il linguaggio delle immagini. contributi della linguistica

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305 Preistoria Alpina, 46 I (2012): 305-312 1. PREMESSA La tendenza egemone negli studi d’archeologia preistorica in Italia, ma non solo in Italia, di questi ultimi decenni è caratterizzata da un sostanziale abbandono dei paradigmi interpretativi in nome di un’indagine descrittivo- classificatoria dei reperti, certamente attenta alla ricostru- zione del loro paleocontesto naturale, ma pessimista circa le possibilità di individuarne il significato intenzionale. È una tendenza comprensibile che trova diverse giustificazio- ni. Da una parte, recenti scoperte di fondamentale impor- tanza - pensiamo soltanto al singolare bestiario aurignazia- no e allo stile figurativo della Grotta Chauvet (Ardèche) o agli ornitomorfi della Grotta Cussac (Dordogna) - hanno inferto un duro colpo alle interpretazioni “forti” del secolo scorso, dalla magia della caccia e della fecondità di Rei- nach e di Breuil al dualismo sessuale di Leroi-Gourhan. Dall’altra, il notevole sviluppo delle indagini di laborato- rio (avanzati criteri di datazione assoluta (radiocarbonio AMS), diagrammi pollinici, ecc.) e dei sistemi informatiz- zati (archiviazione alfanumerica, georeferenziazione, ecc.) hanno acquisito alla ricerca dati non solo rilevanti, ma an- che certi e condivisi, evidenziando ancora di più, per diffe- rentiam, il carattere sempre argomentativo e congetturale e mai dimostrativo e unanime dei quadri interpretativi. Vi è poi una considerazione d’ordine più generale. Le evidenze archeologiche della preistoria, in alcuni casi splendide sul piano artistico, sono opache sul piano semantico. Parafra- sando Nietzsche, potremmo dire che sono divenute per noi come quelle monete di cui si è consumata l’immagine e che vengono prese in considerazione soltanto come metalli avendo perso il loro valore di scambio. In questo caso di scambio simbolico. L’assenza della scrittura compromette in modo sostanziale la nostra capacità di ricostruzione del vissuto delle origini. Potremmo, tutt’al più, affermare - in negativo - che l’arte preistorica non è riconducibile all’oriz- zonte estetico moderno, legato al piacere della fruizione e al gusto. Basti solo pensare alla scelta dei luoghi sottratti alla frequentazione quotidiana delle pitture parietali. Anche l’idea, espressa alla fine dell’Ottocento dai primi studiosi delle grotte istoriate, della presenza nell’uomo di un impul- so creativo autoreferenziale (l’arte per l’arte) non sembra avere il carattere universale di una specificità antropologi- ca, ma quello di un’esportazione arbitraria della forma men- tis del presente nel passato. Ora, se non abbiamo elementi che ci consentano di comprendere la mentalità delle origini, possiamo però affermare che, dal punto di vista anatomico, l’uomo della preistoria - a partire dal Paleolitico superio- ISSN 0393-0157 © Museo delle Scienze, Trento 2012 Il linguaggio delle immagini. Contributi della linguistica e delle neuroscienze alla comprensione dell’arte delle origini Gabriella BRUSA-ZAPPELLINI Già docente universitaria di Estetica e Storia dell’Arte, Associazione Lombarda Archeologica, Via Terraggio 1, 20123 Milano, Italia. E-mail dell’Autore per la corrispondenza: [email protected] RIASSUNTO - Il linguaggio delle immagini. Contributi della linguistica e delle neuroscienze alla comprensione dell’arte delle ori- gini - L’arte paleolitica delle grotte ornate presenta, accanto a zoomorfi naturalistici, immagini fantastiche e segni aniconici che non trovano riscontro nella percezione della realtà sensibile. Si tratta di un fenomeno globale riscontrabile anche nell’arte rupestre tribale. Da dove vengono queste particolari forme dell’immaginario? Questo contributo esamina i processi logici che presiedono le dinamiche della creatività figurativa a partire dalla ipotesi avanzata nel 1988 da D. Lewis-Williams e T.A. Dowson che alcuni segni aniconici paleolitici siano la “restituzione grafica” di apparizioni allucinate, riconducibile a pratiche rituali di carattere sciamanico. In particolare, vengono qui valutati gli apporti che la linguistica post-saussuriana e le neuroscienze potrebbero fornire alla interpretazione delle figure ibride e dei segni geometrizzanti dell’arte visiva delle origini. SUMMARY - The language of images. Linguistics and neurosciences contributions to the comprehension of the origins of art - The visual art of Paleolithic caves besides naturalistic zoomorphics presents fantastic figures and aniconic signs that are detached from the perception of sensible reality. This global phenomenon is also traceable in tribal rock art. Where do these distinctive imaginary shapes come from? This contribution investigates the logical processes that govern the dynamics of figurative flair starting from D. Lewis-Williams and T.A. Dowson’s hypothesis advanced in 1988, which sustains that some of the aniconic signs may be the “graphic rendering” of hallucinatory ap- paritions, amenable to ritual shamanic practices. Particular interest is aimed in evaluating the inputs that post-saussure linguistics and neu- rosciences could provide for the interpretation of anthropo-zoomorphic figures and geometrical patterns of visual art right from its origins. Parole chiave: Arte preistorica, arte schematica, linguistica, neuroscienze Key words: Prehistoric Art, schematic art, linguistics, neuroscience XLII Riunione scientifica dell’I.I.P.P. L’arte preistorica in Italia. Trento, Riva del Garda, Val Camonica, 9-13 ottobre 2007

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305Preistoria Alpina, 46 I (2012): 305-312

1. Premessa

La tendenza egemone negli studi d’archeologia preistorica in Italia, ma non solo in Italia, di questi ultimi decenni è caratterizzata da un sostanziale abbandono dei paradigmi interpretativi in nome di un’indagine descrittivo-classificatoria dei reperti, certamente attenta alla ricostru-zione del loro paleocontesto naturale, ma pessimista circa le possibilità di individuarne il significato intenzionale. È una tendenza comprensibile che trova diverse giustificazio-ni. Da una parte, recenti scoperte di fondamentale impor-tanza - pensiamo soltanto al singolare bestiario aurignazia-no e allo stile figurativo della Grotta Chauvet (Ardèche) o agli ornitomorfi della Grotta Cussac (Dordogna) - hanno inferto un duro colpo alle interpretazioni “forti” del secolo scorso, dalla magia della caccia e della fecondità di rei-nach e di Breuil al dualismo sessuale di Leroi-Gourhan. Dall’altra, il notevole sviluppo delle indagini di laborato-rio (avanzati criteri di datazione assoluta (radiocarbonio ams), diagrammi pollinici, ecc.) e dei sistemi informatiz-zati (archiviazione alfanumerica, georeferenziazione, ecc.) hanno acquisito alla ricerca dati non solo rilevanti, ma an-che certi e condivisi, evidenziando ancora di più, per diffe-rentiam, il carattere sempre argomentativo e congetturale e

mai dimostrativo e unanime dei quadri interpretativi. Vi è poi una considerazione d’ordine più generale. Le evidenze archeologiche della preistoria, in alcuni casi splendide sul piano artistico, sono opache sul piano semantico. Parafra-sando Nietzsche, potremmo dire che sono divenute per noi come quelle monete di cui si è consumata l’immagine e che vengono prese in considerazione soltanto come metalli avendo perso il loro valore di scambio. In questo caso di scambio simbolico. L’assenza della scrittura compromette in modo sostanziale la nostra capacità di ricostruzione del vissuto delle origini. Potremmo, tutt’al più, affermare - in negativo - che l’arte preistorica non è riconducibile all’oriz-zonte estetico moderno, legato al piacere della fruizione e al gusto. Basti solo pensare alla scelta dei luoghi sottratti alla frequentazione quotidiana delle pitture parietali. anche l’idea, espressa alla fine dell’Ottocento dai primi studiosi delle grotte istoriate, della presenza nell’uomo di un impul-so creativo autoreferenziale (l’arte per l’arte) non sembra avere il carattere universale di una specificità antropologi-ca, ma quello di un’esportazione arbitraria della forma men-tis del presente nel passato. Ora, se non abbiamo elementi che ci consentano di comprendere la mentalità delle origini, possiamo però affermare che, dal punto di vista anatomico, l’uomo della preistoria - a partire dal Paleolitico superio-

IssN 0393-0157© museo delle scienze, Trento 2012

Il linguaggio delle immagini. Contributi della linguistica e delle neuroscienze alla comprensione dell’arte delle origini

Gabriella BRUSA-ZAPPELLINI

Già docente universitaria di Estetica e Storia dell’Arte, Associazione Lombarda Archeologica, Via Terraggio 1, 20123 milano, Italia. e-mail dell’autore per la corrispondenza: [email protected]

RIASSUNTO - Il linguaggio delle immagini. Contributi della linguistica e delle neuroscienze alla comprensione dell’arte delle ori-gini - L’arte paleolitica delle grotte ornate presenta, accanto a zoomorfi naturalistici, immagini fantastiche e segni aniconici che non trovano riscontro nella percezione della realtà sensibile. si tratta di un fenomeno globale riscontrabile anche nell’arte rupestre tribale. Da dove vengono queste particolari forme dell’immaginario? Questo contributo esamina i processi logici che presiedono le dinamiche della creatività figurativa a partire dalla ipotesi avanzata nel 1988 da D. Lewis-Williams e T.A. Dowson che alcuni segni aniconici paleolitici siano la “restituzione grafica” di apparizioni allucinate, riconducibile a pratiche rituali di carattere sciamanico. In particolare, vengono qui valutati gli apporti che la linguistica post-saussuriana e le neuroscienze potrebbero fornire alla interpretazione delle figure ibride e dei segni geometrizzanti dell’arte visiva delle origini.

sUmmarY - The language of images. Linguistics and neurosciences contributions to the comprehension of the origins of art - The visual art of Paleolithic caves besides naturalistic zoomorphics presents fantastic figures and aniconic signs that are detached from the perception of sensible reality. This global phenomenon is also traceable in tribal rock art. Where do these distinctive imaginary shapes come from? This contribution investigates the logical processes that govern the dynamics of figurative flair starting from D. Lewis-Williams and T.A. Dowson’s hypothesis advanced in 1988, which sustains that some of the aniconic signs may be the “graphic rendering” of hallucinatory ap-paritions, amenable to ritual shamanic practices. Particular interest is aimed in evaluating the inputs that post-saussure linguistics and neu-rosciences could provide for the interpretation of anthropo-zoomorphic figures and geometrical patterns of visual art right from its origins.

Parole chiave: arte preistorica, arte schematica, linguistica, neuroscienzeKey words: Prehistoric art, schematic art, linguistics, neuroscience

XLII Riunione scientifica dell’I.I.P.P. L’arte preistorica in Italia. Trento, Riva del Garda, Val Camonica, 9-13 ottobre 2007

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re - è un uomo moderno. Questo significa che sul piano dei processi cognitivi e delle strutture che organizzano la percezione e le connessioni logiche del linguaggio, le sue aree cerebrali funzionavano esattamente come le nostre. si tratta di una considerazione non irrilevante, già ampiamen-te sottolineata da Colin Renfrew e dall’archeologia cogniti-va, che potrebbe offrire un ponte neurologico insperato per l’accesso ad alcune manifestazioni dei primordi. Quali in particolare? L’arte paleolitica delle grotte e dei ripari sotto roccia presenta, com’è noto, accanto a zoomorfi naturalisti-ci, immagini fantastiche e segni aniconici che non trovano riscontro nella percezione della realtà sensibile. si tratta di un fenomeno globale riscontrabile anche nell’arte rupestre tribale. Da dove vengono queste forme dell’immaginario? e quale statuto metodologico può far valere un’indagine volta a coglierne il significato?

2. MORfOGENESI DEI SEGNI ANICONICI

Sul finire degli anni Ottanta del secolo scorso, J.D. Lewis-Williams e T.A. Dowson pubblicavano su “Current anthropology”, la prestigiosa rivista americana fondata da sol Tax nel 1957, un breve studio, The Signs of All Times. Entoptic Phenomena in Upper Paleolithic (Lewis-Wil-liams & Dowson 1988) destinato, fra infinite polemiche, ad

aprire un nuovo orizzonte interpretativo. Gli autori, ripren-dendo i risultati delle sperimentazioni condotte in ambito neurologico sulle distorsioni visive, avanzavano l’ipotesi che alcuni segni aniconici dell’arte paleolitica fossero la “restituzione grafica” dei fosfeni, cioè delle apparizioni lu-minose (zig-zag, punti, reticolati, ecc.), imputabili alla de-stabilizzazione del sistema ottico, che insorgono negli stati alterati di coscienza riconducibili, nelle culture arcaiche, a pratiche rituali di carattere sciamanico. ma qual è propria-mente la natura di queste emergenze visive del tutto indi-pendenti da stimolazioni esterne? se escludiamo gli esperi-menti pionieristici del fisiologo boemo Joannes di Purkinje agli inizi dell’Ottocento, il primo a occuparsene in maniera sistematica è il neurologo tedesco Heinrich Klüver che av-via nel 1926 in America, presso l’Università di Chicago, una serie di sperimentazioni su se stesso utilizzando come sostanza psicotropa la mescalina (Klüver 1926). Nei primi stadi dell’intossicazione, Klüver registra l’apparizione - quasi una sorta di proiezione filmica allucinata - di bagliori geometrizzanti, ripetitivi e ricorrenti, e ne fornisce un elen-co dettagliato secondo quattro modelli di base: 1) reticoli, filigrane, alveari e scacchiere; 2) reti e ragnatele; 3) galle-rie, imbuti e coni; 4) spirali e forme a vortice. Queste speri-mentazioni trovano conferma in un’indagine a largo raggio condotta presso la Technische Hochschule di monaco negli anni Cinquanta da Max Knoll su oltre mille volontari sot-

fig. 1 - Modelli fosfenici secondo Max Koll.Fig. 1 - Entoptic Patterns by Max Koll.

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toposti a un test di laboratorio (Knoll & Kugler 1956). In questo caso, i fenomeni entottici (15 categorie costanti di forme) non sono indotti dall’assunzione di sostanze alluci-nogene, ma da una leggera stimolazione elettrica della re-tina del tutto priva di effetti collaterali nocivi (fig. 1). Ora, queste ricerche, finalizzate per lo più a scopi farmacologici e terapeutici, a metà degli anni settanta, iniziano a uscire dall’ambito strettamente clinico e a sollevare un interesse più vasto. Uno dei massimi studiosi delle culture amazzo-niche, l’antropologo d’origine austriaca Gerardo Reichel-Dolmatoff rileva notevoli corrispondenze fra le decorazio-ni geometriche degli indios Tucano e le forme fosfeniche individuate da Klüver e da Knoll. “Queste corrispondenze - scrive - sono troppo precise per essere puramente casuali” (fig. 2). È in questo clima che matura il paradigma scia-manico-neurologico di The Signs of All Times, un saggio dirompente e provocatorio fin dal titolo che lancia la sfida di una chiave universale di lettura dei segni ricorrenti del-la preistoria in grado di superare distanze spazio-temporali abissali, risolvendo l’enigma sia delle figure chimeriche sia di alcune forme aniconiche dell’arte di “tutti i tempi”. Il primo banco di prova della nuova ipotesi è costituito dalle pitture rupestri dei boscimani san delle montagne del Dra-kensberg. Si tratta di raffigurazioni surreali, emerse dalla creatività di una cultura di caccia e raccolta presente in sud Africa fin dai tempi più remoti e oggi pressoché scomparsa, ma di cui possediamo uno straordinario corpus mitologico. Nei dipinti, che rappresentano scene rituali e di danza, i se-gni aniconici si mescolano con le immagini figurative dan-do vita a curiose metamorfosi: presentificazioni dei grandi esseri fantastici, per lo più antropo-zoomorfi, che popolano l’immaginario visivo e mitologico dei viaggi extracorporei degli sciamani san nel regno degli spiriti e dei defunti. La genesi dei segni aniconici che accompagnano le figurazioni viene individuata nei fosfeni apparsi nello stato di trance

stimolato dalle danze rituali secondo sei modelli di forme: 1) griglie e reticoli; 2) linee parallele; 3) punti e macchie; 4) segmenti e zig-zag; 5) motivi curvilinei; 6) filigrane e me-andri. Queste tipologie trovano un sorprendente riscontro nell’iconografia di una cultura molto lontana nello spazio e senza alcun raccordo diretto con il Drakensberg, quella americana dei Shoshoni-coso del Gran Bacino della Cali-fornia. anche in questo caso, l’indagine è sostenuta da un ampio corpus mitologico che rimanda a una società triba-le di carattere sciamanico. fin qui, al di là della datazione molto alta di alcune pitture sudafricane, ci muoviamo in un contesto sostanzialmente etnologico, sostenuto da riscontri narratologici relativamente recenti. Ora, è possibile espor-tare questo paradigma nell’arte del Paleolitico superiore europeo? Dalla collaborazione di David Lewis-Williams e Jean Clottes nasce nel 1996 un testo fondamentale Les chamanes de la préhistoire che va esplicitamente in questa direzione (Lewis-Williams & Clottes 1996). L’estensio-ne del paradigma sciamanico alla preistoria europea non segue, in questo caso, la strada del comparativismo etno-grafico - già ampiamente criticata da Leroi-Gourhan - ma quella dell’individuazione di un denominatore comune di carattere universale: alcuni segni astratti delle grotte ornate e dei ripari sarebbero la restituzione grafica di un fenome-no ottico di disfunzionamento della neocorteccia connesso a fattori neurofisiologici del tutto indipendenti dalle spe-cifiche forme di cultura delle diverse società (Bressloff & Cowan 2003). Le figure geometrizzanti, che non trovano riscontro nella realtà sensibile “esterna”, sono indubbia-mente fra le più enigmatiche di tutta l’arte preistorica. sulla loro emergenza e sul loro significato sono state avanzate ipotesi diverse. Già agli inizi del Novecento, sia l’estetica che la critica d’arte si erano interrogate sulle ragioni delle propensioni stilistiche verso la riproduzione fedele della realtà sensibile o verso forme non figurative, inorganiche

fig. 2 - Decorazioni geometriche degli indios Tucano (da Reichel-Dolmatoff 1978).Fig. 2 - Geometric decorations - Indians Tucano (by Reichel-Dolmatoff 1978).

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e sintetiche. In un breve e fortunato saggio del 1908, Ab-straktion und Einfühlung, Wilhelm Worringer aveva soste-nuto che i segni geometrizzanti precedono nel tempo le raf-figurazioni naturalistiche (Worringer 1908). Nell’astrazio-ne si esprime la volontà dell’uomo primitivo di una presa di distanza dalla natura avvertita come ostile e strapotente. Nell’armonia geometrica e cristallina delle forme pure e regolari l’animo selvaggio, turbato dalla presenza di una realtà esterna caotica e ingovernabile, poteva trovare un rifugio e una rassicurazione compensativa. solo in un se-condo momento, un’umanità ormai capace di tenere a bada il mondo, avrebbe potuto lasciarsi andare a quel sentimento d’immedesimazione che caratterizza gli “stili realistici”, in una felice consonanza con le forme naturali. Oggi, alla luce delle effettive evidenze archeologiche, questa priorità dei

segni aniconici non è più sostenibile. Il testo di Worringer ha comunque il merito di aver colto nell’impulso artistico originario l’espressione di una grande inquietudine interio-re (“l’immensa agorafobia spirituale”). sulla stessa linea psicologica di riflessione, si sono poste, a metà degli anni Cinquanta, le riflessioni di Rudolf Arnheim.

Analizzando la vocazione iconografica dei bambini e la loro tendenza a tracciare cerchi il più possibile perfetti, il grande critico d’arte berlinese aveva individuato nell’uo-mo una propensione innata verso le forme semplici e sim-metriche, indipendenti da qualsiasi imitazione della realtà esterna. Negli stessi anni l’archeologia preistorica imboc-cava strade interpretative diverse. Il segno geometrizzante veniva prevalentemente inteso come una progressiva sem-plificazione delle forme naturalistiche. Più articolata è la

fig. 3 - Pannello dei leoni, Salle du Fond, Grotta Chauvet, Aurignaziano, Ardèche, francia (french Ministry of Culture and Communica-tion, Regional Direction for Cultural Affairs - Rône-Alpes Region - Regional dipartment of archaeology).Fig. 3 - Panel of Lions, Salle du fond, Chauvet cave, Aurignacian, Ardèche, France (French Ministry of Culture and Communication, Regional Direction for Cultural Affairs - Rône-Alpes Region - Regional dipartment of archaeology).

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lettura, sul finire del secolo scorso, di Emmanuel Anati: nell’arte parietale e rupestre ci troveremmo dinanzi sia a ideogrammi che riflettono processi mentali connessi a ele-menti anatomici, concettuali e numerici, sia a psicogrammi che esprimono violente scariche energetiche dell’impulso grafico (Anati 1988). L’ipotesi fosfenica sposta l’asse in-terpretativo; taluni segni geometrici avrebbero una valenza “realistica” del tutto particolare connessa a un’esperienza visiva effettivamente vissuta in uno stato di alterazione, un’esperienza che può aver strutturato una successiva con-venzione rappresentativa destinata a riproporsi nel tempo indipendentemente dall’emergenza endogena originaria.

3. METAfORE VISIVE

Gli studi neurologici descrivono diverse fasi dell’al-lucinazione. Un primo stadio entottico in cui appaiono motivi incandescenti, schematici e ricorrenti; uno stadio intermedio in cui si tenta di dare un significato alle for-me astratte (una forma rotonda può “metamorfizzarsi” in

un’arancia o in un seno (Horowitz 1964)) e uno stadio in cui le emergenze luminose iniziano ad aggregarsi in una sorta di tunnel rotatorio alla fine del quale si spalanca allo sguardo un universo popolato da creature ibride, spesso proiettate su uno sfondo di segni geometrici.

È lo strano universo fantasmagorico in cui la co-scienza alterata si trova totalmente immersa quando cerca di attribuire un senso empirico ai fenomeni entottici, cioè quando entra in un orizzonte semantico. Già Paolo Graziosi aveva sottolineato, una cinquantina d’anni fa, che “le fi-gure di esseri ibridi oscillanti in quella zona d’irrealtà che sta tra il mondo animale e quello umano non sono sempre da interpretarsi in modo realistico come alcuni vorrebbero, cioè quali riproduzioni di stregoni o cacciatori maschera-ti” (Graziosi 1956). Pensiamo allo “stregone” della Salle du Fond della Grotta Chauvet: su un pendente roccioso, una strana creatura, cornigera e nera, guarda di scorcio. Il suo corpo tozzo, sgraziato e ricurvo, è vagamente an-tropomorfo. La testa, con le corna frontali, è di bisonte; il corpo si fonde col triangolo pubico e le gambe di una figu-ra femminile opulenta, mentre le spalle paiono allungarsi,

fig. 4 - Disegno di una paziente schizo-frenica (da Arieti 1976: 48).Fig. 4 - Drawing of a schizophrenic pa-tient (by Arieti 1976: 48).

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in una strana anamorfosi, nel profilo dilatato di un felino. Pensiamo allo “Stregone danzante” della Grotta di Les Trois-frères (Ariège) con le corna e gli occhi ipnotici da civetta. se non sono “riproduzioni del reale” da quali luo-ghi dell’irrealtà giungono? Quali accidentati passaggi della mente hanno attraversato prima di sfidare, dalla profondità minerale delle grotte, lo scorrere dei millenni? Interrogan-dosi sulle “costruzioni immaginarie” dell’arte paleolitica, Leroi-Gourhan si era convinto che la genesi degli ibridi an-dasse individuata sia nella “aggiunta d’attributi animali alla figura umana” sia nella “coalescenza di figure animali che costituiscono un insieme mitografico”. Si tratterebbe, quin-di, di processi cumulativi di carattere simbolico, organiz-zati assemblando “gruppi equivalenti” o “coppie comple-mentari”. In ogni caso, saremmo dinanzi a un linguaggio delle forme denso di valenze semantiche (Leroi-Gourhan 1964-65). ma quali percorsi logici possono aver strutturato queste bizzarre cumulazioni? È una questione complessa che coinvolge, insieme alle modalità della percezione, an-che le dinamiche simboliche con cui la memoria mette a disposizione della mente i suoi dati organizzando la visione del mondo delle diverse culture.

Se gli “insiemi mitografici” hanno valenze seman-tiche, emerge qui una questione ineludibile: è possibile estendere le metodologie indagative del linguaggio verbale all’analisi del linguaggio visivo o esiste una sostanziale in-compatibilità tra queste differenti “specificità espressive”? a questo interrogativo i più recenti studi di semiotica visiva hanno dato risposte diverse, a volte divergenti. Ora, ripren-dendo le più avanzate riflessioni sul rapporto fra logica e creatività, potremmo dire, con silvano arieti (1976) e Igna-cio Matte Blanco (1981), che le dinamiche di funzionamen-to della logica ordinaria, fondate sul principio di non con-traddizione, in determinate circostanze esplodano facendo emergere un diverso tipo di costruzione del pensiero (“un dinamismo organizzatore”) apparentemente stravagante, governato da criteri di coerenza differenti da quelli che do-minano le procedure di controllo razionale del linguaggio ordinario. facciamo un esempio. Se affermiamo, con Ari-stotele, che tutti gli uomini sono mortali, che socrate è un uomo e che, dunque, socrate è mortale, procediamo secon-do il criterio sillogistico classico. se diciamo invece: “Tut-te le gazzelle corrono veloci; alcuni indiani corrono veloci e quindi alcuni indiani sono gazzelle” potremmo pensare di essere scivolati nelle trappole di una “logica difettosa”. In realtà, entriamo in un diverso stile di pensiero, in una logica strettamente apparentata con i processi dell’incon-scio, cioè con una realtà psichica che non può essere intesa come un vuoto contenitore di elementi rimossi, ma come una peculiare forma di organizzazione cognitiva. La catena associativa che conduce all’identità fra gli indiani e le gaz-zelle non si fonda sul criterio ordinario della identità dei soggetti, ma su quello, apparentemente stravagante, della identità dei predicati: A può essere non-A se ha in comu-ne con non-A almeno un predicato. È il principio che lo psichiatra Eilhard von Domarus definisce “paleologico” e che implica una modalità identificativa fluida, polisemica, potenzialmente infinita, in cui le conclusioni non sono im-plicite nelle premesse, ma si aprono all’orizzonte impre-vedibile della somiglianza (von Domarus 1934). La stessa logica “metaforica” emerge nel sogno, negli stati alterati di coscienza e in alcune forme patologiche, ma struttura anche i processi generativi della creatività e dell’emotività, in ge-

nerale. La metafora infatti non è soltanto un artificio stilisti-co del linguaggio - una similitudine abbreviata - ma trae la sua efficacia dalla stretta relazione con l’accadere psichico, e come tale, non ha un valore puramente ornamentale, ma cognitivo: apre la mente alla complessità della dimensione emozionale guadagnando al pensiero nuovi territori impe-netrabili al procedere ordinario. Questo può valere anche per altre figure semantiche come l’ossimoro, legato all’am-bivalenza emotiva, o la sineddoche e la metonimia che sembrano rinviare a organizzazioni logiche destrutturate e parcellizzate. anche talune forme di rovesciamento della costruzione sintattica possono rientrare in questo quadro in quanto “il sistema inconscio tratta la relazione inversa di qualsiasi relazione come se fosse identica alla relazione. In altre parole, tratta le relazioni asimmetriche come se fosse-ro simmetriche” (matte Blanco 1975: 44). ad es. io guardo la montagna/la montagna mi guarda. Ora, tornando al para-digma sciamanico e a quella fase intermedia della visione sospesa fra stimolazione sensoriale e rielaborazione cultu-rale - la fase in cui “si tenta di dare un senso” alle apparizio-ni fosfeniche - chiediamoci: chi è il soggetto che organizza quest’attribuzione di senso e a quale logica si affida? Tra-ducendo questo si impersonale (si tenta) nelle parole della psicoanalisi ci troviamo dinanzi a quel pronome neutro, das Es, che struttura, nella seconda topica freudiana, lo strano linguaggio mascherato del “processo psichico primario”. È una lingua apparentemente incoerente che elude le regole di controllo sintattico della “comunicazione diurna”.

Le sue parole, cariche d’investimenti emozionali, scorrono attraverso catene associative del tutto particola-ri. Sul piano figurativo, nella condensazione (Verdichtung) una sola immagine può raggruppare varie entità, anche di natura eterogenea, sovraccaricandosi di significati latenti. Nello spostamento (Verschiebung), l’intensità di una rap-presentazione si trasferisce ad altre figure - collegate alla prima da una relazione di carattere emotivo - che acquista-no, in tal modo, un valore aggiuntivo, sovradeterminato. Potremmo quindi intendere anche gli ibridi della preistoria come “metafore grafiche” o l’insistenza dei “contorni in-compiuti” dell’arte delle grotte come una “sineddoche pre-gestaltica”? ma quale statuto epistemologico può far valere questo parallelismo fra linguaggio verbale e linguaggio vi-sivo, fra figure retoriche e figure dipinte? Ora, è evidente che la visione mentale non è propriamente un enunciato, così come l’opera d’arte non è propriamente un testo. Nella visione mentale, come nell’arte visiva, è impossibile isola-re un’unità minima dell’immagine - ad es. individuare una sorta di “morfema grafico” - né tanto meno distinguere un asse paradigmatico da un asse sintagmatico.

a meno di considerare il punto, la linea e il piano come strutture elementari del linguaggio dei segni e le loro possibilità associative - secondo vettori di sviluppo quali la successione, la direzione, la lunghezza, la quantità ecc. e i loro correlati (orizzontale/verticale, alto/basso, aperto/chiuso, pieno/vuoto ecc.) - come elementi sufficienti a deli-neare un orizzonte semiotico delle forme grafiche. Un’ope-razione che ha dato i suoi frutti nell’analisi dell’astrattismo contemporaneo, cioè di un’arte estremamente concettuale e depurata, ma probabilmente del tutto inefficace per la com-prensione dell’arte delle origini. se però accogliamo l’ipo-tesi che taluni segni aniconici ricorrenti nella preistoria siano la restituzione grafica dei fosfeni, intendendoli come una sorta di lessemi universali o di radicali del linguaggio

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visionario, e tentiamo di analizzarne la particolare organiz-zazione che vengono ad assumere nella strutturazione for-male delle raffigurazioni iconiche delle grotte è forse pos-sibile individuare elementi di raccordo fra processi verbali e processi grafici e vedere queste due diverse modalità di produzione del senso in una prospettiva unitaria.

4. LINGUAGGIO DELLE fORME

Poniamo a confronto due immagini lontanissime nello spazio e nel tempo e incommensurabili sul piano este-tico. Da una parte la straordinaria corsa dei leoni della Grot-ta Chauvet (fig. 3), dall’altra una teoria di volti disegnata da una paziente schizofrenica di Silvano Arieti (fig. 4). fra le due raffigurazioni c’è un abisso, ma entrambe presenta-no alcune caratteristiche comuni. Le unità si disgregano. In una sorta di sineddoche visiva, la parte sta per l’intero. La percezione totale si disperde concentrandosi sui frammenti o sui punti salienti, ad es. sui dettagli anatomici della testa. Domina la frammentazione dell’organizzazione spaziale, la stessa che tende a imporsi nei sogni, nelle patologie, ma anche nei momenti in cui la mente è sopraffatta dagli affet-ti. Pensiamo a un’altra immagine molto nota del magda-

leniano più antico: lo “stregone” della Grotta di Gabillou (fig. 5). Un ibrido antropo-zoomorfo pare danzare accanto a un segno aniconico. Potrebbe essere un uomo maschera-to, pronto per la caccia vicino a una trappola magica o un “signore degli animali” con il suo blasone. se accogliamo invece il paradigma neurofisiologico, potremmo pensare a una apparizione fosfenica (a destra) e alla sua metamorfosi iconografica (a sinistra).

Che cosa accade fra le due immagini? Un percorso mentale che non è visibile, ma che un’indagine semantica potrebbe ricostruire nella sua struttura elementare: la meta-morfosi del segno “astratto” produce la figura iconica attra-verso una modalità di ristrutturazione immaginifica che non segue la logica razionale del processo secondario, ma quella emozionale del processo primario. Il discorso può valere an-che se ipotizziamo che le due incisioni appartengano a fasi istoriative successive. In un contesto sciamanico potrebbe trattarsi della restituzione grafica di una visione alterata. Ma alterata da che cosa? Da una sostanza psicotropa o da una sostanziale incapacità di tenere a bada l’esubero emoziona-le? Cosa segnala effettivamente il “tentativo di rielaborazio-ne di senso” di queste immagini visionarie? Probabilmente che siamo dinanzi all’espressione di un’intensa emoziona-lità che ha saputo trovare nell’organizzazione delle forme

fig. 5 - Antropo-zoomorfo, Grotta di Gabillou, Magdaleniano antico, Dordogna, francia, restituzione grafica J. Gaussen, (CCSP - Archi-vio Wara W07170). Fig. 5 - Anthropo-zoomorphic figure, Cave of Gabillou, Magdalenian, Dordogne, France (CCSP - Wara W07170).

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312 Brusa Zappellini Il linguaggio delle immagini

una risoluzione iconografica, in alcuni casi straordinaria sul piano artistico, affidandosi a un linguaggio figurativo fuori del comune, cioè fuori delle regole mimetiche di riproduzio-ne naturalistica della realtà sensibile. Come a dire, fuori del livello “letterale” di significato del mondo. Potremmo pen-sare a un linguaggio che organizza le sue costruzioni forma-li secondo un principio di rassomiglianza emotiva interna. sembra tornare qui un tema particolarmente caro alla critica d’arte di tutti i tempi, quello della dimensione mimetica del fare artistico.

ma che cosa imitano le immagini bizzarre della prei-storia? Nella loro particolare organizzazione morfologica, i segni aniconici e le figure chimeriche paiono mimare i processi di produzione di significato di un linguaggio domi-nato da un’evidente intensità emotiva. Potremmo intendere questo universo visionario come una particolare modalità di rielaborazione semantica: una metamorfosi dei segni giocata sulla rassomiglianza con i predicati del desiderio. fra le forme geometriche emerse spontaneamente nel pri-mo stadio entottico e le figure iconiche si colloca un pro-cesso creativo che si esprime attraverso la rappresentazione di un regno fantastico al di là dell’esperienza sensibile: la grammatica elementare dei segni fosfenici trova un’orga-nizzazione figurativa complessa che utilizza le tracce mne-stiche delle percezioni al di fuori delle regole della logica ordinaria. In questo senso, l’apparizione allucinata potrebbe stare alla base dell’emergenza dell’immaginario artistico, in generale. Un immaginario che tenderà progressivamente a svincolarsi dall’esperienza visiva mentale, organizzando sia un codice schematico di carattere simbolico (cerchi concen-trici, spirali, decori a zig zag, ecc.) sia un codice fantastico di carattere convenzionale (ibridi, mostri, chimere ecc.) de-stinati entrambi a permeare la creatività ben oltre i confini dell’orizzonte delle origini. Non credo che un’analisi lin-guistico-semiologica dell’arte preistorica possa sperare di andare al di là di queste considerazioni, ma potrebbe avere il merito di porre al centro della domanda sull’intenzionalità delle prime manifestazioni artistiche dell’uomo una questio-ne d’ordine più generale, cioè che la creatività figurativa, al suo sorgere, rappresenti una strategia di controllo di una forte carica emozionale.

5. CONCLUSIONI

Quale complessità affettiva può aver determina-to il particolare universo visionario delle origini? Tenta-re di estrarre l’emozione dalla sua comunicazione grafica per comprenderne la natura è certamente un azzardo. Una considerazione d’ordine più generale potrebbe però fornire qualche indizio. Le diverse culture hanno teso costantemen-te a interpretare i percorsi della trance come un ingresso della mente nel regno degli spiriti e dei defunti. Potremmo quasi dire che la metafora visiva, nel suo procedere oltre (metaphérein) - un oltre potenzialmente infinito - varchi i limiti dell’esperienza sensibile entrando in un mondo so-prannaturale. In questo procedere oltre sta forse la chiave di volta che regge le strategie di controllo delle emozioni che hanno spinto l’uomo, fin dalle prime fasi della sua spiri-tualità nascente, a costruire quello straordinario edificio che chiamiamo arte: un procedere nell’aldilà - cioè al di là del mondo fenomenico del nascere e del perire - un andare oltre l’angoscia della morte. Non tanto della propria morte o della

morte dell’altro, ma del morire in generale. “Il lutto - scrive salomon resnik - è condizione inevitabile e necessaria alla costruzione delle “forme” espressive simboliche e proto-simboliche” (resnik 1993: 22 ). Non vi è qui lo spazio per argomentare le ragioni che possono aver determinato, nel lungo percorso filogenetico della nostra specie, l’emergenza di una complessità emotiva nei confronti della morte scono-sciuta a ogni altro vivente.

La pratica rituale della sepoltura - già presente nel Neanderthal - ne offre una testimonianza significativa. Che la dimensione emozionale responsabile del particola-re linguaggio delle raffigurazioni visionarie sia riconduci-bile alla pulsione di morte è un’ipotesi (Brusa-Zappellini 2007). altre considerazioni però potrebbero andare in questa stessa direzione contribuendo all’elaborazione di un quadro interpretativo più ampio dell’arte delle origini come espressione tangibile del desiderio di eterna rigene-razione della vita. Un’illusione, secondo freud, destina-ta a un lungo avvenire. In quest’orizzonte più articolato, aperto all’analisi dei caratteri peculiari della spiritualità nascente della nostra specie, il paradigma sciamanico-neurologico potrebbe trovare un’adeguata collocazione e recare un valido contributo.

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