il guardiano della misericordia

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Terence Ward Il Guardiano della Misericordia Un’esistenza travagliata che un capolavoro del Caravaggio trasforma in sublime esperienza Prefazione di Marco Rossi-Doria Traduzione dall’inglese di Margherita Bracci Testasecca MISERICORDIA-8apr.indd 3 08/04/16 11.55

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Meraviglia dell’arte italiana, la pala d’altare con cui il Caravaggio si inchina alla solidarietà umana offre a chi la osserva un innovativo punto di vista sulle opere di misericordia, pietra fondante di qualsiasi fede. Attraverso lo sguardo del fiero custode del prezioso dipinto, si snoda il viaggio insolito di Terence Ward nelle Sette Opere di Misericordia. In questo capolavoro è contenuto un messaggio visionario. Traboccante di suspense, colore e contrasti, la narrazione si avventura – seguendo il Caravaggio – attraverso il succedersi di gesti come l’offerta di cibo a chi ha fame, di acqua a chi ha sete, di vesti a chi ne è privo, di un tetto a chi non lo ha, di cure a chi è infermo, di attenzione a chi si trova in prigione e di sepoltura a chi muore. Con disinvoltura il narratore si sposta in verticale tra gli strati sociali di Napoli e tra passato e presente, passando dai circoli aristocratici ai quartieri popolari nel mondo del custode.

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Page 1: Il Guardiano della Misericordia

Terence Ward

Il Guardiano della MisericordiaUn’esistenza travagliata che un capolavoro

del Caravaggio trasforma in sublime esperienza

Prefazione di Marco Rossi-Doria

Traduzione dall’inglese di Margherita Bracci Testasecca

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Prefazione

Persone comuni che si aiutano l’una con l’altradi Marco Rossi-Doria

Un quadro – le Sette opere di Misericordia – che il Caravaggio dipinse nell’inverno tra il 1606 e il 1607. Un uomo del nostro tem-po, Angelo, custode del dipinto. E Napoli, allora e ora.

Sono questi i tre protagonisti scelti da Terence Ward per tessere la sua scrittura.

Il filo della narrazione avvicina il primo e il secondo protago-nista e svela il legame che unisce profondamente il capolavoro di Caravaggio all’uomo che siede a custodirlo aiutandolo ad attraver-sare il buio che gli imprigiona il cuore e ad affrontare la fatica di cercare una via di luce.

Ma è Napoli la scena scelta per ridestare i nostri pensieri sulla Misericordia. La quale ci interroga su come stare al mondo, in modo radicale – nel tempo del Vicereame e ancora oggi.

Dal giorno di gennaio del 1607 quando la tela fu esposta la prima volta, se, nel cuore di Napoli, si entra nella cappella del Pio Monte della Misericordia e si guarda il meraviglioso quadro che è lì da quando fu dipinto, è la luce incredibile che, non si sa come, viene dai visi, dai corpi e dalle mani delle persone che popolano la scena, a illuminare ogni cosa e a interrompere l’oscurità del mon-do. Ed è immediatamente evidente che sono corpi, mani e visi di personaggi – privi di potere, ognuno con una storia o con un mito da raccontare – che sono solidali, che vengono in aiuto del

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loro prossimo. E, parimenti, la Madonna e il Bambino, insieme agli angeli scendono anche essi, attraversando ogni confine, an-che quello tra divino e umano, per avvicinarsi alle semplici opere del buon vivere, nella città senza ripari e afflitta da fame, sete, prigionia, morte, freddo, malattia. «Persone comuni che si aiutano l’una con l’altra»1.

Se si entra oggi nella cappella del Pio Monte e si guardano le Sette opere di Misericordia, il pensiero va agli abitanti delle isole di Lampedusa o di Lesbos e ai cittadini dei borghi che danno cibo e vestiario oltre i muri e i fili spinati che – contro gli odierni potenti e lontano dai troppi, tremendi e insensati egoismi – aiutano le don-ne, gli uomini, i bambini in fuga dalle avversità del nostro tempo.

È la solidarietà umana, l’incontrare l’altro da sé, che fa la dif-ferenza tra buio e luce. Aiutarsi l’un l’altro, da pari a pari, nella prossimità concreta intorno alle cose da fare – le opere – può in-terrompere le tenebre, oggi come ne Le Sette Opere di Misericordia.

I sette benefattori che fondarono il Pio Monte dopo essere scampati a una tempesta improvvisa sul mare del golfo, si erano al-lontanati dai modi della loro classe sociale e avevano iniziato a fre-quentare e conoscere le quotidiane traversie dei poveri di Napoli. Essi, perciò, chiesero al maestro di mostrare – a una città tremen-damente immiserita e con una nobiltà che, per lo più «viveva nel fasto e nell’ozio, quasi sempre illetterato e teneva i pubblici uffici soltanto come fonte di reddito o come soddisfazione di vanità e spregiava ogni sorta di lavoro»2 – non solo l’imperativo dichiarato ma la concreta possibilità di portare soccorso solidale.

1. «It’s about simple people helping one another» (Terence Ward, The Guardian of Mercy: p. 31, Arcade Publishing, New York 2016). È così che Angelo, il custode comu-nale protagonista, il “Guardiano della Misericordia” dice dei personaggi della tela del Caravaggio.

2. Gino Doria, L’Età viceregnale – II, in Storia di una capitale, Riccardo Ricciardi, Napoli 1964, pp. 171-72, IV edizione.

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Non fu una richiesta semplice. Tutt’altro. Il richiamo alla soli-darietà, infatti, non si traduceva – né allora né dopo – in una pra-tica diffusa da parte di coloro che possedevano i mezzi per farla; e spesso «i ricchi proprietari, commercianti, magistrati e avvocati, ma anche gli speculatori legati all’aristocrazia da vincoli di paren-tela, rifiutarono la propria solidarietà con ‘la gente del popolo’»3.

E, tuttavia, fu questo il mandato ricevuto da Caravaggio. E, allora, egli – per riuscire a mettere su tela l’imperativo e il messag-gio visionario della Misericordia – prese a modello per il dipinto coloro che la facevano con i propri pari, popolo con popolo; e dipinse i volti della città che lo aveva accolto rifugiato, fuggiasco. Erano lì, abitavano insieme a lui le strade affamate e appestate eppure operose, i cortili, i vicoli e non i piani nobili dei palazzi. Come scrisse, a proposito del dipinto, Roberto Longhi: «La ca-mera scura è trovata all’imbrunire, in un quadrivio napoletano sotto il volo degli angeli lazzari che fanno la “voltatella” all’altezza dei primi piani, nello sgocciolio delle lenzuola lavate alla peggio e sventolanti a festone sotto la finestra da cui ora si affaccia una “nostra donna col bambino”, belli entrambi come un Raffaello “senza seggiola” perché ripresi dalla verità nuda di Forcella o di Pizzofalcone»4.

Chi custodisce la misericordia, chi è a presidio della solida-rietà? Il tema attraversa tutto il libro di Terence Ward, al di là del dipinto e del racconto del suo guardiano.

Chi opera, chi fa le opere di misericordia è – nella storia – il custode delle stesse. E questo avviene spesso tra pari. Tanto che Terence Ward rintraccia, nei messaggi imperativi delle diver-se religioni e culture umane da Oriente a Occidente, un’unica

3. Antonio Ghirelli, Storia di Napoli, Einaudi, Torino 1973, p. 48.4. Roberto Longhi, Caravaggio (1952), in Opere complete, Studi Caravaggeschi,

Sansoni, Firenze 2000.

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antropologia, differenziata eppure globale – la philoxenia dei greci, operosa nel nostro mare comune e già nella Napoli antica – che richiama la Misericordia come un santuario universale che è dentro di noi5.

A volte – come nel caso qui narrato – la storia di una minoran-za dell’aristocrazia o, poi, di una parte della borghesia fu anche storia di autentici custodi di Misericordia e, dunque, di incontro tra persone di classi sociali diverse e di messa in discussione de-gli assetti di potere. Molte altre volte furono le classi popolari in rivolta e poi organizzate intorno al pensiero dell’eguaglianza ad aprire la via per l’affermazione del diritto uguale e di un vero cambiamento di prospettiva. Che toglie la prerogativa del gesto solidale all’arbitrio del potere pietoso, al richiamo religioso e alla scelta degli individui e lo pone sul piano della giustizia civile, a fondamento della legge comune.

E, così, nel nostro mondo le cose sono cambiate. Oggi il welfare è parte dei compiti inalienabili dello stato. Che deve so-stenere chi ha bisogno fondando il proprio operare sul manda-to generale che gli deriva, appunto, dagli uguali diritti tra tutti i cittadini che è sancito dalla Costituzione. E, perciò, la nostra Carta non solo lo dichiara come fondamento del patto comune ma chiama la Repubblica a «rimuovere gli ostacoli di ordine eco-nomico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese»6.

Eppure la Misericordia continua a vivere nella costruzio-ne sociale ogni giorno, a fianco del dettato politico che deriva dal patto costituzionale che è alla radice della nostra convivenza civile. A volte come azione sussidiaria al welfare o per sostenerne

5. Terence Ward, The Guardian of Mercy cit., pp. 63-64.6. Costituzione della Repubblica italiana, art. 3.

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i compiti attraverso un’azione propositiva indipendente pensata per innovarlo o migliorarlo. A volte in posizione penosamente sostitutiva dell’azione incompleta dello stato, azione svolta male o infragilita da scelte politiche miopi o da nuovi egoismi e rendite di posizione. Ma ancor più spesso, la Misericordia si concretizza come semplice, diretta, quotidiana solidarietà fraterna tra pari – la fraternité – una presenza che si ripete nei secoli, quasi miracolosa-mente, come gesto umano verso il proprio simile, nei mille e mille modi che sempre ci furono, ispirati o meno da imperativi religiosi o etici. E che nessun egoismo o potere riesce a distruggere.

Terence Ward sceglie Napoli per mostrare tutto questo, nelle ombre e nelle luci di una città antica e complessa e di un dipinto profetico.

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