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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI BOLOGNA FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA Corso di laurea in DAMS percorso mediologico IL DATABASE COME FORMA CULTURALE L’impatto dei nuovi media sulla creazione artistica: estetica, narrazione, rapporto con il cinema Tesi di laurea in TEORIA E TECNICA DELLE COMUNICAZIONI DI MASSA Relatore: Prof. Presentata da Pier Luigi Capucci Rausa Oriana Sessione seconda Anno Accademico 2006-2007

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI BOLOGNA

FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA

Corso di laurea in DAMS percorso mediologico

IL DATABASE COME FORMA CULTURALE

L’impatto dei nuovi media sulla creazione artistica:

estetica, narrazione, rapporto con il cinema

Tesi di laurea in TEORIA E TECNICA DELLE COMUNICAZIONI DI MASSA

Relatore: Prof. Presentata da

Pier Luigi Capucci Rausa Oriana

Sessione seconda

Anno Accademico 2006-2007

Il database come forma culturale L’impatto dei nuovi media sulla creazione artistica: estetica, narrazione, rapporto con il cinema e la società.

Indice :

Introduzione........................................................................................................pag. 1

Motivazioni e modi della ricerca

Capitolo primo...................................................................................................pag. 11

L’importanza dell’archivio nella società contemporanea.

Una vera e propria ossessione..................................................................................pag. 17

Come rappresentare il mondo in un catalogo. Tulse Luper.....................................pag. 26

Capitolo secondo

L’estetica del database

Manovich e il cinema digitale..................................................................................pag. 31

Un estetica della rimediazione.................................................................................pag. 38

La rimediazione nel cinema e nella tv.....................................................................pag. 45

Progetto soft cinema................................................................................................pag. 48

Estetica del liquido...................................................................................................pag. 54

Capitolo terzo

Narrazione e database

Ipertesto, interattività, videogame.........................................................................pag. 59

Cinema e videogame. Percorsi possibili nell’universo dei dati.............................pag. 67

Cosa succede quando il cinema ricomincia daccapo? eXistenZ............................pag. 71

L’attacco al database. “Se smetti di giocare vuol dire che sei libero”...................pag. 76

Capitolo quarto

Tutti all’interno di un database

La società in un database: potere e controllo.........................................................pag. 81

La società in un database: il weblog......................................................................pag. 93

Bibliografia........................................................................................................pag. 99

Webografia.............................................................................................................pag. 102

Introduzione

Nel momento in cui mi sono avvicinata allo studio della comunicazione di massa

attraverso i nuovi media ho pensato di scrivere una tesi partendo da una delle idee

sviluppate da Manovich nel suo “Il linguaggio dei nuovi media” quello del database come

nuova forma simbolica; da questo punto mi sono posta delle domande a cui ho cercato di

rispondere.

Lo scopo è stato infatti capire prima di tutto che cosa si intende per nuovi media, in che

modo questi siano effettivamente entrati nella vita giornaliera di tutti, in che modo

l’abbiamo trasformata e come l’arte abbia trovato un nuovo mezzo di espressione. Questo

in generale. In quanto al database, una delle forme in cui i nuovi media si attuano ha

attratto la mia attenzione proprio per la sua forma di archivio che sembra essere diventato

indispensabile ma a sua volta anche motore di creazione. Una raccolta di documenti, e

uno spazio navigabile, metodi tradizionali per organizzare sia i dati sia l’esperienza

umana del mondo, sono diventate quindi due forme presenti in quasi tutti i campi dei

nuovi media. Il database è diverso da una tradizionale archiviazione di documenti perché

permette di accedere, classificare, riorganizzare milioni di registrazioni nel giro di pochi

minuti, contenendo vari tipi di media.

Per Manovich queste due forme si estendono alla cultura in generale. Allo stesso tempo il

database diventa la nuova metafora che concettualizza la memoria culturale individuale e

collettiva, una raccolta di documenti, oggetti ed altri fenomeni ed esperienze.

Nell’età contemporanea il computer è diventato indispensabile, un tavolo di lavoro, un

elettrodomestico: “Nella civiltà occidentale i nuovi strumenti sono video,

telecomunicazioni, computer, con le loro numerose articolazioni e filiazioni, in uno

scenario mediale straordinariamente ricco e fecondo di possibilità di rappresentazione e di

comunicazione. Nel quale, per fare solo due esempi, nel ’94 negli Stati Uniti il numero

dei computer venduti ha superato quello dei televisori e gli utenti di Internet in tutto il

mondo crescono ogni mese di otto milioni di unità”1 il ruolo di uno studioso e di un

1 da “ARTE & TECNOLOGIE” di Pier Luigi Capucci 1996 EDIZIONI DELL’ORTICA fonte internet:

http://www.noemalab.org/sections/specials/arte_tecnologie/main.html

artista è quindi di dovere confrontarsi con i nuovi oggetti mediali cercando di capirne la

forma ma anche e soprattutto il rapporto che il pubblico instaura con tali mezzi, essendo

questi mezzi interattivi, nati affinché la ricezione e l’uso fosse attivo e non passivo come

ad esempio quello televisivo.

Quando a Brodway si mette in scena un opera teatrale in cui in cui l’autore fa parlare i

suoi attori raccontando storie lette nei weblog dalla oramai sterminata blogsfera, può

venire il dubbio se la scusa di usare la rete sia un motivo pubblicitario o se questa sia

effettivamente un operazione artistica. Il dubbio sembra legittimo dato che la Rete sembra

attrarre molta pubblicità e per molti un weblog rappresenta una moda, tuttavia quella è

una forma d’arte. Perché non solo è stata presentata su un palco rinomato apprezzata da

pubblico e critica, ma perché dietro vi è una riflessione più ampia. Se consideriamo la rete

come una forma dei nuovi media, come un enorme database in cui sono contenuti milioni

d’informazioni, di esperienze, allora questo può essere fonte di contenuti per l’arte

classica ma anche per nuove forme di arte.

Se consideriamo il progetto mylifebits della microsoft, in cui un programma viene

sviluppato per poter registrare in un database ogni aspetto della propria vita con diversi

file multimediali (foto, registrazioni vocali, cambiamenti di temperatura corporea,

documenti scannerizzati) per ogni ora delle propria vita, possiamo assumere che il

database diviene una forma culturale ma anche sociale. È una forma indispensabile nel

momento in cui le memorie del PC continuano ad aumentare e lo spazio sterminato di

Internet sembra il posto ideale che non abbiamo più, abituati (soprattutto le ricche società

occidentali) ad accumulare oggetti in uno spazio sempre più ristretto.

Sembra che la caratteristica principale dei nuovi media sia la ricerca del dato voluto in

una vasta memoria di dati; al centro ci sono loro, i dati, che ci piovono addosso da ogni

direzione, in ogni situazione. Se i dati ci assalgono da ogni parte, sostiene Manovich, è il

momento di studiare le forme che assumono.

In altre parole, che struttura devono assumere le informazioni per risultare accessibili al

meglio? “Il fatto di raccogliere, trattare, archiviare i dati e arricchirli di un senso che li

renda utili per noi è al centro della vita sociale ed economica”2 , spiega Manovich. Un

database informatico è completamente diverso da una tradizionale archiviazione di

documenti: permette di accedere, classificare, e riorganizzare milioni di registrazioni in

pochi minuti; è la nuova metafora culturale, una raccolta di esperienze. Il database 2 da “Il linguaggio dei nuovi media” di Lev Manovich MIT PRESS Cambridge, Massachussetes 2002

diviene il simbolo nell’era dei computer e un nuovo modo di strutturare la nostra

esperienza in una nuova sensibilità estetica, in parte determinata proprio dalle

caratteristiche delle interfacce e degli strumenti informatici che utilizziamo

quotidianamente.

Pensiamo per l’appunto al concetto di database, l’organizzazione in archivio che ormai

caratterizza indifferentemente immagini, testi, suoni, è presente nei CD-ROM, nelle

enciclopedie, nei sistemi di ricerca delle librerie, in Internet dove trova la massima

espressione, nuove operazioni artistiche, nuovo impianto narrativo nel cinema che nella

letteratura, insomma il concetto stesso di database è entrato in tutti gli aspetti della nostra

vita rimodellandoli, e ridefinendone di contenuti che ridotti al linguaggio dei bit, vengono

memorizzati e possono essere trattati allo stesso modo.

Il database diventa il centro del processo creativo, e il contenuto e l’interfaccia diventano

entità separate; con uno stesso contenuto possiamo avere diverse interfacce. Un esempio

pratico di questo concetto ce lo da proprio Manovich con il suo progetto artistico Soft-

Cinema,(http://www.softcinema.net) che nasce dalla collaborazione tra Lev Manovich,

teorizzatore dei nuovi media e Andres Kratky, new media designer. Affiancati da una

serie di artisti che vanno da DJ Spooky e Scanner per la musica a Schoenerwisse/of CD

per le visualizzazioni e Ross Cooper Studios per il media design. Soft Cinema vuole

essere una proposta e un’ analisi fattiva delle estetiche che possono essere non solo e

semplicemente generate dal computer, ma basate sulle strutture di produzione e consumo

che si sono sviluppate tramite esso. È un grande database in cui confluiscono molte

immagini che di volta in volta creano dei percorsi narrativi diversi, il layout stesso è

costituito da diversi frames, che mescolano svariati elementi media (immagini video e

grafiche, suoni, testi...).

Nel primo capitolo ho tentato di dimostrare come il bisogno dell’archiviazione sia

connaturato all’uomo; alcuni esempi artistici lo sono e sono molto legati alla tecnologia.

Dopo aver spiegato il database e il contesto da cui è stato tratto ovvero gli studi sui nuovi

media sono andata più in fondo nel concetto di database in quanto archivio nell’arte

novecentesca per capire come questa forma sia diventata simbolica e culturale.

Se indaghiamo le relazioni tra arte contemporanea e contesto, politico, sociale

tecnologico rilevandone le influenze chiave una di queste è di sicuro l’archiviazione,

l’accumulo di dati, come una delle caratteristiche sintomatiche dell’era moderna dovuta

all’aumento d’importanza dato all’archivio come un modo in cui le conoscenze storiche e

le forme di memoria sono accumulate, depositate, recuperate.

Oltre aver spiegato l’importanza dell’archivio come un impulso e bisogno freudiano ma

anche artistico, sono passata al concetto di archivio nell’arte esaminando alcuni autori che

nelle arti visive, nella fotografia o nel cinema sembrano avere una vera e propria

ossessione verso il catalogo, inteso come catalogazione di materiale storico, emozionale o

visivo, e come sistema di una nuova organizzazione visuale e narrazione.

L’esperienza delle guerre e del bisogno di non dimenticare hanno spinto o influenzato

alcuni autori nella loro creazione artistica, la necessità di usare la forma d’archivio è

diventata l’unico modo di poter rappresentare l’esigenza di trascrivere il più possibile

l’esperienza per preservarla o per darle un senso.

Sander portò dal novecento il bisogno enciclopedico della fotografia dentro il nuovo

secolo, usando infatti tecniche e mezzi della fotografia delle origini dandogli un tocco

innovativo, progettò di avere quarantacinque cartelle e in ognuna venti immagini relative

al titolo della cartella e all’intero progetto denominato Gente del XX secolo in cui voleva

catalogare migliaia di tipi tedeschi per crearne l’identità di tutto un popolo. La guerra

influenzò l’impulso di archiviazione di Boltanski artista che mescola il lato ironico,

l’istantaneità della fotografia e il suo aspetto reliquiale con l’istanza catalogatrice che

ordina oggetti e mobili come in museo, rafforzando l’idea che una sopravvivenza è

possibile nella rigidità della rappresentazione.

Un regista particolarmente attaccato al tema del catalogo come elaborazione del ricordo

storico è Alain Resnais; il registro letterario in Hiroshima mon amour si sovrappone a

quello cinematografico che alterna momenti di metalinguaggio, di manifesti pacifisti,

documentari sino a quello sentimentale. I suoi film sembrano essere tessere di un mosaico

in continua costruzione fondate sull’impossibilità di sfuggire all’oblio; con

Smoking/NoSmoking il film verrà considerato “ cinema interattivo”, il fruitore si sentirà

realmente chiamato in causa nella composizione del senso e della narrazione.

In Peter Greenaway l’ossessione del catalogo si lega indissolubilmente ad una altra sua

ossessione quella di un cinema totalmente innovativo, spoglio della narrazione; la

catalogazione, è un tema dominante, un tentativo dell'uomo di mettere ordine nella vita

quotidiana o in ciò che non si riesce a comprendere, con tutta la sistematicità di un

collezionista; viene definito anche da Manovich un artista del database.

Nel secondo capitolo ho tentato di risalire ad un estetica del database. Finora gran parte

delle riflessioni sul cinema nell’era digitale si è concentrata sulle possibilità della

narrazione interattiva con l’idea di uno spettatore che partecipa attivamente alla

narrazione, ho quindi indagato sul concetto di estetica del database, su quello che apporta

di nuovo negli altri media. Quindi ho raccolto pareri e tesi di altri studiosi, primo fra tutti

Manovich che spiega come il cinema digitale si avvicini all’idea di pittura attraverso le

nuove tecnologie e come il database e le interfacce possano modificare l’idea di cinema e

arte.

Costa spiega come le nuove tecnologie generano nuovi prodotti artistici e nuove forme di

sensibilità che nell’artista si esplicano attraverso l’approfondimento delle possibilità delle

nuove tecnologie verso la creazione di nuovi significati e nuovi modi di significazione, e

la ricerca dei nuovi comportamenti “estetico-antropologici” dovuti alla fruizione dei

dispositivi tecnologici.

Soprattutto si chiede che ne è dell’opera d’arte nell’epoca della sua digitalizzazione? E

che ci dice oggi il termine bellezza?

Nel 1999 esce Remediation. Understanding new media di Jay David Bolter e Richard

Grusin scrivono Remediation ed esplorano le trasformazioni che i nuovi media apportano

sui vecchi e viceversa sostenendo una pluralità di forme mediali che diviene centrale nella

cultura mediale in America come in Europa secondo i principi dell’immediatezza,

ipermediazione e rimediazione secondo i quali le nuove tecnologie reinventano categorie

estetiche dei vecchi media assorbendone però i loro tratti fondamentali.

Tutto lo si può vedere più avanti nell’analisi del Progetto SoftCinema di Manovich: “Soft

Cinema consiste in un programma composto da un grande database che contiene

videoclip, animazione, musica, voce fuori campo che corre su ogni immagine in ogni

momento per quattro ore, cinque ore di musica selezionate in parte da me ed in parte da

DJ Spooky”3.

In questa operazione Manovich tuttavia riprende le caratteristiche di un montaggio

cinematografico, lo stesso Vertov, citato appunto da lui all’inizio del libro agiva con la

stessa operazione di montaggio di immagini a random spesso ripetute e affiancate come

in un montaggio grafico digitale odierno, ma non solo il cinema delle origini o quello di

avanguardia (Resnais, Godard…) anche le operazioni artistiche che si basano sul flusso di

coscienza di Joyce che, per esempio, offre immagini, rumori, sensazioni una dopo l’altra 3 Dal DVD “SOFT CINEMA. Navigating the database” di Lev Manovich e Andreas Kratky MIT PRESS Cambridge, Massachussetes 2005

senza nessuna intermediazione spiegata all’interno di uno stesso paragrafo. Quindi ancora

una volta la novità rimane l’interattività, “database interattivo” per l’appunto.

Tutti i film sono programmati in modo che non ci sia una singola versione. Tutti gli

elementi, includendo lo schermo, le immagini e la loro combinazione, la musica, la

narrazione e la lunghezza, sono soggetti a cambiamento ogni volta che il film è visto e

caricato.

È il cinema database messo in pratica dal suo stesso teorizzatore con buoni esiti. Lo

spazio dello schermo è sottoposto alla teoria di un estetica del remix e della fluidità, in

questo modo anche la città viene progettata da architetti come Rem Koolhaas o Novak,

con questo stesso principio.

“Come forma culturale il database rappresenta il mondo come un elenco di voci non

ordinate e che si rifiuta di ordinare. Invece la narrazione crea una traiettoria causa-effetto

apparentemente disordinata. Quindi sono nemici naturali.”4 Nel terzo capitolo ho cercato

di affrontare proprio questo discorso; il lettore di un romanzo non ha a che fare con un

algoritmo ma deve sempre capire la logica del romanzo sottintesa. Non tutti gli oggetti

mediali seguono esplicitamente la logica del database ma alla fine sono tutti database.

Nell’età dei computer questo è il centro del processo creativo. Il nuovo oggetto mediale è

costituito da una o più interfacce che portano ad un database di materiale multimediale.

L’utente della narrazione attraversa un database seguendo dei link secondo il percorso

definito dal creatore. Una narrazione interattiva si può quindi intendere come la

sommatoria di più traiettorie che attraversano un database, e la narrazione tradizionale

come una delle tante possibilità di un ipernarrazione. E che quindi una serie di dati presi

da un database potrebbe essere una narrazione.

Tuttavia per avere una narrazione dobbiamo avere: attore o narratore, il testo la storia la

fabula, e i suoi contenuti legati da causa effetto, causati o vissuti dagli attori.

In sostanza, il database e la narrazione non hanno lo stesso status nella cultura dei

computer, nella coppia database/ narrazione la parola database si riferisce anche per la

narrazione. Infatti la sostiene ma non la incentiva.

4 Da Lev Manovich “ Il linguaggio dei nuovi media” MIT PRESS Cambridge, Massachussetes 2002

I videogiochi vengono percepiti come narrazioni. La base narrativa di un videogioco

spesso maschera un algoritmo, sembrano proprio ispirarsi alla logica dell’algoritmo, per

vincere si deve eseguire un algoritmo.

Man mano che si gioca l’utente scoprendo il meccanismo di funzionamento del gioco

discopre l’algoritmo alla base. I dati non esistono di per se ma devono essere generati o

digitalizzati da altri medium preesistenti che poi vanno ripuliti, organizzati, indicizzati.

Nel mondo dei new media di solito la parola narrazione viene usata accanto alla parola

interattiva.

Le domande guida sono state la forma narrativa e quella del database sono davvero

concorrenti? Possiamo arrivare ad una loro coesistenza? E quindi, come possiamo

archiviare, classificare, recuperare dati e poi realizzare nuove narrazioni attraverso l’uso

dei nuovi media, e del database in particolare? In quale forma si esprime questa loro

cooperazione? Con il progetto SoftCinema in che modo, Manovich visualizza la nuova

“data-soggettività” senza usare i collaudati metodi di montaggio, surrealismo e assurdo?

Come egli riesce a connettere significato, la narrazione e gli strumenti del software

fondato sul database? Possiamo ritrovare nel web e nel cinema altre espressioni di questa

nuova forma di narrazione?

Nel quarto capitolo “Tutti all’interno di un database”ho analizzato l’altra parte della

medaglia delle nuove tecnologie. Se la forma database è un mezzo col quale, creare,

organizzare dati e forme culturali, essa può organizzare e catalogare la società intera. Il

titolo presagisce idee catastrofiche tuttavia non è proprio così. I nostri dati sono posseduti

non solo dagli uffici della pubblica amministrazione, ma anche dalle banche, dalle

università, dalla rete ospedaliera, dalle biblioteche, e i nostri spostamenti, le nostre azioni,

i nostri acquisti sono rintracciabili da ciò che usiamo per compierli: carte di credito,

telefonini, badge. Accanto a tutto ciò in questi spazi e nelle strade molto spesso siamo

sorvegliati da telecamere. Di solito questi dati vengono incrociati fra diversi database nel

caso di investigazioni su persone o gruppi di persone che hanno commesso un reato, o per

la maggioranza delle volte operano nel nome di efficienza e sicurezza. Ma a quale prezzo

e a quale efficacia?

Il web in queste situazioni diventa territorio dove l’espressione e la ricerca di verità

trovano un territorio fertile. Per questo internet diventa territorio conteso degli stati la cui

architettura aperta, fluida e orizzontale rappresenta – addirittura- un pericolo, o comunque

uno spazio da gestire e controllare. Associazioni, reti civiche, informazione alternativa, si

affidano alla rete; per Castells internet si rivela quindi un mezzo efficace affinché la

democrazia si dimostri o per lo meno ne può contribuire alla costruzione. Tuttavia se si

vuole controllarla, l’importante è porre dei filtri alle entrare, in questo modo il controllo

potrebbe essere totale, anche perché in Internet si è completamente trasparenti, la privacy

è assente, il rischio di essere spiati è alto.

La rete offre anche la possibilità di esprimere le proprie idee, o pubblicare qualsiasi cosa

come mai prima nella storia. I weblog sono stati definiti, diari di bordo o intellettuali,

giornalismo alternativo, ma anche siti personali con molte notizie poco utili. A questo

punto possiamo chiederci come molti hanno fatto, se chiunque può scrivere qualsiasi

cosa, come è possibile allora trovare contenuti di alta qualità nei weblogs? La risposta è

che la qualità emerge dai weblog dalla scelta dei lettori, ovvero tramite il maggior numero

di collegamenti ipertestuali intessuti dalla comunità degli editori.

I nuovi media hanno portato ad una rivoluzione per il modo in cui sono entrati a fare parte

della vita giornaliera delle persone e della loro fruizione, e per il fatto che hanno portato a

nuove soluzioni stilistiche ed estetiche aiutando i vecchia media ad un confronto proficuo

e reciproco attraverso i contenuti e le forme.

Il database diventa una delle forme simboliche e culturali con cui si dispiega

l’interesse e il bisogno dell’uomo contemporaneo di progredire attraverso la

tecnologia.

Capitolo primo

L’importanza dell’archivio nella società contemporanea.

La storia inizia con la scrittura ovvero dal momento in cui l’uomo inizia a registrare gli

eventi e a mantenerne una testimonianza per il futuro. E’ connaturato all’uomo il suo

istinto di lasciare una traccia della sua esperienza, del suo sentire, della sua interiorità,

attraverso la storia, la letteratura, l’arte; “una psicanalisi delle arti plastiche troverebbe

all’origine della pittura e della scultura, il complesso della mummia [...] che soddisfa un

bisogno fondamentale della psicologia umana, la difesa contro il tempo”5. Con

l’invenzione della stampa i mezzi per leggere e per pubblicare si estesero a molte fasce

della popolazione a cui prima il sapere elitario era escluso; improvvisamente tutti si

scoprirono scrittori. Con l’entrata in campo di media come la fotografia, il cinema, la

massificazione della cultura si fece evidente; su questa Benjamin scrisse uno dei suoi

articoli più illuminanti: “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” dove

la perdita dell’aurea dell’arte indicava il lento declino dell’attimo irripetibile della

creazione artistica.

Con la rivoluzione digitale si apre un nuovo capitolo della storia dei mezzi di

comunicazione di massa e di espressione dell’animo umano; se nel 1977 Kennet Olsen,

fondatore della Digital Equipment Corporation, aveva dichiarato: “Non c’è alcuna

ragione per cui ogni individuo abbia un computer a casa”6, questa affermazione non può

farci che sorridere. La rivoluzione tecnologica nei paesi sviluppati si estende alla

stragrande maggioranza della popolazione soprattutto quella situata nei centri urbani,

(non dimentichiamo infatti il digital divide spiegato da Castells) e pervade ogni aspetto

della vita giornaliera. Nel 1960 già si parlava di società d’informazione come un’ipotesi

realizzabile, oggi è diventata una realtà giornaliera per chiunque viva in un paese

sviluppato, gli uffici sono pieni di computer e scrivanie, sia che si tratti di una redazione,

5 da “Che cos’è il cinema?” di Andrè Bazin Garzanti Editore Milano 1986 pag. 56 da “Cinema e Internet nell’epoca del digitale” Emanuele Melli tesi di laurea fonte internet: http://www.tesionline.it/default/tesi.asp?idt=11664

un ufficio di analisti finanziari o uno studio di architetti. Ma oltre il lavoro conduciamo la

nostra vita in un archivio informazionale depositando tutte le nostre email, sms, foto

digitali, e altre tracce digitali della nostra esistenza.

Nel prossimo libro in uscita, Manovich ha coniato il termine “Infoestetica”, ovvero il

modo in cui le forme della cultura contemporanea, dal design all’architettura, dal cinema

al web, rispondono alla necessità di archiviare e trattare i dati. Se è vero che il computer è

al centro di questo processo, è ormai sempre più evidente che il suo ruolo è cambiato

radicalmente e che le logiche alla base del suo funzionamento influenzano ogni aspetto

della nostra cultura. “La società d’informazione è dove i cittadini di un mondo sviluppato

vivono oggi, sperimentandola nella pratica quotidiana”7.

Pensiamo al concetto di database, una delle forme culturali e del linguaggio base dei

nuovi media, l’organizzazione in archivio che ormai caratterizza indifferentemente

immagini, testi, suoni, è presente nei CD-ROM, nelle enciclopedie, nei sistemi di ricerca

delle librerie, in Internet dove trova la sua massima espressione, in nuove operazioni

artistiche, nel nuovo impianto narrativo nel cinema o nella letteratura (“Lola Corre” e

“Una storia” di Baricco) insomma il concetto stesso di database è entrato in tutti gli

aspetti della nostra vita rimodellandoli, e ridefinendone i contenuti che, ridotti al

linguaggio dei bit, vengono memorizzati e possono essere trattati allo stesso modo.

Ma fino a che punto i contenuti possono essere ridefiniti?

Potrebbe sembrare che sempre più spesso la nostra esperienza con i media assomiglia a

un viaggio in un cumulo di dati piuttosto che al filo di una narrazione coerente; dove

finisce quindi la narratività che così tanto aveva caratterizzato i vecchi media?

In realtà la narratività non viene abolita completamente ma cambia, in una “narratività

interattiva” come la definisce Kocur (“teoria nell’arte contemporanea dal 1985”): creare

le diverse traiettorie non basta, il creatore deve controllare la semantica degli elementi e

della loro connessione in modo che abbiano una narratività, inoltre il cammino che

l’utente intraprende e crea diviene una propria narrazione. È il passaggio dalla forma al

flusso che caratterizza la trasformazione dall’analogico al digitale.

“Il database diviene il simbolo nell’era dei computer e un nuovo modo di strutturare la

nostra esperienza in una nuova sensibilità estetica, in parte determinata proprio dalle

caratteristiche delle interfacce e degli strumenti informatici che utilizziamo

quotidianamente. Designers, media artists, grafici, architetti usano sempre più le capacità

7 da “Il linguaggio dei nuovi media” Lev Manovich MIT PRESS Cambridge, Massachussetes 2002

di gestione, catalogazione e trasformazione dell’informazione, tanto da rendere possibile

“nuove forme di cinema narrativo (Timecode, L’arca Russa) e nuove forme di ritratti (il

progetto Mylifebits della Microsoft).”8

Prima di tutto dobbiamo definire il concetto database, non dilungandomi con un’analisi

dettagliata, perché non è questo lo scopo della dissertazione: in informatica il termine

database tradotto in italiano con banche dati, base di dati o anche base dati, indica un

insieme di dati riguardanti uno stesso argomento o più argomenti correlati tra loro,

strutturato in modo da consentire l’uso dei dati stessi e il loro aggiornamento da parte di

applicazioni software che a partire dagli anni sessanta si sono evoluti come appositi

sistemi software detti sistemi per la gestione di basi di dati. La loro struttura si presenta

gerarchica (rappresentabile tramite un albero; anni sessanta, XML ha una struttura

gerarchica per scambi di dati sul web), o reticolare (rappresentabile tramite un grafo; anni

settanta), relazionale (attualmente il più diffuso rappresentabile attraverso tabelle e

relazioni tra esse, anni settanta e ottanta) e a oggetti (“object oriented” tipico della

programmazione a oggetti, anni ottanta).

La funzionalità di un database dipende in modo essenziale dalla sua progettazione: la

corretta individuazione degli scopi del database e quindi delle tabelle, da definire

attraverso i loro campi e le relazioni che le legano, permette poi un’estrazione dei dati più

veloce, e in generale una gestione più efficiente. Se in passato i DBMS erano diffusi

principalmente presso le grandi aziende e istituzioni che potevano permettersi l’impegno

economico delle grandi infrastrutture hardware, oggi il loro utilizzo è diffuso

praticamente in ogni contesto. Sempre più frequentemente si assiste alla integrazione

delle basi di dati e di internet: una vasta classe di applicazioni della rete fa uso di

informazioni presenti su basi di dati; esempi di questo tipo di applicazioni vanno dai

cataloghi delle imprese disponibili per il pubblico, alle edizioni on-line dei giornali e dei

quotidiani. Col tempo la sua funzione di catalogo si è estesa a nuove possibilità estetiche;

ma che impatto ha avuto sulla cultura?

Diversamente dalla lettura di un romanzo o dalla visione di un film l’esperienza del

database ha come caratteristica quella di non avere una sequenza lineare ma di essere

principalmente frammentaria; la traiettoria di lettura si configura come una serie di

operazioni diverse a cui l’utente risponde attivamente creando dei percorsi individuali.

“Dopo la preferenza del romanzo e del cinema per la narrazione come forma principale di

espressione culturale, l’era dei computer ha introdotto il suo complice, il database. Molti 8 da “Infoestetica” Lev Manovich da www.manovich.net

nuovi oggetti mediali non raccontano storie; non hanno alcuno sviluppo tematico formale

o di altro tipo che ne organizzi gli elementi in una sequenza. Sono piuttosto raccolte di

elementi individuali, ognuno con la stessa possibilità di significare.”9

Prendiamo il Web, questa impalpabile ragnatela che avvolge il pianeta, che rende Internet

simile ad un’opera narrativa che esiste nell’hic et nunc dell’utente, ovvero che si sviluppa

dai movimenti dell’utente in uno spazio virtuale e nel tempo della navigazione, è un testo

ibrido “dove una larga parte della narrazione fa riferimento al contenuto stesso del testo

senza rimandi extratestuali se non allusivi”10.

Lorenzo De Carli parla di puri soggetti di enunciazione, riferendosi a chi transita nella

rete e stabilisce un rapporto con questo testo da cui emerge la propria soggettività in base

all’identità che si assume. Se riprendendo Bachtin che dice che la nostra voce è fatta dalla

voce degli altri, la nostra parola dalla parola degli altri, noi contessuti con tutti un testo tra

testi, la soggettività diviene una intersoggettività all’interno di un enorme archivio di

testi. La MIT PRESS e la londinese White Chapel hanno dato avvio alla pubblicazione di

Documents of Contemporary Art, una serie di pubblicazioni di studi che indagano le

relazioni tra arte contemporanea e contesto, politico, sociale tecnologico rilevandone le

influenze chiave. Una di queste è l’archiviazione, l’accumulo di dati, come una delle

caratteristiche sintomatiche dell’era moderna dovuta all’aumento d’importanza dato

all’archivio come un modo in cui le conoscenze storiche e le forme di memoria sono

accumulate, depositate, recuperate.

Gli artisti di conseguenza hanno esaminato, contestato e reinventato il concetto di

archivio dall’inizio del secolo a oggi. La maggior parte delle istituzioni e delle

organizzazioni hanno storie circa le loro origini, una memoria collettiva che permette

forme certe di pensiero collettivo e comportamenti, anche se contraddittori: Internet per

esempio, ne ha come minimo tre (pragmatismo militare, paradiso hacker, emporio

commerciale). La memoria di un evento o di un’organizzazione è spesso situata in una

memoria del computer, sui libri, certificati, o racconti. Tutto questo ne fonda il sistema di

credenze. Le nuove testimonianze si sistemeranno e amalghemeranno con le vecchie, ma

sotto l’egida dell’organizzazione. Da qui parte il discorso di Derrida Jacques che si

riallaccia a Freud.

Nel suo libro “Mal d’archive: une impression freudienne” Derrida guarda con un occhio

di riguardo alla psicoanalisi, soprattutto sul fatto che questa esamina la memoria

9 da “Il linguaggio dei nuovi media” Lev Manovich MIT PRESS Cambridge, Massachussetes 2002 10 da “Il linguaggio dei nuovi media” Lev Manovich MIT PRESS Cambridge, Massachussetes 2002

soprattutto quella nascosta, e questo comportamento spesso è fonte di errori logici o loop

infiniti: se si deve dare un’organizzazione alla struttura dei dati anche i dati dovranno

essere riorganizzati, e chi riorganizza i dati riorganizza se stesso. Lo stesso Freud sarebbe

stato vittima di questa “Archive fever”, vediamo come.

Quando arrivò a postulare e a capire l’importanza dell’istinto di morte o distruzione insito

in ognuno di noi, preso da impulso naturale che all’inizio non riuscì a spiegare, cominciò

a riorganizzare tutti i suoi dati e a catalogarli a sistemare e riscrivere tutte le sue

considerazioni con il dubbio che in fondo fosse solo uno spreco di tempo. Tuttavia si rese

conto che questo lavoro serviva a salvare dalla distruzione della dimenticanza le sue idee

che presero forma una volta finito. Si tratta naturalmente dell’impulso della distruzione

che risiede in ognuno di noi, lo stesso che ci spinge ad archiviare, catalogare, e

riutilizzare il passato, l’archivio infatti si fonda su ciò che è stato, passato. Derrida scrive

sempre nel suo articolo: “non c’è archivio senza l’affidamento ad un posto esterno che

assicura la possibilità di memorizzazione, ripetizione,… che in accordo con Freud è

sempre legata all’impulso di morte, e cosi alla distruzione. L’archivio lavora sempre, e a

priori contro se stesso”11.

Hal Foster riprende nel 2006 nel suo articolo “An Archivial Impulse” la parola impulso

riferendola come una tendenza relativamente nuova della cultura contemporanea

internazionale soprattutto artistica. Prima di tutto ricorda come questo impulso era già

presente nel periodo pre-guerra ( Heartfield con i fotomontaggi e Rodchenko) quando il

repertorio di risorse era esteso sia politicamente che tecnologicamente, e nel periodo post-

guerra quando la ripresa di immagini già create e la ripetizione seriale divenne una

caratteristica comune, sino ad arrivare ad una nuova sensibilità di questo impulso, “again

pervasive” che ha delle proprie caratteristiche che lo differenziano dai precedenti. Molte

volte il campionamento dell’archivio spinge le complicazioni postmoderniste di

originalità e autorità all’estremo.

Il lavoro dell’artista nell’età dell’informazione digitale secondo Foster subisce un

cambiamento di status; il progetto diviene una catena di progetti, una struttura dinamica

che produce forme che sono parti dello stesso. “L’informazione, oggi, spesso appare

come un readymade virtuale, altrettanto i dati ad essere riprocessati, e spediti oltre, e

molti artisti creano, campionano, e condividono come il loro modo di lavorare.”12

11 da “The archivi. Documents of Contemporary Art” edito da Charles Merewether MIT PRESS Cambridge, Massachussetes articolo di Derrida Jacques “archive fever” 199512 da “The archivi. Documents of Contemporary Art” edito da Charles Merewether MIT PRESS Cambridge, Massachussetes articolo di Hal Foster “An Archivial Impulse”

È quello che Manovich chiama “collaborative remixability”. “Le persone sono stimolate a

guidare le informazioni da ogni genere di fonti in un loro spazio personale, remixarle e

renderle disponibili agli altri, come collaborare o come minimo giocare su una stessa

piattaforma d’informazioni.”13

Foster aggiunge poi che il medium più rappresentativo dell’arte-archivio è il mega

archivio Internet, di cui i termini piattaforma, rete, interattività sono diventati d’uso

comune; tuttavia quello digitale richiede dei fini relazionali non presenti prima d’ora:

“questi (gli archivi) si presentano come materiale recalcitrante, frammentario più che

funzionale, e come tale richiede un’interpretazione umana più che un’analisi della

macchina..”14 È proprio questo il cambiamento apportato?

13 “These paths stimulate people to draw information from all kinds of sources into their own space, remix and make it available to others, as well as to collaborate or at least play on a common information platform.” da fonte internet: http://www.nettime.org/Lists-Archives/nettime-l-0511/msg00060.html14 da “The Archive” op. cit. “They ( archives) are recalcitrantly material, fragmentary rather than fungible, and as such they call out for human interpretation, not machinic reprocessing.”

Una vera e propria ossessione

L’arte contemporanea è caratterizzata dalla riflessione sullo statuto dell’opera d’arte, le

varie avanguardie hanno ampliato il termine di decostruzione dell’opera d’arte : i collage

avanguardisti sulla commistione di elementi diversi che concorrono alla realizzazione di

un’opera si fondano sulla costruzione tramite la scelta di elementi diversi che raffigurano

delle realtà tramite l’accostamento di mezzi diversi. Anche nella poesia d’avanguardia

futurista italiana troviamo delle poesie composte dalla presa a caso dei termini che

compongono una poesia. Gli inizi del secolo sono pieni di esempi di questo tipo;

l’avanguardia ha utilizzato i nuovi mezzi quali la fotografia e il cinematografo per

elaborare nuovi significati e nuove elaborazioni estetiche.

Ma in alcuni artisti, nelle arti visive, nella fotografia o nel cinema è presente una vera e

propria ossessione verso il catalogo, inteso come catalogazione di materiale storico,

emozionale o visivo, e come sistema di una nuova organizzazione visuale o narrazione.

Manovich parla ampliamente di Vertov come uno dei maggiori registi-database del

novecento. L’uomo con la macchina da presa è infatti realizzato tramite una traiettoria

attraverso l’enorme materiale d’archivio e gli effetti che il regista aveva realizzato per

scoprire l’ordine del mondo attraverso la percezione, la vista.

L’esperienza delle guerre e del bisogno di non dimenticare hanno spinto o influenzato

alcuni autori nella loro creazione artistica, la necessità di usare la forma d’archivio

diviene l’unico modo di poter rappresentare l’esigenza di trascrivere il più possibile

l’esperienza per preservarla o per darle un senso. Al giorno d’oggi l’esperienza della

guerra sembra essere un brutto sogno, “ci siamo svegliati in un altro secolo”15 ma forse

una delle cose che è rimasta dentro è la responsabilità del ricordo e della sua

catalogazione. Sembra difatti che una delle esigenze sia avere il controllo assoluto sulle

nostre vite tramite l’inserimento delle nostre azioni in un enorme database. Siamo un

enorme database.

Nell’ articolo che prende il nome dal lavoro omonimo “ Research and Presentation of all

that Remains of my childhood 1944-1950” del 1969 Boltanski, un autore che vedremo fra

poco in particolare, riflette sui sistemi che possiamo impiegare nel superare il

deterioramento del tempo: “Ho deciso di imbrigliare me stesso nel progetto a cui ero

15 da “Sogno e realtà americana nel cinema di Hollywood” di Franco La Polla Castoro Editore Milano 2004, si riferisce al comune sentimento di sentirsi rinati in un altra epoca negli dopo la seconda guerra mondiale.

legato da molto tempo, preservare una persona nella sua interezza, conservando la traccia

di tutti i momenti della nostra vita, tutti gli oggetti che ci hanno circondato, tutto quello

che abbiamo detto, o ci è stato detto, questa è la mia meta”16, il resto è perso per sempre e

il tempo impiegato per una simile catalogazione non è mai abbastanza, molto tempo

passerà prima che la vita sia ordinata ed etichettata in un posto sicuro “e così potrò

finalmente riposarmi”17.

Il tedesco August Sander coniugò nei primi anni del secolo la tendenza della Nuova-

Oggettività ad avere un approccio distaccato alla materia trattata e quella che poteva

essere chiamata “la tendenza archiviale”. Iniziò col ritrarre ritratti di contadini nelle aree

rurali della Germania che lo spronarono a pianificare una galleria di ritratti sistematici di

tipi di persone, di occupazioni. Progettò di avere quarantacinque cartelle e in ognuna

venti immagini relative al titolo della cartella e all’intero progetto denominato Gente del

XX secolo (People of the XX century) e con questo lavoro portò dall’Ottocento il bisogno

enciclopedico della fotografia dentro il nuovo secolo, usando infatti tecniche e mezzi

della fotografia delle origini dandogli un tocco innovativo attraverso l’isolamento del

soggetto in uno sfondo indefinito che risaltasse i tratti particolari del volto o del corpo tali

da renderli unici. Ne escono dei ritratti da cui scaturisce l’impressione e l’idea

emozionale che il soggetto trasmetteva a Sander nell’immediato, ma che nello stesso

tempo doveva anche raffigurare la “classe” di appartenenza nell’antologia sanderiana di

archetipi tedeschi che in realtà poco assomigliavano alla concezione ariana che il nazismo

in quel periodo inculcava nella popolazione come effige dell’uomo e donna tedeschi.

Questo fu solo l’inizio dell’attrito fra Sander e il regime; i ritratti di tipi come i disabili e i

disoccupati che venivano considerati da “purificare”, inseriti nel gradino più basso della

scala sociale, divennero così scomodi da spingere il governo ad ordinare una completa

distruzione della sua opera Face of Time tanto quanto fece anche la guerra e i

bombardamenti subito dopo (il suo laboratorio fu raso al suolo).

Dopo la guerra continuò la sua opera aggiungendo nel catalogo i ritratti degli ebrei

perseguitati e i prigionieri politici. Non riuscì mai a scoprire l’enorme influenza che ebbe

nella ritrattistica contemporanea, nel tentativo di scoprire forse il segreto della vita nella

catalogazione di mille volti e nella loro unicità.

Le fotografie di Sander non trasmettevano come quelle di Boltanski il segno della

16 “i decided to harness myself to the project that’s been close to my heart for a long time: preserving oneself whole, keeping traces of all the moments of our lives, all the object that have surrounded us, everything we’ve said and what’s been said around us. That’s my goal.” da “The archive” op. cit. 17 “ i may finally rest.” da “The archive” op. cit.

caducità ma del tempo, “esse sono il tempo”18. Ripresi nella loro fissità architettonica i

soggetti esprimono l’appartenenza ad un gruppo specifico, un’identità, dei punti fissi del

cosmo sociale. La rappresentazione schematica e totale di uno spaccato di realtà che ci

può sembrare ambiziosa relegata al solo mezzo di un fotografo, nulla al confronto con i

mezzi di cui disponiamo adesso, tuttavia l’idea dell’uomo del XX secolo non poteva

essere più precisa e profonda. Questo perché la lunga esposizione praticata da Sander era

la condensazione non dell’attimo irripetibile ma del sunto significativo di una vita.

Una delle sue foto che all’apparenza può anche sembrare un’istantanea è una delle sue

foto più note “Giovani contadini” del 1914 inserita nell’antologia1: giovani contadini,

riassume sia lo sguardo quasi sorpreso dei giovani di fronte al mezzo con la posizione in

diagonale del personaggio sulla sinistra, sia la fissità di sguardo del personaggio centrale

e quello di destra, ben ancorati alla terra dal bastone che sembra indicare l’appartenenza

di quel territorio.

Nell’antologia dell’uomo del ventesimo secolo il gruppo del contadino e dell’artigiano

riunisce foto in cui i tipi sono ritratti con i loro attrezzi, gli altri gruppi sono ritratti per lo

più con angolazioni diverse in piani ravvicinati per carpirne meglio l’essenza, pian piano

lo sfondo diventa bianco neutro ad esaltare il primo piano. Tuttavia l’aspetto psicologico

non è fondamentale in Sander; ciò che deve trasparire è il ritratto sociale atemporale, un

archetipo, sebbene iscritto come nei primi ritratti in un pittorialismo.

Per molti Sander rappresenta uno storiografo nel suo progetto di catalogare lo spirito di

un’epoca, ma alcuni sguardi, alcune posture sembrano una catalogazione d’anime;

prendiamo ad esempio “movimento giovanile” del 1923 in antologia 40: i giovani della

grande città centrale è lo sguardo dell’uomo che va oltre la camera, verso un punto posto

al lato ma indefinito, verso un punto di riflessione che denota preoccupazione ma anche

speranza, il riflesso della luce sulle lenti illumina lo sguardo e lo incornicia. Oppure

prendiamo un collage degli anni trenta “studi, l’uomo”, la serie dei tagli e dei particolari

di un volto formano insieme un’unicità ideale, in quanto provenienti da persone diverse, il

tutto con una sensibilità post-moderna.

In una lettera al figlio del 1944 la moglie Anna Sander scrive: “ Papà è di nuovo al

lavoro: sta raccogliendo fotografie di mani di intellettuali e artigiani, di bambini e

anziani…puoi immaginarti quanto sia ben poco edificante avere come unica occupazione

quella di ingrandire le fotografie dei soldati caduti, ritoccarle giorno dopo giorno e dover

18 da “ August Sander. La fotografia non ha ombre oscure” a cura di Gerd Sander Alinari Editore Firenze1996

ascoltare, al momento della vendita delle foto, le pene delle madri e delle mogli…la sua

unica preoccupazione è quella di salvare per un tempo futuro il lavoro di tutta una vita.”19

Il XX secolo è stato un secolo difficile, soprattutto per l’Europa, August Boltanski un

autore degli anni settanta dice: “il fatto che io sia nato proprio a partire dalla guerra, che

da bambino non abbia sentito parlare d’altro che di Shoah, che tutti gli amici dei miei

genitori fossero dei sopravvissuti, mi ha sicuramente formato. Io non ho vissuto

direttamente quelle esperienze, ma ne ho subito le conseguenze, come il timore

dell’esterno, l’idea del pericolo, il dover nascondere le cose, l’essere allo stesso tempo

fieri di qualcosa pur avvertendone consapevolmente il pericolo…”20

Come per Sander, Boltanski analizza il concetto del tempo, tuttavia ciò che lo

contraddistingue non è l’analisi storica ma porre l’accento della decadenza del tempo,

dell’ineluttabilità del perire. Le sue operazioni seguono un fluire temporale, le tracce, le

foto, gli oggetti o gli indumenti sono segni di un passaggio e di una ricostruzione del

soggetto attraverso il ricordo che deve attivare un percorso di pensiero individuale

staccandosi da un impianto narrativo. Già dalle sue prime opere nella metà degli anni

settanta l’artista mescola il lato ironico, l’istantaneità della fotografia e il suo aspetto

reliquiale con l’istanza catalogatrice che ordina oggetti e mobili come in museo,

rafforzando l’idea che una sopravvivenza è possibile nella rigidità della rappresentazione.

Rigidità che non è come per molta fotografia contemporanea congelamento ed

estraniamento, ma tutto al contrario un punto di arresto del tempo per un’introspezione

all’interno da cui far scaturire una personale narrazione verso un mondo interiore,

l’oggettività diventa soggettività attraverso il ricordo. In “boites de biscuits” del 1969

Boltanski mette in colonna ammucchiate al muro di una parete di un lungo corridoio una

serie di scatole di biscotti, all’interno vi sono “..vecchi pezzi di carta, ritagli di giornale

ingialliti, fotocopie di pagine di libri, biglietti strappati, foto sbiadite, vecchie diapositive

deteriorate, senza o con didascalie, e messe a casaccio, cassette video impolverate e quasi

cancellate, oggettini ridicoli scampati alla pattumiera per miracolo, il tutto alla rinfusa…

insomma reliquie. Reliquie estratte con mille precauzioni dalle loro povere bare di latta,

disposte con cura sul tavolo, maneggiate con riverenza, per poi tentare di metterci ordine

19 da “ August Sander. La fotografia non ha ombre oscure” op. cit pag. 21620 da “ Boltanski” a cura di Danilo Eccher per la Galleria d’Arte Moderna Bologna, Charta Editore Milano 1997

per poter provare a partire da loro, a ricostruire il soggetto. Il soggetto Christian

Boltanski, artista, e le sue molteplici manifestazioni, o forse molteplici sparizioni?”21

Più avanti queste scatole di biscotti conquisteranno scaffali interi per una maggiore

occupazione dello spazio in cui il fruitore deve passare e osservare ad altezza d’occhio

tutte le fotografie attaccate su ogni scatola, incorniciate da un quadrato nero, l’opera è

“Riserva degli svizzeri morti”: “…ci si fa strada con difficoltà tra le 150 colonne, si

diventa un Pollicino braccato in una foresta mortale dal gusto di metallo arrugginito. Si ha

l’impressione di trasgredire se non di profanare. Il ritorno è labirintico…la parola

ambiente riprende servizio con grande violenza e provoca un bell’effetto di prostrazione

estetica.”22 La sacralità dei luoghi è una sua costante, lui non è credente tuttavia è

interessato alla conoscenza delle religioni, molte sue installazioni sono fatte dentro le

chiese o attraverso la ricostruzione di ambienti religiosi, le luci che illuminano ogni

ritratto in bianco e nero sono lumini di una necropoli che ha la forma molto spesso di una

piramide. I “monumenti” dei primi anni Ottanta sono infatti installazioni in cui la

fotografia è la parte principale che regge il significato maggiore, il volto centrale, funereo

e impalpabile è amplificato dalle luci e dai fili elettrici che legano una foto all’altra,

facendo partire nel fruitore dei collegamenti mentali narrativi.

Le icone di Boltanski si legano oltre che tra di loro anche con la Storia, spesso si è parlato

di lui come uno degli artisti dell’olocausto, egli infatti inizierà a prendere a soggetto delle

foto di bambini come omaggio ai bambini senza nome perduti nelle soluzioni finali

naziste ma soprattutto si può leggere un ammonimento moralista più generale a chi ha

perso l’innocenza e la fase dell’infanzia per diventare adulti o una personale nostalgia

all’infanzia perduta dell’artista. Daniel Soutif scrive nel 1988 : “boltanskia… un luogo

perduto dove tutti sono anonimi e possono scambiare i propri ricordi con quelli degli altri,

dove l’infanzia si sarebbe prolungata indefinitamente al punto che la si potrebbe

confondere con l’eternità della morte.”23

Come Sander anche Boltanski vuole nella sua opera creare una figura dell’uomo del XX

secolo, in quanto pur parlando dell’infanzia, non vuole mostrare la sua infanzia in

particolare ma uno stadio emotivo comune a tutti in cui il fruitore deve ritrovarsi per

capirsi, soprattutto l’uomo contemporaneo che a corto di ideologie e utopismi dopo le due 21 da “ Boltanski” a cura di Danilo Eccher per la Galleria d’Arte Moderna Bologna, Charta Editore Milano 199722 da “ Boltanski” a cura di Danilo Eccher per la Galleria d’Arte Moderna Bologna, Charta Editore Milano 199723 da “ Boltanski” a cura di Danilo Eccher per la Galleria d’Arte Moderna Bologna, Charta Editore Milano 1997

guerre sembra entrato in un post-umanesimo in cui l’unico vero sentimento è

l’identificazione col proprio vicino.

Nel cinema le avanguardie hanno spesso utilizzato materiale d’archivio per creare delle

elaborazioni artistiche, si pensi al già citato Vertov che con gli altri “evangelisti” delle

scuole sovietiche arrivarono a sperimentare delle connessioni narrative attraverso il

montaggio; l’effetto Kulesow dell’immagine di Mozzuchin fondata sui collegamenti

mentali dello spettatore a seconda del montaggio rimarrà uno degli esempi più

emblematici.

Ma se prendiamo in particolare l’esempio di alcuni registi che hanno saputo elaborare dei

rapporti tra narrazione e sperimentazione attraverso il montaggio di sequenze come

materiale d’archivio per proporre una riflessione sul ricordo personale e storico, l’elenco

si assottiglia, e in particolare prenderò due registi che si legano anche ad una riflessione

sui nuovi media, sino ad arrivare ad esemplificare come le nuove tecnologie aiutano la

realizzazione estetica di opere in cui l’esigenza dell’arte contemporanea di decostruire

l’opera, scomporla per arrivare ad un'altra realizzazione aperta aiutano questa istanza. Un

regista particolarmente attaccato al tema del catalogo come elaborazione del ricordo

storico è Alain Resnais e ciò è particolarmente presente già nei suoi primi cortometraggi

più che nei lunghi. Il testo filmico per Resnais deve essere ricomposto secondo una logica

che riordini materiale indifferenziato dopo una completa ricodificazione, tutto sotto

l’egida di una ricostruzione storica e sentimentale.

Il suo metalinguismo è stimolato soprattutto da temi collegati alla conservazione della

storia intesa come guerra, ricordanza, oblio. Iniziando da Guernica che segue il corto su

Van Gogh, si differenzia da questo per l’eccesso di smembramento e deflagrazione dei

dettagli che si accavallano come un collage cubista, ritagli di giornale, murales e le parole

chiave. Questo corto in particolare “è una piccola feritoia aperta nella barriera del tempo-

oblio per gettare uno sguardo al di là, dove anche le statue muoiono, dove notte e nebbia

confondono le tracce del passato e impediscono di vedere il futuro.”24

Dal 48 al 50 egli dirige alcuni corti legati alla figura di artisti, prima si occupa di Van

Gogh, poi di Gaugin e infine dirige Guernica. Lo stile nei tre corti è simile, la narrazione

affidata ad una voce off si sovrappone ai quadri degli artisti. Tuttavia il ritmo sale sempre

di più da un corto all’altro, il quadro di Picasso che si riferisce ad un particolare evento

storico più che alla figura dell’artista, è un incalzante montaggio di quadri, particolari,

titoli di giornali e materiale d’archivio. Anche la musica si sovrappone agli spari, ai 24 da “ Alain Resnais o la persistenza della memoria” di Di Sergio Arecco Le mani, Recco (GE)1997

bombardamenti sino ad arrivare alla produzione statuaria di Picasso che viene a

rappresentare l’evoluzione dell’attacco sul paese basco raffigurato, ovvero la morte, la

distruzione, il disfacimento.

Ma la sua ansia di conservazione del ricordo accanto alla catalogazione viene manifestata

ampiamente da un lungometraggio del 1956 “Tutta la memoria del mondo”

commissionato dal Ministero degli affari Esteri per rappresentare una delle più grandi

biblioteche del mondo la Bibliothèque Nationale di Parigi. Qui Resnais dà ampio respiro

alla sensazione di inafferrabilità e di sperdimento di fronte ad un’enormità di materiale

minuziosamente ordinato e catalogato per l’esigenza del cittadino. Più che una biblioteca

sembra che la mdp si perda in un grande labirinto, si muove lentamente tra i corridoi e

molte riprese partono dal basso in senso verticale verso l’alto quasi a riempire con il

soffitto tutto lo schermo. Un ansia di morte pervade tutto questo lungometraggio, un libro

è fermo nella sua posizione fino a che qualcuno non lo richieda, per poi tornare nell’oblio

dell’enorme quantità di altri libri, una volta usato. In più l’enormità di materiale sembra

essere troppo grande per lo sforzo di tutti i lavoratori della biblioteca, il loro lavoro è

documentato: catalogazione, disposizione per genere e specie, numerazione, perforazione,

conservazione, restauro…sembra che sia tutto inutile di fronte le ultime sequenze del

film, che riprendono dall’alto la monumentalità della struttura della memoria in confronto

ai lettori che sembrano quasi sparire.

Se prendiamo uno dei suoi maggiori capolavori “Hiroshima mon amour” del 1959 la

parte iniziale sembra una continuazione naturale dei primi corti; la voce off dei

protagonisti che all’inizio si intravedono attraverso i loro corpi, si sovrappone a sequenze

d’immagini di repertorio, e a riprese all’interno di musei che ricordano la catastrofe

atomica. In questo film passato e presente si sovrappongono sul discorso della memoria e

dell’oblio, il registro letterario (scritto da Margherite Duras) si sovrappone a quello

cinematografico che alterna momenti di metalinguaggio, di manifesti pacifisti,

documentari sino a quello sentimentale. I suoi film sembrano essere tessere di un mosaico

in continua costruzione fondate sull’impossibilità di sfuggire all’oblio, anche il ricordo a

cui la protagonista si aggrappa è in realtà un ricordo che sta per essere superato e

cancellato: “conosco l’oblio…come te ho desiderato di avere una memoria

inconsolabile…ma ho dimenticato.”25 Il momento topico è quello in cui nel tea room la

protagonista ricorda il proprio passato a Nevers e il trauma di vedere il proprio amato

ucciso, la conseguente colpa di aver amato un tedesco e la reclusione nella cantina. Tutto 25 da “ Alain Resnais o la persistenza della memoria” di Di Sergio Arecco Le mani, Recco (GE) 1997

ciò è reso con una continua sovrapposizione tra la città di Hiroshima e quella di Nevers

tra passato e presente, tra l’identità dell’architetto giapponese e il soldato tedesco, con il

terrore di non saper gestire questo flusso di ricordi la cui destinazione è la scomparsa.

Anni più tardi nel 1993 con Smoking/ No smoking porterà l’operazione di work in

progress a livelli tali che il film verrà considerato “cinema interattivo”, il fruitore si

sentirà realmente chiamato in causa nella composizione del senso e della narrazione.

Un’intuizione che Resnais aveva già intravisto nei suoi primi corti: “ La ricorsività dei

personaggi, delle azioni, dei tempi nasce da una piattaforma algoritmica, e cosi il

procedimento del tempo e dello spazio, comune a tutto il cinema di Resnais e qui

semplicemente matematizzato, mappizzato…il film sembra disporsi tra Feydeau e

l’elaborazione elettronica, tra il marivaudage e l’informatica.”26

26 da “ Alain Resnais o la persistenza della memoria” di Di Sergio Arecco Le mani, Recco (GE)1997

Come rappresentare il mondo in un catalogo. Tulse Luper.

In Peter Greenaway l’ossessione del catalogo si lega indissolubilmente ad una altra sua

ossessione quella di un cinema totalmente innovativo, spoglio della narrazione che per

tanto tempo ha reso succube il cinema nell’essere solo un modo per raccontare una storia,

per liberarsi nell’espressione assoluta come è possibile in pittura; una delle sue frasi più

celebri è “il prologo del cinema è finito, e noi ora possiamo veramente cominciare”.

Artista poliedrico egli è anche un pittore o media artist, dopo aver studiato alla

Walthamstow School of Arts tenta di iscriversi al Royal College of Art Film School,

senza successo tornando a dedicarsi alla pittura, uno dei suoi quadri più famosi è “ Se

solo col cinema si potesse fare lo stesso” e allestisce la mostra “ 100 objects to Represent

the world” nel 1992, scrive anche dei romanzi ispirandosi in particolare a Borges ed a

Calvino. Per la propensione alla pittura Greenaway propone nelle sue pellicole delle

composizioni di forte impatto visivo, organizza le composizioni e le inquadrature nude e

simmetriche o debordanti di oggetti come dei dipinti, sperimentatore di mezzi e

linguaggi, inserisce nei propri film numeri e tabelle, organizza la narrazione in capitoli o

ramificazioni e continui rimandi alla sua stessa opera. L’interesse verso l’esplorazione

delle potenzialità degli straordinari mezzi di comunicazione lo porta a servirsi della

rivoluzione digitale come di un modo per abbattere le barriere tra il cinema e le nuove

tecnologie; arriva a coniare il concetto di Digital Cinema Multimedia per definire il suo

progetto: The Tulse Luper Suitcase, iniziato nel 2003 con la prima parte La storia di

Moab e continuato con Antwerp ma con minor successo di critica e pubblico.

Ancor prima che Greenaway realizzasse il progetto Tulse Luper, Manovich l’aveva

inserito come uno dei registi-database nel suo “Il linguaggio dei nuovi media” come un

artista che aveva portato all’estremo le conseguenze della sperimentazione con i nuovi

mezzi digitali.

Nel cinema di Greenaway la catalogazione, è un tema dominante, un tentativo dell'uomo

di mettere ordine nella vita quotidiana o in ciò che non si riesce a comprendere, con tutta

la sistematicità di un collezionista; nel film La storia di Moab la prima parte della trilogia

Luper viene definito: “per lo più come un naturalista, aveva intrapreso gli studi di

archeologia, forse è importante considerarlo soprattutto un collezionista, lui si definiva

una specie di erudito, nutriva un ammirazione particolare per i collezionisti, i lessicografi,

gli enciclopedisti, tutti coloro che si adoperavano in ogni modo per ordinare le cose del

mondo in un unico posto sotto un unico sistema, si divertiva a compilare liste…di

immagini, eventi, nomi, esperienze, persone, personaggi, prigioni, pezzi di carbone…”27

Il tema del libro e del catalogo compare in H is for the House, A walk through H (in cui

compare questo personaggio enigmatico Tulse Luper ) nel Lo zoo di Venere in cui lo zoo

diventa un enciclopedia di animali viventi, e nella labirintica biblioteca di Prospero in

L’ultima tempesta in cui tutti i libri rimandano agli altri sino ad arrivare alla summa di

tutto ovvero La tempesta di Shakespeare. L’ambizione di poter percepire e organizzare

tutto l’esistente caratterizza molti dei suoi protagonisti come Nagiko di Pillow book o

appunto il fantomatico Tulse Luper, citato molte volte nelle sue prime opere inizierà ad

avere col tempo una personalità: è l’ornitologo di A walk through H a cui si devono 92

disegni di rotte migratorie degli uccelli raccolte dopo la sua morte, è il realizzatore del

progetto Vertical Feature, una raccolta di forme verticali da cui Greenaway trae Vertical

Feature Remake strutturato secondo il numero 11, diviene protagonista con un volto nel

2003 in Le valigie di Tulse Luper: “null’altro è se non l’alterego del regista, il

personaggio sul quale l’autore gallese carica le sue ossessioni, le sue seduzioni, le sue

manie pitagoriche e cataloganti, le visioni di un mondo-caos che nelle sue mille e mille

vie di fuga è da “contenere”, afferrare, imbrigliare e dunque razionalizzare e spiegare

mediante catalogazioni di tutto e su tutto mediante numeri significanti, gruppi e

sottogruppi, schemi, caselle, archivi, icone, archeologie.”28 Le persone incontrate sono 92

come le valigie di Luper, 16 sono gli episodi e le prigioni.

Prigioni che possono essere il sunto della narrazione di questo film, una serie di reclusioni

che Tulse Luper ha vissuto nella sua vita: partendo dall’infanzia, quando il padre lo

rinchiude nella carbonaia per aver fatto crollare un muro di mattoni e dove lui riempie la

sua prima valigia di oro nero gallese; passa nella prigione di Moab, nello Utah USA per

aver sedotto una sposa bambina, Passion Hockmeister, di una famiglia mormone che

dopo averlo maltrattato lo perseguiterà anche ad Anversa, sino ad arrivare alla terza

prigione di questo film, nel bagno della stazione di Anversa per essere stato accusato di

spionaggio contro il nazismo, mentre delle dattilografe trascrivono tutti i documenti e i

manoscritti di Luper. La narrazione quindi si sposta anche se in linea cronologica,

saltando da uno spazio all’altro, quello che ci aiuta nella ricapitolazione della trama sono

gli interventi di alcune “autorità” super partes che sembrano illustrare un documentario o

27 dal film “Le valigie di Tulse Luper. La storia di Moab” di Peter Greenaway 2003 126’ GAM film :la voce narrante-dimostrativa si inserisce nel film quando Tulse è alle prese con la sua prima prigionia e la prima valigia. 28 da “Le valigie di Tulse Luper. di Peter Greenaway” di Renzo Gilodi rivista Cinema sessanta n°3-4/2004

rispondere ad una intervista su Tulse Luper e si inseriscono nella narrazione attraverso dei

piccoli quadrati verso il bordo dello schermo. L’uso di questi riquadri, dello split screen,

di inserimenti grafici, di numeri o scritte, o della enumerazione delle valigie con il

commento del loro contenuto e della loro storia, di disegni di oggetti che sono nella

catalogazione “gli oggetti che rappresentano il mondo” (con relativa musichetta da

intervallo) sono i veri elementi che caratterizzano questo film come uno degli esempi di

multimedialità che offre soluzioni narrative e visive verso cui lo spettatore è incuriosito e

sollecitato ad operare collegamenti mentali e riflessioni: “L’opera è una specie di summa

di tutti gli universi greenawaiani di esaltazione del post-moderno tendente a sintetizzare

una summa radicalmente rifondata verso un’introduzione ad Internet…”29

Il film si apre con delle audizioni ai vari personaggi e comparse del film che hanno una

numerazione precisa che ricompare nel corso del film quando si attua la loro parte, in

seguito le immagini del gioco alla guerra dei bambini del quartiere di Luper si

accavallano alle immagini d’archivio, al suono degli spari reali, sotto una musichetta da

grammofono e l’inserimento di diversi quadrati con i personaggi della stessa narrazione.

Se quindi nei suoi film Greenaway stravolge lo schema della narrazione lineare e dà vita

ad un'opera fruibile come un CD ROM o un ipertesto stimolando il ruolo dello spettatore

che decide liberamente quale percorso seguire nel guardare un film, Greenaway,

nonostante questo avvicinamento alla tecnologia, verso la quale pensa sempre di tenerla

in pugno e di potersene servire pensi anche che, tutto sommato, sia necessario

confrontarsi con l'uomo, la mente, l'artista. In particolare il ruolo del regista: “sono

convinto che ancora oggi tutte le scelte sono fatte dall’autore e non dallo spettatore. E

tuttavia credo anche ci sia qualcosa di molto costruttivo per il cinema. Forse è una

condizione per l’evoluzione del linguaggio.”30

29 da “Le valigie di Tulse Luper. di Peter Greenaway” di Renzo Gilodi rivista Cinema sessanta n°3-4/200430 da un intervista a Peter Greenaway su “Peter Greenaway. Il cinema delle idee” di Alessandro bencivenni e Anna Samueli LE MANI EDITORE Recco (GE)1996

Capitolo secondo

L’estetica del database

Manovich e il cinema digitale

Nel dibattito fra i teorici del cinema all’inizio del secolo sullo statuto del cinema i

“realisti” erano per una definizione di cinema che si fondasse sulla ripresa di azioni reali

avvenute nello spazio fisico reale, come finestra sul mondo o specchio della vita.

Per Peirce era il tentativo di trasformare le impronte in arte; cinema come l’arte

dell’indice. Nel 1970 il teorico francese Christian Metz scrive che “la maggior parte dei

film realizzati al giorno d’oggi - siano belli o brutti, originali o no, commerciali o no -

hanno in comune la caratteristica di raccontare storie; in questo senso appartengono tutti

allo stesso, unico genere, o meglio, a una specie di ‘surgenere’ ”31 del ventesimo secolo.

Finora gran parte delle riflessioni sul cinema nell’era digitale si è concentrata sulle

possibilità della narrazione interattiva con l’idea di uno spettatore che partecipa

attivamente alla narrazione, scegliendo tracciati diversi nello spazio narrativo e

interagendo con i personaggi, ma questa concezione si appunta solo sull’aspetto della

narrazione. Ma sappiamo che dobbiamo andare oltre questo problema.

Tornando alla proprietà indicale del cinema come ontologia dobbiamo ammettere che

nell’era della simulazione computerizzata questa viene a cadere quando è possibile

generare delle scene realistiche con un sistema di animazione computerizzato oppure

modificare fotogrammi o intere sequenze con l’ausilio di un programma di disegno

digitale o unire situazioni reali e quelle virtuali con assoluta credibilità fotografica senza

in effetti aver filmato nulla di tutto ciò. Per Manovich con l’ingresso del cinema nell’era

digitale le tecniche manuali tornano a essere al centro del processo cinematografico e

questa costruzione manuale delle immagini rappresenta un ritorno alle pratiche

precinematografiche del diciannovesimo secolo, quando le immagini erano dipinte e

animate a mano. Con il passare del tempo queste tecniche diventano caratteristiche del 31 da “Cos'è il cinema digitale?” citazione di Christian Metz in L e v M a n o v i c h su www.trax.it

cinema fantastico e d’animazione. Sempre per Manovich nasce una diversa logica

dell’immagine digitale in movimento che subordina il fotografico e il cinematografico al

pittorico e al grafico, distruggendo l’identità del cinema come mezzo di registrazione.

Le grandi case di produzione, soprattutto hollywoodiane hanno assegnato agli effetti

speciali un enorme peso nella creazione dei film, e la loro costruzione e realizzazione

occupa l’attenzione di molti documentari e spazi nei dvd come contenuto extra accanto al

film di riferimento. Tuttavia col digitale non solo gli studios possono permettersi

strumenti digitali e i tecnici specializzati con la diffusione dei mezzi digitali l’intera

concezione della produzione cinematografica è intaccata, dagli studios, agli indipendenti

ai dilettanti.

Ciò che era fondamentale nel cinema tradizionale, tutto il processo di produzione e post

produzione, viene a cadere oggi nel processo in cui tutte le immagini del film devono

passare attraverso una lunga serie di programmi prima di entrare nel film; la ripresa dal

vivo è ormai una semplice materia grezza destinata all’elaborazione manuale attraverso

l’animazione, l’inserimento di immagini in 3D, pittura ecc..

Manovich riassume il tutto in cinque punti 32 :

1) Piuttosto che filmare la realtà, oggi è possibile creare delle sequenze cinematografiche

con l’ausilio di un programma di animazione in tre dimensioni. Perciò la ripresa dal vivo

perde il ruolo di materia prima della costruzione cinematografica.

2) Una volta digitalizzata (ovvero tutto viene trasformato in codice binario), la realtà

filmata si libera del legame indicale che costituiva la relazione privilegiata del cinema

tradizionale: il computer non distingue tra immagini ottenute fotograficamente in ripresa

diretta e quelle create da un programma di disegno come soluzione grafica. Tutti gli

elementi si prestano a essere facilmente alterati, sostituiti e scambiati.

3) La ripresa dal vivo diviene un materiale grezzo, destinato alla composizione,

all’animazione e al morphing. Così, mentre il realismo visivo resta delegato al processo

cinematografico, il cinema ottiene la plasticità che fino a poco tempo fa era esclusiva

della pittura e dell’animazione (il lungo e intricato volo di una piuma in Forest Gump di

Robert Zemeckis, Paramount Pictures 1994).

4) In passato il montaggio e gli effetti speciali erano attività rigidamente separate. Il

tecnico di montaggio lavorava sull’organizzazione di una sequenza di immagini, mentre

l’elaborazione diretta dell’immagine spettava a chi si occupava degli effetti speciali. Il

computer distrugge questa separazione. Grazie ai programmi di disegno o 32 Da “Cos'è il cinema digitale?”di L e v M a n o v i c su www.trax.it

all’elaborazione algoritmica, la manipolazione di una singola immagine è semplice

quanto il montaggio: entrambi si riducono a un semplice ‘taglia e incolla’.

5) Dati i principi appena formulati, possiamo definire il cinema digitale con questa

equazione: cinema digitale = ripresa dal vivo + pittura + elaborazione delle immagini +

montaggio + animazione computerizzata a due dimensioni + animazione computerizzata

a 3D.

Ciò che risalta maggiormente è che la ripresa dal vivo diventa una materia come le altre

nel cinema digitale, bisogna saper manipolare programmi ed effetti speciali ed il cinema

di animazione riscopre un ruolo preponderante.

La stessa pellicola diventa una serie di dipinti creati da un artista che manipola le

immagini, una per una o tutte insieme. Le immagini digitalizzate, e ritoccate con l’ausilio

di un computer sono l’esempio del nuovo status del cinema: non più costretto al solo

contesto fotografico, il cinema si apre al mondo del pittorico. Molti degli effetti speciali si

fondano sulla modifica fotogramma per fotogramma, vengono colorati, modificate o

ricreate le ambientazioni.

Tuttavia riprendendo il discorso sul realismo, potrebbe sembrare che il linguaggio del

cinema tradizionale non ne venga intaccato in quanto gli effetti o le elaborazioni sono

nascoste bene sotto il realismo classico, ovvero sotto la finzione di reale anche per quanto

irreale.

Metz si chiede se in futuro verranno realizzati più film non narrativi: “se mai dovesse

accadere il cinema non avrebbe più bisogno di creare un effetto realistico.”33

I mezzi elettronici ci dirigono verso altri campi visuali caratterizzati dal flusso

d’informazioni come la televisione, lo schermo di un computer, i video musicali.

In un’intervista alla fine del dvd Soft Cinema, Manovich spiega che : “alcune delle mie

influenze provengono da alcuni quadri di Mondrian, o dal sistema GUI (graphical use

interface), oggi sono le convenzioni delle GUI che migrano nella realtà fisica. Noi

interagiamo con schermi che sono divisi in una serie di finestre multiple che hanno

differenti forme, così ritenevo importante rendere una sorta di layout simmetrico,

diversamente dal sistema tradizionale cinematografico in cui una singola immagine

occupava l’intero schermo. Altre influenze provengono dalla televisione ed in particolare

dai programmi finanziari e notiziari, come quelli di Bloomberg, in cui lo schermo è diviso

33 da “Cos'è il cinema digitale?”citazione di Christian Metz in L e v M a n o v i c h su www.trax.it

in zone in cui vi sono grafici, strisce scorrevoli con il testo e finestre principali che

mostrano azioni, servizi o dove viene mostrato l’annunciatore…”34

Se prendiamo i video musicali vi notiamo una qualche forma di narrazione, ma non

seguono uno svolgimento lineare dall’inizio alla fine e pertanto si avvalgono di immagini

in pellicole o video, modificate però sino a negare le norme tradizionali del realismo

cinematografico. Anche per questo il territorio del videoclip è sempre stato un terreno

fertile alla sperimentazione attraverso le nuove possibilità offerte dai computer e dalla

manipolazione fotografica. Lo stesso discorso vale per i videogiochi e verrà analizzato

più avanti.

La narratologia, il ramo della teoria letteraria che si occupa di teoria della narrazione,

distingue tra narrazione e descrizione. La narrazione è costituita da quelle parti della

trama narrativa che fanno procedere la vicenda; la descrizione è costituita da quelle parti

che non influiscono su di essa. Sempre Manovich sostiene che nell’era dell’informazione,

narrazione e descrizione si sono scambiati i ruoli. Se le culture tradizionali offrivano

narrazioni ben definite (miti, religioni) e scarse informazioni, oggi abbiamo troppe

informazioni e poche narrazioni capaci d’integrare il tutto. Bene o male l’accesso

all’informazione è diventato un’attività chiave nell’era digitale. Perciò abbiamo bisogno

di quella che potremmo chiamare Infoestetica, un’analisi teorica dell’estetica

dell’accesso all’informazione nonché della creazione di nuovi oggetti mediali che

estetizzano l’elaborazione dell’informazione: “Dopo la preferenza del romanzo e del

cinema per la narrazione come forma principale di espressione culturale, l’era dei

computer ha introdotto il suo complice, il database. Molti nuovi oggetti mediali non

raccontano storie; non hanno alcuno sviluppo tematico formale o di altro tipo che ne

organizzi gli elementi in una sequenza. Sono piuttosto raccolte di elementi individuali,

ognuno con la stessa possibilità di significare.” 35

Sempre per Manovich una raccolta di documenti e uno spazio navigabile, metodi

tradizionali per organizzare sia i dati sia l’esperienza umana del mondo, sono diventate

due forme presenti in quasi tutti i campi di new media. La prima è il database, impiegato

per immagazzinare qualunque tipo di dati, dalle statistiche finanziarie ai videoclip ed è

completamente diverso da una tradizionale archiviazione di documenti: permette di

accedere, classificare, riorganizzare milioni di registrazioni nel giro di pochi minuti,

34 Dal DVD “SOFT CINEMA. Navigating the database” di Lev Manovich e Andreas Kratky MIT PRESS Cambridge, Massachussetes 2005 35 Da “ Il linguaggio dei nuovi media” Lev Manovich MIT PRESS Cambridge,Massachussetes 2002

contenendo vari tipi di media. Queste forme si estendono alla cultura in generale. Allo

stesso tempo il database diventa la nuova metafora che concettualizza la memoria

culturale individuale e collettiva, una raccolta di documenti, oggetti ed altri fenomeni ed

esperienze, rappresenta un nuovo modo di strutturare la nostra esperienza per noi stessi e

il mondo anche se diversamente dalla lettura di un romanzo, dalla visione di un film.

Ma è su Internet che la forma database ha conosciuto il massimo successo; la pagina web

è un elenco di elementi separati. Dalla pagina personale, ad un motore di ricerca, ad una

stazione radiofonica, o ad un sito dedicato a un personaggio storico o noto, o ad un

fenomeno. In più il fatto di poter sempre cambiare e aggiungere dati contribuisce alla

logica anti-narrativa del Web. Ma come ci si può aspettare una narrativa coerente se il

materiale continua a cambiare?

Nel mondo dei new media di solito la parola narrazione viene usata accanto alla parola

interattiva. L’utente della narrazione attraversa un database seguendo dei link secondo il

percorso definito dal creatore. Una narrazione interattiva si può quindi intendere come la

sommatoria di più traiettorie che attraversano un database, e la narrazione tradizionale

come una delle tante possibilità di un’ipernarrazione. Quindi una serie di dati presi da un

database potrebbe essere una narrazione?

Tuttavia per avere una narrazione dobbiamo avere: attore o narratore, il testo la storia la

fabula, e i suoi contenuti legati da causa effetto, causati o vissuti dagli attori.

I testi nella rete seppur collegati fra loro, o meglio “linkati” tra loro, hanno una propria

autonomia semantica, possono esistere a prescindere dal loro collegamento con un testo X

oppure assumono un significato preciso all’interno di una propria relazione ipertestuale.

Nell’operazione della lettura questo non è una novità, difatti se stiamo studiando un film

come La madre di Pudovkin possiamo imbatterci nello scrittore Gorkij dal cui libro il

film è tratto, vorremmo certamente saperne di più ma questo implica (per chi non l’ha

letto) una ricerca che richiederebbe del tempo. Se usiamo un motore di ricerca, ad

esempio Google, possiamo trovare nel testo dedicato al regista il collegamento allo

scrittore e da li ampliare la nostra ricerca su altri testi che parlano di letteratura russa,

nonché di storia della nazione russa. Un sito come Wikipedia ne è l’esempio più

emblematico.

Il database alla base in questo caso soddisfa la nostra esigenza di conoscenza offrendo

una traiettoria molto più ampia di lettura, nel tempo di un click, “La differenza sta nel

fatto che, finora, l’ipertestualità era un evento mentale, una relazione testuale che si

compiva nell’atto della lettura, nell’ordine delle associazioni del lettore, mentre oggi è

possibile renderla evidente in un testo che, come il World Wide Web, segnala con

chiarezza la presenza degli agganci testuali, delle relazioni tra testo e testo.”36

L’enciclopedia personale o domestica, cartacea o mentale era il nostro archivio di

riferimento, una volta digitalizzata il computer ne assume il testimone.

Sempre più biblioteche ricorrono alla digitalizzazione del loro materiale, messo a

disposizione sul loro portale, ma anche i motori di ricerca offrono la lettura integrale di

molti testi, noi tendiamo a registrare i nostri lavori, i nostri dati sulla memoria di un

computer. Sembra che la cultura stia andando verso una decodifica in bit, verso

un’informazione immateriale che viene scambiata e consumata relegando all’oblio tutto

ciò che non avrà un’esistenza digitale. E’ l’economia stessa del tutto e subito a dettare il

cambiamento; gli archivi informatici sono meno succubi al passare inesorabile del tempo

e alla degradazione materiale, in più sono velocemente consultabili. Se i libri nelle

biblioteche o i ricordi nella nostra mente possono col tempo deteriorarsi, la rete offre una

memoria globale esposta a tutti. I mezzi che abbiamo per registrare e memorizzare

offrono così un valido supporto a questo bisogno direi quasi ansiogeno. Se per Benjamin

“uno dei compiti principali dell’arte è stato da sempre quello di generare esigenze che

non è in grado di soddisfare attualmente”37 figuriamoci la tecnologia.

De Chirico con la sua pittura metafisica può essere definito profetico; “al mondo non

resterà che aggirarsi nei musei e nei ricordi della propria storia”38 diceva parlando della

sua poetica di riproposizione dell’elemento antico e classico in dei contesti moderni e

asettici dal cui impatto ne scaturiva il senso di straniamento. Con i nuovi media questo

museo in cui ci aggiriamo ha la forma del database e ha ben poco di perturbante, anzi per

Manovich è “una nuova forma simbolica dell’era dei computer o un nuovo modo di

strutturare la nostra esperienza per noi stessi e per il mondo.”39

E’ proprio a partire da un progetto di digitalizzazione di un’immensa biblioteca di libri

che ha preso piede il progetto “Mylifebits” della Microsoft, che dall’idea di digitalizzare

dei documenti si trasformò nell’archiviazione di una vita. Un suo dipendente Gordon Bell

incaricato di creare questo sistema iniziò con l’immagazzinare tutti i suoi documenti per

lavorare meglio, sino a immagazzinare qualsiasi cosa un computer potesse codificare.

36 da “Internet, memoria e oblio”di Lorenzo De Carli Bollati Boringheri Torino 1997, pag. 1837 Da “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”di Walter Benjamin Torino Einaudi 1991 38 Da “Arte contemporanea. Da Cézanne alle ultime tendenze” De Chirico citato in di Renato Barilli FELTRINELLI 200539 Da “Il linguaggio dei nuovi media” Lev Manovich 2005MIT PRESS Cambridge,Massachussetes pag. 274

Così tutta la sua vita per qualche anno venne registrata in questo enorme archivio,

telefonate, foto, dialoghi e con il supporto di una “sensecam” la registrazione di qualsiasi

cosa possa succedere nella vita di un individuo era completa.

Nel caso in cui il sig. Bell avesse voluto ricordarsi di una discussione avuta un giorno di

aprile con un suo amico doveva solo digitare il nome dell’amico o il giorno, per avere

informazioni su quella discussione o sull’amico con relativa foto.

Detto così questo database sembra non molto lontano dall’essere un piccolo rimpiazzo

della nostra mente, una memoria al nostro servizio forse anche più ampia e precisa. “il

richiamo dell’informazione totale, appena lo richiediamo.”40

Un’estetica della rimediazione

Verso la fine degli anni ottanta Mario Costa scrive L’estetica dei media partendo da

alcune domande chiavi sul ruolo dell’avanguardia, delle tecnologie e come l’arte arriva a

fruire i cambiamenti tecnologici soprattutto quelli dovuti alle nuove tecnologie “elettro-

elettroniche” seguendo due direzioni principali di ricerca: come le tecnologie trasformano

le tecniche tradizionali, e come le tecnologie ricercano e possono trovare una loro

specificità estetica, naturalmente tutto nell’ambito di un’ipotesi che verrà sviluppata col

tempo da altri teorici che vedremo di seguito.

Costa sostiene che la tecnologia è sempre stata molto legata alla scoperta scientifica; ad

ogni suo passo corrisponde un passo nella conoscenza, per questo la nostra

contemporaneità è così legata alla tecnologia, influenzandone anche l’arte che ha

incorporato la scienza sino ad esserne trasformata nell’essenza e nel destino: “non si è

trattato tanto di quella vicendevole compenetrazione tra l’arte e la scienza nella quale

Benjamin era inclino a credere, ma di un pesante condizionamento della scienza

sull’arte”. 41 I movimenti d’avanguardia dal dadaismo alle neo-avanguardie, dal

surrealismo alle pratiche situazioniste sono andati in cerca di un contatto con una nuova

situazione dell’uomo legata ai nuovi tempi attraverso strategie di dissoluzione del

soggetto o sistemi di equilibri altamente elastici e fluttuanti. “Non c’è aspetto della

antropologia contemporanea di cui non si possa trovare nel lavoro dell’avanguardia un

40 10 Baratti Martina articolo su Vertici Network di Psicologia e Scienze affini on-line. fonte internet: http://www.vertici.com/rubriche/articoli.asp?cat=RECE

41 Da “ L’estetica dei Media. (tecnologie e riproduzione artistica)” di Mario Costa, Capone Editore Lecce1990 pag. 9

presentimento, una sperimentazione preventiva, un esercizio di domesticazione.”42 Gli

artisti d’avanguardia sono fra i primi che riescono a vedere le possibilità specifiche delle

nuove tecnologie e le loro ibridazioni. Quando infatti nella storia dell’arte si passa a

parlare di avanguardia deve essere successo qualcosa di inedito tale da affermare la

presenza di un fenomeno nuovo, ma è difficile rintracciare i motivi per cui nasce

un’avanguardia, Costa sostiene che ad ogni cambiamento tecnologico di un ambito

sensoriale specifico si accompagna un cambiamento artistico legato a quel campo: “tutto

quanto il fenomeno dell'avanguardia, vale a dire la storia dell'arte dell'ultimo secolo fino

agli anni Settanta, è tutto dominato e indotto dall'avvento delle tecnologie.”43

L’immaginario diviene forma delle tecnologie a cui è strettamente legato e l’irruzione

nell’immaginario artistico avviene secondo Costa attraverso quattro modi che egli

riferisce alla letteratura ma che possono essere ben assimilati a tutte le forme di

produzione artistica: dapprima la letteratura imita le procedure scientifiche; Costa fa

l’esempio di Brecht che giustifica gli effetti di straniamento nel suo teatro con

l’atteggiamento scientifico di essere diffidenti di fronte ai fatti ovvi. In seguito i

mutamenti investono il campo del contenuto, della “significazione del medium

letterario”44 nell’ibridazione con altri medium; da qui la scrittura attraverso il flusso di

coscienza diviene la trasposizione nel romanzo della tecnica cinematografica. A questo

punto può iniziare il passo verso la crisi del mezzo letterario attraverso la contaminazione

materiale del libro che attraverso la scrittura, la pagina, la copertina insinua altri

“congegni significanti” per poi arrivare ad un suo superamento quando ciascuna delle

componenti è prodotta da diverse tecnologie che generano forme e modi di significazioni

diversi; l’artista con la sua originalità vi sopraggiunge quando la logica della sequenza lo

richiede.

Le nuove tecnologie generano nuovi prodotti artistici e nuove forme di sensibilità che

nell’artista si esplicano attraverso l’approfondimento delle possibilità delle nuove

tecnologie verso la creazione di nuovi significati e nuovi modi di significazione, e la

ricerca dei nuovi comportamenti “estetico-antropologici” dovuti alla fruizione dei

dispositivi tecnologici. Quest’ultimo aspetto è quello su cui operano gli artisti che Costa

definisce “artisti della comunicazione” che operano su una base di arte e tecno-scienza 42 Da “L’estetica dei Media. (tecnologie e riproduzione artistica)” di Mario Costa, Capone Editore 1990

Leccepag. 1143 Dall’ intervista a Mario Costa sul libro “sublime tecnologico” fonte internet: http://www.mediamente.rai.it/home/bibliote/intervis/c/costa.htm44 Da “L’estetica dei Media. (tecnologie e riproduzione artistica)” di Mario Costa, Capone Editore Lecce1990 pag. 13

elaborando una estetica della comunicazione (che Manovich chiamerà con caratteristiche

diverse Infoestetica) i cui principi fondamentali sono: l’evento come processo interattivo

in un flusso spazio-tempo, quindi estetica dell’evento che si realizza tramite un

dispositivo tecnologico che mette in comunicazione spazi diversi, avviene in tempo reale,

attraverso la simultaneità e origina il sentimento non del bello ma del “sublime”: “non

nasce dall’oggetto né dalla forma ma da una disposizione dello spirito che trova in ciò che

è assolutamente grande (la possibilità assoluta delle tecnica) un angoscioso sgomento e

assieme ad una ammirata contemplazione”45 verso un soggetto che secondo Costa si

ritrova sopraffatto dal venir meno di tutte le caratteristiche fondamentali dell’arte

tradizionalmente intesa. Lo stile, già un territorio controverso per l’arte tradizionale

diviene una nozione priva di senso, appartenente al vecchio apparato categoriale dell’arte:

“Appartiene alla preistoria l'artista che si esprime con lo stile, che pone, come momento

fondamentale e dominante del suo lavoro, l'espressione di se stesso, del proprio io, se è il

caso, del proprio sentimento; è l'artista che tende assolutamente alla proprietà esclusiva

dell'opera. Molti artisti tecnologici hanno già superato, nei fatti, tutto questo.”46

Antonio Tursi nel suo libro “Estetica dei nuovi media” edito nel 2007 tenta di delineare e

rispondere alle domande che gli estetologhi si sono chiesti da qualche decennio a questa

parte nel dialogo tra Estetica e Mediologia verso domande come “che ne è dell’opera

d’arte nell’epoca della sua digitalizzazione? E che ci dice oggi il termine bellezza?” 47

Baudrillard nel suo “ La sparizione dell’arte” del 1988 spiega le commistioni tra arte e

informazione dando la raffigurazione della modernità come un’infosfera, un groviglio di

informazioni, in cui tutte le utopie si compiono anche quella dell’arte; lo stadio è quello

di una estetizzazione del mondo in cui l’arte data per deceduta è invece presente in ogni

ambito, questo per la rivoluzione digitale e l’informazione mediatica. “Si dice che l’arte si

smaterializzi. È esattamente il contrario: l’arte oggi è passata ovunque nella realtà. È nei

musei, nelle gallerie, ma altrettanto è nei detriti, sui muri, nelle strade, nella banalità di

45 Da “L’estetica dei Media. (tecnologie e riproduzione artistica)” di Mario Costa, Capone Editore Lecce1990 pag. 1946 Dall’intervista a Mario Costa sul libro “sublime tecnologico” fonte internet: http://www.mediamente.rai.it/home/bibliote/intervis/c/costa.htm47 Anche se Costa nel suo libro a proposito del bello preferisce dire che : “Il carattere proprio dell'arte non è il bello. Il carattere proprio dell'arte è il significato. Tanto è vero che esiste un'estetica del brutto, tanto è vero che esiste molta arte che non è bella per niente. L'arte è, sostanzialmente, significato. Quindi, io preferisco mantenere ferma la differenza tra pratiche artistiche, preferisco sostenere che ogni pratica veicola un certo tipo di senso, un certo tipo di significato e problematizzo i prodotti così come di volta in volta mi si offrono.”

ogni cosa”. 48 Ma questo punto non deve essere un punto d’arrivo se non siamo dei

romantici attaccati all’idea dell’aurea ma un punto di partenza da ribaltare se possibile.

Baudrillard sostiene che l’arte e i media viaggiano sullo stesso destino, ovvero quello di

annullamento dello spazio e del tempo (just in time) in cui l’arte vi è trascinata nel flusso

senza possibilità di trattenersi. Vi si annulla. Vi è una critica aspra nei confronti dell’arte

che sembra essere dominata dalla tecnica che in questo caso sembra possedere aspetti

demoniaci.

Al contrario chi attribuisce all’arte e all’artista un ruolo predominante all’interno del

contesto sociale e mediale è McLuhan in quanto l’aspetto mediale dell’arte, il suo essere

technè è centrale nell’osservazione e raffigurazione del mondo. Quando un nuovo

medium appare si riconfigura tutto l’ambiente mediale precedentemente impostato,

questo non vuol dire annullamento ma mediazione tra il vecchio e il nuovo e definizione

certa di quello precedente: “la vera forma della radio è stata rivelata dalla televisione. La

forma vera delle televisione si è resa manifesta soltanto dopo l’invenzione del computer.

La forma del computer è già possibile comprenderla meglio perché siamo entrati nel

mondo delle Reti. La forma delle Reti, invece, non è ancora visibile, perché non c’è

nessun medium più avanzato delle Reti.”49 L’artista mediando fra i medium anticipa i

nuovi scenari sociali: “essi raccolgono il messaggio della sfida culturale e tecnologica

decenni prima che essa incominci a trasformare le società”50.

I suoi continuatori dichiarati, Derrick De Kerckhove e David Bolter seguono questa

funzione dell’artista, anticipazione e mediazione. Per il primo l’arte compromessa con le

nuove tecnologie diventa fruibile, è un’arte che allaccia relazioni in cui il fruitore è un

coautore non riconosciuto. Per il secondo dalle pagine di Remediation tratteggia il ruolo

soprattutto di mediazione che ha l’artista con l’arte e i nuovi media, in un’operazione

visibile. L’esperienza estetica diviene interattiva e visibile. Tanto da coinvolgere tutti nel

processo creativo. È questo che Castells cerca di dire nei suoi collegamenti con la rete. I

nuovi strumenti di comunicazione rispondono all’esigenza di espressione e creazione,

tuttavia altamente individualizzante. La rete da la possibilità di collegare queste

individualità che possono non riuscire a comunicarsi, verso una creazione collettiva e

48 Da Baudrillard in “ La sparizione dell’arte” del 1988 citato in “ Estetica dei nuovi media. forme espressive e network society” di Mario Tursi, Costa e Nolan editore Milano 200749 Da “ Estetica dei nuovi media. forme espressive e network society” di Derrick De Kerckhove citato in di Mario Tursi Costa e Nolan editore Milano 2007 50 Da “Gli strumenti del comunicare” di Mc-Luhan il Saggiatore Milano 1995

democratica. “ l’arte, sempre più un’espressione ibrida dei materiali virtuali e fisici, può

essere un ponte fondamentale tra l’io e la rete”51.

Lev Manovich si situa all’interno della creazione artistica, essendo lui stesso un

programmatore-artista-teorico, definendo una infoestetica che si riferisce alle nuove

pratiche culturali contemporanee che possono essere capite come responso alle nuove

priorità della società d’informazione: dare un senso all’informazione, lavorare con

l’informazione e produrne conoscenza. Dando molto peso al mezzo cinematografico egli

afferma un’estetica del montaggio che ha nella selezione e nella composizione le sue due

operazioni fondamentali. Il database diviene la base per una scelta e una successiva

integrazione di parti in modo nuovo e originale, come il remix e il DJ.

Nel 1999, quasi dieci anni dopo il libro di Mario Costa, Jay David Bolter e Richard

Grusin scrivono Remediation. Understanding new media per l’edizione italiana

Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi con lo scopo di

esplorare le trasformazioni che i nuovi media apportano sui vecchi e viceversa sostenendo

una pluralità di forme mediali che diviene centrale nella cultura mediale in America come

in Europa. I principi estetici sostenuti da Bolter e Grusin sono quelli dell’immediatezza,

ipermediazione e rimediazione. L’immediatezza è la capacità del medium di rendersi

trasparente, ovvero di farsi percepire con immediatezza percettiva, priva di mediazioni e

interfacce. La più alta immediatezza si ritrova nella realtà virtuale ma è presente anche

nell’esigenza di usare immagini digitali che siano più realistiche e dal vivo come se, ad

esempio nel cinema, le immagini in cui sono presenti elaborazioni al computer,

animazioni e controfigure computerizzate siano girate dal vero. La realtà virtuale come la

grafica tridimensionale e l’interfaccia del computer GUI trasformano la tecnologia

digitale trasparente: “ un’interfaccia trasparente dovrebbe essere in grado di cancellare se

stessa, in modo tale che l’utente non sia consapevole del fatto che sta confrontandosi con

un medium, ma si trovi piuttosto in una relazione immediata con i contenuti di quel

medium.”52

Non è una novità, questo bisogno di immediatezza risale dalla prospettiva rinascimentale

che con la tecnologia della camera oscura arriva a compimento, e quindi successivamente

con la fotografia, il cinema, la televisione. La fotografia in quanto, introducendo la

51 Da “Galassia Internet” di Manuel Castells Feltrinelli Milano 2002 52 Da “Remediation. competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi” Jay David Bolter e Richard Grusin Edizioni Guerrini Studio Milano 2002pag. 46

prospettiva lineare attraverso un processo di automazione, elimina apparentemente

l’artista posto fra la realtà e il fruitore e lo fa attraverso la meccanica e la chimica; nelle

immagini sintetiche è sopperito dall’algoritmo.

Ma non si tratta di una vera e propria presa in giro per lo spettatore, per immediatezza si

intende qualcosa che accomuna varie forme e pratiche culturali in cui vi è un punto di

contatto tra il medium e ciò che viene rappresentato.

L’ipermedia è quel medium che offre l’accesso a diversi media, immagini, suoni,

animazioni, video e per ipermediazione si intende quello stile frammentato, eterogeneo

“che enfatizza il processo o la performance piuttosto che l’oggetto artistico compiuto.”53

Prendiamo come esempio lo stile a finestre dell’interfaccia del computer; se apriamo

diverse finestre nello stesso momento notiamo che lo spazio non è unificato a seconda di

un punto di vista ma ogni finestra definisce quello verbale o visuale. L’interfaccia non

cerca di nascondere se stessa, il suo linguaggio risiede per l’appunto nella continua

dimostrazione dei suoi contenuti all’utente nella varietà delle sue finestre. In questo caso

l’immediatezza viene a cadere: “ Se la logica dell’immediatezza porta a cancellare o a

rendere automatico l’atto di rappresentazione, la logica dell’ipermediazione riconosce

l’esistenza di atti di rappresentazione multipli e li rende visibili. Dove l’immediatezza

suggerisce uno spazio visuale unificato, l’ipermediazione ne offre uno eterogeneo[…]

un’entità costituita da finestre[…]come la ricchezza sensoriale umana.”54

Logica già presente nel collage e nel fotomontaggio delle avanguardie in cui la

costruzione dell’opera è resa palese dagli oggetti che occupano tutto lo spazio, sino ad

arrivare al World Wide Web in cui lo stile a finestre è centrale come la sostituzione da un

medium ad un altro, nel senso che quando clicchiamo su di un collegamento si apre uno

spazio che può occupare l’intero schermo o anche una piccola parte e può essere testo

scritto o filmato.

Marshall McLuhan in Understanding Media sottolinea come il contenuto di un medium è

sempre un altro medium ovvero come un medium può essere ripresentato all’interno di un

altro. Questa pratica che è fondamentale nei nuovi media viene chiamata da Bolter e

Grusin come rimediazione. Usando le parole di Manovich la digitalizzazione rende

possibile la codifica e la transcodifica dei materiali provenienti da altri media nel medium

computer che non si contrappone agli altri ma “il computer diventa un nuovo modo di

53 Da “Remediation. competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi Jay David Bolter e Richard Grusin” Edizioni Guerrini Studio Milano 2002 pag. 3654 Da “Remediation. competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi” Jay David Bolter e Richard Grusin Edizioni Guerrini Studio Milano 2002 pag. 59

ottenere accesso a questi materiali d’archivio come se il contenuto dei vecchi media si

potesse semplicemente trasferire su di uno nuovo.”55

Con i loro predecessori i nuovi media sono in costante dialettica riproponendo

caratteristiche che li appartengono e influenzandoli a loro volta. Sia le applicazioni

digitali che seguono la logica dell’immediatezza sia quelle ipermediate sono atti di

rimediazione, in quanto le prime per far scomparire la sensazione del mezzo si devono

continuamente riferire a quello stesso mezzo di cui vorrebbero la trasparenza, come i

videogiochi con il cinema; in quanto alle seconde, la presenza di molti media in un solo

flusso di media rende comunque unico quest’atto estetico all’attenzione del fruitore.

I media dunque si presentano agli occhi dei new media come un enorme materiale

d’archivio in attesa di essere rimediato, e questo non prescinde dalla realtà in quanto

“nonostante il fatto che tutti i media dipendono da altri media all’interno di cicli di

rimediazione, la nostra cultura ha bisogno di riconoscere che tutti i media rimediano il

reale. Così come non è possibile disfarsi della mediazione, non è possibile disfarsi del

reale”56 a volte riformandolo.

55 Da Jay David Bolter e Richard Grusin “Remediation. competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi” Edizioni Guerrini Studio Milano 2002 pag. 7356 Da “Remediation. competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi” Jay David Bolter e Richard

Grusin Edizioni Guerrini Studio Milano 2002 pag. 83

La rimediazione nel cinema e nella tv

L’emergere dei nuovi mezzi di comunicazione ha chiamato in causa direttamente la

forma d’arte più popolare del ventesimo secolo ovvero il cinema, e ciò è avvenuto

attraverso l’incorporazione da parte di questo della grafica digitalizzata e di espedienti di

grafica digitale per ridisegnare i film con una struttura narrativa lineare. Bolter e Grusin

in Remediation partono dal cinema d’animazione come un esempio in cui l’introduzione

delle tecnologie digitali ha portato alla proliferazione dei film tradizionali. Perché molto

spesso ritenuto soprattutto all’inizio un genere poco “serio” orientato ad una precisa

fascia di utenti, i film d’animazione soprattutto quelli prodotti dalla Disney rimediano

“all’indietro” leggende, miti, fiabe, classici della letteratura, come anche le pratiche

cinematografiche con la simulazione di carrelli o movimenti della macchina da presa

tipici dei film d’azione e rimediando generi come il musical.

Con Toy Story del 1995 si arriva al primo lungometraggio interamente generato con

l’animazione computerizzata, ma che nonostante questa novità secondo Bolter “prende a

prestito il potere grafico dei media digitali ma ne rimuove la promessa (o minaccia)

dell’interattività”57; il film infatti si mantiene nei canoni della linearità narrativa,

probabilmente dovuto a logiche economiche delle majors; per Bolter e Grusin quello che

il cinema d’animazione ha acquisito nell’incontro con le nuove tecnologie è stata una

maggiore consapevolezza dei suoi modi d’espressione degni di competere con il realismo

hollywoodiano.

La logica dell’immediatezza che caratterizza la rappresentazione hollywoodiana non è

stata completamente eliminata, ma all’interno di questa la grafica viene incorporata

secondo sia la logica dell’immediatezza sia quella dell’ipermediazione. In molti film

d’azione la grafica è molto visibile, gli effetti speciali sono resi in modo che lo spettatore

rimanga abbagliato dal procedimento in cui è reso l’effetto. In altri come ad esempio

“Jurassik Park” le creature generate al computer sono rese in modo iperrealistico tanto

che il confronto con le riprese dal vero è ampliamente superato. L’immediatezza e la

trasparenza operano nelle produzioni cinematografiche che usano i mezzi digitali in

simbiosi nello spettatore come succedeva per il cinema d’attrazione in cui la percezione

del mezzo essendo una novità era riconosciuta da subito, tuttavia rimaneva lo stupore per

l’effetto di realtà che immetteva nelle platee. Bolter e Grusin considerano Hitchcock

57 Da “Remediation. competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi” Jay David Bolter e Richard Grusin Edizioni Guerrini Studio Milano 2002 pag. 179

come uno dei precursori di questa logica in quanto in film come Vertigo, la donna che

visse due volte ci sono alcune scene che non seguono la logica della trasparenza: quella

della vertigine in cui la tecnica track out e zoom in sposta per un attimo l’attenzione del

pubblico verso il mezzo, quella del sogno e della pazzia in cui i livelli di rappresentazione

si fondono. Negli anni Cinquanta la sensazione dell’ipermediazione poteva essere

associata ai disturbi mentali, oggi questa tecnica sembra normale.

La stessa cosa accade per la televisione che ha bisogno di rimediare in quanto, a dispetto

del cinema ha avuto sempre il bisogno di rimediare altri media. Primo fra tutti il cinema

stesso. Iniziando col rimediare i classici generi cinematografici, col tempo ha iniziato a

trasmettere i film già passati sul grande schermo per poi trasformarsi in un vero e proprio

cinema privato domestico.

Ha elaborato col tempo i suoi stili di trasparenza, legati alla fruizione del pubblico; le sue

esigenze diventano la componente estetica, la televisione deve essere in continuo

aggiornamento e contatto con l’emotività, tale da catturare l’attenzione in modo rapido e

costante. Così la pretesa di una ripresa dal vero diventa il marchio di garanzia, e

proliferano programmi denominati reality, verso cui lo spettatore più che guardare,

osserva con occhio da voyeur. Tutta questa immediatezza è però strettamente legata ad

una forte ipermediazione in quanto la grafica e la superficie dello schermo sta diventando

molto simile a quella di un computer. “Paradossalmente lo stile a finestra tipico del

computer è più evidente in quei programmi che offrono una visione trasparente degli

eventi in diretta. Dal momento che i telegiornali vogliono proporre il maggior numero di

notizie nel minor tempo possibile, essi tendono a riempire lo schermo, evidenziando il

potere della televisione di cogliere gli eventi. Questo atteggiamento porta a quello che

può essere chiamato “look CNN” ”58.

Quando a questo punto ci accingiamo ad analizzare il lavoro di Lev Manovich “Soft

Cinema. Navigating the database” possiamo iniziare a parlare a livello estetico di una

rimediazione alla Bolter e Grusin, in quanto se le basi dell’ infoestetica manovichiana

sono quelle della realizzazione di un nuovo prodotto attraverso la combinazione di

elementi presi molte volte da altri medium, i punti di contatto con i due teorici sono molto

numerosi, ma vediamo in particolare come si svolge questo progetto.

58 Da “Remediation. competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi” Jay David Bolter e Richard Grusin Edizioni Guerrini Studio Milano 2002 pag. 222

Progetto Soft Cinema

Il progetto Soft Cinema unisce le possibilità creative nell’intersezione di software,

cultura, cinema e architettura. Le sue manifestazioni includono film, visualizzazioni

dinamiche, installazioni guidate dal pc, design d’architettura, cataloghi stampati, e DVD.

In parallelo il progetto investiga come le nuove tecniche di rappresentazione del cinema

software possono essere spiegate a indirizzare le nuove dimensioni del nostro tempo,

come la crescita delle megalopoli, la nuova Europa e gli effetti delle tecnologie

d’informazione sulla soggettività.

Nel cuore del progetto c’è il custom software e media database. Il DVD comprende tre

progetti: Mission to Earth, Absences, Texas, e in ognuno il software monta i film

scegliendo gli elementi da un database usando il sistema di regole definito dall’autore.

Lev Manovich, l’autore del “Linguaggio dei Nuovi Media” (The MIT Press, 2001) è

considerato da molti come un continuatore di Marshall McLuhan con la più suggestiva e

la più estesa storia dei media è un professore di Arti Visuali dell’università di California,

San Diego, e un ricercatore all’Istituto della California per le Telecomunicazioni e

l’Informazione Tecnologica, si è unito con il designer Andreas Kratky, DJ Spooky,

Scanner e George Lewis per creare il progetto Softcinema.

Sebbene i tre film presentati sul dvd si riferiscono al familiare genere di cinema il

processo con il quale essi sono stati creati e il risultato estetico appartengono di gran

lunga all’età del software e dimostrano tutte le possibilità del software cinema in cui la

soggettività umana e le scelte variabili fatte dal software custom si combinano a creare

film che corrono senza fine senza mai esattamente ripetere la stessa sequenza d’immagini,

il layout dello schermo e la narrativa: “Soft Cinema consiste in un programma composto

da un grande database che contiene videoclip, animazione, musica, voce fuori campo che

corre su ogni immagine in ogni momento per quattro ore, cinque ore di musica

selezionate in parte da me ed in parte da DJ Spooky. Tutti i video sono girati in posti

differenti, e ognuno risponde a dieci parametri differenti sia a livello formale e semantico;

così per esempio una locazione geografica, una città, che sia Los Angeles e Buenos Aires,

e a livello matematico il calcolo e i livelli di contrasto, la luce, il tema, il punto di vista

della camera, che sia una veduta cittadina o una videocamera su un mezzo di trasporto.

C’è un software separato che offre tutti i tipi di sequenze e clip per costruire ad esempio

una sequenza con dei particolari movimenti di macchina quando ciò viene richiesto.”59

“Mission to Earth” il primo, può essere considerato un fantasy che descrive l’esperienza

dell’immigrante. Adotta le scelte variabili e il layout multiframe del sistema softcinema

per rappresentare l’identità variabile della protagonista, qui il database di riferimento è

meno ampio di quello di Texas.

“Absences” è una narrazione lirica in bianco e nero che si basa su algoritmi normalmente

spiegati nelle applicazioni di sorveglianza militare e civile a determinare il montaggio

video e audio, la narrazione è visualizzata attraverso delle strip e la narrazione salta dal

passato, presente e futuro attivando nello spettatore dei collegamenti mentali soggettivi.

“Texas” è un database narrativo che assembla i suoi suoni, immagini, narrazioni, le

identità dei suoi caratteri da un database multiplo. A differenza di “Mission to Earth” il

suo database è molto più grande.

Tutti i film sono programmati in modo che non ci sia una singola versione. Tutti gli

elementi, includendo lo schermo, le immagini e la loro combinazione, la musica, la

narrazione e la lunghezza, sono soggetti a cambiamento ogni volta che il film è visto e

caricato. Lo sviluppo di Soft Cinema fu reso possibile dalle commissioni di ZKM Centro

per l’Arte ed i Media e il BALTIC, il centro per l’Arte Contemporanea. I film e le

installazioni che sono state esibite nei musei, gallerie, festival, in tutto il mondo, incluso

ZKM, Karlsruhe; l’ ICA, a Londra; SENEF in Seoul; l’ ICC a Tokyo; il DEAF a

Rotterdam, il Transmediale a Berlino; e il Chelsea Art Museum a New York.

L’interfaccia già dall’apertura del DVD si presenta come un quadro simile a Mondrian,

in cui navigare fra gli elementi.

In “Mission to heart”, la protagonista mostra ciò che vede, sente, pensa e ricorda in

riquadri diversi che compongono il rettangolo dello schermo. Ogni riquadro è di diversa

forma, ve ne è uno centrale un po’ più grande in cui si svolge l’azione o quello a cui la

voce narrante si riferisce e gli altri più piccoli in cui ci sono altre immagini o soluzioni e

animazioni grafiche. Quello che è raffigurato in un riquadro piccolo in un altro momento

può apparire in quello grande, ma questo processo è molto più evidente in Texas che in

Mission to Heart. Quello che si percepisce è una scelta di punti di vista. Possiamo parlare

di una frammentazione e dispersione della soggettività, in diversi riquadri e questo non

significa che sia una perdita o che si subisca una sensazione di spaesamento ma un

59 Dal DVD “SOFT CINEMA. Navigating the database” di Lev Manovich e Andreas Kratky MIT PRESS Cambridge, Massachussetes 2005

arricchimento d’informazioni da scegliere, tutte di alto valore estetico che possono

cambiare la percezione che la voce narrante ci suggerisce.

Il più delle volte il progetto si apre con una musica che percorre quasi tutto il progetto e

con l’immagine dell’acqua su un vetro o della protagonista immersa nei suoi pensieri. La

storia si basa sul racconto in voce fuori campo di una donna arrivata sulla terra da un

paese più arretrato del nostro di venti anni circa per degli studi della durata di un anno o

poco più. Ma la sua permanenza si prolunga in quanto non le viene dato nessun permesso

per tornare indietro su alpha1. Questa situazione la lascia in una condizione di incertezza

in un posto che non le appartiene, a pensare a ciò che senza di lei continua a vivere su una

terra che una volta era la sua casa. Ciò è molto simile dice la voce: “ al comune

sentimento di un qualsiasi emigrante”.

Questa sensazione è resa oltre che dalla frammentazione del video, dalle immagini

(nonché dalla suggestiva colonna sonora di DJ Spooky) che rappresentano spazi asettici,

persone che lavorano al computer in solitudine, foto di una Russia che non esiste più.

Si sente in questa storia l’esperienza personale di Manovich, emigrato in America dalla

Russia; non a caso il compagno della protagonista è un artista e i suoi disegni

appartengono alla stesso Manovich. Forse questo progetto è la sua stessa ricerca

d’identità e di memoria, ed è intriso di malinconia come lo stato d’animo di ogni persona

lontana dalla propria terra.

Gli spazi sono oltre a quelli della memoria con foto della vecchia Russia e dei suoi centri

di ricerca spaziali, quelli di una moderna metropoli, centro di raccolta delle esperienze

umane più disparate quindi dense di racconti diversi e sensazioni diverse.

La nuova soggettività diversa, frammentata, ma unica. Come unica è l’esperienza del Soft

Cinema in se stesso. Le sequenze in cui la narrazione viene distribuita vengono riproposte

a random secondo le regole che lo stesso Manovich ha programmato su di un database di

sequenze. All’interno di queste le stesse immagini nei riquadri cambiano ogni volta per

dare sempre una diversa emozione o sensazione del film.

In realtà la narrazione è una sola, ma non ha una vera e propria cronologia di eventi, ciò

che racconta sono i moti interiori della protagonista; ogni sequenza infatti è costituita

dalla voce fuori campo e dalla musica o solo da quest’ultima, la voce descrive la storia

della protagonista, le sensazioni e i suoi ricordi. Tutte le sequenze possono essere fine o

inizio del racconto. Le combinazioni possono essere persino calcolate attraverso un

calcolo numerico.

Le immagini nei riquadri sono sequenze di vita lavorativa quotidiana, di spazi aperti,

scorci di megalopoli, piani della protagonista nello spazio, foto, cartine geografiche,

soggettive, soluzioni grafiche. Le sequenze possono essere così descritte:

Il carwashing in cui la protagonista Inga pensa alla sua infanzia per le sensazioni che quel

posto riesce e infonderle e la storia del suo arrivo sulla Terra da Alpha-1, un pianeta che è

circa venti anni dietro culturalmente e tecnologicamente.

La situazione di emigrante raccontata attraverso le camminate di Inga nella metropoli e

gli spostamenti soprattutto in metropolitana, e nei centri commerciali.

Il racconto della sua missione attraverso la diretta osservazione degli spazi e delle

situazioni urbane descritti nei giornalieri (daily report) da spedire.

La triste storia d’amore con un artista a sua volta immigrante raccontata attraverso la

visione di spazi che denotano una mancanza.

Il racconto della sua infanzia nella città in cui abitava legato alla pubblicità di un prodotto

sotto il quale risiedeva una tattica commerciale.

L’ arrivo della fine della sua missione e la sua indecisione a lasciare il posto che intanto è

diventato come una casa anche nella situazione di non luogo.

Più che la narrazione ciò che cambia è la parte visuale che si rapporta sempre

diversamente con la voce fuori campo. Ogni immagine ha un’accezione diversa se

riproposta in diversi contesti e il fruitore deve rapportarsi a queste immagini dando dei

significati sempre diversi e diverse sensazioni. Ma è lo stesso Manovich che spiega il suo

progetto attraverso dei nuclei concettuali, nella parte finale del DVD nella sezione

intervista, in cui chiarisce brevemente ma efficacemente, con l’esempio di Texas in

particolare, il funzionamento e il significato di Soft Cinema.

In Texas la voce viene ripetuta ogni venti o quaranta minuti, ma la selezione delle clip, e

la musica da background è tutto selezionato dal software, in questo lavoro si rivela

maggiormente la rimediazione dei medium tradizionali, ciò viene anche spiegato

nell’intervista: “Per quanto riguarda il layout, alcune delle influenze vengono da

Mondrian o dalle graphical use interface (GUI) ; oggigiorno interagiamo con schermi che

sono divisi in finestre multiple che hanno forme differenti, ed è importante rendere

simmetricamente la differenza con un’idea di cinema che si fonda sulla singola immagine

che occupa lo schermo intero. Altre influenze vengono guardando la tv ed in particolare

le notizie finanziarie e i programmi di news. La tv finanziaria di Bloomberg ha un layout

simile, cosi per esempio l’annunciatrice è nella finestra principale, poi ci sono delle

informazioni stock nelle strisce scorrevoli, poi ancora grafici e classifiche. Cosi il

progetto è nato da un’idea di cinema che sorgesse dall’uso di questo tipo di layout

televisivo e dalle GUI per un cinema che rappresentasse un avanzamento nell’estetica.

Un'altra cosa è il loop e le strisce in cui inserire dei pezzi della narrazione su qualcosa che

accadrà dopo nella storia o che è già successo”60.

In Texas troviamo una collezione di piccole storie (creata per esibizioni sul future cinema

del 1998) che sono accadute veramente in Texas anche se alcune delle riprese fanno parte

delle serie chiamate global-mix girate in altri posti, come la sequenza denominata

Amburgo, o alcune immagini che ritraggono persone che guidano la macchina, o gente

che lavora al computer perché inerenti alle storie di Texas che si basano su di un

programmatore, su un incidente, su ciò che gli psicologi identificano con crash sindrome,

e su una ragazza che il programmatore incontrava regolarmente nella zona chill out del

palazzo in cui lavorava. Non c’è realmente bisogno che il posto raffigurato sia quello del

titolo. Il luogo è per lo più un luogo interiore.

Manovich separa la storia in diverse piccole parti di approssimativamente due minuti e il

programma software crea un nuovo layout all’inizio di ogni frammento.

Cosi se si guarda una sequenza e lo schermo diventa bianco, il software sta provvedendo

a generare un nuovo layout.

Per quanto riguarda la narrazione Manovich fa riferimento a chi nella storia della

letteratura ha dato il via a nuove forme di narrazione che pur riferendosi al reale

raffigurano dei moti interiori come fu per il flusso di coscienza di Joyce e Proust e le

rapporta alle nuove tecnologie: “la questione è quale potrebbe essere la connessione tra

ciò che si vede nello schermo e la storia narrata. Posso dire che vorrei questo particolare

video in questa parte della storia o posso lasciare che il programma selezioni a random la

clip sulla voce off. L’intento è creare qualcosa che sia nel mezzo così alcune decisioni

sono a random. È sperimentare i diversi modi in cui usare il sistema, per esempio nella

selezione delle immagini nelle finestre grandi piuttosto che in quelle piccole.

In futuro si continuerà approfondendo questo sistema nel proporre più edizioni a seconda

del suo uso, rendendo visivamente ciò che avviene nella nostra mente quando

selezioniamo dei ricordi, immagini, suoni. Infatti quello a cui si mira è la

rappresentazione della soggettività in altri modi, continuando sulla corrente letteraria

60 Dal DVD “SOFT CINEMA. Navigating the database” di Lev Manovich e Andreas Kratky MIT PRESS Cambridge, Massachussetes 2005

novecentesca di Proust ad esempio o Faulkner, o James Joyce che diede il via al

monologo interiore e al flusso di coscienza”61.

61 Dal DVD “SOFT CINEMA. Navigating the database” di Lev Manovich e Andreas Kratky MIT PRESS Cambridge,Massachussetes 2005

Estetica del liquido

In uno dei capitoli finali del loro libro Remediation, Bolter e Grusin arrivano a definire il

processo di mediazione e rimediazione come una convergenza inevitabile dei media.

Questo significa che nessun medium esclude l’altro ma che ognuno può incorporare

quello che preferisce. La frase in cui dicono che “la convergenza è costituita dalla

rimediazione di almeno tre tecnologie estremamente importanti: il telefono, la televisione

e il computer” sembra lo spot pubblicitario di un prodotto che, a distanza di otto anni

dall’uscita di questo libro, arriva sul mercato americano (data odierna 2007) l’I-PHONE

della Apple che le incorpora tutte.

È vero inoltre che la rete potrebbe pervadere le nostre vite con l’arrivo dell’informazione

che cerchiamo in ogni momento tramite anche un messaggio di testo sul cellulare, la

convergenza di tutti i media porta ad un flusso di informazioni costante. Nozione quella

di flusso ampliamente familiare; lo stesso si è detto anche per l’avvento del cinema e

quello della televisione. Tuttavia ciò che i due studiosi sembrano sospendere in questo

discorso sia il concetto di database; riprendendo le parole degli editor di Wired che nel

1997 in un articolo sulla convergenza dicono che la logica del flusso è quella che ci

pervaderà e non quella dell’archivio che ha poco a che vedere con i nuovi media collegati

fra loro, tralasciano il fatto che parlando del flusso delle informazioni e del controllo

totale su queste che la rete dovrebbe avere, dimenticano di dire che tutto ciò deve essere

preventivamente situato e immagazzinato in una grande memoria che ci contiene e che

addirittura potrebbe finire per controllarci: “oppure può accadere che sia il medium a

controllare l’utente”62 con la miriade di informazioni che vengono spinte o letteralmente

sbattute in faccia all’utente.

Già da tempo lo spazio intorno, le strade, la città, i centri commerciali, sono in comune

relazione tra loro e con noi stessi, per Bolter e Grusin ciò avviene con una sorta di

rimediazione tra questi spazi e i medium; partendo dai parchi di divertimento americani

come Disneyland. I due analizzano in che modo un parco possa rimediare città, cinema,

televisione, nell’esempio particolare il parco nasce da un accordo fra Disney e la

televisione americana ABC che doveva trasmettere gli eventi realizzati e proporre i

vecchi lungometraggi della casa produttrice quando il parco non trasmetteva eventi. In

62 Da “Remediation. competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi” Jay David Bolter e Richard Grusin Edizioni Guerrini Studio Milano 2002

più se nell’infanzia almeno una volta si doveva visitare il parco, con la stessa logica

dell’unicità, i lungometraggi della Disney uscivano nelle sale una volta all’anno. Tutto

contribuiva al senso dell’esperienza unica e irrepetibile. Con il tempo il parco ha preso

sempre più la forma della città, imitandone e ampliandone gli stimoli sensoriali, musica,

luci, cartelloni. La città si presenta come un contenitore in cui il medium deve avere la

sua visibilità e “sebbene in Europa i centri delle città sono ancora spazi estremamente

mediati, negli Stati Uniti sono i centri commerciali ad avere assunto questa funzione”63.

Centri commerciali, stazioni ferroviarie ed aeroportuali, stadi, metropolitane, parchi di

divertimento dimostrano tutti il loro carattere di ipermediazione e di amalgama dei vari

media nel loro essere luoghi attivi durante il giorno e non-luoghi una volta cessate ogni

attività commerciale o funzionale. Proprio la loro caratteristica di ipermediazione fa

assumere al ciberspazio per Bolter e Grusin l’associazione con il non-luogo.

Ci sono artisti-architetti che optano proprio per questo assunto dello spazio tra

rimediazione, nuove tecnologie e soprattutto a metà tra la logica del flusso e quella del

database.

Rem Koolhaas definito come uno dei precursori della nuova architettura nel 1989

progetta un edificio per la città di Karlsruhe in Germania che può essere associabile ad

una mediateca, il Zentrum fur Kunst und Medientechnologie. Il progetto consta di una

grande apertura, di uno spazio centrale vuoto da utilizzare per qualsiasi evento, in rispetto

alla sua poetica dello svuotare lo spazio architettonico, svuotarlo della sua interiorità.

Nell’affrontare questi temi Tursi collega questa nuova idea dello spazio a quella fornitaci

dall’utilizzo dei nuovi media che ci danno un'altra idea di contenitore e di soggetti e

oggetti che fruiscono lo spazio. Il movimento è dato nel vuoto non nel pieno di strutture

statiche e fisse, in quello che Koolhaas lascia aperto a rigenerazione tramite soluzioni

formali e non pienamente strutturali. A livello pratico questo edificio ha uno spazio

tecnologicamente attrezzato che permette la fruizione di schermi e spazi scenici in diversi

piani a seconda delle richieste, nell’altra facciata si combinano due flussi, quello degli

ascensori e quello orizzontale dei treni. In questo modo, dice Tursi egli riesce a

combinare la forma a elenco con l’architettura: “ una poetica questa corrispondente del

tutto a una delle forme culturali dominanti l’epoca della digitalizzazione: il database; il

progetto ZKM è un elenco, le sue facciate sono figurativamente, costituzionalmente e

63 Da “Remediation. competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi” Jay David Bolter e Richard Grusin Edizioni Guerrini Studio Milano 2002 pag. 205

funzionalmente eterogenee e pur si amalgamano”. 64 La fusione è la parola chiave nello

spazio di Koolhaas in cui convivono musei di arte contemporanea, mediale, un teatro, una

biblioteca, delle sale per le conferenze, la produzione musicale, video e realtà virtuale.

Nonostante sia giudicato comunque un esteta freddo e poco definito nella realizzazione di

questa poetica, secondo Tursi è proprio questo elemento che contribuisce a definirlo come

un data-architetto: “ la decostruzione da lui operata risponde perciò in profondità alle

dinamiche del database, il quale niente concede a estetismi di maniera. La matrice di un

database è fredda, poco definita. Sta all’osservatore tracciare linee di pertinenza,

collegare i puntini disponibili”65. La sua teoria dell’amalgama corrisponde a quella di un

database di far convivere e interagire elementi diversi, “elencare, può apparire verbo

appropriato per definire l’estetica citazionista del Post Modernism.”66

Uno dei continuatori possiamo ritrovarlo in Novak, anche se più che architetto egli

sembra essere un artista visivo, tuttavia la linea di demarcazione non sempre è così

precisa tra le due cose, e la sua estetica del flusso o del liquido. Ciò che Koolhaas aveva

preannunciato con l’amalgama, Novak lo esalta con la scelta di una forma che più

risponde alle esigenze della modernità, quello di uno spazio come il ciberspazio (“il

ciberspazio è architettura; il ciberspazio ha architettura; e il ciberspazio contiene

architettura”67) in cui l’informazione, la sostanza viaggia, si trasforma, transita

continuamente: “il paesaggio ottenuto da questa visualizzazione completamente

spazializzata dei dati caratterizzato da un dinamismo straordinario e inimmaginabile

permette di realizzare e potenziare compiutamente alcune delle caratteristiche ricercate

dall’architettura più recente: transitività, superamento delle tipologie, continuità,

commistione organico-inorganico”.68

64 Da “Estetica dei nuovi media. forme espressive e network society” di Mario Tursi Costa e Nolan editore Milano 2007 pag. 14465 Da “Estetica dei nuovi media. forme espressive e network society” di Mario Tursi Costa e Nolan editore Milano 2007 pag. 14466 Da “Estetica dei nuovi media. forme espressive e network society” di Mario Tursi Costa e Nolan editore Milano 2007 pag. 14567 Dall’ intervista a Marcos Novak fonti internet: http://www.teknemedia.net/magazine/dettail.html?mId=55368 Da “ Estetica dei nuovi media. forme espressive e network society” di Mario Tursi Costa e Nolan editore Milano 2007

Capitolo terzo

Narrazione e database.

Ipertesto, interattività, videogame.

L’identità dell’opera nell’epoca della sua digitalizzazione ha occupato le ricerche di molti

studiosi in vari campi culturali ma soprattutto quelli mediali e informatici. Molti studi

sono stati fatti attorno l’impatto dei nuovi media sulla produzione artistica, e molti autori

hanno iniziato a interrogarsi sulla concezione di opera d’arte e di autorialità del prodotto,

passando alla concezione di testo e narrazione.

La narrazione proposta dai nuovi media per la maggioranza di questi studi non ha una

traiettoria prestabilita in quanto si fonda sulla scelta interattiva dell’utente o dell’autore

fra elementi singoli, presentati in momenti diversi dando un’altra forma e significato a

questi elementi e alla narrazione. Un significato soggettivo e aperto fra elementi scelti da

un database di opzioni.

Coi nuovi media prende forma pienamente la realizzazione di questo progetto che da un

secolo si profila nella teoria e nella pratica artistica del novecento.

Molti testi sono stati scritti sui nuovi media dopo il libro di Manovich, (“Il linguaggio

dei nuovi media”) tuttavia esso rimane un punto valido di partenza ma data la sua

lungimiranza anche di arrivo.

Manovich parte con l’affermare che un primo cambiamento è dato dal cambio di ruolo tra

ciò che è sempre stato definito come narrazione e ciò che viene definito come

descrizione: “ se le culture tradizionali offrivano narrazioni ben definite (miti, religioni) e

scarse informazioni, oggi abbiamo troppa informazione e poche narrazioni capaci di

integrare il tutto. Bene o male, l’accesso all’informazione è diventato un’attività chiave

nell’era digitale.”69 La nuova narrazione per Manovich ha la forma di un database, che

essendo principalmente una raccolta o un magazzino di dati da cui l’utente richiama 69 da “ Il linguaggio dei nuovi media” Lev Manovich MIT PRESS Cambridge, Massachussetes 2002 pag. 271

l’informazione sembra avere poco a che vedere con il concetto di narrazione che è quello

di uno svolgimento con un inizio e una fine. Sembra così che narrazione e database siano

“nemici naturali”70 tuttavia non è del tutto così. La narrazione lineare diventa una delle

possibilità che il database offre all’utente. Se infatti nella lettura di un romanzo dobbiamo

capire la logica sottintesa al testo, lo stesso avviene quando siamo di fronte a delle

interfacce che hanno lo stesso database alla base; Manovich chiama questa logica

dell’algoritmo e la narrazione diventa interattiva perché sommatoria di interfacce diverse

per uno stesso contenuto, diverse traiettorie che portano ad un database. Ma questo

processo può essere definito propriamente narrazione? In poche parole quando

navighiamo sul Web, e siamo immersi nella lettura e visione saltando da una pagina

all’altra stiamo compiendo una narrazione? Non sempre.

Se prendiamo l’esempio di alcune narrazioni sul web che volutamente si presentano come

esperimenti di ipernarrazione, vedremo di seguito Afternoon, il più grande esempio di

database ovvero il World Wide Web, non è un narrazione. Tutti gli elementi che lo

fondano contribuiscono alla sua logica anti-narrativa. I siti web sono in continua

espansione, si presentano come elementi singoli, collegati e in continua modificazione

all’interno di questi. Questo non vuol dire che la forma database non influisca sulla

narrazione, ne modifica uno dei suoi aspetti creando delle nuove narrazioni che

continuano ad affiancarsi a quelle tradizionali che, a discapito di chi all’inizio ne aveva il

terrore (come Montale, Calvino, Primo Levi) non vengono distrutte ma anzi convivono e

interagiscono favorevolmente con i nuovi media. A volte la narrazione lineare è alla base

di molte narrazioni interattive in quanto il database alla base è comunque finito e creato

da un autore che ne ha previsto tutte le traiettorie; questo è il caso dei videogame. Ma

diamo uno sguardo alle diverse teorie che comprendono anche il concetto di testo, di

scrittura, di autore. Domenico Fiormonte nel suo libro “Scrittura e Filologia nell’era

digitale” traccia un percorso storico in quattro fasi sul rapporto tra testo, scrittura e

tecnologia non dimenticando il rapporto tra l’emergenza delle nuove tecnologie con

diversi fattori come la politica, il mercato, la società, prospettando per questo rapporto

vasto e in continuo cambiamento dei risvolti imprevedibili. Quello a cui mira è

sottolineare come cambiando il rapporto tra testo, narrazione e tecnologia cambi anche la

concezione dell’identità.

70 da “ Il linguaggio dei nuovi media” Lev Manovich MIT PRESS Cambridge, Massachussetes 2002 pag. 281

Verso la fine degli anni settanta e gli inizi degli anni ottanta si instaura la prima fase in

cui le prime informazioni testuali in formato elettronico iniziano a circolare, ma è una

ricezione puramente passiva in quanto sono solo delle schermate con il testo che non si

possono modificare. L’elaborazione teorica sugli effetti del computer sulla scrittura viene

frenata e rallentata dal fatto che le competenze per essa devono essere interdisciplinari, e

spesso non sono complete. La seconda fase vede l’impatto forte dell’uso del computer in

tutti i campi, come quello letterario e accademico e la creazioni di libri che seguono

l’ispirazione di un ipertesto. Non mancano i riferimenti alle avanguardie di inizio

novecento come il Futurismo, la Pop Art, Duchamp e il Dada.

Fra la seconda e la terza tappa vengono distinti due usi di utilizzazioni delle applicazioni

del computer: l’uso scientifico e accademico e quello di intellettuali e scrittori. In

entrambi sebbene l’informazione venga usata in banche dati o fogli elettronici e di

videoscrittura ciò che rimane al centro è il testo. Da qui Fiormonte fa scaturire uno dei

suoi problemi principali quello legato alla funzione dell’autore e dell’opera nell’era

informatica. Se ad esempio il plagio è sempre stato presente in letteratura, in modi e

filosofie diversi con i nuovi media esso diviene contaminazione nel “nuovo spazio della

scrittura” come dice Bolter. Fiormonte risale alla creazione della legge del copyright

formulata dal filosofo Ficthe e adottata per la prima volta dalla Germania nel settecento,

ponendo le basi dell’idea di autorialità in tutta la cultura occidentale arrivando al concetto

di soggettività nell’autore che nel momento dell’ispirazione cerca nella scrittura un modo

per scavare a fondo nel proprio essere.

Con l’arrivo di un testo fluido quale quello digitale si arriva alla messa in crisi di questo

rapporto dell’autore con l’opera: “ed è proprio la fluidità e la manipolabilità del testo

elettronico che mette in crisi le leggi occidentali, sul copyright, impegnando giuristi e

legislatori nella definizione di un diritto d’autore che si applichi alla plurivocità

dell’opera digitale”71.

Il copyright diviene per Fiormonte quindi un criterio di valutazione dell’autenticità

dell’opera, un fattore di originalità dell’autore e quindi della sua stessa soggettività o

identità che viene messa in crisi.

Se infatti un testo può essere manipolato dall’autore inserendovi parti non proprie ma che

diventano integranti dell’opera, o nello stesso tempo altri possono modificarlo, si può

ancora parlare di autore? Che identità avrà questo autore?

71 da “ Scrittura e filologia nell’era digitale” di Domenico Fiormonte Bollati Boringheri Torino 2003

Fiormonte cita Picchi discutendone i risvolti legislativi, che partendo dall’equivalenza di

testo cartaceo e documento informatico, passa alla coesistenza di diversi diritti d’autore

indipendenti in uno stesso supporto virtuale, mettendo in “pericolo violazioni sia di diritto

morale che di quello patrimoniale”72 favorendo l’identificazione dell’originalità “che

diventa a geometria variabile”73 . Se l’identità dell’autore è indefinita lo è allo stesso

modo quella dell’uomo contemporaneo in quanto si ritrova a misurare la propria

creazione, memoria con supporti diversi e fluidi, che minano i concetti di autorship. Per

Fiormonte la nuova etica potrebbe essere rappresentata dal copyleft e dalle comunità

peer-to-peer, entrambe basate sulla non proprietà del patrimonio intellettuale da parte di

poche persone, ma sulla loro disponibilità per fini non commerciali e la

democratizzazione del sapere.

Il fruitore diventa oltre che lettore interattivo, coautore, implicato nel processo di

creazione. Questo non deve portare per Fiormonte ad una paura verso la scomparsa del

testo perché una sua estremizzazione potrebbe portare ad una condanna morale verso

l’uso dei nuovi media. Anche Landow sostiene che : “La nostra sensazione che l'autore

sia diverso in un ambiente elettronico è assolutamente giusta, perché penso che le nostre

nozioni di autorialità, il nostro timore della collaborazione, molte delle nostre concezioni

sul diritto d'autore e la proprietà dell'autore derivino direttamente dal mondo della stampa

… evidentemente è una questione di definizione culturale e di decisione economica per le

quali ci siamo abituati a un determinato concetto dell'autore forte; ciò è stato necessario

fino ad ora, ma penso che falsifichi la realtà in molti modi.”74

Nella quarta fase viene ampliato il concetto di ipertesto e ipermedia, che coniato da

Nelson nel 1967 ebbe una fortuna tale che Tim Berners-Lee la inserì nella definizione di

protocollo di comunicazione HTTP e linguaggio HTML e Genette le diede una

definizione non lontana da quella di una letteratura: “chiamo ipertesto un testo derivato da

un testo anteriore tramite una trasformazione semplice, indiretta che chiameremo

imitazione”75chiarendo ciò che potrebbe risultare essere la novità.

72 da Picchio 2000 citato in “ Scrittura e filologia nell’era digitale” di Domenico Fiormonte Bollati Boringheri Torino 2003 73 da Dreier 2000 citato in “ Scrittura e filologia nell’era digitale” di Domenico Fiormonte Bollati Boringheri Torino 200374 da intervista a Gorge P. Landow fonti internet: http://www.mediamente.rai.it/home/bibliote/intervis/l/landow.htm75 da Genette 1982 citato in “ Scrittura e filologia nell’era digitale” di Domenico Fiormonte Bollati Boringheri Torino 2003

Secondo Fiormonte i principi di ipertesto sono quelli legati all’idea di interattività, non

linearità, associazione /incastro/ collage, itinerario nel senso di navigazione, processo nel

senso di un fenomeno dinamico senza grandi fratture, apertura. Questi principi, aggiunge,

chiariscono il concetto di ipertesto e delle sue relazioni con tutta l’arte contemporanea dal

collage, l’arte interattiva nel teatro ad esempio e il romanzo combinatorio. Nei nuovi

media l’interattività diviene potenzialità per la collaborazione degli utenti e quella di

reperire informazioni da un sistema, ma “questa pluralità di significati …rischia di farci

perdere di vista un’importante caratteristica dell’opera digitale. Quella della riduzione

della distanza tra autore e fruitore ”76 che si riduce tanto da non percepire nessuna guida

nella lettura di una narrazione che perde il suo godimento. Per Fiormonte l’ipertestualità

uccide il piacere della narrazione, è questo il conflitto tra informatica e narrazione; se non

c’è narrazione lineare non c’è il processo di identificazione e di interpretazione, e questa

forma di comunicazione non si compie “lanciando una sfida alla maniera in cui l’uomo

attraverso forme e strutture determinate ha saputo e dovuto fino a oggi costruire la sua

identità”77. Se per Eco questo potrebbe incentivare la produzione e l’uso delle narrazioni

tradizionalmente intese, per Landow, Joyce il libro non ha più nessun futuro, ma è ancora

troppo presto per poter definire appieno gli effetti.

Negli anni settanta Theodor Holm Nelson conia il termine ipertesto partendo dal concetto

di letteratura, il suo progetto Xanadu si proponeva di dare una nuova forma di letteratura

attraverso una nuova forma di archiviazione dei dati e una rete: “per ipertesto intendo

semplicemente la scrittura non sequenziale”78 ovvero un testo in cui saltare da un brano

all’altro, tornare indietro inserendovi note, varianti visibili a tutti. Con il computer Nelson

trova la completa realizzazione del suo progetto: “ci sarà solo un grande deposito e ogni

cosa sarà ugualmente accessibile. Questo significa che differenti artisti e libri saranno

piuttosto diverse versioni di una stessa opera con differenti percorsi al proprio interno per

lettori differenti.”79 Nelson sebbene parli di riconfigurazione del testo, dell’autore, del

racconto non esclude che l’ipertesto si misuri positivamente con la dimensione della

letteratura.

76 da “ Scrittura e filologia nell’era digitale” di Domenico Fiormonte Bollati Boringheri Torino 2003 pag. 8577 da “ Scrittura e filologia nell’era digitale” di Domenico Fiormonte Bollati Boringheri Torino 2003 pag. 8678 da “Literary machines. Il progetto Xanadu” di Theodor Holm Nelson, Muzzi Editore Padova 1992 79 da “Literary machines. Il progetto Xanadu” di Theodor Holm Nelson, Muzzi Editore Padova 1992

Negli anni novanta George P. Landow nel libro “Ipertesto. Il futuro della scrittura.”(1992)

affronta temi come autore, narrazione e riconfigurazione del testo analizzando i narratori

ipertestuali della prima generazione tra cui Michael Joyce, che affidava i propri lavori a

supporti quale i cd rom che venivano caricati sul computer e con cui il lettore aveva un

rapporto di interazione.

Uno dei primi lavori riguardo un ipertesto è Storyspace creato da John Smith, un noto

professore di informatica negli USA, Jay Bolter, un teorico della tecnologia

dell'informazione e l'autore di Turing's Man e di Writing Space e il già citato Michael

Joyce, romanziere e narratore di ipertesti noto perché primo scrittore di ipertesti di alto

livello. Storyspace è un sistema per creare degli ipertesti che ha come grande vantaggio la

facilità di fare link e creare un modello di rete più vasto; molti dei siti Web letterari e

culturali che sono stati creati all’inizio in America si basano su Storyspace che li esporta,

a sua volta, in HTLM. Il secondo lato positivo di Storyspace è che offre una visione

molto più ampia e completa dell'ipertesto che si sta realizzando.

Afternoon di Michael Joyce è uno dei primi e più famosi esempi di narrativa interattiva e

si sviluppa attraverso una semplice narrazione ( in un pomeriggio lo scrittore Peter crede

che la moglie e il figlio siano morti quella mattina) attraverso un labirinto in cui il lettore

è sviato dalla narrazione lineare in una serie di ripetizioni e flashback che rivelano sempre

nuovi dettagli. Il lettore può decidere che percorso scegliere, se cliccare sul menu o su dei

link all’interno della narrazione corrente. Il database alla base è molto vasto ma il lettore

non se ne accorge perché impegnato nella lettura; Bolter di questa opera scrive: “ il

diagramma che rappresenta lo spazio di scrittura contiene più di cinquecento episodi e

oltre novecento nessi, il lettore non percepisce mai questa struttura diagrammatica ma

vive piuttosto un’esperienza monodimensionale dell’opera, dal momento che segue i

percorsi che portano da episodio a episodio.”80

Per Landow l’ipertesto è prima di tutto un'altra forma di testo “che permette al lettore di

abbracciare o di percorrere una grande quantità di informazione in modi scelti dal lettore

stesso, e, nel contempo, in modi previsti dall'autore… e che permette una lettura

multilineare: non una lettura non lineare o non sequenziale, ma una lettura

multisequenziale”81 la cosa importante non è capire se l’ipertesto è un sottoinsieme di un

testo narrativo lineare, un suo ampliamento o viceversa, per Landow la questione si basa

80 da J. Bolter citato in “Le arti multimediali digitali” di Andrea Balzala e Anna Maria Monteverdi nel saggio New Media e narrativa di Antonio Caronia Garzanti Milano 200481 da un intervista a Gorge P.Landow fonte internet: http://www.mediamente.rai.it/home/bibliote/intervis/l/landow.htm

sulla tecnologia d’informazione in uso: “È chiaro che quando si comincia a scrivere un

testo strutturalmente semplice si tratta - in genere - di un testo lineare. Tuttavia, appena

un autore comincia a sviluppare registri più complessi in testi scritti a mano o stampati, ci

si ritrova a confrontarsi con cose simili a note a piè di pagina o alla glossa ordinaria nelle

Bibbie medievali, in cui si cerca di rendere possibile l'aggiunta di ulteriori informazioni

ad un testo lineare. È quasi una questione di sofisticazione! Non si tratta tanto di una

questione di semplicità del testo, quanto quasi di un avvicinamento del testo al lettore.”82

Con il world wide web l’interazione nella narrazione si configura non solo come una

traiettoria diversa su dei contenuti dati dall’autore e quindi riconducibili ad una linearità

ma anche alla costruzione della stessa narrazione; l’interattività era già presente nei

giochi di ruolo come Dungeons and Dragons in cui la narrazione si sviluppa attraverso

una serie di regole in un universo prestabilito, con personaggi con compiti e virtù vari,

che affrontano delle situazioni scelte dai giocatori che in questo modo sviluppano una

trama. È una forma di narrazione gestita collettivamente, una creazione collettiva o quella

che Fiormonte chiama opera collettiva.

Il videogame diviene, non solo per Manovich uno degli esempi più emblematici della

narrazione interattiva. Janet Murray nel suo Hamlet and the Holodeck edito dalla MIT

press, li considera uno dei più promettenti formati della narrativa digitale; essi incarnano

appieno le quattro proprietà che caratterizzano l’arte narrativa al tempo del digitale,

ovvero: proceduralità, partecipazione, spazialità ed enciclopedismo. L’ultima soprattutto

rappresenta la crescita esponenziale della capacità di memoria e delle strutture per

immagazzinare i dati. Il videogame si basa su un grande database costruito dall’autore in

cui le scelte portano ad altre scelte, che devono portare ad una precisa situazione, e si

prefigura come a metà strada tra lo stato d’immersione in cui si è lasciati trascinare dal

ruolo, dal desiderio di agire per vedere i risultati ottenuti (agency), dal cambiamento dello

stesso personaggio e dal “games as a symbolic drama”83 ovvero dal ruolo dell’autore e

delle normative sulla narrazione.

L’autore crea qualsiasi norma secondo cui qualsiasi situazione e qualsiasi oggetto è

programmato a svolgere una funzione ed un avanzamento nella storia: “ scrivere le regole

per il coinvolgimento dell’attore interattivo, le condizioni secondo le quali le cose

82 da un intervista a Gorge P. Landow fonte internet: http://www.mediamente.rai.it/home/bibliote/intervis/l/landow.htm83 da Janet Murray in “ Hamlet and the Holodeck. The future of narrative in ciberspace” MIT PRESS Cambridge, Massachussetes 1998

accadranno in risposta alle azioni dei partecipanti”84 Murray propone così uno sguardo su

un mondo che, essendo rivolto ad un pubblico giovane a scopi ludici, deve essere trattato

con la massima scientificità e competenza, prefigurando un futuro in cui i nuovi Omero e

Shakespeare saranno story-tellers con competenze informatiche.

84 da Janet Murray in “ Hamlet and the Holodeck. The future of narrative in ciberspace” MIT PRESS Cambridge, Massachussetes 1998

Cinema e videogame.

Percorsi possibili all’interno dell’universo di dati.

Quando i videogiochi sono entrati di diritto nell’olimpo dei prodotti commerciali ad alta

fruizione e l’interesse si è fatto più importante verso questo mezzo ludico, l’industria

cinematografica ha iniziato a strizzare l’occhio all’industria del videogioco che già da

prima aveva preso in prestito dei caratteri fondamentali del linguaggio cinematografico

nello sviluppo dei giochi.

Più la grafica diventava elaborata, più le ambientazioni divenivano sofisticate, e più la

realtà veniva emulata; ma quale realtà? Quella cinematografica.

Il cinema infatti è sempre stato d’esempio al mondo dei videogiochi, i successi al

botteghino si tramutavano in successi di vendite del gioco anche se non così tante volte

succedeva il contrario, e oltre alle ambientazioni quello che veniva trasposto era la

narrazione: “Non tutti i nuovi oggetti mediali sono esplicitamente dei database, i

videogiochi per esempio vengono percepiti dai loro utenti come narrazioni”85.

Narrazioni che secondo Manovich mascherano l’altra faccia del database, ovvero

l’esecuzione di un algoritmo, per vincere si deve eseguire un algoritmo. Man mano che si

gioca, l’utente scoprendo il meccanismo di funzionamento del gioco discopre l’algoritmo

alla base.

Sembra riduttivo portare la logica del videogioco ad una semplice attività di problem

solving, difatti lo stesso Manovich più avanti aggiunge “ non tutti gli oggetti mediali

seguono esplicitamente la logica del database nella loro struttura, ma al di la delle

apparenze sono tutti database”86 in quanto se prendiamo il concetto di narrazione anche

nell’ottica della fruizione attiva dell’utente la narrazione interattiva sarà il risultato di più

traiettorie che attraversano un database. I dati non esistono di per se ma devono essere

generati o digitalizzati da altri medium preesistenti che poi vanno ripuliti, organizzati,

indicizzati. L’era del computer ha creato un nuovo algoritmo culturale: realtà, media, dati,

database.

Ma ritorniamo alle influenze del cinema sui videogiochi, molte volte gli stessi attori in

carne e d’ossa si offrono a dare in prestito la loro voce, o la loro immagine digitalizzata

per lo più per giochi d’azione; Sylvester Stallone, Arnold Schwarzenegger, Bruce Willis

85 da “il linguaggio dei nuovi media” Lev Manovich MIT PRESS Cambridge, Massachussetes 2002 pag.27786 da “il linguaggio dei nuovi media” Lev Manovich MIT PRESS Cambridge, Massachussetes 2002 pag.281

o nei giochi gangster come Mafia o il Padrino in cui la scalata ai vertici della cupola di

un bandito di strada è alla base per altre variazioni sul tema, in più le tecniche

cinematografiche come il rallenti, il montaggio, la musica, lo spostamento della mdp sono

usate dal game design per aumentare la suspence, creare rilassamento e sospensione,

l’effetto sorpresa o la spettacolarizzazione di questi “film interattivi”.

Sebbene Federica Grigoletto ritrova nell’interattività dei videogiochi la componente di

differenziazione più grande col cinema, non esita a dire che “ogni livello si presenta come

una mini narrazione all’interno del plot principale e l’obiettivo rimane comunque lo

stesso: indurre lo spettatore/giocatore alla sospensione dell’incredulità per fare in modo

che non si ricordi di guardare un film o giocare a un videogame, ma percepisca

fortemente il senso dell’essere là.”87

Quindi il videogioco per ergersi al pari di altre forme d’intrattenimento ha preso molto

dal cinema; se prendiamo infatti intere sequenze spettacolari in cui l’unica azione del

giocatore è quella dello spettatore incantato dalla straordinaria bellezza della grafica

possiamo parlare di un altro passo avanti verso quel mito del cinema totale di Bazin nel

suo Che cos’è il cinema? o un passo indietro verso il cinema delle attrazioni e nelle

visioni immaginifiche di Melies.

Dopo circa dieci anni, ovvero negli anni novanta, il cinema inizia a prendere dalla logica

del videogame alcune caratteristiche più o meno velate. E non parlo di effetti speciali,

personaggi reali e virtuali in una stessa scena, o di storie, ma del tipo di narrazione e del

ritmo. “ Il doppio finale di Sliding doors o i diversi stravolgimenti narrativi di Lola corre

rappresentano espedienti narrativi che non aggiungono diverse possibilità di scelta allo

spettatore, il film è tutto li e si esaurisce nella messa in scena di un’apparente non-

linearità.”88

Ricadono nella logica della rimediazione anche i videogame. I rapporti anche se profondi

non si esauriscono del tutto con il cinema, Bolter nel suo Remediation argomenta che

anche i videogiochi rimediano gli altri media, a partire dai primissimi giochi di società da

tavolo per arrivare alla storia e al racconto delle guerre in ogni epoca. Molti videogiochi

non sono prettamente narrativi, mettono “in scena” la rappresentazione di sport ( uno dei

primi videogame era la rappresentazione minimal di un campo da tennis, ora si è passati

al rally o lo snowboard) sotto forma di trasposizioni televisive dell’evento; “i videogiochi

87 da “Videogiochi e cinema, interattività, temporalità, tecniche narrative e modalità di fruizione” Federica Grigoletto CLUEB Bologna 200688 da “Videogiochi e cinema, interattività, temporalità, tecniche narrative e modalità di fruizione” Federica Grigoletto CLUEB Bologna 2006

illustrano al livello più elevato il processo attraverso il quale il computer è diventato un

bene di consumo di massa.”89

Tra il videogame e il computer c’è un processo di rimediazione reciproca; per alcuni versi

l’interfaccia del desktop agli inizi degli anni ottanta era molto più sofisticata graficamente

dei giochi. In seguito la grafica di questi ha influenzato il computer quando i videogame

sono entrati in commercio e hanno avuto un grosso successo commerciale per la loro

capacità di immersione dovuta al miglioramento della resa grafica. Il realismo fotografico

all’inizio non era per niente un obiettivo; in uno dei più famosi Pong la grafica semplice

ed essenziale è formata da due piccole linee divise da una linea tratteggiata che

rappresentavano due giocatori di tennis in un campo che non dovevano lasciarsi sfuggire

quell’insieme di piccoli quadratini che rappresentava la palla. Lo scopo non era

confondere l’utente facendogli credere al realismo di un campo da tennis tuttavia l’effetto

era riuscito.

Col tempo l’evoluzione della grafica in 3D, e la possibilità di cambiare durante il gioco il

punto di vista, i videogame hanno iniziato a rimediare non solo il computer ma anche film

e televisione, ma come già detto più che la televisione i computer games rimediano il

cinema: sequenze intere di video vengono inserite nel gioco, film o saghe vengono prese

come esempio ma soprattutto la struttura narrativa è presa in prestito. Il risultato del

processo di rimediazione è uno scambio dialettico tra trasparenza e ipermediazione, che si

basa sul concetto di presenza; la riproduzione digitale può richiamare lo scenario di un

film, e l’immersione che ne deriva può far sentire l’utente come uno dei protagonisti

dell’universo filmico; ma tutto ciò è strettamente connesso all’idea del medium cinema,

l’utente riconosce il film, decide di entrare nel videogioco e vi si immerge. Dalla

televisione invece, nonostante le consolle siano collegate al monitor, l’interattività è stata

l’elemento che ha maggiormente distaccato il videogame dal flusso televisivo. Lo spazio

cambia e diventa navigabile e fruibile, ed è continuamente sorvegliato da un’attenzione

attiva. Tuttavia se in televisione un format arriva ad avere un successo popolare può

diventare un videogioco; prendiamo ad esempio Chi vuol essere milionario? Preso

dall’omonimo show televisivo ne rispetta anche la grafica. O chi non potrebbe

riconoscere nel gioco The Sims (EA 2000) situazione da soap opera o da Grande Fratello?

Per quanto riguarda la narrazione nei videogame il discorso si complica; molti giochi

d’avventura richiamano la letteratura e possono essere considerati come delle vere e

89 Da “Remediation. competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi” Jay David Bolter e Richard Grusin Edizioni Guerrini Studio Milano 2002

proprie narrazioni, tuttavia non tutti i giochi rappresentano delle narrazioni ma soprattutto

rimangono sempre dei videogiochi, non puntano a essere qualcosa altro, costituiscono

comunque un genere a se stante.

Ma dove viene situato il legame, le differenze con il cinema? dall’estetica, dal livello

testuale o dall’esperienza offerta all’utente?

Il genere prima di tutto è un punto di contatto: “la maggioranza dei giochi orientati al

cinema occupano i territori familiari delle generiche categorie di cinema come i film

d’azione, d’avventura, horror, fantascientifici, e bellici”90, molti dei quali caratterizzati da

un’ambientazione alla Blade Runner come Silent Hill.

All’inizio e alla fine ogni gioco ha la sequenza d’apertura e chiusura con i titoli, proprio

come avviene nel cinema, ma nello stesso tempo queste sequenze sono ben separate dal

gioco, magari da una grafica molto più elaborata, tale che sia riconoscibile che quella

sequenza esclude l’interattività.

Cosa succede quando il cinema ricomincia da capo? eXistenZ.

In eXistenZ di Cronemberg la trama del film si sviluppa in una sorta di scatola cinese, la

realtà del videogioco al suo interno divisa, è contenuta nella realtà che si rivelerà di un

altro gioco (traScendenZ), che è contenuta nella realtà ultima, ovvero quella in cui finisce

il film. Ogni personaggio si rivela con una doppia personalità, molti sono dei falsi attanti,

e intervengono nella trama apportando dei cambiamenti significativi, sin dal principio.

Siamo all’inizio del film in cui viene presentata la situazione, in una stanza che ha tutte le

caratteristiche di una chiesa (americana) di campagna dismessa e si scatena l’azione

facendo partire la narrazione come ci viene presentata nel film.

La stanza in sé come detto sopra ha qualcosa di mistico, nonché di perturbante data la

forte componente asettica, c’è il palchetto da cui Allegra Geller parla ai suoi ascoltatori

seduti attenti nelle panche poste al di sotto dell’ “altare” che ha la forma di semicerchio a

cui alcune persone vi accedono solo quando è venuto il momento di provare il gioco, in

più Allegra quando inizia a introdurre il gioco, la mdp passa dalla figura intera a un primo

piano come ad incorniciarla per dare la sensazione che stia parlando da un pulpito. E’

l’iniziazione ad una nuova religione, il nome di entrambi i giochi ne rileva lo scopo:

90 da “Screen Play. Cinema/videogames/interfaces” edit by Geoff King and Taya KrzywinskaWallflawor Press London 2005

l’esistente deve andare oltre la realtà per accedere ad un al di là, per l’appunto

trascendentale.

Il ragazzo che entra con tutta l’aria di un patito dei videogame e del Pod innanzitutto si

rivelerà invece un nemico di Allegra pronta ad ucciderla all’inizio del viaggio virtuale in

eXistenZ, “morte al demone Allegra Geller, morte ad Antenna research” e non è il solo,

da questo punto Ted Pikul avrà il compito di proteggerla anche da persone interne ad

Antenna, la casa di produzione dei giochi. Da qui si sviluppa l’azione, Ted e Allegra

iniziano a scappare senza una meta o una spiegazione ben precisa. Ted decide di

proteggerla, Allegra deve salvare il gioco, per lo meno questo sembra lo scopo iniziale.

Tuttavia con l’avanzare della trama e del ritmo gli scopi e le persone cambiano. Ad ogni

stazione vi è un pericolo da cui fuggire; arrivano infatti ad un distributore di benzina dove

Ted tenta a farsi installare una bioporta, l’addetto al distributore dopo aver riconosciuto la

game designer con reverenza si rivelerà anch’egli nemico e tenterà di ucciderla per

incassare la cospicua taglia su di lei e sul gioco. Gas per un momento parla con Ted sulla

concezione di realtà, la sua, quella del lavoro ad un distributore, non è cambiata

veramente con i giochi ma “solo al più patetico esteriore livello di realtà”. Questa frase è

solo uno degli indizi sulla finzione di quello che vediamo, oltre a frasi come “intanto ci

stanno già giocando tutti”91 Allegra e Ted iniziano a tastare qualsiasi oggetto per sentirne

il tessuto ed il rumore, come se dovessero verificare l’autenticità, infatti la mdp indugia

molte volte su queste azioni anche con dei particolari. Inoltre alcuni elementi entrano ed

escono da queste due realtà creando degli effetti stranianti per il pubblico: la pistola

costruita con lo scheletro di un anfibio la ritroviamo all’inizio, poi nel gioco eXistenZ

sotto forma del piatto speciale nel ristorante cinese nella foresta, e alla fine nelle mani del

dottore.

“La straordinaria pistola organica di carne e ossa attraversa tutto il film, è la stessa che

all’inizio ferisce Allegra, poi nel ristorante cinese viene assemblata da Pikul… per

uccidere il cameriere, il quale la ferisce facendola sanguinare. Quindi ricompare nel

retrobottega dell’emporio dei giochi sotto la branda di D’Arcy Nader e, nella resa dei

91 in eXistenZgioco Ted e Allegra devono scoprire i piani di Yevgeny Nourish, ritornano nella fabbrica di Pod e li Ted inizia a sentirsi perso nella trama del gioco “procediamo improvvisando continuamente, in questo informe mondo le cui regole e obiettivi sono sconosciuti apparentemente indecifrabili per non dire che forse nemmeno esistono…è la descrizione di un gioco che non troverà un mercato” in quanto non esistendo una trama lineare da seguire nessuno si avventurerebbe per sentirsi smarrito. Ma Allegra risponde con quella frase, emblematica visto che apparentemente solo loro due ci giocano, in realtà vedremo alla fine molti di più (o forse tutti?).

conti finale sulla collina, nelle mani di Kiri Vinokur…potrebbe costituire una sorta di

manifesto estetico del film.”92

Il rettile anfibio a due teste da cui è composta compare in tutti e due livelli di realtà.

Quando alla fine il senso salta e le due realtà si confondono, i personaggi del gioco

entrano nel livello di realtà che ritenevamo autentico.

Il dottore che li aiuta nello chalet ripresenta la pistola che un cane ha preso nel ristorante

cinese del gioco “il mio cane mi ha riportato questa”, lo stesso identico cane che riporta la

stessa pistola al cassiere del negozio di elettronica “il suo cane mi ha riportato questa” e

che stranamente (anche se non del tutto visto che la fine è aperta a qualsiasi

interpretazione) compare alla fine quando tutto si rivela un gioco e per l’ennesima volta è

portatore di armi.

Se l’intero film con la “ sua struttura narrativa, le situazioni, gli ambienti, i personaggi

ricordano spesso quelli del videogioco”93 gli elementi di continuità nella narrazione, come

il cane, la pistola o la pettinatura di Allegra94 possono essere equiparati a dei link che

stimolano il collegamento mentale da una sezione all’altra della narrazione, il

collegamento non è immediato e interattivo, ma risulta semplice se col telecomando si

torna indietro.

Questo film oltre a parlare di tecnologie, realtà virtuale, e protesi tecnologiche offre una

riflessione sul cinema. Strutturato come un videogame il film rimane un film, ovvero

Cronemberg non vuole forse mostrare ciò che potrebbe accadere in un futuro nel campo

delle simulazioni a scopo ludico, ma forse cerca di mostrare ciò che potrebbe accadere

all’interno dell’universo cinematografico. Gli utenti di traScendenZ non partecipano ad

un gioco ma ad un film tanto la resa è reale, chi viene eliminato, ne rimane spettatore,

proprio come noi e quando all’ultima scena ci viene puntata la pistola e si presume parta

il colpo, siamo fuori dal gioco ovvero dal film.“Nel film di Cronenberg la

rappresentazione del gioco diviene infine metafora stessa del cinema: il regista, come

Allegra, allestisce per noi un videogame che nella sua irrealtà - o virtualità - ci costringe

a 'giocare', assecondandone le regole - altrimenti non vivremmo l'incanto della narrazione

92 da Pier Luigi Cappucci “Giocare per vivere. eXistenZ” pubblicato nel libro Michele Canosa ( a cura di) David Cronemberg:la bellezza interiore Le Mani 200593 da Pier Luigi Cappucci “Giocare per vivere. eXistenZ” pubblicato nel libro Michele Canosa ( a cura di) David Cronemberg:la bellezza interiore Le Mani 200594 Per non perdersi nei vari livelli, anche i capelli di Allegra sono sistemati in tre modi diversi; ricci nel livello eXistenZ, ricci e lisci nel livello traScendenZ e completamente lisci nel livello “realtà”.

- ma nel continuo riferirci alla nostra realtà di spettatori - quella vera, oggettiva, non

irreale e proiettata dentro lo schermo-. 95

Il senso del film, e la sua stessa costruzione sono continuamente interrogati dai

personaggi stessi del film; il gioco eXistenZ ha bisogno di diversi utenti altrimenti ci si

riduce ad essere turisti in un film, la stessa costruzione dei dialoghi, è una sceneggiatura

già scritta, a cui il personaggio deve adattarsi e farsi trasportare da questa, la trama non

procede oltre se non viene rispettato il dialogo (“devi partecipare al gioco per scoprire

perché partecipi al gioco…è il futuro Pikul”) e il personaggio va in loop, ovvero in

ripetizione continua, come la trama del film che ripete con alcune differenze il tema

scenografico della chiesa all’inizio e alla fine, e l’uccisione del game designer.

Il gergo cinematografico è presente nei dialoghi stessi, quando Allegra cerca di

convincere Gas a non farsi uccidere chiede: “ma non ci vai mai al cinema?” come a dire

non puoi uccidere adesso il protagonista, il film cesserebbe, ma lui ribatte: “La tua

sceneggiatura mi piace, voglio una parte anch’io” ovvero se ti uccido avrò più rilievo che

una semplice comparsa. Gli attori diventano entità autonome, dotate di un forte

individualismo, non esitano a cambiare continuamente ruolo e livello per apparire nella

trama, ovvero per esistere.

Alla fine quando alcuni dei personaggi ritornano in scena Ted quasi si ribella, “Che ci fa

qui questo personaggio? è il cassiere del negozio di elettronica”.

Il tema non è nuovo, Pier Luigi Capucci ricorda nel suo saggio “Giocare per vivere.

eXistenZ” (pubblicato nel libro Michele Canosa David Cronemberg:la bellezza interiore

Le Mani 2005) Pirandello e il suo “Personaggi in cerca d’autore”. Qui tuttavia vi sono le

nuove tecnologie che come afferma Castells hanno enfatizzato l’individualismo di inizio

novecento e nel cinema gli stessi attori con coscienza tecnologica si autodistruggono l’un

l’altro come in videogioco o gioco di ruolo per affermare la loro esistenza.

Gas infatti arriva a definirsi come un Dio, è un meccanico, e il Dio-giocatore, in un altro

gioco di Allegra altro non è che un meccanico che costruisce il proprio mondo; come non

pensare alle recenti costruzioni di realtà virtuale in rete come second life.

Inoltre Allegra quando spiega l’entrata nel gioco eXistenZ a Ted, usa la terminologia

cinematografica: “può essere uno stacco netto, una dissolvenza, un morphing” e proprio

uno stacco netto avviene tra la scena dell’amplesso nel retrobottega del negozio di

elettronica e il vivaio di trote dove inizia un'altra sequenza, ma l’audio è per alcuni

95 da “eXistenZ di D. Cronenberg: giocare per vivere lo statuto dell'immagine fra tensione realista e realtà virtuale” Comunicazione Filosofica n. 11 ottobre 2002 a cura di Cristina Boracchi.

secondi quello della scena precedente e si impone sul viso di Ted per farci intuire come si

è conclusa la scena precedente. In fondo siamo sempre in un film.

La scenografia sembra essere criticata dagli attori verso il regista, soprattutto la scelta di

rendere tutta l’ambientazione del film asettica senza particolari per dare l’impressione di

essere in un gioco, Ted dice infatti: “non sono sicuro che qui dove siamo sia una

situazione reale, anche qui sembra un gioco e tu inizi a sembrare un personaggio del

gioco” facente parte dell’arredamento.

La scena finale del ritorno alla “realtà” tutti gli attori si trovano in cerchio (anche il cane!)

a discutere sui loro ruoli e la recitazione, sullo sviluppo della trama e i colpi di scena,

nonché dei momenti di noia, e non mancano le critiche; lo stesso disegnatore o regista del

gioco si sente a disagio dalla trama da lui pensata e dal tema anti-game designer che è

stato sottolineato dagli attori.

La rana-salamandra-lucertola una delle chiavi del film o uno dei link dell’ipertesto gioco,

è per Allegra un segno dei tempi, quello della combinazione genetica, ma essendo

completamente un’animazione può essere l’emblema delle nuove tecnologie nel cinema

come la computer graphic, l’animazione in 3D, il connubio di realtà fotografica e realtà

simulata.

L’attacco al database

“Smetti di giocare, se ci riesci, vuol dire che sei libero.”

Tutto il genere cyberpunk nel cinema nella letteratura e nei fumetti offre un vasto

repertorio di come la tecnologia pervaderà in un futuro indefinito, città e uomini, offrendo

la metafora di ciò che già c’è o la paura e le visioni di ciò che potrebbe essere.

Caratterizzati da scenari apocalittici in cui qualcuno è in lotta col sistema che di solito è

rappresentato dalle multinazionali che producono tecnologia, o dalla tecnologia stessa

(vedi la trilogia Matrix), la storia si muove all’interno di una narrazione non lineare,

attraverso salti temporali, spaziali in luoghi periferici. Sembra che la logica del database

pervade ogni aspetto di questi film; ma come? Attraverso lo spazio, il tempo ed i

personaggi, e infine nella memoria.

In film come Blade Runner, Strange Days, Matrix lo spazio per lo più ostile, non offre ai

personaggi un senso di comunione con l’ambiente circostante.

Si entra ed esce da una zona e lo si dichiara, non c’è una vera e propria continuità , le

zone seppur collegate e facenti parte di una stessa realtà o città sono autonome in se

stesse, i protagonisti devono superare dei livelli, delle prove, o nel minore dei casi solo

una perquisizione ad alta tecnologia per accedervi. Questo rende la percezione dello

spazio alquanto indeterminata, non riusciamo a capire se esiste realmente; in eXistenZ il

salto da un luogo all’altro, reale o virtuale, verso la fine del film ci proietta in uno spazio

che non riconosciamo più come reale, ovvero siamo in dubbio su tutto ciò che vediamo,

se effettivamente la realtà di trasCendenZ sia quella reale o un altro livello del

videogioco,in quanto la copia è l’esatta riproduzione di quella che dovrebbe essere la

realtà, come quando diciamo che anche la nostra realtà è solo il frutto personale delle

nostre percezioni. Smarrimento provato non solo da noi spettatori ma anche dai

personaggi stessi del film; nella scena finale quando il vero ideatore del videogioco è

minacciato, un giocatore che si è prestato al test dice “ ditemi la verità, siamo ancora nel

gioco?” In Matrix vi è la separazione tra lo spazio reale, mondo delle macchine e della

città di Zion, e quello virtuale o quello di Matrix in cui gli “scollegati” entrano ed escono

attraverso la linea telefonica in qualunque parte dello spazio matrix come i protagonisti di

un videogioco. Un videogioco è ancora una volta alla base del film Nirvana. Lo spazio di

Solo, il protagonista del videogioco che da il nome al film, è fortemente delimitato, vi si

aggira superando inconsapevolmente vari livelli incontrando le difficoltà poste dal

creatore Jimi, ritrovandosi dopo ogni morte nella soffitta in legno in un quartiere cinese.

Il database progettato da Jimi diventa più che un labirinto, più che una rete, una prigione.

La grande città di Nirvana, chiamata “agglomerato del nord” fra degrado e confusione

urbana è divisa in zone nettamente separate: Marrakech, Shangay Town, Bombay City, le

sopraelevate, in cui i protagonisti si muovono spinti in una catena di collegamenti da un

posto ad un altro verso degli scopi precisi: la ricerca di Joystick, Lisa, la ricerca di un

virus indiano. Bombay city l’ultimo livello, si trova nel sottosuolo, i protagonisti devono

scendere accanto alle caldaie che servono a riscaldare la città in superficie attraverso un

ascensore la cui ultima destinazione è la città sotterranea, che appare diversa da tutte le

altre; ogni città è un mondo a se con le sue regole e religioni, che convive però

inevitabilmente con gli altri come i livelli in un videogioco o le pagine della rete Web.

Solo il protagonista del gioco Nirvana, vedrà dietro l’armadio, dal fondo della tana del

Bianconiglio, il limite del suo mondo.

Nirvana, di Gabriele Salvatores uno dei pochi film italiani ad alto coefficiente

tecnologico, che prendo in considerazione è da ritenere emblematico, ( nonostante troppe

ovvie soluzioni o scenografie alla Blade Runner) non solo per il caso di Solo, il

personaggio del videogioco che dopo aver assunto una coscienza preferisce la distruzione

piuttosto che la vita in un database di scelte finite, o per il tema della tecnologia nel futuro

e i suoi effetti, della coscienza e del corpo, ma anche per la stessa costruzione diegetica

del film.

Il film si costruisce su più livelli, narrativi e temporali. Diversi nuclei a se stanti sono

collegati attraverso il montaggio e il filo della narrazione che comunque non si perde.

Abbiamo la situazione di Solo nel videogioco che supera vari livelli mentre tenta di

convincere Maria la prostituta italiana, della realtà del videogioco; la ricerca di Jimi di un

modo per cancellare il gioco dall’Okosama Star; l’inseguimento e la conoscenza dei suoi

aiutanti; la storia di Joystick e di Naime e la sua breve relazione con Jimi; la separazione

tra Lisa e Jimi, e il “volo” per entrare nella banca dati della multinazionale informatica in

cui il gioco è custodito. Reale e virtuale, passato, presente e futuro, e ripetizione

dell’uguale.

Il film inizia con un rewind sul viso sgranato di Lisa, su una sua registrazione che ha

lasciato a Jimi prima di lasciarlo, poi la voce narrante fuori campo di Jimi inizia a

raccontare ciò che succederà sino al momento del volo nel Chelsea hotel, seguita da una

scena di Solo che frastornato all’inizio del gioco sembra essersi svegliato da un lungo

sonno, quello della non consapevolezza.

I salti temporali non sono inusuali nella storia del cinema, anzi fanno parte del suo

linguaggio, nonché dei modi in cui una storia può essere narrata, molte avanguardie e

registi più recenti come Lynch ma soprattutto Tarantino hanno tentato di far cadere la

sensazione della narrazione proponendo salti di tempo e di senso. Tuttavia in questo film

il salto temporale che abbiamo di fronte è sull’atemporalità, ovvero su un mondo quello

del videogioco, in cui la percezione dello spazio e del tempo viene a cadere nell’eterno

ritorno; Solo ha la sensazione di aver detto o sentito quelle frasi da Maria molte volte ma

effettivamente non sappiamo quante. In questo è molto più simile a eXistenz, in cui venti

minuti del gioco si trasformano in giorni, e meno a Matrix in cui il calco della realtà è

totale. Inoltre in Nirvana l’altro nucleo di narrazione, la storia di Lisa si fonda su quello

della memoria, e quindi non abbiamo un’azione che si svolge ma che viene ricordata

attraverso filmati, voci fuori campo, evocata e immaginata da Jimi, da Naime attraverso

la memoria che Lisa ha lasciato e durante il tentativo del sistema dell’Okosama Star di

bloccare il volo nel database. “E’ come se tu mi avessi chiusa in uno dei tuoi mondi” dice

Lisa in una sua registrazione, un cassetto che si apre nella memoria di Jimi e nel film, e la

troverà alla fine in Bombay city “nelle viscere dell’agglomerato dove la ragione non serve

più, passato presente e futuro danzano insieme”96 nella forma di un microchip ayurvedico,

un database di ricordi, suoni, odori della sua vita passata, creato alle soglie della morte.

La protesi della mente di Lisa diviene così immortale pronta ad essere rivissuta.

Salvatores in un’intervista dice: “C'è una coincidenza in molte filosofie orientali, nel

buddismo, nell'induismo ed è il concetto della reincarnazione per cui l'uomo è costretto a

rinascere in un ciclo continuo di vita e di morte da cui riesce a staccarsi solo se raggiunge

la pace assoluta del Nirvana: il personaggio di un videogioco, in fondo, ripete

costantemente la sua vita dall'inizio alla fine, è costretto a rifare in eterno le stesse

esperienze.”97

Lo scopo del film si profila quindi come l’arrivo a Lisa sottoforma di una base dati

portatile e l’entrata in un altro database, quello della Okosama Star da cui dovrebbe essere

cancellato il gioco, sia Solo che Jimi impigliati in una vita che non ha sbocchi, tentano di

sovvertire il sistema tentando un attacco al database, ma Solo non può andare oltre le

scelte programmate dal game design e Jimi non può sovvertire il sistema; tutti e due

troveranno l’oblio.

96 da “Nirvana” di Gabriele Salvatores, Cecchi Gori produzione 126’ Italia 199697 da un intervista a Gabriele Salvatores su http://www.delos.fantascienza.com/delos19/nirvana.html

Il film finisce con un rewind anche questa volta come nell’inizio, ma a rivedere tutto il

film con gli occhi di Naime che ritorna in rete. E la scritta “Naime on line” annuncia

l’inizio di qualcos’altro, tutto si riavvolge e forse riparte dalla stanza ben arredata di Jimi

pronti ad una nuova partita.

Capitolo quarto

Tutti all’interno di un database.

La società in un database: potere e controllo.

La rivoluzione digitale, ha dato avvio a numerose discussioni in ogni campo di studio e di

lavoro; non solo ha sollevato il problema dell’identità dell’opera d’arte, e quale nuove

forme culturali può apportare ma molti studiosi si sono chiesti in che modo altri settori

della vita quotidiana possono aver subito variazioni, come l’economia, la politica, il

sistema dei media ecc… e fra questi ha portato alla ribalta la questione della sorveglianza,

sollevando il problema della privacy e sottolineando i coinvolgimenti politici del

“monitoraggio” sociale, dovuto ad una stretta collaborazione con le nuove tecnologie, ad

un aumento esponenziale della capacità di memoria e quindi di contenimento, scambio e

reperimento delle informazioni.

Nel 1988 lo studioso australiano Roger Clarke, coniò il termine “dataveillance” (data

surveillance) parlando di difesa della privacy. Se fino a pochi anni fa la sorveglianza,

rivolta ad una persona o alla massa (gruppo di persone) era svolta con tecniche che

presupponevano scarso equipaggiamento tecnico adesso si è passati ad un controllo

sistematico; insieme alla sorveglianza fisica che comprende quella visuale e quella

d’ascolto, si aggiunge quella che si attua attraverso la comunicazione e quella elettronica,

ma soprattutto quella legata al sistema di dati personale (personal data systems) che viene

usata sistematicamente nel monitorare e nell’investigare azioni e comunicazione di una

persona identificata o di un gruppo di persone. Di solito viene usata quando vi è un

motivo particolare o per azione deterrente riguardo alcuni comportamenti e viene

effettuata attraverso l’incrocio di diversi database.

I nostri dati sono posseduti non solo dagli uffici della pubblica amministrazione, ma

anche nelle banche, nelle università, nella rete ospedaliera, nelle biblioteche, e i nostri

spostamenti, le nostre azioni, i nostri acquisti sono rintracciabili da ciò che usiamo per

compierli: carte di credito, telefonini, badge. Accanto a tutto ciò in questi spazi e nelle

strade molto spesso siamo sorvegliati da telecamere.

Alcuni artisti di un gruppo con sede a New York hanno elaborato alcuni progetti per

criticare questa forma di sorveglianza ritenuta pervasiva, che lede la privacy di un

normale cittadino, attraverso la messa in scena di opere teatrali dinanzi le telecamere e

SVEN un sistema basato su un algoritmo che consente di indicare tramite telecamere

installate per le strade persone che assomigliano alle celebrità (invece che a criminali o

terroristi, come accade nel caso delle vere telecamere di sorveglianza) individuando i

passanti e le loro caratteristiche mentre un’altra applicazione usa queste informazioni per

creare immagini simili a quelle dei video musicali. Il risultato viene proiettato su di un

monitor.

Alcuni fatti di cronaca e attualità possono essere degli esempi probanti di questa parte

della dissertazione tesa a dimostrare come le nuove tecnologie entrate di diritto nella vita

di tutti i giorni a volte si rivelano un’arma a doppio taglio; ovvero se il computer offre

illimitate possibilità di creazione e facilità di lavorare e reperire informazioni, il database

come abbiamo visto ci offre la possibilità di avere informazioni e dati che richiamiamo

subito per poi ricreare, nello stesso tempo i nostri dati in un enorme database globale

possono essere processati allo stesso modo, scambiati e usati da agenzie governative, per

la sicurezza, ma anche per questioni commerciali e quindi da privati anche senza il nostro

diretto consenso o conoscenza.

L’uso delle tecnologie nella vita quotidiana ci rende dipendente da rapporti sempre più

incorporei ovvero slegati da un rapporto diretto vis a vis, e la nostra identità sembra

essere delineata nei database, questo perché le banche, gli uffici, le università richiedono

un’iscrizione con tutti i nostri dati e la rete spesso richiede l’utilizzo dei dati personali per

scopi commerciali pena l’avanzamento della navigazione o l’uso del servizio, e ad un

livello generale in questo sistema dei media, il controllo dell’informazione, il database di

tutte le informazioni di tutti i cittadini rappresenta un potere molto forte se controllato.

Nella Cina in cui vige una dittatura comunista aperta ai mercati capitalistici occidentali,

l’uso di Internet è l’emblema del controllo che il governo autoritario attua sulla

popolazione; non solo vengono registrati tutti i movimenti di un utente nella Rete e

sottoposti al controllo ma vengono posti dei filtri potenti sugli accessi per determinare

l’inaccessibilità ad alcuni siti che potrebbero contenere contenuti ma anche solo parole

contrarie al regime. Valgono a poco le proteste degli studenti per una maggiore libertà

dell’uso della rete represse violentemente. La libertà di parola è naturalmente

compromessa, chi osa creare contenuti illegali incorre a gravissime pene, molti

intellettuali devono emigrare all’estero per poter gridare l’ingiustizia e usare i nuovi

media come mezzo per esprimere la loro idea.

Se la Cina usa la sorveglianza della rete ad azione deterrente, in un governo democratico

dove la libertà di parola ed azione è un diritto acquisito l’accumulo dei dati avviene per lo

più attraverso la burocrazia per la delineazione di un profilo di ogni cittadino, a cui si

aggiunge il segno che ognuno lascia con ogni suo movimento che è registrato da tracce

elettroniche e telecamere.

Le nuove tecnologie servono ad aiutare questi flussi d’informazione e a incrociarli; i

detentori di questi possono così avere il controllo su questi dati, ma per quale scopo?

Se prendiamo alcune notizie di recente attualità italiana la situazione sembra problematica

e sconfortante; il caso SISMI esploso qualche tempo fa ci porta a pensare come l’attività

di archiviazione e sorveglianza possa persino mettere in discussione la stessa idea di

democrazia: controlli e schedature di privati cittadini, colpevoli solo di aver espresso le

proprie opinioni come giornalisti, opinionisti, sindacalisti oppure magistrati che

potrebbero risultare scomodi, e soprattutto altri funzionari dello Stato, sono stati eseguiti

dai servizi segreti per non si è chiarito bene quale scopo. Di sicuro è il controllo e la

capacità di tenere in pugno qualcuno nel caso in cui il proprio dossier dovesse

rappresentare un motivo di discredito della persona.

Un caso del genere, scrive Giuseppe D’Avanzo giornalista di Repubblica, in un articolo

che è stato un vero tam tam nella rete, “In qualsiasi altro - appena decente - Paese

dell'Occidente, che un premier sia spiato da una grande azienda privata di

telecomunicazioni sarebbe una notizia coi fiocchi. "Terrebbe" la prima pagina per

settimane. Scatenerebbe la curiosità preoccupata dell'opinione pubblica. Solleciterebbe il

Parlamento a interrogarsi. Magari convincerebbe quelle distratte aule vocianti a istituire

addirittura una commissione d'inchiesta. In un qualsiasi altro Paese dell'Occidente

accadrebbe di tutto tranne che la notizia coi fiocchi diventasse una notiziuccia presto

seppellita da una coltre di silenzio.”98 Per lo meno ci rimane la rete. Il web in queste

situazioni diventa territorio dove l’espressione e la ricerca di verità trovano un territorio

fertile. Per questo internet diventa territorio conteso degli stati la cui architettura aperta,

fluida e orizzontale rappresenta – addirittura- un pericolo, o comunque uno spazio da

gestire e controllare.

98 (fonte web: http://www.comincialitalia.net/interna.asp?id_tipologia=2&id_articolo=899)

Le società cambiano attraverso cambiamenti politici e conflitti. Se il web diventa un

territorio conteso lo è per il fatto che è diventato un media usato dalla società per svolgere

qualunque attività, e sia i movimenti sociali che quelli di potere, lo useranno per

informare, organizzare dominare e opporsi. Castells nel suo Galassia Internet individua

in questo territorio, in cui possono avvenire delle trasformazioni, quattro aree di

convergenza e attrito delle forze sociopolitiche e il loro conflitto. I movimenti sociali o

chiunque voglia far sentire la propria voce usa internet: sindacalisti, ambientalisti, donne,

diritti umani, movimenti religiosi, “il cyberspazio è diventato un agorà elettronica globale

dove la diversità del malcontento umano esplode in una cacofonia di accenti.” 99

Ci sono delle ragioni per cui i movimenti sociali si affidano alla rete. Primo fra tutti è che

molto spesso l’informazione nei canali tradizionali è altamente filtrata e lo spazio

riservato all’espressione libera è quasi inesistente. Poi i movimenti sociali sono mobilitati

attorno a valori culturali, che identificano una classe o comunque un gruppo sociale che si

riconosce intorno a questi. L’uso di internet aiuta la comunicazione dei movimenti sociali

che possono aprirsi a largo raggio verso una maggiore mobilità ampliando la fetta di

pubblico.

Oggi i partiti politici di massa esistono in quanto macchine messe in moto per le elezioni,

i sindacati si organizzano burocraticamente come le grandi corporation o agenzie statali, i

pochi gruppi che si mobilitano lo fanno come coalizioni libere che possono apparire

neoanarchiche.

A Seattle nel 1999, un gruppo di persone in rete dopo un dibattito acceso che durò giorni

attorno alla riunione della World Trade Organization che discuteva di scelte geopolitiche

per una globalizzazione senza rappresentanza, si organizzò più o meno spontaneamente

per una manifestazione pacifica che avrebbe dovuto bloccare questa riunione. Dopo il

polverone alzato da questa azione tutti i media si interessarono ma fu internet lo spazio in

cui questo dibattito continuò e si espanse per tutto il mondo creando forum di discussione

ed un movimento vero e proprio che per la sua natura fluida, essendo nato nella rete, non

ha un’organizzazione vera e propria e non si può imbrigliare tanto facilmente. Così

nacque il movimento dei no-global, poi new global.

Questi movimenti dipendono da internet quindi sia perché nascono dalla rete, sia perché

ne dipendono per il loro bisogno di “globalizzazione” ovvero di coalizione con il più

ampio numero di persone possibili disperse in ogni angolo del globo, partendo dalle

questioni locali a quelle globali. 99 da “Galassia Internet” di Manuel Castells Feltrinelli Editore Milano 2002

A livello locale la rete è stata molto utile nella costruzione di reti civiche di città come

Amsterdam o Bologna che diventate bacheche elettroniche sempre aggiornate permettono

a tutti i cittadini di accedere alla vita cittadina. Infatti uno Stato democratico che mette a

disposizione informazioni politiche e rende interattivo il confronto con le istituzioni

potrebbe rendere il concetto di democrazia tangibile, ovvero di un popolo che controlla

l’operato dello stato.

Ma nei fatti il confronto con i cittadini non è poi cosi chiaro. Le informazioni date sono

poche e l’interattività non va oltre alla bacheca elettronica, cercare un’informazione sul

sito dei ministeri potrebbe dire perdersi in un labirinto.

La televisione, la radio e i giornali rimangono tuttora i canali preferiti dalla politica in

quanto privilegiano un’attenzione passiva da uno a molti, forse per il carattere di

incapacità della politica di offrirsi quale reale confronto con il popolo. Quello che

Castells lamenta è infatti una crisi della democrazia e della politica, basata sull’immagine

del candidato a cui si deve dare fiducia, e i media rappresentano l’intermediario adatto

quando il consenso può venire dall’immagine che il candidato riesce a far trasparire ai

cittadini. Internet cosi si ritrova ad essere un canale orizzontale, poco controllato, a cui si

rivolgono i giornalisti indipendenti, o anche quelli che scrivono per una nota testata

hanno poi il blog personale in cui approfondiscono eventi e pareri in un confronto con il

lettore. Per Castells internet si rivela quindi un mezzo efficace affinché la democrazia si

dimostri o per lo meno ne può contribuire alla costruzione.

Ma se questa agorà viene posta sotto controllo si può ancora parlare di democrazia o

possiamo iniziare a parlare di un futuro alla Big Brother?

Gli Stati Uniti, genitori di Internet e il cui primo emendamento è quello della libertà di

parola, è fra le prime nazioni che cerca costantemente di imbrigliare e porre sotto

controllo la rete sin dal governo Clinton, attraverso la repressione della pedofilia, per

arrivare al governo Bush, che ha varato una serie di leggi che sono al limite del diritto

della privacy, estese per tutta la popolazione in ogni aspetto, nel nome della sicurezza

nazionale soprattutto dopo la guerra in Iraq e l’avvento di un terrorismo non controllato.

D’altronde “ il controllo dell’informazione è sempre stato l’essenza del potere statale

nella storia”100 quindi anche il concetto di privacy può essere violato? Le nuove

tecnologie considerate per la libertà si affiancano a quelle di controllo. Nel libro di

Castells vengono analizzate quelle attuate nella rete:

100 da “Galassia Internet” di Manuel Castells Feltrinelli Editore Milano 2002 pag. 162

“esistono tecnologie di identificazione, sorveglianza, e d’indagine. Tutte si fondano su

due assunti: la conoscenza asimmetrica dei codici nel network e la capacità di definire

uno spazio specifico di comunicazione suscettibile di controllo.”101

Per quanto riguarda la rete quindi l’accesso di un utente viene segnalato da un indirizzo

IP dato dal server a cui ci si connette che ha l’identità di quell’indirizzo, spesso infatti

governi, tribunali chiedono queste informazioni al provider per poi seguire giorno e notte

i movimenti sulla rete di un utente o per identificarlo nel caso di un reato.

In teoria queste informazioni dovrebbero rimanere taciute per garantire l’anonimato

anche se spesso vengono richieste o comprate dal mercato che richiede informazioni sui

singoli utenti per delinearne un profilo a cui rivolgere richieste di vendita. Ma la

questione principale è che se il punto di accesso è limitato da filtri e i provider controllati

dai governi, il controllo può diventare totale.

In una dittatura i filtri nell’accesso e i controlli e gli accordi del governo con i service

provider sono destinati al controllo e alla soppressione di qualsiasi forma di malcontento

e focolaio di rivolta, in questo modo ogni utente quando accede è controllato e può essere

risalito sino al domicilio. Ma in una democrazia dove la libertà di pensiero e parola è

garantito dalla legge, i governi tentano di accedere al profilo dell’utente e ai suoi dati nel

caso in cui si sia verificato un reato come la pedofilia ma soprattutto per questioni

politiche ed economiche. I singoli partiti avendo un database di informazioni sui profili

della popolazione possono indirizzare la campagna politica a seconda dei gusti e dei

bisogni dei cittadini. Ma ancora di più, nei paesi democratici la tirannide sembra essere

diventata quella economica. I profili degli utenti sono infatti molto ambiti da ogni

impresa per questione di marketing e di vendita del prodotto che può avvenire in maniera

mirata sia online che offline. Se prendiamo il servizio di mail che Google mette a

disposizione possiamo notare come le email o meglio lo spam che arriva giornalmente sia

abbastanza mirato sul gusto dell’utente o sugli argomenti di conversazione che intrattiene

con i suoi contatti. Se abbiamo spedito un’email ad un amico parlando di un concerto,

poco dopo ci arriverà un’email con un collegamento al sito in cui è possibile comprare

biglietti online. È senza dubbio più che un problema di libertà un problema di privacy.

Come ammette Castells è anche un problema di censura che potrebbe interiorizzarsi; se

infatti sappiamo di essere osservati nel momento in cui parliamo in rete, navighiamo,

potremmo non comportarci liberamente una volta che siamo consci che “non è il grande

fratello, ma una moltitudine di piccole sorelle, agenzie di sorveglianza ed elaborazione 101 da “Galassia Internet” di Manuel Castells Feltrinelli Editore Milano 2002 pag. 163

delle informazioni che registrano per sempre il nostro comportamento e formano un

database che accompagna la nostra vita a partire dal DNA e dalle caratteristiche personali

(la nostra retina, le nostre impronte digitali come contrassegni digitali).” 102

David Lyon professore di sociologia alla Queen’s University di Kingston, nell’Ontario,

nel suo libro La società sorvegliata che continua la ricerca cominciata con L’occhio

elettronico del 1994 in cui già evidenziava il ruolo delle tecnologie digitali nella gestione

dei dati raccolti intorno alla popolazione, delinea uno dei caratteri principali della

postmodenità e si chiede principalmente se la società dell’informazione possa essere

definita una società sorvegliata. Questo cosa significa e come potrebbe accadere?

Principalmente attraverso la moltiplicazione di agenzie che monitorano il settore

lavorativo, la posta elettronica, la navigazione in rete, le pratiche di consumo.

L’inserimento di Pin, password, schede con striscia magnetica, telecamere sono entrati a

far parte della prassi quotidiana.

La permeabilità tra settori privati, economici, e pubblici è data dalla connessione di flussi

d’informazione raccolti in banche dati connesse tra loro.

La Gran Bretagna si è affermata come uno dei paesi più all’avanguardia nella messa a

punto di tecnologie di sorveglianza basate sulla ricognizione visuale. Nel centro di

Londra le targhe delle auto sono monitorate da potenti telecamere in grado di risalire alla

vettura e quindi al proprietario individuando eventuali disarmonie per la sicurezza

pubblica; se per esempio la macchina risulta rubata o si attarda per molto tempo nel

centro può essere fermata per un controllo.

“We are spending £ 80 million watchig over you” recitava il famoso slogan di un

manifesto che pubblicizzava l’installazione di telecamere a circuito chiuso nella

metropolitana londinese.

L’immaginario letterario e quello cinematografico – si pensi a Nemico pubblico, Crimini

invisibili e Minority Report – hanno manifestato la crescente preoccupazione riguardo la

diffusione delle pratiche di sorveglianza, aiutate dalle nuove tecnologie.

La complessa rete di tecnologie e informazioni supporta la società del ventunesimo

secolo, il sogno di informatizzare ha percorso diverse regioni per diversi periodi ed è

sempre più in crescita e siccome le sfere sociali, politiche economiche e culturali sono

implicate nella crescita economica e tecnologica per Lyon la società dell’informazione

diventa una società sorvegliata.

102 da “Galassia Internet” di Manuel Castells Feltrinelli Editore Milano 2002 pag. 172

Per lui società sorvegliata è principalmente una società in cui la vita e i suoi movimenti

diventano trasparenti, e tutti i movimenti vengono registrati in degli insiemi di dati

posseduti da agenzie con lo scopo di influenzare la vita stessa. Verifica vocale, impronte

digitali, scansione della retina, sono dispositivi che si stanno diffondendo sempre di più

nel settore privato ma soprattutto pubblico.

“Tali società prestano ai dati un’attenzione più sistematica e intensa di quella dedicata

loro da qualunque altra società che storicamente le ha precedute.” 103

Lo scenario ipotizzato da Lyon che potrebbe sembrare catastrofico o per alcuni versi

distopico ma che respinge la tesi di cospirazione delinea un’ “orchestrazione sociale” in

cui le infrastrutture per l’informazione create e interconnesse con altri sistemi operano a

seconda degli stati nazionali e del loro sviluppo tecnologico e dettati costituzionali, in

modo poco percepibile, per agenzie addette al monitoraggio. Monitoraggio che diviene

un fenomeno sociale generalizzato in cui “la gente comune di solito collabora”104 per

disinformazione, paura del terrorismo o della criminalità urbana.

Per prima cosa società dell’informazione si intende una società che si regge su un ampio

apparato burocratico, e sulla raccolta e registrazione di dati personali.

“Modernità significa fare affidamento sull’informazione e la conoscenza, al fine di

generare e mantenere il potere. E poiché la maggior parte dell’informazione è costituita

da dati personali…”105 il modo per ottenerli è attraverso la sorveglianza. Ecco spiegato il

concetto di società dell’informazione sorvegliate.

I diversi settori in cui avviene la raccolta di dati con le nuove tecnologie si collegano l’un

l’altro. Questo secondo Lyon parte da lontano, quando le tecniche di sorveglianza per la

sicurezza di uno stato vennero adoperate anche nel contesto economico-capitalistico. Le

aziende hanno esteso le ricerche di mercato a vere e proprie raccolte di dati relative ai

consumatori, agli addetti delle proprie aziende e alle aziende concorrenti. Vi è un calcolo

del rischio secondo cui è permesso che diversi database collaborino grazie anche alla

potenza di calcolo e memoria delle nuove tecnologie per una ricerca.

Sul posto di lavoro la sorveglianza si è smaterializzata e dipende dalla rete, in quanto il

lavoratore flessibile è sempre più spesso un lavoratore ad orari elastici e dipendente dalle

nuove tecnologie. Il controllo della posta di un dipendente sul posto di lavoro è diventato

normale, quello che più stupisce è la ricerca nei database delle informazioni relative ad un

103 da “ La società sorvegliata” di David Lyon Feltrinelli editore Milano 2002 pag. 38104 da “ La società sorvegliata” di David Lyon Feltrinelli editore Milano 2002 pag. 40105 da “ La società sorvegliata” di David Lyon Feltrinelli editore Milano 2002 pag. 41

possibile dipendente una volta che viene presentato un curriculum, oppure il controllo sul

posto di lavoro attraverso telecamere o webcam attraverso le quali un datore di lavoro

anche se lontano può tenere sotto controllo l’operato del suo ufficio. Quindi telefono,

casella email, uso di internet possono essere monitorati nel nome dell’efficienza del

lavoro.

Per quanto riguarda il consumatore il discorso è più complesso. Quello a cui si rivolgono

le aziende è un mercato distinto fatto di piccole nicchie in cui il consumatore è

personalizzato. Spesso carte di credito e acquisti in rete o nei negozi lasciano una scia del

consumatore che diviene accessibile per crearne un profilo ed inserirlo in delle nicchie di

mercato.

La distanza si è sempre più affievolita i flussi comunicativi su cui viaggiano i dati si sono

allargati ad una situazione planetaria, hanno subito il processo di globalizzazione

economica; nella rete “identificare, classificare, standardizzare, ordinare e controllare

sono azioni che sintetizzano anche gli scopi degli operatori di mercato che, ora più che

mai pensano glocalmente”106 anche quando effettuiamo un accordo, un contratto o anche

quando compriamo un biglietto aereo attraverso internet.

Il database diviene la forma dell’attendibilità per le agenzie “la credibilità del

consumatore può essere misurata tramite essi”107 e l’agenzia si regola in base a questo, il

controllo sarebbe parte di tutto il complesso mediale che tende a valorizzare un’elite di

consumatori e il consumismo in se stesso rappresentato per lo più dall’accumulazione di

beni e di dati.

Per questo il database diviene una forma sociale rappresentativa, del consumismo e del

modo in cui un fruitore viene spinto a consumare di più secondo il suo profilo dato dalla

raccolta, incrocio dei suoi dati fra dati pubblici e registrazioni dirette e spesso solo le

multinazionali possono permettersi tecniche simili. In internet questo avviene per il fatto

che ogni impiego di internet è tracciabile persino per quanto tempo un utente rimane

sopra un sito.

Questo principio su cui si basa l’idea della società e del progresso non deve sembrare del

tutto negativo. I servizi alla popolazione sono progettati e forniti attraverso questo stesso

procedimento come anche l’assicurazione dei diritti. Tuttavia le si da una connotazione

negativa. Questo perché il termine “società sorvegliate” nasce negli anni ottanta da

studiosi quali Gary T Marx e David H Flaherty che ipotizzarono una maggiore

106 da “ La società sorvegliata” di David Lyon Feltrinelli editore Milano 2002 pag.138107 da “ La società sorvegliata” di David Lyon Feltrinelli editore Milano 2002 pag.126

pervasività dello stato nella vita privata del cittadino e preoccupazione verso la protezione

delle informazioni e della privacy anche da parte delle agenzie commerciali.

Certo che quando guardiamo un film come Minority Report, non possiamo non notare

come John Anderton ricercato per la previsione di un omicidio, sia rintracciato facilmente

da tutto il sistema di sorveglianza che una volta letta la retina invia le informazioni del

luogo in cui si trova e come in ogni negozio e metropolitana la pubblicità diventa

personalizzata da chiamare persino per nome il povero John. Ma siamo in un futuro

ipotetico, che Spielberg ha creato con il contributo anche di scienziati e studiosi del MIT

per renderlo più fattibile. Se ci spostiamo alla contemporaneità di un film come Nemico

Pubblico la previsione di un futuro possibile sembra già essere realtà. Il protagonista, un

"uomo che sa troppo", viene perseguitato dal National Security Agency allo scopo di

prendere le informazioni che lui possiede inconsapevolmente e neutralizzarlo. Ma non è

neanche cosciente dell’armamentario tecnologico che si mette in moto per dargli la

caccia. La sua vita diventa sorvegliata nella casa, nelle strade, nei vestiti, banche, negozi,

strade, aree di servizio, video di sorveglianza, osservato dall’alto da un satellite, vedrà

prima di capire cosa succede, eliminata la sua vita.

Esempio che condanna abusi ed invadenza attraverso la tecnologia nella vita privata ci fa

porre delle domande legittime; quanto la nostra vita quotidiana è lontana?

La società in un database: il weblog.

Da qualche anno a questa parte sia tra i surfers più accaniti, tra programmatori e web

designer, ma anche tra chi mastica poco di informatica ma usa Internet regolarmente, è

scoppiato il fenomeno del weblog. Il genere, se di genere si può parlare, sta evolvendo

velocemente e la sua definizione è ancora sottoposta a discussioni tra chi lo definisce

diario di bordo o introspettivo, chi una prova di libero giornalismo, chi un’evoluzione

dello stesso principio delle newsgroup o delle community con forma diversa. Quando i

primi patiti del computer iniziarono a capire la complessità e la potenzialità di internet

nella metà degli anni novanta erano in pochi quasi interdetti di fronte alla mole di notizie

allarmistiche che i media proponevano ad ogni cambiamento o piccolo passo avanti visto

come una rivoluzione. Accanto a teorie di un certo peso come quelle di Pierre Levy e

Derrick De Kerckhove si iniziò a parlare di cyberspazio dovuto anche al romanzo del

1984 di Gibson Neuromancer e molti entusiasti preconizzavano un futuro pregnante di

tecnologia in ogni aspetto della vita mentre molti altri un po’ più scettici erano

preoccupati dalla potenza della tecnologia in grado di surclassare ogni aspetto umano.

Parlare della rete era quindi complicato sia per una non conoscenza dell’argomento, sia

per la velocità con cui avvenivano i cambiamenti, sia perché i media molto spesso

filtravano notizie negative non supportate da spiegazione sufficiente. Anche i weblog

quindi hanno sofferto di questi fraintendimenti.

Prima di tutto si deve ripercorrere un po’ di storia del blog nel web.

Giuseppe Granieri in Blog generation definisce il primo weblog come la prima pagina

web concepita da Tim Bernes-Lee in cui vi era una raccolta di pagine di rete con gli

ultimi aggiornamenti in cima. Questo fu l’esempio per “What’s new page” della Netscape

che svolgeva lo stesso compito. Più avanti con l' esplosione del web, apparvero molti altri

weblogs. Tra i primi weblog ricordiamo “Scripting News” di Dave Winer, “Slashdot” di

Rob Malda che è sempre stato uno dei riferimenti maggiori perché popolare soprattutto

tra i primi nerd che si confrontavano su argomenti legati alla tecnologia e alla

programmazione, e “CamWorld” di Cameron Barrett in cui l’autore nell’ultimo post

scrive per l’appunto sull’essenza e la storia del suo blog che quest’anno compie dieci

anni. “ Come vedi, CamWorld parla di me. Parla di chi sono io, cosa conosco, e cosa

penso. […] CamWorld è un esperimento nell’espressione del proprio io. E l’esperimento

non è finito. […] Weblogs comunque sono disegnati per il pubblico. Hanno una voce.

Hanno una personalità. Semplicemente sono un’estensione interattiva di chi sei.”108

Il gusto personale dell’autore ha sempre condizionato commenti e scelta di collegamenti

che hanno permesso la creazione di una fetta considerevole di pubblico attorno ad alcuni

siti che sono diventati popolari proprio per il gusto personale dell’autore che molto spesso

aveva creato quella pagina senza prospettarne l’importanza ma solo per avere ciò che

avrebbe voluto vedere o leggere nel web.

Il boom dei blog agli inizi del Duemila si ebbe quando programmatori e web designer

lanciarono delle piattaforme che offrivano questo servizio ( Blogger, Edit This Page)

anche a chi non aveva delle conoscenze informatiche approfondite. Verso il Duemila si

contarono almeno mezzo milione di blog in cui le conversazioni tra utenti e i link ad altri

blog divennero i principali elementi. In seguito si vide l’approdo di professionisti

dell’informazione che usano il blog per approfondire il loro lavoro, o giornalisti che

tentano un’informazione alternativa e politici che cercano una maggiore visibilità o un

confronto con gli elettori.

Ma cos’è un weblog? Al momento c'è un generale consenso su alcuni elementi comuni

che caratterizzano un weblog. Gli elementi condivisi sono principalmente: la personalità

dell’autore che si riflette nell’architettura del sito e nei commenti di cui ha responsabilità;

i link a contenuti extra o all’interno del sito stesso, e ad altri blog; l’archiviazione dei

contenuti che non sono più in prima pagina; l’aggiornamento continuo che pone gli ultimi

interventi in cima.

Come scrive Granieri essendo figli della rete, i weblogs non sono una cosa

completamente nuova: “osservati da un punto di vista meramente strumentale, sono solo

il modello più semplice di sistema per la gestione dei contenuti. […] lo schema di una

piattaforma base per blogging, potrebbe ridursi ad un modulo per l’inserimento dei testi

in un database e ad un modulo di output che li estrae e li visualizza in una pagina web.” 109

Quindi sarebbe difficile definire tutti i blog dal loro contenuto, in primo luogo possiamo

considerarli un database di testi o come accade più spesso di oggetti multimediali di un

108 “You see, CamWorld is about me. It's about who I am, what I know, and what I think [...]CamWorld is an experiment in self-expression. And that experiment is not over. [...] Weblogs, however, are designed for an audience. They have a voice. They have a personality. Simply put, they are an interactive extension of who you are.”da http://www.camworld.com109 da “Blog Generation” di Giuseppe Granieri Gius. Laterza & Figli prima edizione Roma 2005 pag.25

blogger che suddivide il blog stesso in sezioni tematiche, molto raramente un blog segue

una linea redazionale unica.

Sono stati considerati dei diari personali anche dall’etimologia inglese log ovvero diario.

Battezzati diario di bordo, poi diario intimo o intellettuale, per lo più ciò che viene scritto

è si la propria esperienza, ma più in generale ciò che qualcuno ha semplicemente da dire.

Per Granieri essi non sono giornalismo, anche se chi scrive è accreditato all’Ordine dei

giornalisti e neanche un genere letterario, anche se raccontano storie: “ I weblogs in fondo

sono l’approdo più semplice e naturale per tutti i materiali destinati alla condivisione e

alla pubblicazione, […] interagendo con facilità con altri strumenti della nostra vita

quotidiana, come i telefonini cellulari e le macchine fotografiche digitali, ad esempio.”110

Dello stesso parere sembra essere anche Rebecca Blood che firma l’introduzione a We’ve

got blog una raccolta di interventi di scrittori del web che hanno espresso la loro idea

sull’argomento: “ un weblog è definito, questi giorni, dal suo formato: una pagina

aggiornata continuamente con la data di pubblicazione e i commenti situati all’inizio, ma

questo ti dirà tutto quello che hai bisogno di sapere.”111

Il motto diventa “ Linka con commenti, aggiorna frequentemente” visto che derivano dal

Web la loro espressione e moltiplicazione dipende dai link.

Questo porta a pensare ai blog come una narrazione in se stessa ma che si pone all’interno

di una più vasta traiettoria narrativa propria della rete e del database; “il risultato è che

nessuno legge un solo weblog, poiché si tratta di un solo nodo in un’opera collettiva e

ipertestuale che tende a configurarsi come un sistema di contenuti”112.

Chi scrive trova l’opportunità di rendere pubblico ciò che scrive se si sente uno scrittore,

e chi legge oltre a trovare ciò che gli interessa o dei consigli anche per questioni

lavorative, è comunque affascinato dalle idee, e dai punti di vista altrui. La possibilità di

avere sempre più informazioni è data dalla disponibilità di link che il sito offre.

Derek M. Powazek in un “opinione personale” scrive sempre in We’ve got blog: “Sono

pieni di link. Sono anche pieni di vita. Guarda Tom che ci racconta sulla sua relazione

amorosa o Jack ci racconta le sue storie. Sono gente reale che mette online le sue vite.

Diario. Weblog. Blah. Puoi chiamarlo come vuoi. Solo continua a farlo.”113

110 da “Blog Generation” di Giuseppe Granieri Gius. Laterza & Figli prima edizione Roma 2005 pag.29111 “a weblog is defined, these days by its format: a frequently updated webpages with dated entries, new ones placed on the top—but that won’t tell you everything you need to know.” da “ We’ve got blog” A.A.V.V. introduzione di Rebecca Blood pag. ix112 da “Blog Generation” di Giuseppe Granieri Gius. Laterza & Figli prima edizione Roma 2005 pag. 37113 “ They’re of full of link. They’re also full of lives. Look at Tom tell us about his love life, or jack tells his stories. these are real people, putting their lives online. Diary. Weblog. Portal. Blah. You can call it

Sempre la connessione e la visibilità attraverso i link contribuiscono a promuovere un

weblog da un altro, a renderlo più visibile e popolare. La paura per molti è sempre stata

come si può discernere qualcosa di buono e qualitativo se ognuno può pubblicare

qualsiasi cosa sullo stesso piano. Oramai pochi utenti non hanno il proprio spazio con un

blog o un vero e proprio weblog tematico, sul cinema, sulla politica ecc…ma come si può

differenziare quello che vale da quello che rimane chiuso ad un circolo di amici?

In internet, data l’architettura orizzontale e la tendenza democratica, per i weblog vige la

regola meritocratica; ovvero un weblog emerge dal numero di link che un weblog

possiede e da quanti lo inseriscono nel proprio. La selezione dei contenuti avviene dai

lettori che possono contestare immediatamente ricevendo una risposta e creando così una

grande conversazione attraverso la quale intessere anche rapporti d’amicizia o comunque

di conoscenza.

Un weblog non ha quasi mai intenti commerciali, l’economia dei link è considerata

l’unica moneta. Quindi nei weblog si trovano contenuti di qualità nonostante l’assenza di

controllo centrale grazie al continuo processo di revisione della comunità, che avviene

dopo la pubblicazione e perché contributi buoni possono essere pubblicati, letti e citati

senza correre il rischio di essere ammassati indistintamente con contenuti di minore

qualità.

In questo caso è la gente che decreta il successo di un blog, la sua visibilità, il suo valore.

Un bell’esempio di democrazia.

whatever you want. just don’t stop doing it.” da “ We’ve got blog” A.A.V.V. pag. 6 di Drek M. Powazeck