero sia solo e soltanto Dio,dal momento che tutti gli altri, in un mo-mento o nell’altro, possono cedere. Un Diopersonale che ci ha creato, che ci guarda eci conosce e il cui amore rende preziosaogni singola esistenza. Un Dio che mancaad esempio ai grandi popoli cinese e giap-ponese. Che, non a caso, hanno da secoli untriste primato dei suicidi.

In Cina e Giappone infatti il ricorso alsuicidio è estremamente diffuso, amplissi-mo, e, quel che più interessa, accettato cul-turalmente. Parlando dei cinesi J. J. Mati-gnon scriveva, all’inizio del Novecento, cheil suicidio “si riscontra in tutte le classi ea tutte le età”, ed è spesso dettato anche damotivi che per la nostra cultura sono deltutto “futili”: per vendetta, per rancore, percollera o gelosia, per questioni di onore…“Capita che un mendicante attui la suavendetta tagliandosi la gola davanti alla vo-stra porta”. Dall’India alla Cina, ricordaMarzio Barbagli, “darsi la morte per colpi-re un nemico, immolandosi con lui o facen-dogli ricadere addosso la colpa della pro-pria morte, è una scelta messa a disposizio-ne per secoli da culture diverse”. In en-trambi questi paesi, poi, vi sono dei suicidi,come quello della moglie o della concubi-na sulla tomba del marito, che sono consi-derati meritori ed auspicabili.

Un altissimo tasso di suicidi si registraanche in Giappone: 24,4 ogni 100 mila abi-tanti, almeno 4 volte di più che in Italia, vi-sto che il numero reale è in verità ben piùalto. Il Giappone ha anche un primato nelnumero dei giovani suicidi. Kamikaze e ha-rakiri “sono le parole della lingua giappo-nese più conosciute nel mondo”. Qualcheanno fa la “Guida al suicidio perfetto” del-lo scrittore Wataru Tsurumi, in cui si spie-gava come uccidersi buttandosi dalla fine-stra o sotto il treno, divenne un bestsellercon 550 mila copie in otto mesi.

Perché questo dramma? A prescinderedalle mille motivazioni che possono staredietro un suicidio, è difficile non notareche anche nel ricco Giappone, come in Ci-na, l’uomo non è creatura unica, irripetibi-le, di un Dio che la ama fino a morire perlei. “I giapponesi – ricorda il nunzio apo-stolico in Giappone, Alberto Bottari de Ca-stello-, non hanno un rapporto personalecon Dio. Il concetto dell’individuo, che è alcentro della cultura occidentale, non faparte del loro Dna culturale. Si identifica-no con il gruppo, la società, l’azienda, lanazione. Quando un cristiano arriva alladecisione di togliersi la vita sa che sta perinfrangere una regola sacra: la vita gliel’hadata Dio e solo Dio gliela può togliere. Ilgiapponese tentato dal suicidio non haquesto freno. Non ha il concetto del pec-cato. Non ha nessuno, non ha niente, all’in-fuori del proprio mondo materiale e cul-turale, a cui chiedere aiuto. Ma nel suomondo chiedere aiuto è disonorevole, e al-lora deve risolvere all’interno di se stessoil dramma della propria infelicità, divenu-ta insopportabile. I cristiani, anche neimomenti più bui, possono sempre tenderela mano verso Dio. I giapponesi no. Hannootto milioni di dei, migliaia di meraviglio-si templi, santuari, altari, altarini, due re-ligioni ufficiali, il buddismo e lo shintoi-smo, ma vivono senza il Dio unico onnipo-tente e misericordioso, senza il concetto diDio padre di tutta l’umanità e presente inciascuno di noi, sempre”. Nello stesso tem-po in Giappone il buddismo è una religio-ne atea che crede nella reincarnazione,cioè che nega, appunto, l’unicità di una vi-ta personale. Il suicidio quindi non è con-siderato eticamente negativo, anzi è talo-ra contemplato come possibile “soluzione”ad un determinato problema.

di Francesco Agnoli

Maurice Pinguet, già direttore dell’Istitu-to franco-giapponese di Tokyo, nel suo “Lamorte volontaria in Giappone”, nota anzi-tutto il profondo immanentismo che carat-terizza la cultura di questo popolo, e in se-condo luogo mette in luce come in Giappo-ne siano sempre esistite forme di suicidioche la cultura cristiana rifiuta: ad esempio

il “suicidio di solidarietà”, in cui i genito-ri “coinvolgevano i loro figli nella morte,convincendoli, o a loro insaputa”. Infatti al-la madre giapponese che uccide il figlio“non viene in mente che il bambino possarappresentare una esistenza distinta, postasin dalla nascita, o dal concepimento, sot-to la sovranità di Dio”. Vi è poi, sempre nel-la cultura giapponese, il “suicidio di ac-

compagnamento”: alla morte dell’impera-tore, del sovrano, del padrone, funzionari,vassalli, servi lo hanno spesso accompagna-to nella morte, eliminandosi. Vi è infine ilsuicidio come rituale, svolto con precisionee solennità: harakiri è l’atto di uccidersilentamente, aprendosi il ventre, estraendo-ne le viscere, “senza battere ciglio”.

Del resto, se tutta la vita dell’uomo è quied ora, come protestare altrimenti la pro-pria innocenza? Come lavarsi di una colpa,che altrimenti rimarrà per sempre? Comecancellare la vergogna? Come salvare l’o-nore?

Una conferma a questa ipotesi, e checioè l’ateismo contribuisca a togliere allavita umana quella sacralità religiosa che èspesso un utile antidoto alla scelta estremadi eliminarsi, viene dai paesi comunisti, incui l’ateismo è stato imposto e diffuso a tut-ti i livelli. In un celebre film intitolato “Levite degli altri” si ricorda che negli anni 70e 80, Russia, Ungheria e Germania dell’est,tutti e tre paesi comunisti, avevano il pri-mato mondiale dei suicidi, benché i regimi,che pure catalogavano tutto, nascondesse-

ro le cifre relative al disastroso fenomeno.Infatti erano stati proprio molti teorici delsocialismo a spiegare che, una volta instau-rata l’eguaglianza economica e materiale,alcolismo, prostituzione, furti e suicidi, sa-rebbero spariti.

In verità con l’avvento del regime bol-scevico i suicidi iniziarono a crescere. IlPartito comunista cercò allora di condan-narli come “una forma di individualismoborghese”. Il suicidio, per i comunisti atei,era considerato una appropriazione inde-bita della vita, che apparteneva non a Dio,come si era detto sino a quel momento, maal partito, allo stato, alla comunità. Tantoche chi si suicidava subiva l’espulsione po-stuma dal partito e altre pene, ad esempioriguardo al suo funerale. Ma l’efficacia diqueste posizioni fu inesistente. Non ucci-dersi perché la vita è un dono di Dio, è unmessaggio che può essere convincente, co-me dimostrano i bassi tassi di suicidio delmedioevo e sino all’esplosione ottocente-sca (vedi: Marzio Barbagli, Congedarsi dalmondo, Il Mulino). Non farlo perché Stalinnon vuole, è un dogma meno credibile.

“Nel 1924-25 – scrive Barbagli – vi fu un for-te aumento dei suicidi”, non solo tra gli av-versari del comunismo, ma “tra gli iscrittial partito”, tra coloro che professavano lafede del regime. Stalin condannò il fattospiegando che il suicidio era il mezzo piùsemplice per lasciare il mondo, tradendo ilpartito e sputando “per l’ultima volta sul

partito”. “In ogni caso, continua il Barba-gli, il governo smise di pubblicare statisti-che e studi sull’argomento”. Possiamoquindi ipotizzare un aumento sempre cre-scente di suicidi in occasione del terrore,così come c’era stato all’epoca del terroregiacobino e della ghigliottina. Ma con lamorte di Stalin la crescita dei suicidi noncalò e il numero rimase alto sino alla fine.

Il crollo del regime, la morte definitivadella fede comunista segnò un ulteriore in-cremento. Veniva cioè a mancare anchel’ultima forma di “senso”, per quanto labi-le. Nel 1994 si arrivò alla cifra impressio-nante di 43 suicidi per 100.000 abitanti!“Pur essendo diminuito negli anni seguen-ti, continua Barbagli, nel 2004 il tasso disuicidio in Russia (34 per 100.000 abitanti)era da due a tre volte superiore a quellodegli Stati Uniti e dei paesi dell’Europaoccidentale”.

Anche oggi le macerie spirituali lascia-te dal materialismo ateo sono ben eviden-ti, visto che gli ex paesi dell’ateismo di sta-to hanno contemporaneamente il triste pri-mato dei divorzi, degli aborti e quello, ap-punto, dei suicidi. L’Oms dunque rivela og-gi che al primo posto nella classifica deipaesi con il più alto numero di suicidi nel2009 si trovano la Bielorussia, con 35,1 sui-cidi ogni 100.000 persone; al secondo postoviene la Lituania, al terzo la Russia, alquarto il Kazakistan, al quinto l’Ungheria,al sesto il Giappone, all’ottavo l’Ucraina…ben 6 dei primi 8 paesi di questa terribileclassifica sono ex paesi comunisti (senzacontare che mancano le cifre vere per la Ci-na).

Eppure non è sempre stato così, dal mo-mento che prima della rivoluzione del 1917“la percentuale dei suicidi in Russia erauna delle più basse al mondo” (MoskovskjiKomsomolets, http://italia.pravda.ru/so-ciety/family/16-02-2006/9-0, traduzione dalrusso di http://www.pravda.ru/). Quanto al-la Lituania, seconda nella classifica del2010, ma prima in quella del 2009, AlvydasNavickas, presidente dell’Associazione li-tuana di suicidiologia e vicerettore dell’U-niversità di Vilnius, sintetizza così la storiadel suo paese: “Prima della Seconda guer-ra mondiale, si suicidavano 8 lituani su100.000. La maggior parte della popolazio-ne viveva in campagna, frequentava lachiesa: esisteva una comunità forte con unaroutine stabile. In seguito scoppiò la guer-ra e venne il regime sovietico: Stalin de-portò gli agricoltori più ricchi e installò lamaggior parte nei Kolchoz (cooperativeagricole). Vodka e alcol prodotti in casa ini-ziarono a scorrere come anestesia, quoti-dianamente. Nella decade degli anni ottan-ta l’indice crebbe ogni anno fino a 30 sui-cidi su 100.000 persone. Con la caduta del-l’Urss il tasso ha subito un forte rialzo, fi-no a toccare il tetto, tra il 1994 e il 1995, di46 su 100.000” (http://www.cafebabel.it/arti-cle/33596/stalin-disoccupazione-maltempo-suicidi-lituania.html).

E’ a questo punto inevitabile ricordarequanto scriveva alla fine dell’Ottocento ilgrande Dostoevskij, nel suo romanzo “I De-moni”, in cui illuminava la mentalità degliatei rivoluzionari del suo tempo. L’autorerusso faceva dire ad uno dei suoi personag-gi che a frenare la volontà degli uomini disuicidarsi è anzitutto l’idea di “un altromondo” dopo la morte (idea che non toglie,ma al contrario conferisce valore, proprioa questo mondo concreto in cui viviamoogni giorno).

Ma quando l’ateismo trionferà, continua-va il rivoluzionario, prefigurazione dei co-munisti del 1917, l’uomo, messo da parteDio, affermerà la sua totale libertà: “Lapiena libertà ci sarà allora, quando sarà in-differente vivere o non vivere”. Un giorno“vi sarà l’uomo nuovo, felice e superbo. Achi sarà indifferente vivere o non vivere,quello sarà l’uomo nuovo! Chi vincerà il do-lore e la paura, quello sarà Dio. Mentre l’al-tro Dio non vi sarà… Possibile che nessu-no su tutto il pianeta, avendola finita conDio e avendo posto fede nell’arbitrio, osiproclamar l’arbitrio, nel senso più comple-to?”. Conclusione? “Io sono obbligato a uc-cidermi, perché il mio arbitrio è uccidereme stesso”. Dostoevskij aveva visto giusto:la proclamazione di una libertà illimitatada parte dell’uomo, di una sua autonomiamorale, di una sua autodeterminazione to-tale, luciferina, è anche l’affermazione del-la sua drammatica solitudine, con le ovvieconseguenze.

Ecco perché oggi sono proprio certi ateicome Maurizio Mori, il consigliere di Bep-pino Englaro, a proclamare la fine della“sacralità della vita”, respingendola comeun concetto cristiano che non ci appartienepiù, e a collegare il presunto diritto all’a-borto, con quello all’eutanasia (o “suicidioassistito”). Riaffermando così il principiodell’autodeterminazione assoluta già pro-clamato dal rivoluzionario di Dostoevskij.Dichiarava qualche anno orsono il sociali-sta francese Jacques Attali, già consiglieredel presidente Mitterrand, e oggi diSarkozy: “La logica socialista è la libertà,e la libertà fondamentale è il suicidio. Diconseguenza il diritto al suicidio diretto oindiretto è dunque un valore assoluto diquesto tipo di società”. Qualche anno pri-ma, su California Medicine, aveva afferma-to, coerentemente, che la vita non è più daconsiderare un valore assoluto, ma “relati-vo”, e ciò significa che accanto al “control-lo e alla selezione delle nascite” occorreràporre la “selezione delle morti”, cioè al-l’eutanasia, per motivi personali, ma ancheeconomici, politici.

Laddove manca Dio, è la vita dell’uomo aperdere valore, e a sfociare più spesso nelsuicidio, individuale o legalizzato e stata-lizzato che sia.

Scriveva a ragione il già citato Pinguet,parlando però, stavolta, del nichilismo oc-cidentale: “In un mondo che non ha altravita che quella quaggiù, altra volontà chequella del soggetto, l’uomo diviene il sologiudice della totalità dell’essere che restain bilico sul filo di rasoio della sua decisio-ne. Là dove brillava l’onnipotenza divina,una vertiginosa implosione ha scavato ilsuicidio nichilista, buco nero nel quale l’as-solutezza della libertà dovrebbe farsi in-ghiottire”.

Le sorprese culturali estatistiche della mappa storica egeografica del suicidio nelle civiltàmondiali (e nella storia)

La credenza in un Diopersonale e in una vita eternaaiutano ad accettare lacontingenza di questa vita

Vincent van Gogh, “Vecchio uomo disperato”, 1890

Una finestra. Vuoto, buio. Lanciarsi nelvuoto. Una caduta – spesso. Un volo –

a volte. Volare non è la stessa cosa che ca-dere. Magari solo impazienza, non un atti-mo ancora, non un altro pensiero, nonun’attesa che conduce al nulla. Il suicidiodi Mario Monicelli pare un volo: per la leg-gerezza del suo corpo di vecchio quasi tra-sparente; per la determinazione – qui enon oltre, qui e non ancora. E’ la paura (an-che), naturalmente. Ma il modo in cui ci silibera della paura ha a che fare con la no-stra speciale libertà. Nella foto, il corpo diMonicelli pare ancora più minuscolo inquell’angolo di cortile, il profilo stampatonetto sul lenzuolo bianco dalla pioggia checade. Fine: come al termine di un film, per-fetta immagine cinematografica, con la mi-te prostituta Carolina e il tuonante Branca-leone che lì vicino piangono. Un suicidiocome quello di Monicelli è un volo che de-cide dove posarsi, morire senza permette-re alla morte di persistere – un guizzo

istrionesco, prenderla di sorpresa: non im-preparata, che quella impreparata non èmai, ma stupirla nell’unica possibilità con-cessa, avendo tanti stupori (di parole, difacce, di storie) evocato in vita. C’è comeuna leggerezza, nel suicidio di Monicelli,un togliersi dal disturbo, lo scatto lateraledella fine (come successe a quei due pove-racci della “Grande Guerra”, pure se lì fuomicidio: di stellette e fanfare e bugie).

Un paio di settimane fa, al telefono, conMonicelli: poche parole, scarsa voglia diconversare – si sentiva. Qualche giorno pri-ma gli avevo chiesto un’intervista propriosul tema della vecchiaia e della leggerezza,del molto che resta dentro quello che anco-ra rimane. Mi aveva detto di sì, tra poca cu-riosità e un po’ più di noia. “Mi richiami ve-nerdì. Ho da fare per qualche giorno”. Ve-nerdì non rispose, lo trovai la settimanasuccessiva. Non aveva più intenzione di fa-re l’intervista, forse non aveva più voglia difare molte cose. “Ne ho dette tante, di co-

se. Può prendere quelle”. Finì in compa-gnia di Borges – il grande poeta che giuntoalla fine rimpiangeva di aver vissuto la suavita con poca leggerezza, e il grande registache quella leggerezza aveva portato sulloschermo e praticato nella vita, con sfotten-te ironia, “superficiale e comunista”. Forseaveva già deciso tutto – e lo stesso questonon cambia assolutamente niente. Forsenon sapeva ancora dove stava andando. Mavolare via (non buttarsi, volare) è qualcosache un essere umano può decidere di fare,libermente decidere – e quell’ultima deci-sione è sempre e solo la propaggine estre-ma della sua (e altrui) dignità, ingiudicabi-le ancor di più quando appare incompren-sibile. Monicelli era un artista. Un uomoche aveva grandemente vissuto: con le sueopere, i suoi amori, le sue passioni. Qui enon oltre: se davanti c’è il deserto di ope-re o passioni o amori. Niente “ospiti dal fu-turo” da attendere, come sperava una gran-de poetessa russa. O anche per angoscia,

solo per un sussulto di rivolta alla minacciadel nostro sconquassamento finale. Maga-ri non era triste, depresso di quella depres-sione che colpiva il suo amico Gassman(che insieme a un altro amico, Dino Risi,fissava un’aquila chiusa in una gabbia chele consentiva appena due colpi di ali:“Quella sono io”). Anzi deciso. Si sta finchési può – della mia stanchezza come dellamia noia e anche del mio dolore ho solo iol’esatta unità di misura. Neanche Dio, chevita e passioni e noia ha donato – e spessousato come “il peso falso” di Roth, per ta-rare le esistenze altrui e farci così noi stes-si spudoratamente un po’ Dio. Saprà Lui,nel caso, come regolarsi: avrà visto er Pan-tera e Capannelle – che del resto, lassù baz-zicano. Avrà saputo (sa e capisce sempretutto) che Monicelli a oltre sessanta filmaveva messo la parola fine. E che dunque,nel “levar la mano su di sé”, aveva ogni di-ritto di farlo anche con la sua vita.

Stefano Di Michele

Ma in Monicelli abbondavano leggerezza e libertà

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ANNO XV NUMERO 284 - PAG II IL FOGLIO QUOTIDIANO MERCOLEDÌ 1 DICEMBRE 2010

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ANNO XV NUMERO 284 - PAG III IL FOGLIO QUOTIDIANO MERCOLEDÌ 1 DICEMBRE 2010

“Se vale la pena fare una cosa, vale lapena farla male”.

Gilbert K. Chesterton

Quando bisogna assaltare una banca ouna diligenza è buona norma sceglier-

si dei compagni di squadra efficaci e benmotivati. E quando nel 1914 si trattò effetti-

vamente di estrarre le pistole e fare a pu-gni, Chesterton non ebbe alcun dubbio suquale brigante avere al proprio fianco perl’impresa: si trattava del suo migliore nemi-co, lo scrittore e futuro premio Nobel Geor-ge Bernard Shaw. Agli occhi del mondo idue non fecero che duellare praticamentesu tutto, ma, come scrisse Maisie Ward (bio-grafa di Chesterton), i lettori deliziati dellostile arguto e frizzante della loro disputacostante erano spesso segretamente a disa-gio “su cosa stessero discutendo”. PerchéChesterton e Shaw non erano impegnati so-lo a combattere l’uno contro l’altro, ma acombattere assieme tutto il resto del mon-do. Il giorno della loro sparatoria comunesarà, come vedremo, solo parte di una benpiù lunga campagna militare contro un ne-mico invisibile e pericoloso.

I due si conobbero agli inizi del Nove-cento, quando Shaw era già autore affer-mato di opere teatrali che facevano delica-tamente a pezzi il perbenismo inglese e

Chesterton iniziava la sua carriera di gior-nalista e recensore. Shaw lesse un suoscritto su “Ivanohe” e fu subito certo diavervi scorto “una nuova stella nel firma-mento letterario”. Si conobbero di personanel 1906 nello studio dello scultore Augu-ste Rodin, che stava realizzando un bustodi Shaw. Da quel giorno non smisero più difrequentarsi e, come scrisse lo stesso Che-sterton, di discutere “quasi tutti gli argo-menti del mondo”, in pubblico e in privato,sulle pagine dei quotidiani o nelle battutedei loro personaggi letterari. In effetti idue erano l’uno il rovescio dell’altro: Shawera un irlandese asciutto e nodoso, vegeta-riano e proibizionista, nato in un ambienteprotestante di cui conservava solo la granbarba da patriarca, un fabiano radicale eun ateo, convinto che l’uomo avesse creatoDio; Chesterton era così corpulento chequando sedeva al tavolo di una conferenzale sedie scricchiolavano, tra il terrore trat-tenuto della folla e le risate del conferen-ziere stesso (arriverà a tessere un elogiodella propria poltrona nello studio comeuna collaboratrice davvero “eroica, perchécostantemente in pericolo”, nelle parole diJoseph Pearce) ed era un “carnivoro entu-siasta che innaffiava i pranzi di vino e bir-ra”, un inglese che sarebbe diventato catto-lico, convinto che Dio avesse creato l’uomo.Avrebbe sempre ironizzato sull’ascetismodi Shaw e la sua inflessibilità per gli uma-ni difetti, dicendo che “il puritano è abba-stanza forte per irrigidirsi, il cattolico è ab-bastanza forte da rilassarsi”. Ne avrebbeparlato come di un umanista così delusodalla risposta dell’umanità alle sue teorierivoluzionarie da comportarsi come “unabambinaia [che] avesse provato per anniun cibo piuttosto amaro con un bambino, escoprendo che non era adatto, non gettassevia quel cibo, chiedendone uno nuovo, magettasse il bambino dalla finestra, chieden-done uno nuovo”. Certo, che ci fosse qual-cuno così radicalmente differente, perChesterton era già motivo per trovare lapersona straordinariamente interessante;dal suo punto di vista “Bernard Shaw appa-re sotto il suo aspetto migliore quando sipresenta come antagonista. Potrei dire chesi presenta sotto il suo aspetto migliorequando ha torto. O piuttosto, in lui tutto èsbagliato, tranne lui stesso”. Talmente tan-to che, quando a Toronto gli sarebbe statochiesto da alcuni sostenitori se Shaw e lesue teorie radicali fossero “un pericolo in-combente”, ribattè: “Oh, no, egli è un piace-re che se ne sta svanendo”. Nel 1909 Che-sterton tributò a Shaw una biografia lette-raria (che Shaw stesso ritenne il migliorestudio della sua opera e del suo pensiero),e nel quale avrebbe scritto che incontrareShaw è come imbattersi nella Venere diMilo: è incompleta, ma “tutto quel che re-sta è ammirabile”.

Ridestatosi da un coma dovuto a un ec-cesso di lavoro, alla cattiva alimentazionee alla tensione delle polemiche giornalisti-che che coinvolsero all’epoca la sua fami-glia (era il 1914), una delle prime preoccu-pazioni di Chesterton sarebbe stata quelladi riprendere il suo epistolario battagliero

di Edoardo Rialti

con l’amico irlandese. Eppure la segreta in-tesa e attrazione tra questi due opposti ri-siede in un altro elemento ancora: perquanto discordassero praticamente su ognirisposta, i due concordavano su quali fosse-ro le uniche domande che veramente con-tano. Uno dei “figli spirituali” di Chester-ton, C. S. Lewis, dirà a sua volta che ci sonoamici preziosissimi “che hanno letto tutti ilibri giusti ma ne hanno tratto le conclusio-ni sbagliate”, e che costituiscono un saluta-re anti ego. Chesterton scrisse che effettiva-mente “non è facile disputare, violente-mente, con un uomo, per vent’anni, intorno

al sesso, intorno al peccato, intorno ai sa-cramenti, intorno a punti personali d’ono-re, intorno alle cose più sacre e delicate re-lative all’esistenza, senza talvolta irritarsie avere l’impressione che l’avversario col-pisca in modo sleale, o adoperi trucchi di-sonorevoli”, eppure affermava di “non avermai letto una riposta di Bernard Shaw chenon mi lasciasse in uno stato d’animo, o inuna disposizione mentale, migliore e nonpeggiore”. Quello che più stimava nelloscrittore irlandese era che questi “è un uo-mo di totale coerenza”. Ne avrebbe scrittocome di una vedetta che non abbandonamai la propria posizione per comodità odopportunismo: “La sua possanza risiedenel presidio diuturno della sua fortezza”. Adifferenza di molti presunti liberi pensato-ri “del fine settimana”, “potrete attaccare isuoi principi, come faccio io, ma non cono-sco alcun esempio in cui possiate attaccarela loro applicazione”. Non lo si accontentafacilmente: “Se disapprova i voti e i legamidel matrimonio, ancor più disapprova i lac-ci più feroci e i voti più dissennati dell’a-more senza legge. Se ride dell’autorità deisacerdoti, ride più forte della pompositàdegli uomini di scienza”. Ha difeso a spadatratta i diritti delle femministe, e “ha susci-tato la loro furia dicendo che gli uomini so-no uguali alle donne”. Potevano differiresu tutto, eccetto che si dovesse avere unaposizione su tutto, sottoponendo la propriaconvinzione all’esperienza: “La verità èche è un grave errore supporre che l’assen-za di convinzioni conferisca alla mente li-bertà e agilità. Un uomo che crede in qual-cosa è pronto a tutto, perché ha tutte le suearmi. Può applicare il suo esperimento al-l’istante”. In un panorama culturale già co-sì dominato da un relativismo che chiede-

va solo di poter riposare beatamente su sestesso, egli sentiva quell’ateo radicale infi-nitamente più vicino dei milioni di moder-ni impegnati a trattare Dio, o la Sua morte,come una questione obsoleta e fastidiosa;un vero credente e un vero miscredente sa-ranno sempre inassi-milabili alla societàmondana, perché – di-fendano l’esistenzadel soprannaturaleoppure muovano a es-so una guerra instan-cabile – “un uomo conuna convinzione pre-cisa, appare semprebizzarro, perché nonmuta col mondo, men-tre milioni di miti uo-mini in giacchetta ne-ra si dichiarano sanidi mente e ragionevo-li solo perché afferra-no al volo la fola delmomento, perché ven-gono sospinti dalmaelstrom del mon-do”. E proprio su que-sto contrasto Chester-ton avrebbe scritto unintero romanzo, “Lasfera e la croce”, nel quale avrebbe datoespressione narrativa e tributo al cuore se-greto della sua amicizia con Shaw.

Vi si racconta di un giornalista scozzesedi nome Turnbull, fondatore della rivista“L’ateo”, sconvolto dalla serena noncuran-

za dei londinesi ai suoi pamphlet infuoca-ti: “Questa indifferenza del pubblico nonera né triste né insensata, ma semplice-mente sconcertante e inesplicabile. I piùterribili propositi enunciati da lui pareva-no accettati ma soprattutto ignorati come i

luoghi comuni d’unuomo politico. Le suebestemmie diventa-vano ogni giorno piùappassionate; e ognigiorno più spessa lapolvere le ricopriva.E Turnbull aveval’impressione di vive-re in un mondo d’idio-ti”. Il mondo modernonon è certamente dal-la sua parte: “Tutti glispiriti avanzati sco-raggiavano Turnbull.I socialisti dicevanoch’egli malediva ipreti mentre avrebbedovuto maledire i ca-pitalisti; gli artisti chel’anima toccava la suasuprema elevazionenon quando si libera-va dalla religione, maquando si liberava

dalla morale. Così dunque passavano glianni; quando finalmente capitò un uomoche considerò l’ufficio laico di Turnbullcon un vero rispetto e con la più profondaserietà”. E si tratta naturalmente di un fer-vente cattolico romano di nome Mac Jan, il

cui sguardo, sempre pronto a scorgere se-gni e simboli, è quello di “un uomo che sitrovi sulla frontiera che separi due mondi.Più la sua memoria saliva verso la oscuracasa della sua infanzia, più egli ritrovavaquelle cose che non hanno nome per noi”.

Anch’egli è a disagio nella metropoli,ma non per quello che sarebbe pronto adaspettarsi: “Londra lo intimidì un poco:non perché la trovasse grande o terribile,ma perché questa città lo sconcertava. Nonera né la città dell’oro né la città inferna-le: era il limbo”. Il francese Charles Peguyscriveva negli stessi anni che la civiltà oc-

cidentale contemporanea è il primo mon-do dopo Cristo, senza Cristo, ma Chester-ton aggiungeva che si tratta di un mondoprivo anche dell’assenza di Cristo, dove l’u-nico idolo che si può scorgere è quello diqualche cartellone pubblicitario “affissosopra un tetto che celebrava le virtù di unapillola”. Il mondo si è fatto tiepido, di quel-la tiepidezza che il Dio dell’Apocalisse mi-naccia di rigettare disgustato. Eppure inquesta nebbiosa indifferenza c’è qualcosaancora capace di accendere la sua atten-zione: è la vetrina della redazionedell’“Ateo”, col suo periodico affisso sopraa ironizzare sulla verginità di Maria. MacJan fa il suo ingresso, spaccando proprioquella finestra. “Come avete osato rompe-re il vetro?”, esclama l’ateo, sentendosi ri-spondere che “era la via più corta per arri-varvi addosso”. E a quel punto Turnbullcapisce, e “si illuminò come di una nuovaaurora, perché dopo vent’anni d’una faticasolitaria e sterile, ecco finalmente la ri-compensa. Il suo giornale aveva provocatola collera di qualcuno”. Mac Jan lo sfidasubito a duello: “S’io voglio battermi? Se iovoglio battermi? – gridò il libero pensatore– Che cosa? O mostruoso spauracchio di su-perstizioni, credete che siano solamente ivostri sudici santi capaci di morire?”. Co-me due naufraghi nella solitudine i due sisono trovati.

Il giuramento di vendetta di Mac Jan è il-luminato dal grande bagliore di tutta la glo-riosa scala gerarchica che ordina il cosmodi un cattolico, dall’ultimo filo d’erba finoal trono di Dio: “Giuro che non avrò nullanel cuore e nel pensiero finché le nostrespade non si saranno incrociate. Lo giurosul Dio che voi avete negato, sulla Verginebenedetta che voi avete bestemmiato, sulle

sette spade conflitte nel Suo cuore. Lo giu-ro sull’isola santa dove sono i miei padri,sull’onore di mia madre, sui segreti dellamia razza e sul calice del sangue di Dio”.Ma per Chesterton la grandezza di Turn-bull non è da meno: “L’ateo levò la testa edisse: ‘Io, vi do la mia parola’”.

Ma i due saranno costretti a rinviare ilduello, perché tutto il mondo si coalizzeràper impedire loro di battersi, e sollevarecosì ciò che i più non vogliono più affronta-re: Dio esiste oppure no? Dopo tanti sforzidegli intellettuali per trasformare gli inter-rogativi sul senso della vita in “una sempli-ce divergenza di religione”, la posizionedei due sfidanti costituisce una provocazio-ne insopportabile. Anzi, l’ateo e il cattolicodovranno l’uno custodire la vita dell’altrodalle trappole dei politici, dei pacifisti, deigiornalisti, degli scienziati. Turnbull dap-prima constaterà che “fino a che il deside-rato evento si compia, noi siamo pratica-mente nella posizione, se non di camerati,almeno di associati. Credo pertanto che [...]il consueto scambio di cortesie fra genti-luomini sarebbe non solo elegante, mastraordinariamente pratico”. E mentre idue fumano un sigaro guidando una carroz-za a velocità folle per sfuggire alla cattura,Mac Jan rimarcherà ancora: “Noi siamoqualcosa di più di due avversari o di duegentiluomini: noi siamo, nel senso più cu-rioso ed esatto, al tempo stesso, della paro-la – noi siamo fratelli… d’armi”. Cristo ave-va esortato a cercare il regno di Dio, assicu-rando che tutto sarebbe stato dato in so-

vrappiù, e questo romanzo ne costituisceuna vera e propria chiosa: i protagonisticercano sinceramente il regno di Dio –giacché anche cercarne l’assenza ne riba-disce il valore – e in effetti tutto sarà datoloro in sovrappiù, a partire dalle persecu-zioni e dall’innamorarsi ognuno di una gio-vane che invece pensa come il proprio av-versario. Chesterton avrebbe sempre avutoa cuore questa storia: “Credo che l’idea cheil mondo moderno sia organizzato, in rap-porto alla più evidente e alla più urgente ditutte le domande, non tanto per risponder-vi in modo sbagliato, quanto per impedireche vi si risponda, sia una visione della so-cietà che ha veramente un significato nonindifferente”.

Per questo, non si stupì affatto quandoBernard Shaw nel 1914 gli propose sogghi-gnando di partecipare assieme come com-parse in un film western muto, prodotto dalcomune amico Sir James Barrie, l’autore di“Peter Pan”. La produzione si arrestò pocodopo, e del film è rimasta solo una fotogra-fia con Chesterton, Shaw e Barrie che posa-no assieme a due figuranti. Eppure Che-sterton sapeva che pure quella divertentemascherata non facesse che sottolineareuna profonda verità, e che certe volte biso-gna travestirsi, come ne “L’uomo che fuGiovedì”, per dire chi siamo: lui e Shawerano veramente due pistoleri, impegnatida anni ad assaltare la banca più inespu-gnabile al mondo, quella del relativismocontemporaneo a buon mercato; semprescrivendo di Shaw avrebbe detto che “è ne-cessario discordare da lui nella misura nel-la quale discordo io per poterlo ammirarecome lo ammiro io; e sono orgoglioso di luicome nemico, ancor più che come amico”.Pearce scrisse che per quanto opposti, idue erano al tempo stesso una cosa sola: ilChester-Shaw. Ma forse il tributo più com-mosso è in un passaggio di Chesterton stes-so, tratto sempre da “La sfera e la croce”: idue protagonisti sono acquattati in una sie-pe, zuppi e fradici per la caccia cui sonosottoposti. “Nel silenzio che seguì, tutti edue udirono il galoppo dei cavalli avvici-narsi con rapidità fulminea; e la cavalcatadei poliziotti passò dietro la siepe, sotto diloro, fragorosa e travolgente come un diret-tissimo. ‘Io devo dirvi – ricominciò Mac Jancogli occhi spalancati su Turnbull – che voisiete un grande condottiero e che è bellopartire in guerra con voi’”.

Un altro celebre amico e corrispondenteateo, lo scrittore e saggista H. G. Wells, as-sistendo alle commemorazioni funebri diChesterton, affermerà che, ammessa e nonconcessa l’esistenza di un posto come il pa-radiso, “io ci andrò solo per l’intercessionedi Chesterton”. E il biglietto di Shaw allavedova Frances sarà, ancora una volta,quello d’un gentiluomo compagno d’armi:“Stanno suonando le trombe in suo onore”.(4. continua)

Le prime tre puntate della Chestertonianasono state pubblicate nel Foglio martedì 9,mercoledì 17 e giovedì 25 novembre, e sono di-sponibili per gli abbonati al nostro sito inter-net nell’archivio Pdf di www.ilfoglio.it.

Nel 1914 fecero le comparseper un film western muto che nonfu mai finito. Ma vestiti dapistoleri erano molto credibili

Lo scrittore irlandese lesse unsaggio del giovane inglese su“Ivanohe” e riconobbe “una stelladel firmamento letterario”

Per quanto discordassero suogni risposta, i due concordavanosu quali fossero le unichedomande che veramente contano

Del futuro premio NobelChesterton diceva che era comela Venere di Milo: incompleto,“ma quel che resta è ammirabile”

Ammessa e non concessa l’esistenza di un posto come il paradiso, “io ci andrò solo per l’intercessione di Chesterton”, scriveva H. G. Wells

Alla sinistra di James Barrie (al centro), Chesterton e Shaw vestiti da cowboy

CHESTERTONIANA - 4

Ha ispirato i ribelli dell’Ira e il MahatmaGandhi. Ha scritto saggi, romanzi, poesie, edecine di migliaia di articoli. I suoi miglioriamici sono stati gli atei con cui ha discussoper tutta la vita. E’ stato chiamato “Difen-sore della fede” – come non accadeva daitempi di Enrico VIII – e su di lui hannoscritto Emilio Cecchi, il cardinal Biffi e Giu-lio Giorello. E’ l’inventore di uno dei più ce-lebri detective della storia del giallo, e hapensato di frequente a come assassinare lapropria amatissima moglie. Ha applauditoMussolini ma è stato tra i primi ad attacca-re Hitler. Ha difeso la proprietà privata e cri-ticato il capitalismo senza pietà. L’hannoamato Hemingway, Borges e Kafka. Lo amaBenedetto XVI. Ha preso sul serio tutto, sen-za mai smettere di ridere. Questo e molto al-tro è G. K. Chesterton (1874-1936), di cui ilFoglio intende ripercorrere la vita e le ope-re, attingendo a testimonianze e scritti, al-cuni dei quali mai tradotti finora.

COWBOY LETTERARILa strana amicizia tra Chesterton e Bernard Shaw, un cattolico e un ateo in lotta contro il mondo

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ANNO XV NUMERO 284 - PAG IV IL FOGLIO QUOTIDIANO MERCOLEDÌ 1 DICEMBRE 2010

IL TOSTISSIMO VESCOVO DOLAN

L’elezione “a sorpresa” di Timothy Do-lan, arcivescovo di New York, a capo

della Conferenza episcopale degli StatiUniti conferma che “anche in America avincere è la linea conservatrice della chie-sa romano-cattolica”. Parole del New YorkTimes del 16 novembre scorso. Era il gior-no che i vescovi americani riuniti “in con-clave” a Baltimore, nel Maryland, sceglie-vano Dolan quale loro nuova guida al postodel cardinale Francis George. Diceva inquelle ore il reverendo Thomas J. Reese,senior fellow presso il Woodstock Theologi-cal Center alla Georgetown: “L’elezione diDolan è un segnale che la Conferenza epi-scopale vuole agire da leader nella guerrafra le culture del paese”. E ancora: “Ancheil fatto che i due finalisti per la vicepresi-denza fossero due personalità tra le piùconservatrici degli Stati Uniti dice qualco-sa sulla direzione che l’episcopato ha de-ciso di prendere”.

Ha vinto davvero l’ala conservatrice? Aguardare quanto accaduto a Baltimoresembrerebbe di sì. Dolan, sfatando la con-suetudine che ogni tre anni (tanto dura ilmandato) a essere eletto sia sempre il vi-cepresidente in carica (solo due furono inpassato le eccezioni), ha inaspettatamentebattuto dopo tre votazioni il vescovo di Tuc-son, Gerald Kicanas, che nel novembre del2007 lo aveva a sua volta battuto nella cor-sa alla vicepresidenza. In 128 tra i vescoviamericani hanno votato per Dolan, in 111per Kicanas. Alcuni voti Dolan li ha presidal terzo candidato più votato: CharlesChaput, vescovo di Denver, tra i presuliamericani ritenuti più conservatori, il qua-le fino all’ultimo ha lottato anche per la vi-cepresidenza con un altro conservatore,l’arcivescovo di Louisville Joseph EdwardKurtz. Dolan, dunque, forte anche del votodei sostenitori di Chaput, ha vinto su Kica-nas, secondo molti un vescovo su posizioniliberal tanto da godere del consenso deimovimenti gay del paese.

Visto così il quadro sembra chiaro. Do-lan ha vinto su un liberal grazie all’appog-gio delle forze conservatrici della chiesa.Forze che, è giusto ricordarlo, nei giorniprecedenti l’elezione non erano state conle mani in mano. Tramite la rivista di pro-prietà dei Legionari, il National catholicregister, avevano aperto il fuoco contro Ki-canas reo, a loro dire, di aver favorito,quando era rettore a Chicago del semina-rio di Mundelein, il cammino verso il sacer-dozio del pedofilo Daniel McCormack.

“C’è un antico detto negli Stati Uniti chedice che la gente vota l’uomo che ha il so-le in faccia, insomma il candidato il cui vol-to splende di più degli altri, il più felice, ilpiù contento”, spiega al Foglio Rocco Pal-mo, commentatore statunitense di cose re-ligiose e curatore di uno dei blog più com-pulsati dalle gerarchie ecclesiastiche delpaese, ovvero Whispers in the Loggia. Dice:“Ha vinto il candidato più convincente aldi là delle sue idee ‘politiche’”. Ha dettoSalvatore J. Cordileone, arcivescovo diOakland: “Non molte persone, al pari diDolan, possono combinare insieme profon-dità intellettuale con allegria ed estrosità”.

La tesi di Rocco Palmo, suffragata daCordileone, è simile a quella di MichaelSean Winters, commentatore per il Natio-nal catholic reporter e autore di “Left atthe altar: how the democrats lost the catho-lics” e “How the catholics can save the de-mocrats”. Per lui occorre uscire dalle logi-che “candidato di destra-candidato di sini-stra” e riconoscere che Dolan era più di Ki-canas il presule che avrebbe potuto man-tenere alto il profilo della conferenza epi-scopale dopo gli anni importanti in questosenso di George. Dice: “Dolan, come il car-dinale George, è una figura sui generis. Ha

certamente ottenuto il sostegno dei vesco-vi conservatori, ma gode di una statura in-dipendente anche grazie agli anni trascor-si a Roma – è stato rettore del collegio Nor-damericano, ndr –, grazie alla sua persona-lità vincente, al fatto di essere esperto deimedia”. Certo, anche secondo Winters lascelta di Dolan è stata dettata dal fatto cheè stato ritenuto capace di dare continuitàalla linea di George, un porporato conser-vatore seppure senza gli eccessi dei tradi-zionalisti più puri. E, infatti, questo è Do-lan secondo molti: un cardinale prestigio-so, energico e combattivo, di linea conser-vatrice ma senza eccessi. Come lo è il grup-po di cardinali e vescovi che anno dopo an-no si sta imponendo sempre più come lea-der nel panorama ecclesiale della chiesadi Ratzinger. Dice un monsignore della cu-ria romana al Foglio: “Mi sembra si stia im-ponendo una nuova leadership nella chie-sa. Ci sono nomi conosciuti e nomi nuovi,tutti accomunati dall’essere fedeli alla dot-trina, conservatori, vicini al Pontefice. So-no i diocesani Angelo Scola, Carlo Caffarra,Peter Erdö, Willem Jacobus Eijk, PietroSantoro, Malcolm Ranjith, André-MutienLéonard, Antonio María Rouco Varela, Jo-sé Horacio Gòmez, Javier Augusto Del RioAlba, Chomali Garib. E i curiali Marc Ouel-let, Mauro Piacenza, Raymond Leo Burke,Kurt Koch, Antonio Cañizares Llovera, Ro-bert Sarah”.

John Allen, tra i più importanti vaticani-sti americani, dice di non voler mettere indiscussione la tesi di coloro che sostengo-no che con Dolan hanno vinto i conservato-ri. Tuttavia suggerisce tre chiavi di letturadella vicenda. Dice: “Scegliendo Dolan ivescovi hanno voluto indirizzarsi su un co-municatore naturale, un uomo capace diproiettare un’immagine positiva del catto-licesimo nella pubblica piazza”. In sostan-za i vescovi hanno scelto il loro migliore“frontman”. In secondo luogo: “Se è veroche Dolan è più conservatore di Kicanas,è anche vero che non è questo il suo trat-to distintivo”. Egli non cerca “alcun com-promesso sulle questioni legate all’iden-tità cattolica, ma nello stesso tempo vuoleesprimere questa identità nella chiave piùpositiva possibile”. In terzo luogo, “Dolandiverrà senz’altro cardinale nel prossimoconcistoro che potrebbe essere convocatoprima che finisca il suo mandato nellaConferenza episcopale. Ciò significa che

per due volte di seguito i vescovi america-ni hanno eletto un cardinale come presi-dente”. In passato non vennero eletti car-dinali perché considerati dai vescovi“troppo uomini di Roma”. Eppure, in que-sto caso, come nel caso di George, “avereun cardinale a capo della Conferenza si-gnifica avere una personalità che può an-dare a parlare in curia romana da pari gra-do”. I vescovi vogliono uno che possa anda-re a Roma “a dare giudizi anche duri equesto Dolan lo sa fare”.

Di certo c’è che Dolan è un vescovo gra-dito in Vaticano. Gradito proprio per il suoattaccamento senza arroccamenti alla dot-trina. Il suo, si potrebbe dire, è un conser-vatorismo moderno, dinamico, attuale. IlVaticano non ha potuto giocare alcuna car-ta nella nomina. Seppure una lieve indica-zione, mesi prima del mini conclave di Bal-timore, ha voluto darla. Lo spiega il NewYork Times quando scrive che “inserendoDolan nella commissione che indaga sugliabusi sessuali ai danni di minori in Irlan-da il Vaticano ha voluto dire a tutti che dilui si fida”.

Di Dolan si fidano in molti, soprattuttocoloro che ritengono che la politica dell’e-piscopato statunitense fortemente criticanei confronti del presidente Barack Obamasia corretta. Dolan, non a caso, appena elet-to ha voluto puntualizzare che le battagliedi George sulla riforma sanitaria sono e sa-ranno le sue. Ma Dolan le combatterà colsuo tratto. Con Obama ci sono differenze divedute, ma non ostilità. Quando Dolan pas-sò da Milwaukee a New York ricevette unatelefonata di congratulazioni da Obama.Dolan, che in un primo tempo aveva pen-sato a uno scherzo del fratello, invitò il pre-sidente alla cerimonia d’ingresso.

Fermo sulla dottrina, Dolan sa aprire laporta di casa anche a coloro che sono lon-tani dalle sue vedute. Rigoroso anti aborti-sta si dice che non rifiuti la comunione aifedeli “pro choice”. In Italia, uno dei pro-fili più positivi di Dolan lo scrisse Repub-blica il giorno del suo arrivo a New York:“Dolan? Beve birra con i fedeli, fuma il si-garo con i seminaristi, parla volentieri conla stampa. Grazie a queste sue qualità mol-to umane negli ultimi sette anni è riuscitoa risollevare le fortune della diocesi diMilwaukee, travolta dallo scandalo cheaveva coinvolto il suo predecessore, l’arci-vescovo Weakland, leader dei cattolici pro-gressisti americani, che aveva messo a ta-cere (con 450 mila dollari) una vittima chelo ricattava a livello personale”. Insomma,è uno che piace e cattura attenzioni anchetrasversalmente. Oggi ha soltanto 60 anni.Nel futuro della chiesa il suo nome saràsempre più importante.

Paolo Rodariwww.ilfoglio.it/palazzoapostolico

M algrado la sua elezione a capo dellaConferenza episcopale americana non

fosse prevista, i critici avevano nel cassettopagine d’insulti per i casi d’emergenza: ilcolumnist del Boston Globe James Carrollha detto che il compito di Timothy Dolansarà quello di “mettere la maschera miglio-re all’atto di autodistruzione della gerar-chia”, il Los Angeles Times ha parlato deisuoi “atteggiamenti da provocatore”, la Na-tional Public Radio ha detto che è “unosfacciato conservatore”, Andrew Sullivandell’Atlantic ha ironizzato sul suo “fonda-mentalismo con il sorriso”, il gesuita Tho-mas Reese dice che è un “leader nella guer-ra fra culture”, il Time che l’elezione di untale arcigno conservatore è “una brutta no-tizia per Obama”. Questo soltanto per esem-plificare i preoccupati generici. Poi ci sonoquelli specifici, ad esempio il fronte gay:l’associazione cattolica New Ways Ministry,che sostiene il matrimonio omosessuale, di-ce che l’elezione di Dolan lancia un “mes-saggio inquietante”, l’attivista cattolica e li-beral Maureen Fiedler ha annunciato l’ar-rivo della “versione cattolica del Tea Party”e Dignity Usa ha sentenziato che non soloDolan, ma l’intera gerarchia ha perso con-tatto con la base dei fedeli.

In generale, di Timothy Dolan, i giornaliliberal, le lobby, i politici, i circoli e quelliche contano nella gerarchia secolarizzatad’America parlano anteponendo un “mol-to” a qualsiasi aggettivo. E’ molto cattolico,molto conservatore, molto rumoroso, mol-to esplicito, molto bigotto, molto tradiziona-lista, molto legato a Benedetto XVI e mol-to peggio del suo sfidante alla guida dellaConferenza episcopale americana. L’enfa-si la si deve non tanto a un fatto specificoo a qualche particolare controversia, ma aun più generale vizio che l’arcivescovo diNew York non riesce a smettere, quello diparlare. E quando parla pubblicamenteDolan non segue soltanto il copione diun’arte diplomatica ovvia alla gerarchia ec-clesiastica (a maggior ragione nell’ambien-te sensibile di New York), ma si addentranell’ambito dei giudizi chiari, dice che que-sto è giusto e quello è sbagliato, punta il di-to contro i pregiudizi dove li vede e si di-fende con i denti quando è accusato con ar-gomenti capziosi.

E’ accaduto spesso, nella sua carrieraepiscopale, che Dolan si sia trovato nellatempesta e abbia dato battaglia per soprav-vivere. Un anno dopo essere stato nomina-to arcivescovo di Milwaukee, Dolan si è ri-trovato fra le mani le accuse di molestie a58 preti della diocesi, caso da manuale diuna chiesa sotto assedio prima della recru-descenza dello scorso anno. Veniva da dueanni di servizio come vescovo ausiliario nelclima tranquillo di Saint Louis, Missouri, lacittà natale e il passaggio all’arcidiocesi di

Milwaukee doveva essere un premio all’in-telligenza vivace e alle indiscusse doti pa-storali del vescovo con la faccia rubiconda.Dopo poco più di un anno Milwaukee si ètrasformata in un inferno di accuse, cosenon dette, sentenze, avvocati, risarcimentie il fango precipitava infine tutto sulla fac-cia del vescovo. “La cosa mi tormenta? Sì,mi tormenta molto. E non ho paura di am-metterlo”, è l’affermazione che ricalca me-glio lo stile dolaniano nell’affrontare le sfi-de del mondo: una fede corpulenta, spec-chiata, linguisticamente sincera, più pro-pensa al corpo a corpo che al cecchinaggiodalla lunga distanza.

Dolan si è destreggiato con coraggio frale nebbie di Milwaukee, ha sostenuto le vit-time degli abusi e si è dimostrato zelantenel tentare di aggiustare i torti commessi.Nelle dichiarazioni pubbliche è apparsoinequivocabile, usando toni che anticipa-vano la durezza del Benedetto XVI dellalettera alla chiesa d’Irlanda: “E’ impossibi-le esagerare la gravità della situazione e lasofferenza che le vittime hanno provato,perché ho passato gli ultimi quattro mesicon loro, ho pianto con loro, ho visto la lo-ro rabbia abbattersi su di me”.

Quando Dolan nel 2009 è stato assegna-to all’arcidiocesi di New York, quella diMilwaukee aveva speso oltre 26 milioni didollari in risarcimenti alle vittime e speselegali. Per questo, quando a marzo di que-

st’anno il New York Times ha ordito il suoattacco frontale alla chiesa, dissotterrandoi vecchi abusi di Milwaukee e accusando lagerarchia vaticana di averli coperti, Dolannon si poteva sottrarre da un contrattaccoaltrettanto potente. Ma la grande campa-gna di Timothy Dolan contro il New YorkTimes era iniziata già da mesi; meglio, lacampagna contro il “passatempo naziona-le” di cui il New York Times è campione in-discusso: il pregiudizio anticattolico.

Il nuovo presidente della Conferenzaepiscopale americana sa comunicare. Suofratello è un commentatore radiofonico eper anni i due hanno condotto un program-ma televisivo, “Living our faith”; sul sitodell’arcidiocesi c’è il suo blog, “il Vangelonell’era digitale”, che non è un centone dilezioni di catechismo online, ma un pulpi-to che si estende idealmente sul mondo se-colarizzato. Scrive di società, educazione,etica, commenta la stampa internazionale,gli eventi che sono sulle prime pagine, e in

generale si dedica all’arte della presenzapubblica, il contrario del ripiegamento in-timista di una fede destinata all’irrilevan-za, versione molto amata dalle anime pro-gressiste proprio per la sua assenza di qua-lità. Nell’ottobre del 2009, sei mesi dopo ilsuo arrivo a New York, Dolan si era giàstancato del conformismo anticattolico delgiornale della famiglia Sulzberger, e hascritto un corsivo per il New York Timesper spiegare quanto fossero evidenti le di-sparità di trattamento applicate dalla gran-de scuola del libero pensiero. Il New YorkTimes ha rifiutato la pubblicazione, senzaaddurre un motivo specifico, e quando ilvescovo l’ha pubblicata in rete e ha sinte-tizzato i concetti in un’intervista a RadioVaticana, il motivo del rifiuto è stato chia-ro. Dolan non aveva scritto un fervorino pa-rateologico, un edificante volemosebene,ma una requisitoria in stile giornalistico,anzi, nello specifico stile giornalistico delNew York Times, con un elenco puntuale difatti che erano stati riportati dal giornalein modo arbitrariamente distorto, esagera-to e totalmente sproporzionato rispetto altrattamento riservato a tutte le altre confes-sioni. La parte più sensibile riguarda ilconfronto con un caso di abusi verso i mi-nori in una comunità di ebrei ortodossi,raccontato in modo “particolare” dal NewYork Times: “Secondo l’articolo, ci sono sta-ti quaranta casi di abusi in questa piccolacomunità soltanto lo scorso anno. Eppure ilTimes non chiede ciò che ha chiesto inces-santemente per lo stesso tipo di abusi fat-to da una minoranza di preti: la pubblica-zione dei nomi, indagini esterne, la pubbli-cazione di tutta la documentazione e la tra-sparenza totale. Al posto di tutto questo,viene citato un procuratore che chiede agliinvestigatori di rispettare la ‘sensibilità re-ligiosa’, e l’articolo manca di criticare ilprocuratore distrettuale per aver consenti-to ai rabbini ortodossi di perseguire il ca-so ‘internamente’”.

Se Dolan si era guadagnato fra i liberalla fama di omofobo per un’intervista alNew York Post, con l’articolo fantasma sulNew York Times i suoi avversari hannoavuto gioco facile a tacciarlo di antisemiti-smo. Non serve molto per capire che nessu-na delle due accuse ha a che fare con larealtà. Sul matrimonio gay ha detto che“dentro di noi è inscritto un dizionario, e ildizionario definisce il matrimonio l’unionedi uomo e una donna per tutta la vita e, aDio piacendo, con la procreazione di altrevite umane […] la posizione della chiesanon è anti gay, ma a favore della definizio-ne di matrimonio”, mentre sulla polemicainterreligiosa ha continuato a bacchettarei tic anticattolici del New York Times, men-tre nel day by day coltivava i rapporti conil fervente ambiente religioso di New York.

A luglio ha visto l’antica rappresentazio-ne della Passione di Oberammergau, inGermania, assieme al rabbino Gary Gree-nebaum del Global Jewish Advocacy. I duehanno discusso delle scelte narrative fattedal regista e Dolan si è rallegrato per il“rinnovamento” dello stile narrativo, chetiene conto della accuse ingiuste mosseagli ebrei nella condanna di Gesù. In tem-pi recenti non ha risparmiato fendenti alsuo idolo polemico preferito, ma lo ha fat-to senza boria intellettuale, nel modo vera-ce di chi preferisce correggere il caffè conJameson piuttosto che con un goccio di lat-te freddo. E tanto per ricordare di essereun genio della comunicazione, quando hadovuto decidere a chi concedere la primaintervista da presidente della Conferenzaepiscopale, Dolan ci ha pensato un po’, epoi ha scelto il New York Times.

Mattia Ferraresiwww.ilfoglio.it/cico

Si addentra nell’ambito deigiudizi chiari, dice cosa è giustoe cosa è sbagliato. Proprio quelloche non piace alla gente che conta

Prestigioso, energico e moltocombattivo. Il suo è unconservatorismo senza eccessi,moderno, dinamico, attuale

L’arcivescovo di New York, Timothy Dolan, è stato eletto presidente della Conferenza episcopale degli Stati Uniti il 16 novembre scorso. A destra il prelato lancia la prima palla durante un incontro dei Milwaukee Brewers (Reuters)

Roma. Imbarazzo a destra, applausi dasinistra. Le parole che il Papa ha dedica-to al preservativo nel libro intervista scrit-to con Peter Seewald “Luce del mondo”dividono le varie anime della chiesa. A de-stra si cerca la giusta esegesi del testo pa-pale. La domanda è: il preservativo per lachiesa è diventato in alcuni casi permes-so o continua a essere sempre moralmen-te illecito, per quanto giustificato in alcu-ni casi dall’esigenza di evitare mali mag-giori? I lefebvriani inizialmente non ave-vano dubbi: la concessione del Papa neicasi in cui a usarlo sia “un prostituto”comprova “l’eresia di don Ratzinger”. Pa-role dure, in parte limate da un’uscita del-l’abbé Matthias Gaudron, già rettore del

seminario di Zaitzkofen e ora consultoredella commissione teologica per i colloquicon Roma, il quale in un articolo intitola-to “Luci ed ombre nel libro-intervista diBenedetto XVI”, dice che “è sleale affer-mare che il Papa abbia dichiarato la li-ceità del profilattico. Le frasi di Benedet-to XVI tuttavia avrebbero potuto esserepiù chiare e nette, per evitare la confusio-ne che ne è seguita nello spirito di molti”.Nel mondo conservatore, soprattutto nelfronte americano, in molti si domandanose il Vaticano non avrebbe fatto meglio acontestualizzare le parole del Papa. Nonè piaciuta, infatti, la decisione dell’Osser-vatore Romano di anticipare il libro divul-gando solo uno stralcio delle parole del

Papa sui condom. Philip Lawler, direttoredel Catholic World News, ha chiesto le di-missioni del direttore del giornale del Va-ticano. Ma, insieme, a molti non è piaciu-to lo statement col quale la sala stampa va-ticana ha cercato il giorno dopo l’anticipa-zione di precisare meglio il messaggio delPapa. “E’ un casino”, ha detto John Haas,presidente del National CatholicBioethics Center di Philadelphia.

A sinistra, invece, l’apertura papale èpiaciuta parecchio. Perché, almeno suicontraccettivi, il Papa sembra allinearsi aquell’idea di riforma tanto cara all’area li-beral della chiesa. Quest’area, da pochigiorni, ha un nuovo alleato. E’ il neo vesco-vo di Basilea, Felix Gmür. Appena nomi-

nato nella diocesi svizzera al posto di KurtKoch, neo cardinale da pochi mesi a Romaalla presidenza del Pontificio consiglioper la promozione dell’unità dei cristiani,ha dato un’intervista al Daily News doveha commentato le parole di Ratzinger suicondom dicendo che sono in linea con unsuo convincimento. Quale? Quello secon-do cui “la sessualità è una questione di co-scienza”. Questo in estrema sintesi il suocredo: più che alla dottrina il credente de-ve affidarsi a se stesso, a ciò che in co-scienza ritiene sia giusto e lecito. Monsi-gnor Gmür non ha dubbi: “Non è la lineadi Roma che va seguita, ma la linea dellaBibbia”. Una linea che è anche un pro-gramma, il suo a Basilea.

Quel preservativo papale che indigna i lefebvriani ma piace al neo vescovo di Basilea

Il conservatore che non s’aspettavano Il comunicatore che le canta al NYT