il conflitto nella realtà. dialettica del vuoto di luciano

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161 Il conflitto nella realtà. Dialettica del vuoto di Luciano De Fiore Il vuoto è una realtà fisica, una costellazione concettuale e un insieme di esperienze. I modi di dire che ne esprimono i significati quotidiani e metaforici (vuoto d’aria, a stomaco vuoto, a mani vuote, girare a vuoto, vuoto di memoria, salto nel vuoto e altri ancora), tradiscono nella nostra sensibilità, in generale, una preferenza per i volumi pieni: rifuggiamo le an- gosce dello svuotamento. Eppure, il vuoto non dovrebbe indurre paura o sgomento. È il nostro vuoto, avendo rinunciato da tempo all’illusione di una realtà piena, immutabile, coerente e coesa. Non ci chie- diamo neppure più quale realtà ontologica abbia questa man- canza, piuttosto ne scrutiamo e viviamo i margini, i bordi. Cercando così di ampliare la nostra esperienza, precisandone il concetto: il vuoto non è la morte, il nulla, l’a-significanza. Nell’occuparsene, occorre aver sempre presente l’estrema me- taforizzazione del termine e il rischio di traslarlo su un piano improprio. Restano le domande. Come mostrare l’immagine del vuoto, dimensione aniconica per eccellenza, presenza dell’assenza? Come fare di questo atto una forma che ci ri- guarda? 1 1. La Polo, il buco con la menta intorno Uno slogan pubblicitario fortunato 2 . Come a dire: l’essen- 1 Se lo chiedeva già Didi-Huberman, cosa potrebbe essere un corpo – un mondo – che porti e mostri il vuoto. Vedi Georges Didi-Huberman (1992), Il gioco delle evidenze. La dialettica dello sguardo nell’arte contemporanea, Fa- zi Editore, Roma, 2008. 2 Se è lecito scherzare sul maccherone che è un buco con qualcosa intor- no, allora si può ragionare anche a partire da una caramella. Vedi Jacques

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Il conflitto nella realtà. Dialettica del vuoto di Luciano De Fiore

Il vuoto è una realtà fisica, una costellazione concettuale e

un insieme di esperienze. I modi di dire che ne esprimono i significati quotidiani e metaforici (vuoto d’aria, a stomaco vuoto, a mani vuote, girare a vuoto, vuoto di memoria, salto nel vuoto e altri ancora), tradiscono nella nostra sensibilità, in generale, una preferenza per i volumi pieni: rifuggiamo le an-gosce dello svuotamento.

Eppure, il vuoto non dovrebbe indurre paura o sgomento. È il nostro vuoto, avendo rinunciato da tempo all’illusione di una realtà piena, immutabile, coerente e coesa. Non ci chie-diamo neppure più quale realtà ontologica abbia questa man-canza, piuttosto ne scrutiamo e viviamo i margini, i bordi. Cercando così di ampliare la nostra esperienza, precisandone il concetto: il vuoto non è la morte, il nulla, l’a-significanza. Nell’occuparsene, occorre aver sempre presente l’estrema me-taforizzazione del termine e il rischio di traslarlo su un piano improprio. Restano le domande. Come mostrare l’immagine del vuoto, dimensione aniconica per eccellenza, presenza dell’assenza? Come fare di questo atto una forma che ci ri-guarda?1

1. La Polo, il buco con la menta intorno Uno slogan pubblicitario fortunato2. Come a dire: l’essen-

1 Se lo chiedeva già Didi-Huberman, cosa potrebbe essere un corpo – un mondo – che porti e mostri il vuoto. Vedi Georges Didi-Huberman (1992), Il gioco delle evidenze. La dialettica dello sguardo nell’arte contemporanea, Fa-zi Editore, Roma, 2008. 2 Se è lecito scherzare sul maccherone che è un buco con qualcosa intor-no, allora si può ragionare anche a partire da una caramella. Vedi Jacques

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ziale non è soltanto la menta, ma anche quel foro intorno al quale è disposta. E che intende evocare freschezza, leggerez-za. Al centro della mentina, ne costituisce la proprietà più propria, ciò che la distingue da tutte le altre3.

La Polo ha la caratteristica, rara, di lasciar vedere il vuoto. In qualche modo lo rappresenta, nonostante l’immagine del vuoto rimandi a una dimensione aniconica. La centralità dello hole, del buco, nella controversia “marketing delle mentine”, già sottolinea quindi la sua importanza. Un’assenza di qual-cosa. Il che richiama fin dall’inizio la distinzione tra il Vuoto e il non-essere, il Nulla. La storia della filosofia testimonia l’inopportunità di una loro identificazione. Il primo, tende ad esser concepito in quanto vuoto determinato: ciò che, in qual-cosa, non c’è. E ciò sembra valere sia per il canone occidenta-le, sia per quello orientale4.

Un nesso, tra vuoto e assenza, mancanza d’essere, costitu-tivo della stessa realtà nel suo complesso, purché si sia dispo-sti a coglierne l’intimo conflitto. Che è poi il nostro obiettivo: ragionare su quanta parte abbia il vuoto nella costituzione del reale attuale, evidenziandone il ruolo nello smascherare ogni Lacan (1986), Seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, Einaudi, Torino, 2008, p. 144. 3 Ma non dalle Life Savers, lanciate già nel 1912, anno dell’affondamento del Titanic. Il loro nome, salvagenti, deriverebbe dal famoso naufragio. Proprio la forma a ciambella offre al naufrago la salvezza, grazie al vuoto in cui può infilarsi. A metà degli anni Novanta, la sfida tra le Polo (oggi della Nestlé) e le Life Savers (della Nabisco), dai bar e dalle tabaccherie si è estesa alle aule di tribunale di Londra. In palio, l’uso esclusivo dello slogan “the original mint with the hole”. In ogni caso, la Polo è ancora una delle caramelle più vendute al mondo (38 milioni di pezzi al giorno). Prodotte fin dal 1948, cambiarono forma nel ’55, quando iniziò la produzione delle attuali mentine bucate. Lo slogan originale (“The Mint with the Hole”) non suona bene quanto l’italiano. Il nome Polo suggerisce ulteriormente la sensazione di freschezza della menta e, grazie alle due O, il buco al centro. 4 «L’Essere e il Non-essere si generano l’un l’altro»: Tao Te Ching. Il Libro della Via e della Verità, trad. it. dal francese, Milano 1973, p. 31. Citato da Giangiorgio Pasqualotto, Estetica del vuoto. Arte e meditazione nelle culture d’Oriente, Marsilio, Milano, 2013⁸, p. 7.

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sua pretesa compiutezza. Eppure, più del sentimento di horror vacui che induceva gli

antichi a ricoprire di simboli le pareti delle caverne per espun-gerne ed esorcizzarne la vuotezza altra, semmai sembra forte oggi il fastidio e il rigetto per il pieno e il suo “rumore”. Se già una trentina d’anni fa, Gilles Lipovetsky, in una serie di saggi sull’individualismo contemporaneo, definiva la nostra l’èra del vuoto5, più di recente, il Gillo italiano, Dorfles, denunciava invece la presente orrenda età del pieno6. Gilles e Gillo non sono in contraddizione. Perché vuoto e pieno si richiamano da sempre, e a lungo hanno costituito una delle antitesi con-cettuali più solide e di scuola. Oggi, la differenza semantica pieno/vuoto, così rilevante per secoli, sembra aver smarrito la propria essenzialità7. Il che potrebbe consentire di apprezzare ancor di più l’autentica dialetticità dei due termini. Dal mo-mento che sia nella riflessione occidentale, sia nella tradizione taoista e del Buddhismo Zen, il Vuoto è termine impensabile senza il riferimento al suo opposto complementare, non es-sendo possibile una sua ipostasi metafisica prescindendo dalle sue determinazioni. Una sorta di traduzione in chiave seman-tica dell’ipotesi di Paul Dirac sulla simmetria tra materia e an-timateria: l’esistenza per ogni tipo di particella di un’anti-particella che ne è la controparte è oggi riconosciuta impre-scindibile.

5 Gilles Lipovetsky, L’Ere du vide. Essais sur l’individualisme contemporain, Gal-limard, Paris, 1983. 6 Gillo Dorfles, Horror pleni. La (in)civiltà del rumore, Castelvecchi, Roma, 2008. Vedi anche di Massimo Carboni, Di più di tutto. Figure dell’eccesso, Ca-stelvecchi, Roma, 2009. 7 Si veda su questo punto il contributo di Antonio Lucci in questo stesso volume, Spazi pieni, corpi vuoti. Due paradigmi per una storia culturale del vuoto, p. 127 e segg.

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2. Vuoto e Nulla Prima di ragionare sul confronto vuoto/pieno, uno sguar-

do alla costellazione concettuale del vuoto. Al mutare della lingua e della tradizione, cambia ovviamente il campo seman-tico, come se ogni epoca e ogni cultura s’inventasse il proprio vuoto. Varia il grado di prossimità tra i diversi concetti, ma alcune relazioni di contiguità resistono anche ai cambiamenti terminologici e al lessico concettuale8. Vuoto si direbbe appar-tenere a un insieme che comprende anche nulla, zero, vacuità, assenza, mancanza, silenzio. Un insieme di vuoti9. Pur trat-tandosi ovviamente di concetti distinti.

Come spesso accade, Hegel è uno strumento prezioso per sbrogliare matasse complicate. Fermiamoci quindi un attimo sul luogo probabilmente più noto in cui affronta il tema, vale a dire all’interno della seconda sezione del capitolo sull’essere per sé della Scienza della logica, dal titolo Uno e Molto. In prece-denza, se ne era già occupato anche in quel formidabile selfie della cultura occidentale d’inizio Ottocento che è la Fenomeno-logia dello spirito10. 8 Solo per ricordare alcuni dei termini più ricorrenti, in greco antico la pa-rola forse più rappresentativa è kenos e il derivato kenosis. In latino, vacuum. In inglese, emptiness e void. In tedesco, Leere, Vakuum. In cinese, la traslitte-razione è kong, dell’ideogramma che significa “vuoto” e che si dice kara (quello di karate, per intenderci: mano vuota). In giapponese, mu e ku, nella traslitterazione del sistema Hepburn, di uso più comune e diffuso. In ebraico, è possibile identificarlo con hebel, la vanitas della Vulgata del Qohe-let biblico. Per il vuoto nell’ebraismo, si veda di Chiara Barone, in questo stesso volume, Kenosis: pensare il vuoto tra impotenza umana e impotenza divina (p. 57 e segg.) che ci avvicina allo scintillante mistero dello Tzimtzum della Kabbalah lurianica, l’autolimitazione di Jahve, la contrazione a cui Dio sot-topone se stesso al fine di generare lo spazio vuoto, il “nulla”, da cui potrà originarsi la creazione. 9 Com’è noto, secondo la teoria insiemistica, esiste anche l’insieme vuoto, cioè un insieme privo di elementi. Ma non è questo il caso. 10 La trattazione del Vuoto rientra nella critica all’Interno delle cose, un aspetto della polemica con la kantiana Cosa in sé: un vuoto totale, dive-nuto dapprima vacuità delle cose oggettive, ma che poi «come vacuità in

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Nella Scienza della logica, la trattazione cade nel secondo dei tre momenti dell’Eins und Vieles, a sua volta terza sezione dell’Esser per sé: b) L’uno e il vuoto. Abbiamo appena alle spalle la prima partizione tra Essere, Nulla, Divenire in quan-to determinazioni astratte del pensiero. Pensiero puro, nel quale si entra soltanto attraverso il vuoto di grandi categorie, e il vuoto della categoria massima della storia del pensiero è l’Essere11. Già a quel livello di pura astrazione il vuoto era dunque apparso, ma necessariamente in una “logica” di asso-luta indeterminatezza12. A stretto rigore, la trattazione delle due prime categorie, la cui «differenza è intieramente vuota» poiché cui «ciascuno dei due [termini] è in egual maniera

sé, deve venir preso anche come la vacuità di ogni relazione spirituale e delle differenze della coscienza come coscienza». Il capoverso ha una chiu-sa che chi non conosce Hegel non si aspetterebbe: «Quel vuoto totale do-vrebbe rassegnarsi a un simile trattamento, perché non è degno di uno mi-gliore; anzi perfino le fantasticherie sono sempre migliori della sua vacuità» (Georg Wilhelm Hegel, Fenomenologia dello spirito, ed. it. a cura di Enrico De Negri, Nuova edizione: Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2008, vol. I [57]). 11 Vedi Fulvio Papi, Lezioni sulla Scienza della logica di Hegel, Edizioni Ghibli, Milano, 2000, p. 42 e segg. 12 Sia nella descrizione dell’Essere, sia in quella del Nulla è richiamato il vuoto. Riguardo all’Essere: «Esso [l’Essere, n.d.a.] è la pura indetermi-natezza e il puro vuoto. – Nell’essere non v’è nulla da intuire, se qui si può parlar d’intuire, ovvero esso è questo puro, vuoto intuire stesso. Così non vi è nemmeno qualcosa da pensare, ovvero l’essere non è, anche qui, che questo vuoto pensare. L’essere, l’indeterminato Immediato, nel fatto è nulla, né più né meno che nulla». Rispetto ora al Nulla: «Nulla, il puro nulla. È semplice simiglianza con sé, completa vuotezza, assenza di determinazione e di contenuto; indistinzione in se stesso. – Per quanto si può qui parlare di un intuire o di un pensare, si considera come differente, che s’intuisca o si pensi qualcosa oppur nulla. Intuire o pensar nulla, ha dunque un signi-ficato. I due si distinguono; dunque il nulla è (esiste) nel nostro intuire o pensare, o piuttosto è lo stesso vuoto intuire e pensare, quel medesimo vuoto intuire e pensare ch’era il puro essere» (Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Scienza della logica, rev. trad. it. e nota introduttiva di C. Cesa, Laterza, Ro-ma-Bari, 1988³, p. 70. Nostro corsivo).

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l’indeterminato»13, cade fuori della Scienza della logica stessa che, come già colse Burbidge14, inizia davvero con l’Essere deter-minato, poiché non può non cominciare con il linguaggio. Possiamo provare a dirlo con Pennac: «Come pensare il nulla? Come pensare il nulla senza mettere automaticamente qualco-sa intorno a questo nulla, senza farne un buco nel quale ci si affretta a mettere qualcosa, una pratica, una funzione, un de-stino, uno sguardo, un bisogno, una mancanza, un sovrap-più…?»15.

La monotriade si opina, non viene pensata, è a rigore inef-fabile poiché ancora non ci sono neppure le categorie per pensarla. Vagheggiando l’Essere-Nulla, il soggetto permane in uno stato precedente il pensare, in una condizione apparenta-bile al sonno-sogno16. Nel parlare, l’indeterminatezza vuota della monotriade si dissolverà, perché il parlare stesso dirada l’opinione, strappandola alla singolarità e universalizzandola inesorabilmente.

Nella trattazione dell’Uno e Molto siamo in un contesto in cui l’indeterminatezza dell’Uno, pur permanendo in quanto

13 Ivi, p. 82. 14 John W. Burbidge, Hegel on Logic and Religion. The Reasonableness of Christia-nity, State University of New York Press, New York, 1992. Dello stesso autore sull’argomento vedi The Logic of Hegel’s “Logic”: an Introduction, Broadview Press, Peterborough, 2006, specie il capitolo VI. 15 Daniel Pennac (1974), Specie di spazi, Bollati Boringhieri, Torino, 2013⁹, p. 43. 16 Chi, come il Buddhismo, sceglie un solo principio assoluto tra i due (il nulla, il vuoto) non avverte – verrebbe da dire – l’assoluta indetermina-tezza delle prime categorie, tra sé solidali (vedi la Nota I a C. Divenire). Nell’altrettanto lunga e complessa Nota III, si accenna invece alla filosofia indiana, sempre a proposito dell’astratta purezza della continuità, nell’inde-terminatezza quindi e vuotezza del rappresentare: «Tutto ciò è quello stes-so, che l’Indiano (quando resta per anni interi a guardarsi la punta del na-so, senza alcun moto né esterno né interno, cioè nella sensazione, nella rappresentazione, nella fantasia, nel desiderio, ecc., dicendo solo dentro di sé Om, Om, Om, oppure nulla affatto) chiama Brahma. Questa coscienza ottusa, vuota, è, come coscienza, l’essere» (G.W.F. Hegel, Scienza della logi-ca, cit., p. 88).

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tale, è ormai relazione a sé, negazione che si riferisce a sé avendo in sé la distinzione: una sorta di conato, di pulsione a uscire da sé verso altro. Il problema è che – a questo livello – l’Uno non sa dove andare, o non può, perché non c’è altro verso cui spingersi. Non c’è “nulla”. E tuttavia si tratta di un nulla diverso da quello che si opponeva all’Essere: è il nulla già in quanto risultato di una mediazione. Questo nulla, dice Hegel, è il Vuoto, «come astratto riferimento della negazione a se stessa»17. Da un lato, il Vuoto è posto come diverso ed esterno rispetto al carattere affermativo dell’Uno, e dall’altro Uno e Vuoto stanno ormai in una relazione negativa reciproca che li pone su di un terreno comune. Questa comune matrice consente il superamento della diade attraverso la nozione di Molto. Insomma, il Molto figlia dall’interno di Uno, secondo la modalità più tipica di Hegel. L’Uno dimostra di non potere stare da solo, ma di dover stare per sé: cioè, di dover passare attraverso un altro, il Vuoto appunto, escludendo così sé da sé stesso, e ponendosi quindi come Vieles, come Molti Uno.

A differenza dell’Uno eleatico, sprofondato nell’abisso del-l’identità dell’intelletto, potenza annientante assoluta, il nulla dei molti, qui Uno e Vuoto sono dunque pensati insieme. Ed è per questo che Hegel, nella Nota a b) L’uno e il vuoto, richia-ma la dottrina degli Atomisti, «secondo cui l’essenza delle co-se consiste nell’atomo e nel vuoto (τò ἄτομον oppure τα ἄτομα κάι tò κενόν). Quando l’astrazione è riuscita ad avere questa forma, ha raggiunto una maggior determinatezza, che non l’essere di Parmenide e il divenire di Eraclito»18. Agli Atomisti Hegel concede molto, perché grazie a loro il Vuoto viene riconosciuto fonte del movimento. Il che pone atomi e vuoto, spiega, in una relazione del tutto diversa dalla semplice contrapposizione e dall’indifferenza reciproca delle due de-

17 G.W.F. Hegel, Scienza della logica, cit., p. 171. Per l’analisi di questa sezio-ne, vedi Valerio Verra, “Eins und Vieles” nel pensiero di Hegel, in Id., Su Hegel, a cura di C. Cesa, Il Mulino, Bologna, 2007, p. 127 e segg. 18 Ivi, p. 171.

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terminazioni. Accennando alla confutazione aristotelica e alla querelle classica sull’esistenza del vuoto19, qui Hegel sottolinea che l’idea che il vuoto costituisca il fondamento del moto pre-figura «il pensiero che nel negativo in generale sta il fonda-mento del divenire, dell’inquietudine della semovenza»20. In altri termini, riconosce agli Atomisti (a differenza che ai Pita-gorici e agli Eleatici) l’intuizione che atomo e vuoto sono pen-sabili come princìpi puramente ideali, anche se poi l’Atomi-smo finisce per concepire l’atomo anche in senso fisico, come particella. Pensare in termini ideali, va da sé, significa pensare in grande21. Il fatto che la fisica dei suoi tempi abbia poi ri-nunciato agli atomi, a favore delle piccole particelle o moleco-le, ha fatto sì che si avvicinasse alla rappresentazione sensibile della realtà, abbandonando però per questa via la determina-zione di pensiero: in un certo senso, sminuendosi22.

Cogliere il carattere ideale dell’opposizione tra Vuoto ed Essere, significa insomma per gli Atomisti aver intuito la po-tenza del negativo. Una forza tale da poter originare il movi-mento. Questo è il punto: non che Essere e Nulla si ri-compongono o esitano nel Divenire, ma che il “divino” è il potere negativo stesso che spezza e mette in questione ogni unità. E prima di tutto, quella dell’Uno. Il negativo, la divisio-ne non è il problema, ma la soluzione23. Come ben si com-prende sul piano fenomenologico.

19 Si vedano in proposito, in questo stesso volume, i contributi di Fran-cesco Rossi Salvemini, Guerra al kenós (p. 13 e segg.), e di Valeria Monte-bello, Il vuoto, ovvero come frenare la potenza, p. 37 e segg. 20 G.W.F. Hegel, op. cit., p. 172. 21 Che lo ripete spesso. Come nell’Enciclopedia: «L’idealità non è qualcosa che ci sia anche fuori e accanto alla realtà, bensì il concetto dell’idealità consiste espressamente nell’essere la verità della realtà, e cioè la realtà, posta come ciò che essa è in sé, mostra di essere idealità». G.W.F. Hegel, Enci-clopedia delle scienze filosofiche in compendio, § 96. 22 Ivi, § 98. 23 Da questo punto di vista, persuade in pieno la lettura di Žižek del-l’Aufheben hegeliano. Vedi Slavoj Žižek, Meno di niente. Hegel e l’ombra del ma-terialismo dialettico, vol. I, Ponte alle Grazie, Milano, 2013, passim.

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In Hegel è sempre possibile lo slittamento dal piano logi-co-concettuale al piano storico-temporale. Su quest’ultimo, il negativo esprime tutta la propria forza. Per esempio, nella concettualizzazione hegeliana della Rivoluzione Francese e del Terrore. Che non sarebbe affatto circoscrivibile a un periodo specifico, a datare dalla Legge dei Sospetti del settembre 1793 o dalla decapitazione di Luigi Capeto. Hegel piuttosto fa risa-lire il Terrore a un momento addirittura precedente la Presa della Bastiglia, al 17 giugno dell’89, all’atto stesso dell’istituirsi degli Stati Generali. Quando accade la transizione ex nihilo del Terzo Stato dall’esser “nulla”, appunto, all’esser “tutto”, quando «l’indivisa sostanza della libertà assoluta ascende al trono del mondo senza che potere alcuno sia stato in grado di resisterle»24.

Per cui, nota Rebecca Comay, il Terrore non è semplice-mente quel che si ottiene mettendo in pratica idee astratte, ma è l’astrazione in quanto tale: «È la negatività vuota della morte non elaborata»25. Quell’astrazione che, per Hegel, non è altro che la capacità mortale di spezzare il continuum dell’essere, spingendo così l’esistenza a un punto di irrealtà. Con il che «la purezza rivoluzionaria porta alla luce precisamente quel che nega di più: il vuoto al cuore dell’ordine simbolico»26. Il vuoto lasciato dall’evaporazione della trascendenza, sancito grazie al-l’atto fondamentale del regicidio, è riempito dall’auto-produ-zione della nazione come potere incarnato. Hegel vede il pro-blema nell’immediatezza di questa incarnazione. Laddove il Governo può stabilirsi solo in quanto inesauribile attività di defeticizzazione, esercizio di negoziazione incessante per mantenere lo spazio vuoto del potere come attiva vacanza, piuttosto che come il vuoto consueto nel quale tutto e tutti devono fluire27. 24 G.W.F Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., vol. II, p.126. 25 Rebecca Comay, Mourning Sickness. Hegel and the French Revolution, Stan-ford University Press, Stanford, 2011, p.76. 26 Ivi, p. 79. 27 Sul tema del “trono vuoto”, restano essenziali le riflessioni di Giorgio

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Per Hegel vuoto e pieno sono dunque da pensare nel loro rapporto. L’uno come il resto dell’altro, secondo una modalità di relazione che impedisce la loro autonomia assoluta. Come la menta e il buco della Polo. O come, su di un piano tra l’architettonico e l’intrapsichico, la relazione tra toro e toroide.

3. Tori e vuoti Dal piano logico-concettuale, passiamo al vuoto come

esperienza personale. Dobbiamo a Lacan il richiamo a una fi-gura dell’architettura classica, il toro, per rappresentare il vuo-to causativo al centro di una soggettività già sempre mancan-te: una superficie chiusa attorno al vuoto centrale. Simile a una ciambella, in cui il centro della figura è fuori di essa, cade nel foro che essa racchiude.

Un buco che rende evidente la scissione, l’insoddisfazione costitutiva di ognuno: la finestra dalla quale si affaccia il desi-derio, permanente irrequietezza di un vuoto che anela senza requie a riempirsi. Di ognuno, ma non in ognuno. Dal mo-mento che questo vuoto al centro, individuato dal toro, non è figura del singolo, ma del Reale. E quindi «il vuoto (il Reale) è ciò che esula dalla figura (simbolica e immaginaria) ed è anche ciò grazie a cui la figura può avere quella data forma»28. Un vuoto assolutamente prossimo alla soggettività, che per di-stinguere dall’intimo, Lacan chiama estimo: un’esteriorità, in grado di condizionare la forma stessa della figura (e della sog-

Agamben. Vedi, ad esempio, Il Regno e la Gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo, Neri Pozza editore, Milano, 2007: «La gloria pre-cede la creazione del mondo e sopravvive alla sua fine. E il trono è vuoto non soltanto perché la gloria, pur coincidendo con l’essena divina, non s’identifica con questa, ma anche perché essa è, nel suo intimo, inoperosità e sabatismo. Il vuoto è la figura sovrana della gloria» (p. 268). 28 Sergio Benvenuto, Antonio Lucci, Lacan oggi. Sette conversazioni per capire Lacan, Mimesis, Milano, 2014, p. 115.

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gettività) pur esulando da essa29. Il centro di ogni soggettività cade fuori di sé, nel Reale: «Il vuoto al centro che “costitui-sce” il toro è la figura del Reale»30.

Reale che è, com’è noto, tra i concetti lacaniani più pro-blematici. Pur essendo angolato soggettivamente, nella misura in cui è “reale” ciò che scartato dalla significazione soggettiva, quel che non riusciamo a rappresentarci31, la sua perduranza al di là del soggetto (ancorché barrato) sembrerebbe fissarlo in una posizione dualistica che ricorda un che di noumenico. Nella soggettività, la barra vuole presentificare la dimensione della divisione, della scissione connaturale alla soggettività stessa, mai piena, alla quale la meta è strutturalmente inibita, grazie al permanere del desiderio che mai può accontentarsi di oggetti, di cose, ma che vive della propria riproposizione, de-siderio di Niente. Vivere, trattenere il godimento, non è sol-tanto, come in Hegel, posporlo, trattenerlo, ma è essere-in-perdita, convivere con la perdita della jouissance.

Una delle figure al quale lo stesso Lacan ricorre per espri-mere questo doppio registro – soggettivo e oggettivo – del Reale è appunto quella del toro, il quale sta per il vuoto. Anzi, il vuoto appare come il modo migliore per dire del Reale. Al centro della figura non c’è nulla, o meglio, c’è nulla. Il suo

29 La stessa figura torna in fisica, e anche in quel contesto ha a che fare con il vuoto, se è vero che il LEP Collider (Large Electron Positron) del CERN di Ginevra ha la forma geometrica del toro: una cavità tubolare nella quale è stato fatto il vuoto, formante un anello cavo nel quale è di-sposta una fitta serie di elettromagneti, lungo una circonferenza di 27 km. Il che rende possibile produrre e controllare fasci di antimateria spinti a velocità il più possibile prossime a quella della luce nel vuoto. Se nel toro lacaniano stanno insieme, in un rapporto di prossimità agonistica, la sog-gettività e il desiderio in quanto assenza, nel toro del LEP Collider ven-gono analogamente in relazione materia e antimateria. 30 Sergio Benvenuto, Antonio Lucci, op. cit., p. 115. 31 Se per esempio, nel corso di un telegiornale, veniamo esposti ex abrupto a una oscenità come una decapitazione, la nostra reazione (“Ma è assurdo! Non è possibile!”) è, in un certo senso, una reazione al Reale. L’umano inaccettabile, l’assurdo, l’irriducibile ad una logica.

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centro non le appartiene. Il vuoto inerisce insomma tanto la cosa, quanto il soggetto.

Tocca la realtà e la caratterizza quanto il pieno, o l’essenza, nei termini propri alla nostra metafisica. Ma, al di là di Lacan, si può pensare questa compresenza almeno in due modi. Consi-derando il vuoto come interno alla cosa, quindi anche all’in-dividualità, oppure come esterno alla cosa, altro.

Per il primo punto di vista, l’individualità viene a mediarsi con un altro – il vuoto – comunque interno a se stessa: siamo uomini impagliati, dalle voci secche, quiete, ma senza senso, per citare Eliot. Laddove nel secondo la soggettività si media con un’assenza diversa da sé. Su questo secondo cammino s’incontra di nuovo Hegel, per il quale – come si è visto – niente può esistere o esser pensato senza riferirsi a ciò che non è, vale a dire appunto con ciò che è diverso da sé. E che pur esterno, viene a costituire – se pensato ed esperito – il tutt’uno dell’esperienza e del concetto, senza in altri termini lasciare che la cosa o il pensiero assumano la forma dell’ag-gregato. Di nuovo ci troviamo di fronte a due attitudini gene-rali nei confronti del vuoto e della realtà.

La prima, che potremmo definire sintetica (per la sua ispi-razione che, nella modernità, si rifà ad aspetti centrali del freudismo, per il quale pulsione e desiderio sembrano davvero gli ineludibili motori del soggetto), considera il vuoto in quan-to radicale mancanza a essere, e a partire da questa affida a una soggettività diveniente un processo d’identificazione, per lo più personale. Nel corso del quale quella mancanza non verrà magari “riempita”, ma certamente superata, pur conser-vata nel processo. Con Sartre, definiremmo quest’attitudine “alimentare”, dal momento che il soggetto fichtianamente sembra divorare qualsiasi resistenza gli si contrapponga, vuota o piena.

La seconda attitudine invece non ritiene possibile intestare ad alcun sé il processo d’identificazione. Pur partendo dal considerare l’essere umano un ente polarizzato sulla mancan-za, sul vuoto, ritiene però che quest’ultimo sia in qualche mo-

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do “esterno” a una soggettività comunque depotenziata; che pur costituendo quanto di più “intimo” il soggetto possa sen-tire, questo centro mancante non le pertenga in quanto Sé. L’eccentricità del vuoto rispetto a questo soggetto che sogget-to non può più – a rigore – esser considerato, fa sì quindi che questi non possa ragionevolmente imbarcarsi in alcun proget-to di autocompimento, volto a colmare l’assenza. Seguendo tale indirizzo, non pare sensato intraprendere alcun processo di cambiamento della struttura psichica, neanche della pro-pria. Tuttavia, quel vuoto resta fondamentale per la struttura esperienziale del singolo, dal momento che rappresenta l’insensatezza del mondo presso la quale la soggettività man-cante si trattiene.

Le riflessioni taoista e buddhista sul vuoto sembrano ac-cumunabili per certi versi a questa stessa attitudine. Il taoismo rappresenta infatti il più completo insieme di riflessioni e di tecniche costruito attorno al tema e alla pratica del vuoto. At-tenzione: non il concetto di vuoto, ma la sua esperienza: «Alla base delle attività che accompagnano i processi formativi di alcune arti e che interessano la fruizione delle forme da esse prodotte non sta una teoria del vuoto, ma un’esperienza del vuoto: esperienza che è ottenibile solo mediante la pratica di un particolare tipo di meditazione»32. Nella riflessione orienta-le, il mondo come vacuità non presenta solo l’accezione spa-ziale (una fondamentale assenza di limiti), ma temporale: una costitutiva assenza di continuità, un vuoto di permanenza, im-permanenza, assenza di un sé duraturo nel tempo, il che aveva costituito problema già per la riflessione sulla coscienza per-sonale di classici come Locke e Hume. Nella meditazione buddhista non si colloquia né con Dio, né con altri, né con se stessi.

S’intravede però un problema. Se è vero che «sia Socrate che i maestri zen procedono nella loro opera “distruttiva” non per amore della distruzione, ma per poter suscitare una nuova

32 Giangiorgio Pasqualotto, op. cit., p. XIII.

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nascita, perché il vuoto prodotto sia la condizione prima e co-sante della purezza di ogni nuovo “pieno”»33, si direbbe allora che un fine c’è, e anche “pieno”. L’operazione teorica pare as-sumere tutt’altro aspetto e significato, dal momento che viene orientata comunque a una risignificazione della realtà. Confe-rimento di senso che passa certo per l’esperienza del fare il vuo-to, ma che non avrebbe quest’ultima come suo fine ultimo. Lo stesso vuoto del vuoto, l’esperienza che il Maestro è in grado di vivere annullando il proprio stesso desiderio di fare il vuo-to, parrebbe propedeutica a una rinascita al senso della realtà. Tutta l’esperienza sarebbe riconducibile quindi a un desiderio a monte consistente nel desiderare per sé – proprio per quel sé in apparenza così poco apprezzato – una rinascita al senso delle cose. A quel substratum soggettivo più che marginalizzato, in teoria, sarebbe allora intestata l’intera operazione zen, o chan. Intanto, proprio quella soggettività sarebbe in grado di fare il vuoto in sé stessa, annichilendo la propria funzione de-siderante, salvo il fatto che un desiderio comunque resta, e domina anzi tutta l’operazione esperienziale. Anche se la me-ditazione è in sé lo zen, e non è piegata in teoria ad alcuno scopo, permane il dubbio che invece la funzione desiderante non sia del tutto inibita e che anzi resti come elemento chiave della vicenda umana, motivando lo stesso zen, la meditazione in quanto tale.

4. Sfere e topografie Se le topografie morali definiscono il contesto in relazione

al quale possiamo distinguere e determinare quel che siamo, di fatto vivere implica l’esistere non soltanto in uno spazio di questioni, cercando di definire la propria posizione in quello, ma anche in uno spazio vero e proprio, nella cui topografia il ruolo e il peso di pieno e vuoto vanno considerati con atten-

33 Ivi, p. 70.

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zione. Già si è accennato al desiderio, il più antropogeno dei sentimenti, quando non venga mitridatizzato o narcotizzato, come ammonisce Freud in Il problema economico del masochismo. Passiamo così a un altro vissuto del vuoto.

Nel passaggio tra i due millenni, una delle rappresentazioni più accreditate della società mondiale è quella di una sfera ormai quasi completamente satura34. Sulla cui superficie non si darebbero soluzioni di continuità significative per i principali ambiti dell’umano, tutti esibiti in piena trasparenza: i flussi fi-nanziari, il commercio, le relazioni politiche, le crisi, i conflitti e le forme dell’intrattenimento. Oltre ovviamente alla comu-nicazione: l’infosfera35. Si è perso progressivamente il centro, e via via anche le periferie. La realtà mondiale esibisce una massa fluida, ma compatta di dati e di oggetti sociali che cre-sce in misura esponenziale, insieme a un’attitudine ermeneuti-ca universale che tenta di interpretarli e di dar loro un senso anche se dai diversi, particolari punti di vista.

Ma non è solo a questo punto che le attitudini divergono. Una distinzione sembra imporsi a monte, già nella comune considerazione della realtà come una sfera satura. E tuttavia, pur nella sua compattezza, mancante. Ed è qui, nella conside-razione della mancanza, che gli atteggiamenti differiscono.

Si può infatti riconoscere la mancanza come tratto costitu-tivo della realtà, e anzi apprezzare – per dir così – la radicaliz-zazione del conflitto che essa rappresenta nella realtà stessa; pensandone le possibili soluzioni, ma a partire dai concreti e spesso insanabili antagonismi. Per intendersi, è l’attitudine di chi, come Hegel e lo Schelling del periodo intermedio, osa in-trodurre il vuoto nel fondamento stesso, non concependo una

34 Dobbiamo a Peter Sloterdijk, com’è noto, la più compiuta sferologia degli ultimi anni, affidata principalmente ai volumi di Sfere (nuova edizione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2014). Si veda, in questo volume, di Antonio Lucci, Spazi pieni, corpi vuoti. Due paradigmi per una storia culturale del vuoto, p. 127 e segg. 35 Cfr. Luciano Floridi, The Fourth Revolution. How the Infosphere is reshaping human Reality, Oxford University Press, Oxford, 2014.

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realtà altrimenti congelata, adialettica36. Oppure, all’inverso, è possibile mirare alla completa saturazione della sfera, nel no-me di un’esigenza di dominio che colmi ogni vuoto, accom-pagnandosi magari a una qualche possibile riduzione della complessità. Sopportando le differenze in quanto eccentriche, e puntando su individualità in quanto titolari di bisogni e de-sideri che sarebbe possibile soddisfare economicamente. Un modello sociale in cui la negatività è costantemente soppressa a vantaggio di una positività che non tollera lacune, né dell’in-formazione, né della visione. E che avversa la complessità, proprio perché questa rallenterebbe la comunicazione37. Uo-mini della tautologia, ci sentiamo rassicurati da ciò che vedia-mo: «Quest’oggetto che vedo è ciò che vedo, tutto qua» (Didi-Huberman). Tutta la nostra attenzione per volumi senza sin-tomi e senza latenze.

Questa seconda prospettiva generale appare caratterizzata da un rifiuto e un ostracismo diffusi per il vuoto e i suoi cor-relativi oggettivi. Come se il detto famoso dei Lineamenti della filosofia del diritto di Hegel fosse da interpretare e porre in atto in termini edilizi, neo-costruttivisti: tutto il razionale non po-trebbe essere mostrato se non attraverso la sua reificazione totale, compiendo fino in fondo il progetto monstre di una te-leologia della riconciliazione che saturi ogni virtualità, espunga

36 A ragione Slavoj Žižek ritiene sia il periodo dell’Idealismo tedesco il cri-nale decisivo per un apprezzamento della realtà concepita come intrin-secamente contraddittoria, sanamente squilibrata. Anche se Hegel si ado-pera per proporre un’interpretazione di tutto, scopo ultimo dell’analisi dia-lettica è «dimostrare che ogni fenomeno, ogni cosa che accade e che smar-risce la strada, comporta un’incrinatura, un antagonismo, uno squilibrio entro sé stessa» (Slavoj Žižek, op. cit., pp. 22-3). 37 «L’iper-comunicazione anestetica riduce la complessità, per raggiunge una maggiore velocità. Essa è sostanzialmente più veloce della comunica-zione sensata. Il senso è lento, è di ostacolo ai circuiti accelerati dell’infor-mazione e della comunicazione. Così, la trasparenza coincide con un vuo-to di senso. La massa di informazioni e di comunicazione si origina da un horror vacui». Byung-Chul Han, La società della trasparenza, nottetempo, Ro-ma, 2014, p. 28.

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ogni lacuna, ricomponendo ogni frattura tra il mondo e la no-stra rappresentazione di esso e di noi stessi, abolendo ogni di-stanza.

Questa ideologia totalitaria del senso avrebbe radici anzi proprio in quella formula hegeliana che dice della razionalità possibile della realtà. Certo, in Hegel è presente un pathos del-la riconciliazione, storica, tra soggettività e oggettività. Ma “il reale è razionale” solo a patto che il soggetto si sobbarchi la fatica dell’interpretazione e del tentativo di costruzione del senso nel suo operare storico, non perché il senso sia già pale-se e resti solo il compito di coglierlo. Oltre al fatto che occor-re tener conto della misura d’interpretazione, del grado di di-storsione che l’interpretazione comunque induce. In ogni ca-so, Hegel ragiona nel quadro di un monismo di fondo che sceglie di non lasciare iato alcuno tra natura e vita dello spiri-to, cioè tra la natura e le forme simboliche che la rendono Al-tra, o seconda, nel linguaggio hegeliano. Tuttavia non è certo Hegel il filosofo della congestione, esito piuttosto del modello teorico e sociale che ha scelto di espungere la potenza del vuoto.

Viceversa, la presenza condizionante e decisiva del vuoto rende manifesta la complessità del reale, il suo essere struttu-rato secondo partizioni e funzioni mobili, capaci di scambiarsi posizione e senso. Non si dà alcuna realtà dai confini certi, modellati secondo opposizioni stringenti (interno-esterno, dentro-fuori, assenza-presenza). Secondo Pier Aldo Rovatti, condizione inevitabile del contemporaneo è stare dentro e fuori insieme38. Da tempo ormai lo stesso statuto del soggetto è messo in questione, come già la grande letteratura tra la se-conda metà dell’Ottocento e l’inizio Novecento aveva varia-mente rappresentato39. Il pensiero stesso ha bisogno del vuoto40. 38 Vedi Pier Aldo Rovatti, Abitare la distanza. Per una pratica della filosofia, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2007. 39 Basti pensare ai turbamenti tragici dei protagonisti di Dostoevskij, al soggetto diviso in Stevenson e Conrad, all’uomo senza qualità musiliano, solo per ricordarne alcuni.

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Il reale, se arricchito dalla commistione di vuoto e pieno, di assenza e presenza, non sembra scosso neppure dalla nuova considerazione dello spazio venutasi a creare grazie alle geo-metrie non-euclidee. Anzi, il tramonto dell’idea di uno spazio naturale facilita un’esperienza complessa della realtà come pie-no-vuoto. Le stesse fisiche contemporanee sembrerebbero as-secondare questa tendenza. Neppure il mezzo interstellare, pur assai rarefatto, è davvero completamente vuoto. Anzi, il vuoto fisico «è pieno zeppo sia di antimateria “virtuale”, sia di materia “virtuale”, nel senso che questi oggetti non si materia-lizzano (forse l’affermazione si dovrebbe leggere “non si anti materializzano”)»41.

5. La parola alle forme 1. Bigness e manhattismo Noi stessi abitiamo il vuoto. Abitiamo gli interni del mon-

do, muovendoci negli spazi creati dalle sue forme simboliche e, fuor di metafora, negli intervalli del pieno: «Si ha un bel-l’aprire porte e finestre per fare una casa, l’utilità della casa di-pende da ciò che non c’è», ricorda il Tao Te Ching42.

Al di là dei significati metaforici e simbolici del vuoto, stiamo dunque intanto alla sua rappresentazione e al suo rap-porto col pieno, alle forme che assume nella nostra esperienza quotidiana nelle architetture e nel paesaggio. Dal momento che l’ultramodernità esordisce in architettura in Nord-Ame-rica, riprendendo un’opposizione di scuola, confrontiamo due diversi modelli urbanistici americani, New York e Las Vegas. New York, costruita nello spirito della superfetazione, della

40 Secondo Byung Chul Han, la parola tedesca per felicità [Glück] derive-rebbe proprio da lacuna [Lück]. 41 Frank Close (2009), Antimateria, Einaudi, Torino, 2010, p. 101. Dello stesso autore, si veda sull’argomento The Void, Oxford University Press, Oxford, 2007. 42 Tao Te Ching, Il Libro della Via e della Virtù, trad. it. dal francese, Milano 1973, p. 49. Citato da Giangiorgio Pasqualotto, op. cit., p. 5.

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congestione e dei grandi volumi, Las Vegas edificata a misura delle highways, della dissipazione e dei grandi spazi43.

Fig. 1 – Un’immagine della Chicago modernista. Dopo il grande incendio del 1871, Chicago era stata la

prima città americana riedificata in cemento armato, secondo il motto del modernismo – la forma segue la funzione –, svi-luppando un centro direzionale fatto di alti palazzi, presto di-venuti grattacieli, firmati da stelle dell’architettura dell’epoca,

43 I due modelli sono stati variamente calati nelle realtà cangianti di grandi agglomerati urbani in espansione, come Lagos, Singapore, Wuhan, Shēn-zhèn, Kinshasa. Entro il 2030 il 60% della popolazione africana vivrà in insediamenti urbani e non più in campagna, contro l’attuale 38%. Dacca, il Cairo e Giacarta già surclassano New York per densità di popolazione.

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come Louis Sullivan e Daniel H. Burnham (Fig. 1)44. New York quindi seguì, ma l’esperienza del manhattismo può esse-re intesa come la vera, prima rimozione del vuoto, l’edifica-zione della sua antitesi. Eppure, i suoi profeti e concreti fauto-ri hanno fatto della programmazione del vuoto come spazio virtuale del possibile a-venire di New York la tavola della leg-ge della loro proposta architettonica e sociale.

Più di duecento anni fa, nel 1811, un gruppo di tre proget-tisti visionari cala sul profilo dell’isola di Manhattan una Gri-glia, compiendo così «il più coraggioso atto profetico della ci-viltà occidentale: la terra che spartisce è vuota; la popolazione che descrive, ipotetica; gli edifici che individua, fantasmi; le attività che concepisce, inesistenti»45. Una fantastica, e fanta-siosa, speculazione concettuale che si traduce nei decenni suc-cessivi in una spettacolare speculazione edilizia. Tutto ciò che non è mattone, cemento, acciaio e asfalto viene rimosso. La disponibilità di un territorio vuoto fa sì che l’immaginazione e la pianificazione inneschino un progetto per il quale, da allora in avanti, nulla potrà mai avvenire a Manhattan se non da qualche parte all’interno dei 2028 isolati della Griglia. La natu-ra ritornerà ad avere un proprio luogo solo più tardi, quando a nord verrà inserito nella griglia uno spazio vuoto destinato ad ospitare Central Park.

Già Erodoto nelle Storie aveva concepito due diversi atteg-

44 Pochi anni più tardi (1901), Burnham firmerà quello che da molti viene considerato il primo grattacielo newyorkese, il Fuller Building, chiamato anche Flatiron. Interessante come lo spigolo dell’edificio triangolare, asso-ciabile all’immagine della prua di un transatlantico, di fatto alluda ancora a una spinta orizzontale, e non verticale, dello sviluppo della città. Cfr. Wil-liam R. Taylor (1992), New York. Le origini di un mito, trad. it., Marsilio, Mi-lano, 1994, p. 103. 45 Rem Koolhaas, Delirious New York (1978), trad. it., Electa, Milano, 2013 (X ed.), p. 16. Marco Biraghi, nella postfazione, ricorda che la griglia era stata una prerogativa dell’urbanistica Romana e della Mileto di Ippodamo: la spartizione di un terreno vuoto in uno schema a scacchiera in funzione di una città a venire era dunque già da sempre una caratteristica del co-struire occidentale.

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giamenti costruttivi capaci di dar vita a due tipi di spazio: co-struire tramite il togliere e lo scavare, diminuendo il volume per asporto. Segno meno. E comporre spazi per aggiunta, so-vrapposizione, contrapposizione, legame, unione di elementi, addizionando i volumi per combinazioni di parti: segno più. La dialettica tra il vuoto e il solido appare come contesa tra il modello dell’acropoli e quello del foro. La bigness di New York, la sua grandezza intensiva prima che estensiva, li inglo-ba entrambi, secondo un progetto distopico scandito dal ri-muovere, distruggere e rimpiazzare. Si realizza costruendo e ri-costruendo, edificando e ri-edificandovi sopra secondo leg-gi e rapporti di assoluta precisione che tendono a sfruttare il più possibile la base del lotto, costruendo in altezza, anche grazie all’invenzione – dovuta a Elisha Otis, nel 1857 – del-l’ascensore moderno, in grado di moltiplicare le superfici frui-bili46.

Nel 1911 si supera la barriera concettuale del centesimo piano. E nel 1929 uno dei massimi teorici del manhattismo, Hugh Ferriss, pubblica cinquanta visionari disegni nel suo ca-polavoro: The Metropolis of Tomorrow. Una metropoli immagina-ria, composta da picchi rastremati, guglie fantastiche ideate sulle proporzioni consentite dalla Zoning Law47.

Manhattan come contenitore cosmico, come l’oscuro Vuo-to ferrissiano, «un utero architettonico nero come la pece che dà origine ai diversi stadi evolutivi del grattacielo in una sequenza 46 Lo Haughwout Building, un edificio in ferro battuto di cinque piani, co-struito nel 1857 all’angolo di Broadway e Broome Street, fu il primo a es-ser dotato di un ascensore Otis. Per la storia dell’architettura newyorkese di quegli anni, si veda William R. Taylor (1992), New York. Le origini di un mito, trad. it., Marsilio, Milano, 1994. 47 Nel 1916, la Zoning Law definisce per ogni lotto della superficie del-l’isola un involucro immaginario che traccia i contorni del massimo volu-me consentito. Ciò al fine di permettere alla luce di arrivare fino al piano stradale. Per cui la moltiplicazione verticale potrà svilupparsi soltanto fino a un’altezza data: poi, il grattacielo potrà crescere arretrando con una certa inclinazione via via che l’altezza aumenta. Un edificio, in ogni caso, potrà far raggiungere un’altezza illimitata al 25 % dell’area del proprio lotto.

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di gravidanze a volte simultanee, e che promette di generarne altri nuovi»48. Non a caso, un precursore della bigness, Samuel Friede, aveva progettato nel 1906 un edificio mostruoso, sin-tesi ai limiti dell’impossibile di un edificio realizzato come fos-se una sfera e insieme una torre: la Globe Tower, l’edificio più voluminoso mai progettato nella storia del genere umano. Un gigantesco spazio vuoto, poggiante su otto piloni che lo avrebbero sostenuto ancorandolo a un isolato di Coney Is-land, di fronte a Manhattan. La superficie più piccola per so-stenere il massimo territorio utilizzabile all’interno dell’enor-me sfera. Al suo interno, grazie agli ascensori, sarebbe stata agibile una superficie cinquemila volte maggiore della porzio-ne di terreno occupata alla base. Un gigantesco pianeta d’acciaio progettato per esser alto 210 metri: il più volumino-so edificio del mondo, innervato di potenti ascensori capaci di dislocare al suo interno fino a 50mila persone contempora-neamente, distribuite tra hotel, bar e ristoranti, negozi, osser-vatori, palmeti, boschetti e sale da ballo. Per la prima volta si progetta un edificio concepito come luogo di vacanze, tron-cando ogni legame con la natura.

Edificazione, distruzione e ricostruzione intensificata sono i tre gradi che hanno contraddistinto la realizzazione di Man-hattan. Un esempio paradigmatico è il Waldorf Astoria, la Ca-sa dei newyorkesi, centro di gravità per vent’anni della vita so-ciale di Manhattan. Nel 1899 viene ultimata la torre del-l’Astoria, accanto al Waldorf edificato tre anni prima. Ma or-mai il cannibalismo architettonico è in piena auge e nel ’29, agli inizi della Grande Depressione e nonostante essa, il Wal-dorf viene demolito per far spazio, su quello stesso isolato, all’Empire State Building. Mentre i materiali di risulta del vec-chio super-albergo vengono scaricati al largo di Manhattan, cresce il nuovo grattacielo, al fantastico ritmo di quattordici piani ogni dieci giorni49.

48 Rem Koolhaas, op. cit., pp. 107-8. 49 New York non poteva certo rinunciare a un marchio come il Waldorf e

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Nella storia dell’architettura edificazione, smantellamento e ricostruzione si sono poi riproposti variamente, spesso facen-do perno sulle distruzioni apportate dalle guerre e dai cam-biamenti di regime. Così per esempio la Parigi haussmanniz-zata di Napoleone III descritta da Benjamin nei Passages, o Berlino dopo la riunificazione delle due Germanie. Anche se la ricostruzione della capitale tedesca le ha fatto perdere l’occasione, paradossalmente, per essere la prima grande capi-tale disposta a coltivare il vuoto, a nutrire il limite50.

La congestione appare l’anima originaria del manhattismo, faccia concreta51 della stessa medaglia di quella che si propone come società della trasparenza, col suo surplus di informazio-ni che tende a escludere ogni lacuna, ogni lack of information. L’espulsione programmatica del vuoto dallo spazio urbano, salvo ricrearlo, e immediatamente saturarlo, all’interno di enormi edifici pubblici.

Anche per questo il crollo delle due torri del World Trade Center, l’evento dell’11 settembre 2001, ha avuto un impatto così traumatico sulla vita di New York e degli americani52.

presto lo ricostruì, in forma di grattacielo a due torri, molto più grande che nelle due precedenti versioni. 50 «(Berlino) è una città che avrebbe potuto convivere con la propria vuo-tezza e così sarebbe stata la prima città europea a coltivare sistematicamen-te la vuotezza. Come Rotterdam, nella quale c’è molta vuotezza. Per Li-beskind, la vuotezza è una perdita che può esser riempita o rimpiazzata dall’architettura. Per me, l’importante non è rimpiazzarla, ma coltivarla. Berlino era una specie di città post-architettonica ed adesso sta divenendo una città architettonica. A mio avviso si tratta di un dramma, non di un errore stilistico», Hans-Ulrich Obrist, Rem Koolhaas, Cultivating Urban Emptiness. http://artnode.se/artorbit/issue4/i_koolhaas/i_koolhaas.html. A ragione sostiene Carboni: «All’ipertrofia bisogna opporre una limitrofia» (Massimo Carboni, op. cit., p. 240). 51 Com’è noto, in inglese calcestruzzo si dice concrete. 52 Il carattere stesso di evento basta da sé – se inteso in senso forte – a evocare l’Unheimliches: «Im-prevedibile, un evento degno di questo nome non deve soltanto eccedere ogni idealismo teleologico, ogni astuzia della ragione teleologica che dissimuli a se stessa ciò che può capitarle e che può colpire la sua ipseità in modo autimmunitario – ed è la ragione stessa che

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Fig. 2 – New York, la nuova sistemazione del One World Trade Center. Uno dei dogmi del manhattismo – riedificare subito là do-

ve si è distrutto – è stato scosso dalle fondamenta. Cosa fare nel grande vuoto apertosi in una delle zone, per di più, origi-narie della metropoli, uno dei primi settori della griglia, già edificato al tempo degli Olandesi? Daniel Libeskind, il cui studio aveva vinto il concorso internazionale per la risistema-

ci ordina di dirlo, lungi dal lasciare questo pensiero dell’evento abban-donato a qualche oscuro irrazionalismo. L’evento deve annunciarsi come im-possibile; deve quindi annunciarsi senza prevenire, annunciarsi senza annunciarsi, senza orizzonte d’attesa, senza telos, senza formazione, senza forma o preformazione teleologica. Di qui il suo carattere sempre mo-struoso, impresentabile, e mostrabile come immostrabile» (Jacques Der-rida, Stati canaglia. Due saggi sulla ragione, Raffaello Cortina editore, Milano, 2003, p. 204).

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zione di Ground Zero, confidava nella capacità dell’archi-tettura di rispettare l’assenza causata dal crollo: in un dibattito pubblico, Leon Wieseltier, editor di The New Republic, gli aveva fatto notare che «emptiness is the spiritual equivalent of silen-ce. A void is a retort to the din»53. Il vuoto come replica al fra-stuono. Per elaborare il lutto, ascoltando le grida silenziose di quei tanti corpi gettatisi nel vuoto dalla sommità delle torri, nuovi Icaro senza colpa, bruciati dal sole di kerosene infuoca-to esploso con i due Boeing.

Di qui il desiderio di costruire il nuovo One World Trade Center (Fig. 2) senza fuggire e occultare il vuoto, senza con-fluire verso un pieno assoluto, abolendo o accorciando al massimo l’intervallo tra un edificio e un altro. Ecco la scelta di mantenere l’impronta del vuoto, scavando i perimetri delle due torri e trasformando il bacino delle loro fondamenta in due grandi vasche: Reflecting Absence54. Il loro vuoto come con-tenitore e custode della memoria dell’11 settembre, nelle in-tenzioni di Libeskind.

La Freedom Tower, la torre svettante sull’intero complesso, è notevolmente più alta delle precedenti torri gemelle. La stessa energia, eolica e idroelettrica, generata dal grattacielo per sé e per gli edifici circostanti, è imponente55.

53 Citato in Paul Goldberger, Up from Zero: Politics, Architecture, and the Re-building of New York, Random House, New York, 2004, p. 121. 54 Il progetto del National September 11 Memorial si deve all’architetto Mi-chael Arad e al paesaggista Peter Walker. Le due vasche, ognuna di 4.000 m², alimentate dalle più grandi cascate artificiali degli Stati Uniti, si trovano in corrispondenza delle impronte delle fondamenta delle Torri Gemelle. 55 Del progetto originale della torre, uscito dalla matita di Libeskind, resta molto poco. L’enorme volume della torre sarebbe stato costituito, nella sua parte sommitale, da un gigantesco vuoto. Dall’ottantaseiesimo fino al centoquattresimo e ultimo piano, l’edificio infatti sarebbe stato sostanzial-mente vuoto: nessun ufficio, solo turbine eoliche e un gigantesco Giardino dei cieli. L’ultimo piano abitabile (l’86°) della nuova torre avrebbe rag-giunto i 412 metri, cioè la stessa identica altezza della terrazza della vecchia torre nord, distrutta dal volo 011 dell’American Airlines. La Freedom To-wer primitiva, insomma, sarebbe stata la degna erede della Globe Tower:

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Se la risistemazione della punta di Lower Manhattan ha dunque rimesso almeno parzialmente in questione il dettato della griglia del 1811, reintroducendovi almeno formalmente una memoria del vuoto, non ha però sconfessato l’altro pila-stro dell’ideologia metropolitana, la bigness.

6. La parola alle forme 2. Sprawl come democrazia? Il XIX secolo come la sequenza delle sue visioni oniriche,

scrive Benjamin. Con alcune significative propaggini nel Ven-tesimo. Come Singapore, una città che, tutta, ha meno di trent’anni, cresciuta scansando ogni accidente e casualità, pura intenzione: caos ideato, bruttezza, e bellezza progettate: «se è assurda, è di un’assurdità voluta»56. E come Las Vegas, la cui immagine complessiva forza le emozioni, le angosce e i desi-deri medi degli americani: «Welcome to fabolous Las Vegas, free aspirin – ask us anything, vacancy, gas»57. La coscienza onirica della collettività americana si risveglia nella pubblicità ostentata, architettonizzata, della capitale del deserto58. solo che il suo vuoto sarebbe rimasto tale, senza accogliere i piani e le at-trazioni previste per la sua antenata, anch’essa peraltro rimasta sulla carta. La torre odierna, firmata da David Childs, con i suoi 541 metri (1.776 pie-di, tanti quanti gli anni della data della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti), è l’edificio più alto d’America. Per una sintesi dell’aspro dibat-tito per la risistemazione urbanistica della zona, si veda Paul Goldberger, Up from Zero: Politics, Architecture, and the Rebuilding of New York, Random House, New York, 2004. 56 Rem Koolhaas (1995) Singapore Songlines. Ritratto di una metropoli Potem-kin… o trent’anni di tabula rasa, Quodlibet, Macerata, 2010, p. 15. 57 «Benvenuti nella favolosa Las Vegas, aspirina gratis – chiedeteci qualsia-si cosa, posti letto liberi, benzina»: fantastico l’accostamento aspirina (do-po sbornia), letto pronto e carburante per ripartire. 58 «L’homme n’est l’homme qu’à sa surface. Lève la peau, dissèque: ici commencent les machines. Puis, tu te perds dans une substance inexplica-ble, étrangére à tout ce que tu sais et qui est pourtant l’essentielle». Paul Valéry, Cahier B 1910 (Paris) 1930, pp. 39-40. Cit. in Walter Benjamin, I “passages” di Parigi, ed. it. a cura di E. Ganni, Einaudi, Torino, 2000, vol. I,

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La città del Nevada è l’esempio più noto dello sprawl civico, la griglia dispersa tipica del suburbio americano, cresciuta gra-zie al progressivo allargamento della cintura urbana delle au-tostrade. Lo sprawl come destino dello spazio vuoto semi-ur-banizzato, in cui può sorgere un edificio (una stazione di servi-zio, un drive-in o un complesso residenziale) così come un elettrone può comparire in un campo quantistico. Vegas nasce così intorno alla Strip, originariamente la Route 91, una sorta di Champs Elysées western, ridefinendo il ruolo del simboli-smo in architettura e ponendosi come un “modello” urbani-stico nuovo, a detta di alcuni meno coercitivo e più accoglien-te rispetto a quelli del recente passato. Anche nei confronti del vuoto.

Ma cosa c’è da imparare da Las Vegas, come recita il titolo famoso della coppia Robert Venturi – Denise Scott-Brown? Il ruolo del simbolismo in architettura, innanzitutto, ridefinito in modo più ricettivo nei confronti dei gusti e dei “valori” del-l’americano medio. Siamo così invitati ad apprezzare la capaci-tà del simbolismo di rendere gli edifici e lo spazio urbano me-no coercitivi ed esteticamente più vitali rispetto al rigore del-l’ortodossia architettonica funzionalista. Venturi e Scott-Brown si sono sentiti sfidati dalla Strip e hanno adottato un metro critico più tollerante e “permissivo” rispetto a quello classico improntato al geometrico formalismo astratto di mae-stri come Le Corbusier o Mies van der Rohe59, accettando che l’immagine della Strip commerciale fosse il caos e che la co-municazione dominasse lo spazio come elemento fondamen-

p. 451. 59 Il cui detto “Less is more” viene sbeffeggiato a ogni passo, percorrendo qualsiasi tratto della Strip, tra casinò sfavillanti, riproduzioni della Tour Eiffel e del campanile di San Marco, statue iperrealiste di centurioni che sorvegliano il mega parcheggio del Caesar Palace, cowboys parlanti alti di-ciotto metri, come quello del Pioneer Club. Mies van der Rohe (Aachen 1886 – Chicago 1969) è considerato – insieme a Le Corbusier, Walter Gropius, Frank Lloyd Wright e Alvar Aalto – un maestro del Modernismo in architettura.

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tale nell’architettura e nel paesaggio urbano60. In effetti, la Strip e Freemont Street sono tutte una insegna; il simbolo domina lo spazio e contende la preminenza. Mentre la grande architettura moderna ha evitato come la peste l’araldico e il denotativo, privilegiando il fisiognomico e il connotativo, uti-lizzando l’ornamento espressivo e aborrendo il simbolico, a Las Vegas c’è sia l’insegna più lunga del mondo, sia quella più alta. Le forme fisiognomiche possono essere ambigue, la con-venzione no. Ovviamente non ci sono alberi, che impedireb-bero la piena fruizione delle insegne. Se si togliessero, non ci sarebbe più “luogo”. Le insegne sono l’architettura di Las Ve-gas, ha scritto Tom Wolfe.

Non riconoscere il valore architettonico e comunicazionale della Strip significherebbe quindi non cogliere la sua semplice e ragionevole organizzazione funzionale, in grado di soddisfa-re le esigenze di una popolazione quasi in toto di passaggio, in un ambiente a misura d’automobile, caratterizzato da grandi spazi e dalla necessità di spostamenti rapidi, nel corso dei qua-li orientarsi grazie a un simbolismo esplicito e intenso, spesso esso stesso in movimento.

In ogni caso, Venturi e Scott-Brown danno per scontato che Las Vegas non sia un luogo ideale per vivere. Ma se è ve-ro che gli architetti possono aspirare realisticamente a proget-tare un due per cento del costruito, i due coniugi di Filadelfia hanno almeno provato a spingersi nei meandri caotici e a con-siderare architettonicamente anche il 98% restante, vuoti

60 Avendo cura di precisare che analizzano Las Vegas soltanto come fe-nomeno di comunicazione architettonica: «Proprio come l’analisi di una cattedrale gotica non necessita di un dibattito sull’etica della religione me-dievale, così i valori di Las Vegas non sono oggetto di indagine in questa sede» (R. Venturi et al., op. cit., p. 26). Il che non ha schermato i due coniu-gi architetti dal ricevere critiche feroci, per esempio da Tomás Maldonado, piuttosto improntate all’ideologismo. Come nota Orazi, la logica sembra questa: se si studia Istanbul è perché si è intrinsecamente musulmani, se si studia Sabaudia si nutrono simpatie fasciste, e così via.

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compresi61. Venturi può quindi permettersi ironicamente di promuovere un Comitato per la Beautification della Strip, sot-tolineando – ad esempio – il ruolo urbanistico delle enormi stazioni di servizio la cui immagine standardizzata gioca un contrasto efficace con il delirio architettonico degli hotel, per cui in fondo «le stazioni di servizio sono di “buon gusto”, a confronto con gli hotel».

Cosa c’è dietro le facciate, i colonnati finto-etruschi, i me-ga-parking, come sono gli interni degli alberghi e dei casinò di Vegas? Basta riandare con la memoria a uno qualsiasi delle decine di film americani sull’argomento, da Ocean’s Eleven a Via da Las Vegas, da Proposta indecente a Miss FBI. La prima co-sa che si nota è il contrasto esterno-interno. Le sale da gioco sono sempre fresche e in penombra, tendenzialmente molto più buie rispetto agli esterni bollenti e abbaglianti da cui si proviene. L’utente, il giocatore in pectore, viene disorientato sia a livello spaziale, sia temporale, smarrendo la concezione del dove e del quando. Il casinò è ampio e basso, archetipo di ogni spazio pubblico della città: le altezze sono ridotte per motivi economici (soffitti bassi, più piani) e per il condizio-namento dell’aria. A differenza dei giganteschi atri degli alber-ghi newyorkesi d’inizio Novecento, succedanei della piazza urbana vitruviana, i casinò del Nevada privilegiano spazi chiu-si in penombra, illuminati e refrigerati artificialmente. Archi-tetture segnate da una fortissima caratterizzazione funzionale degli spazi. Spazi chiusi ma infiniti, moltiplicati da superfici riflettenti, giganteschi uteri sintetici, il cui vuoto è stipato di macchine mangia-soldi e di folla solitaria. Tutto all’opposto rispetto al modello di Mies, disinteressato ai condizionamenti concreti e pertanto creatore di architetture flessibili, non com-promesse con l’immediato, escludenti il contingente e giustifi-cate in sé stesse, nelle quali il vuoto è quasi tangibilmente ap-prezzabile in quanto mancanza di caratterizzazione dello spa-

61 Cfr. Manuel Orazi, Las Vegas capitale del XX secolo, postfazione in R. Venturi et al., op. cit., p. 221.

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zio, capace di renderlo trasformabile e adattabile a qualsiasi uso62.

Tuttavia, il caos di Vegas non è informe e si rivela piutto-sto un ordine complesso, in grado di includere a tutti i livelli edifici dalle destinazioni d’uso diversissime, apparentemente incongruenti. Venturi cita l’aforisma di Bergson che definiva disordine l’ordine che non sappiamo vedere. La capitale del Nevada dimostrerebbe come un’urbanistica d’inclusione pos-sa dimostrarsi vitale, al di là del buon gusto e del total design. Al dunque, Vegas «non è un caotico sprawl, ma un complesso di attività la cui struttura, come in altre città, dipende dalla tecno-logia del movimento e della comunicazione e dal valore eco-nomico del suolo»63.

Da Las Vegas impariamo che nello spazio urbano il rap-porto pieno-vuoto può essere ribaltato. Intanto, a causa degli spazi aperti del deserto che hanno fatto crescere la città la-sciando grandi porzioni di suolo urbano non edificato, anche se la città conta ormai due milioni e mezzo di abitanti, contro i duecentocinquanta mila dei primi anni Settanta. E poi sim-bolicamente, per la preminenza del vuoto che insiste tra un edificio e un altro, vera cifra del paesaggio della città del gioco e dell’azzardo, cresciuta rapidamente sulla spinta di fenomeni economici e speculativi spesso ignorati dall’urbanistica acca-demica, e riportati al centro dell’attenzione da Venturi, Scott-Brown e dal loro seguace, Rem Koolhaas. Tutti molto interes-sati oggi allo sviluppo dei nuovi, giganteschi agglomerati ur-bani cresciuti come per superfetazione, da Lagos a Dubai.

62 Perciò negli edifici di van der Rohe si apprezza una forte componente di vacuità, un’economia delle forme ma non degli spazi vuoti. Come è evi-dente dalla Nationalgalerie di Berlino, dal gigantesco atrio: «È una hall così immensa che comporta senza dubbio grandi difficoltà per le esposizioni d’arte. Ne sono del tutto consapevole. Ma ha un tale potenziale che sem-plicemente non posso tener conto di quelle difficoltà» (Mies van den Ro-he, cit., in Fernando Espuelas [1999], Il vuoto. Riflessioni sullo spazio in architet-tura, Christian Marinotti edizioni, Milano, 2004, p. 78). 63 Robert Venturi et al., op. cit., p. 106.

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Accanto e oltre New York e Las Vegas e alle megalopoli che ad esse si sono ispirate, un terzo modello si è più di recen-te imposto all’attenzione di Koolhaas, nonostante sia stato proposto fin dal 1959: l’idea della Ring City, la città ad anel-lo64. Una tipologia urbana sperimentata in Olanda: una catena o collare di insediamenti attorno a un’area centrale aperta. In pratica, la fotografia della porzione centrale dei Paesi Bassi, dove un insieme costituito dalle città maggiori – Amsterdam, Haarlem, Utrecht, Deft, Den Haag, Leida, Dordrecht e Rot-terdam – forma un ampio cerchio attorno a uno spazio cen-trale di aperta campagna, lasciato alle coltivazioni. Un immen-so spazio vuoto al centro di una corona urbana. Un’immagine urbanistica del toro. Forse questa configurazione del territorio è più casuale che non frutto di scelte deliberate. Ma si può es-serne sicuri? Certo è che presenta evidenti vantaggi rispetto ad altre forme di conurbazione. Intanto, perché la disposizione ad anello ha preservato l’identità e i confini di ognuna delle città, proteggendole dall’anonimato in cui cadono i centri quando entrano a far parte di quella “città infinita” di cui, pur-troppo, la nostra pianura padana, da Torino a Treviso, è un tragico esempio: un insieme incoerente di piccoli e medi cen-tri urbani, capannoni industriali (molti dei quali, ai giorni no-stri, dismessi), magazzini, enormi centri commerciali, depositi, appezzamenti di terra, sparuti frutteti, e poi ancora rotonde, svincoli autostradali, parcheggi di TIR, senza soluzione di continuità. Senza vuoti che consentano di apprezzare e distin-guere i confini e gli spazi65.

La proposta olandese, invece, offre agli abitanti di ciascuna città i servizi di tutte le altre, raggiungibili velocemente grazie a strade che attraversano l’aperta, intatta campagna, senza aree urbane densamente costruite. Si gode così dei vantaggi sociali del vivere in una comunità di medie dimensioni, pur potendo

64 Vedi Rem Koolhaas (1995), Singapore Songlines, cit., pp. 31-33. 65 Per il concetto di “città infinita” e la sua critica, vedi Aldo Bonomi, Il rancore. Alle radici del malessere del nord, Feltrinelli, Milano, 2008.

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accedere alle risorse commerciali di una grande conurbazione: «È significativo che le otto città olandesi che formano la “città ad anello” se la cavino con un unico aeroporto internazionale situato nello spazio aperto centrale e quindi facilmente acces-sibile per ognuna di esse»66. Un vuoto a misura d’uomo, la cui preservazione serve la comunità.

Oltre alla considerazione del vuoto da storico e teorico dell’architettura, nella proposta del modello della “città ad anello”, Koolhaas ha utilizzato il vuoto anche da progettista in diversi edifici. Come nella Biblioteca di Francia (1989), in cui gli spazi pubblici e di relazione sono una serie di cavità scava-te nella massa, o come nell’Ambasciata olandese a Berlino (2003), nella quale lo spazio di distribuzione è una traiettoria spiraliforme scavata all’interno di un cubo. Una traiettoria “sottratta”, la definisce Koolhaas, «un tortuoso boulevard con slarghi, piazze e vicoli ciechi che attraversa il corpo del-l’edificio» che, deformandosi, crea gli spazi interni dell’Am-basciata. La prima, spettacolare rivelazione, a detta dell’archi-tetto olandese, che «in architettura l’assenza può essere più forte della presenza»67.

7. Strategie del vuoto Due milioni e seicentomila metri cubi di pietra calcarea.

Contro duemila e duecento metri cubi scarsi di vuoto. Il cui volume è quindi meno dell’un per mille del volume del pieno: queste le proporzioni tra il vuoto e il pieno nella Grande Pi-ramide a Giza, il monumento funerario di Cheope. Eppure, nonostante le sue forme immense, la Piramide «non è il suo significato in lei stessa, non è il suo Sé spirituale», osserva He-gel. La piramide non si basta. Perché «le opere ricevono sol-tanto lo spirito o in se stesse come un estraneo spirito diparti-

66 Ivi, p. 33. 67 Rem Koolhaas, Cultivating urban emptiness, cit.

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to che ha abbandonato la sua vivente compenetrazione con l’effettualità e, morto esso stesso, entra in quei cristalli man-canti di vita; oppure esse si riferiscono esteriormente a lui come tale che è esso stesso esteriore e non esiste come spirito, – come alla luce nascente che getta su di loro il suo significa-to»68. Un ambiente esterno, in cui un interno giace nascosto, questo sono le Piramidi, come spiega anche nell’Estetica69. Im-mensi cristalli che nascondono in sé, nel poco vuoto che cu-stodiscono, il proprio senso, la propria luce, una volta che il corpo del Faraone si è disfatto ed è entrato a far parte di quei cristalli mancanti di vita. Secondo Hegel, nell’Antico Egitto vige ancora la separazione tra il senso e l’oggetto: l’opera rice-ve la propria spiritualità, cioè il proprio significato culturale, dall’esterno. Le due parti separate dell’opera dovranno quindi riaccostarsi e fare unità, pur nella reciproca differenza.

Dopo il trono vuoto, la tomba vuota: il vuoto di un corpo, la presenza di niente. Una tomba gigantesca che custodisce solo il vuoto, dentro la quale c’è ormai solo un volume d’aria, un’assenza. Le considerazioni hegeliane sulla Piramide sem-brano anticipare certe mirabili rappresentazioni medioevali della Resurrezione. Raffigurazioni che espungono l’angoscia della perdita rimuovendo il corpo morto di Cristo, attenendo-si al sepolcro, al volume visibile, rigettando il resto. Eludendo l’angoscia di guardare nel fondo, nel luogo reso vuoto dall’as-senza. Le Donne che visitano il sepolcro non vedono niente. Vedono nulla, un po’ di bende e un sudario, nella penombra di una pietra cava: «È questo vuoto di un corpo che attiverà per sempre tutta la dialettica della fede. Un’apparizione di niente, un’apparizione minimale: qualche indizio di una sparizione. Niente da vedere, per credere a tutto»70.

Ma quel vuoto, quella perdita, non è rimuovibile. La nostra 68 Questa e la precedente citazione da G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spi-rito, cit., vol. II, p. 212. 69 G.W.F. Hegel, Estetica, trad. it. a cura di Nicolao Merker e Nicola Vacca-ro, Feltrinelli, Milano, 1978, vol. I, p. 471. 70 Georges Didi-Huberman, op. cit., p. 16.

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cultura mostra ormai la ferita irrimediabile inferta alla certezza tautologica e rassicurante del What you see is what you see (Frank Stella). Certa arte minimalista e concettuale si è assunta il compito di rappresentare quell’ulteriorità rispetto al pieno, quel dentro oscuro delle cose. Le black boxes di Tony Smith71 pongono la stessa, ingenua domanda dalla quale già Hegel aveva messo in guardia: cosa nascondono le cose? Pur pen-sando le proprie sculture come vuoti praticati nello spazio so-lido, Smith gioca coi vuoti esposti e con quelli presupposti nel corpo stesso della scultura. Con il risultato di rendere le opere dei quasi-soggetti, membra di un misterioso organismo viven-te. Meglio come architetto-allestitore, quando – chiamato da Mark Rothko per erigere un muro che permettesse al pittore di meglio definire lo spazio espositivo – ideò per lui il primo white cube, rovescio visivo e concettuale delle proprie sculture. Un vuoto accogliente, a disposizione delle ampie tele dell’ami-co Rothko, forse almeno per questo aspetto apparentabile a Yves Klein, come il francese avversario dell’integrità e della compattezza delle superfici dipinte alla Hans Hofmann72, per il quale invece “depth means non-emptiness”, profondità si-gnificava assenza del vuoto73. Le tele di Klein e di Rothko, al contrario, sono “piene di vuoto”.

Molti altri artisti si sono diversamente misurati con la man-canza, lasciando che il pieno assumesse significato dall’assen-za. Prima ancora che nell’arte contemporanea, per esempio in Anish Kapoor74, le cui grandi opere si può dire rappresentino una vera messa in scena del vuoto, reso tangibile da cavità, avvallamenti e concavità che svuotano la materia, la grande scultura del Novecento si era già misurata con il vuoto, dan-

71 Tony Smith (1912-1980), artista visivo americano minimalista, noto so-prattutto per le sue sculture in metallo. 72 Mark Rothko (1903-1970), artista statunitense di origini lituane, tra i pa-dri dell’espressionismo astratto, così come Hans Hofmann (1880-1966). 73 James Yohe (a cura di), Hans Hofmann, Rizzoli, New York, 2002, p. 49. 74 Anish Kapoor (1954), nato a Mumbai, vive a Londra ed è tra i più gran-di artisti contemporanei.

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dosi occhi per vederlo ed evocarlo, senza rimozioni. L’opera di Arp, Brancusi, Pevsner, e soprattutto di Henry Moore75, te-stimonia la presenza dell’assenza, tutta l’importanza del vuoto nel leggere la ricchezza e la complessità della forma, nei suoi pieni e nei suoi vuoti, sia nell’organico, sia nell’inorganico. Moore era un accanito raccoglitore di oggetti naturali: sassi, pietre, legni, e soprattutto ossa e conchiglie, oggetti cavi che offrono la possibilità di arricchire l’esperienza artistica della forma: «Il significato formale di un foro non è meno rilevante di quello di una massa solida. Scolpire l’aria è possibile. Rac-chiudendo lo spazio cavo, la pietra ne lascia emergere la for-ma, in tutta la sua evidenza e necessità. Mistero del foro. Fa-scino misterioso delle caverne scavate nei fianchi delle colline e delle scogliere»76.

Forse è tempo di rendersi sensibili al vuoto, di disporsi a coglierlo e a valorizzarlo nei nostri vissuti reali. Nonostante l’eccesso di informazioni e di immagini è ancora percepibile: «Né la verità né l’apparenza sono evidenti. Solo il vuoto è del tutto trasparente»77.

75 Hans Jean Arp (1887-1966), lo scultore dai due nomi (Jean per i france-si, Hans per i tedeschi); Constantin Brancusi (Bucarest 1876-1957), libera-tore della forma, la cui opera ha avuto un’importanza storica per la scultu-ra moderna; Antoine Pevsner (1886-1962), scultore francese di origini bie-lorusse, originale interprete del costruttivismo. Henry Moore (1898-1986) è stato il maggior scultore britannico del Novecento. 76 Henry Moore, Sulla scultura, trad. it. di A. Salvini, Abscondita, Milano, 2002, pp. 25-6. 77 Byung-Chul Han, op. cit., p. 63.