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Dedico questo lavoro a me stesso quando, con un piccolo sforzo, ho superato la pigrizia e mi sono poi trovato contento. Ringrazio anche le tante persone, care o insopportabili, generose e meschine, simpatiche o antipatiche, dal cui incontro è nata una spinta per un impegno e risultati migliori. Mando invece un grande bacio, pieno di riconoscenza, alle care amiche ed agli amici sinceri, per tutte le volte ed i momenti in cui ho avuto il privilegio di perder tempo in loro compagnia. 1

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Dedico questo lavoro a me stesso quando, con un piccolo sforzo, ho superato la pigrizia e mi sono poi trovato contento. Ringrazio anche le tante persone, care o insopportabili, generose e meschine, simpatiche o antipatiche, dal cui incontro è nata una spinta per un impegno e risultati migliori. Mando invece un grande bacio, pieno di riconoscenza, alle care amiche ed agli amici sinceri, per tutte le volte ed i momenti in cui ho avuto il privilegio di perder tempo in loro compagnia.

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Rivolgo anche un ringraziamento sentito alla correlatrice di questo lavoro prof. ssa Marzia Barbera ed alla disponiblità del correlatore Dott. Fabio Ravelli.

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“Il corpo di un atleta e l’anima di un saggio: ecco ciò che occorre per essere felice.” Voltaire

Indice

• Introduzione

1. Capitolo Primo

1.1. Lo Sport: prima forma e fonte di cultura nella storia

dell’umanità……………………………………………....pag. 21

1.2. Lo Sport e l’autonomia dell’ordinamento sportivo…pag. 24

1.3. I soggetti dell’ordinamento sportivo…………….…..pag. 28

1.4. Gli atleti………………………………………….……..pag. 33

1.5. Il CONI……………………………….………………...pag. 38

1.5.1. Il CONI: struttura…………………………..……..pag. 41

1.6. Le federazioni sportive nazionali: natura e

funzioni…………………………………………………...pag. 43

1.6.1. Le federazioni: riconoscimento e

affiliazione………………………………………..…..pag. 49

1.7. Gli enti di promozione sportiva……….....................pag. 52

1.8. Le discipline associate…………………………….....pag. 54

1.9. Lo stato giuridico dei calciatori e il ruolo dei

procuratori………………………………........................pag. 56

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1.10. Altre figure dell’ordinamento sportivo: tecnici sportivi e

ufficiali di gara……………………………………...…….pag. 61

2. Capitolo Secondo

2.1. La disciplina dell’attività sportiva: quadro storico

normativo………………………………………….…...…pag. 65

2.2. Lavoro e sport nella costituzione………………...….pag. 80

2.3. Le fonti del diritto sportivo……………………….…..pag. 87

2.4. Le fonti del diritto del lavoro sportivo……………...pag. 96

3. Capitolo Terzo

3.1. I vincoli derivanti dall’atto-tesseramento………….pag. 100

3.2. I doveri dell’atleta: il vincolo sportivo, i principi dello sport

e le funzioni del CONI………………………………....pag. 108

3.3. Il vincolo dei professionisti e dei dilettanti………...pag. 113

4. Capitolo Quarto

4.1. Il rapporto di lavoro sportivo come rapporto di lavoro

speciale………………………………………...............pag. 118

4.2. La natura del rapporto di lavoro sportivo...............pag. 120

4.3. Cenni: il rapporto di lavoro dello sportivo

dilettante....................................................................pag.

127

5. Capitolo Quinto

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5.1. Le parti del contratto di lavoro sportivo……..…….pag. 130

5.2. La costituzione del rapporto di lavoro sportivo..…pag. 138

5.3. Gli elementi essenziali del contratto: l’accordo e la

forma…………………………………………………….pag. 141

5.4. Le cause di invalidità e la nullità del contratto di lavoro

sportivo……………………………………………….…pag. 144

5.5. Gli obblighi di diligenza ed obbedienza del lavoratore

sportivo………………………………………………….pag. 146

5.5.1. L’obbligo di fedeltà………………………………pag. 150

5.6. I poteri del datore di lavoro: il potere direttivo, di controllo

e disciplinare……………………………………………pag. 153

5.7. Il diritto del lavoratore sportivo alla prestazione dell’attività

lavorativa………………………………………………..pag. 158

5.8. L’orario di lavoro, i riposi e le ferie………………...pag. 162

5.9. La retribuzione e il trattamento di fine rapporto….pag. 166

5.10. Gli obblighi del datore di lavoro: la tutela delle condizioni

di lavoro e della salute……………………………….. pag. 170

5.11. Le vicende nel rapporto di lavoro sportive

5.11.1. La sospensione……………………………pag. 174

5.11.2. L’abolizione del vincolo sportivo………....pag. 177

5.11.3. La cessione del contratto…………..…….pag. 180

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5.11.4. La risoluzione unilaterale del contratto di lavoro a

tempo indeterminato……………………………….pag. 181

5.11.5. Il recesso ante tempus dal contratto di lavoro a

tempo determinato…………………………………pag. 184

6. Capitolo Sesto

6.1. L’Unione Europea e la libera circolazione dei lavoratori: le

sentenze delle corti di giustizia in materia di

sportiva......................................................................pag.

187

6.2. La sentenza Bosman ed i suoi effetti: le conseguenze

nell’ordinamento statale e nell’ordinamento

sportivo……………………………………………….....pag. 190

6.3. La condizione giuridica degli atleti extracomunitari

nell’ordinamento sportivo……………………...………pag. 197

• Conclusioni

• Bibliografia Essenziale

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INTRODUZIONE

"Speciali ricerche, realizzate nei diversi laboratori del mondo, hanno

convincentemente dimostrato che non esistono attività lavorative che, per

quanto riguarda il loro effetto allenante, possono essere paragonate ai carichi

di allenamento e di gara tipici dello sport moderno. Neppure un lavoro fisico

pesante svolto in condizioni climatiche difficili è in grado di produrre

nell'organismo trasformazioni di adattamento pari a quelle che si osservano

negli atleti di elevata qualificazione. Lo stesso si può dire anche delle molte ore

di lavoro quotidiano di un tagliaboschi ai tropici, di braccianti agricoli che

lavorano in condizione di altitudine di 3000-4000 m, di uno sherpa himalayano

o di un conducente di risciò nei Paesi asiatici. Per quanto riguarda le

caratteristiche delle trasformazioni adattative del loro sistema

cardiocircolatorio e respiratorio, nessuno di coloro che praticano un'attività

lavorativa di questo tipo, può essere paragonato ai corridori di fondo, ai ciclisti

su strada, agli sciatori di resistenza (Holmann, Hettinger, 1980).

La spiegazione è semplice: l'intensità del lavoro quotidiano più pesante

che esista, svolto per molte ore al giorno, anche in condizioni dell'ambiente

esterno molto difficili (clima caldo, alta quota) è notevolmente inferiore rispetto

all'intensità del lavoro di allenamento, mentre le condizioni estreme, tipiche

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dell'attività di gara, non trovano analogie né nell'attività lavorativa né in altri

tipi di attività umana, se si escludono i casi isolati nei quali l'uomo deve lottare

per la sopravvivenza"(Platonov).

Le conclusioni che il prof. Vladimir Nikolaevic Platonov trae riguardo agli

effetti e le trasformazioni che il "lavoro sportivo"comporta a livello fisiologico

nel corpo dell'atleta moderno, possono senza timori di smentita, essere estese a

tutta la sfera dello sviluppo della personalità dello sportivo professionista.

Oggetto del presente lavoro, sarà infatti valutare quale sia la ricaduta sul

piano giuridico di una realtà dalle molteplici implicazioni e che inquadra le

situazioni spesso eterogenee identificate sotto il nome di lavoro sportivo.

Il presente studio vuole identificare quale sia il comun denominatore che

lega i soggetti che scelgono, per la realizzazione di sé, la strada della carriera

sportiva e soprattutto quale sia la tutela giuslavoristica loro offerta.

In particolare si vuol cercare di stabilire in che misura questo particolare

rapporto di lavoro debba essere considerato speciale ed in quale misura possa

invece essere assimilato, anche in relazione alla regolamentazione normativa,

agli schemi previsti per il lavoratore comune.

La progressiva dilatazione delle carriere nello sport da una parte, la

maggior precarietà del lavoro in generale dall’altra, hanno forse per certi aspetti

avvicinato questa speciale area del mondo del lavoro a quella comune, più di

quanto non accadesse in passato.

Un’analisi di tipo giuridico su una qualsiasi realtà, non può comunque

prescindere da una corrispondente analisi di tipo sostanziale o, per lo meno,

presuppone che siano indicati quali degli aspetti di un fenomeno verranno presi

in considerazione.

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È quindi necessario definire nell’ambito di lavoro e sport, concetti che in

realtà comprendono situazioni molto ampie e diversificate, quali siano le

manifestazioni e la sfera di problematiche da considerare utili ai fini del

presente lavoro.

Nel corso del ventesimo secolo si è assistito infatti ad una difficilmente

prevedibile evoluzione delle competizioni, dei materiali e delle tecniche

d'allenamento, del sistema di selezione di valutazione e di preparazione degli

atleti, del livello di qualificazione degli allenatori nonché del supporto

scientifico-metodologico ed oggi anche psicologico orientato all' ottenimento

della migliore prestazione sportiva.

Tutto ciò ha comportato, per ragioni facilmente intuibili, una radicale

trasformazione del ruolo stesso che lo sport occupa nell’esistenza di quei

soggetti in grado di raggiungere livelli di eccellenza nelle discipline

contrassegnate da un elevato grado di competitività.

In particolare, dal secondo dopo guerra in poi, si e assistito alla ricerca

imperativa del risultato agonistico attraverso conseguenti programmi di

addestramento dalle richieste severissime quando non disumane, secondo

peculiarità differenti nel blocco occidentale-capitalista piuttosto che in quello

filo sovietico, ricercando obiettivi a volte contrapposti e naufragando in derive

spesso simili.

Anche dove si vogliano escludere le aberrazioni causate e susseguenti alle

pratiche illecite prodotte dalla triste quanto fervida fantasia di una

“medicina”dello sport priva di scrupoli, resta da rilevare che oggi, varcato da un

certo livello in poi il segno dello sport per diletto, una dimensione ricreativa di

questo resiste solo nell’origine semantica del termine.

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Motore ed al contempo volano, causa ed effetto di questa evoluzione, sono

stati la continua crescita di interesse mediatico e le conseguenti sempre

maggiori ricadute economiche gravitanti attorno al fenomeno sportivo.

Tutto ciò ha fatto del lavoro sportivo moderno una delle attività lavorative

che più di altre coinvolge i suoi soggetti nella quasi totale integralità delle

manifestazioni esistenziali.

La contropartita di una situazione di agonismo così esacerbata è costituita,

per la piccola élite di atleti in grado di dotarsi dei mezzi tecnici richiesti dallo

sport di alto livello, oltre che dall’espressione di sé e del proprio talento (finalità

autoteliche sempre presenti nello sport ed auspicabilmente in tutte le attività

lavorative specie in una Repubblica fondata sul lavoro e che enuncia fra i

principi fondamentali la piena realizzazione della persona), da gratificazioni

economiche spesso importanti e qualche volta precluse anche alla fantasia del

lavoratore comune.

Capita infatti che lo “sportivo di successo”, in seguito ad un importante

risultato, venga ad assumere ad un tratto un aspetto non dissimile da quello di

ogni altro lavoratore dello spettacolo, prestando la sua immagine alla macchina

mediatica del racconto sportivo, creatura elefantiaca che si nutre in rapida

successione delle vicende sportive da lei stessa alimentate.

Lo sport ad ogni modo, attività che proprio a sua volta vede nella

soggezione alle regole uno dei primari elementi di elevazione e distinzione dalla

sua matrice originaria di gioco, come ognuna delle altre attività della vita

associata, ha bisogno, sin dalle forme più antiche ed elementari di

organizzazione, dell’emanazione di un complesso di regole.

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Regole che diventano indispensabili e devono essere tanto più articolate

quanto il fenomeno sportivo sia più sviluppato sul piano sociale e rilevante su

quello economico.

Il lavoro, a maggior ragione, a sua volta si è dotato di un complesso di

norme che definiscono il rapporto fra datore di lavoro e lavoratore e, più in

generale, norme attraverso le quali il legislatore sceglie quali interessi far

prevalere fra quelli in gioco, spesso conflittuali.

Questo complesso di norme, presto raggiunta una sua autonomia

sistematica all’interno dell’ordinamento giuridico, ha preso il nome di diritto del

lavoro.

La prospettiva di analisi in cui deve essere inquadrato il diritto sportivo,

risulta essere in particolare, quella che colloca i soggetti protagonisti del

rapporto di lavoro sportivo all’interno dell’ambito dell’ordinamento sportivo.

L’orientamento della dottrina, ormai superate le tesi meno recenti che

escludevano la stessa giuridicità dell’ordinamento sportivo riconducendo tutto il

fenomeno ad un sistema di giochi in cui i competitori sarebbero stati chiamati

soltanto a rispettare le regole tecniche improntate al principio del fair play,

afferma oggi senza grandi dubbi e significative contestazioni, la piena

giuridicità dell’ordinamento sportivo, sancendo così l’antica quanto autorevole

dottrina proposta da Walter Cesarini Sforza.1

L’ordinamento sportivo risulta quindi caratterizzato dalla plurisoggettività

in quanto costituito da tutti i soggetti che vi operano (atleti, associazioni,

società, federazioni, ecc.), dalla organizzazione, intesa come complesso di

strutture nazionali ed internazionali create per favorire la diffusione e la pratica

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sportiva e dalla potestà normativa in grado di emanare le norme necessarie a

regolamentare ogni evento rilevante all’interno del suo ambito di operatività.

Occorre subito precisare come non tutte le espressioni di organizzazione

di attività sportiva assumano sul piano giuridico una rilevanza tale da poter e

dover configurare l’instaurazione di un rapporto di lavoro.

Una volta escluse, per ovvie ragioni, tutte le numerose a buon diritto

diffuse situazioni che conservano nel momento ludico e ricreativo piuttosto che

nella semplice ricerca del benessere l’unico significato della pratica sportiva, è

necessario stabilire una linea di demarcazione fra sport agonistico-dilettantistico

e sport professionistico.

Nella definizione di atleta professionista o dilettante, espressioni dal

significato polisenso, si sono spese pagine che, con argomentazioni diverse,

hanno focalizzato l’attenzione su differenti aspetti del problema.

Dilettantismo e professionismo, nel corso del ventesimo secolo sono

diventati anche di volta in volta bandiere ideologiche prestate alle più diverse

strumentalizzazioni di carattere molto spesso extrasportivo.

Messe da parte le considerazioni sulle deviazioni politico-

propagandistiche che, spinte da diverse finalità, hanno colorato i due termini di

svariate accezioni spesso orientate a fini utilitaristici, va rilevato come la

discriminazione fra i due termini porti tuttavia con sé, da molto tempo, anche

conseguenze di ordine pratico.

Già all’indomani dei Giochi Olimpici di Roma 1960, Harold Abrahams,

splendido vincitore dei 100 metri nei Giochi di Parigi del 1924 e più tardi

presidente della federazione inglese di Atletica Leggera offriva queste

1 CESARINI SFORZA W., La teoria degli ordinamenti giuridici e il diritto sportivo, in Foro it., 1933, I.

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riflessioni riguardo la questione:“Dal momento che i partecipanti alle

Olimpiadi moderne devono sottoporsi ad un genere di preparazione che nella

maggior parte dei casi non può essere superato da un professionista, c’è chi

suggerisce che sarebbe molto più onesto abbandonare ogni pretesa di

dilettantismo, abolire il termine “dilettante” e spalancare le porte dei Giochi

Olimpici al professionismo.

Io sono tra quelli che ritengono la definizione di dilettante ormai

definitivamente superata e senza senso. Non credo che però la soluzione si

debba ricercare nell’abbandono di ogni restrizione nella qualifica dei

partecipanti. Il guaio è che per molte persone la definizione di dilettante è

considerata sacra. Questa gente, a quanto sembra, non ha mai indagato

sull’origine e sulla storia del termine, per cui non sa che con gli anni la

definizione ha cambiato considerevolmente significato. Il termine dilettante è

diventato una di quelle parole che producono una grande emozione ogni volta

che vengono usate .[…]In sostanza, il compito fondamentale dello sport

professionale è il divertimento dello spettatore. Il professionista vende la sua

abilità a chi è disposto a comprarla, cioè agli spettatori. Ora, le moderne

competizioni non professionali di alta classe suscitano tra il pubblico tanto

interesse, da rendere l’importanza del divertimento molto maggiore che non

sessant’anni fa, quando furono ripristinati i Giochi Olimpici. E, per

conseguenza, il livello richiesto, per chi riesce ad andare nelle finali di una

gara olimpica, per non parlare di chi la vince, è talmente elevato, che

necessariamente l’allenamento deve occupare una parte sempre maggiore della

vita di chi s’appresta a divenir campione. Questa è una realtà che nessun mare

1381.

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di lacrime di tutti coloro che continuano a piangere per avere delle gare

internazionali di dilettanti possono cambiare.

Sarebbe molto meglio accettare i fatti così come sono e rivedere i nostri

regolamenti sul “dilettantismo,” in modo da escludere per il competitore ogni

attività che possa distruggere ciò che è veramente fondamentale per la

sopravvivenza di uno sport non professionale.

Io cancellerei, ad esempio, la parola “dilettante”dal regolamento.[…] La

cosiddetta definizione universale di “dilettante”se riferita alle gare in se stesse,

è del tutto immaginaria e perfino ignorata da coloro che sono stati scelti.”

La piattaforma normativa che in Italia ha inquadrato la fattispecie del

rapporto di lavoro dell'atleta professionista con la società d'appartenenza

prevalentemente nell'ambito del lavoro subordinato, è quella fornita dalla legge

23 marzo 1981 n.91(norme in materia di rapporti tra società e sportivi

professionisti).

La legge n.91 segna il passaggio, per il rapporto di lavoro professionistico,

dall’elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale alla sistemazione normativa,

definendo anche alcuni aspetti quali la qualificazione dell’attività dello sportivo

nella sfera del rapporto subordinato e fornisce anche un criterio normativo

proprio per la definizione di professionista.

Il presente lavoro ha come obiettivo quello di analizzare le peculiarità di

un rapporto di lavoro caratterizzato da diversi elementi di specialità, regolati in

larga misura in via definitiva dalla suddetta legge che, da ormai venticinque

anni, si è sostituita a interventi episodici del legislatore e della magistratura che

storicamente hanno avuto il merito di aver dato impulso al legislatore.

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Lo studio, necessariamente, dovrà focalizzare la propria attenzione, per lo

meno in prima battuta, sulle questioni insorte attorno al gioco del calcio.

L’Italia, come è noto, fra i paesi civili, è quello che forse ha preso più a

cuore le vicende legate al gioco del pallone

Tale preminenza dello sport nazionale sul piano sociale, comunicativo e

quindi economico ha comportato uno speculare privilegio nell’attenzione della

giurisprudenza e del legislatore.

Le vicende relative ai rapporti fra le stelle del pallone ed i grandi club,

costituiscono oggi la nuova forma di spettacolo del calcio-mercato con i suoi

scoop, veri o presunti.

In questo modo, le discussioni relative anche alle implicazioni

caratterizzanti i suggestivi contratti dei campioni, sono entrate, per lo meno sul

piano lessicale, al bar dello sport.

Senza tralasciare la realtà dello sport di vertice, si analizzeranno tutte

quelle situazioni, statisticamente più rilevanti, caratterizzate da cifre

probabilmente meno impressionanti ma da problematiche non meno attuali ed

interessanti.

In secondo battuta, interesse del presente studio, sarà quello di porre

l’attenzione su come le realtà dei cosiddetti ”altri sport”, che già prima

dell’entrata in vigore della legge n.91 ammettevano l’esercizio dell’attività

agonistica in forma professionistica, abbiano reagito all’entrata in vigore di una

norma disegnata secondo le esigenze e le problematiche createsi in seno al

mondo del calcio, pianeta vasto e preminente nel panorama sportivo italiano,

caratterizzato da proprie singolari peculiarità.

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In un secondo momento, l’ambizione sarà di cercare quelle situazioni in

cui l’esercizio della pratica sportiva a livello professionale, risulta, se non sul

piano formale almeno su quello sostanziale, assimilabile alle fattispecie

delineate con riguardo allo sport professionistico.

Lo scopo dell’indagine, in questo caso, sarà quello di individuare in che

misura ed a quali condizioni, queste situazioni possano rientrare nella normativa

e soprattutto godere delle tutele elaborate dal legislatore per il lavoratore

sportivo.

Il riferimento alle pronunce giurisprudenziali, sarà il più puntuale

possibile, al fine di attualizzare e rendere fruibili i contenuti relativi alle

tematiche trattate.

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Capitolo Primo

1.1. Lo Sport: prima forma e fonte di cultura nella

storia dell’umanità

L’uomo, nel panorama del regno animato, è un atleta piuttosto modesto.

Lo è sempre stato.

Anche i nostri antenati, seppur cresciuti in un contesto totalmente differente da

quello delle nostre società ipocinetiche, potevano vantare espressioni prestative

fisiche abbastanza mediocri se confrontate con quelle del resto dei mammiferi

che popolavano e popolano il pianeta.

Perfino gli attuali limiti raggiunti dagli atleti di elevata qualificazione, ottenuti

attraverso l’esasperazione delle metodiche di selezione e della preparazione,che

oggi hanno permesso di conseguire risultati inimmaginabili e plausibilmente

mai prima avvicinati dalla specie umana, appaiono ben poca cosa se rapportati

ai records del mondo animale.

Anche il campione sportivo è infatti, oggi come nell’antichità, un frutto,

l’espressione della facoltà che più di ogni altra ha contraddistinto la specie

umana, l’intelletto.

Il Campione, conquista fondamentale nella storia dell’evoluzione umana,

nasce nel preciso momento in cui l’uomo, presa coscienza della sua intelligenza

che lo rende superiore agli altri animali, si accorge che il suo balzo è più lungo,

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la sua corsa è più veloce e che il suo lancio che arriva più lontano di quello dei

compagni cacciatori gli permette di abbattere una preda animale.

Il Campione non è altro che un’elaborazione mentale, è l’uomo stesso che

prende coscienza di sé, è il primate superiore che, diversamente dalla scimmia,

nello specchio, vede nella sua immagine riflessa, se stesso.

Diventando poi cacciatore di gruppo, ad un adattamento biologico innato,

l’uomo aggiunge gradatamente una forma di comportamento appreso: con

l’organizzazione e la programmazione della caccia comincia in sostanza a

crearsi, creare e comunicare cultura.

Lo sport è così al contempo rappresentazione peculiare e veicolo

necessario della crescita dell’individuo e dell’umanità.

Successivamente l’uomo da cacciatore diventa agricoltore, da nomade

diventa stanziale e si organizza nel villaggio.

Le esigenze di sviluppo psicomotorio non diventano per questo meno

cogenti e la filosofia del movimento offre a riguardo una serie di importanti

risposte.

Anassagora2, filosofo greco, già nel V° secolo a.C. giunge ad

un’intuizione fondamentale di carattere pre-paleontologico, oggi confortata

dagli studi compiuti dalla scienza moderna : “l’uso delle mani ha portato

l’uomo a distinguersi dagli altri animali e a sviluppare il cervello e di

conseguenza l’intelligenza”.

Un centinaio di anni più tardi, Aristotele, nel suo celebre tentativo di

riorganizzare il sistema filosofico, obiettò a riguardo che:”l’uomo ha le mani

perché è il più intelligente degli animali”.

2 CAPIZZI A., I presocratici, La nuova Italia, 1972.

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Quale che sia la posizione corretta, problema filosofico quanto mai

affascinante che esula però dai nostri fini, non resta che constatare come l’uomo

abbia acquisito a patrimonio il più alto livello di intelligenza tra tutti gli esseri

viventi e contemporaneamente la maggiore capacità manuale.

Risulta invece decisamente meno problematico rilevare quanto le due

diverse abilità siano collegate da un legame di relazione biunivoca.

Le teorie evoluzionistiche, successivamente si sono persino spinte oltre,

ponendo a correlazione delle acquisizioni psichiche man mano susseguitesi,

corrispondenti modificazioni somatiche.

Quel che è certo è che con lo sport l’uomo conosce se stesso in un

contesto di relazione con gli altri.

L’attività fisica, costituisce già un momento importantissimo ed

irrinunciabile di presa di coscienza di sé e di sviluppo per l’individuo.

Lo sport innestandosi su questa ne costituisce un’ ulteriore evoluzione facendo

acquisire al fenomeno una dimensione sociale.

Rispetto a quanto è utile all’analisi di uno studio che muove dalle basi di

una scienza sociale come il diritto, lo sport si differenzia dalla mera attività

fisica, proprio in relazione all’ impatto che questo fenomeno ha sulla società.

Il vero elemento discriminante, il nocciolo che permette all’esperienza

sportiva di assumere una sua giuridicità è proprio costituito dall' approvazione

sociale: dalla primitiva affermazione del campione come immagine di probabile

successo e preminenza nella lotta alla sopravvivenza fino alle più sofisticate

analisi del medesimo fenomeno attraverso i più moderni contratti di lavoro

sportivo.

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1.2. Lo Sport e l’autonomia dell’ordinamento sportivo

Al pari di ogni fenomeno sociale, lo sport ha bisogno di dotarsi di un

complesso di norme.

Una questione non priva di contrasti, è stata la discussione all’interno

della dottrina sul valore e sul significato di queste norme. In particolare se

questo insieme di norme possa o meno essere considerato originario di un

ordinamento giuridico autonomo che prende il nome di ordinamento sportivo.

La soluzione affermativa, che costituisce un approdo di non facile

raggiungimento, si manifesta come la risultante di un processo dottrinale che si

è evoluto nel tempo e durante il quale anche la percezione del concetto di

ordinamento ha subito sensibili mutamenti.

Per gli autori dell’inizio del secolo scorso, che prediligevano

un’impostazione più legata ad un modello di matrice privatistica, gli statuti ed

i regolamenti associativi erano individuati come espressioni di atti natura

convenzionale.

In questo modo escludevano lo Stato dal fenomeno sportivo, che veniva

relegato a fenomeno di carattere solo privato. Coerente con questo tipo di

impostazione è il primo intervento dottrinale organico in materia di diritto dello

sport,che vede la luce nel 1933 ad opera di Cesarini Sforza3.

Prodromici a questo tipo di approdi dottrinali anche nell’ambito del diritto

dello sport, erano stati i precedenti studi compiuti da Santi Romano che,

3 Vedi nota n 1.

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elaborati in una prospettiva molto più ampia e generale, permettevano una

lettura diversa del fenomeno ordinamentale.4

Muovendo da una presupposta nozione organicistica del diritto nella

quale la norma diviene valore aggiunto in un’interrelazione di comandi e libertà

che sono precedenti ad essa e derivano dall’istituzionalizzazione di un gruppo,

la prospettiva romaniana vede l’ordinamento come”un’entità che si muove in

parte secondo norme, ma, soprattutto, muove, quasi come pedine in uno

scacchiere, le norme medesime, che rappresentano piuttosto l’oggetto e anche

il mezzo della sua attività, che non l’elemento della sua struttura”.

Esclusa in questo modo la dicotomia assoluta posta tra privato e pubblico,

vengono a coabitare e collaborare in ogni realtà sociale vari ordinamenti

relazionati fra di loro ma dei quali lo Stato appare come il referente originario

in quanto detentore della potestà punitiva.

Fra i vantaggi offerti da una ricostruzione di natura pubblicistica come

questa, oltre alla possibilità di armonizzare in un disegno più ampio le eventuali

frizioni dinamiche fra norme, uno dei più evidenti è quello costituito dalla

possibilità di comprendere e valorizzare ambiti di autonomia all’interno della

struttura statuale.

La teoria del pluralismo degli ordinamenti giuridici raggiunge la sua

massima espressione negli interventi di Massimo Severo Giannini che,

assumendo come punto di partenza gli assunti romaniani, opera un’analisi

completa del concetto di ordinamento individuandolo come composto da tre

4 ROMANO S., L’ordinamento giuridico, Pisa, 1918, p. 48.

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elementi essenziali rappresentati dalla plurisoggettività, dalla normazione e

dalla organizazione.5

Giannini inserisce lo sport nella species degli “ordinamenti diffusi”, per

aderire ai quali é sufficiente un atto di volontà da parte del soggetto, non

essendo richiesto alcun atto necessario dell’organizzazione bastando invece il

mero dato di fatto della pratica sportiva agonistica.

Più problematica è invece la possibilità di inserire il settore sportivo nella

species degli ordinamenti “sezionali” categoria anche questa frutto

dell’elaborazione di Giannini.

Secondo l’autore questi sarebbero gli ordinamenti che formano un gruppo

sezionale”.

Al vertice di questi ordinamenti giuridici di settore si trova un pubblico

potere che su questi ha una facoltà dispositiva alla quale i soggetti sottoposti

devono conformarsi, pena l’irrogazione di sanzioni.

Giannini, che portava come l’esempio più compiuto di sezionalità quello

rappresentato dall’ordinamento del credito, non ha mai applicato tale categoria

all’ordinamento sportivo.

Cosa che invece ha provato a fare successivamente Luiso per il quale

“l’organizzazione CONI-Federazioni sportive è assai simile a quella di un

ordinamento sezionale, da cui, però, si differenzia per alcune caratteristiche

proprie”6.

Le principali differenze, sarebbero invece costituite dalla mancanza “di

una base economica identificabile”, dalla presenza di un ente pubblico

ausiliario al vertice invece di un organo statale o di un ente pubblico

5 GIANNINI M.S. , Prime osservazioni sugli ordinamenti sportivi, in Riv. Dir. Sport. , 1 e ss.

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strumentale e, soprattutto, dal fatto che l’ordinamento sportivo non controlla

tutta l’attività che ne costituisce la base.

Il concetto di sezionalità, seppur inadatto a descrivere perfettamente la

struttura del settore sportivo, appare molto utile in quanto introduce nella teoria

ordinamentale l’analisi dei rapporti tra potere normativo e potere statale.

Attualmente la prospettiva ordinamentale, seppur non accettata in maniera

acritica7 viene adottata dalla dottrina prevalente, superate quelle ipotesi che

riducono le norme del diritto sportivo a regole di fair play.

Non si può certo dubitare della giuridicità del fenomeno sportivo, che è

regola già nella determinazione finalizzata ad un obbiettivo agonistico di un

gesto tecnico.

Allo stesso modo non è possibile disconoscerne la qualifica di

ordinamento giuridico che gli deriva dalla presenza di una pluralità di soggetti

investiti da compiti diversi, differente disciplina giuridica ma fini comuni,

organizzati in maniera funzionale a questi obiettivi, in un corpus di norme

funzionali e condivise, con un sistema di legiferazione e giurisdizione

autonomi.

Esiste quindi un ordinamento giuridico settoriale (nel senso che trova un

limite nella materia stessa dell’azione che lo contraddistingue), subordinato

all’autorità sovrana dello Stato territoriale, unico titolare della potestà punitiva.

Tale ordinamento subordinato è al contempo anche originario poiché

supportato da una struttura internazionale che prescinde dalla territorialità dei

singoli stati.

6 LUISO F.P., La giustizia sportiva, Milano, 1975, p. 204.

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1.3. I soggetti dell’ordinamento sportivo

Un’analisi sulla realtà dell’ordinamento sportivo, non può prescindere

dall’identificazione di quelli che sono i soggetti che lo compongono.

L’art. 2 della legge n. 91 circoscrive l’ ambito di applicazione

definendo gli sportivi professionisti quali:”…gli atleti, gli allenatori, i direttori

tecnico-sportivi ed i preparatori atletici, che esercitano l’attività sportiva a

titolo oneroso con carattere di continuità delle discipline regolate dal CONI e

che conseguono la qualificazione dalle federazioni sportive nazionali…”.

La norma, con la sua formulazione, indica le specifiche figure

professionali in numero chiuso inducendo a ritenere che l’elencazione abbia

carattere tassativo, non estendibile ad altre categorie. Inoltre la norma

specificamente richiede, per i soggetti indicati, che questi conseguano la

qualificazione rilasciata dalle federazioni d’appartenenza.

È alle federazioni stesse, che la norma rinvia per la loro definizione e

configurazione e sembrerebbe non potersi prescindere dalla tipicità delle

corrispondenti qualificazioni per comprendere soggetti esprimenti

professionalità diverse da quelle elencate

I soggetti indicati dall’art. 2 sono infatti caratterizzati dall’elemento

comune costituito dal concorso diretto della loro attività al conseguimento della

loro attività, anche mediante il miglioramento ed il perfezionamento della

prestazione agonistica.

7 Di Nella L. , Il fenomeno sportivo nell’unitarietà e sistematicità dell’ordinamento giuridico, in Riv .Dir. Sport., 1999, 25 e ss.

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Altre figure professionali, pur potendo essere legate con la società da un

rapporto di natura subordinata piuttosto che autonoma, risultano invece estranee

alla qualificazione di lavoro sportivo, poiché esercitano competenze non

strettamente connesse all’attività agonistica.

Non sono quindi lavoratori sportivi per esempio i medici, i massaggiatori,

gli impiegati o gli incaricati di mansioni amministrative o organizzative di

servizi ausiliari.

Tali rapporti sono assoggettati al diritto comune.

Già l’art. 34, 4° co., del D.P.R. 2 agosto 1974, n. 530, poi riprodotto

dall’art 35, 4° co., del D.P.R. 28 marzo 1986, n.157, prevedeva che l’attività

dell’atleta professionista fosse disciplinata da norme regolamentari particolari

emanate dalla federazione competente per l’identificazione dei soggetti in

seguito indicati dall’art 2.

Occorre quindi far riferimento alle disposizioni relative alle qualificazioni

previste dalle singole federazioni che, a loro volta, presuppongono la

sussistenza di prestabilite situazioni di fatto e di requisiti per ottenerle.

Ad esempio le Norme Organizzative Interne della F.I.G.C. (Federazione

italiana giuoco calcio), ripetendo la formula dell’art 2, qualificano come

professionisti quei calciatori che “esercitano l’attività sportiva a titolo oneroso

con carattere di continuità, tesserati per società associate alla Lega Nazionale

Professionisti o nella Lega Professionisti Serie C”.

Il calciatore professionista è quindi chi pratica il gioco del calcio

essendone retribuito, e cioè colui che lo pratica come lavoro primario.

Nell’ambito dell’ordinamento sportivo agiscono numerosi soggetti.

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Il funzionamento del mondo dello sport è assicurato dalla presenza e

dall’opera di diverse figure professionali tra le quali, in posizione preminente

spicca quella degli atleti.

Lo status di atleta si acquista nel momento in cui, chi pratica uno sport,

entra a far parte dell’ordinamento sportivo.

Il momento fondamentale che permette allo sportivo l’acquisizione di

questo status è costituito dal tesseramento o cartellinamento e cioè

dall’iscrizione presso la federazione dello sport praticato, effettuata

direttamente dal soggetto interessato oppure attraverso un’associazione sportiva

alla quale sia iscritto.

Il tesseramento, configura perciò un atto formale dal quale non si può

prescindere per ottenere la qualificazione di atleta e grazie al quale si

ottengono, l’imputazione dei risultati, l’inserimento nelle graduatorie e, più in

generale, che fa divenire titolari di una serie di rapporti giuridici nei confronti

degli altri soggetti dell’ordinamento sportivo.8

Da questo momento, oltretutto, l’atleta assume l’obbligo di praticare lo

sport prescelto osservando i principi, le norme e le consuetudini sportive così

come previsto dall’art. 31 dello statuto del CONI.

Nell’ambito della categoria esaminata, assume fondamentale importanza

la distinzione tra la qualifica di atleta professionista o dilettante.

8 Sulla natura giuridica del tesseramento degli atti come atto amministrativo, espressione di potestà pubblicistica della federazione , con conseguente riconoscimento della giurisdizione del giudice amministrativo anche con riferimento agli eventuali atti di revoca dello stesso: Cass. S.U., 9 maggio 1986, p. 192; T.a.r. Lazio, Sez. III, 11 agosto 1986, n. 2746, in Riv. Dir. Sport., 1987, p.689; Pret. Modena, 10 febbraio 1987, in Nuova Giur. Civ Comm., 1987, I p. 721; in Cons. Stato, 1998, I, 1808, Cons. Stato, 30 settembre 1995 n. 1050, in Foro it., 1996, III, 275. In dottrina: I. MARANI TORO e A. MARANI TORO, Gli ordinamenti sportivi.

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Soltanto per i primi infatti, lo svolgimento della attività sportiva

costituisce oggetto di rapporto di lavoro dal quale deriva, tra gli altri diritti e ed

obblighi, il diritto alla retribuzione.

Situazione differente è invece quella dei dilettanti, ovvero di quegli atleti

che svolgono attività sportiva per divertimento o svago, svincolati da obblighi

contrattuali e, in linea generale, senza retribuzione né incentivi di sorta.

A tal proposito occorre tuttavia ricordare come ormai da tempo anche gli

atleti dilettanti ricevano rimborsi spese, borse di studio, premi che garantiscono

un trattamento economico in certi casi simile a quello dei compensi degli atleti

professionisti, tale da permetter loro di dedicarsi a pieno all’esercizio ed alla

preparazione atletica.9

Quanto alla distinzione tra atleti professionisti e dilettanti, la stessa è

rimessa alle rispettive federazioni, che vi provvedono con propri regolamenti e

con l’osservanza dei criteri che, a questo fine, son dettati dal Consiglio del

CONI (art. 5, 2° comma lett. D del decreto legislativo n. 242/1999).

La stessa legge n. 91/1981 ad ogni modo, concorre a tale distinzione

dettando, ai fini della sua applicazione, una definizione di atleta professionista.

L’atleta professionista ai sensi della legge n. 91 infatti è colui che viene

identificato come tale ad opera della federazione e, la cui prestazione sportiva,

venga resa con i caratteri della onerosità e della continuità, in favore di una

società costituita sotto forma di società per azioni o a responsabilità limitata.

Sempre la legge n. 91, stabilisce che la prestazione a titolo oneroso

dell’atleta costituisce oggetto di contratto di lavoro subordinato, regolato dalle

9 Sulla compatibilità con la qualifica di dilettanti della corresponsione di compensi monetari si veda Trib. Milano, 3 Aprile 1989, in Foro it. , I, 2951.

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norme contenute nella stessa legge, fatte salve le eccezioni previste nel suo art.

3.

Oltre agli atleti, una particolare rilevanza è quella attribuita alle figure di

allenatori, dei preparatori atletici e dei direttori tecnico-sportivi, che la suddetta

legge fa rientrare nell’ambito del professionismo sportivo, rendendoli

destinatari delle norme in essa contenute.

Sono allenatori quei soggetti che, in base alle norme di ciascuna

federazione, svolgono compiti di selezione, allenamento ed istruzione degli

atleti mentre i preparatori atletici provvedono più semplicemente alla cura della

formazione atletica dello sportivo.

Più difficile appare invece l’individuazione dei direttori tecnico-sportivi.

Infatti, se vengono definite in questo modo quelle figure che in qualche modo

partecipano alle funzioni proprie degli allenatori e dei preparatori atletici, non

sussisterebbe alcun dubbio nel ritenerli destinatari della legge n. 91/1981. Se,

viceversa, il termine serve ad individuare i dirigenti delle federazioni e delle

società ed associazioni sportive che, a vari livelli, collaborano per lo sviluppo

dello sport, mettendo a disposizione la loro esperienza e competenza tecnica,

dovrà escludersi l’applicazione nei loro confronti della legge n. 91/1981.

Sebbene, quelle sopra brevemente richiamate, siano le uniche figure cui si

riferisce la legge ai fini della qualificazione del professionismo sportivo, queste

non sono di certo le sole esistenti nell’ambito dell’ordinamento sportivo.

Oltretutto occorre ricordare l’importanza che, in tale ordinamento,

assumono le figure degli arbitri e degli ufficiali di gara, il cui ruolo,

regolamentato dall’art. 33 dello statuto del CONI, è fondamentale al fine di

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garantire il regolare svolgimento delle competizioni e la certificazione dei

risultati ottenuti.10

1.4. Gli atleti

Le atlete e gli atleti rimangono ovviamente i veri protagonisti dell’intero

sistema sportivo.

La diversificazione delle pratiche sportive e delle diverse motivazioni che

spingono il singolo atleta però, portano ad una situazione nella quale spesso

appare difficoltoso trovare una definizione di atleta corrispondente e funzionale

a tutti gli approcci cui porta la complessità dell' attuale realtà sportiva.

La dottrina a riguardo ha coniato diverse definizioni d’atleta, distinguendo

fra coloro che praticano “agonismo occasionale” e che vengono considerati

atleti secondo il senso etimologico del termine per il solo fatto del gareggiare e

chi invece si impegna in una forma di “ agonismo programmatico”.

Questi ultimi sono coloro che praticano un esercizio per tentare di

riuscire a vincere e, ad ogni modo, per consentire la compilazione della

graduatoria dei valori atletici con l’obiettivo di ottenerne il continuo

miglioramento.11

10 Sulla configurabilità degli arbitri quali pubblici ufficiali si sono scontrate due differenti posizioni che han visto prevalere quella negativa che esclude tale qualificazione in ragione della rilevanza strettamente privatistica dei conflitti che sono chiamati a comporre: AA. VV., Diritto sportivo, p. 91; M.SANINO, Diritto sportivo, p. 61. 11 MARANI TORO I., MARANI TORO A., Gli ordinamenti sportivi, Giuffrè, Milano, 1977.

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Più recentemente si è parlato degli atleti come delle “persone che

effettivamente praticano l’attività sportiva”12prescindendo dal riferimento alla

partecipazione ad una gara o all’inclusione in una graduatoria, e come coloro

che, nel praticare una determinata disciplina sportiva hanno “quale finalità

quella di misurarsi con gli altri partecipanti in un contesto disciplinato al fine di

vincere tali competizioni e rientrare all’interno di una graduatoria di valori

tecnici”.13 Tali definizioni, nella loro rappresentazione di realtà fra loro

eterogenee son la testimonianza di una situazione che vede accomunati ai

grandi campioni dello sport coloro che scelgono di praticare nel proprio tempo

libero una disciplina o un’attività sportiva.

Il D.Lgs. 242/1999 ha introdotto la presenza degli atleti e dei tecnici nel

Consiglio nazionale e nella Giunta nazionale del CONI ed ha previsto per tali

soggetti l’esercizio dell’elettorato attivo e passivo. In seguito il D. Lgs. 15/2004

ha confermato tale presenza, introducendo delle modifiche che sono state

ampiamente richiamate nella trattazione relativa al Consiglio nazionale del

CONI.

Riguardo alla definizione di atleta, lo statuto dell’ente, circoscrive lo

status di atleta a “coloro che hanno partecipato entro gli otto anni precedenti la

data delle elezioni, ai giochi olimpici, ovvero ai campionati mondiali o europei,

ovvero ai massimi livelli di competizione internazionale e nazionale” (art. 33,

comma 2 Statuto CONI, 2004). In questo modo è previsto un requisito che

considera eleggibili anche gli atleti non più in attività, seppure con un limite di

12 DONATI D., La disciplina giuridica delle attività motorie: i profili organizzativi, in “Attività motorie e attività sportive: problematiche giuridiche”, Cedam, Padova, 2002, pp. 25-64. 13 SANINO M., Diritto sportivo, Cedam, Padova 2002.

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tempo dalla cessazione dell’attività che ad ogni modo deve essere stata svolta

ad altissimo livello.

Elemento fondamentale per acquisire la qualifica di atleta è costituito dal

tesseramento, che è un atto formale di adesione compiuto “presso le società e le

associazioni sportive riconosciute, tranne i casi particolari in cui sia consentito

il tesseramento individuale alle Federazioni sportive nazionali, alle Discipline

sportive a associate e agli enti di promozione sportiva”(art. 30, comma 1,

Statuto CONI, 2004).

Attraverso il tesseramento l’atleta diverrebbe titolare di una serie di

obblighi e diritti.14

Fra questi, sulla base di quanto previsto dallo Statuto del 23 marzo 2004, “

gli atleti sono soggetti dell’ordinamento sportivo e devono esercitare con lealtà

le loro attività, osservando i principi, le norme e le consuetudini sportive”(art.

30, comma 2), ferma restando la soggezione di questi alle norme ed agli

indirizzi del CIO, del CONI e delle federazioni internazionale e nazionale di

appartenenza.

Inoltre, lo Statuto del CONI prevede che Atlete ed Atleti selezionati per le

rappresentative nazionali siano tenuti a rispondere alle convocazioni e, in tali

occasioni, devono mettersi a disposizione delle rispettive Federazioni sportive

nazionali o Discipline sportive associate (art 30, comma 4).

Da quanto sino ad ora rilevato, la realtà sportiva attuale si presenta

parecchio diversificata. Per questo motivo gli atleti possono essere differenziati

sulla base di diversi parametri, la gran parte dei quali hanno rilevanza solo ai

14 Per Marani Toro I. e A. ,in particolare, con il tesseramento l’atleta “diventa titolare di u fascio di rapporti giuridici che creano reciproci diritti ed obblighi nei confronti degli altri atleti, dell’associazione sportiva, della Federazione nazionale ed internazionale.

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fini della partecipazione alle gare sportive , dalla divisione per disciplina a

quella per sesso, età, nazionalità.

La classificazione più significativa ad ogni modo, rilevante sia sul piano

dell’ordinamento sportivo sia su quello dell’ordinamento giuridico, è quella che

divide gli atleti in relazione al tipo di attività sportiva praticata tra sportivi

dilettanti e sportivi professionisti.

L’art. 2 della legge n. 91/1981 demanda alle Federazioni sportive

nazionali, l’individuazione delle attività esercitate a titolo oneroso con il

carattere del professionismo.

Alla base delle suddette scelte federali, gli atleti professionisti sono quindi

presenti nel calcio, dalla serie A alla C2, nella serie A della pallacanestro; nel

ciclismo; nel pugilato; nel golf; nel motociclismo.

Come già visto, la legge n. 91 definisce gli sportivi professionisti

specificando inoltre che la prestazione sportiva dell’atleta, prestata con

continuità e a titolo oneroso, e che, all’interno di successivamente analizzati

parametri qualitativi e quantitativi, debba essere oggetto di un contratto di

lavoro subordinato.

La definizione di sport dilettantistico, al contrario, è ricavabile in via

residuale, considerando come tali tutte le attività non professionistiche.

In questo modo sarebbero da considerare come atleti dilettanti tutti coloro

che non erogano una prestazione a titolo oneroso, ai sensi della L. n. 91/1981.

Anche una parte di questi atleti però, ed in particolare quelli che

raggiungono nella loro pratica sportiva dei livelli di eccellenza, raggiungono un

grado di specializzazione tale per cui risulta indispensabile dedicare una larga

parte del proprio tempo alla disciplina praticata. Per questo motivo diviene

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indispensabile per questi ricavare dalla disciplina praticata la fonte per il

proprio sostentamento.

Questo, ad esempio, è il caso degli atleti che fanno parte dei gruppi

sportivi delle Forze armate, delle Forze di polizia e del corpo nazionale dei

vigili del fuoco.

La dottrina a tal proposito è giunta così ad individuare tre categorie di

atleti: i dilettanti, economicamente autosufficienti, i semi professionisti, solo in

parte mantenuti dall’ordinamento, ed i professionisti, integralmente mantenuti

dall’ordinamento.15

Vanno poi ricordate le pronunce della nozione di Corte di Giustizia

europea che hanno asserito come la nozione di lavoratore sia da applicarsi a chi

effettua una propria prestazione lavorativa in condizione di subordinazione e

dietro il pagamento di un corrispettivo.16

Per chiudere il discorso relativo agli atleti bisogna richiamare l’istituzione

da parte del CONI, in ottemperanza a quanto disposto dalla Carta Olimpica, ha

costituito presso l’ente la Commissione nazionale atleti, la cui composizione e il

relativo funzionamento sono disciplinati dal Consiglio nazionale (art. 30,

comma 5, Statuto CONI, 2004). Questa è composta da un rappresentante per

ciascuna Commissione federale atleti e da tre delle Discipline sportive

associate.

Tale Commissione ha funzione consultiva, con il compito di contribuire

alla diffusione dei valori olimpici e di formulare proposte, suggerimenti e

pareri agli organi del CONI con particolare riferimento alle questioni relative

agli atleti.

15 SANINO M., Diritto sportivo, Cedam, Padova 2002.

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1.5. Il CONI

Dopo un periodo di sostanziale stabilità, la disciplina complessiva dei

soggetti che operano nel mondo dello sport ha ricevuto, negli ultimi anni, molte

incisive modifiche, in certi casi anche di segno discordante.

I processi di riforma hanno innanzi tutto interessato il CONI, di seguito, le

Federazioni sportive nazionali.

Occorre inoltre rilevare come tali interventi, testimonianza di un settore

in fibrillazione, non siano al momento risolti e che il fenomeno normativo non

sembra essersi concluso.

È invece possibile affermare che il vero e proprio baricentro del

movimento sportivo nazionale sia costituito dall’ente pubblico nazionale CONI,

intorno al quale si muove, secondo una costruzione satellitare, il mondo delle

Federazioni sportive e delle Discipline sportive associate oltre a quello degli

Enti di promozione sportiva.

All’apice delle numerose organizzazioni collettive attraverso le quali si

provvede alla strutturazione ed allo svolgimento dell’attività sportiva

gerarchicamente regolate in un’ideale struttura organizzativa dalla forma

piramidale, va quindi posto il Comitato Olimpico Nazionale Italiano (CONI).

L’organo di vertice dell’ordinamento sportivo nazionale, è entrato a far

parte dell’ordinamento statale con legge 6 febbraio 1942 n. 426 che, nel

disciplinarlo, l’ha riconosciuto come ente dotato di personalità giuridica,

preposto alla cura, alla organizzazione ed allo sviluppo dello sport.

16 Corte di Giustizia europea 66/85, Lawrie-Blum, in Raccolta, 1986 pp. 2121 ss.; sentenza 11 aprile 2000, cause riunite C-51/96 e C-191/97 in Il lavoro nella Giurisprudenza 3/2001, pp. 236 ss.

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Tale ente peraltro, ha subito una profonda riorganizzazione operata dal

decreto legislativo 23 luglio 1999, n. 242 e dei successivi d.l. 8 luglio 2002, n.

138 convertito in legge 8 agosto 2002, n. 178 e dal d.l. 8 gennaio 2004, n. 15

che hanno di volta in volta introdotto importanti novità rispetto alla legge

istitutiva n. 426 del 1942.17

Per prima cosa le riforme hanno avuto il significato di contenere in forma

esplicita il riconoscimento dell’appartenenza del Coni all’ordinamento sportivo

internazionale, ai cui principi è tenuto al uniformarsi.

Inoltre sono state specificate le diverse funzioni che lo stesso ente è

chiamato ad assolvere nella sua duplice veste di ente dell’ordinamento sportivo

e dell’ordinamento statuale.

Il decreto legislativo n. 242/1999 prevedendo che il Coni si conformi ai

principi dettati dall’ordinamento sportivo internazionale, pone questo in

relazione con il Comitato Olimpico Internazionale(CIO) , vincolando in questo

modo l’ente nazionale ad operare in armonia con le deliberazioni e con gli

indirizzi posti in essere dal soggetto sopranazionale.

L’appartenenza del comitato nazionale a quello internazionale viene poi

ribadita nell’art. 4 dello Statuto in cui si chiama il Coni alla salvaguardia della

propria autonomia da ingerenze di natura politica, religiosa ed economica, in

conformità ai principi fissati nella Carta Olimpica.

Il CIO, con le federazioni sportive internazionali, costituisce un

organismo a dimensioine sovranazionale che, in armonia con i principi espressi

17 Di interesse generale appare la novità in merito alla politica di contrasto al fenomeno del doping, per la cui prevenzione il Coni opererà d’intesa anche con la Commissione per la vigilanza ed il controllo sul doping e per la tutela della salute nelle attività sportive, istituita ai sensi dell’articolo 3, della legge 14 dicembre 2000, n. 376.

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nella Carta Olimpica, detta norme vincolanti per tutti coloro che praticano lo

stesso sport nei diversi Paesi che ad esso aderiscono.

Tale organizzazione, istituita in seguito al Congresso internazionale degli

sport atletici del 1894 ed in seguito alla emanazione della Carta Olimpica, vero

e proprio statuto dell’ordinamento sportivo internazionale, è composta dai vari

rappresentanti degli Stati membri ed ha come compito principale quello di

organizzare i giochi olimpici, sovrintendendo al loro svolgimento.

Allo stesso modo, le federazioni sportive internazionali fanno capo quelle

corrispondenti nazionali, organizzate secondo una struttura federativa di tipo

privato, esercitando una propria attività normativa attraverso la promulgazione

di statuti, regolamenti e codici sportivi vincolanti per le federazioni nazionali

aderenti.18

Nel fissare il principio di autonomia del CONI, il decreto legislativo n.

242/1999, richiama esplicitamente i principi dell’ordinamento sportivo

internazionale fissati dal CIO. Tali principi si pongono, da un lato, come criteri

direttivi dell’attività del CONI, dall’altro lato come dei limiti che lo stesso

ordinamento statale si impegna a non superare nel dettare la disciplina del

CONI quale ente pubblico.

Il decreto legislativo n. 242/1999 stabilisce all’art. 2 che il CONI cura

l’adozione di misure di prevenzione e repressione dell’uso di sostanze che

alterano le naturali prestazioni fisiche degli atleti nelle attività sportive.

Lo Statuto del CONI, a sua volta, nel fissarne le funzioni, prevede che

nell’ambito dell’ordinamento sportivo il Comitato Olimpico è chiamato a

18 F. X. PONS RAFOLS, Il comitato olimpico internazionale e i Giochi olimpici: aspetti di diritto internazionale, in Riv. dir. sport., 1995, p. 255.

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dettare i principi per la lotta dello sport contro l’esclusione, le disuguaglianze,

il razzismo, la xenofobia ed ogni forma di violenza.

Altresì il CONI stabilisce i principi finalizzati a conciliare la dimensione

economica dello sport con la sue inalienabili prerogative popolari, sociali

educative e culturali.

Sempre in tale ambito è chiamato a fissare i principi per assicurare che

ogni giovane atleta formato da federazioni, società o associazioni sportive ai

fini di alta competizione riceva una formazione educativa o professionale

complementare alla sua formazione sportiva , nonché a garantire i giusti

procedimenti per la soluzione delle controversie come previsto dall’art. 2 dello

Statuto.

Per quanto riguarda la veste di ente appartenente all’ordinamento statale, è

stabilito che il CONI è un ente dotato di personalità giuridica di diritto

pubblico, assoggettato alla vigilanza da parte del Ministero per i beni e le

attività culturali (art. 1, decreto legislativo n. 242/1999).

In tale ruolo in particolare, il CONI presiede all’organizzazione delle

attività sportive sul territorio nazionale.

11.5.1. Il CONI: struttura

Non è possibile affermare con assoluta certezza che il legislatore del

1942 abbia voluto affidare l’intero ambito sportivo al comitato nazionale,

affidandogli il ruolo di vero e proprio monopolista sia del settore

professionistico sia di quello dilettantistico.

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Occorre invece rilevare come l’intera successiva evoluzione normativa si

sia mossa di fatto in questa direzione.

Nella consapevolezza di questa posizione dominante, sia il Legislatore sia

il Comitato, nell’ambito dei suoi poteri normativi, hanno peraltro tentato di non

costituire un freno allo sviluppo sportivo ma, al contrario, di costituirne uno

stimolo.

Due elementi normativi hanno permesso quest' impostazione.

Innanzitutto l’organizzazione strutturale del CONI che è suddivisa in

organizzazione centrale e periferica.

Quest’ultima, costituita a sua volta in comitati regionali, provinciali e

fiduciari locali, ha permesso una ramificazione capillare sul territorio nazionale

che ha contribuito ad un’adeguata diffusione, promozione e controllo

dell’attività sportiva.

In secondo luogo è stato importante il riconoscimento da parte del CONI

di una serie articolata di realtà sociali in ambito ricreativo e dilettantistico che

ha visto la propria espressione principalmente attraverso l’opera degli enti di

promozione sportiva.

Per quanto concerne la sua struttura interna, gli organi del Coni sono

stabiliti dall’art. 3 del sopra citato decreto n. 242/1999 e sono:

a) il consiglio nazionale;

b) la giunta nazionale;

c) il presidente;

d) il segretario generale;

e) il comitato nazionale per lo sport per tutti;

f) il collegio dei revisori dei conti.

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Tutti gli organi durano in carica quattro anni ed il decreto legislativo

provvede a regolare poteri, funzioni ed organizzazione di ogni organo del

CONI.

Appare significativo precisare che le Federazioni sportive nazionali non

sono più citate tra gli organi del Comitato.

1.6. Le federazioni sportive nazionali: natura e

funzioni

La natura giuridica delle Federazioni sportive nazionali è stata oggetto,

nel corso degli anni di numerose discussioni.

Quel che comunque appare innegabile, è sostenere che le Federazioni

rivestano una rilevanza di primissimo piano nell’ambito dell’ordinamento

sportivo in quanto istituti di fatto preposti all' organizzazione ed allo

svolgimento materiali delle singole discipline sportive.

Uno dei problemi che più di altri ha catalizzato l’interesse di dottrina e

giurisprudenza è stato quello sorto riguardo alla definizione della natura

pubblica piuttosto che privata da doversi attribuire a tali entità.

A tal proposito, le conclusioni sulla questione per un lungo periodo, sono

giunte a risultati spesso diverse quando non addirittura opposte, raggiungendo

solo negli ultimi anni una soluzione di compromesso che, se da un lato sembra

risolvere la questione dal punto di vista scientifico e dottrinale, dall’altro lascia

irrisolti moltissimi problemi pratici.

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La recente riforma apportata dal decreto Melandri, ancora troppo giovane

e che necessita del vaglio della prova pratica, sembra poter in tal senso risolvere

parecchi problemi non trovando tuttavia adeguate soluzioni per altri.

È invece possibile e probabilmente utile ripercorrere quali siano stati i

termini del dibattito che han portato alla attuale normativa.

Fino alla attuale riforma normativa, gran parte della dottrina sosteneva la

natura pubblica delle federazioni sportive nazionali.

Le argomentazioni che sostenevano le tesi di questi autori 19 partivano, in

particolare, dal rilevare lo stretto legame funzionale ed organizzativo

intercorrente fra federazioni e CONI.

Un ulteriore elemento che veniva considerato era quanto previsto dalla

legge istitutiva del CONI che nell’art. 5 primo comma definisce le federazioni

quali propri organi. CONI e federazioni, oltretutto, sono teleologicamente

accomunati, hanno potere di affiliazione e possiedono strutture analoghe e

talvolta coincidenti.

Sempre in favore della tesi pubblicistica, è stato autorevolmente sostenuto

che, in base alla legge n. 91/1981, alle federazioni era riconosciuta una potestà

regolamentare molto ampia e vincolante anche sotto il profilo della

giurisdizione ordinaria almeno civile che, di fatto, si poteva legittimare solo

trattandosi di ente di natura pubblicistica.

19 Così a tal proposito FERRARO M.: “La natura pubblicistica o privatistica del vincolo non è che l’ultimo anello di due catene che partono entrambe da un problema centrale che è quello della natura giuridica delle Federazioni sportive[…] dei problemi così individuat: natua delle Federazioni sportive, natura dei regolamenti federali, natura della giustizia sportiva e natura del tesserament, il primo risulta antecedente, anzi preliminare agli altri”

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Al contrario, i sostenitori della tesi privatistica, muovevano

principalmente dal sottolineare l’autonomia e l’indipendenza delle federazioni

rispetto al Comitato e di conseguenza riconoscevano una soggettività delle

federazioni distinta e separata da quella centrale.

Questa posizione non faticava a trovare supporto in numerose disposizioni

di legge che effettivamente si muovevano in tal senso. Fra queste anche la

stessa legge n. 91/1981 che, senza dubbio, ne ha sottolineato l’autonomia

tecnica, organizzativa e di gestione, riconoscendo alle federazioni poteri

talvolta autonomi o quanto meno distinti da quelli attribuiti al Comitato

nazionale.

La questione sulla definizione della natura delle federazioni in senso

pubblico piuttosto che privato non ha valore soltanto su di un piano

eminentemente teorico ma comporta importanti risvolti sul piano concreto della

vita dell’intero settore sportivo.

Una delle principali ricadute che tale definizione comporta è quella, di

certo di importanza tutt’altro che marginale, relativa all' individuazione del

giudice competente in materia di controversie tra federazioni e terzi e che ha

visto optare a favore del giudice amministrativo in luogo di quello ordinario.

Altro significativo precipitato che sussegue alla scelta di una, piuttosto

che dell’altra opzione, è quello in ordine all’efficacia giuridica extrasportiva dei

regolamenti e delle singole discipline sportive. Infatti, ne è diretta conseguenza,

l’incidenza sotto il profilo della eventuale responsabilità civile per danni causati

da atleti nell’ambito di gare o prove sportive, siano queste professionistiche o

dilettantistiche.

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Del resto anche la giurisprudenza spesso ha oscillato sulle diverse

posizioni.20

Fondamentale è stata la posizione sostenuta dalla Corte di Cassazione con

le sentenze a Sezioni unite 9 maggio 1991 n. 5181 e 9 maggio 1986 nn. 3091

e 3092.

Con queste la cassazione ha sostenuto la tesi della “natura mista” delle

federazioni sportive nazionali che li individua come enti aventi natura sia

pubblica che privata.

In effetti le federazioni talvolta agiscono come organi del CONI ed in

quel caso assumono la natura pubblica, mentre in altri casi operano più

semplicemente come associazioni private.

In alcune occasioni le federazioni svolgono la propria attività su delega

del CONI e perseguendo le medesime finalità, altre volte invece svolgono

funzioni autonome e separate dal Comitato nazionale conservando in tale

ambito la piena autonomia e capacità.

In questo modo, l’affermazione della tesi della “natura mista”,

sostanzialmente accettata dalla gran parte della dottrina , risolve la questione

dal punto di vista teorico e speculativo.

D’altro canto però, proprio tale impostazione, apre la strada ad una serie

di problematiche di carattere pratico. In effetti l’analisi di talune manifestazioni

di volontà o dei singoli atti diviene più delicata, richiedendo di volta in volta

un’indagine più attenta allo scopo di definire se trattasi di atto amministrativo

piuttosto che di atto privato.

20 Cass., sez. I, 9 luglio 1999, in Mass. Cass., 1999, I, 2432. In tale sentenza è ritenuto non pubblico un rapporto di lavoro con la Federazione, poiché l’articolo 3 della legge n. 138/92 aveva inquadrato nei ruoli del CONI solamente il personale in servizio al 31 dicembre 1990 e perché le Federazioni non hanno la possibilità di bandire concorsi per creare ex novo posti di pubblico impiego.

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In termini pratici, le federazioni verranno ad assumere la qualifica

pubblica ogni volta che perseguiranno, nel compimento delle proprie funzioni,

le finalità istituzionali del CONI ed allo stesso modo tutte le volte che agiranno

per la tutela e la regolamentazione di interessi pubblici.

Al contrario manterranno la qualifica di natura privatistica nello

svolgimento delle funzioni in cui queste conservano la propria piena autonomia

e rimanendo di fatto, nell’ambito della regolamentazione di interessi privati.

A titolo esemplificativo, dovrà essere considerata di natura pubblica una

norma introdotta in un regolamento sportivo ed in generale tutto quanto

rientrante nelle già sopra menzionate competenze pubbliche attribuite al CONI.

Ad ogni modo la questione ha dovuto confrontarsi con la riforma attuata

con il d.lgs. 23 luglio 1999, n. 242. .A tal proposito, l’art. 15 comma secondo

prevede che le”federazioni sportive nazionali hanno natura di associazione con

personalità giuridica di diritto privato. Esse non perseguono fini di lucro e

sono disciplinate per quanto non espressamente previsto dal presente decreto,

dal codice civile e dalle disposizioni di attuazione del medesimo”.

Il comma 4 del medesimo articolo 15 inoltre precisa che”il

riconoscimento della personalità giuridica diritto privato alle nuove

federazioni sportive nazionali è concesso a norma dell’art. 12 c.c., previo

riconoscimento dei fini sportivi da parte del consiglio nazionale”.

Tali affermazioni sembrerebbero poter lasciare il campo libero da ogni

dubbio e far propendere la questione a favore dei sostenitori della tesi

privatistica.

Questione invece che non trova una soluzione definitiva alla luce di altre

norme, basti in tal senso ricordare sempre l’art. 15 stesso che, al primo comma

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dispone che:“le federazioni sportive nazionali svolgono l’attività sportiva in

armonia con le deliberazioni e gli indirizzi del CIO e del CONI, anche in

considerazione della valenza pubblicistica di specifici aspetti di tale attività.”

La soluzione preferibile sembra quindi quella che attribuisce una natura

di carattere misto a questi organismi che però, innegabilmente, fra le proprie

funzioni, svolgono alcune attività caratterizzate da una valenza pubblica.

La lettura dello statuto del CONI porta sostanzialmente alle medesime

conclusioni.

Innanzi tutto là dove, all’art. 20 comma primo dello statuto del comitato

nazionale, si legge che”le federazioni sono associazioni senza fini di lucro, con

personalità giuridica di diritto privato” .

Ed ancora nel comma 4 in cui precisa che queste “svolgono l’attività

sportiva e le relative attività di promozione in armonia con le deliberazioni e

gli indirizzi del CIO e del CONI anche in considerazione della rilevanza

pubblicistica di specifici aspetti di tale attività. Nell’ambito dell’ordinamento

sportivo, alle Federazioni sportive nazionali è riconosciuta l’autonomia

tecnica, organizzativa e di gestione, sotto la vigilanza del CONI”. Vale poi la

pena ricordare che nel suo art. 23 lo statuto demanda al Consiglio nazionale il

compito di emanare indirizzi in ordine “ai profili pubblicistici dell’attività delle

Federazioni sportive nazionali con particolare riferimento all’affiliazione, al

riconoscimento e ai controlli sulle società e sulle associazioni sportive , ai

tesseramenti, alla tutela sanitaria, assicurativa e previdenziale degli atleti, alla

prevenzione e repressione del doping, nonché alla formazione dei quadri e dei

tecnici e all’impiego del personale”.

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In conclusione appare corretto affermare che le federazioni abbiano in via

principale natura privata e che, in questo caso, assumano la definizione formale

di associazioni mentre, in via eccezionale e sussidiaria, svolgano le proprie

funzione in relazione ad attività e finalità pubbliche.

11.6.1. Le federazioni: riconoscimento e

affiliazione

Le federazioni nazionali e le singole associazioni sportive entrano a far

parte anche ufficialmente del complesso di disposizioni di leggi, regolamenti ed

altre fonti giuridiche attraverso le procedure comunemente note con i termini di

riconoscimento ed affiliazione .

Peraltro tale legame non costituisce un obbligo ma piuttosto un onere nel

senso che in linea generale è possibile svolgere un’attività di promozione

sportiva anche al di fuori del sistema pubblico.

Certo, la mancata affiliazione di un ente sportivo alla federazione

nazionale comporta evidenti conseguenze in ordine alla omologazione di eventi

e gare sportive ed inoltre non consente loro di accedere ad importanti

vantaggi di carattere fiscale.

Tali enti infatti, trovano nella disciplina fiscale assai vantaggiosa rispetto

a quella accordata agli altri enti non commerciali ordinari, uno degli stimoli più

efficaci verso l’affiliazione tramite l’ottenimento del riconoscimento.

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Questa disciplina tributaria vantaggiosa, sia sul piano sostanziale oltre

che su quello formale, è riconosciuta in virtù di una maggiore attività di

controllo pubblica esercitata nei confronti di tali enti.

Questo in un contesto che vede un sistema dalla spiccata impronta

pubblicistica, comporta che l’affiliazione sia un elemento essenziale per gli enti

sportivi introducendo l’evento sportivo, sia pubblico che professionistico, in un

sistema condiviso e comunitario.

Sempre il più volte citato art. 15 d. lgs. 23 luglio 1999, n.242 al comma 3

stabilisce che il riconoscimento delle federazioni nazionali ai fini sportivi è

competenza del consiglio nazionale del CONI.

Gli artt. 21 e 22 dello statuto del CONI regolano invece l’ordinamento

delle federazioni ed i requisiti sia formali sia sostanziali necessari per ottenere

il riconoscimento.

Ad esempio, si richiede che gli statuti siano conformi al principio

democratico e che la partecipazione alla attività sportiva sia resa fruibile a tutti

in condizione di uguaglianza e pari opportunità.

Come è noto invece, la normativa che disciplina l’affiliazione delle

società sportive resta regolata dall’art. 10 della legge 23 marzo 1981, n. 91,

fermo il fatto che tale legge si riferisce esclusivamente al settore

professionistico lasciando così un vuoto legislativo per quanto attiene al mondo

dilettantistico.

Abbiamo già avuto modo di ricordare che , l’art. 23 dello statuto rimanda

al Consiglio nazionale del CONI per l’emanazione di indirizzi generali che

informino le singole federazioni nelle procedure delle relative affiliazioni.

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Occorre a tal proposito rilevare la diversa valenza che l’atto della

affiliazione assume nello sport professionistico rispetto alla realtà dello sport

dilettantistico: solo per i professionisti infatti tale riconoscimento comporta

importanti conseguenze di carattere civilistico.

Sostanzialmente inoltre, le cosiddette società sportive dilettantistiche (più

correttamente associazioni sportive), non godono di una propria individuazione

autonoma , ma vengono piuttosto qualificate in base alla mancanza dei caratteri

che invece contraddistinguono le realtà professionistiche.

Appare utile ricordare, a questo proposito, che tali organismi hanno

l’obbligo di assumere la forma di enti senza scopo di lucro e cioè, secondo la

definizione fiscale che li contraddistingue, di enti non commerciali.

Va inoltre rilevato che, attenendo tanto il tesseramento quanto

l’affiliazione alla funzione pubblica delle federazioni nazionali, le situazioni

soggettive di cui si tratta sono da includersi nella sfera dei diritti soggettivi

piuttosto che in quella di semplici interessi legittimi.

L’ultima riforma legislativa, sembra d’altra parte confermare tale

impostazione che vede tra l’altro l’ordinamento ed il riconoscimento delle

società e delle associazioni sportive regolati dall’art. 29 dello statuto del CONI.

Innanzitutto si stabilisce il criterio che prevede che, salve le eccezioni

previste dall’ordinamento ed i casi di deroga autorizzati dallo stesso Consiglio

nazionale, queste non devono ad ogni modo avere scopo di lucro e devono

avere statuti e regolamenti interni ispirati al principio democratico e di pari

opportunità.

È il secondo comma del succitato art. 29 che prevede il riconoscimento o

da parte dello stesso CONI o attraverso la delega concessa alle singole

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federazioni sportive nazionali o alle discipline associate ovvero agli enti di

promozione sportiva.

Sempre l’art. 29, nel comma 4 recita che”sono soggetti dell’ordinamento

sportivo e devono esercitare con lealtà sportiva le loro attività, osservando i

principi , le norme e le consuetudini sportive, nonché salvaguardando la

funzione popolare, educativa, sociale e culturale dello sport”.

1.7. Gli enti di promozione sportiva

È invece nell’art. 26 dello statuto che trovano definizione gli enti di

promozione sportiva che vengono individuati come”le associazioni a livello

nazionale che hanno per fine istituzionale la promozione e l’organizzazione di

attività fisico-sportive con finalità ricreative e formative e che svolgono le loro

funzioni nel rispetto dei principi, delle regole e delle competenze del CONI,

delle Federazioni Sportive Nazionali e delle Discipline associate”.

Questi enti nascono per lo più con finalità non agonistiche ma piuttosto

ricreative e con finalità più genericamente di carattere sociale.

L’ordinamento, in un’ottica che considera anche queste finalità

meritevoli di tutela, ha teso nel tempo, ed in particolare a partire dal 1986, a

riconoscere tali realtà, in virtù anche dell’impatto sociale e per certi aspetti

“politico” che consegue al sostegno delle attività promosse da questi organismi.

Va infatti riconosciuto che le associazioni sportive, specie nel passato ed

in un contesto di generale minor diffusione della pratica sportiva, abbiano

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svolto un’importante opera nella direzione della propaganda e della promozione

dell’attività dilettantistica quando non più semplicemente ludica o ricreativa .

Il riconoscimento di tali enti, rimandato dall’art. 27 dello statuto al

Consiglio nazionale del CONI è subordinato alla presenza di determinati

requisiti e cioè:

a) essere costituiti nella forma di associazione, riconosciuta o meno ai

sensi degli articoli del codice civile;

b) essere dotati di statuto conforme al codice;

c) avere presenza organizzata in almeno 15 regioni e 70 province;

d) avere società o associazioni affiliate in numero non inferiore a 1000

con almeno 100000 iscritti;

e) avere svolto attività da almeno 3 anni.

Sono questi parametri di carattere prevalentemente quantitativo, dal

momento che vengono già dati per scontati l’ovvia sottoposizione al rispetto

delle disposizioni di legge ai principi generali dell’ordinamento.

Una volta presa coscienza della rilevanza del fenomeno e della sua

generale utilità pubblica si è quindi optato per una sua regolamentazione,

quanto meno parziale, anche sul piano del suo profilo giuridico.

Pare utile accennare a questo riguardo che anche la disciplina tributaria

riconosce questi enti meritevoli di tutela.

Infatti, limitandoci ad un’osservazione che non vada al di là dei fini di

questo studio, occorre sottolineare come per parecchie associazioni

dilettantistiche , circoli e gruppi sportivi, l’affiliazione all’ente di promozione

sportiva sia il primo fondamentale passo che li introduce all’interno di un

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inquadramento dottrinale assai ampio, che provoca alcuni effetti immediati, se

non altro di natura fiscale.

Al fine di evitare fraintendimenti, vale però subito la pena precisare a

scanso di equivoci che l’atto di riconoscimento concesso da parte del Comitato

nazionale non qualifica in alcun modo tali enti né tanto meno come pubblici

né in alcun modo come enti dalla natura limitatamente pubblica.

Piuttosto, il riconoscimento ha l’importante funzione di introdurre questi

organismi all’interno dell’ambito dell’ordinamento sportivo generale.

Tale atto, senza incidere sulla qualifica dei soggetti in possesso delle

condizioni necessarie per il suo ottenimento, risulta quindi semplicemente

sottoposto ad un previo controllo generale di rispondenza ai requisiti sopra

elencati nell’ottica delle finalità prevista dall’ordinamento generale ed in

particolare dall’ordinamento sportivo.

1.8. Le discipline associate

Anche le discipline associate han fatto da qualche tempo il loro ingresso

nell’ambito dell’ordinamento attraverso le modalità e le procedure adottate dal

Comitato nazionale per il loro riconoscimento.

Queste, altro non sono che organizzazioni sportive che svolgono attività

distinte e separate da quelle propriamente svolte dalla federazioni sportive

nazionali ma che, in virtù della loro diffusione e rilevanza sul territorio

nazionale, accedono comunque al riconoscimento da parte del CONI godendo

conseguentemente di una peculiare considerazione.

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Si tratta di una posizione di contiguità rispetto alle federazioni che vede le

discipline associate collocate appena un gradino sotto queste.

L’art. 24 dello statuto fissa anche in questo caso i requisiti necessari

affinché il Consiglio nazionale possa riconoscere tali discipline.

Tali requisiti sono:

a) devono svolgere sul territorio nazionale attività sportiva;

b) devono vantare tradizione sportiva e consistenza quantitativa del movimento

sportivo;

c) devono avere ordinamento ispirato a principi di democrazia e partecipazione

d) non devono avere scopo di lucro.

Alle discipline sportive associate, ai loro affiliati e tesserati sono applicate

, quando compatibili, tutte le norme dello statuto del CONI valide per le

federazioni nazionali.

Le discipline associate possono quindi vantare un regime di forte anche se

non perfetta equiparazione rispetto a quello che caratterizza le federazioni che

si riferisce a realtà caratterizzate da una serie di nuove e particolari discipline

che stanno emergendo sotto il profilo sociale e che, a fianco di alcune

caratteristiche proprie dello sport presentano talvolta anche una marcata

impronta ludica e ricreativa.

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1.9. Lo stato giuridico dei calciatori e il ruolo dei

procuratori

La condizione giuridica del calciatore, sportivo professionista di assoluta

preminenza nell’ambito del mercato del lavoro sportivo nazionale,ha avuto

modo di essere oggetto di specifici approfondimenti dottrinali e normativi.

La normativa vigente, coerentemente con quanto accade con gli altri

professionisti,sembrerebbe inquadrarli fuor d’ogni dubbio come lavoratori

subordinati.

Tuttavia tale situazione è stata giudicata da alcuni commentatori come

non perfettamente conforme ad una realtà economica che, per lo meno da un

determinato livello in poi, gode di ingaggi e rapporti contrattuali decisamente

difformi ed inimmaginabili rispetto a quelli propri del rapporto di lavoro

subordinato, avvicinando la figura dei calciatori al ruolo che rivestono le stelle

dello spettacolo.

Non sono mancate in questo senso le spinte centrifughe volte a

raggiungere una configurazione che sul piano legale equiparasse i calciatori ai

lavoratori autonomi, né quelle volte ad individuarne una specifica collocazione,

una sorta di tertium genus fra rapporto di lavoro dipendente e autonomo.

Peraltro, queste posizioni, hanno sempre trovato valide argomentazioni

critiche da parte di coloro che hanno sottolineato come altri fattori, differenti da

quello della retribuzione, si inseriscano pienamente nel quadro delle

caratteristiche proprie del rapporto di lavoro subordinato.

Il calciatore, risulta infatti essere inserito strutturalmente nell’azienda, con

la quale s’instaura un rapporto di tipo marcatamente gerarchico e che lo vede

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vincolato rispetto ad orari di lavoro ed a una retribuzione pressoché fissi o, ad

ogni modo, rigidamente determinati.

In coerenza con questa impostazione anche l’Associazione italiana agenti

di calciatori e società.

Secondo l’associazione dei cosiddetti “procuratori” dei calciatori infatti,

un’eventuale modifica del rapporto di lavoro determinerebbe, oltre a tutto, in

particolare per quanto riguarda le categorie inferiori e la realtà calcistica del

Sud, un affievolimento della tutela della stabilità del rapporto di lavoro che

comporterebbe una grave penalizzazione dei calciatori più deboli.

Dalla Lega professionisti di Serie C invece, sono giunti solleciti affinché

anche nel settore sportivo venga introdotta la possibilità di stipulare contratti di

apprendistato.

Tutti questi temi, risultano, per certi versi, legati alla figura emergente

degli agenti di calciatori.

L’attività di tali agenti deriva da un regolamento FIFA che detta i principi

di carattere generale, da cui discendono poi i regolamenti nazionali.

A tal proposito, nel 1990 è stato istituito l’albo degli Agenti e dei

Procuratori sportivi, cui si accede previo superamento di una prova abilitante

presso la FIGC, secondo le regole dettate dalla FIFA.

Negli anni il potere dei procuratori è cresciuto al di là di ogni controllo

tanto che i più noti nelle cronache da Bar dello Sport , sono giunti ad apparire

come una sorta di veri e propri “padroni” quando non “arbitri” del calcio

nazionale.

Ad ogni modo, i compensi dei procuratori variano dall’uno al cinque per

cento del compenso lordo riconosciuto al calciatore. I procuratori rivendicano il

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diritto di essere rappresentati nel Consiglio federale o nei consigli di lega per

avere un interlocutore istituzionale.

La diffusione di tale figura professionale, peraltro ammessa limitatamente

al settore professionistico, sarebbe giustificata dalla presenza di un alto numero

di giocatori professionisti “fungibili” che troverebbero difficoltà altrimenti nello

spuntare ingaggi favorevoli.

Il fenomeno, come si ricordava ha subito una notevole espansione negli

ultimi anni, cui però non è corrisposta una puntuale definizione di normative e

controlli specifici.

Oggi la situazione appare infatti fuori controllo, vedendo su di un totale di

circa 3.400 calciatori professionisti, un numero di circa 440 agenti affiancati,

fra l’altro da altri abusivi per i quali non è possibile fornire una stima.21

La FIGC, preso atto della particolare rilevanza acquisita da questa figura

prepotentemente inserita nell’universo calcistico ha da ultimo provveduto a

regolamentarne l’attività controllandone la correttezza dei comportamenti

mediante appositi regolamenti.

Il più recente “regolamento per l’esercizio dell’attività di agente di

calciatori” ha introdotto alcune significative novità rispetto a quanto previsto

dai precedenti.

Secondo la normativa federale è agente di calciatori colui che, avendone

ricevuto l’incarico, e risultato in possesso di tutti i requisiti previsti dal

medesimo regolamento, cura e promuove i rapporti tra il calciatore e la società,

in vista della stipula di un contratto di prestazione sportiva e presta opera di

consulenza a favore del calciatore nelle trattative dirette alla stipula dello stesso,

21 Fonti forniti dall’associazione dei procuratori dei calciatori.

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assistendolo nella attività volta alla definizione, alla durata, al compenso ed ad

ogni altra pattuizione.

L’attività svolta dall’agente in favore della società, può riguardare uno o

più affari determinati ed essere rivolta a favorire il tesseramento o la cessione di

contratti di calciatori.

Si prevede inoltre che il contratto stipulato tramite l’assistenza dell’agente

contenga anche il nome e la sottoscrizione dello stesso22 e che eventuali

controversie insorte vengano deferite ad una camera arbitrale appositamente

costituita.

Quale sia effettivamente il ruolo del procuratore sportivo risulta

comunque un problema di non facile soluzione.

Nessuna delle figure contrattuali tipiche previste dall’ordinamento

giuridico statale sembra infatti configurarsi come idonea a ricomprendere

compiutamente la figura dell’agente di calciatori che appare oscillare tra il

mediatore, l’agente, il mandatario ed il professionista con incarico di

consulenza ed assistenza contrattuale.23

22 La FIGC ha predisposto un apposito elenco speciale dei Procuratori sportivi ed ha adottato un regolamento conforme a quanto previsto dal regolamento FIFA per gli “agents des joueurs” .Tuttavia le attuali regole relative all’accesso a detta professione sono state ritenute eccessivamente restrittive della concorrenza dal Commissario europeo che ne ha contestato fra l’altro i presupposti del sistema che li ha organizzati in una sorta di ordine professionale. 23 MENNEA P., Il procuratore sportivo di calcio e le figure giuridiche ad esso assimilabili, in Impresa, 1995, p. 283.

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1.10. Altre figure dell’ordinamento sportivo: tecnici

sportivi e ufficiali di gara

Anche i tecnici sportivi e gli ufficiali di gara fanno parte dell’ordinamento

sportivo.

In particolare i primi che, al pari degli atleti, hanno ricevuto a seguito del

decreto legislativo 242/1999, così come modificato da decreto legislativo

15/2004,il diritto di elettorato attivo e passivo per gli organi del CONI, per le

Federazioni sportive nazionali e le discipline associate.

Con questa denominazione di tecnici sportivi si ricomprendono gli

allenatori, gli istruttori, i preparatori ed in generale tutti coloro che sono

impegnati nella preparazione degli atleti e delle squadre o nell’avviamento allo

sport dei praticanti.

Tali soggetti sono disciplinati dall’art. 31 dello Statuto del CONI, che li

prevede inquadrati presso le società sportive o le associazioni riconosciute, o ad

ogni modo all’interno dei quadri tecnici federali.

Per svolgere la propria attività infatti, anche nel caso sia di natura

dilettantistica, i tecnici han bisogno di essere in possesso dei requisiti tecnici

professionali che vengono attestati dalla Federazione di appartenenza.

Anche i tecnici, al pari degli atleti, a seconda del rapporto che li lega alla

società o associazione sportiva di appartenenza possono essere distinti in tecnici

professionisti e dilettanti.

Proprio il problema della formazione degli operatori sportivi e della

possibilità di accedere alle professioni dello sport è stato al centro

dell’iniziativa comunitaria sul versante della libera circolazione.

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Infatti, in relazione ad una professione particolare come quella del

maestro di sci, già regolamentata dalla legge n. 81/1991 e da specifiche

normative regionali, la Commissione europea ha avviato un processo di

confronto tra gli Stati membri che ha portato a porre le basi per

l’armonizzazione dei percorsi formativi.24

I tecnici sono soggetti dell’ordinamento sportivo che hanno l’obbligo di

osservare i principi, le norme e le consuetudini sportive, con il dovere di

esercitare le proprie attività con lealtà sportiva.

In questo senso, un’importante attenzione in considerazione a questi

aspetti è quanto previsto dall’art. 31 dello Statuto del CONI, in relazione alla

funzione sociale, culturale ed educativa attribuita ai tecnici e soprattutto per

coloro che sono impegnati nell’avviamento allo sport delle giovani generazioni.

L’ordinamento sportivo, consapevole dell’importanza e della delicatezza

dell’attività svolta dai tecnici sportivi, ha previsto l’esercizio di nuovi diritti e

apposite facilitazioni fiscali (art. 90, L. 289/2002), ma anche una conseguente

particolare responsabilizzazione nei confronti di fenomeni generativi dello

sport quali il doping (L. 376/2000).

La categoria degli ufficiali di gara ricomprende al suo interno figure

eterogenee a seconda della disciplina sportiva all’interno della quale esercitano

la propria attività.

Denominatore comune rispetto a tutte le tipologie degli ufficiali di gara è

il fatto che “partecipano allo svolgimento delle manifestazioni sportive per

assicurarne la regolarità” secondo quanto previsto dall’art. 32 dello Statuto del

CONI così come riformato nel 2004.

24 Conferenza nazionale sullo sport, 2000, p.496.

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Lo svolgimento di funzioni diverse da parte degli ufficiali di gara deriva

invece dalle diverse esigenze che discipline differenti richiedono.

Negli sport di squadra infatti, il compito dell’arbitro è di verificare il

rispetto da parte dei giocatori dei regolamenti tecnici delle singole discipline e

un comportamento coerente con i principi di lealtà sportiva.

In altri sport invece, su tutti l’atletica leggera, gli ufficiali di gara hanno la

funzione di “certificare” i tempi e le misure ottenute dagli atleti per assicurarne

la regolarità.

Altre discipline, come tuffi e ginnastica, prevedono che sia l’ufficiale di

gara, rivestendo la funzione di giudice, a determinare direttamente, attraverso

valutazioni espresse tramite una votazione, le classifiche della gara.

Il pugilato prevede la possibilità che l’arbitro, solo o coadiuvato da altri

giudici, svolga la duplice funzione di consentire la regolarità dell’incontro

svolgendo contestualmente anche la funzione di giudice con la possibilità di

determinazione del risultato dell’incontro.

Lo statuto del CONI al comma secondo dell’art. 32, prevede la possibilità,

oltre che per le Federazioni sportive nazionali, anche per le Discipline sportive

associate e per gli enti di promozione sportiva, di formare, riconoscere e

garantire gruppi di ufficiali di gara.

Ufficiali che devono sempre garantire l’osservanza dei principi di terzietà,

imparzialità ed indipendenza di giudizio.

Una questione che è stata più volte sollevata, specie in relazione alla

figura dell’arbitro di calcio, è quella relativa alla opportunità di prevedere per

questi lo status di professionista.

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In realtà gli ufficiali di gara prestano sempre la propria attività a titolo

gratuito pur percependo spesso rimorsi spese a d in alcuni casi indennità.

La giurisprudenza a riguardo è intervenuta a sottolineare la gratuità e la

natura associativa dell’attività di “ausiliario sportivo”.25

In particolare, ciò che si afferma in relazione alla figura degli arbitri di

calcio, è che “si tratta di ausiliari sportivi sicché la loro attività è finalizzata

esclusivamente al fine di collaborare per il raggiungimento di un risultato, vale

a dire il regolare svolgimento dell’attività degli atleti”. Ed ancora, per quanto

concerne il dato economico si rileva che “la categoria degli arbitri la sua

attività in via gratuita, essendo previsti solo rimborsi spese ed eventualmente

indennità”.

25 Trib. Roma, sent. n. 8712 del 3 Aprile 2003.

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Capitolo Secondo

2.1. La disciplina dell’attività sportiva: quadro storico

normativo

È nel primo quarto del secolo scorso che nasce l’esigenza per i giuristi di

un’analisi sistematica del fenomeno sportivo, in modo da fronteggiare le nuove

problematiche che man mano andavano delineandosi.

Negli anni cinquanta si registra la comparsa della voce nei repertori della

giurisprudenza ed è sempre in questo periodo che si assiste alla nascita di una

rivista giuridica specializzata interamente dedicata alla materia26.

Oggi, l’esistenza di un diritto dello sport, è affermazione assolutamente

pacifica e priva di contestazioni.

Le caratteristiche peculiari di questa branca speciale del diritto sono: la

“globalità” poiché attrae nella sua sfera d’interesse ogni tipo di attività ad esso

pertinente; l’“interdisciplinarità” dal momento che confluiscono in esso i

contributi dagli studiosi di altre discipline giuridiche di volta in volta evocati;

l’“eterogeneità delle fonti” giacché si occupa sia degli aspetti endoassociativi

oltre che, ovviamente, di quelli disciplinati direttamente attraverso le leggi dello

Stato.27

Sotto tale ultimo profilo si può rilevare che concorrono a regolare i fatti

dello sport: a) norme comunitarie applicabili che entrano direttamente

26 MARANI TORO I. , Gli ordinamenti sportivi, Giuffrè, Milano, 1977, pag. 5.

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nell’ordinamento giuridico italiano. Ad esempio l’art. 2 del Trattato di Roma

per il quale, lo sport, seppur non espressamente disciplinato, rientra nel diritto

comunitario in quanto attività economica; b) leggi statali e regionali di

produzione specifica; c) leggi statali e regionali comunque applicabili; d) norme

ordinamentali transnazionali; e) norme ordinamentali nazionali.

A livello operativo, la prima scelta che impone un sistema di fonti di

questo tipo e quella se avvalersi o no del metodo pluralistico.

Il quadro ora delineato è il frutto di un’evoluzione assai contrastata,

tutt’altro che lineare e che ha visto per un lungo periodo il fenomeno sportivo

sottovalutato dal punto di vista della scienza del diritto.

I contributi dottrinali inoltre, spesso sono stati disorganici e frammentari

e gli interventi della magistratura infelici. Emblematico a tal proposito fu l’iter

che portò alla promulgazione della legge n.91/1981 sul professionismo sportivo.

Il 4 luglio 1978, il pretore Costagliola, a seguito di un esposto dell’allora

presidente Campana dell’Associazione Italiana Calciatori, blocca a Milano il

calcio-mercato.

Il provvedimento del pretore, frutto di un’erronea interpretazione sulle

norme che regolavano il trasferimento degli sportivi professionisti era anche il

sintomo di un vuoto legislativo in materia di sport professionistico.

L’intervento pretorile, per quanto improvvido e che vide anche

l’intervento dei carabinieri che fecero irruzione nei saloni dell’albergo milanese

Leonardo da Vinci, allora sede delle contrattazioni, ebbe però il merito di porre

l’attenzione sulla necessità di approntare una normativa dedicata al lavoro

sportivo.

27 In riferimento a questa classificazione : COCCIA M., DE SILVESTRI A., FORLENZA O., FUMAGALLI L.,

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Il pretore Costigliola infatti, ritenendo che il lavoro del calciatore fosse in

ogni suo aspetto riconducibile ad un rapporto di lavoro subordinato, ne aveva

applicato la normativa, rilevando delle possibili irregolarità nelle norme che

vietavano l’intervento di mediatori nelle pratiche attinenti al trasferimento dei

calciatori.

Esattamente una settimana dopo, l’allora sottosegretario alla Presidenza del

Consiglio del Governo Andreotti, onorevole Evangelisti, si fece promotore di

una riunione dei ministri competenti al fine di studiare il problema.

Da quel momento serviranno oltre due anni di consultazioni e riunioni prima di

arrivare all’emanazione di una legge che definiva finalmente lo status giuridico

dello sportivo professionista.

È comunque possibile, nel ripercorrere la storia del diritto dello sport che

vede nella legge n.91 la sua pietra miliare, seppur con le cautele e i limiti che

impongono le periodizzazioni e le schematizzazioni in genere, distinguere tre

fasi di sviluppo della normativa.

Queste vicende sono in larga parte riconducibili alle problematiche insorte

attorno al mondo del calcio: il fenomeno sportivo più rilevante sotto il profilo

economico oltre che sotto quello sociale nel nostro Paese.

La prima fase si colloca tra la legge istitutiva del CONI ed appunto la

legge n.91/1981 sul professionismo sportivo.

In questa fase è possibile rilevare il disinteresse da parte dello Stato per le

istituzioni sportive, il monopolio di fatto della giustizia interna e, quale

principio informatore dell’intero periodo, sottolineare una concezione idealistica

e romantica dello sport di evidente derivazione olimpica.

MUSUMARRA L., SELLI L., Diritto dello Sport, Le Monnier , Firenze, 2004, p. 5.

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Lo Stato, dall’emanazione della legge istitutiva del CONI, avvenuta nel

1942 e che ha dovuto attendere 22 anni per avere un suo decreto di attuazione,

ha lasciato, fino alla legge sul professionismo sportivo, le federazioni

praticamente abbandonate a se stesse in una situazione simile ad una sostanziale

deregulation.

Questa situazione ha finito così per legittimare il monopolio fattuale della

giustizia endoassociativa.

Emblematica a riguardo l’affermazione di un giurista come Dini che, negli

anni Settanta, arrivava ad affermare che l’autodichia delle varie federazioni si

sarebbe basata su un’ipotesi di diritto pubblico negativo, costituita dal

disinteresse dei pubblici poteri.28

Lo sport in questa fase appare come “un impulso generoso e liberissimo”,

come uno “sforzo lussuoso che si profonde a piene mani senza speranza di

ricompensa alcuna”29.

Viste simili premesse, veniva considerato soltanto lo sport dilettantistico,

mentre quello professionistico appariva come una forma anomala ed impura

quando addirittura non era percepito come un’indesiderata manifestazione

degenerativa.

All’epoca, una presunta intrinseca incompatibilità fra ogni forma di sport

ed economicismo (così a riguardo Avery Brundage allora presidente del CIO:

“Sport is sport, business are business”), ha comportato una messa al bando del

professionismo e la conseguente rigida applicazione delle regole olimpiche in

tema di ammissione o di esclusione dai Giochi.

28 DINI P., Le basi dell’autonomia normativa nel diritto sportivo, in “Rivista di diritto sportivo”, 1975, pp. 229-237. 29 ORTEGA Y GASSEM, Il tema del nostro tempo, tra. It. ,Milano 1964.

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Inoltre, ad atleti e società era proibito fare “disdicevole commercio della

loro immagine”.

Il diritto stesso, in questa prima fase, fatica a trovare una sua precisa

collocazione nel contesto delle organizzazioni sportive.

In questo periodo circolano le tesi sul pluralismo giuridico avanzate da

Cesarini Sforza, che, seppur recepite da alcuni autori come Giannini30, negli

anni Quaranta, appaiono per parte importante della dottrina come quella

sostenuta da Carnelutti31 come una “sorta di infatuazione” che Calamandrei

ancora nel 1965 considera “destinata a regnare nel puro olimpo della teoria”

Da un punto di vista più generale, non limitato solamente al diritto dello

sport, già Santi Romano, in precedenza, aveva permesso una lettura del

fenomeno ordinamentale nella sua celeberrima opera “L’ordinamento

giuridico” nella quale questo veniva definito come “un’entità che si muove in

parte secondo norme, ma, soprattutto, muove, quasi come pedine in uno

scacchiere le norme medesime, che rappresentano piuttosto l’oggetto e anche il

mezzo della sua attività, che non l’elemento della sua struttura”32.

Il diritto applicato risultava comunque distante e molto più arroccato su di

un atteggiamento di tipo conservatore rispetto a quelle che erano le nuove

proposte della dottrina.

Negli anni Sessanta, infatti, trovavano ancora spazio le soluzioni che

proponevano la totale intrinseca incompatibilità fra sport e diritto e

consideravano il diritto sportivo composto da norme che nulla hanno a che fare

30 GIANNINI M.S., Prime osservazioni intorno agli ordinamenti giuridici sportivi, in Riv. Dir. Sportivo, 1949, pag. 10-28. 31 CARNELUTTI F, Figura giuridica dell’arbitro sportivo, in Riv. Trim. dir. Proc. Civ., 1953, pag. 11. 32 ROMANO S., L’ordinamento giuridico, Pisa, 1918, p.48.

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con il diritto comune. Le norme applicabili al diritto sarebbero infatti quelle del

puro e semplice fair play.

In realtà, una situazione di questo tipo, era dovuta al fatto che lo sparuto

gruppo di giuristi che aveva trattato la materia, proveniva per lo più da contesti

vicini agli ambienti federali ed aveva per questo affrontato le problematiche in

maniera difensiva con l’obiettivo di conservarne l’autonomia33.

Si voleva prima di tutto, legittimare l’esistenza di istituti cardine di

giustizia interna.

Primo fra tutti quello della responsabilità oggettiva che, non in linea con

le leggi dello Stato, veniva di continuo messo in discussione.

Le prime fughe dalla giustizia endoassociativa, iniziarono negli anni

Settanta, quando questa cominciò ad apparire inadeguata rispetto alle

conflittualità insorte intorno al mondo del calcio in cui confluivano sempre

maggiori interessi d’ordine economico e lavoristico.

I giuristi, in questo momento, iniziano a dover analizzare la materia con

maggior rigore scientifico, almeno riguardo a quei settori di volta in volta

interessati dai singoli casi concreti sollevati.

Il diritto sportivo a questo punto non poteva più limitarsi allo studio delle

norme relative a quelle provenienti dalle proprie istituzioni ma, senza poter

prescindere dal riferimento normativo costituito dalla Legge n. 426/1942

istitutiva del CONI , risultava definitivamente sottoposto all’osservanza dei

principi costituzionali e delle norme ordinarie comunque applicabili.

33 MIRTO P., L’organizzazione sportiva italiana.Autonomia e specialità del diritto sportivo, in “Riv. dir. sport.” , 1959, pp. 6-69.

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Nel 1975 Luiso pubblica la prima opera espressamente dedicata alla

giustizia sportiva che segna un momento decisivo per il progresso scientifico

della materia e per la sua fondazione in chiave moderna.

Il passaggio ad una successiva fase, alle soglie degli anni Ottanta, si deve

alla già citata vicenda che aveva portato nell’estate del 1978 al blocco del

calcio-mercato.

Un provvedimento del tutto infelice che ebbe, come già ricordato, tuttavia

il merito di far maturare, nella classe politica, il convincimento di doversi porre

in maniera attiva nei confronti di un settore della vita economica e sociale che in

quel momento era quanto mai affamato di certezze giuridiche.

Questa seconda fase può convenzionalmente avere come data di

riferimento il 1981, anno di emanazione della legge sul professionismo sportivo.

In questo modo il legislatore, facendo seguito ad un decreto tampone

adottato tre anni prima, usciva dall’impasse creato dal provvedimento pretorile

succitato.

La nuova legge appariva così orientata a confermare sul piano normativo

una dimensione di fatto di realismo economico.

In questo modo si superavano le ipocrisie e la retorica sportiva che si

rifiutava di vedere, in un mondo come quello del calcio professionistico dei

primi anni ottanta, anche una grossa occasione di guadagno per gli imprenditori

e gli sportivi che ne facevano parte. Trovava in questo modo riscontro anche sul

piano normativo, una situazione che riconosceva nelle società calcistiche delle

importanti finalità economiche legate in maniera inscindibile e biunivoca a

quelle più prettamente sportive.

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Lo sport a questo punto emergeva a livello di ordinamento generale e

sarebbe da lì in poi stato oggetto di successive e periodiche attenzioni da parte

del legislatore.

Usciva così da una situazione che lo faceva apparire come una sorta di

“recinto magico” (Zauli 1962) che vedeva il suo ingresso precluso al diritto.34

Oltretutto, l’entrata in vigore della nuova normativa, provocava la presa di

coscienza di altri diritti costituzionalmente garantiti ma fino allora compressi,

aprendo la via a nuovi motivi di ricorso ai giudici dello Stato.

Questi diritti erano quelli di associazione, di impresa e, non ultimo, di

adire le vie legali.

A quel punto, aperta la porta del “recinto magico” e chiusa la fase

dell’esclusività della giustizia endoassociativa, si doveva registrare la presenza

di due sistemi giudiziali e prendere atto dei reciproci contrasti e dell’intolleranza

esistente fra gli stessi.

Il momento più grave che questo conflitto fu nelle pretese destabilizzanti

di sconvolgere i risultati conseguiti sul campo, di riscrivere i calendari delle

gare ed imporre persino il turno degli arbitri e che trovarono l’avallo sia della

magistratura civile, adita con successo ex art. 700 C.P.C., sia di quella

amministrativa sia adottò decisioni analoghe in sede sospensiva.

In questo periodo come si è detto venne definitivamente sdoganato

l’economicismo.

Anzi, la legge n. 91/1981, legittimava espressamente l’esistenza di società

sportive e di lavoratori sportivi professionisti, permettendo così ad

34 ZAULI B. , Essenza del diritto sportivo, in “Rivista di diritto sportivo”, 1962, pp. 229-239.

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imprenditoria e mondo sportivo di poter coniugare le proprie complementari

esigenze.

Le esigenze maggiori in questo senso, erano avvertite anche allora dalle

società calcistiche che in quel periodo (ed oggi niente di nuovo sotto il sole),

presentavano bilanci prossimi al collasso, ieri come oggi, frutto di gestioni

dissennate nella ricerca spasmodica e qualche volta megalomane dell’eccellenza

tecnica.

Appare facile comprendere come queste, e dietro di loro gli atleti spinti

dalle associazioni di categoria come l’Associazione Nazionale Calciatori,

spingessero per aprirsi ad operazioni di sponsorizzazione e merchandising.

Un ulteriore conferma nel senso di un mondo dello sport ormai profit

oriented si può ricavare anche nell’evoluzione del titolo richiesto per la

partecipazione degli atleti alle Olimpiadi, fino al 1978 esclusivamente riservate

agli sportivi dilettanti.

Da quel momento in poi infatti, prima attraverso il grimaldello dei

rimborsi spese, successivamente tramite l’opportuna modifica della regola 26

della Carta Olimpica, si assistette al rientro di quegli sport miliardari una volta

esclusi quali il calcio, il tennis ed il basket.

L’attuale Carta Olimpica, in vigore dal 12 novembre 1999, impedisce

solamente che la partecipazione all’evento olimpico possa essere subordinata a

qualsiasi forma di remunerazione pecuniaria.

In questo modo, solo in quel contesto, viene escluso che le prestazioni

atletiche assumano, in quell’occasione, un carattere professionale, aprendo in

pratica la via a tutta la schiera di atleti professionisti con l’unica eccezione del

pugilato, ad oggi ancora aperto ai soli dilettanti.

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L’attenzione del giurista, in questa seconda fase, risulta attratta dalle

questioni di interpretazione poste dalla legge sul professionismo sportivo,

modellata sulle esigenze del professionismo calcistico e caratterizzata da un

travagliato iter formativo.

Uno dei momenti più significativi del dibattere dottrinale era in quel

momento relativo alla determinazione della natura del rapporto di lavoro

sportivo.

La legge n. 91/1981 conclude la discussione ribaltando la posizione

iniziale rispetto alla questione e, non senza provocare scalpore, stabilendo la

natura subordinata del rapporto di lavoro sportivo.

L’attenzione, come era inevitabile, si spostò ben presto su di un tema

destinato a divenire centrale: quello delle “due giustizie”, fra l’altro

continuamente alimentato dai periodici interventi della magistratura fra cui

anche quella penale.

È proprio la magistratura penale, in occasione degli scandali provocati dal

calcio scommesse, instaurando altrettanti procedimenti sull’erroneo presupposto

che, in quel caso, l’illecito sportivo integrasse anche quello penale, ad offrire al

legislatore l’ulteriore spunto per l’emanazione della legge n. 401/1989.

Questa legge infatti, oltre a contemplare misure per la repressione delle

condotte violente negli stadi, previde espressamente il reato di frode sportiva.

La terza fase relativa all’evoluzione, nel nostro Paese, si apre nel 1995, a

seguito della celeberrima sentenza Bosman.35

Bosman, giocatore di serie B belga, si trovò, alla scadenza del rapporto

contrattuale con la sua società di appartenenza, limitato nella sua libertà di

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circolazione: lo spostamento ad un’altra società era reso infatti più difficile in

forza di un’indennità (il parametro) che la nuova società avrebbe dovuto

corrispondere per il trasferimento; inoltre, la disciplina nazionale poneva limiti

al tesseramento di cittadini comunitari ed extracomunitari.

Connotati di questa fase sono la nuova dimensione di “sovranazionalità” e

la definitiva affermazione del carattere della “piena imprenditorialità”. Il

concetto di sovranazionalità è stato oggetto dello studio da parte del diritto del

lavoro che ne individua due variabili globali ed una variabile sub globale.

La prima variabile globale è detta autoreferenziale e si riferisce ai codici

di condotta che le grandi imprese multinazionali adottano ed impongono ai

propri fornitori.

Caratteristica di questo insieme di regole è di essere un ordinamento

privato o “private governance”che, sul piano sostanziale tende a smentire

l’assunto che prevede che i diritti esisterebbero solo ove vi sia lo Stato.

Al contrario, secondo questa impostazione, anche i diritti dei lavoratori

dipenderebbero dal mercato, a prescindere dal fatto che l’ottica di sviluppo sia

quella della funzionalizzazione del lavoro in favore del mercato o viceversa

tenda alla umanizzazione del mercato nell’interesse del lavoratore.

La seconda variabile globale è quella dei core labor standards, frutto delle

riflessioni e dell’impulso dato dall’OIL, dai vertici delle Nazioni Unite ed altri

organismi internazionali quali l’OCSE.

Presupposto dei core labor standards è l’idea che sia possibile individuare

un nucleo fondamentale di regole a tutela di un insieme di principi e diritti

incontestabili poiché universalmente riconosciuti.

35 Sent. Corte di Giustizia europea, 15 dicembre 1995, caso Bosman, causa C-415/93 in Riv. dir. Sport

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Questi sono: il diritto a non essere discriminati nel lavoro, la libertà di

associazione, la libertà di associazione e di contrattazione collettiva, la tutela del

lavoro forzato, la proibizione dello sfruttamento del lavoro minorile. Questi

diritti inoltre, in quanto configurabili quali diritti umani, devono trovare tutela

ed attuazione a prescindere dal diverso grado di prosperità e sviluppo del

mercato dei vari paesi.

La variabile subglobale è invece quella della integrazione europea ed ha

in comune con le altre che, anche in questo caso, l’ordinamento comunitario si

presenta come una forma di governo senza stato. La peculiarità di questa

variabile è invece quella di discendere dalla più articolata strutturazione

dell’ordinamento comunitario, che si differenzia da un semplice sistema

giuridico di diritto internazionale per assumere invece tratti più marcati di

costituzionalità.36

Sempre riguardo alla sovranazionalità, occorre precisare che la Corte di

Giustizia, già da tempo aveva affermato la soggezione delle istituzioni sportive

al Trattato di Roma ogni qual volta le loro attività presentassero risvolti di

carattere economico.

Solo con la decisione provocata dal calciatore belga però, le istituzioni

sportive, sperimentarono come non fosse possibile farsi scudo di un’inesistente

sporting exception ed in questo modo sottrarsi alla forza imperativa del diritto

comunitario.

1996, pp. 541 ss. 36 Per un’analisi più approfondita sui concetti di sovranazionalità e le sue variabili: BARBERA M., Dopo Amsterdam, I nuovi confini del diritto sociale comunitario, Promodis, Brescia, 2000, pp 23-44.

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Anzi, il diritto comunitario, da quel momento in poi, avrebbe inciso

sempre in maggior misura all’interno delle istituzioni sportive, come è

dimostrato dalle successive pronunce intervenute in tema di controversie

sportive dai risvolti sovranazionali.

Per quanto invece attiene al profilo della “piena imprenditorialità”

riconosciuta alle società sportive, occorre precisare che alla data

dell’emanazione della sentenza Bosman, le nostre società professionistiche, da

tempo marketing oriented, guardavano al modello che aveva già consentito alle

società inglesi di realizzare in modo pieno ed incondizionato la propria

imprenditorialità.

Queste infatti ricorrevano all’azionariato popolare, alla quotazione in

borsa, somigliando in tutto e per tutto a vere e proprie holdings con interessi

diversificati nei più svariati settori del mercato.

Occasione per eliminare il divieto dello scopo di lucro, fu in Italia proprio

quell’offerta dalla sentenza Bosman che imponeva la modifica della legge n.

91/1981, nella parte in cui prevedeva l’istituto oramai illegittimo del cosiddetto

parametro.

A questo punto “l’industria” dello sport professionistico non aveva più

ostacoli per essere assimilata a quella dell’entertainment ed, in particolare, a

quella delle performing arts industries.

Ciò che segna questa terza fase in modo più significativo, è l’intervento da

parte del Legislatore che, con due provvedimenti normativi ha avvicinato

l’ordinamento sportivo a quello statale, facendoli muovere dalle precedenti

posizioni di intransigenza caratterizzate dall’arroccamento difensivo di quello

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sportivo e dall’auotolimitazione statuale in tema di azionabilità delle pretese

endoassociative.

Il D.Lgs. Melandri n. 242/1999, abrogante la precedente legge n.

426/1942 e l’art. 14 della legge n. 91/1981, costituisce ora, dopo le modifiche

apportate dal D. Lgs. n. 15/04, il nuovo referente dell’intero movimento

sportivo nazionale.

Il legislatore delegato, con questo provvedimento, ha voluto contemperare

le peculiari esigenze di autodichia delle federazioni sportive, con l’irrinunciabile

sovranità dello Stato.

Viene, con queste finalità, consegnato al CONI, ente inserito nel contesto

sovranazionale dello sport e dotato di elevata potestà statutaria, il compito di

svolgere una funzione di custode e di regolatore dei valori di entrambi gli

ordinamenti. Ruolo che da parte sua il CONI ha accettato di buon grado,

restando così in sintonia con quanto previsto dal suo statuto che, nell’art. 1

autodefinisce l’ente “autorità”.

Il CONI infatti, ha subito riconosciuto il principio del giusto procedimento

nelle controversie endoassociative (art. 2 n. 8) , prevedendo al proprio interno la

Camera di Conciliazione e Arbitrato (artt. 12 e 22 n. 3) che, provvista

dell’indispensabile requisito della “terzietà”, del quale difettano invece le

commissioni federali, si pone oggi come strumento alternativo, quindi

preclusivo alla giustizia dello Stato.

Le Federazioni sportive, dal canto loro, si sono impegnate ad eliminare

discrasie con l’ordinamento generale, come confermato dalle dichiarazioni di

intenti contenute all’interno dei propri statuti ove si afferma che si vogliono

intrattenere “rapporti di leale collaborare con le autorità pubbliche” (art.2/2

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FIGC) e di essere intenzionate ad operare nel “rispetto dei principi

costituzionali” (art. 1/1 FIP).

Tale collaborazione risulta poi rinfrancata dalle modifiche apportate ad

istituti come il vincolo a tempo indeterminato degli atleti dilettanti, che

contenevano elementi sicuramente incompatibili con le leggi dello Stato.

Con riferimento più specifico alle problematiche giustiziali, sembrava

potesse essere percorsa la strada del contemperamento che avrebbe trovato

garanzia nella totale attrazione delle Federazioni sportive nell’orbita privatistica

sotto la guida e l’indirizzo del CONI.

A determinare l’insindacabilità esterna delle istanze endoassociative non

sarebbero state infatti velleitarie ambizioni di incondizionata autoesenzione, ma

questa avrebbe dovuto essere il frutto di una precisa scelta del Legislatore e del

Costituente stesso.

Tale libertà di azione sarebbe quindi stata concessa nella misura in cui

questi offrono diretta tutela delle manifestazioni dell’autonomia collettiva senza

porsi in contrasto con altri principi costituzionali o specifiche norme di legge.

Tuttavia, questa prospettiva dovette arenarsi a causa dell’ambiguità della

disciplina complessiva relativa alle Federazioni sportive, la recalcitranza da

parte di larga parte della dottrina ad abbandonare schemi che non prevedessero

la doppia natura delle giustizie e, principalmente, la visione

“panamministrativistica” dei Tar aditi successivamente all’entrata in vigore del

decreto Melandri.

Questa situazione poneva le premesse per l’emanazione del D.L. 19

agosto 2003 n. 220 convertito con modifiche dalla legge 17 ottobre 2003 n. 280.

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Come si legge nella relativa relazione d’accompagnamento, il Governo

avvertì la necessità di ricorrere alla decretazione d’urgenza per far fronte ad una

situazione di contenziosi aperti e con l’obiettivo di razionalizzare i rapporti fra

ordinamento sportivo ed ordinamento generale in termini di giustizia sportiva

chiarendo inoltre quali fra questi rapporti debbano essere considerati

giuridicamente rilevanti.

Tutto ciò ha impresso un’accelerazione al trend del contemperamento,

fenomeno che appare oggi irreversibile.

2.2. Lavoro e sport nella costituzione

Con una scelta molto chiara e definita, il Legislatore costituente sancisce

all’art. 1, aprendo i principi fondamentali, che “L’Italia è una Repubblica

democratica fondata sul lavoro”.

Una statuizione di questo tipo, non sembra lasciare spazio a dubbi

sull’importanza attribuita dalla Costituzione al Lavoro che risulta essere anzi un

elemento irrinunciabile ed informatore dell’intera esperienza repubblicana.

Infatti, la Carta fondamentale, vuole anche in quest’ ambito, esprimere il

mutato quadro di valori di cui vuole essere espressione e segnare anche in

questo campo il distacco che la separa dall’esperienza fascista.

Le regole relative al diritto sindacale, segnano un momento significativo

nella manifestazione di questo cambiamento.

La legge 3 aprile 1926, n. 563 aveva segnato emblematicamente,

svuotando di fatto la libertà sindacale, il passaggio allo stato totalitario.

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Così, all’art. 39, la Costituzione repubblicana segna il ripristino della

libertà sindacale37 e, con l’art. 40, si spinge oltre riconoscendo allo sciopero il

valore di vero e proprio diritto soggettivo.

In questo modo il costituente, compiendo un balzo in avanti rispetto a

quanto rappresentato dal quadro normativo prefascista, poneva le basi

normative necessarie al più ampio dispiegamento dell’autonomia negoziale nei

rapporti di lavoro.

Un’attenzione particolare, oltre che nei principi fondamentali, è dedicata

al lavoro nelle norme del Titolo III della parte prima, dedicato ai rapporti

economici.

Mentre i riferimenti contenuti negli artt. 1 e 35 sono da considerarsi

generici ed indeterminati, altre norme della Carta sanciscono diritti sociali

specificamente riconosciuti ai lavoratori subordinati.

A riguardo occorre ricordare l’art. 36 che enuncia il diritto ad una

retribuzione sufficiente, al riposo settimanale ed alle ferie retribuite e l’art. 37

che stabilisce il diritto alla parità per lavoratrici e minori.

Il diritto stesso al lavoro inoltre, è enunciato, all’art. 4, quale diritto sociale

garantito nella misura in cui la Repubblica s’impegna a promuovere le

condizioni che ne rendano effettivo l’esercizio attraverso una politica

economica orientata all’obiettivo della piena occupazione.38

Di rilievo significativo per il diritto del lavoro sono il principio di

eguaglianza dell’art. 3, mutuato dalla tradizione liberale ed operante sia sul

piano formale, al primo comma, che su quello sostanziale, nel secondo comma,

là dove ammette l’esistenza di ostacoli di ordine economico e sociale che

37 Sull’art. 39 della Costituzione e sulle ragioni della sua mancata attuazione: PERA G., Problemi

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occorre rimuovere per consentire “l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori

all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” .

L’art. 41 inoltre, contiene il riconoscimento della libertà di iniziativa

economica privata, limitando tale diritto stabilendo che questa “non può

svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla

sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana”.

La Costituzione italiana invece, per lo meno nel suo testo originario, non

si rivolge direttamente al fenomeno sportivo, né per riconoscere i soggetti che

operano in quest’ ambito, né per indicare quali siano le competenze in materia

attribuite agli Enti pubblici territoriali contemplati nell’art. 114 della

Costituzione stessa.

Solo attraverso la revisione costituzionale attuata dalla legge cost. 18

Ottobre 2001, n. 3, ha fatto ingresso un importante riferimento allo sport.

All’art. 117, comma terzo, nell’ambito della definizione delle materie da

doversi attribuire alla legislazione concorrente, nel quadro più complessivo

dell’attribuzione della potestà legislativa, s’inserisce l’“ordinamento sportivo”.

La legislazione concorrente, non è altro che un’attribuzione complessa di

potestà legislativa, là dove è previsto che sia affidata alle Regioni la potestà

legislativa di dettaglio ed allo Stato il compito della “determinazione dei

principi fondamentali della materia.

Da quanto visto sembrerebbe potersi concludere che la Costituzione

preveda ora l’esistenza di una materia definita “ordinamento sportivo” e che ne

attribuisca la competenza a soggetti pubblici, lo Stato e le Regioni, riservando al

costituzionali del diritto sindacale italiano, Milano, 1960, p . 43. 38 Biagi M., Istituzioni di diritto del lavoro, Giuffrè, Milano, 2001, pp. 18-21.

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primo il compito di definirne i principi fondamentali ed alle seconde quello

della specificazione ed attuazione della concreta e definita disciplina.

Il problema è in realtà più complesso.

Per la sua soluzione infatti, occorre non dimenticare la realtà

sopranazionale del fenomeno dello sport e della sua organizzazione, sia le

evoluzioni interpretative che recentemente hanno coinvolto la lettura dell’art.

117 Cost39.(A questo riguardo sentenza Corte Costituzionale 1 ottobre 2003 n.

303 in Dir.e Giust. 2003, f. 37, p. 58).

Senza dubbio tuttavia, è possibile affermare che la Costituzione non

contiene riferimenti diretti al fenomeno sportivo ma che sia altrettanto vero

poter affermare che lo sport, per sue caratteristiche e finalità, costituisce oggetto

di considerazione e disciplina indiretta da parte di alcune disposizioni

costituzionali.

Distaccandosi dal fenomeno dell’inquadramento del fenomeno sportivo

dalla prospettiva che lo vede come fenomeno organizzato in un “ordinamento

sportivo”, possono essere facilmente richiamate una pluralità di disposizioni

costituzionali facilmente applicabili al fenomeno sportivo.

In particolare giova ricordare:

a) l’art. 2 Cost., in base al quale “la Repubblica riconosce e garantisce i

diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove

svolge la sua personalità”;

b) l’art. 18 Cost., secondo il quale nel primo comma “i cittadini hanno

diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono

vietati ai singoli dalla legge penale”, con i limiti del divieto delle associazioni

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segrete e di quelle che perseguono finalità politiche attraverso associazioni di

carattere militare;

c) l’art. 32 Cost., che al primo comma afferma che “la Repubblica tutela

la salute, come fondamentale diritto dell’individuo ed interesse della

collettività”.

Ognuna delle disposizioni citate può essere applicata in misura diversa

allo sport, inteso sia come pratica da svolgersi come singolo, sia insieme ad altri

soggetti, al fine di migliorare la propria salute psicofisica sia come valida forma

di relazione all’interno della collettività.

Appare evidente come, la possibilità di riferire le disposizioni

costituzionali sopraccitate al fenomeno sportivo, sia in larga misura correlata

alla definizione stessa che del termine sport si voglia considerare.40

Una definizione accettabile, senza perderci nella ricerca di una definizione

che presenta problematiche molto complesse, è, per lo meno in riferimento

all’epoca contemporanea, quella che definisce lo sport l’insieme di tutti quei

giochi che sono organizzati secondo un sistema di regole che ne stabilisce

precisamente le modalità di svolgimento; che prevedono l’impiego di abilità e

competenze sia fisiche che intellettuali; che sono contraddistinte dal carattere

competitivo.

Così, dal concetto di sport, sono esclusi sia i giochi completamente

“ludici”, che, pur presentando anch’essi un’attività fisica ed intellettuale, sono

39A q u e s t o r i g u a r d o s e n t e n z a C o r t e C o s t i t u z i o n a l e 1 o t t o b r e 2 0 0 3 n .

3 0 3 i n D i r . e G i u s t . 2 0 0 3 , f . 3 7 , p . 5 8 .

40 ROVERSI A. , Sport (voce), in “Enciclopedia delle scienze sociali”, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma, 1998, pp. 303-311.

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praticati come fini a se stessi, sia le attività che rientrano nelle semplici attività

motorie.

È necessario però opporre a questa definizione che pone l’accento sul

carattere competitivo dello sport, lo specifico dettato normativo dell’art. 1, legge

14 dicembre 2000 n. 376 che individua la finalità dell’attività sportiva nella

“promozione della salute individuale e collettiva”.

Partendo da questa definizione di sport, bisogna rilevare di come lo sport

come organizzazione, sia di base che complessa, sia come fenomeno sociale,

rientrino nelle previsioni generali degli artt. 2 e 18 della Costituzione.

Risulterebbe infatti come una negazione della stessa essenza dello sport

non ritenere quest’ultimo un elemento fondamentale nella manifestazione e

nello sviluppo della personalità umana ed al contempo non rilevare come spesso

sia uno strumento per il mantenimento della propria salute psicofisica.

In questo senso basti a titolo di esempio considerare se, ai sensi dell’art 2

della Costituzione, si potesse ritenere legittima una norma di produzione

pubblica che vieti la pratica sportiva anche soltanto a livello individuale.

Risulta evidente che in questo caso occorrerebbe propendere per

l’illegittimità, vista la manifesta assurdità di una norma tesa a precludere la

possibilità di praticare l’esercizio fisico coordinato e indirizzato verso precise

finalità, attività che costituisce di per sé un diritto inviolabile dell’uomo.41

L’attività sportiva tuttavia, non in tutti i casi costituisce un’attività

solitaria dell’individuo.

Anzi capita in molti casi che quest’ultimo la svolga in gruppo, spesso

proprio in conseguenza delle modalità di svolgimento dello sport praticato che,

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anche in uno sport in uno sport cosiddetto individuale, l’attività del singolo

richieda la contestualizzazione ed il coordinamento con altre persone.

Un esempio può essere costituito dalle discipline di corsa nelle gare

dell’atletica leggera, dove il confronto attraverso la gara fra atleti che svolgono

la medesima attività, costituisce mezzo di stimolo permettendo il miglioramento

delle singole prestazioni individuali.

La possibilità di inserire la pratica della attività sportiva tra quelle

manifestazioni che contribuiscono a formare la categoria dei diritti inviolabili

dell’uomo, comporta la preesistenza del diritto alla pratica sportiva rispetto alla

attribuzione statale.

In effetti come osserva Di Giovine, la Costituzione riconosce tali diritti,

espressione che conferma la natura immanente di tale categoria rispetto a

qualsiasi attribuzione statale.42

In particolare la ricomprensione della pratica sportiva tra i diritti

inviolabili dell’uomo si riferisce:

- alla pratica sportiva svolta singolarmente;

-alla pratica sportiva intesa come fenomeno che interessa una pluralità di

individui non organizzati in una formazione sociale ma accomunati proprio dal

fatto di svolgere la stessa attività;

-alla pratica sportiva svolta in organizzazioni sociali strutturate.

L’articolo costituzionale cui lo sport può far riferimento riguardo alla sua

dimensione sociale ed alle sue consequenziali forme di organizzazione è l’art.

18, relativo alla libertà di associazione.

41 In maniera sintetica può ricordarsi che, secondo Di Giovine 1998, p. 10, “usando il verbo “riconoscere”, la Costituzione vuole evidentemente intendere che non è la Repubblica ad attribuire i diritti inviolabili, ma che questi già esistono indipendentemente da ogni attribuzione statale.

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Rispetto a quanto brevemente osservato, si può ritenere che lavoro e sport

godano di una convincente tutela fornita loro dalla Carta fondamentale del

nostro ordinamento.

In maniera più generale poi, risulta corretto rilevare che lavoro e sport,

presentano tutele tanto più incisive ed irrinunciabili poiché fenomeni che

coinvolgono l’individuo nelle manifestazioni più profonde della propria

personalità.

2.3 . Le fonti del diritto sportivo

Il diritto del lavoro, e così il diritto del lavoro sportivo, faticano, ad ogni

modo, a trovare una loro precisa collocazione all’interno della classica

bipartizione sistematica fra diritto pubblico e diritto privato.43

Questo è costituito, infatti, in maniera generale dall’insieme di norme che

regolano il rapporto di lavoro.

Tale rapporto infatti, in accordo con una tradizione volta a considerare il

lavoratore come il contraente debole, non era ritenuto suscettibile di compiuta

tutela qualora fosse affidato ad una regolamentazione esclusivamente pattizia.

L’impianto normativo che caratterizza il diritto del lavoro risulta di natura

tendenzialmente privatistica su cui però s’innestano norme di carattere

42 DI GIOVINE A. , Art. 2: Diritti inviolabili e doveri inderogabili, in AA.VV. ” Stato della

Costituzione”, Il Saggiatore, Milano, 1998, pp. 9-12. 43 Perone G., Lineamenti di diritto del lavoro. Evoluzione e ripartizione della materia, tipologie lavorative e fonti, Torino, 1999.

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pubblicistico, tese a garantire il soddisfacimento di interessi di più ampia

portata.

Il diritto del lavoro appare quindi estremamente eterogeneo,

ricomprendendo norme di diritto privato, volte a disciplinare il rapporto di

lavoro in sé considerato e norme di diritto pubblico prevalenti essenzialmente

nella parte del diritto del lavoro che prende il nome di legislazione sociale.

Sono inoltre sempre ricomprese sotto la denominazione di diritto del

lavoro le norme di diritto interno ed internazionale, di diritto sostanziale,

processuale di diritto costituzionale, amministrativo, penale e tributario.

Devono poi essere incluse all’interno di quest’ ambito norme dei contratti

collettivi che regolano il c.d. diritto sindacale e che, pur non appartenenti al

diritto statale, vincolano alla loro osservanza i soggetti rappresentati dai

sindacati.

Prescindendo dall’obiettivo di inquadrare quello del lavoro in una o in

un’altra branca del diritto, sembra invece utile evidenziarne la specialità, in

ragione della unitarietà dei principi che ispirano l’intero sistema giuslavoristico.

Come già visto, la Costituzione italiana, quale legge fondamentale dello

Stato posta al vertice della gerarchia delle fonti del diritto, dedica particolare

attenzione al lavoro nella sua accezione che lo vede come attività concorrente al

progresso materiale e spirituale della società.

In particolare si è già avuto modo di ricordare l’impegno del costituente in

favore di un’energica tutela dei diritti dei lavoratori, in special modo di quelli

subordinati, impegnando la Repubblica a “ rimuovere gli ostacoli di ordine

economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei

cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva

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partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica economica e

sociale del Paese (art. 3, 2°comma Cost.)

Occorre invece qui richiamare quanto disposto dall’art. 35, 2°comma

secondo cui la Repubblica “ promuove e favorisce gli accordi e le

organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro”.

Attraverso quest’ articolo, assumono una grande importanza le norme di

diritto internazionale del lavoro di origine pattizia che provengono dalle

organizzazioni internazionali autorizzate ad emanare atti vincolanti per gli Stati

membri e da accordi internazionali stipulati con Stati esteri, particolarmente in

materia di emigrazione e di sicurezza sociale.

Tali norme entrano a far parte dell’ordinamento giuridico italiano

attraverso delle leggi ordinarie del Parlamento che, recependone il contenuto, le

collocano al livello di fonte primaria.

La più importante organizzazione internazionale, fonte di produzione

giuslavoristica, è costituita dalla Organizzazione Internazionale del Lavoro

(OIL), istituita nel 1919 con il trattato di Versailles e con l’intento dichiarato di

elevare le condizioni materiali ed intellettuali dei lavoratori di tutti i paesi

aderenti.

Il suo fine istituzionale, anche oggi, resta sempre quello di svolgere

un’attività promozionale nei confronti delle legislazioni nazionali, attraverso

l’emanazione di convenzioni (più vincolanti e caratterizzate da una maggior

efficacia giuridica) e di raccomandazioni.

Altra organizzazione internazionale che opera come fonte di diritto del

lavoro è il Consiglio d’Europa, nato nel 1949 con lo scopo di garantire la

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formazione e la promozione di ideali comuni della preminenza del diritto e del

rispetto del diritto e del rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali.

Nell’ambito che ci riguarda il Consiglio d’Europa ha emanato , nel 1961,

la Carta Sociale Europea, ratificata in Italia con legge 3 luglio 1965, n. 969,

nella quale vengono ribaditi i diritti alla costituzione e alla partecipazione ai

sindacati , alla contrattazione collettiva, all’esercizio dello sciopero, ecc.

Assumono poi particolare importanza, nel diritto del lavoro e così le anche

nel diritto del lavoro sportivo, le fonti comunitarie quali il Trattato istitutivo

della Comunità Europea, i suoi regolamenti, le direttive, le decisioni e le

raccomandazioni, che, sia pur lentamente ma in modo sempre più incisivo,

hanno influenzato l’evoluzione delle legislazioni nazionali dei paesi membri.

I paesi della comunità, dal canto loro, favorendo l’armonizzazione tra le

proprie legislazioni, contribuiscono alla promozione ed al miglioramento delle

condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori (art. 117, 1°comma del Trattato di

Roma).44

Trattati e regolamenti comunitari costituiscono fonti sovranazionali che,

nella gerarchia delle fonti di produzione del diritto, si pongono in posizione

immediatamente subordinata rispetto alla costituzione collocandosi però in una

superiore rispetto alla legge ordinaria dello Stato.

Il giudice nazionale infatti, è tenuto a disapplicare le norme interne

qualora queste risultino in contrasto con le norme comunitarie sopra indicate.

A differenza dei trattati e dei regolamenti, le direttive della Comunità

Europea non sono immediatamente recepimento del loro contenuto.

44 GALANTINO L., Lineamenti di diritto comunitario del lavoro, Torino, 2003.

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Infine, il trattato istitutivo della CE indica,tra le fonti dell’ordinamento

comunitario anche le decisioni, le raccomandazioni ed i pareri, la dove le prime

sono vincolanti per i propri destinatari mentre raccomandazioni e pareri non

hanno valore vincolante.

Peraltro, gli interventi della Corte di Giustizia Europea, attraverso la sua

incessante opera di interpretazione delle norme comunitarie e l’emanazione di

sentenze che riguardano la conformità delle normative45nazionali ai principi

comunitari, favoriscono la formazione di un diritto del lavoro comunitario.

È utile ricordare a tal proposito, che tanto la Corte di Giustizia Europea

quanto la Corte Costituzionale, hanno riconosciuto che, quando le direttive

contengono disposizioni incondizionate e sufficientemente precise, sono

immediatamente applicabili e prevalgono sulle norme interne che i giudici

devono disapplicare.

In questi casi però la loro efficacia è solo verticale, nel senso che la loro

applicazione è invocabile dai singoli solo nei confronti dello Stato e non anche

degli altri cittadini.

Riferendoci nuovamente al diritto interno, si osserva di come il lavoro

trova ampia regolamentazione nella legge ordinaria, sebbene attraverso una

legislazione speciale spesso caotica e frammentaria, che nel tempo è andata

dilatandosi arrivando a coprire quasi per intero la disciplina del lavoro

subordinato che oggi trova nel codice civile una regolamentazione solo

marginale.

45 GAJA G. Introduzione al diritto comunitario, Laterza, Bari 2002.

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Va invece riconosciuto come, nel sistema delle fonti del diritto del lavoro,

una maggiore rilevanza rispetto a quella comunemente riconosciuta, sia da

attribuirsi agli usi normativi.

La norma di riferimento, a tal proposito, è costituita dall’art. 2078 del

codice civile, che ammette l’applicazione degli usi in mancanza di leggi e di un

contratto collettivo e che stabilisce che “ gli usi più favorevoli ai prestatori di

lavoro prevalgono sulle norme dispositive di legge”.

Questa possibilità costituisce una deroga al rigido principio della gerarchia

delle fonti secondo cui le fonti di grado inferiore non possono porsi in contrasto

con quelle di grado superiore a pena di illegittimità.

Il principio che permette una deroga di questo tipo è quello generale del

favor prestatori, secondo cui, quando più norme sono in conflitto fra di loro

prevedendo regole diverse in una stessa materia, deve applicarsi la disposizione

più favorevole anche se di grado gerarchico inferiore.

Da ciò deriva che le norme di legge prevalgono sugli usi meno favorevoli

ai lavoratori; le norme di legge imperative prevalgono sugli usi anche se questi

sono più favorevoli; le norme di legge dispositive cedono di fronte agli usi più

favorevoli ai lavoratori.

Nel diritto del lavoro, accanto agli usi normativi, assumono funzione

normativa anche gli usi aziendali, quelle prassi pacificamente e costantemente

seguite in azienda.

Completano l’analisi delle fonti del diritto del lavoro le c.d. fonti

contrattuali, costituite in particolare dai contratti collettivi stipulati fra le

organizzazioni sindacali dei lavoratori e quelle dei datori di lavoro allo scopo di

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determinare il contenuto del rapporto di lavoro e di disciplinarne lo

svolgimento.

La possibilità per i sindacati di stipulare contratti collettivi vincolanti per

tutti gli appartenenti alle categorie interessate, è prevista dall’art. 39 della

Costituzione, con una norma che ne subordina l’efficacia generalizzata alla

registrazione ed al conseguente acquisto della personalità giuridica da parte dei

sindacati.

Per motivi storici e politici però, i sindacati in Italia non sono mai

divenuti organizzazioni registrate ed operano quindi alla stregua di mere

associazioni di fatto, con la conseguenza che i contratti collettivi da questi

stipulati risultano vincolanti sono per i soggetti che ne fanno parte.

Tuttavia, una serie di fattori ha favorito una forte tendenza espansiva

dell’efficacia del contratto collettivo di diritto comune, anche al di fuori

dell’ambito dei soggetti iscritti al sindacato.

L’attività sportiva, nella sua configurazione di attività lavorativa, gode

dell’applicazione di tutti i principi e delle norme costituzionali in materia di

lavoro oltre che di tutte quelle norme che garantiscono la libertà di espressione

dell’individuo sia come singolo sia nelle diverse formazioni sociali.

In questo modo, seppure in maniera implicita dal momento che manca

ogni riferimento allo sport, è riconosciuto ad ogni cittadino la libertà ed il diritto

di esercitare attività sportiva ai diversi livelli previsti e disciplinati

dall’ordinamento sportivo.

L’elevazione ad interesse pubblico della diffusione e dell’incremento della

attività sportiva su tutto il territorio nazionale ha poi portato il nostro legislatore

ad introdurre, con legge costituzionale del 18 ottobre 2001, n. 31 un esplicito

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riferimento allo sport nell’art. 117 Cost., riconoscendo potestà legislativa alle

regioni in “ materia di ordinamento sportivo”.

Questa competenza attribuita alle regioni, riferita alla “ materia ” sportiva,

non travalica gli ambiti di autonomia legislativamente affermati e riconosciuti

all’ordinamento sportivo italiano in tema di giustizia sportiva, in quanto

articolazione del Comitato Olimpico Internazionale.

È da ritenersi invece, che la competenza alla “materia sportiva” che debba

essere riferita alla regione, sia quella che le vede in collaborazione con gli enti

territoriali, con le articolazioni locali del Coni e con gli altri enti pubblici al fine

ottenere la migliore e più efficiente realizzazione dell’interesse pubblico alla

diffusione della pratica sportiva.

A livello legislativo, il lavoro sportivo subordinato professionistico, vede

la sua specifica disciplina nella legge n. 91/1981 e, laddove non espressamente

escluse, è regolato dalle altre norme dettate per il lavoro subordinato in

generale.

È necessario quindi, nell’interpretare la disciplina normativa, operare un

raccordo fra la parte speciale e quella generale, in modo da inserire in maniera

adeguata il provvedimento legislativo nel contesto dell’ordinamento statale.

Risulta poi di importanza fondamentale, il ruolo che la succitata legge n.

91/1981 attribuisce agli accordi collettivi cui la stessa legge demanda il compito

di predisposizione della concreta disciplina del rapporto di lavoro sportivo

professionistico.

La necessità di adeguamento della disciplina del lavoro sportivo ai principi

comunitari in materia generale di lavoro si è inoltre inevitabilmente estesa anche

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ai lavoratori sportivi ed a questa situazione hanno fatto seguito le sempre più

frequenti pronunce della Corte di Giustizia Europea.46

Questa, chiamata più volte a decidere in ordine al rispetto da parte di

norme dell’ordinamento sportivo dei principi comunitari di non discriminazione

e di libera circolazione dei lavoratori nei paesi CEE47 ha affermato, sin dal

1974, che nella definizione di lavoratore rientra anche chi pratica uno sport, se

tale attività riveste il carattere di una prestazione di lavoro subordinato o di una

prestazione di servizi retribuita, con conseguente applicazione degli artt. 48-51

o 59-66 del Trattato ed eliminazione, ai sensi dell’art.7 del medesimo Trattato,

di ogni discriminazione basata sulla nazionalità.48

La sentenza della Corte di Giustizia del 15 dicembre 1995, nota come

sentenza “ Bosman”, ha posto in questo senso le basi per una riforma radicale

dell’intero sistema del lavoro sportivo.

L’azione conformatrice svolta dalla Corte di Giustizia Europea delle

normative sportive interne ed internazionali ai principi comunitari suddetti, non

si è arrestata di fronte alle ritrosie manifestatesi in ordine alla piena e spontanea

applicazione dei principi contenuti nella sentenza Bosman che, per le

implicazioni che comportano, vanno ben al di là delle specifiche questioni

sottoposte alla interpretazione della Corte.

In recenti pronunce infatti, la Corte di Giustizia ha avuto modo di

affermare che l’applicazione delle norme del Trattato in tema di non

46DE CRISTOFARO M., Legge 23 Marzo 1981 n. 91. Norme in materia di rapporti tra società e sportivi professionisti, in Nuove leggi civ. comm., 1982, p. 580. 47 DANIELE L., Il diritto materiale della comunità europea, Giuffrè, Milano 2000. 48 VIDIRI G., La libera circolazione dei calciatori nei paesi della C.E.E. ed il blocco “calcistico” delle frontiere, in Giur. It., 1989, IV, p. 66; Contra, sul presupposto che nel settore calcistico prevalga il valore calcistico su quello economico: Trabucchi A., Sport e lavoro lucrativo . Partecipazione alle gare e requisito della cittadinanza in uno dei paesi della Comunità Europea, in Riv. dir. Civ., 1974, II, P.622.

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discriminazione, non possono trovare limiti nelle distinzioni formali operate a

livello nazionale tra sportivi professionisti e dilettanti, dovendosi accertare caso

per caso la reale natura dell’attività svolta dallo sportivo.

In questo modo la Corte conclude nel senso della applicabilità delle norme

in favore di chi, formalmente dilettante, percepisca dei compensi tali da

connotare la fattispecie in termini economici.

2.4. Le fonti del diritto del lavoro sportivo

All’attività sportiva, configurata come attività lavorativa, è assicurata

l’applicazione di tutti quei principi e norme costituzionali sopra richiamate in

tema di diritto del lavoro.

In questo modo, unitamente ad altre norme di rango , l’ordinamento

s’impegna a garantire la libertà di espressione della personalità di ciascun

individuo, sia come singolo che nelle diverse formazioni sociali, riconoscendo

ad ogni cittadino la libertà ed il diritto di esercitare attività sportiva ai diversi

livelli previsti e disciplinati dall’ordinamento sportivo.49

49 A livello comunitario, il Trattato istitutivo della Comunità Economica Europea, non contemplava norme dedicate in maniera esplicita allo sport. Successivamente, con l’Atto Unico Europeo del 1987, si è evidenziato il ruolo dello sport sia a livello economico che sociale. Nel 1990 inoltre, si registra l’istituzione del Forum Europeo dello sport con funzioni consultive cui fa seguito, nel 1992, la Carta Europea dello Sport, primo atto normativo di fonte comunitaria in materia di sport. Tuttavia è con il Trattato di Amsterdam del 1997 che si riconosce a livello europeo l’importanza dello sport. In particolare è nella dichiarazione n. 29 sullo sport allegata all’atto finale della conferenza che ha adottato il testo del Trattato, che si sottolinea la rilevanza dello sport come strumento che forgia le identità ravvicina le persone. Sempre nella dichiarazione n. 29 poi, si invitano gli organi della UE a prestare ascolto alle associazioni sportive laddove trattino questioni importanti in materia di sport, con particolare attenzione allo sport dilettantistico. Per quanto riguarda la configurazione dello sport a livello organizzativo, risulta fondamentale il documento di consultazione elaborato dalla Direzione Generale X intitolato “il modello europeo di sport”, posto a base della Relazione di Helsinki sullo sport, presentata alla riunione del Consiglio Europeo tenutasi ad Helsinki il 10-11 dicembre 1999. Più recentemente, nella conferenza intergovernativa tenutasi a Nizza il 7-9 dicembre 2000 si è affermato il principio secondo il quale all’ordinamento sportivo deve essere riconosciuta autonomia organizzativa per mezzo di adeguate

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Inoltre, vale ricordare come l’elevazione ad interesse pubblico della

diffusione e dell’incremento dell’attività sportiva su tutto il territorio nazionale

abbia portato il legislatore ad introdurre, con legge costituzionale del 18 ottobre

2001, n. 31, un esplicito riferimento allo sport nell’art. 117 Cost., riconoscendo

in questo modo potestà legislativa alle regioni in “materia di ordinamento

sportivo”.

La potestà regionale in quest’ ambito, non deve essere interpretata in senso

confliggente all’autonomia dell’ordinamento sportivo, confermata dal

legislatore anche dall’art. 1 della legge n. 280/2003 in tema di giustizia sportiva.

Il lavoro subordinato professionistico, trova la sua disciplina legislativa

specifica nella legge n. 91/1981 e, dove non siano incompatibili o

espressamente escluse, in tutte le altre norme generali dettate per il lavoro

subordinato.

Questa situazione, chiama l’interprete ad un’attenta opera di raccordo della

disciplina speciale con quella generale, che tenga conto delle peculiarità del

rapporto di lavoro disciplinato permettendo al contempo di inserire in modo

adeguato il provvedimento legislativo nel contesto dell’ordinamento statale,

considerato in una prospettiva dinamica.50

La legge n. 91 riconosce inoltre un ruolo fondamentale agli accordi

collettivi, cui la stessa demanda il compito di predisposizione concreta del

rapporto di lavoro sportivo professionistico.

strutture associative tra le quali le federazioni mantengono il loro ruolo centrale. Sullo sport nell’Unione Europea : PESCANTE M. , L’Atto Unico Europeo e lo sport, Relazione al convegno L’atto Unico Europeo e lo sport, Roma, 24 novembre 1989; ANDREU J. La Comunità Europea e lo sport, a cura della Commissione delle comunità europeegenerali con comunicazione del 19 settembre 1991, in Riv. dir. Sport., 1992, p. 630; BERNINI G., Lo sport ed il diritto comunitario dopo Maastricht: profili generali in Riv. dir. Sport., 1993, p. 653. Più in generale: BARBERA M. Dopo Amsterdam, I nuovi confini del diritto sociale comunitario, Promodis, Brescia, 2000. 50 DE CRISTOFARO M., Legge 23 Marzo 1981 n. 91. Norme in materia di rapporti tra società e sportivi professionisti, in Nuove leggi civ. comm., 1982, p. 580.

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Capitolo Terzo

3.1. I vincoli derivanti dall’atto-tesseramento

Le tesi che la dottrina ha proposto riguardo alla qualificazione giuridica

dell’atto-tesseramento, muovono da posizioni che muovono dall’individuazione

dell’atto come di natura “privatistica”, ad analisi che propendono invece per

una visione “pubblicistica”.

La natura privata dell’atto è sostenuta da chi considera nell’atto del

tesseramento la qualifica di atto di autonomia contrattuale, posto in essere nel

rispetto della libertà che spetta ad ogni cittadino, in una condizione di parità fra

i contraenti.

La tesi “pubblicistica” invece, peraltro prevalente in giurisprudenza, si

basa sulla “subordinazione” del soggetto nei confronti dei regolamenti sportivi

emanati dalle federazioni, potestà loro attribuita in quanto organi in senso

proprio dell’ente pubblico CONI. Secondo i sostenitori di questa tesi,

esisterebbero all’interno dell’ordinamento sportivo, veri e propri rapporti di

supremazia e sottoposizione, cui il soggetto è ammesso solo previo un

provvedimento autoritativo. Questa concezione, che però non tiene conto della

natura mista dell’ordinamento sportivo, ha il suo vero punto di forza nella

irriconducibilità alla autonomia contrattuale dei rapporti tra corpi sociali ed

affiliati, in quanto espressione di un rapporto di supremazia e sottoposizione.51

Limitandoci a questi cenni sulla natura dell’atto del tesseramento, analisi

di non particolare rilevanza ai nostri obiettivi, appare invece più utile

considerare quali siano gli effetti che quest’ atto comporta in concreto.

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Dal tesseramento innanzi tutto derivano una pluralità di effetti, scindibili

in due grandi categorie: i rapporti tra soggetto e Federazione e il legame tra

atleta e società, mediante il cosiddetto “vincolo”.52

Il tesseramento è un atto pluriqualificato, nel senso che dall’atto

medesimo discendono una pluralità di effetti. Per pluriqualificazione s’intende

quel fenomeno che si verifica quando un medesimo fatto ha come conseguenza

molteplici effetti, cioè quando uno stesso comportamento sia oggetto della

qualificazione di più norme facenti parte dello stesso sistema, sia quando norme

che qualificano quell’atto o quel fatto appartengono a sistemi giuridici diversi.53

Con il tesseramento infatti l’atleta, acquisisce uno status che lo inserisce

all’interno dell’ordinamento sportivo nazionale.

L’atto-tesseramento costituisce un atto giuridico consensuale volontario,

attraverso il quale il soggetto esprime la volontà di immettersi in un

ordinamento esistente.

Al contempo, la Federazione, che è ente associativo, con lo stesso atto

esprime la volontà di immettere il soggetto nella propria organizzazione.

In origine, il tesseramento, esisteva solo come atto intercorrente fra

associazione sportiva e atleta e poneva in essere un legame che integrava la

fattispecie del normale rapporto associativo che vedeva il suo fondamento nel

comune interesse non patrimoniale fra le parti.

In un secondo momento, dopo la formazione delle Federazioni sportive, la

rete dei rapporti, pur sempre legata alla medesima logica associativa, si fece più

51 RAMAT S., Arbitrati e giurisdizioni sportive, in Foro pad., 1954, III,, p. 107. 52 Per la prima distinzione tra le due categorie, PASQUALIN C., Intervento al I convegno di diritto sportivo: “Giustizia sportiva e giustizia ordinaria”, in Riv. dir. sport., 1980, p. 286. 53 Per una nozione di pluriqualificazione SANTI ROMANO, cit., p. 141.

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complessa vedendo sorgere la distinzione fra i due rapporti in relazione alle

diverse funzioni riconosciute alle Federazioni ed alle società sportive.54

L’assetto sportivo, nel tempo, è cambiato profondamente, di pari passo

con i mutamenti che hanno coinvolto la società civile.

Le Federazioni, in particolare, hanno subito un’evoluzione che le ha viste

mutare prospettiva , soprattutto a causa dell’avvento del professionismo, che ha

imposto un ripensamento dei rapporti, non solo economici, fra persone fisiche e

società sportive. Le Federazioni in questo modo, son divenute, non ” più

espressione degli iscritti-persone fisiche, ma espressione solo delle società

sportive”55 .

Il mutamento è avvertibile, oltre che nell’ambito del professionismo anche

in quello dello sport dilettantistico.

Il tesseramento, ad ogni modo, si manifesta come un atto creativo di un

duplice legame che, da una parte deriva dalla nascita in capo al soggetto dello

status di atleta, dall’altra che è frutto della “istituzionalizzazione” del legame

pregresso che intercorre tra atleta e società sportiva affiliata, tramite la quale

l’atleta è messo nelle condizioni di poter partecipare alle competizioni

organizzate sia in ambito nazionale sia internazionale.

54 “Il vincolo non era altro che il rapporto associativo che intercorreva fra il singolo giocatore e la propria associazione, mentre il tesseramento era l’atto che istituiva il rapporto fra il singolo e la Federazione”, C. Pasqualin, cit., p. 290.

55 Per quanto riguarda la trasformazione del rapporto associativo sportivo, vale la pena riportare questo passo dottrinale:” un tempo le società calcistiche erano associazioni sportive costituite, al pari di ogni altra, per la pratica calcistica atletico-agonistica dei propri membri; ed i pubblici spettacoli calcistici, da esse organizzati, potevano essere considerati alla stregua di un’attività economica strumentale, rivolta a procurare all’associazione i mezzi necessari per il potenziamento di quella che era la loro non economica attività principale. Il rapporto tra attività principale e attività strumentale si è poi invertito, per effetto della popolarità che il gioco del calcio, concepito come spettacolo, ha assunto nell’epoca presente e della divisione del pubblico in contrapposte schiere di sostenitori dei colori cittadini o di antagonistiche fazioni cittadine delle diverse squadre. Oggetto principale dell’associazione calcistica è divenuto quello di allestire con il ricorso di atleti professionisti estranei al rapporto associativo ( o in ogni caso non obbligati alle proprie prestazioni in base a tale rapporto) una squadra di calcio mediante la quale offrire lo spettacolo delle competizioni calcistiche; oggetto

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L’atto-tesseramento è regolato da norme interne alle Federazioni e, pur

essendo atto costitutivo di uno status concesso da un ente ad un singolo e pur

coinvolgendo quindi direttamente due parti, questo risulta essere un atto

trilaterale. Questo si compie tra Federazione e atleta per il tramite di

un’associazione sportiva: è reso cioè possibile dalla stipula di un contratto tra

l’atleta e la società, che poi provvede a tesserarlo presso la Federazione. La

società sportiva, che deve essere a sua volta affiliata alla Federazione, può

essere chiamata in causa sia come “tramite”dell’atto, sia come parte

direttamente coinvolta nella stipula di questo.

A conferma di ciò è anche quanto è previsto dalle norme di diritto positivo

che regolano la vita delle Federazioni: “ la richiesta di tesseramento deve essere

formulata con l’indicazione dei dati anagrafici dell’atleta e munita di firma

dello stesso atleta nonché della firma del Presidente della Società”, art. 11 n. 2

regolamento FIDAL (Federazione italiana di atletica leggera). Il Comitato

Regionale o Provinciale deve porre solo la “vidimazione” sulla richiesta di

tesseramento, che l’atleta può ottenere “in favore di una società affiliata”, art.

11 n. R.O. FIDAL. Il Presidente di società è chiamato a controfirmare il

modulo, evidenziando così la natura preminente del rapporto tra essa e l’atleta.

Le eccezioni al principio di trilateralità dell’atto-trasferimento sono

disciplinate dallo statuto del CONI nella parte in cui prevede “casi particolari in

cui sia consentito il tesseramento individuale alle Federazioni Sportive

Nazionali e alle Discipline associate “, art. 31, n. 1, riferendosi, evidentemente,

a situazioni peculiari, limitate a sports con minor possibilità economiche e ad

atleti di rilievo nazionale.

accessorio è l’eventuale attività strumentale rispetto alla precedente di reclutamento e di formazione

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Ciò che in conclusione caratterizza l’atto tesseramento nella concreta

realtà è:

a) Sottoscrizione di moduli già predisposti dalla Federazione;

b) Annualità dell’atto, che deve essere rinnovato regolarmente, mentre il

vincolo “sociale”, o vincolo “associativo”, a seconda della terminologia

adottata, ha durata tendenzialmente più lunga.

c) Sottoposizione a termini di scadenza ben precisi, connessi all’inizio

della stagione agonistica. Termini che possono essere più elastici e persino non

previsti, per gli atleti minorenni, in virtù di un favor alla loro partecipazione

alle attività federali.

Di fatto, essenziale perché lo sportivo possa fregiarsi dello status di

atleta, è che questi partecipi al circuito delle competizioni.

d) L’intervento, come firmataria o come inoltrante, della società sportiva

di appartenenza dell’atleta. L’atto di tesseramento, al di fuori delle eccezioni già

ricordate, è perciò trilaterale.

e) L’intervento del genitore, di entrambi, o di chi esercita la patria potestà,

nel caso di atleta minorenne. Per il tesseramento del minore sono previste varie

modalità, dal momento che non esiste una norma di raccordo tra le Federazioni.

Per quanto riguarda la formalità dell’atto non c’è differenza tra il tesseramento,

o cartellinamento, di un dilettante e quello di un professionista. La differenza è

invece nei diversi presupposti che sono alla base degli atti. Infatti, “il rapporto

di prestazione da professionista, con il conseguente tesseramento, si costituisce

mediante assunzione diretta e con la stipulazione di un contratto tra il calciatore

e la società”, art. 28 NOIF (Norme organizzative interne federali della FIGC).

delle nuove leve di calciatori” GALGANO F., cit., pp. 89-90.

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Presupposto per il tesseramento del professionista è, perciò, la stipula di

un contratto di lavoro, e non di associazione, con una società sportiva. Nel

mondo del calcio è perciò essenziale, al fine di poter tesserare un professionista,

il deposito in Lega del contratto.

Una volta individuato nel tesseramento sportivo un contratto associativo

“aperto”, appare necessario determinare quali siano le siano le norme del codice

civile atte a disciplinare gli effetti di tale contratto.

Innanzi tutto, dal momento che le Federazioni risultano associazioni di

diritto privato, non sembra possa trovar dubbi l’applicazione dell’art. 16 del

codice civile nella parte in cui prevede: “l’atto costitutivo e lo statuto (devono)

anche determinare, quando trattasi di associazioni, i diritti e gli obblighi degli

associati e le condizioni della loro ammissione”. Le Federazioni risultano

quindi, attraverso i propri statuti costitutivi, chiamate a determinare quali sono

le maggiori caratterizzazioni giuridiche dello status ottenuto per mezzo del

tesseramento.

Una definizione di massima dello status derivante dal tesseramento, è

però ottenibile richiamando un ulteriore riferimento normativo e cioè l’art. 35

del d.p.r. 157/1986, recante la disposizione di attuazione della legge istitutiva

del CONI (n. 426/1942).56

Secondo tale norma “gli atleti sono inquadrati presso le società ,

associazioni ed enti sportivi riconosciuti. L’atleta partecipa alle gare autorizzate

sotto l’osservanza dei principi, dei regolamenti, degli usi e della lealtà sportiva.

L’atleta non professionista deve praticare lo sport in conformità alle regole del

56 “Da tale norma - l’unica a carattere generale – si ricavano due principi fondamentali: 1) che gli atleti sono “inquadrati” presso società sportive riconosciute dal CONI 2) che partecipano alle gare autorizzate osservando i regolamenti e i principi dell’ordinamento sportivo”, TORTORA M., IZZO C.G., GHIA L., cit., p. 11.

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CIO e della competente Federazione internazionale. L’attività dell’atleta

professionista è disciplinata da norme regolamentari particolari emanate dalla

Federazione competente e secondo i principi dettati dalla rispettiva Federazione

internazionale”.

Questa norma ha l’effetto di stabilire quale sia la posizione dell’atleta che,

rispetto al contesto ordinamentale sportivo appare inserito in una struttura

associativa sportiva che gli permette la partecipazione alle gare ufficiali.

La presenza di un doppio contratto adesivo fa sì che l’atto di

tesseramento possa essere inteso sia come quello da cui scaturisce la

limitazione della libertà contrattuale, sia come l’atto dal quale discende il

secondo effetto, che prende sempre il nome di vincolo, della sottoposizione del

singolo ai doveri imposti per il fatto di entrare a far parte dell’ordinamento

sportivo e, di conseguenza, alla giustizia sportiva.

Il “vincolo” sorto attraverso l’atto formale di tesseramento, per cui l’atleta

è associato alla Federazione sportiva, in questo modo si sovrappone e quasi

s’identifica con il legame associativo privato tra atleta ed associazione, la cui

durata è stabilita da una norma regolamentare. Risulta quindi auspicabile, sul

piano logico oltre che su quello terminologico, stabilire una distinzione fra il

vincolo”sportivo” ed il vincolo “associativo”: una cosa è infatti il tesseramento

ed altra invece è il vincolo che lega il giocatore alla singola associazione

sportiva.

Tale distinzione risulta chiaramente più significativa si propende per la

tesi pubblicistica ed una visione strettamente gerarchica dell’ordinamento

sportivo.

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Quel che in ogni caso appare utile ricordare è la concreta ed indiscutibile

presenza di due legami, uno dei quali è di natura pubblicistica, poiché

susseguente alla assunzione di uno status che ha funzione di cittadinanza

nell’ordinamento derivato.57Per vincolo “sportivo” si deve intendere l’effetto

del tesseramento che determina la nascita, in capo al singolo, delle limitazioni

connesse all’assunzione dello status di atleta, fra cui la subordinazione agli atti

regolamentari delle Federazioni. Per vincolo “associativo” invece, è da

intendersi il legame che per un periodo più o meno lungo intercorre fra il

singolo ed un’associazione sportiva affiliata alla Federazione che ha il diritto di

utilizzare in via esclusiva l’atleta. Questo vincolo sorge da una norma

regolamentare alla cui base sta però il precedente e necessario rapporto

associativo tra i due soggetti, che è regolato interamente dalla generale dottrina

dell’associazionismo.

Il punto di incontro fra i due vincoli è proprio rappresentato dalla norma,

comune a tutti i regolamenti organici federali, che prevede un’indissolubilità

temporanea o perpetua del legame intercorrente tra associazione sportiva e

singolo atleta agonista. Una norma federale che determina la durata e la

configurazione del vincolo associativo.

Peraltro, bisogna ricordare, come la legge n. 91/1981 abbia abolito il

vincolo associativo per lo sport professionistico, per il quale fa fede la durata

del contratto depositato in Federazione. Il problema specifico riguarda quindi il

solo sport dilettantistico. La presenza di una norma regolamentare fa sì che, con

57 In tal senso Bianchi d’Urso F., Vidiri G., cit., 9. Il problema in questione, seppur possa sembrare astrattamente inconciliabile con la asserita natura giuridica di diritto privato del tesseramento, in realtà è questione del tutto anomala rispetto al problema della qualificazione giuridica del tesseramento stesso nell’ordinamento statale; infatti è indubbia la funzione di “assunzione della cittadinanza” che viene ad avere tale atto rispetto alla organizzazione interna dell’ordinamento sportivo, con tutte le conseguenze del caso.

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il termine” vincolo sportivo”, spesso s’intenda proprio il rapporto tra società

sportiva e atleta.

Esistono, ad ogni modo, due rapporti associativi, uno con la Federazione ,

la cui indiscutibile posizione di preminenza, si sostanzia nel vincolo sportivo

che subordina l’atleta alla normativa interna federale, ed uno con la società di

appartenenza la cui posizione di preminenza , in questo caso invece discutibile,

deriva da una norma federale e dai regolamenti interni, che limitano la

possibilità di recesso dal rapporto da parte dell’atleta.

3.2. I doveri dell’atleta: il vincolo sportivo, i principi dello

sport e le funzioni del CONI

Con il tesseramento alla Federazione, acquisendo lo status di Atleta, lo

sportivo diventa soggetto di un ordinamento giuridico autonomo.

In questo senso e secondo una prospettiva limitata, l’acquisizione dello

status di Atleta, è paragonabile all’acquisto della cittadinanza.58

La qualificazione di Atleta, determina l’acquisizione di tutta una serie di

posizioni giuridiche consistenti in diritti e doveri, la prima delle quali è il diritto

ad essere trattato in modo equivalente agli altri soggetti dell’ordinamento.

Lo sport, inteso come fenomeno giuridico, è regolato da propri principi

fondanti che, continuando il parallelismo con l’assetto giuridico statuale,

possono esser detti costituzionali.

58 In tal senso, Bianchi d’Urso F., Vidiri G., cit., 9.

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Lo sportivo appartenente a quest’ ordinamento è perciò tenuto ad

osservare tali norme informatrici.

L’art. 31 n. 2 dello statuto del CONI è la prima norma che

gerarchicamente individua il “ vincolo sportivo”, inteso come “sottoposizione

alle norme che governano le singole Federazioni, e conseguentemente alla

giustizia nelle sue diverse forme” e prevede che: “Gli atleti sono soggetti

dell’ordinamento sportivo e devono esercitare con lealtà sportiva, osservando i

principi, le norme e le consuetudini sportive”.

Le norme cui il soggetto si vincola, sono però quelle della Federazione cui

il soggetto è tesserato.

È invece il legame tra Federazioni e CONI, che determina il passaggio dei

principi e delle funzioni dell’ente pubblico nell’operato delle Federazioni.

Il passaggio dei principi ispiratori avviene attraverso la conformazione

normativa ad un ente gerarchicamente sovraordinato da parte di un ente

subordinato.

Punto essenziale del vincolo sportivo, è la soggezione del tesserato, non

solo al diritto dello sport scritto ed anche alle sue norme ed alle sue

consuetudini, ma anche ai principi, meglio identificati come “lealtà sportiva”,

che devono informare tutta l’attività del consociato.

Allo stesso modo, l’art. 35 del d.p.r. 157/1986, al comma 3 dispone che

“l’atleta partecipa alle gare autorizzate sotto l’osservanza dei principi, dei

regolamenti, degli usi e della lealtà sportiva”. Per questo motivo infatti e con

queste premesse, il riferimento alla filosofia sportiva della correttezza è

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individuato, in ogni codice di giustizia delle Federazioni, come prima e più

grave infrazione sportiva.59

La lealtà sportiva, si sostanzia in un dovere di correttezza, onestà e

rettitudine ed è alla base della cosiddetta “etica sportiva”, premessa di un sano

spirito di competitività che permette che le gare si svolgano senza trucchi e nel

massimo rispetto dell’avversario e del risultato ufficiale.

Ulteriore effetto del tesseramento è la nascita, in capo all’atleta, di un

obbligo di comportamento derivante dalla specificità culturale e sociale dello

sport, la cui sostanza, non essendo specificata positivamente, deve essere

dedotta dai principi sportivi protetti dall’ordinamento.60

Per analizzare con precisione quali siano i principi cardine che informano

l’ordinamento sportivo, appare necessario affrontare lo studio delle funzioni del

CONI e dei suoi rapporti con le Federazioni.

I compiti e le funzioni del CONI sono “ a carattere tendenzialmente

generale, in ragione della sua natura di soggetto esponenziale dell’ordinamento,

e si rinvengono in tutto il reticolo normativo che disciplina l’ordinamento

stesso”61.

59 Per esempio, art. 1 n. 2 giustizia FIDAL, “tutti i soggetti della FIDAL sono tenuti al rispetto delle norme dello statuto e dei regolamenti federali; in particolare alle norme di lealtà, correttezza e disciplina che costituiscono i principi fondamentali dello sport”. In questo senso anche l’art 1 n. 1 del Codice di Giustizia FIGC, “coloro che sono tenuti all’osservanza delle norme federali devono comportarsi secondo i principi di lealtà, correttezza e probità in ogni rapporto comunque riferibile all’attività sportiva.” 60 La lealtà sportiva opera come una sorta di Generalklausel, “atta a reprimere comportamenti degli associati che non possono farsi rientrare tra quelli espressamente vietati”, Caprioli R., cit., 127. Difatti la casistica delle decisioni federali ci induce a dare un’interpretazione estensiva dell’ambito di rilevanza dei principi stessi, non solo perché passibili di determinare una condanna anche in mancanza di un’espressa previsione di comportamento illecito, ma anche perché validi nel momento di competizione o di preparazione ad una gara, e in ogni attività che sia rilevante per la vita sportiva dell’atleta; così che integra la violazione dei doveri di lealtà, correttezza e disciplina anche una critica eccessivamente accesa a mezzo di stampa, cfr. decisione Comm. Giud. Naz. FIDAL n. 19/1999 del 23/2/1999, in MONTAGNA A., IALENTI M.,IOFFREDI V., La giustizia sportiva tra sanzioni e finalità educative, Roma, 2000. 61 Ferrara R., Voce CONI, in Digesto delle discipline pubblicistiche, IV, Torino, 1987, p. 176.

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Il CONI, come peraltro si è già avuto modo di rilevare, persegue

“l’organizzazione ed il potenziamento dello sport nazionale e l’indirizzo di esso

verso il perfezionamento atletico”62e per far ciò si avvale di una serie di potestà

organizzative.

Nell’art. 2 del suo statuto “Funzioni di disciplina e regolazione”, il coni

delinea ed al contempo disciplina una sorta di embrionale traccia costituzionale

del mondo sportivo.

In particolare viene statuito che:

1) Il CONI presiede all’organizzazione delle attività sportive sul territorio

nazionale.

2) Il CONI detta i principi fondamentali per la disciplina delle attività sportive

e per la tutela della salute degli atleti, anche al fine di garantire il regolare e

corretto svolgimento delle gare, delle competizioni e dei campionati.

3) Il CONI detta i principi per promuovere la massima diffusione della pratica

sportiva in ogni fascia di età e di popolazione, con particolare riferimento allo

sport giovanile ferme le competenze delle Regioni in materia.

4) Il CONI, nell’ambito dell’ordinamento sportivo, detta principi per la lotta

dello sport contro l’esclusione, le disuguaglianze, il razzismo, la xenofobia e

ogni forma di violenza.

5) Il CONI, nell’ambito dell’ordinamento sportivo, detta principi per

conciliare la dimensione economica dello sport con la sua inalienabile

dimensione popolare, sociale, educativa e culturale.

6) Il CONI, nell’ambito dell’ordinamento sportivo, detta principi per

assicurare che ogni giovane atleta formato da Federazioni, società o

62 Art. 2 Legge n. 426/1942. Altri testi normativi in materia di funzioni del CONI sono il d.P.R. n.

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associazioni sportive ai fini di alta competizione riceva una formazione

educativa o professionale complementare alla sua formazione sportiva-.

7) Il CONI detta principi per prevenire e reprimere l’uso di sostanze o metodi

che alterino le naturali prestazioni fisiche degli atleti nelle attività agonistico-

sportive.

8) Il CONI garantisce giusti procedimenti per la soluzione delle controversie

nell’ordinamento sportivo.

Una funzione di tal genere, di indirizzo e di coordinamento dello sport

italiano, come si è visto è esercitata dal Comitato nazionale in misura

prevalente attraverso l’opera delle Federazioni.

Gli atleti infatti, formalmente non sono associati al CONI, realizzandosi

con esso un legame di tipo mediato.

In questo senso il CONI è, secondo la definizione data da Morbidelli,

“ente federativo verticale, poiché ricomprende enti che non hanno delimitazioni

territoriali di competenza che sono costituiti dalle federazioni.

157/1986, il d.P.R. n. 530/1974 ed in parte la stessa Legge n. 91/1981 il d.lgs n. 242/1999 oltre che il

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3.3. Il vincolo dei professionisti e dei dilettanti

Come visto, l’atleta è parte di due distinti rapporti: uno che s’instaura con

la società di appartenenza e l’altro che lo vede in relazione alla federazione

sportiva di appartenenza.

Il primo ha natura lavoristica, nel caso di sportivo professionista, o

associativa qualora ci si trovi di fronte ad un’atleta dilettante.

Il secondo invece ha origine attraverso un atto formale che conferisce

all’atleta lo status di tesserato e quindi, come si è avuto modo di considerare,

che lo rende il centro di imputazione di una serie situazioni soggettive sia attive

che passive nell’ambito del proprio contesto endoassociativo.63

Risulta evidente però che qualunque valutazione operata dall’ordinamento

federale non possa mai pregiudicare quelle eventualmente diverse operate

dall’ordinamento statale.

Questo, a maggior e più ampia ragione nel caso in cui la materia attenga a

diritti costituzionalmente garantiti, come , a titolo esemplificativo nel caso

dell’istituto del vincolo.

La legge n. 91/1981 ne è una conferma nella parte in cui, nell’affermare la

natura lavoristica delle prestazioni sportive, ha eliminato le limitazioni alla

libertà contrattuale dell’atleta professionista, commisurandole alla durata del

rapporto, per un periodo non superiore a 5 anni.64

Una definitiva svolta per gli atleti professionisti, si è avuta in seguito agli

effetti derivati dall’impatto sull’ordinamento sportivo avuto dalla sentenza

recente d. lg 8 gennaio 2004 n.15. 63 A riguardo De Silvestri 2000, pp. 520 . ss.; 64 Art. 5 legge n. 91/1981.

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Bosman. che a livello internazionale ha eliminato il parametro che costituiva

un chiaro ostacolo alla libera circolazione del calciatore-lavoratore

professionista.

La problematica del vincolo , si è riproposta poi con gli atleti dilettanti e

con l’atleta minorenne .

In particolare si è riproposta con i calciatori soggetti ad un vincolo a

tempo indeterminato, nonostante l’art. 1. della legge n. 91/1981 preveda che la

libertà dell’esercizio della attività sportiva, svolto sia in forma professionistica

che dilettantistica.

La mancanza di un intervento da parte del legislatore ha suscitato ampie e

motivate critiche da parte della dottrina, motivate soprattutto dal fatto che lo

sport dilettantistico viene praticato nell’’ambito delle formazioni sociali aventi

la finalità di favorire lo sviluppo della personalità dell’individuo, nel rispetto

dei suoi diritti come quelli costituzionalmente garantiti individuati dagli artt. 2 e

18 Cost., di associarsi o non associarsi nella più piena libertà.

Fra gli altri, un problema rilevante, è quello costituito dal vincolo sportivo

stipulato dagli atleti minori d’età per un periodo indeterminato o ad ogni modo

non ragionevole,che viene imposto dalla clausole regolamentari ed associative

delle federazioni sportive.

Questo vincolo, cui l’atleta si sottopone con la propria sottoscrizione del

“cartellino” è stato ritenuto nullo ex art. 1418c.c-Cause di nullità del contratto.,

poiché considerato in contrasto con le norme imperative e di ordine pubblico.65

In questo contesto s’innestano anche le pronunce giurisprudenziali

relative agli artt. 24 e 36 del codice civile, che regolano rispettivamente il

65 Su questo punto Moro 2002, pp. 9 ss.;RUOTOLO 1998, pp. 408 ss.;DE CRISTOFARO 1989, pp. 96 ss.

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recesso ed esclusione degli associati ed ordinamento ed amministrazione delle

associazioni non riconosciute.

L’autorità giudiziaria, svolgendo un significativo controllo sui rapporti

derivanti dagli accordi fra atleta dilettante e la società di appartenenza, ha auto

modo di riscontrare numerose situazioni contrastanti con le norme codicistiche

ed i dettati costituzionali, dichiarando nulle le frequenti clausole vessatorie

rilevate.

Questo è quanto si leggeva nella relazione accompagnatoria al decaduto

progetto di legge Ballaman n. 4633 del 10 marzo 1998 in tema di

regolamentazione del vincolo sportivo :“il rapporto tra associazioni sportive ed

atleti giovani oppure dilettanti è assolutamente illiberale”.

E a tal proposito si precisava che dovevano “ritenersi nulle quelle clausole

regolamentari (che hanno valore regolamentare) che prevedano l’assunzione del

vincolo sportivo a tempo determinato e che negano il diritto di recesso ad

nutum dal rapporto associativo previsto invece per i professionisti”lasciando in

questo modo “gli amatori ed i giovani che non riescono ad essere dei talenti

ancora in balia di spregiudicati dirigenti che ne mercanteggiano i cartellini”.

Il fine prioritario è quello infatti di evitare “che le norme collettivistiche

dei regolamenti sul vincolo sportivo, che avevano creato degli autentici gulag in

cui molti giocatori vivevano lo sport in cattività, inducendoli a restare inattivi o,

in molti casi a lasciare la pratica agonistica”, prevalgano sul “ diritto allo sport

dell’atleta dilettante”.

Una conferma in questo senso viene anche dal diritto comunitario dal

momento che, sin dal 1975, nella Carta Europea dello sport per tutti, è stato

affermato il principio che “ciascuno ha diritto a praticare sport “.

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Inoltre, la libertà di associazione, come è proclamata dall’art. 11 della

Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà

fondamentali , derivante “dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati

membri, fa parte dei diritti fondamentali che, secondo la giurisprudenza della

Corte peraltro riaffermata nel preambolo nell’Atto unico europeo e dall’art. F n.

2 del Trattato sull’Unione europea, sono oggetto di tutela nell’ordinamento

giuridico comunitario”.66

66 Si veda in riferimento a tal proposito il punto 79 della sentenza Bosman.

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Capitolo Quarto

4.1. Il rapporto di lavoro sportivo come rapporto di

lavoro speciale

Il rapporto di lavoro sportivo rientra nell’ambito di quelle particolari

forme di lavoro che si fanno rientrare nel tradizionale ambito dei cosiddetti

rapporti di lavoro speciali.67

In quanto rapporto di lavoro speciale, anche il rapporto di lavoro sportivo

si caratterizza per il fatto di essere sottoposto ad una disciplina normativa

differente rispetto a quella generale prevista nel libro V del codice civile artt.

2082 c.c-Imprenditore e 2221 c.c.-Fallimento e concordato preventivo e relativa

al rapporto di lavoro subordinato nell’impresa.

Allo stesso modo si discosta da quanto previsto negli artt. da 2222 a 2238

in relazione alla disciplina del lavoro autonomo.

In linea generale, la peculiarità dei singoli rapporti di lavoro classificabili

come speciali, può essere ritrovata nell’osservanza di disposizioni costituzionali

(ad esempio in materia di assunzione che prevede il concorso per i pubblici

dipendenti), mentre altre volte l’elemento distintivo è individuato dalla

particolarità dell’ambiente in cui si pone in essere la prestazione lavorativa (è il

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caso questo del lavoro domestico), nella necessità di una regolamentazione

specifica a tutela dell’utenza e della scurezza dei trasporti (si pensi al lavoro dei

marittimi o della gente dell’aria), nella peculiare natura dell’impresa

commerciale in cui s’inserisce il rapporto (ad esempio i giornalisti della carta

stampata, della radio e della televisione), piuttosto che nel caratteristico mezzo

di trasporto in relazione al quale si articola il lavoro ed insomma in ogni caso in

cui il legislatore abbia individuato l’impresa in un significato diverso da quello

inteso nel senso comune.

La fattispecie del lavoro subordinato compiuto dagli atleti professionisti

alle dipendenze delle società sportive, integra una delle tipologie lavorative la

cui specialità deriva dall’essere svolto ai margini del lavoro dell’impresa e che

in certi casi accomuna gli sportivi professionisti, per alcuni aspetti ad un altro

rapporto di lavoro speciale che è quello proprio dei lavoratori dello spettacolo.

La specialità del rapporto di lavoro sportivo, che parzialmente lo vede

deviare dal rapporto codicistico generale di lavoro, deve essere sempre posta in

relazione al problema della sua compatibilità con l’applicabilità della disciplina

del rapporto di lavoro ordinario.

67 Questa denominazione si deve a due lavoristi che ne parlano in relazione ai contratti che ne costituiscono la fonte , De Litala, Contratti speciali di lavoro, Torino, 1958, pp. 175 ss. e Mazzoni, Manuale di diritto del lavoro, Milano, 1969, pp385 e 460 ss.

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4.2. La natura del rapporto di lavoro sportivo

La legge n. 91/1981, all’art. 3, riferendosi alla prestazione sportiva

dell’atleta, escludendo quindi le prestazioni lavorative degli altri sportivi

professionisti, stabilisce che, “la prestazione a titolo oneroso dell’atleta

costituisce oggetto di contratto di lavoro subordinato regolato dalle norme

contenute nella presente legge”. Questo significa che il legislatore ha inteso

introdurre, per la sola figura dell’atleta, una presunzione di subordinazione.

In questo senso si è optato per differenziare gli atleti dagli altri lavoratori

sportivi professionisti, i quali la subordinazione va accertata in concreto dal

giudice con riguardo ai criteri all’uopo forniti dal diritto del lavoro.68

L’attività sportiva resa dall’atleta professionista in maniera continuativa

ed onerosa, con l’ulteriore requisito che la vuole svolta in favore di una società

di capitali, sarà quindi automaticamente considerata di natura subordinata , con

applicazione delle norme della legge n. 91.

La legge, tuttavia, non esclude che l’attività dell’atleta professionista

possa rivestire i caratteri della prestazione di lavoro autonomo, ma, in accordo

con la prima ricordata presunzione di subordinazione, indica esplicitamente le

ipotesi in cui la prestazione a titolo oneroso dell’atleta non integri il caso di un

rapporto di lavoro subordinato ma piuttosto di natura autonoma.

68 Sul punto Cass., 28 dicembre 1996, n. 11540, in G.iust. civ. Mass., p. 1799, secondo cui ” la L.23 marzo 1981 n. 91, in materia di rapporti tra società e sportivi professionisti, detta regole per la qualificazione del rapporto di lavoro dell’atleta professionista, stabilendo all’art. 3 i presupposti della fattispecie in cui la prestazione pattuita a titolo oneroso costituisce oggetto di contratto di lavoro subordinato. Diverso discorso è invece quello relativo alle altre figure di lavoratori sportivi contemplate nell’art. 2 e cioè allenatori, direttori tecnico sportivi e preparatori atletici.

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È il secondo comma dell’art. 3 infatti che prevede l’autonomia del

rapporto di lavoro ove ricorra almeno uno dei seguenti requisiti:

a) l’attività sia svolta nell’ambito di una singola manifestazione sportiva o

di più manifestazioni collegate fra loro in un breve periodo;

b) l’atleta non sia contrattualmente vincolato per ciò che riguarda la

frequenza delle sedute di preparazione o allenamento;

c) la prestazione oggetto del contratto, pur di carattere continuativo, non

ecceda le otto ore settimanali oppure cinque giorni ogni mese ovvero trenta

giorni ogni anno.69

La prima ipotesi richiamata non sembra poter suscitare grossi problemi

interpretativi, poiché l’impegno assunto in riferimento ad un’unica

manifestazione, piuttosto che in più manifestazioni tra loro collegate in un

breve arco di tempo, difetta di quei requisiti di inserimento nella struttura

organizzativa predisposta dal datore di lavoro e di eterodirezione della

prestazione individuati dalla dottrina e dalla giurisprudenza come dati

caratteristici della subordinazione.

Anche in mancanza di una previsione esplicita infatti, l’impegno di

risultato assunto in tale senso, unito al difetto di continuità della prestazione,

non avrebbe resa possibile una connotazione di altro genere di un simile

rapporto di lavoro.

La Suprema Corte70 in rapporto a tali previsioni ha affermato e

successivamente ribadito più volte la natura di lavoro autonomo della

69 Alcune perplessità in proposito sono state sollevate da PERSIANI M. , Legge 23 marzo 1981 n. 91, p. 569 il quale ritiene che le ipotesi indicate dalla norma non configurino casi di lavoro autonomo ma piuttosto di lavoro subordinato sottratte per ragioni di opportunità alla relativa disciplina, facendo in questo modo salva la possibilità anche per queste fattispecie di verificare in concreto, attraverso i criteri elaborati dal diritto comune, la ricorrenza di ipotesi di vero e proprio lavoro subordinato.

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prestazione atletica in favore della squadra nazionale, non ritenendo

configurabile in tale ipotesi una situazione di distacco o comando dalla società

di appartenenza, escludendo in questo modo il venir meno della natura

lavorativa della prestazione lavorativa resa in tale contesto.

A tal proposito è utile ricordare l’obbligo imposto dai regolamenti

sportivi, alla società sportiva di appartenenza, di mettere a disposizione i propri

giocatori per la formazione della rappresentativa nazionale.

In riferimento al requisito richiesto all’art. 3 lett. b), relativo alla

mancanza di un obbligo contrattuale di partecipare a sedute di allenamento e

sedute di preparazione che implicherebbe la ricorrenza di un lavoro autonomo

senza che venga ammessa la possibilità di una prova contraria, non appare

condivisibile la tesi secondo cui, la semplice carenza del dato formale

impositivo del suddetto obbligo, non potrebbe altresì impedire la qualificazione

di un rapporto di subordinazione laddove in concreto risulti un vincolo a

frequentare le sedute di allenamento.

Risulta infatti sempre applicabile, anche nell’ambito del rapporto di

lavoro sportivo, il principio consolidato nell’ambito della generalità dei rapporti

di lavoro, secondo cui, ciò che rileva ai fini della loro qualificazione è quella

che risulta nella sostanza del concreto atteggiarsi dello svolgimento della

prestazione.

70 Cass., 14 giugno 1999, n. 5866, in Foro it., Rep. 1999, voce Sport, n. 50; Cass., 20 aprile 1990, n. 3303, in Dir. lav.,1992, II, p.14 con nota di V. CIANCHI, Problemi di qualificazione della prestazione atletica degli” azzurri” il quale propende per l’inquadramento di tale prestazione nella prestazione di lavoro gratuito cui si accompagnano compensi configurabili come mere liberalità da parte delle federazioni; SANDULLI P., Autonomia collettiva e diritto sportivo, in Dir.lav., 1988, p. 287, ritiene invece che la prestazione dei c.d. nazionali sia da considerare come di natura subordinata con comando presso le federazioni.

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Considerazioni del tutto simili, valgono anche per quanto riguarda

l’ipotesi di cui alla lett. c), laddove il legislatore ha voluto fissare una soglia

quantitativa minima della prestazione lavorativa al di sotto della quale ha

escluso la necessità di garantire all’atleta la tutela tipica del lavoratore

subordinato.

Un’ulteriore serie di questioni in tema di qualificazione delle prestazioni

sportive, sorge nell’ambito della distinzione fra sport di squadra e sport

individuali.

Risulta chiaramente più facile rilevare i caratteri della subordinazione

negli sport di squadra piuttosto che in quelli individuali che molto spesso

permettono all’atleta una gestione più autonoma delle fasi di allenamento, della

preparazione atletica nonché di quella fondamentale della competizione

agonistica.71

Questa distinzione tuttavia non può essere comunque fatta assurgere a

regola generale.

Bisogna sottolineare innanzitutto, come talvolta risulti persino difficile

distinguere con certezza se uno sport sia individuale o di squadra. Inoltre,

bisogna anche considerare come non in tutti gli sport che possono riconoscersi

come individuali, l’atleta professionista si ponga sempre quale vero

imprenditore delle proprie risorse psicofisiche.

È possibile affermare con certezza quindi, che anche l’atleta che pratichi

uno sport individuale possa trovarsi in una situazione di dipendenza nei

confronti di un altro soggetto, persona fisica o società sportiva in grado di

esercitare nei suoi confronti poteri di carattere direttivo e disciplinare.

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Da quanto sino ad ora detto, appare corretto concludere, che il rapporto di

lavoro sportivo subordinato presenti caratteri di specialità rispetto agli altri

comuni rapporti di lavoro dipendente.

Il rapporto di lavoro sportivo infatti integra una di quelle fattispecie che

la dottrina giuslavoristica definisce speciali indicando in questo modo quei

rapporti che, in ragione della specifica posizione del datore di lavoro o della

peculiare natura dell’attività svolta, qual è in questo caso, richiedono una

disciplina per certi aspetti differenziata rispetto a quella generale dettata per il

rapporto di lavoro nell’impresa, prevedendo un conseguente adattamento del

modello generale di tutela della specificità del rapporto.

Per questi motivi è sorta l’esigenza per il legislatore di adeguare il

modello della tutela apprestato in via generale per i lavoratori dipendenti alle

condizioni specifiche caratterizzanti la posizione nel mercato del lavoro di

determinate categorie di lavoratori.

Pare al contrario più difficoltoso collocare questi rapporti lavorativi nella

categoria degli atipici.

Infatti di atipicità non può parlarsi né in riferimento del contratto che lo

regola, dal momento che non si tratta di un contratto non previsto

dall’ordinamento giuridico, né alla luce della nozione più strettamente

giuslavoristica che considera atipici quei rapporti per i quali si ritiene di dover

garantire, per quanto è possibile, a tutti prestatori di lavoro, gli stessi diritti e le

stesse prerogative di cui godono i titolari di un rapporto di lavoro a tempo pieno

ed indeterminato anche se qualora difettino di tali requisiti in quanto rapporti a

tempo parziale o a tempo determinato.

71 In Brasile la legge esclude dal suo ambito di applicazione gli sport individuali come boxe, tennis,

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A sottolineare la specialità del rapporto di lavoro sportivo, concorre anche

il fatto che la fattispecie del lavoro subordinato disegnata dal legislatore per lo

sport, non rientra esattamente nei contorni che generalmente identificano la

subordinazione dei prestatori di lavoro e che viene identificata come

eterodirezione.

La subordinazione degli atleti sportivi professionisti, non si risolve

soltanto nella soggezione alle direttive emanate dal datore di lavoro ed al suo

controllo.

I requisiti di tale subordinazione hanno infatti riguardo ad altri e forse più

importanti caratteri della prestazione con riferimento in particolare alle sue

cadenze temporali che non risultano decisive in casi differenti almeno per

quanto riguarda la qualificazione del rapporto come subordinato.

Si può dunque affermare che la subordinazione nel lavoro sportivo, da un

lato ha richiesto la predisposizione di strumenti per la sua rilevazione che

applicano un criterio che supera le regole ordinarie previste per l’individuazione

della fattispecie del lavoro subordinato e che fino ad ora non ha trovato impiego

neppure in campi limitrofi quale quello costituito dai lavoratori dello spettacolo.

Appare necessario rilevare come d’altro lato, non si possa non notare

come la qualificazione di subordinazione spesso mal si adatta riguardo alla

situazione dei grandi campioni dello sport, che risultano molto lontani, in virtù

degli importanti compensi percepiti, da quella situazione di inferiorità e

debolezza che spesso informa e giustifica la speciale tutela apprestata al

lavoratore subordinato.

golf, ritenendo il relativo rapporto di natura autonoma. In altri paesi fra i quali il Messico invece, non si fa differenza fra sport di squadra e sport individuali: H.H. BARBAGELATA , Derechos, cit., p. 13.

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Proprio in accordo con quest’ultima considerazione, la stessa legge n.

91/1981 non ha trovato valide ragioni per estendere agli sportivi professionisti

ogni specie di istituto giuridico, evitando così di porre in essere

un’indiscriminata estensione delle tutele e della normativa lavoristico anche a

fattispecie che non ne giustificano l’invocabilità.

Ad esempio i lavoratori sportivi non godono della tutela contro il

licenziamento individuale, nonché di quelle contenute negli artt. 4-Impianti

audiovisivi, 5-Accertamenti sanitari, 13-Visite personali di controllo, 33-

Collocamento, 34-Richieste nominative di manodopera, dello statuto dei

lavoratori. Sempre nella stessa ottica, ma in relazione ad aspetti differenti, la

normativa in esame ha invece dettato una sua disciplina peculiare.

In questo senso si può ricordare quanto predisposto in relazione alla

validità dei contratti individuali, che è condizionata alla approvazione della

federazione sportiva, o la possibilità di cessione dei contratti individuali tra due

società prima della scadenza del termine fissato.

La specialità del rapporto, se implica la presenza di una disciplina

autonoma, non esclude l’intervento sussidiario della disciplina generale.

Appare quindi condivisibile la tesi di quella dottrina secondo la quale

l’applicazione della legge n. 91/1981 al lavoro sportivo subordinato non esclude

l’applicabilità allo stesso di ogni norma di carattere generale non ricompressa

nella legge stessa ma con essa compatibile.

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4.3. Cenni: il rapporto di lavoro dello sportivo dilettante

La legge n. 91/1981 si rivolge come si è avuto modo di sottolineare,

esclusivamente all’ambito dello sport professionistico.

Questo però non significa che, gli atleti che svolgono la loro attività

sportiva nell’ambito di discipline non qualificate dalle rispettive federazioni

come sport

professionistici, debbano rimanere privi di tutela qualora svolgano la loro

attività con i caratteri della continuità e della onerosità.72

Risulta evidente infatti come praticare un’attività sportiva per diletto o

per puro spirito ricreativo non possa mai configurare un’attività lavorativa.

Discorso differente è invece quello da farsi in relazione a chi, pur non

professionista ai sensi della disciplina federale, svolga in concreto l’attività

sportiva con i caratteri attribuibili allo svolgimento di una vera e propria attività

lavorativa, assumendo nei confronti delle organizzazioni di appartenenza

impegni ed obblighi non dissimili a quelli del professionista e, ricevendo in

relazione all’attività svolta, un corrispettivo economico.

Per i rapporti in questione infatti, pur non trovando applicazione la

normativa dettata dalla legge n. 91/1981, possono trovare applicazione le

norme di diritto comune ed in particolare, nei casi in cui ricorrano i requisiti di

cui all’art. 2094 c.c. troverà spazio la normativa generale prevista per ogni

rapporto di lavoro subordinato.

72 Riguardo al lavoro sportivo dilettantistico: REALMONTE F., L’atleta professionista e l’atleta dilettante, cit., p. 373; MARTINELLI G., Lavoro autonomo e subordinato nell’attività dilettantistica, cit., p. 13.

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Nondimeno sono applicabili per questi rapporti le norme interne e

comunitarie che impediscano il verificarsi di alcuna discriminazione tra

lavoratori in ragione della diversa nazionalità.73

Questa situazione, per molti versi, fornisce una situazione migliore

all’atleta dilettante rispetto alla tutela accordata allo sportivo professionista.

Infatti, secondo questa impostazione, l’atleta dilettante che svolga la sua

attività con i caratteri della continuità e della onerosità, risulta poter godere in

maniera piena di tutte quelle tutele fornite dalla normativa al lavoratore

dipendente comune, senza incorrere in tutte quelle limitazioni poste alla loro

applicazione proprio dalla legge n. 91.

73 Sul divieto di discriminazione rispetto agli atleti professionisti rispetto agli atleti formalmente dilettanti e riguardo alla conseguente applicazione delle norme del Trattato CE anche ad atleti comunitari solo formalmente dilettanti ma sostanzialmente professionisti in ragione della retribuzione percepita: Corte Giust., 11 Aprile 2000, cause riunite C-51/96 e C-191/97, (caso Deliege) in Foro it., Rep. 2000, voce Unione Europea, n. 911.A riguardo: ADAMI G., Attività sportiva amatoriale secondo il diritto comunitario: in Il lavoro nella giur., 2001, n. 3, p. 236.

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Capitolo Quinto

5.1. Le parti del contratto di lavoro sportivo

Anche il rapporto di lavoro sportivo trae origine da un contratto,

analogamente a quanto accade per ogni altro rapporto di lavoro subordinato.

Sembra infatti possibile escludere dubbi ragionevoli circa l’origine

contrattuale del rapporto di lavoro subordinato.

Appare però utile ricordare alcune teorie, comunque minoritarie in

dottrina, che propendevano per un’origine acontrattuale in virtù del modesto

rilievo di cui gode l’autonomia privata in materia di lavoro, ed in relazione a

quanto disposto dell’art. 2126c.c.-Prestazione di fatto con violazione di

legge.74

In effetti, contravvenendo ai principi generali previsti in materia di

invalidità contrattuale, l’art. 2126 c.c. riconosce produttivo di effetti il contratto

di lavoro nullo o annullato , in relazione al periodo in cui il rapporto ha avuto

esecuzione.

Tuttavia, pur dovendo essere rilevate alcune peculiarità che differenziano

il contratto di lavoro dalle regole previste in generale in materia contrattuale,

non sembra potersi dubitare che, base della costituzione e dello svolgimento del

rapporto di lavoro in generale e di quello degli sportivi professionisti in

particolare, sia pur sempre l’accordo e cioè il momento dell’incontro delle

volontà di datore di lavoro e lavoratore.

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Anzi, con maggior precisione, in riferimento al contratto di lavoro degli

sportivi professionisti, è possibile definire questo come: contratto tipico, a titolo

oneroso, consensuale, ad effetti obbligatori e formale.

La forma scritta costituisce un’eccezione rispetto agli altri contratti di

lavoro subordinati, tendenzialmente a forma libera.

L’art. 2 della legge 91/1981,già più volte richiamato, individua fra le parti

del contratto di lavoro sportivo, nella veste di lavoratori, gli sportivi

professionisti.

La capacità di lavoro è riconosciuta agli sportivi professionisti come in

generale a qualsiasi lavoratore a coloro che abbiano assolto l’obbligo scolastico

ed abbiano compiuto il quindicesimo anno di età.

Un’eccezione in questo senso è prevista da quanto disposto dall’art. 6 de

decreto legislativo 4 agosto 1999 n. 345, che consente che la Direzione

provinciale del lavoro autorizzi, previo assenso scritto dei titolari della potestà

parentale, l’impiego dei minori in attività culturali, artistiche, sportive o

pubblicitarie e nell’area dello spettacolo purchè non pregiudichino la sicurezza,

l’integrità psico-fisica e lo sviluppo dei minori, nonché l’assolvimento

dell’obbligo scolastico.75

Da quest’ articolo discende che, seppur subordinata all’assenso dei

genitori, che la capacità giuridica a prestare attività lavorativa in ambito

sportivo, non sia preclusa ai minori di 15 anni

74 Tra i sostenitori della tesi acontrattualistica possono esser ricordati: SCOGNAMIGLIO R., Diritto del lavoro, Napoli, 2000, p. 10; MAZZONI G., L’azione sindacale e lo” statuto dei lavoratori”, Milano, 1974, p. 313; TORRENTE A., I rapporti di lavoro, Milano, 1966, p. 89. 75 A tal proposito si ricorda la tesi di VALLEBONA A., Istituzioni di diritto del lavoro, vol. II, Rapporto di lavoro, cit., p. 198, che ritiene che per il minore di anni diciotto il contratto debba essere stipulato dal rappresentante legale. La riconosciuta capacità giuridica al lavoro prima del raggiungimento della maggiore età infatti non sembra assolutamente dover implicare anche la capacità di valutare consapevolmente l’opportunità di obbligarsi o meno al lavoro.

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Alla conclusione del relativo contratto dovrà provvedere il genitore cui

spetterà anche la sottoscrizione degli eventuali contratti di utilizzazione

dell’immagine del minore ai fini pubblicitari ai sensi dell’art. 320, 1° comma

c.c.-Rappresentanza e amministrazione.76

Per quanto riguarda invece il datore di lavoro,in ordine alla capacità

giuridica e di agire, la legge prevede l’applicabilità delle norme generali.

Quel che invece bisogna rilevare, è la cosiddetta spersonalizzazione del

datore di lavoro e cioè quel fenomeno per cui la proposta o l’accettazione

provenienti da un imprenditore restano ferme anche in caso di morte o di

sopravvenuta incapacità prima della conclusione del contratto.

Nel caso del trasferimento di azienda poi, il rapporto di lavoro continua

con l’acquirente ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano.

Una questione di rilievo, resa interessante anche in virtù degli sviluppi

normativi che l’hanno interessata, è costituita dalla disciplina relativa a quali

siano i soggetti in grado di assumere la veste di datore di lavoro di un atleta

professionista.

Bisogna ricordare a tal proposito la mutata disciplina normativa che si è

avuta in seguito alla sentenza Bosman, che ha comportato la modifica della

legge n. 91/1981 attraverso la legge 18 novembre 1996, n. 485.

La formulazione originaria dell’art. 10 legge n.91/1981, prevedeva la

possibilità di stipulare contratti con atleti professionisti solo per le società

costituite nella forma di società di capitali o di società a responsabilità limitata,

previa però la preventiva affiliazione ad una delle federazioni sportive nazionali

riconosciute dal CONI.

76 Martinelli G.-Rogolini M., Il minore nello sport: problemi di rappresentanza e amministrazione, in

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Sempre lo stesso articolo escludeva lo scopo di lucro e di conseguenza, la

possibilità della distribuzione degli utili che sarebbero dovuti essere

interamente reinvestiti al fine del perseguimento dei fini sportivi.

Del resto, coerentemente con un’impostazione di questo tipo, la stessa

legge, nel suo art. 13, comma secondo, escludeva anche che i soci, in caso di

liquidazione della società, potessero ricevere una quota superiore a quella

costituita dal valore nominale delle partecipazioni possedute.

Un’importante azione di controllo sulla propria gestione esercitata dalle

federazioni di appartenenza nei confronti delle società, che traeva la sua

motivazione normativa questa volta dall’art. 12 della legge n.91/1981,

sottoponeva queste ultime alla sottoposizione alla ingerenza federale nel caso di

esposizioni finanziarie, acquisto o vendita di beni di beni e immobili ed in

generale in tutti gli atti di straordinaria amministrazione.

Era una disciplina caratterizzata da un elevato grado di specialità

soprattutto nella parte in cui consentiva l’operatività, all’interno

dell’ordinamento giuridico statale, di società di capitali prive del fine di lucro,

un elemento considerato indispensabile allo svolgimento dell’attività

economica in forma societaria anche dall’art. 2247 c.c. Contratto di società.77

La normativa, risultava allo stesso modo peculiare, anche nella parte in

cui condizionava la costituzione delle società sportive alla previa affiliazione ad

una federazione, sottoponendo queste a penetranti controlli da parte delle

Riv. dir. sport. , 1997, p. 690. 77 A tal proposito: VOLPE PUTZOLO G., Una legge per lo sport? Società e federazioni sportive, in Foro it., 1981, V, pp. 308. All’indomani dell’introduzione normativa l’autore rileva subito un’anomalia della legge n. 91/1981che consente l’utilizzo dello strumento societario per fini extraeconomici.

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federazioni di appartenenza cui era attribuita perfino la possibilità di decretarne

la messa in stato di liquidazione.78

Questa disciplina, era frutto di un’impostazione che ostinatamente tentava

di valorizzare, quanto meno a livello di previsione legislativa, la vocazione

ideale e ludica dello sport rispetto agli interessi economico-finanziari dallo

stesso coinvolti.

Tale assetto normativo però, mai esente da critiche, è stato però travolta

dagli effetti, in seguito meglio approfonditi, della già citata sentenza Bosman.

Si rese a quel punto necessaria una modifica normativa che avesse a

riguardo le norme riguardanti le società sportive, tenendo conto della

circostanza che l’abolizione dell’indennità di preparazione che ne sarebbe

conseguita, avrebbe comportato il venir meno del principale canale di

finanziamento delle società, con inevitabili gravi ricadute anche sul piano degli

assetti di bilancio.79

Risultato dell’intervento del legislatore fu la legge 18 novembre 1996, n.

586 che, dopo aver previsto l’abolizione dell’indennità di preparazione (anche

se come vedremo in seguito con un eccezione nel caso di primo contratto

professionistico sotto forma di indennità di preparazione da versare alla

associazione dilettantistica di prima appartenenza), ha apportato novità

rilevanti rispetto alle precedenti previsioni normative in tema di società

78 Sempre VOLPE PUTZOLO G. in: Una legge per lo sport?, cit., p. 312, sottolinea come la ratio della legge in materia di controlli trovasse giustificazione nella esigenza di tutela del credito nei confronti di organismi sportivi che, pur dotati di scopi sociali di natura extraeconomica, coinvolgevano importanti interessi finanziari ed economici. 79 FORTE N., I bilanci delle società sportive dopo la sentenza Bosman, in Riv. dir. sport., 1997, p.183.

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sportive, sia nell’ambito delle finalità perseguite dalle società sportive, sia

riguardo ai controlli cui queste risultano assoggettate.80

Per quanto attiene al primo aspetto la legge, modificando il testo dell’art

10 della legge n. 91/1981, ha stabilito che l’atto costitutivo delle società

sportive debba prevedere che una quota parte degli utili, comunque non

inferiore al 10%, venga destinata alle scuole giovanili di addestramento e

formazione tecnico-sportiva, e che la società possa svolgere esclusivamente

attività sportive ed attività ad e queste connesse o strumentali.

Anche le società di capitali sportive professionistiche acquisiscono lo

scopo di lucro come del resto tutte le altre società per azioni o a responsabilità

limitata, fatta salva la previsione della destinazione di una quota di parte degli

utili in favore di scuole giovanili.

L’introduzione della finalità lucrativa, ha per effetto l’ingresso di tutte le

norme previste in generale per le società per questa finalità che sono quindi da

ritenere allo stesso modo applicabili alle società sportive professionistiche.

I soci delle società sportive professionistiche, per effetto della legge n.

586 del 1996 hanno diritto alla distribuzione degli utili, possono alienare le

azioni ed esercitare i loro diritti di carattere amministrativo.

A loro volta le società acquisiscono la possibilità di reperire notevoli

flussi finanziari, emettendo non solo azioni ordinarie ma anche speciali,

divengono soggette alle norme relative alle modifiche del capitale sociale ed

assoggettabili alle procedure concorsuali e di conseguenza anche al fallimento.

L’oggetto sociale continua a prevedere che le società sportive possano

svolgere soltanto attività sportive o attività a queste connesse e strumentali.

80 Vedi VIDIRI G. , Profili societari ed ordinamentali delle recenti modifiche alla legge 23 marzo 1981

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Con l’espressione attività connesse vanno intese quelle complementari

all’attività principale, nel senso che si sviluppano ai margini di quella sportiva

quali, ad esempio, la vendita di gadget, mentre con attività strumentali ci si

riferisce a quelle che in qualche misura lo sviluppo dell’attività sportiva, ad

esempio la gestione degli impianti sportivi.

In altre parole si riconosce alle società sportive la possibilità di sfruttare

tutte le occasioni di guadagno offerte dallo svolgimento dell’attività sportiva

professionistica.

Sempre in quest’ ottica di sensibile attenuazione del carattere di specialità

riconosciuto alle società sportive, il legislatore del 1996 ha mutato il regime dei

controlli ridimensionando il ruolo prima preminente esercitato dalle

federazioni.

L’attuale art. 12, modificando in maniera integrale il previgente testo,

prevede che le società sportive di cui all’art. 10, legge n. 91/1981, al fine di

consentire il regolare svolgimento dei campionati sportivi, siano sottoposte ad

una verifica dell’equilibrio finanziario esercitato da parte delle federazioni, su

delega del CONI.

Le federazioni, in questo senso, sempre sotto la vigilanza del CONI,

possono fissare dei criteri preventivi di riferimento ai fini della possibilità di

ammissione delle società sportive ai campionati.

Il giudice amministrativo potrà disattendere tali criteri solo in caso di loro

manifesta irrazionalità o di palese errore sul piano dei presupposti e della

applicazione.81

n. 91, in Riv. dir sport., 1997 p. 3. 81 In tal senso in riferimento ai criteri fissati dalla FIGC in relazione alla solidità economico finanziaria dello società calcistiche: Cons. Stato, 7 maggio 2001, n. 2564, in Cons. Stato, 2001,I, p. 1084.

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Le federazioni dunque perdono il loro potere di controllo sui singoli atti di

gestione intesi come le scelte operative di volta in volta effettuate dagli

amministratori, ma effettuano piuttosto un controllo finale sulla gestione, quale

risulta dall’esame dei bilanci, con la sola finalità perseguibile di consentire il

regolare svolgimento dei campionati.

L’art. 13 della legge n. 91/1981 riconosce invece espressamente alle

federazioni sportive nazionali il potere di denuncia all’autorità giudiziaria ex

art. 2409 codice civile, in caso di sospetti di gravi irregolarità nell’adempimento

dei doveri da parte degli amministratori e sindaci, dei quali ultimi, anche in

deroga all’art. 2488 codice civile, è prevista obbligatoriamente, per le società

sportive professionistiche costituite sotto forma di s.r.l., la nomina del relativo

collegio in ottemperanza dell’art. 10, comma primo, legge n. 91/1981.

Coesistono quindi due forme di controllo: quello rilevante ai fini sportivi

ed affidato alle federazioni, destinato a garantire il regolare inizio e svolgimento

dei campionati ed un secondo esterno all’ordinamento sportivo, finalizzato ad

una corretta gestione della società a tutela anche di soci e creditori, svolto in

questo caso dal tribunale ai sensi dell’art. 2409 del codice civile.

Quel che si può considerare evidente, è in sintesi una sostanziale

attrazione delle società sportive professionistiche verso la disciplina generale

comune a tutte le società di capitali.

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5.2. La costituzione del rapporto di lavoro sportivo

La legge n. 91/1981, all’epoca della sua entrata in vigore, stabiliva una

prima importante deviazione rispetto alle regole generali vigenti in materia di

assunzione al lavoro.

Infatti, è l’art. 4 della legge sul professionismo sportivo a stabilire che la

costituzione del rapporto avviene mediante assunzione diretta, escludendo così

la possibilità di applicazione degli artt. 33 e 34 relativi alle norme sul

collocamento della legge 20 maggio 1970, nota anche come statuto dei

lavoratori.

All’epoca della sua emanazione, tale disposizione costituiva una vistosa

deroga al principio generale in materia di diritto del lavoro, secondo cui, il

mercato del lavoro dovrebbe svolgersi sotto il controllo pubblico, al fine di

evitare discriminazioni nell’accesso al lavoro ed abusi a danno dei lavoratori.

Per evitare tali abusi, il metodo generale, era quello della c.d. chiamata

numerica inoltrata agli uffici pubblici nelle cui liste di collocamento i soggetti

da avviare erano obbligati ad iscriversi ai sensi della legge 29 aprile 1949, n.

264 così come modificata dalla legge 10 febbraio 1961, n. 264.

Oggi, al termine di un processo che ha visto prima la liberalizzazione del

sistema delle assunzioni (decreto legislativo n. 297/2002) e successivamente la

sburocratizzazione dei processi di incontro tra domanda ed offerta in materia di

lavoro a seguito del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 noto come

“legge Biagi”, la disposizione del suddetto art. 4 ha perso quella carica

fortemente innovativa che la caratterizzava.

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In effetti, già il legislatore del 1981, avvertiva l’intrinseca incompatibilità

intercorrente fra il carattere ”impersonale” del sistema pubblico di collocamento

all’epoca vigente ed una prestazione come quella sportiva, influenzata

strettamente dalla personalità del giocatore nello sforzo compiuto dalle società

sportive di perseguire l’ obiettivo di eccellenza nelle competizioni.

Se quanto disposto dall’art. 4 in ordine alla modalità di assunzione diretta

dello sportivo professionista non lascia adito a dubbi, questo non è accaduto

invece per quanto concerne il problema della ammissibilità o meno di forme di

mediazione nella conclusione del contratto, argomento che è stato fonte di

confronti e dibattiti da parte di giurisprudenza e dottrina.82

Chi escludeva la possibilità di forme di mediazione nel mercato del lavoro

sportivo , poneva l’attenzione sulla necessità di evitare che si verificassero

forme di sfruttamento dello sportivo in cerca di occupazione, auspicando la

creazione di un’agenzia di collocamento per iniziativa delle rappresentanze

delle categorie interessate.83

Altra parte della dottrina invece, evidenziava come né la lettera né la ratio

della legge n. 91/ 1981 potesse portare ad escludere l’ammissibilità di forme di

mediazione nella conclusione del contratto di lavoro sportivo.

A maggior ragione, tale impostazione sarebbe stata avvalorata dal fatto

che l’art. 4, prevedendo la totale inapplicabilità delle norme sul collocamento,

82 Cass., 24 settembre 1994, n. 7856, in Nuova giur .civ. comm, 1995, I, p. 1174, ha ritenuto che l’inosservanza di norme federali che stabiliscono la mancanza di lucro nelle società sportive e la mancanza di profitto nello svolgimento della attività sportiva da parte dell’atleta non professionista, non incidono sulla validità del contratto di mediazione concluso per il trasferimento di un calciatore dilettante da una società sportiva ad un’altra, in quanto intercorso tra soggetti estranei all’ordinamento sportivo, come tali non vincolati all’osservanza di dette norme; sicchè i negozi posti in essere da dette parti ancorché aventi attinenza nell’attività sportiva restano disciplinati soltanto dalle regole civilistiche che ne regolano il contenuto e gli effetti. 83 VIDIRI G., Il contratto di lavoro sportivo, in Mass. Giur. Lav., 2001, p. 981.

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rendeva non invocabile la norma ostativa all’esercizio della mediazione anche

se gratuito.

Il legislatore, con il decreto legislativo n.276/2003, sembra aver trovato

una soluzione rispetto a tale questione, avendo prevista l’istituzione di un

apposito albo delle agenzie per il lavoro che, una volta dotate dei requisiti

espressamente previsti dal medesimo decreto, svolgano attività finalizzate alla

somministrazione, alla ricerca ed alla selezione del personale, di supporto alla

ricollocazione professionale ed appunto, alla intermediazione secondo quanto

previsto dall’art. 4 del decreto.

Al comma terzo del successivo art. 6, si autorizzano allo svolgimento di

attività di intermediazione, le associazioni dei datori di lavoro e dei prestatori di

lavoro comparativamente più rappresentative che siano firmatarie di contratti

collettivi nazionali di lavoro.

Con quest’ultima soluzione si offre una soluzione al mondo dello sport

professionistico che da tempo auspicava la formazione e lo sviluppo di un

associazionismo di tipo sindacale.

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5.3. Gli elementi essenziali del contratto: l’accordo e la

forma

Il consenso tra le parti, sta alla base del rapporto di lavoro sportivo che,

come si è avuto modo di sottolineare trae la sua origine da un contratto, seppur

caratterizzato da particolari peculiarità.

La formazione dell’accordo contrattuale, nel caso del rapporto di lavoro

sportivo, si discosta dallo schema classico impostato in termini di scambio tra

proposta ed accettazione.

Spesso infatti tale contratto appare sbilanciato in favore del datore di

lavoro, la parte contrattualmente più forte, vedendo limitate le possibilità del

lavoratore alla possibilità o meno di fornire la propria semplice adesione.

L’esigenza di tutela della parte debole fa pertanto sì, che all’interno del

rapporto di lavoro subordinato, il consenso delle parti finisca per avere ad

oggetto non il contenuto del contratto ma, piuttosto, la stipulazione dello stesso,

alle condizioni determinate a livello collettivo, rispetto alle quali risulterebbero

ammissibili solo clausole di trattamento di miglior favore per il lavoratore.

Analoghe limitazioni alla libertà di contrattuale di determinazione del

contenuto dell’accordo si riscontrano con riferimento al contratto di lavoro

sportivo, per il quale l’art. 4, 1°comma , legge n. 91/1981 ha previsto

espressamente che il contratto, tra sportivo e società destinataria delle

prestazioni, sia stipulato sulla base di quello tipo, predisposto in maniera

conforme all’accordo stipulato ogni tre anni dalla federazione sportiva

nazionale e dai rappresentanti delle categorie interessate.

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Inoltre, nel caso di rapporto di lavoro sportivo, è la legge stessa concorre

alla determinazione del contenuto del contratto.

Da un lato infatti la legge esclude che possano essere inserite nel contratto

clausole di non concorrenza o limitative della libertà professionale per il

periodo successivo alla risoluzione, ai sensi di quanto disposto dall’art. 4

comma sesto della legge sul professionismo sportivo.

Dall’altro, al comma quarto del medesimo articolo, prevede l’obbligo per

l’atleta di uniformarsi alle decisioni tecniche ed alle prescrizioni impartite allo

scopo di raggiungere i fini agonistici prefissati.

Appare di facile comprensione, ma comune utile ricordare, come la

necessitata conformazione del contratto individuale al contratto tipo, non

esclude la possibilità, soprattutto per quanto riguarda i settori ad elevata

rilevanza economica e per gli atleti più quotati e famosi che godono di

trattamenti economici ben superiori a quelli minimi, di rimettere alla piena

autonomia contrattuale molteplici aspetti connessi allo svolgimento dell’attività.

In questa prospettiva emerge la figura del procuratore sportivo, cui gli

atleti e le società si rivolgono a tutela dei propri interessi.84

Il rapporto giuridico che configura tale rapporto, come si è visto, si

modella sul contratto di mandato e vede l’agente di calciatori come una figura

cui affidarsi per essere assistiti nella conclusione del contratto di lavoro e nella

tutela dei diritti che ne derivano.

La forma scritta ad substantiam imposta per il contratto di lavoro

sportivo, costituisce la logica conseguenza rispetto alla previsione di un

contratto-tipo cui conformare il contenuto del contratto individuale ed alla

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necessità di consentire un controllo sul rispetto delle norme di legge che

impongono o escludono la presenza di determinate clausole contrattuali.

Questo costituisce un’eccezione rispetto quanto previsto per il contratto di

lavoro subordinato in generale.

La forma scritta ad substantiam infatti, è richiesta solamente per il patto

di prova ai sensi dell’art. 2096 c.c.-Assunzione in prova, per il contratto a

termine secondo quanto previsto dall’art. 1 comma secondo del decreto

legislativo n. 368/2001, per il contratto di somministrazione ex art. 21 del

decreto legislativo n. 276/2003, per il contratto di formazione e lavoro

regolamentato dalla legge n. 451/1994 e per quello di arruolamento marittimo

che la prevede nell’art. 328 del codice navale.

Questa, che nei suddetti particolari casi costituisce un’eccezione, nel

contratto di lavoro sportivo assurge a vera e propria regola cogente con la

previsione, nel caso di mancato rispetto, della sanzione della nullità.

Nel contratto di lavoro sportivo, il requisito della forma scritta è previsto

non soltanto a tutela del lavoratore, ma anche per realizzare la possibilità di una

comparazione e valutare di conseguenza la conformità, del contratto

individuale, rispetto a quanto previsto negli accordi tra federazione ed i

rappresentanti delle categorie interessate.

Allo scopo di perseguire il medesimo fine, l’art. 4 della legge n. 91/1981,

prescrive l’obbligo del deposito del contratto presso la federazione nazionale

sportiva per l’approvazione.

Tale deposito ha altresì l’obiettivo e la funzione di consentire alle

federazioni il controllo sulle esposizioni finanziarie delle società previsto

84 MENNEA P., Il procuratore sportivo di calcio e le figure giuridiche ad esso assimilabili, in Impresa,

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dall’art. 12 legge n.91/1981, assicurando in questo modo una più rapida

risoluzione delle controversie fra società e sportivi.85

In conclusione, conviene rilevare come la costituzione del contratto

individuale di lavori si sostanzi in una fattispecie complessa a formazione

progressiva.

Questa si articola in una serie di fasi successive preordinate che sono la

redazione di un contratto scritto conforme al contratto-tipo, il suo deposito

presso le rispettive federazioni e la sua conseguente approvazione da parte delle

stesse, concorrendo così al perfezionamento della fattispecie stessa ed alla

produzione degli effetti voluti dalle parti.

5.4. Le cause di invalidità e la nullità del contratto di

lavoro sportivo

Come ogni altro contratto, così quello di lavoro sportivo, seppur concluso

ed efficace può non presentare tutti i requisiti necessari a garantirne la piena

validità.

Può infatti accadere che sia carente di uno degli elementi essenziali voluti

dalla legge e cioè, oltre che della forma e dell’accordo, che sia sprovvisto dei

requisiti della causa e dell’oggetto.

1995, p. 283. 85 VIDIRI G., Forma del contratto di lavoro tra società ed atleti professionisti e controllo della federazione sportiva nazionale, in Riv. dir. sport., 1999, p.540.

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Altresì può essere afflitto da un vizio della volontà venendosi in tal modo

a determinare un’ipotesi di nullità qualora il vizio sia esterno o di annullabilità

ex art. 1425 c.c. nel caso in cui la volontà risulti viziata da dolo, violenza

morale o errore.

Risulta abbastanza evidente che nel caso di contratto di lavoro i vizi della

volontà dovuti a violenza o a dolo risultano statisticamente poco rilevanti.

Molto più rilevante è invece il caso dell’errore assunto che le attitudini

professionali del prestatore di lavoro costituiscono di certo un elemento

determinante ai fini della conclusione del contratto.

D’altra parte, le qualità personali e professionali del lavoratore e così del

lavoratore sportivo, hanno modo di rilevarsi proprio nel momento

dell’esecuzione stessa delle prestazioni.

Difficilmente quindi la loro mancanza verificata in concreto, verrà dedotta

come motivo di annullamento del contratto per errore ma si tradurrà in un a

causa di recesso del rapporto.

Questo assume una peculiare rilevanza nel caso di rapporto di lavoro

sportivo in cui le controprestazioni di famosi campioni o di tecnici

pluridecorati non andranno mai imputate a sintomo di errore sulle qualità

professionali degli stessi potendosi ad ogni modo configurarsi come causa di

recesso del rapporto.

In riferimento alle ipotesi di nullità del contratto, giova ricordare come

queste possano ricorrere, oltre per la carenza di un elemento essenziale dello

stesso, anche in caso di violazione a norme imperative.

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5.5. Gli obblighi di diligenza ed obbedienza del

lavoratore sportivo

Il contratto di lavoro subordinato, dal momento della propria stipulazione,

comporta la nascita in capo al lavoratore dell’obbligazione di prestare la propria

attività lavorativa personalmente, secondo la diligenza richiesta dalla

prestazione dovuta, in accordo con l’interesse dell’impresa e mai in contrasto

con quello superiore della produzione nazionale.

A livello di regolamentazione generale è l’art. 2104 del codice civile ad

individuare i criteri tipizzanti il lavoro subordinato nell’obbligo della diligenza

e dell’obbedienza, nel cui rispetto deve essere svolta l’attività lavorativa

subordinata in genere e, nello specifico, anche quella dello sportivo

professionista.

Diligenza ed obbedienza, non individuano obblighi accessori alla

prestazione lavorativa ma piuttosto ne specificano il contenuto caratterizzandosi

come elementi che ne caratterizzano le modalità di esecuzione.

In relazione all’elemento della diligenza, il primo comma dell’art. 2104,

imponendo al lavoratore subordinato di adempiere alle proprie prestazioni

adoperando la diligenza richiesta dal tipo di mansioni che gli sono state

affidate, si configura null’altro che come una specificazione dell’art. 1176 del

codice civile relativo al generale principio di diligenza richiesto

nell’adempimento delle obbligazioni.

L’adempimento, ad ogni modo, deve essere diligente anche in rapporto

allo specifico interesse che l’impresa si prefigge di raggiungere organizzando

l’opera dei propri dipendenti posto che il perseguimento del superiore interesse

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nazionale, parametro necessario dell’ideologia corporativa, non costituisce più

un limite cogente.

Lo sportivo professionista quindi, in applicazione con quanto disposto

dall’art. 2104 in materia di diligenza, ha il dovere di parametrare la propria

diligenza non secondo una visione individualista ma in una prospettiva che

tenga conto delle aspettative e dei risultati che l’azienda si prefigge di

raggiungere avvalendosi della sua opera.

Completa il contenuto dell’obbligo della diligenza quello della cura degli

strumenti di lavoro forniti dal datore di lavoro in una relazione che vede

realizzarsi fra i due soggetti una corrispondenza biunivoca nell’onere di

quest’ultimo di mettere a disposizione l’occorrente per lo svolgimento del

lavoro.

I calciatori professionisti, ad esempio, secondo l’art. 14 dell’accordo

collettivo per i calciatori professionisti, devono costudire con diligenza gli

indumenti e i materiali sportivi forniti dalla società impegnandosi a rifondere il

valore degli stessi se smarriti o deteriorati per loro colpa.

In questo senso anche l’accordo collettivo dei giocatori di pallacanestro.86

Il secondo comma dell’art 2104 fa invece riferimento al secondo requisito

caratterizzante la subordinazione e cioè quello della obbedienza.

L’obbligo di obbedienza assume il suo significato in relazione

all’inserimento del lavoratore all’interno della impresa organizzata e diretta da

un datore di lavoro posto in una posizione gerarchicamente superiore rispetto a

quella dei suoi dipendenti.

86 Accordo collettivo GIBA, parte seconda-abbigliamento.

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Quest’ organizzazione gerarchica, si configura come funzionale rispetto

ad una direzione dell’impresa che vede la necessità dell’emanazione di

disposizioni ed ordini coordinati in vista del risultato cui è finalizzata la sua

attività.

Con riferimento più specifico al lavoro sportivo, l’art. 4, quarto comma,

legge n. 91/1981 ha ritenuto che tale obbligo avesse bisogno di un’espressa

specificazione prevedendo a tal fine il necessario inserimento nel contratto

individuale di una clausola contenente l’obbligo dello sportivo di rispettare le

istruzioni tecniche e le prescrizioni impartite per il conseguimento degli scopi

agonistici.87

Tale clausola, a dire il vero, tende a riferirsi unicamente a quegli atleti

che praticano discipline le cui prestazioni sono sottoposte alla direzione di

allenatori e direttori tecnico-sportivi.88

Attraverso tale previsione, il legislatore ha inteso sottolineare la natura

subordinata del lavoro sportivo, ribadendo che, in virtù di un’impostazione

spiccatamente gerarchica, l’atleta sia sempre tenuto ad attenersi alle

prescrizioni impartitegli anche qualora queste non siano condivise.

Tutto ciò assume particolare rilevanza nei giochi di squadra, dove, più

importante dell’abilità personale del singolo solista, risulta essere l’armoniosa

orchestrazione di un efficiente gioco di squadra.

A tal fine si prevede che l’atleta debba osservare anche le prescrizioni non

strettamente attinenti alla semplice esecuzione della prestazione.

Si ritiene infatti che in capo all’atleta sia da imputare anche l’obbligo di

attenersi ad uno stile di vita sobrio e funzionale all’attività si sportivo, seppur

87 VALLEBONA A., Istituzioni di diritto del lavoro, Il rapporto di lavoro, Torino, p. 465.

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questo sia legato da una relazione solo indiretta all’obiettivo

dell’ottimizzazione dei risultati da perseguire.

L’art. 12 dell’accordo collettivo per i calciatori professionisti prevede

però a tal riguardo che tutte le prescrizioni relative a questa sfera più personale

della vita del calciatore, siano legittime e vincolanti solo quando giustificate da

esigenze proprie dell’attività umana, fermo il limite mai oltrepassabile del

rispetto della dignità umana.

Dello stesso tenore anche l’accordo collettivo per i giocatori di

pallacanestro che in più, entrando nello specifico in uno degli ambiti più

significativi della condizione umana e ciò quello dell’alimentazione, stabilisce

l’obbligo degli atleti di seguire il regime dietetico stabilito (forse da intendersi

più correttamente concordato con) dai medici della società.

L’art. 13 dell’accordo collettivo calciatori professionisti prevede, tra gli

obblighi dello sportivo professionista e come in precedenza visto tratto

caratterizzante la natura subordinata di tale rapporto di lavoro ma in questa sede

anche specificazione del dovere di obbedienza, quello di partecipare agli

allenamenti nelle ore e nei luoghi fissati dalla società oltre che, ovviamente,

quello di partecipare alle gare ufficiali ed amichevoli.

Altri obblighi sono quelli di indossare in determinate occasioni

l’abbigliamento fornito dalla società ed in generale quello di osservare tutti gli

obblighi integrativi previsti dagli accordi collettivi.

Da parte loro le società, in forza delle diverse disposizioni dei relativi

accordi collettivi, hanno l’obbligo,come corrispettivo dei sopra descritti

obblighi in capo agli atleti, di curare la migliore efficienza sportiva, fornendo

88 DE CRISTOFARO M., Problemi attuali di diritto sportivo, in Dir. Lav., 1989, I,.p.597

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attrezzature idonee alla preparazione atletica, mettendo a disposizione un

ambiente consono alla dignità professionale dello sportivo consentendogli la

miglior partecipazione agli allenamenti e, di conseguenza la più efficace

preparazione.89

5.5.1. L’obbligo di fedeltà

L’art. 2105 c.c.- Obbligo di fedeltà vieta al lavoratore di trattare affari per

conto proprio o di terzi in concorrenza con l’imprenditore nonché di divulgare

notizie attinenti all’organizzazione ed ai metodi di produzione dell’impresa o di

farne uso in maniera tale da poter recare ad essa pregiudizio.

I diversi accordi collettivi disciplinano tale obbligo anche per gli sportivi

professionisti.

In quest’ ambito, l’accordo collettivo per gli atleti della pallacanestro90

attua un richiamo molto più preciso rispetto ai contenuti di questo obbligo

rispetto a quanto non accada per i calciatori.

89 Anche la legislazione brasiliana presenta disposizioni simili per quanto riguarda il problema dei doveri degli sportivi e delle società: H.H. BARBAGELATA, Derechos del Deportista, in Derecho Laboral, n. 205 Montevideo, 2002; 90 Parte seconda- doveri generali dell’atleta. Per un confronto su questo punto art. 12 dell’accordo collettivo dei calciatori.

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Per esempio si sottolinea in maniera esplicita che l’atleta è tenuto al più

stretto riserbo sugli aspetti, sia tecnici sia generali, legati alla vita della squadra

e della società.

Appare chiaro come questi obblighi siano effetto diretto della

subordinazione che fa conseguire per il lavoratore l’obbligo di non agire

ponendosi in conflitto di interessi rispetto agli obiettivi dell’impresa di cui fa

parte.

In particolar modo per il lavoro sportivo, questo configura un obbligo

fondamentale che impedisce ad un soggetto già legato ad una società, di

compiere contemporaneamente la propria attività anche in favore di altre

società.

Tale divieto non include invece gli impegni per la selezione della squadra

nazionale: gli atleti chiamati a farne parte al contrario infatti hanno l’obbligo di

rispondere positivamente alle convocazioni91.

La convocazione nelle rappresentative nazionali ha sempre rappresentato

un traguardo ambito dagli atleti e motivo di prestigio per le società di

appartenenza.

Tuttavia, specie nel calcio e per le grandi società la cui rosa è molto

spesso costituita prevalentemente da atleti “nazionali”sia italiani che stranieri,

capita che non sempre la convocazione sia vista con favore, nel timore che

quest’ ulteriore impegno possa comportare uno scadimento nella forma dei

propri campioni.

L’obbligo di fedeltà, ad ogni modo, specie in alcuni accordi collettivi

come quello dei calciatori92 va ben oltre il semplice limite della concorrenza,

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prevedendo invece un più ampio divieto, comprendendo ogni caso di

svolgimento di attività lavorativa o imprenditoriale incompatibile con l’attività

agonistico-sportiva, salva esplicita e preventiva autorizzazione della società di

appartenenza.

Questo è il caso, ad esempio, dei contratti di pubblicità e di

sponsorizzazione che possono essere stipulati dai singoli atleti solo se non

configgenti e d autorizzati dalla società di appartenenza.

Ciò che non trova invece applicazione nei confronti degli sportivi

professionisti, è la norma stabilita dall’art. 2125c.c. secondo cui è possibile la

stipulazione di un patto di non concorrenza per il periodo successivo alla

cessazione del rapporto.

Tale esclusione rispetto alla previsione generale, è motivata dalla

peculiarità del lavoro sportivo, caratterizzato da elementi di forte

concorrenzialità rispetto ai quali ogni previsione restrittiva non trova

giustificazione.93

Quel che trova piena applicazione e appare infatti un limite significativo

nel contratto di lavoro sportivo è quello rappresentato dall’obbligo di non

divulgare notizie o farne uso in modo di arrecare pregiudizio alla società.

Anche in questo senso ma più in generale, occorre ricordare come

l’obbligo di fedeltà si spinga ad ogni modo oltre rispetto alla previsione di cui

all’art. 2105 nella misura in cui si ricollega al dovere di comportarsi secondo

correttezza e buona fede, al fine di salvaguardare il rapporto fiduciario che

s’instaura fra lavoratore e datore di lavoro.

91 CIANCHI V. Problema di qualificazione della prestazione atletica degli” azzurri”, in Dir.Lav., 1992, II, p.14. 92 Art. 11.

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Nel lavoro sportivo la fedeltà in questo modo intesa sembra poter

assumere una rilevanza peculiare in relazione ai principi di lealtà e correttezza

che restano i cardini fondamentali della pratica sportiva ed al cui rispetto fanno

richiamo tutti gli accordi collettivi.

Al contempo, gettando lo sguardo ben oltre i limiti del rapporto tra società

e sportivo, un atteggiamento adeguato rispetto ai principi di correttezza,

professionalità e lealtà, oltre ad apparire in pieno accordo con i principi propri

dell’ordinamento sportivo, concorre a veicolare un’immagine dello sport inteso

come attività improntata a valori sociali ed etici che, a ben vedere, costituiscono

lo scopo e la premessa stessi di tale attività

5.6. I poteri del datore di lavoro: il potere direttivo, di

controllo e disciplinare

La condizione di soggezione del lavoratore subordinato comporta le

corrispondenti situazioni giuridiche attive del datore di lavoro rappresentate dai

poteri direttivo, di controllo e disciplinare.

Prima specificazione del potere direttivo del datore di lavoro è la scelta

di determinare il luogo di svolgimento dell’attività lavorativa.

I professionisti dello sport sono tenuti a svolgere le prestazioni nei luoghi

indicati dalle società di appartenenza per quanto riguarda gli allenamenti e di

93 D’HARMANT FRANCOIS A., Note sulla disciplina giuridica del rapporto di lavoro sportivo, in Mass. giur. Lav., 1982, p. 856.

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partecipare alle competizioni nel luogo risultante dal calendario degli incontri

fissato all’inizio di ogni stagione sportiva.94

Non si applica invece agli sportivi professionisti la norma contenuta

nell’art. 2103 c.c., secondo la quale soltanto comprovate esigenze tecniche,

produttive ed organizzative rendono legittimo il trasferimento del lavoratore da

un’unità produttiva all’altra.

Come è noto invece, gli sportivi sono soggetti alle trasferte, sottostando

alla possibilità di dover rendere la prestazione in luoghi sempre diversi, in Italia

come all’estero.95

Il potere direttivo va inoltre inteso come la possibilità di organizzare in

modo globale l’attività svolta nell’impresa che si esprime attraverso

l’emanazione di disposizioni che permettono all’imprenditore di determinare e

conformare la condotta del lavoratore con l’obiettivo di perseguire i risultati

prefissati.

I caratteri ed i limiti di un potere di carattere generale come quello

direttivo, vanno ricavati dal combinato disposto di alcune norme del codice

civile dalle quali trae il proprio fondamento normativo.

In particolare queste norme sono l’art 2086 c.c secondo

cui”l’imprenditore è il capo dell’impresa e da lui dipendono gerarchicamente i

suoi collaboratori”, l’art. 2094 c.c. che stabilisce che il prestatore di lavoro

subordinato si obbliga a prestare la propria attività nell’impresa “alle

dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore” e l’art. 2104 che prevede

che debba osservare “le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del

94 Accordo collettivo dei giocatori di pallacanestro, parte seconda-Doveri generali dell’atleta. 95 Così art. 13 accordo collettivo dei calciatori e nello stesso senso Parte seconda-Trasferte dell’accordo per i giocatori di pallacanestro.

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lavoro impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali

gerarchicamente dipende”.

Il datore di lavoro, che ne è il titolare, esercita il potere direttivo

attraverso la piramide gerarchica del suo personale.

In concreto tale potere si manifesta come la possibilità di specificare il

contenuto, le modalità, i tempi, ed il luogo della prestazione dovuta dal

lavoratore in attuazione dell’obbligazione assunta.

Poteri complementari a tale attività, sono quelli di controllare l’esecuzione

della prestazione lavorativa e di dettarne le regole necessarie ad un ordinato

svolgimento.

Tali principi trovano integrale applicazione nel lavoro sportivo in cui il

potere direttivo di cui dispone la società, trova di riflesso la sua legittimazione

nell’obbligo posto in capo allo sportivo di attenersi alle istruzioni tecniche ed

alle disposizioni impartite per il conseguimento degli scopi agonistici.

In analogia con quanto avviene nella generalità di rapporti di lavoro

subordinato, anche in ambito sportivo il lavoratore non è tenuto all’osservanza

di ordini illegittimi o che si traducano nell’esposizione a pericoli per la propria

salute o incolumità fisica.

Nel lavoro sportivo, in forza dell’apporto che sul piano economico in certi

casi appare determinante, potrebbe configurarsi un’ipotesi di ingerenza da

parte degli sponsor sulla condotta dello sportivo.

In questo caso, un eventuale conflitto con i poteri direttivi del datore di

lavoro va risolto in favore di questo perché violazione del dovere di fedeltà.

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Il potere di dettare disposizioni e di pretenderne l’osservanza implica

anche quello di controllare che gli ordini impartiti vengano effettivamente

rispettati.

La legge n. 300, 20 maggio 1970, limita nel concreto le ampie facoltà

concesse al datore di lavoro dal codice civile.

Tale legge, nota anche come il cosiddetto Statuto dei lavoratori, vieta

espressamente determinate forme di controllo, in quanto ritenute estranee al

potere organizzativo e giudicate lesive della libertà e dignità del lavoratore

mentre regolamenta le modalità ritenute lecite, in modo da ritenerle funzionali

al controllo sull’adempimento degli obblighi contrattuali.

Di tali norme alcune sono certamente applicabili al lavoro sportivo mentre

altre sono esplicitamente escluse dalla legge sul professionismo sportivo.

Senza dubbio compatibili con il rapporto di lavoro sportivo sono le

disposizioni di cui agli artt. 2-Guardie giurate, 3-Personale di vigilanza, 6-

Visite personali di controllo e 8-Divieto di indagini sulle opinioni.

La legge n. 91/1981 invece, esclude in maniera esplicita l’applicazione

degli artt. 4-Impianti audiovisivi e 5-Accertamenti sanitari dello Statuto dei

lavoratori.

L’applicazione dell’art. 4 si spiega con l’esigenza di dare pubblicità agli

eventi sportivi, consentendone la visione a distanza.

Analogamente si esclude l’applicazione dell’art. 5 della legge n. 300/1970

che vieta accertamenti sanitari da parte del datore di lavoro sull’idoneità e

sull’infermità per malattia o infortuni del lavoratore , se non attraverso il ricorso

ad organismi pubblici.

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La ragione di tale norma è quella di tutelare la salute dei lavoratori contro

eventuali abusi che potrebbero derivare da controlli effettuati da medici di

fiducia dei datori di lavoro.

Nel mondo dello sport tale norma risulta inapplicabile dal momento che la

tutela della salute fisica degli atleti richiede un costante monitoraggio non

riscontrabile in altri settori lavorativi e non sufficientemente assicurata dalle

disposizioni dell’art. 5.

Il potere disciplinare del datore di lavoro è regolato nel codice civile

nell’art. 2106 mentre i limiti di tale potere sono definiti dall’art.7 dello Statuto

dei lavoratori. La legge sul professionismo sportivo ne fa salva l’applicazione in

rapporto agli sportivi professionisti in relazione alle sanzioni inflitte dalle

società sportive per violazioni agli obblighi contrattualmente assunti dal

lavoratore.

Al contrario, l’art. 4 della stessa legge, nel comma 9 stabilisce che l’art. 7

della legge n. 300/1970, non si applica alle sanzioni disciplinari irrogate dalle

federazioni sportive nazionali. In questo modo sono escluse da tale potere le

sanzioni di natura tecnica e non disciplinare, applicate dalle federazioni in

conseguenza di illeciti di tipo sportivo e non contrattuale.

La disciplina in materia di sanzioni disciplinari applicate dalle società

datrici di lavoro risulta rigorosa e sottopone l’esercizio del relativo potere a

numerosi vincoli di natura procedurale e sostanziale.

Inoltre la previsione del comma 6 dell’art. 7 della legge n. 300/1970 va

coordinata con quanto previsto in ordine alla devoluzione delle controversie

riguardo all’applicazione delle sanzioni disciplinari ad un collegio arbitrale, in

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accordo con la possibilità riconosciuta dalla legge n. 91/1981 di inserimento nel

contratto individuale di una clausola compromissoria.

5.7. Il diritto del lavoratore sportivo alla prestazione

dell’attività lavorativa

Lo svolgimento dell’attività lavorativa, oltre a costituire un obbligo, si

configura anche come diritto tutelato dall’ordinamento giuridico poiché

attraverso questo l’individuo trova un veicolo di realizzazione e di espressione

della propria personalità.96

Tanto più questo discorso si adatta al lavoro sportivo, attività che oltre ai

requisiti dell’impegno e della dedizione propri di qualunque attività lavorativa

richiede quelli del talento, e requisiti psicofisici tali da configurarsi quasi come

vera e propria vocazione al professionismo sportivo.

In termini generali si rileva come la sottoutilizzazione o la mancata

utilizzazione della prestazione, qualora costringa il lavoratore subordinato a

rimanere inattivo, rappresenti motivo di risarcimento del danno inteso, sia come

danno alla professionalità, depauperata a causa del mancato esercizio delle

mansioni, che come danno alla personalità ed alla salute del lavoratore, da

potersi ricomprendere genericamente nel danno biologico.

Fuori ogni dubbio è possibile riconoscere un diritto allo svolgimento della

attività lavorativa in favore dello sportivo professionista in virtù della sua

96 Sul diritto dei danni da dequalificazione spettante al lavoratore subordinato, anche sotto il profilo del danno biologico: Cass., 2 gennaio 2002, n.10, Foro it., Rep. 2002, voce Lavoro (rapporto), n. 4; Cass., 14 novembre 2001, 14199, in Foro it., Rep. 2001, voce Lavoro (rapporto), n.751;

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esigenza di essere messo in grado di rendere la propria prestazione partecipando

agli allenamenti ed ai ritiri oltre ad ogni tra iniziativa che la società di

appartenenza in vista dello svolgimento delle competizioni.

Lo specifico oggetto della prestazione cui ogni singolo atleta si obbliga

contrattualmente, rimane pur sempre quello di partecipare alle singole gare. 97

Molto più nello sport che in altre attività lavorative, risulta evidente un

chiaro interesse dell’atleta nel rendere la prestazione dal momento che, solo in

questo modo lo sportivo può mettere in luce la propria abilità ed acquistare di

conseguenze un maggiore valore sul mercato.

L’unico limite rispetto cui è anteposto questo interesse è rappresentato

dalle esigenze di ordine tecnico effettuate da chi provvede alla scelta degli atleti

da schierare nelle competizioni tenendo conto di valutazioni basate sulle

capacità tecniche e le attitudini tattiche e professionali dei singoli atleti in

relazione a ciascuno specifico tipo di gara.

In mancanza di tali ragioni un’inattività prolungata e soprattutto

ingiustificata si può quindi porre come causa giustificante una richiesta di

risarcimento fino ad arrivare ad integrare anche la domanda di risoluzione del

contratto.

Un diritto al lavoro, inteso come possibilità di partecipazione alle gare,

risulta più accentuato nel caso degli sport individuali in ragione della ancora

più elevata personalizzazione della prestazione .

L’art. 4 della legge n. 91/1981 esclude invece esplicitamente

l’applicazione dell’art. 2103 c.c. che, come modificato dall’art. 13 dello Statuto

97 A favore del riconoscimento di un oggettivo interesse dello sportivo all’esecuzione del suo lavoro SANTORO-PASSARELLI F., Nozioni di diritto del lavoro, Napoli, 1983, p. 180; contra DURANTI D., L’attività sportiva, cit., p. 718, il quale esclude, invece, che esista un diritto dell’atleta a partecipare alle gare;

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dei lavoratori, esclude che il datore di lavoro possa unilateralmente assegnare al

lavoratore mansioni diverse da quelle di assunzione al fine di soddisfare

esigenze aziendali.

L’art. 2103 c.c.secondo la sua nuova formulazione, stabilisce la sanzione

della nullità rispetto agli eventuali patti contrari alla regola per cui il prestatore

di lavoro debba essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a

quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente

acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte senza

alcuna diminuzione della retribuzione.

Nel caso di assegnazione a mansioni superiore, la previsione codicistica è

che il lavoratore abbia diritto al trattamento economico corrispondente

all’attività svolta e che l’assegnazione stessa divenga definitiva ove la

medesima non abbia avuto luogo in sostituzione di un lavoratore assente con

diritto alla conservazione del posto di lavoro e per un periodo fissato dai

contratti collettivi che non deve mai ad ogni modo eccedere i tre mesi.

E’ quindi possibile adibire un lavoratore a mansioni diverse rispetto a

quelle previste dal contratto di lavoro ma solo ove queste siano equivalenti o

superiori a quelle precedentemente svolte, integrando in tal caso, qualora si

superi un determinato periodo di tempo, il diritto ad un corrispondente più

elevato trattamento sotto il profilo economico.

Il lavoro sportivo ne risulta escluso dal momento che risulta difficile

ritrovare all’interno della realtà organizzativa del lavoro dello sport le

fattispecie delineate in relazione a questa previsione normativa.

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Non è infatti possibile stabilire delle gerarchie analoghe a quelle delle

categorie professionali rispetto ai ruoli pur differenti assegnati agli atleti degli

sport di squadra.

Negli sport di individuali, ribadita peraltro la totale irrilevanza sul piano

pratico di tale speculazione, risulta difficile anche in astratto ipotizzare un

problema di adibizione a mansioni nello sport.

Un ragionamento in questo senso potrebbe forse limitarsi a figure

residuali del mondo dello sport quali quelle rappresentate dal “gregario” nel

ciclismo e quella dello sparring patner nel pugilato, figura certo di confine fra

l’atleta vero e proprio ed il preparatore tecnico ma ad ogni modo centro di

imputazione di situazioni giuridiche attive a differenza del per molti aspetti

omologo strumento della preparazione pugilistica rappresentato dal sacco da

boxe.

Tuttavia, la generalizzata esclusione dell’applicazione dell’art. 2103 c.c.

nel lavoro sportivo sembra lasciare agli accordi collettivi la regolamentazione

degli effetti connessi alla adibizione a mansioni differenti rispetto a quelle

contrattuali.

Resta salva, nel caso di adibizione a mansioni inferiori e meno qualificanti

la possibilità di richiedere la risoluzione del contratto oltre che il risarcimento

del danno.

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5.8. L’orario di lavoro, i riposi e le ferie

Uno degli aspetti più rilevanti in relazione all’organizzazione di qualsiasi

rapporto di lavoro è quello relativo alla regolamentazione della durata della

prestazione lavorative e dei conseguenti e necessari riposi.

Sul punto interviene la Costituzione nel suo art. 36 stabilendo la riserva di

legge per quanto riguarda la durata massima della giornata lavorativa e

statuendo che in ogni caso il lavoratore ha diritto al riposo settimanale, a ferie

annuali retribuite escludendo la possibilità di rinunciarvi.

Per quel che riguarda l’orario di lavoro già il codice civile aveva rimesso

alla legge il compito di stabilire la durata massima giornaliera e settimanale

della prestazione lavorativa nell’art. 2107 c.c.- Orario di lavoro nonchè i limiti

entro i quali consentire il ricorso al lavoro straordinario e notturno con quanto

previsto dall’art. 2108 c.c.- Lavoro straordinario e notturno.

La legge 24 giugno 1997, n. 196, ha riformato quanto previsto dal r.d. 6

dicembre 1923, n. 2657, riducendo l’orario normale massimo di lavoro a 40 ore

settimanali, con la conseguenza che la disciplina sul lavoro straordinario si

applica già a partire dalla quarantunesima ora di lavoro in poi e non più a partire

dalla quarantanovesima.

La legge stessa, impone poi di riferire l’orario di lavoro alla durata media

delle prestazioni lavorative in un periodo non superiore ad un anno,

consentendo così alla contrattazione collettiva di prevedere una certa flessibilità

delle prestazioni lavorative in ragione delle fluttuazioni del mercato.

Successivamente, con decreto legislativo 26 novembre 1999, n. 532, è

stato riformato anche il lavoro notturno.

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La riforma ha previsto che l’introduzione del lavoro notturno fosse

preceduta da una consultazione sindacale e che allo stesso fossero

prioritariamente destinati lavoratori che ne facessero richiesta, previa verifica

della loro idoneità fisica a prestare tale tipo di attività.

Il decreto legislativo dell’8 aprile 2003 n. 66, emanato in attuazione delle

direttive CE n. 93/104 e n. 2000/34 ha ripreso e sostanzialmente ribadito tali

principi in materia di orario di lavoro ed in materia di lavoro notturno.98

Anche in questo caso, la disciplina delineata per il lavoratore comune mal

si attaglia alle esigenze del lavoratore sportivo, la cui attività non può essere

delimitata nelle sue modalità di svolgimento in orari rigidamente stabiliti.

Lo stesso criterio temporale, rispetto alla durata della prestazione

lavorativa richiesta all’atleta professionista, mal si adatta e risulta in concreto

poco significativo nelle molteplici differenti discipline delle competizioni

sportive.

La stessa legge esclude dall’ambito della sua applicabilità il lavoratore

sportivo.

Innanzi tutto perché dal suo ambito di operatività sono esclusi dirigenti e

quadri che costituiscono le categorie in cui rientra la maggior parte degli

sportivi professionisti differenti dagli atleti.

In seconda battuta perché tale disciplina non ricomprende le attività

cosiddette discontinue, categoria questa che ricomprende fra gli altri gli artisti

ed i lavoratori dello spettacolo ed all’interno della quale sembra possano farsi

98 La nuova direttiva CE n. 2003/88/CE, GUCE, 18 novembre 2003 , n. L. 299, p. 9 in materia di organizzazione dell’orario di lavoro ha abrogato le precedenti. In particolare questa prevede un riposo di almeno 11 ore consecutive ogni 24 ore, cui si somma un riposo settimanale di 24 ore ogni 7 giorni, una pausa per lavori giornalieri superiori alle 6 ore, l’orario settimanale di 48 ore compreso lo straordinario e la durata minima delle ferie stabilita in 4 settimane.

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rientrare le figure di atleti, allenatori ed in generale tutti quei soggetti coinvolti a

vario titolo nello svolgimento delle competizioni.

Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, attraverso la circolare n.

5/27451/70 ha ad ogni modo stabilito che, anche per il lavoro discontinuo si

baderà a non eccedere i limiti delle 48 ore settimanali avendo in questo caso

come periodo di riferimento il quadrimestre o quello previsto dal CCNL.

Trova invece piena applicazione anche nel lavoro sportivo, l’esclusione

dal lavoro notturno prevista a tutela della lavoratrice madre.

Tale esclusione è prevista a partire dall’accertamento dello stato di

gravidanza e si perpetua fino al raggiungimento del primo anno di età.

Per i minori, a tal proposito è stabilito il divieto di prestare la propria

attività lavorativa oltre le 24.

I riposi e le ferie rappresentano un momento imprescindibile di ogni

attività lavorativa e tanto più assumono significato nell’ambito del lavoro

sportivo dal momento che, in questo contesto, costituiscono non solo un diritto

ma anche un momento della preparazione agonistica.

L’art. 2109 c.c.-Periodo di riposo, è stato sostituito dall’art. 9 del recente

decreto legislativo n. 66/2003 che nel suo comma primo riconosce

esplicitamente al lavoratore il diritto di un giorno di riposo settimanale

normalmente coincidente con la domenica.

Il comma 2 dello stesso articolo prevede comunque la possibilità, per

esigenze tecniche d’impresa o ragioni di pubblica utilità, di usufruire di un

giorno differente dalla domenica.

Tale esigenza, sotto gli occhi di tutti nel settimanale susseguirsi delle

giornate del campionato di calcio, è giustificata da ragioni organizzative dal

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momento che, in numerosi sport, le competizioni si concentrano soprattutto

nella domenica.

L’art. 2109 c.c. e l’art. 10 del decreto legislativo n. 66/2003 prevedono il

riconoscimento al lavoratore subordinato di un diritto alle festività

infrasettimanali ed un periodo annuale di ferie , stabilito dalla legge o dai

contratti collettivi da godere in un arco temporale continuativo scelto

dall’imprenditore tenuto conto delle esigenze dell’impresa e degli interessi del

prestatore di lavoro.

L’accordo collettivo per i calciatori, comma 1 art. 22, prevede che il

riposo sia goduto entro i primi due giorni della settimana mentre quello dei

giocatori di pallacanestro99prevede che l’atleta abbia diritto ad un riposo

infrasettimanale da effettuarsi di norma il lunedì, salvi in ogni caso gli impegni

infrasettimanali e quelli delle Coppe internazionali e della Nazionale.

Per quanto riguarda invece le ferie annuali, la durata prevista dall’accordo

collettivo per i calciatori è stabilita in un periodo annuale di 4 settimane ,

comprensivo dei giorni festivi e dei riposi settimanali.100

In maniera non diversa rispetto a quanto previsto per tutti i lavoratori

subordinati, sono concessi ulteriori giorni di esonero in occasione del

matrimonio che per i calciatori ammontano ad almeno 5 giorni di congedo

retribuito.

Allo stesso modo risulta applicabile agli sportivi professionisti l’art 10

dello Statuto dei lavoratori relativo agli sportivi lavoratori.

A tal proposito, in accordo con le auspicabili aspirazioni culturali da

riconoscere agli atleti, il contratto collettivo dei calciatori, nel suo art. 10,

99 Accordo collettivo per i giocatori di pallacanestro: Parte seconda-Riposi.

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demanda alla federazione, d’intesa con l’associazione calciatori, l’indicazione

delle condizioni cui debbono adeguarsi le società, in modo compatibile con le

esigenze dell’attività sportiva, per agevolare la frequenza dei corsi e la

preparazione agli esami dei calciatori che intendano proseguire gli studi o

conseguire una qualificazione professionale.

5.9. La retribuzione ed il trattamento di fine rapporto

La stipulazione del contratto di lavoro subordinato comporta l’insorgere

di due obbligazioni corrispettive principali in capo a ciascuna delle due parti:

l’obbligo del lavoratore a di rendere la prestazione e quello del datore di lavoro

di corrispondere la retribuzione.

La retribuzione del lavoratore assume una peculiare importanza

nell’ambito delle obbligazioni rispetto ai normali contratti a prestazioni

sinallagmatiche .

La funzione che questa riveste è infatti quella di costituire il mezzo

attraverso il quale la grande maggioranza degli individui provvede a soddisfare

i bisogni di vita propri e di quelli della propria famiglia.

Tale imprescindibile rilevanza sociale, che trova tutela costituzionale

nell’art. 36, impone di superare i canoni della obbligatorietà, della

corrispettività, della continuità e della determinatezza ma di affiancare per la

100 Accordo per i calciatori, art. 22 comma 2.

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retribuzione anche quelli della proporzionalità e sufficienza rispetto alle

esigenze di vita del lavoratore.

Proporzionalità va intesa nel senso che la retribuzione deve tenere conto

della quantità del lavoro prestato e dell’impegno profuso in relazione alla durata

della prestazione, della qualità delle mansioni svolte e considerata in relazione

alla specializzazione richiesta ed alla responsabilità che ne consegue.

La sufficienza si configura invece come un criterio quantitativo

imponendo una misura minima di retribuzione che possa garantire non solo al

lavoratore ma anche alla sua famiglia un'esistenza dignitosa.

I principi costituzionali relativi alla retribuzione trovano applicazione

anche nell’ambito del lavoro sportivo, ricordando a scanso di equivoci che al

pari di ogni altra categoria di lavoratori anche per quelli sportivi esiste la

necessità di tutela dei livelli minimi salariali oltre a quella di una puntuale e

regolare erogazione della distribuzione.

La ben nota condizione dei campioni degli sport professionistici che

godono di compensi elevatissimi costituisce infatti pur sempre un’eccezione

statisticamente poco rilevante rispetto alla realtà degli atleti che svolgono la

propria attività ai livelli anche immediatamente inferiori a quelli

dell’eccellenza.

Per gli sportivi meglio pagati, sembrerebbe profilarsi l’esigenza opposta e

sport cioè quella di fissare dei tetti massimi di remunerazione al fine di evitare

che il continuo lievitare dei costi travolga l’intero sistema sportivo.101

L’introduzione di un tale provvedimento, prescindendo anche dalla sua

dubbia efficacia, si scontrerebbe ad ogni modo con la normativa antitrust.

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Con riferimento al lavoro al lavoro sportivo d’altra parte non può porsi un

problema di violazione dei minimi retributivi per effetto di una pattuizione

individuale non consona ai principi costituzionali della sufficienza e della

proporzionalità della retribuzione.

I contratti individuali sono infatti condizionati, pena la loro invalidità, alla

conformità con lo schema previsto per il contratto-tipo, che a sua volta

recepisce, anche in materia di retribuzione, quanto stabilito dall’accordo

collettivo.

Benché non sia dato riscontrare un sistema di determinazione della

retribuzione analogo a quello previsto per i comuni lavoratori subordinati,

anche per il lavoro sportivo professionistico la determinazione della

retribuzione è affidata agli accordi collettivi.

La struttura della retribuzione come noto è complessa,.

Comprende infatti oltre alla retribuzione base, che coincide con quella

minima fissata in relazione alla qualifica ed alla unità di misura sulla quale

viene calcolata la prestazione di lavoro, le maggiorazioni (per il lavoro

straordinario, notturno o festivo) ed anche i vari e molteplici elementi accessori.

Fra questi ultimi in particolare rientrano gli elementi accessori

superminimi (individuali o collettivi), la tredicesima e quattordicesima

mensilità ed i premi di produzione.

Non di rado, la contrattazione prevede accanto a queste voci altri

emolumenti sempre di carattere retributivo.

101 COSTA F. , Peculiarità del rapporto di giocatori professionisti, in Dir. lav., 1988, I, p. 317. Per l’autore l’eccessiva lievitazione dei compensi dei calciatori si porrebbe come incompatibile con la qualificazione di lavoro subordinato.

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Dall’esame di quanto previsto negli accordi relativi ai calciatori ed ai

giocatori di pallacanestro102, risulta un diverso criterio di corresponsione della

retribuzione il cui importo è ragguagliato all’anno ed è costituitola un

compenso annuo lordo che assorbe ogni altro emolumento, indennità o assegno

cui l’atleta potrebbe aver diritto a titolo di permessi, gare notturne, ritiro o altro.

Alla retribuzione fissa si sommano gli eventuali premi collettivi ed

individuali aventi anch’essi natura retributiva e rispettivamente relativi al

rendimento della squadra piuttosto che del singolo atleta.

Devono inoltre ritenersi facenti parte della retribuzione anche le quote di

partecipazione all'eventuali iniziative promo-pubblicitarie della società, mentre

tale ricomprensione è da escludere per gli importi che i singoli atleti

percepiscono n forza di contratti di sfruttamento della propria immagine al di

fuori della trasmissione della gara.

In tale ultimo caso emerge infatti la doppia configurazione dell’atleta

professionista che agisce nella veste non di prestatore di lavoro subordinato,

ma di imprenditore per ciò che attiene allo sfruttamento commerciale della

propria immagine.

Tra i diritti di natura patrimoniale spettanti ai lavoratori subordinati va

ricompreso il trattamento di fine rapporto, riconosciuto ai sensi dell’art. 2120

c.c.-Disciplina del trattamento di fine rapporto in proporzione dell’anzianità di

servizio.

L’ammontare del TFR viene calcolato sommando per ciascun anno di

servizio una quota pari ed ad ogni modo mai superiore all’importo della

retribuzione dovuta per l’anno stesso divisa per 13, 5.

102 Accordo per i calciatori artt 6,7,8;Accordo per i giocatori di pallacanestro -Parte prima: Retribuzione

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La retribuzione annua, è calcolata comprensiva delle somme percepite e

dell’equivalente delle prestazioni in natura corrisposte in dipendenza del

rapporto di lavoro a titolo non occasionale e con esclusione di quanto

corrisposto a titolo di rimborso spese.

Tale somma in questo modo calcolata viene incrementata al 31 dicembre

di ogni anno con l’applicazione di un tasso costituito dall’1,5 % in misura fissa

e dal 75 % dell’aumento dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di

operai ed impiegati accertati dall’Istat.

Il TFR spetta anche agli sportivi professionisti il cui diritto non può venir

meno per l’eventuale applicazione dell’art. 4 , 7° comma, legge n.91/1981 ,

secondo il quale le federazioni sportive nazionali possono prevedere la

costituzione di un fondo gestito da rappresentanti delle società e degli sportivi

per la corresponsione della indennità di anzianità a termine dell’attività sportiva

a norma dell’art. 2123 c.c..

La costituzione di tale fondo è ad ogni modo facoltativa e non deve essere

in pregiudizio del diritto dello sportivo professionista alla corresponsione del

TFR.

5.10. Gli obblighi del datore di lavoro: la tutela delle

condizioni di lavoro e della salute

L’art. 2087cc-Tutela delle condizioni di lavoro, statuisce che

l’imprenditore sia tenuto ad adottare, nell’esercizio dell’impresa quelle misure

minima-Parte seconda: Retribuzione,.

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che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e lo stato della tecnica,

sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore

di lavoro.

Questa norma, rappresenta il momento centrale dell’intero sistema di

sicurezza nei luoghi di lavoro, imponendo al datore di lavoro di adottare le

misure di sicurezza richieste dalla legge nei singoli specifici settori produttivi,

nonché quelle che secondo l’esperienza, le nuove conoscenze tecnologiche e la

particolare organizzazione del lavoro sono necessarie a garantire la completa

tutela del lavoratore..

All’interno della cornice approntata dall’art. 2087 c.c., il decreto

legislativo n. 626/1994 , modificato prima dal decreto legislativo n. 242/1996, e

dal recente n. 195/2003, ne costituisce una specificazione.

La normativa vigente, impone all’imprenditore un limite al suo potere

organizzativo che non deve essere mai configgente con la tutela della salute

costituzionalmente garantita negli artt. 32 e 41, con l’obiettivo di perseguire la

piena sicurezza del lavoratore che deve vedere costantemente aggiornate le

misure di prevenzione che gli vengono apprestate,

Nel lavoro sportivo l’art. 2087 c.c. assume un ruolo decisivo dal momento

che in questo settore manca una legislazione dedicata, salvo quanto disposto

dall’art. 7 della legge n. 91/1981 in merito alla tutela sanitaria degli sportivi

professionisti.

In attuazione della norma codicistica, le società sono tenute ad adottare

tutte le misure necessarie ad eliminare ogni fattore di rischio legato ai luoghi

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della prestazione sportiva in ogni caso in cui questi siano direttamente gestiti

dalle stesse.103

E’ quindi la società a dover garantire che, i campi degli allenamenti, le

attrezzature messe a disposizione per lo svolgimento delle prestazioni sportive,

i locali gestiti dalle società stesse presentino caratteristiche tali da prevenire il

rischio di infortuni salvaguardando in questo modo l’integrità fisica dello

sportivo.

La società risponderà a tal proposito contrattualmente, ai sensi di quanto

disposto dall’art. 2087 c.c., dei danni accorsi in capo ad uno sportivo,ogni volta

che siano riscontrabili delle lacune nelle misure protettive che si sarebbero

dovute o avrebbero potuto essere poste a tutela dell’atleta, siano queste previste

da disposizioni legislative e regolamentari piuttosto che semplicemente

suggerite dall’esperienza e dalle conoscenze tecniche in materia di sport.

Per quanto riguarda invece gli eventuali danni subiti dallo sportivo in

occasione di competizioni svolte al di fuori dei luoghi gestiti direttamente dalla

società datrice di lavoro, graverà sui gestori di tali impianti e sugli organizzatori

delle gare una responsabilità di natura acontrattuale.104

Ciò che non fa carico, invece, alla società datrice di lavoro, in ragione

della normale alea che viene accettata soprattutto da chi gareggia in determinati

tipi di sport, è la responsabilità per i danni derivanti da incidenti di gara.

Le conseguenze lesive dell’integrità psicofisica della persona, subite a

motivo della pericolosità dell’attività svolta, non danno luogo ad obbligazioni

risarcitorie a carico della società se opera la cosiddetta scriminante sportiva.

103 BIANCHI D’URSO F.-VIDIRI G., La nuova disciplina del lavoro sportivo, in Riv. Dir. Spor., 1982, p. 31. 104 PONZANELLI G.-BUSNELLI F.D, ,Rischio sportivo e responsabilità civile, in Resp. Civ. e prev., 1984, p. 283.

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Questa è riconosciuta in ogni caso in cui s’incorre in danni ricompresi

nell’alea normale dell’attività praticata , perché occorsi nel rispetto delle regole

dettate dall’ordinamento sportivo e ad ogni modo rientranti nel cosiddetto

rischio sportivo, accettato da parte dei praticanti l’attività sportiva.

Se invece il danno riscontrato subito dall’atleta, anche in occasione di

scontri e situazioni considerati inevitabili rispetto alla disciplina che viene

praticata, è imputabile a carenze nei necessari accertamenti sanitari piuttosto

che ad errori del medico sportivo che han portato a schierare nelle competizioni

atleti non in perfetta efficienza fisica, riemerge la responsabilità della società

ex art. 2087 c.c..

L’art. 7 della legge n. 91/1981, dispone che l’attività venga effettuata

sotto controlli medici, secondo norme stabilite dalle federazioni sportive

nazionali ed approvate con decreto del Ministero della Sanità.

In base al citato articolo è prevista l’istituzione di una scheda sanitaria per

ciascuno sportivo professionista, il cui aggiornamento deve avvenire con

periodicità almeno semestrale e che deve contenere gli accertamenti clinici e

diagnostici fissati con decreto dal Ministro della Sanità.

La scheda sanitaria è istituita, aggiornata e custodita a cura della società

sportiva sulla quale gravano i relativi oneri economici.

In perfetta corrispondenza, tali obblighi, sono invece a carico degli atleti

quando questi rivestano la posizione di lavoratori autonomi ai sensi dell’art. 3

della legge n. 91/1981.

L’istituzione e l’aggiornamento sanitario costituiscono inoltre,

condizione per l’autorizzazione da parte delle singole federazioni allo

svolgimento delle attività degli sportivi professionisti.

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L’obiettivo che il legislatore ha inteso perseguire con tali disposizioni, è

stato quello di garantire un costante monitoraggio dello stato di salute dello

sportivo, la cui perfetta efficienza fisica deve sussistere nel momento dell’avvio

dell’attività sportiva e permanere durante l’intero periodo di svolgimento della

stessa.

5.11. Le vicende nel rapporto di lavoro sportivo

5.11.1 La sospensione

Nel rapporto di lavoro sportivo, in maniera non diversa da quanto accade

in tutti gli altri contratti di durata, può capitare che si verifichino situazioni che

impediscano lo svolgimento del rapporto di lavoro.

Tali situazioni possono essere distinte in accadimenti che riguardino o

particolari esigenze aziendali, piuttosto che eventi relativi alla persona del

lavoratore.

Nel primo caso, va rilevato come alle società sportive, a differenza di

quanto non accada negli altri ambiti del mondo del lavoro, non si applica

l’istituto della cassa integrazione guadagni.

Non esistono differenze rispetto alla normativa generale, per quanto

riguarda invece le cause che interessano il lavoratore e che si riconducono nella

maggior parte dei casi al verificarsi di un infortunio, una malattia e per le

sportive la gravidanza ed il puerperio.

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Tutte queste situazioni sono regolamentate, in linea generale dall’art.

2110- Infortunio, malattia gravidanza, puerperio, e, secondo espresso rinvio

dell’articolo in questione dalle leggi speciali e dalla contrattazione collettiva.

Da previsione codicistica, esclusi i casi in cui la legge non preveda già

forme alternative di assistenza e previdenza, in questi casi son dovute al

prestatore di lavoro la retribuzione o un indennità nella misura e per il tempo

determinati dalle leggi speciali, dagli usi o anche secondo equità ed il computo

di tale periodo di assenza nell’anzianità di servizio.105

Tale disciplina, di carattere garantista e favorevole al lavoratore, trova dei

limiti nella durata di tali garanzie che, evidentemente non possono avere durata

illimitata.

Lo stesso codice, dà datore di lavoro, ha infatti il diritto di recedere dal

contratto a norma dell’art. 2118 – Recesso dal contratto a tempo indeterminato,

ove sia decorso il periodo stabilito dalla legge, dagli usi o secondo equità.

Tale periodo di infortunio o malattia, prende il nome di periodo di

comporto che risulta regolamentato più che dalla legge dai vari contratto

collettivi che in questo senso presentano un’elasticità che meglio si adatta alle

diverse fattispecie prevedendo periodi diversi a seconda dell’anzianità di

servizio e delle categorie aziendali.

L’accordo collettivo dei calciatori ad esempio, prevede che in tale periodo

al calciatore vadano riconosciuti i compensi stabiliti dal proprio contratto fino

alla sua scadenza.

105 In Brasile la legge n. 9.615/98 presenta soluzioni analoghe distinguendo però fra cause di sospensione e cause di interruzione che, a differenza delle ipotesi del nostro art. 2110 C.C., sono quelle che fanno venir meno l’obbligo della retribuzione escludendo tale periodo dal computo dell’anzianità di servizio come nel coso di una malattia superiore a 15 gg. ZAINAGHI D. S., Nova legislaçao Desportiva, Aspectos Trabalhistas, Sao Paulo, 2002, p. 38.

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Solo nel caso in cui il periodo di inabilità dell’atleta superi i sei mesi, la

società ha la facoltà di chiedere, con ricorso arbitrale, la risoluzione del

contratto o di ridurre alla metà i compensi dell’atleta fino al perdurare della

situazione o al termine di scadenza del contratto.

Tale disciplina non si applica nel caso in cui la malattia o l’infortunio

dipendano da colpa grave del calciatore: in questa situazione la società ha infatti

la possibilità di risolvere il contratto o di ridurre i compensi a titolo di sanzione

disciplinare.

Gli articoli 18 e 19 dell’accordo collettivo di calciatori, prevedono infine

che se l’infortunio sia tale da pregiudicare definitivamente la possibilità per

l’atleta di svolgere l’attività agonistica, la società abbia il diritto di risolvere

immediatamente il contratto.

In questo senso anche l’accordo dei giocatori di pallacanestro che però

concede ai propri atleti un periodo di comporto superiore fissato in 9 mesi.106

L’impossibilità sopravvenuta dell’atleta a fornire la propria prestazione

può derivare anche da una sanzione disciplinare.

In questo caso la società ha la possibilità di proporre al collegio arbitrale

una riduzione dello stipendio per il periodo di squalifica.107

106 Accordo collettivo dei giocatori di pallacanestro, Parte seconda – punto 16. 107 Accordo collettivo per i calciator art. 15 lettera D.

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5.11.2. L’abolizione del vincolo sportivo

Il vincolo sportivo è abolito dalla legge n. 91/1981 che, a riguardo,

introduce il principio della libertà dello svolgimento dell’attività sportiva e la

previsione di libera recedibilità dal rapporto di lavoro.108

Il vincolo, istituto tipico dell’ordinamento sportivo, prevedeva come visto

in precedenza che l’atleta rinunciasse alla propria libertà contrattuale, affidando

di fatto le proprie sorti alla società che lo aveva ingaggiato, rendendola in

questo modo capace di disporne il trasferimento ad altro sodalizio sportivo ,

anche senza il suo consenso , vedendo esclusa per l’atleta la possibilità di

sottrarsi al provvedimento adottato.

Tralasciando in quest’ ambito considerazioni già richiamate sulla natura

del vincolo, appare opportuno rilevare come si sia assistito ad un’evoluzione

che partiva da una situazione in cui l’atleta veniva considerato come un

oggetto che veniva comprato e venduto sul mercato.

L’atleta, privato di fatto della facoltà di esercitare il recesso unilaterale

dalla società di appartenenza perché gravato in questo caso dall’applicazione di

sanzioni disciplinari da parte dell’ordinamento sportivo, vedeva in ogni caso

frustrata la possibilità di esercitare la propria attività in una diversa società dalla

previsione di un’indennità di trasferimento da versare alla società di

provenienza.

108 FRATTAROLO V. , L’ordinamento sportivo nella giurisprudenza, Milano, 1995, p.332. Ritiene tale abolizione riferita ai soli atleti e non anche alle altre figure di sportivi professionisti, ponendosi soltanto per i primi un problema di regolamentazione del regime dei trasferimenti.

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L’abolizione di tale vincolo non fu immediata e contestuale all’entrata in

vigore della legge N. 91/1981 che ne prevedeva invece eliminazione spalmata

in maniera graduale nell’arco di cinque anni, secondo modalità e parametri

stabiliti dalle federazioni nazionali approvati dal CONI , tenendo conto dell’età

dell’atleta, alla durata ed al contenuto patrimoniale del rapporto con le

società.109

L’abolizione del vincolo, comportava per le società un contraccolpo non

indifferente temperato, oltre che dalle modalità della sua eliminazione , dalla

istituzione prevista dalla stessa legge sul professionismo sportivo di un

‘indennità di preparazione e promozione regolamentata dalle diverse norme

federali.

Questo era quanto previsto dall’art. 6, comma primo della legge N.

91/1981: “Cessato, comunque, un rapporto contrattuale l’atleta professionista

è libero di stipulare un nuovo contratto. In tal caso le federazioni sportive

nazionali possono stabilire il versamento da parte della società firmataria del

nuovo contratto di un’indennità di preparazione e di promozione dell’atleta

professionista, da determinare secondo coefficienti e parametri fissati dalla

stessa federazione in relazione alla natura e alle esigenze dei singoli sport.”

Il successivo quarto comma stabiliva invece che detta indennità dovesse

essere reinvestita nel perseguimento di fini sportivi.110

Anche questa indennità risulta un istituto tipico del rapporto di lavoro

sportivo, che non trova omologhi negli altri rapporti di lavoro e che trova

giustificazione nel fatto che il trasferimento di un giocatore da una squadra ad

109 Legge N. 91/1981 art. 16 – Disposizioni transitorie e finali. 110 In tema di indennità di preparazione e promozione: Trib. Pisa , 21 marzo 1997, in Giust. civ., 1997, p. 513 con nota di LAMBO L., Società calcistica retrocessala campionato di eccellenza regionale e indennità per preparazione e promozione.

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un'altra comporta, oltre ad un impoverimento tecnico da parte della squadra

cedente un corrispondente identico rafforzamento della squadra cessionaria

spesso immediata concorrente.

Su tale assetto normativo, la già citata ed in seguito meglio approfondita

sentenza Bosman sancì l’incompatibilità con l’art. 48 del Trattato CE di quelle

norme emanate da associazioni sportive in base alle quali un calciatore

professionista cittadino di uno Stato membro, alla scadenza di un contratto che

lo vincola ad una società, possa essere ingaggiato da una società di un altro

Stato membro solo se questi abbia corrisposto alla società di provenienza

un’indennità di trasferimento.111

Come meglio si vedrà in seguito, una conseguenza di questa pronuncia è,

a livello normativo all’interno dell’ordinamento italiano, la legge 18 novembre

1996, n. 586, la quale ha modificato il già citato art. 6 limitandosi a prevedere

che, nell’ipotesi di primo contratto, venga stabilito dalle federazioni sportive

nazionali il versamento di un premio di addestramento e formazione tecnica da

versare in favore della società o associazione sportiva presso la quale l’atleta ha

svolto la propria formazione giovanile o dilettantistica.

111 Effetto della sentenza Bosman non è l’incompatibilità con il Trattato di tutte le indennità di trasferimento, promozione o formazione ma di quelle che conseguono al trasferimento di giocatori tra squadre appartenenti a Stati membri pretese alla scadenza del contratto con la squadra di provenienza , che coinvolgono un calciatore professionista. FOGLIA R., Tesseramento dei calciatori e libera circolazione nella Comunità europea, in Dir. lav., 1988, I, p. 304.

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5.11.3. La cessione del contratto

La legge N. 91/1981 sul professionismo sportivo, ammette nel comma

primo dell’art. 5, la successione di contratti a temine fra le stesse parti ma

prevede anche che tale termine risolutivo non possa essere mai superiore a

cinque anni.

Il comma 2 dello stesso articolo ritiene invece ammissibile la cessione del

contratto da una società ad un ‘altra prima della scadenza del termine risolutivo

ma subordina tale evenienza al consenso delle parti ed all’osservazione delle

norme fissate dalle federazioni sportive nazionali.112

Questa, che costituisce un’applicazione dell’art. 1406 c.c. materia di

cessione del contratto,113è una fattispecie che prevede che il cedente sostituisca

a sé un terzo cessionario nel rapporto derivante dal contratto con la

conseguenza che quest’ultimo assume rispetto al ceduto la medesima posizione

del cedente, ferma la possibilità per ceduto e cessionario di introdurre nuove

modifiche in tale rapporto.

Bisogna quindi rilevare la possibilità, previo il consenso dello sportivo

professionista, che questi svolga la propria attività alle dipendenze di altra

società anche prima che sia scaduto il termine previsto nel contratto.

112 Cass., 5 gennaio 1994, n. 75, in Giust. civ., 1994, I, p. 1230:”Con riguardo al contratto di cessione di un calciatore, l’inosservanza di prescrizioni tassative dettate dal regolamento della federazione italiana gioco calcio, se non costituisce ragione di nullità per violazione di legge, a norma dell’art. 1418 c.c., tenut conto che la potestà regolamentare conferita all’ordinamento sportivo, ai sensi dell’art. 5 della legge 16 febbraio 1942 n. 426, si riferisce all’ambito amministrativo interno e non a quello di rapporti intersoggettivi privati , determina l’inoperatività e l’invalidità del contratto medesimo, in relazione al disposto del 2°comma dell’art 1322 c.c, atteso che esso, ancorché astrattamente lecito per l’ordinamento statuale come negozio atipico (prima dell’entrata in vigore della legge sul professionismo sportivo) resta in concreto inidoneo a realizzare un interesse meritevole di tutela, non potendo attuare, per la violazione delle suddette regole, alcuna funzione nel campo dell’attività sportiva, riconosciuta dall’ordinamento dello Stato.” 113 VIDIRI G., Il contratto di lavoro sportivo, in Mass. giur. Lav., 2001, p. 993.

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Tale trasferimento può altresì essere definitivo piuttosto che temporaneo,

prevedendosi in quest’ultimo caso il reinserimento nella compagine sportiva di

provenienza.

Non sembra possa contestarsi in questi casi di successione, nonostante

manchi un’espressa previsione normativa, la necessità della forma scritta dalla

quale non si può prescindere anche per consentire i necessari controlli.114

5.11.4. La risoluzione unilaterale del contratto di lavoro

a tempo indeterminato

Una degli aspetti in cui più chiaramente si manifesta il favor lavoratoris

che l’impostazione della legislazione giuslavristica italiana concede al soggetto

che tradizionalmente considera più debole e quindi bisognoso di tutela, è

costituito da una serie di limitazioni poste alla libera recedibilità concessa al

datore di lavoro.

Allo stesso modo costituiscono la corrispondente espressione di tale

atteggiamento garantista, gli appositi strumenti approntati dal legislatore a

favore del lavoratore illegittimamente licenziato.

Innanzitutto, a partire 1966, con l’entrata in vigore della legge n. 604

successivamente oggetto di estensione delle sua applicazioni ad opera della

legge n. 108/1990, la regola generale prevede che il datore di lavoro non possa

licenziare liberamente.

114 VIDIRI G., Il contratto, cit., p. 993.

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La legittimità del recesso datoriale è infatti subordinata alla ricorrenza o di

una giusta causa o di un giustificato motivo.

Non appare privo di utilità ricordare che, con giusta causa s’intende il

verificarsi di un evento che incide in modo irrimediabile sul rapporto di fiducia

tra le parti e che il giustificato motivo di licenziamento si configura o come un

grave inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore o con il

verificarsi di serie esigenze aziendali attinenti quindi all’organizzazione

dell’attività produttiva.

Inoltre, è stata prevista la cosiddetta tutela reale accordata a quei

lavoratori dipendenti che prestano la propria attività il favore di datori che

superano determinate soglie dimensionali e che permettono la reintegrazione

nel posto di lavoro in caso di licenziamento dichiarato illegittimo in sede

giudiziale.115

A scanso di ogni equivoco giova precisare che la complessa ed articolata

tutela accordata dal legislatore nei confronti del lavoratore subordinato in

generale, non trova invece applicazione a tutela del lavoratore sportivo.

L’applicabilità dell’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 e degli artt.

1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, della legge 15 luglio 1966, n. 604 è infatti esplicitamente

esclusa dall’art. 4, ottavo comma della legge sul professionismo sportivo.

Il rapporto di lavoro sportivo, si configura infatti come una di quelle

residuali ipotesi nelle quali, anche qualora tale rapporto venga costituito a

tempo indeterminato, è operante il cosiddetto recessum ad nutum, che non

richiede giustificazione alcuna e la cui disciplina à contenuta negli artt. 2118-

115Il riferimento normativo è rappresentato qui dal celebre art. 18, legge n. 300/1970.

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Recesso del contratto a tempo indeterminato e 2119- Recesso per giusta causa

c.c. .

Quanto disposto dall’art. 2118 c.c., disciplina il recesso nel contratto a

tempo indeterminato prevedendo che la possibilità di recesso accordata a

ciascun contraente sia subordinata o ad un determinato periodo di preavviso o

alla corresponsione dell’equivalente importo che sarebbe spettato per il periodo

di preavviso.

L’art. 2119 esclude invece l’obbligo di tale periodo di preavviso nel caso

di recesso per giusta causa salvo che non sia il lavoratore a dare le dimissioni

per giusta causa, situazione che comporta per il datore di lavoro il dovere di

corrispondere l’indennità di mancato preavviso.

Il rapporto di lavoro sportivo, come sopra ricordato, vede la

disapplicazione delle suddette norme mal adattandosi ad un settore competitivo

come quello dello sport una disciplina che sostanzialmente vede limitate le

ipotesi di licenziamento a situazioni di inadempimento contrattuale.

Non solo da un punto di vista delle società sportive ma anche nell’ottica

degli atleti sarebbe infatti fortemente limitante una condizione di scarsa

mobilità contrattuale in ogni caso i cui tale situazione determini un ostacolo alla

migliore resa della prestazione sportiva.

Diverso è il discorso che deve farsi sull’applicabilità al rapporto di lavoro

sportivo rispetto a quanto previsto dall’art. 15 della legge n. 300/1970 e dell’art.

4 della legge n. 604/1906.

Tali norme infatti sono volte ad impedire il licenziamento discriminatorio

e cioè quello determinato da ragioni ideologiche, religiose, politiche, sindacali,

razziali, linguistiche e di sesso.

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Tali norme sono invocabili a buon diritto anche dallo sportivo

professionista che gode, come ogni altro lavoratore, della tutela reale prevista

per tale tipo di licenziamento dall’art. 3, legge n. 108/1990.

5.11.5. Il recesso ante tempus dal contratto di lavoro a

tempo determinato

Da quanto detto sinora, non risulta difficile comprendere come nel mondo

del lavoro sportivo le ipotesi riscontrabili concretamente siano quelle di

recesso unilaterale o di risoluzione consensuale, dal contratto a tempo

determinato.

Nel caso di recesso unilaterale, la ricorrenza di una giusta causa, va

accertata in concreto, non essendo possibile tipizzarne tutte le fattispecie.116

Non è ad ogni modo impossibile richiamare a titolo esemplificativo le

fattispecie che più comunemente possono configurarsi come giusta causa di

recesso dal contratto.

Nel caso degli sport di squadra sembra legittimo ritenere che costituisca

giusta causa di recesso, la reiterata esclusione dalla “rosa” dei giocatori da

schierare nelle partite ufficiali, traducendosi in una lesione del diritto alla

prestazione sportiva , con conseguente compromissione della sua immagine

professionale dell’atleta oltre che limite al mantenimento delle sue capacità

tecniche ed agonistiche.

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In altri casi è l’accordo collettivo che indica ipotesi di giusta causa di

recesso.

L’accordo dei calciatori ne individua alcuni negli artt. 15, 16 e 17.

Costituisce ad esempio una giusta causa di risoluzione del contratto la

protratta morosità della società oltre determinati limiti temporali.

In ogni caso, sia il calciatore sia la società hanno l’obbligo di risoluzione

del contratto nel caso di violazione di obblighi contrattuali reciprocamente

assunti, con l’ulteriore previsione, a vantaggio dell’atleta, del diritto di ottenere

il risarcimento del danno in misura non inferiore del 30 % del compenso annuo

lordo117.

Diversa invece l’ipotesi in cui manchi una giusta causa configurandosi

questa volta un licenziamento illegittimo che ha come conseguenza il sorgere

dell’obbligo di risarcimento da parte della parte inadempiente.

Nel caso in cui a recedere senza giusta causa sia la società sportiva ,

questa sarà tenuta, ai sensi dell’art. 1223- Risarcimento del danno c.c. ,a

corrispondere al lavoratore l’intera retribuzione che questi avrebbe dovuto

percepire se il rapporto non fosse stato risolto in maniera anticipata.

Unico limite è in questa situazione, la possibilità per la società di detrarre

da questa somma quanto il lavoratore abbia percepito o quanto avrebbe potuto

percepire da una nuova occupazione che questi abbia effettivamente trovato o

che avrebbe potuto trovare usando l’ordinaria diligenza.

116 DURANTI D., La attività sportiva, cit., p. 718; BIANCHI D’URSO F.-VIDIRI G., La nuova disciplina, cit., p. 24. 117 In tema delle differenti ipotesi di inadempimento contrattuale previste dall’accordo collettivo dei calciatori: DE SILVESTRI A., Il contenzioso tra pari ordinati, cit p. 558.

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Allo stesso modo anche lo sportivo professionista sarà tenuto a versare un

risarcimento alla società di appartenenza nel caso di recesso ante tempus dal

contratto senza giusta causa.

Appare però molto più difficoltoso in questo caso provare quali siano gli

effettivi danni subiti dalla società per cui la via meglio percorribile sembra

essere quella di una determinazione convenzionale del danno da risarcire con

l’introduzione di rimedi civilistici come la previsione di una clausola penale ex

art. 1382 c.c. o di una multa penitenziale secondo quanto previsto dal comma 3

dell’art. 1373 c.c.-Recesso unilaterale.

Sono questi casi che nella pratica appaiono statisticamente poco rilevanti

dal momento che il recesso unilaterale da parte dello sportivo risulta essere

fortemente scoraggiato dalla presenza di pesanti sanzioni previste

dall’ordinamento sportivo la più grave delle quali è il rifiuto da parte della

federazione del tesseramento presso una nuova società.

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Capitolo Sesto

6.1. L’Unione Europea e la libera circolazione dei

lavoratori: le sentenze delle corti di giustizia in

materia di sportiva

Il Trattato CE, pone la libertà di circolazione delle persone come una delle

quattro libertà fondamentali delle persone accanto alla libertà di circolazione

delle merci, dei servizi e dei capitali.

Queste quattro libertà sono funzionali alla creazione di un mercato interno

definibile come “spazio senza frontiere”.

L’art.12 del Trattato di Amsterdam (prima art. 6 del Trattato CE), vieta

“ogni discriminazione effettuata sulla base della nazionalità”. Questa regola di

carattere generale viene specificata da tre disposizioni: l’art. 39 (prima art. 48),

relativo all’abolizione di qualsiasi discriminazione nell’impiego, nella

retribuzione ed in altre condizioni di lavoro; il diritto di rispondere ad offerte di

lavoro effettive, di spostarsi liberamente a tal fine nel territorio degli Stati

membri; di prendere dimora in uno degli stati membri al fine di svolgervi

attività di lavoro; di rimanere sul territorio di uno Stato membro dopo aver

occupato un impiego. L’art. 43, (prima art.52) che tutela il diritto del lavoratore

autonomo di stabilirsi in un altro stato membro per esercitare un’attività

economica. L’art. 49 (vecchio art.59) che assicura la libertà nella prestazione

dei servizi.

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Le sentenze Walrave118 del 1974 e Donà119costituiscono i primi esempi di

intervento comunitario in materia di sport, per quanto riguarda i principi sopra

richiamati.

In riferimento alla sentenza Walrave i giudici lussemburghesi si sono

pronunciati in via pregiudiziale ex art. 177 del Trattato CE (oggi art. 234) in

relazione ad un rilievo di un Tribunale olandese che chiedeva se fosse

compatibile con il diritto comunitario una disposizione dell’UCI (Unione

Ciclisti Internazionale) che prevedeva che nelle gare ciclistiche degli stayers

(una particolare disciplina nella quale gli atleti corrono dietro a delle

motociclette) “a partire dal 1973 l’allenatore dovrà avere la stessa nazionalità

del corridore”.

La seconda disposizione invece, riguardava l’incompatibilità con il diritto

comunitario, di alcune disposizioni del regolamento della FIGC in virtù delle

quali potevano essere tesserati e schierati in campo soltanto un numero limitato

di giocatori non italiani cittadini di Stati membri.

In entrambe le sentenze la Corte affermava che: a)L’attività sportiva è

disciplinata dal diritto comunitario qualora sia configurabile come attività

economica ai sensi dell’art. 2 del Trattato; non ricorre invece l’assoggettabilità

alle norme comunitarie se la disciplina discriminatoria si basa esclusivamente su

criteri tecnico-sportivi oppure su motivi non economici, come, ad esempio, nel

caso di incontri tra le rappresentative nazionali di due Stati membri; b) il divieto

della discriminazione a motivo della cittadinanza vale per tutte le prestazioni di

lavoro o servizi, indipendentemente dal rapporto giuridico dal quale traggono

118 CORTE DI GIUSTIZIA 12 DICEMBRE 1974, CAUSA 36/74, in Foro it. , 1975, c. 81. 119 Corte di Giustizia 14 luglio 1976, causa 13/76, in Foro it., 1976, c. 361.

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origine; c) il divieto di discriminazione riguarda non solo gli atti dell’autorità

pubblica, ma anche quelli posti in essere dalle associazioni private.

La Corte di Giustizia, con queste due sentenze, colse l’occasione di

estendere i principi del diritto comunitario ad un settore come quello sportivo

che, seppur non esplicitamente disciplinato dal Trattato di Roma, ha acquisito

rilevanza in quanto configurabile come attività economica ai sensi dell’art.2 del

Trattato.

L’orientamento della Corte ha trovato in questo ambito molteplici

reazioni, talvolta di segno contrastante.

Un indirizzo, a dire il vero minoritario, voleva lo sport sottratto

all’osservanza della normativa europea e sottolineava come nelle competizioni

il significato sportivo fosse pur sempre preminente su quello economico.

I più, invece, sostenevano che lo sport professionistico fosse

perfettamente assoggettabile alla disciplina del diritto comunitario. Questa

impostazione maggioritaria, partiva dalla considerazione che la rilevanza

economica del rapporto di lavoro sportivo sia un dato obiettivo rilevante dal

quale consegue l’applicazione dell’art. 2 del Trattato.120

Storicamente va comunque notato come i rapporti fra l’ordinamento

sportivo e l’ordinamento comunitario, in virtù delle particolari caratteristiche

del primo fra le quali il cosiddetto vincolo di giustizia sportiva, abbiano per

numerosi anni visto l’ordinamento comunitario soccombente.

120 Atti della conferenza Nazionale sullo sport, 2000, pp. 365 ss.

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6.2. La sentenza Bosman ed i suoi effetti: le

conseguenze nell’ordinamento statale e

nell’ordinamento sportivo

Come si è molto rapidamente ricordato in precedenza, l’ordinamento

comunitario, è prepotentemente entrato negli ordinamenti giuridici sportivi

degli Stati membri attraverso il ciclone suscitato dal noto caso Bosman.121

La questione che porta alla importantissima sentenza del 15 dicembre

1995, viene sottoposta alla Corte di Giustizia europea dalla Corte di Appello di

Liegi, che si rivolge al giudice comunitario mediante lo strumento del rinvio

pregiudiziale.

La vicenda oramai famosa, vede Bosman, giocatore di calcio della serie B

belga, proporre dinanzi alla corte di Liegi una questione legata alla difficoltà di

trasferimento dello stesso da una società all’altra.

Vale la pena ricordare il caso nella sua fattispecie cui già si è fatto cenno

nel capitolo secondo.

Bosman, giocatore di serie B belga, si trovò, alla scadenza del rapporto

contrattuale con la sua società di appartenenza, limitato nella sua libertà di

circolazione: lo spostamento ad un’altra società era reso infatti più difficile in

forza di un’indennità (il parametro) che la nuova società avrebbe dovuto

corrispondere per il trasferimento; inoltre, la disciplina nazionale poneva limiti

al tesseramento di cittadini comunitari ed extracomunitari.

Il giudice comunitario statuì che:

121 Causa C-415/93, in Riv. dir. Sport., 1996, pp. 541 ss.

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a) l’art. 48 del Trattato CE osta all’applicazione di norme emanate da

associazioni (nazionali, sopranazionali e/o internazionali) ai sensi delle quali un

calciatore professionista cittadino di uno Stato membro, alla scadenza di un

contratto che lo vincoli ad una società, possa essere ingaggiato da una società di

un altro Stato membro previo versamento alla società di una qualsivoglia

indennità, sia questa di trasferimento, di formazione o di promozione;

b) L’art. 48 del Trattato CE osta all’applicazione di norme emanate da

associazioni sportive, secondo le quali, nelle competizioni dalle stesse

organizzate, le società calcistiche possano schierare solo un numero limitato di

calciatori professionisti cittadini di altri Stati membri.

La Corte di Giustizia in questo modo ha ottenuto risultati che gli Stati

membri spesso non hanno ottenuto da soli e cioè la sottomissione delle autorità

sportive potendo così fare applicazione dell’art 48 del Trattato CE in tema di

libera circolazione delle persone, ritenendo incompatibili con il diritto

comunitario una serie di vincoli invece previsti dal diritto statuale interno.

L’UEFA, confederazione della Fédération internationalede football

association, meglio nota come FIFA, nel corso del processo ha sostenuto come

l’autorità comunitaria abbia sempre rispettato l’autonomia dell’attività sportiva

nella quale sarebbe molto difficili operare una scissione fra aspetti sportivi ed

economici.

Una pronuncia della Corte di discussione l’intera organizzazione del

gioco del calcio.

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Ne consegue che “anche se l’art. 48 del Trattato dovesse applicarsi ai

calciatori professionisti, sarebbe necessario attenersi a criteri di elasticità in

considerazione della specificità di tale attività sportiva”122.

Da parte sua, il Governo tedesco, richiamando l’autonomia e la libertà di

associazione di cui godono le Federazioni sportive sulla base del diritto

nazionale, è giunto alla conclusione che “secondo il principio di sussidiarietà,

considerato come principio generale, l’intervento delle autorità pubbliche e, in

particolare , della Comunità nella materia considerata, deve essere limitato allo

stretto necessario”.123

La Corte di Giustizia, respingendo tali argomenti, replicava alla UEFA

come già nel caso Donà, più volte richiamato nella sentenza Bosman, i giudici

avessero stabilito che le norme sulla libera circolazione non ostano a normative

o prassi restrittive giustificate da motivi non economici, anche se la restrizione

della sfera di applicazione di tali norme deve restare entro i limiti del suo

oggetto specifico e “non può essere invocata per escludere un’intera attività

sportiva dalla sfera di applicazione del Trattato”124.

In questo modo, il principio di autonomia dell’ordinamento sportivo,

veniva riconsiderato secondo una visione diversa da quella che prevedeva la

totale impermeabilità nei confronti dell’ordinamento generale.

La Corte, replicando al governo tedesco riguardo all’estensione del

principio di sussidiarietà, ribadiva che questo “ non può avere l’effetto che

l’autonomia di cui godono le associazioni private per adottare normative

sportive limiti l’esercizio dei diritti conferiti ai privati dal Trattato”125.

122 Punto 71. 123 Punto 72. 124 Punto 76. 125 Punto 81.

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Bisogna ricordare, che l’ordinamento europeo si colloca in una posizione

di sovraordinazione gerarchica rispetto all’ordinamento dello Stato membro.

Le norme statali, di qualunque grado esse siano, sono pertanto destinate a

soccombere nei confronti delle norme previste nel trattato, in un regolamento

comunitario, in una direttiva self-executing.

In questa prospettiva, il principio di libera circolazione dei lavoratori di

cui all’art. 48 del Trattato CE, unitamente ai principi di libertà di circolazione

delle merci, di servizi e dei capitali, ugualmente garantiti dal Trattato,

costituisce un asse portante della stessa nozione di mercato comune e in quanto

tale “non tollera attenuazioni o eccezioni”.126

D’altra parte, la presenza del giudice comunitario o nazionale, appare

sempre più irrinunciabile, come rilevato fra gli altri da Clarich, in un mondo

come quello delle Federazioni sportive che vede sempre più fittamente

intrecciati gli interessi sportivi a quelli economici.

La sentenza Bosman, come subito ricordato, è stata resa in via

pregiudiziale ai sensi dell’allora art. 177 del Trattato, ora art.234.

Con essa la Corte, interpreta l’art 48 del Trattato e, come questo, risulta

direttamente vincolante anche per i giudici nazionali, prevalendo sulle norme

statuali eventualmente contrastanti.

L’importanza della sentenza Bosman, travalica quindi i semplici diretti

interessi delle parti in giudizio ma, al contrario, la sua forza reale, è quella

costituita dal potere di vincolare i vari giudici nazionali nel verso

dell’interpretazione del Trattato nel senso previsto dalla Corte Europea.

126 A tal proposito : Clarich 1996, pp. 393 ss.; Bastianon 1996, p. 3; Faini 1996, p. 102; Orlandi 1996, p. 619; Van Miert 1996, pp. 5 ss.

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L’estensione dell’ambito di applicazione della sentenza inoltre, non si

limita al gruppo degli Stati membri ma, in virtù dell’Accordo sullo Spazio

Economico Europeo, si estende ai Paesi ad esso aderenti.

Un’altra prospettiva di analisi sull’estensione dell’efficacia della sentenza,

è invece quella relativa all’ambito delle discipline sportive che da questa

vengono coinvolte.

La corte a tal proposito, nel confermare che le norme comunitarie sulla

libera circolazione delle persone e dei servizi non ostano a normative o a prassi

giustificate da motivi non economici, chiarisce che intende circoscrivere i

principi enunciati nella sentenza al solo sport professionistico o tutt’al più

semiprofessionistico.

La sentenza pertanto è applicabile solo a quegli sportivi che svolgono un

lavoro sportivo subordinato o che effettuano prestazioni di servizio retribuite.

Bisogna infatti ricordare che l’attività sportiva è disciplinata dal diritto

comunitario solo “in quanto configurabile come attività economica ai sensi

dell’art. 2 del Trattato”.127

La dottrina e fra questi Vidiri, ha poi sostenuto come rilevante ai fini della

tutela dell’art. 48 del Trattato non sia la qualificazione formale di sportivo

professionista, ma si debba guardare alla situazione sostanziale che di fatto vede

impegnato il lavoratore sportivo.

In questo modo l’applicabilità dell’art. 48 è da intendersi come

potenzialmente estendibile a tutte le discipline sportive.

127 Cfr. punto 73.

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In giurisprudenza, una delle prime sentenze successive a quello che ha

preso poi il nome di “ciclone Bosman”, è stata quella pronunciata dalla

Commissione di Appello della FIGC il 26 ottobre 1996.

In conformità con l’interpretazione data dalla Corte di Giustizia, la

Commissione di Appello affermava che”avendo la Corte di Giustizia ravvisato

il contrasto tra le disposizioni che prevedono il pagamento dell’indennità di

preparazione e promozione e l’art. 48 del Trattato, le predette disposizioni non

possono più trovare applicazione nello Stato italiano.[…]Dalla data della

sentenza è inibita l’applicazione delle disposizioni di cui trattasi, la cui

inapplicabilità ha portata generale ed erga omnes”128.

In riferimento al caso di un giocatore di pallamano svedese, un giudice

ordinario svedese giunse ad una pronuncia altrettanto significativa:

l’applicazione delle disposizioni comunitarie relative alla libera circolazione

dei lavoratori richiede, come unico elemento, l’esistenza per l’appunto di un

rapporto di lavoro,o della volontà di stabilire un simile rapporto[…]; il fatto

che la normativa federale qualifichi la pallamano come attività dilettantistica

non può avere alcuna influenza nel caso di specie, atteso che i criteri distintivi

vigenti nel settore dello sport non rivestono alcun valore all’interno

dell’ordinamento giuridico statale né possono vincolare i relativi organi

giurisdizionali.

Queste conclusioni appaiono in linea con i principi affermati dalla Corte

lussemburghese già tempo prima del caso Bosman129 e tra l’altro riconfermati

nella pronuncia del caso Deliége in cui la corte ha rilevato che:

128 In Riv. dir. Sport., 1997, pp. 983 ss. 129 Fra i tanti Corte Giust. 23 marzo 1982, Levin, causa 53/81, in Raccolta 1982, pp. 1035 ss.; 3 luglio 1986, Lawrie-Blum, causa 66/85, in Raccolta 1986, pp. 2121 ss.

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la semplice circostanza che un’associazione o federazione sportiva qualifichi

unilateralmente come dilettanti gli atleti che ne fanno parte non è di per sé tale

da escludere che questi ultimi esercitino attività economiche ai sensi dell’art.2

del Trattato. Tuttavia, le attività esercitate devono essere reali ed effettive e non

talmente ridotte da potersi definire puramente marginali ed accessorie.130

La sentenza Bosman ha avuto conseguenze anche sul piano del diritto interno.

Fra i suoi effetti anche il D.L. 20 settembre 1996 n. 485 convertito poi nella L.

18 novembre 1996 n. 586 e balzato agli onori della cronaca come cosiddetto

Decreto Bosman o Decreto “spalma perdite”.

Il legislatore italiano, ha avuto così modo di ridisegnare la disciplina dei

trasferimenti dei calciatori professionisti, tenendo conto, oltre che della

sentenza, anche delle indicazioni dottrinali che l’hanno seguita.

Con la legge n. 586/1996, che modifica l’art. 6 della legge n. 81/1981, il

legislatore ha eliminato “l’indennità di preparazione e promozione” con

riferimento ad ogni tipo di trasferimento di atleta professionista, compresi quelli

che si verificano tra società di uno stesso Stato membro o quelli che

coinvolgono cittadini di paesi terzi.

Riguardo a questi ultimi, la legge italiana va oltre quanto statuito dalla

Corte Europea, comprendendo anche gli stranieri, formalmente esclusi invece

dalla Bosman, che concerne solo i cittadini comunitari.

Tuttavia il novellato art. 6 della legge n. 91/1981, prevede un nuovo

“premio di addestramento e formazione tecnica”, riconosciuto solo in caso di

stipula del primo contratto professionistico e solo a favore della società o

130 Corte di Giustizia, 11 aprile 2000, cit.

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dell’associazione sportiva presso la quale l’atleta ha svolto la sua ultima attività

dilettantistica o giovanile.

Il legislatore quindi, ammette una residua operatività del premio,

suscitando dubbi in dottrina, e fra questi Vidiri, sulla legittimità di questo

premio.

Inoltre la legge n. 586/1996, introduceva nel novellato art 16 della legge

n. 91/1981, una serie di disposizioni sui bilanci delle società sportive

professionistiche, in base alle quali le società poterono eliminare dall’attivo

dello stato patrimoniale i crediti maturati per le indennità di preparazione, senza

dover evidenziare la sopravvenienza passiva iscrivendo però nell’attivo del

bilancio un’ulteriore posta a carattere pluriennale da ammortizzare nell’arco di

tre anni.

In questo modo si era cercato di ovviare agli effetti negativi derivati

dall’abrogazione dell’indennità di trasferimento.

Un’altra importante novità introdotta con il “decreto Bosman” inoltre, è

l’introduzione dello scopo di lucro, fine una volta precluso agli statuti delle

società sportive.

6.3. La condizione giuridica degli atleti extracomunitari

nell’ordinamento sportivo

Il D. Lgs. 25 Luglio 1998, n. 286 rubricato come “Testo Unico delle

disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla

condizione dello straniero”, nel suo art. 44 come modificato dalla legge 30

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luglio2002, n.189, costituisce il riferimento normativo di numerosi ricorsi di

fronte al giudice ordinario in materia di azioni civili contro la discriminazione

fondata sulla nazionalità.

Tale disposizione prevede che “quando il comportamento di un privato o

della pubblica amministrazione produce una discriminazione per motivi

razziali, etnici, nazionali o religiosi, il giudice può, su istanza di parte, ordinare

la cessazione del comportamento pregiudizievole ed adottare ogni altro

provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della

discriminazione”.

Fra i numerosi, tre casi accomunati da una vasta eco nel mondo del diritto

sportivo e da fattispecie analoghe a quelle che hanno condotto, per effetto della

giurisprudenza comunitaria, alla rimozione di ogni limite al numero di giocatori

tesserabili e schierabili in campo, meritano di essere menzionati i casi Ekong,

Sheppard ed Hernandez Paz.

Occorre subito precisare come, in ogni caso, i parametri di riferimento

della normativa nazionale siano differenti da quelli che informano le

disposizioni contenute nel Trattato.

A livello comunitario si afferma infatti il principio della libera

circolazione dei lavoratori e si vietano intese restrittive della libertà di

concorrenza.

A livello nazionale invece si vietano discriminazioni fondate sulla razza o

sulla nazionalità ma, contestualmente, si salvaguarda il potere affidato alle

autorità pubbliche di limitare gli ingressi di lavoratori stranieri attraverso una

programmazione dei relativi flussi.

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Il 27 settembre 2000, il calciatore nigeriano Ekong, sulla base della

speciale azione civile contro la discriminazione conveniva in giudizio la società

Reggiana e la FIGC per il comportamento discriminatorio consistente nel

diniego di tesseramento, con la conseguente impossibilità di svolgere l’attività

di calciatore, pur avendo stipulato un regolare contratto di lavoro con l’A. C.

Reggiana S.p.A..

Il diniego di tesseramento si basava su quanto disposto dall’art. 40, 7 co.,

NOIF, che consente alle società calcistiche di serie A e B il tesseramento di

calciatori extracomunitari fino ad un massimo rispettivamente di cinque e di

uno.

La medesima facoltà invece non era concessa alle società di serie C, qual

era appunto la A.C. Reggiana.

Il giudice, con ordinanza del 2 Novembre 2000, accogliendo le ragioni

sostenute dal calciatore nel suo ricorso, dichiarava incidentalmente

l’illegittimità della norma in quanto in contrasto con l’art. 43 del D.Lgs n.

286/1998 in tema di divieto di ogni forma discriminatoria in relazione a motivi

razziali, etnici, nazionali e religiosi.

In questo modo al calciatore Ekong veniva riconosciuto il diritto di

ottenere dalla FIGC il tesseramento quale calciatore professionista.

Nello specifico con il provvedimento si sottolineava come “l’autonomia

dell’ordinamento sportivo non può significare impermeabilità totale rispetto

all’ordinamento statuale ove, come nel caso di specie, il soggetto legittimato in

via esclusiva ad abilitare all’esercizio del gioco del calcio (in questo caso la

Federazione italiana giuoco calcio) impedisca tale facoltà solo sulla base di un

ingiustificato elemento di differenziazione”.

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Per questo motivo, l’onere della richiesta di autorizzazione alla

Federazione sportiva di appartenenza richiesto ai lavoratori extracomunitari,

risulta in contrasto con le norme imperative statuali cui l’ordinamento sportivo

non può derogare.

In relazione a quest’ argomento già in precedenza la giurisprudenza

transnazionale aveva affermato che :

“sebbene esista, e sia persino auspicabile, una stretta relazione tra le

federazioni sportive internazionali e quelle nazionali, e le norme delle prime

possano bensì costituire un modello per le seconde, le norme degli organismi

sportivi internazionali non costituiscono una fonte di diritto, potendo gli

organismi sportivi nazionali adeguarsi a tali norme solo nei limiti in cui sono

compatibili con l’ordinamento giuridico nazionale”131.

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• Conclusioni

Per quanto visto, il contratto di lavoro sportivo s’innesta su un rapporto di lavoro

caratterizzato dalla pluralità dei soggetti coinvolti e dalla eterogeneità delle fattispecie

che va a regolamentare.

Il lavoro dello sportivo, nelle sue molteplici manifestazioni, è caratterizzato nella sua

specialità proprio dalla peculiarità stessa dell’attività in cui si concretizza.

Nell’immaginario collettivo, lo sportivo non è assimilato al lavoratore.

L’immagine dell’atleta è ancora legata ai principi del valore, della gratuità, della

passione, della tensione verso un traguardo, del sacrificio ed agli ideali estetici della

bellezza del gesto che il più delle volte accompagna tali attività.

Idealmente, secondo il filosofo Ortega Y Gasset lo sport “è uno sforzo liberissimo che

non nasce da un’imposizione, ma rappresenta un impulso liberissimo e generoso

della potenza vitale, uno sforzo lussuoso che si profonde a piene mani senza speranza

di ricompensa” per cui non sarebbe possibile “sottometterlo all’unità di peso e

misura, che regola l’usuale remunerazione del lavoro”.

Concretamente invece, lo sport, nelle sue molteplici manifestazioni, risulta anche

figlio del suo tempo e prodotto di quella società del profitto che non esita a servirsene

per il raggiungimento dei suoi traguardi non sempre ideali.

Capita così che lo sportivo possa spogliarsi di quell’aura di misticismo che, spesso

non senza retorica, ne tratteggia un’immagine nobile ed eroica.

Vestiti quindi i panni, forse solo apparentemente più umili di lavoratore

“dell’industria dello sport”, l’atleta, si cala di buon grado nel concreto di una realtà

131 Trib. Prima ist. n 23 di Barcellona, 18 novembre 1991; Corte d’Appello prov., 23 marzo 1992 in Riv Dir Sport 1992, pp. 392 ss.

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che ne riconosce i diritti, offrendogli tutele non dissimili a quelle accordate al

lavoratore comune.

In effetti, lavoro ed attività sportiva sono due fenomeni strettamente collegati.

Infatti nelle moderne società, è il lavoro che con la sua organizzazione permette, da un

certo grado di benessere in poi, lo sviluppo e la pratica di quelle attività, fra cui lo

sport, non strettamente necessarie alla sopravvivenza.

Lo sport, per certi versi però, risulta perfino antecedente al lavoro, se s’intende come

sportivo in senso lato, il cacciatore che si misura con la caccia nella lotta per la

sopravvivenza.

A ben vedere, entrambe le situazioni non fanno altro che rappresentare due facce

differenti della stessa medaglia, il cui il trade union è rappresentato dal

riconoscimento sociale che viene attestato tali attività.

In questo senso, il riconoscimento sul piano lavorativo delle diverse e più svariate

capacità quali quelle sportive, anche quando non strettamente collegate ad un’utilità

contingente, se da un lato segna in maniera ogni giorno più evidente l’approdo ad

una società del lavoro sempre più moderna, per altri versi non fa altro che tradurre in

tutela giuridica quel sentimento di ammirazione che da sempre l’umanità rivolge ai

propri campioni.

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“Vieni anche tu, ospite padre, e in gara cimentati, se eccelli in qualcuna:

hai l’aria di saperne dei giochi.

E certo non c’è gloria maggiore per l’uomo”. Ma Eurialo sfidando l’accorto Odisseo, disse:

”Va, straniero tu non mi sembri un uomo capace nelle gare, come tante ce né fra i mortali”.[…]

Morde l’animo la parola: e tu m’hai irritato, parlando disse Odisseo e, avvolto come era nel manto,

slanciandosi, afferrò un disco, lo roteò e lo scagliò via dalla mano gagliarda.

Fischiò la pietra e si abbassarono a terra i Feaci dai lunghi remi, navigatori famosi, all’impeto di

quella pietra; che passò il segno di tutti, volando rapida via dalla mano;

ne segnò il termine Atena”. (Odissea libro VIII vv.145 n°185)

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