il mistero dei templari

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DOMENICA 14 GIUGNO 2009 D omenica La i sapori La Francia e la nostalgia del bistrot GERARD DEPARDIEU e LICIA GRANELLO cultura Le mille vite dell’Ape, tre ruote global FRANCO LA CECLA l’attualità Carri armati, dalla crisi al tank-robot FABIO MINI e ANDREA TARQUINI i luoghi Damasco, rinasce il quartiere ebraico ALIX VAN BUREN FOTO SCALA/FIRENZE P ersino Paul Claudel sottovalutò la Sindone. Commosso fino alle lacrime dalla «fotografia di Cristo», dalla «pre- senza reale» di quel Volto emergente dal buio dei secoli e della camera oscura di Giuseppe Enrie, il grande scritto- re convertito dettò nel 1935: «Qui non ci sono frasi da de- cifrare riga per riga, è tutta la Passione svelata in un sol col- po ai nostri occhi». E invece nel sacro Telo, arca inesauribile di segni, c’è anche questo: un testo scritto, da decifrare riga per riga. La sco- perta ha più di trent’anni, ma il mistero resiste ancora. Parole non di- pinte a mano sull’ordito (achiropite, come l’immagine dell’Uomo massacrato dalle piaghe) ma impresse forse per ricalco, come quan- do si chiude un quaderno prima che l’inchiostro sia asciutto, come se il sudario fosse venuto a contatto con un foglio scritto di fresco; un do- cumento, ma di cosa? (segue nelle pagine successive) MICHELE SMARGIASSI Il segreto dei Templari N el 1978 il chimico Piero Ugolotti si accorge che sul ne- gativo di una foto della Sindone si vedono alcuni stra- ni segni che sembrano proprio lettere. Ugolotti non è uno specialista di lingue antiche, perciò si rivolge a un esperto: è Aldo Marastoni, insigne latinista dell’Uni- versità Cattolica di Milano. Marastoni conferma l’esi- stenza di parole scritte in greco e latino tutt’intorno al volto dell’uo- mo della Sindone: dicono Nazarènos, l’aggettivo usato nei vangeli per indicare il luogo dove abitava Gesù, e in nece (m), un’espressione la- tina che significa “a morte”. Sopra la fronte si legge la sequenza IBEP, che sembra proprio il nome scritto in greco di Tiberio (TIBEPIO), l’im- peratore romano sotto il regno del quale Gesù fu messo a morte dal governatore Ponzio Pilato. Sempre presso la fronte, parte di una scrit- tura in caratteri ebraici che non riescono a decifrare. (segue nelle pagine successive) BARBARA FRALE Un libro in uscita, un altro in cantiere. Barbara Frale, storica e paleografa, riapre gli enigmi della Sindone e dei monaci-guerrieri di Repubblica spettacoli Ceronetti, maestro del teatro di strada ANNA BANDETTINI e GUIDO CERONETTI Repubblica Nazionale

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Page 1: Il mistero dei templari

DOMENICA 14GIUGNO 2009

DomenicaLa

i sapori

La Francia e la nostalgia del bistrotGERARD DEPARDIEU e LICIA GRANELLO

cultura

Le mille vite dell’Ape, tre ruote globalFRANCO LA CECLA

l’attualità

Carri armati, dalla crisi al tank-robotFABIO MINI e ANDREA TARQUINI

i luoghi

Damasco, rinasce il quartiere ebraicoALIX VAN BUREN

FO

TO

SC

ALA

/FIR

EN

ZE

Persino Paul Claudel sottovalutò la Sindone. Commossofino alle lacrime dalla «fotografia di Cristo», dalla «pre-senza reale» di quel Volto emergente dal buio dei secoli edella camera oscura di Giuseppe Enrie, il grande scritto-re convertito dettò nel 1935: «Qui non ci sono frasi da de-cifrare riga per riga, è tutta la Passione svelata in un sol col-

po ai nostri occhi». E invece nel sacro Telo, arca inesauribile di segni,c’è anche questo: un testo scritto, da decifrare riga per riga. La sco-perta ha più di trent’anni, ma il mistero resiste ancora. Parole non di-pinte a mano sull’ordito (achiropite, come l’immagine dell’Uomomassacrato dalle piaghe) ma impresse forse per ricalco, come quan-do si chiude un quaderno prima che l’inchiostro sia asciutto, come seil sudario fosse venuto a contatto con un foglio scritto di fresco; un do-cumento, ma di cosa?

(segue nelle pagine successive)

MICHELE SMARGIASSI

Il segreto dei Templari

Nel1978 il chimico Piero Ugolotti si accorge che sul ne-gativo di una foto della Sindone si vedono alcuni stra-ni segni che sembrano proprio lettere. Ugolotti non èuno specialista di lingue antiche, perciò si rivolge a unesperto: è Aldo Marastoni, insigne latinista dell’Uni-versità Cattolica di Milano. Marastoni conferma l’esi-

stenza di parole scritte in greco e latino tutt’intorno al volto dell’uo-mo della Sindone: dicono Nazarènos, l’aggettivo usato nei vangeli perindicare il luogo dove abitava Gesù, e in nece (m), un’espressione la-tina che significa “a morte”. Sopra la fronte si legge la sequenza IBEP,che sembra proprio il nome scritto in greco di Tiberio (TIBEPIO), l’im-peratore romano sotto il regno del quale Gesù fu messo a morte dalgovernatore Ponzio Pilato. Sempre presso la fronte, parte di una scrit-tura in caratteri ebraici che non riescono a decifrare.

(segue nelle pagine successive)

BARBARA FRALE

Un libro in uscita, un altro in cantiere. Barbara Frale,storica e paleografa, riapre

gli enigmi della Sindone e dei monaci-guerrieri

di Repubblica

spettacoli

Ceronetti, maestro del teatro di stradaANNA BANDETTINI e GUIDO CERONETTI

Repubblica Nazionale

Page 2: Il mistero dei templari

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14GIUGNO 2009

(segue dalla copertina)

C’è una studiosa, nelle segre-te degli Archivi del Vatica-no, che ritiene di esseregiunta molto vicino a capir-lo. Ma Barbara Frale è laprudenza in persona. Gio-

vane storica e paleografa, allieva di Franco Car-dini, da otto anni è la decifratrice ufficiale degliimmensi archivi lateranensi, dove il rigore èdoppio: scientifico e teologico. «È una ricercache mi travolge di emozioni, e le emozioni nonsono buone consigliere». Niente fretta e moltoriserbo: il frutto delle sue ricerche, ancora al va-glio di rigorosi riscontri, lo leggeremo per inte-ro solo fra un anno, in un volume che avrà pertitolo La Sindone di Gesù Nazareno. Ma giàquanto ha gentilmente accettato di anticiparciin queste pagine è in grado di far vibrare le cor-de più sensibili: sul lino torinese potrebbe es-sere rimasta impressa la “fotocopia” di un do-cumento straordinario, forse coevo alla Passio-ne, portatore di informazioni che vanno oltre ilracconto dei vangeli. Oltre all’impronta-iconadel Cristo martoriato, la Sindone sta per conse-gnarci anche il suo certificato di morte?

La fantasia del lettore già corre. È facile,quando si entra nell’orbita fascinosa della reli-quia più impenetrabile della storia cristiana,scivolare oltre il confine che separa la storio-grafia dalla fiction alla Dan Brown. Forse perquesto tutti gli specialisti della Sindone si ten-gono lontani dalle polemiche scaturite dal red-ditizio filone letterario religioso-misterico,pieno di quegli scrittori «diabolici» che Umber-to Eco mise alla berlina nel Pendolo di Foucault.Ma così facendo hanno abbandonato allamercé dell’industria dei best-sellerun territoriodell’immaginario che fa parte da secoli dellastoria stessa della Sindone, oggetto potente-mente mitopoietico, inesauribile cornucopiadi visioni, narrazioni, leggende, immagini,apocrife o canoniche, devote o blasfeme chesiano.

Bene, Barbara Frale ha avuto anche questocoraggio: di misurarsi, da scienziata dei docu-menti, col terreno insidioso dei misteri sugge-stivi. Dal suo futuro lavoro ha stralciato un libroche esce in questi giorni, il cui titolo, I Templa-ri e la Sindone di Cristo, se non uscisse dallepresse di un’editrice serissima come Il Mulino,potrebbe indurre a qualche sospetto. Ma leg-gendo si scopre che le pergamene a volte rac-contano storie più avvincenti dei plot inventa-ti al computer. Per esempio, in questo caso, che

l’idolo misterioso dei cavalieri combattenti diCristo, l’oggetto segretissimo attorno al qualesi concentrarono riti di iniziazione, il cui arca-no si rivoltò contro gli stessi Templari diven-tando il capo d’accusa più forte nel processoche distrusse l’ordine, quell’idolo che per i ma-levoli accusatori era la terrificante immaginedel diabolico “Bafometto”, altro non era che laSindone stessa.

L’ipotesi, per la verità, non è inedita. Laavanzò una trentina d’anni fa uno studiosooxfordiano, Ian Wilson, sulla base di prove piùlogiche che documentali: essenzialmente il“buco” cronologico di un secolo e mezzo, dalsaccheggio di Costantinopoli del 1204 alla do-cumentata riapparizione nel 1351, durante ilquale le fonti tacciono sul Telo. Ipotesi inizial-mente snobbata dai sindonologi. Ma la sindo-

nologia, pur essendo una scienza dalle compe-tenze universali, è fortemente centripeta: con-voca le discipline più lontane per indagare unsolo singolo oggetto, otto metri quadrati di len-zuolo.

Barbara Frale, che sindonologa non è, ma-neggia la Sindone per collegare territori distan-ti e colmare lacune irrisolte, riconducendo allastoria sentieri finora calcati quasi solo dallafantasy. I Templari li incontra anni fa mentre sispecializza all’Università di Venezia, lavoran-do sui documenti del truffaldino processo concui Filippo il Bello massacrò la confraternitadei monaci-guerrieri, ma ormai più che altrobanchieri, per incamerarne il succulento patri-monio. Tra questi documenti ne trova uno che

MICHELE SMARGIASSI

L’idolodei monaciguerrieri

L’Ordine dei Templari,la Sindone, l’icona del Cristo...Temi cari alla fictionalla Dan Brown, eppurenuove ricerche vi si addentranocon gli strumenti della scienzaper portare alla luceipotesi più intriganti dei plotda romanzo fatti al computer

la copertina

LA GIARA La giara che fu il primo contenitore

della Sindone; a sinistra, il negativo

fotografico del sacro lenzuolo

Repubblica Nazionale

Page 3: Il mistero dei templari

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 14GIUGNO 2009

è la chiave giusta per aprire la serratura intravi-sta da Wilson. È una carta molto consunta de-gli Archivi Nazionali di Parigi: il verbale di unodei tanti processi contro gli sfortunati cavalie-ri, in questo caso quelli rinchiusi a Carcasson-ne, in Linguadoca. Le loro deposizioni, datate1307, parlano chiaro: l’«idolo» barbuto che ineofiti dovevano adorare era una tela che mo-strava la figura di un uomo, un disegno mono-cromo dai tratti sfumati e rossastri, ed era l’im-magine intera di un corpo nudo, dalla testa aipiedi (che andavano baciati), così dichiaranosostanzialmente concordi i frati GuillaumeBos, Jean Taylafer, Arnaut Sabbatier.

I Templari, dunque, ebbero la Sindone peroltre cent’anni. Ma qui le domande comincia-no, non finiscono. Come se la procurarono? Leorigini del Lenzuolo, si sa, sono oscure. Anche

volendo considerare inattendibile la celebredatazione al carbonio 14 che la definì oggetto difabbricazione medievale, non si riesce a risali-re a tempi molto anteriori. A meno di non rite-nere, e anche qui ormai le prove si accumula-no, che la Sindone non sia altro che il leggen-dario Mandylion (sciarpa, asciugamano) diEdessa, una delle reliquie cristiche più famosedell’antichità, arrivata a Bisanzio nel 944. Re-cava impressa, secondo quasi tutte le descri-zioni, solo l’immagine del volto di Cristo: ma al-cuni testimoni parlano di un telo tetradyplon,ossia ripiegato otto volte: ripiegato dunque inmodo che di tutto il corpo solo il volto fosse vi-sibile dal reliquiario che lo conteneva. Sta di fat-to che quando la pseudo-Crociata del 1204 sac-

cheggia Costantinopoli dragando in Occiden-te i suoi favolosi tesori, il Mandylion scomparenel nulla. I Templari non parteciparono alla de-vastazione: ma potrebbero aver comprato lareliquia da qualche saccheggiatore, nonostan-te la severissima proibizione papale contro ilmercimonio delle reliquie. Fu per questa “ver-gogna” che non la mostrarono mai né fecerosapere di possederla?

Forse, ma ci sono altre spiegazioni. Le reli-quie erano ricercate come potenti motori dipellegrinaggi e dunque di offerte, ma la ric-chezza dei Templari era già enorme. Ai cavalie-ri del Sepolcro, spodestati dalla riconquistaislamica, la Sindone serviva invece come «nuo-vo Sepolcro» privatissimo, esclusivo, portatilee intoccabile, fonte di forza morale e saldezzateologica. Il filo di lino che ciascun cavaliere do-veva portare perennemente indosso venivaconsacrato non dal contatto con il blasfemoidolo inventato dagli inquisitori del re di Fran-cia, ma dalla sua consustanzialità col Telo. Unvaccino anti-ereticale per un ordine già sospet-tato di scivolamenti dottrinali. Non è un casoche fossero sottoposti alla sua benedizione so-prattutto i Templari di Carcassonne, la terra incui aveva divampato l’eresia dei Catari che so-stenevano l’incorporeità di Gesù: mentre laSindone è la prova di un supplizio fin troppocarnale.

Protetto da un piccolo nucleo di custodi, l’i-dolo-Sindone dovette viaggiare di nascosto e dicontinuo, consacrando e confortando gliadepti sparsi in Europa. Cosa ne sia stato dopola distruzione dell’ordine, è di nuovo un miste-ro. Si sa solo che nel 1351 il Lino riappare a Li-rey nelle mani di Geoffroy de Charny (curiosa-mente omonimo di un precettore templarecondannato al rogo ventisei anni prima) primadi essere ceduta ai Savoia e imboccare la via sa-cra che l’ha condotta ad essere la reliquia piùvenerata della cristianità.

Nel 2010 una nuova ostensione richiamerà aTorino folle di pellegrini dello sguardo, lunghefile di fedeli che, ribaltando il precetto evange-lico, vedono perché credono, e credono ben-ché la Chiesa, prudentemente vaga, offra allaloro venerazione ufficialmente solo un’«ico-na» e non una reliquia. Intatta nei secoli, la virtùsalvifica dell’«idolo» templare dispiega la suapotenza, come allora, oltre ogni regola eccle-siale. Eppure non bastò a salvare i cavalieri dauna sanguinaria e ingiusta sorte. Forse quel Li-no che «tutti vedono e nessuno per ora puòspiegare», secondo la magistrale sintesi di pa-pa Wojtyla, doveva ancora rilasciare il suo ulti-mo e più sorprendente segreto. Sta per farloora?

TRACCE DI SCRITTURAI caratteri ebraici identificati

sulla Sindone; a contorno

delle pagine, simboli templari

(segue dalla copertina)

La ricerca attira l’interesse dialtri specialisti. Poi nel 1988alcuni campioni prelevati

dalla Sindone sono sottoposti alladatazione con il radiocarbonio, eun tam-tam su tutti i mass mediadel mondo presenta il Telo comeun falso medievale: una sentenzanetta che pare inappellabile. La ri-cerca su quelle misteriose tracce discrittura, iniziata con tanto entu-siasmo, si blocca di colpo. Sianopure molto antiche, nessuno vuo-le più studiare quelle scritte cheora — come dicono tutti — stannosu un «falso medievale».

Nel 1994 alcuni esperti francesidi analisi dei segnali riprendono inmano la questione: sono scienzia-ti, dunque sanno bene quanti limi-ti può avere una datazione al ra-diocarbonio. Uno di loro è il pro-fessor André Marion, docentepresso l’Institut Superieur d’Opti-que d’Orsay a Parigi. Marion sotto-pone la Sindone a un software usa-to per riportare alla luce le antichescritture oggi non più visibili; pro-prio sotto l’impronta del volto tro-va la sequenza in lettere grecheHOY, quanto resta del nomeIHOY, trascrizione greca dell’ori-ginale semitico Yeshua, ovvero“Gesù”. Insieme all’altra parolagià vista da Marastoni forma IHOYNAZAPHNO, cioè “Gesù Nazare-no”. E poi ancora altri gruppi isola-ti di segni in greco e latino dispostiintorno al volto: questo scritto,composto da varie strisce, forma-va una specie di cornice. Sono pa-role frammentarie difficili da capi-re. André Marion presenta i risul-tati della sua ricerca sulla rivistaspecialistica Optical Engineeringepoi nel 1998 in un libro scritto conla collega Anne-Laure Courage. Idue scienziati invitano gli espertiin discipline storico-archeologi-che a continuare lo studio per ca-pire quale sia l’esatto significato diquelle parole. Intanto hanno con-sultato alcuni specialisti che lavo-rano presso la Sorbona e altri pre-stigiosi istituti francesi di ricerca.Anche se dato in via informale, ilresponso è piuttosto chiaro: lescritte sembrano paleocristiane,

forse anteriori al Terzo secolo do-po Cristo.

Dopo circa dieci anni di ricerca,il profilo di quelle parole è oggimolto più netto: il testo con cui laSindone entrò in contatto non eraun libro ma un documento, un do-cumento sulla sepoltura di GesùNazareno. Un atto originale, comepensava Marastoni, o forse un an-tichissimo testo non canonico: main questo caso si tratta di qualcosascritto dai cristiani della prima ge-nerazione, quando ancora il greconon era la loro lingua e prima chefossero composti i vangeli (60-90circa dopo Cristo). Le informazio-ni contenute in queste scritte noncoincidono sempre con le notiziedei vangeli ma piuttosto si compe-netrano a vicenda con esse, e in-sieme completano il resocontodella sepoltura. Danno dettagli se-condari, d’importanza minore,che forse gli evangelisti tralascia-rono perché non avevano alcunvalore per la fede. Per lo storicomoderno, invece, hanno un valoreenorme. Come ad esempio altretracce di scrittura in caratteriebraici trovate nella zona sotto ilmento dall’analista Thierry Castexcon lo stesso metodo applicato daMarion: si distingue un testo fram-mentario di cui per ora si legge be-ne solo una frase centrale, noi ab-biamo trovato (oppure perché tro-vato). Tali parole richiamano conprecisione la denuncia con cui, se-condo il vangelo di Luca, Gesù fucondotto dai membri del Sinedriodavanti a Ponzio Pilato: Lo abbia-mo trovato che sobillava il popolo.

La ricerca è ancora in corso, va-rie cose sono da chiarire e nei pros-simi mesi avremo un quadro mol-to più preciso. Sta di fatto però chesecondo il diritto romano nessunprocesso poteva iniziare senza undocumento scritto di denuncia, ese il Sinedrio scriveva è molto pro-babile che lo facesse in ebraico o inaramaico. Gli autori antichi usanoper il vangelo di Luca un verbo gre-co, istorèo, che indicava gli storiciin senso vero e proprio, cioè chiscrive avendo visto i fatti di perso-na oppure dopo aver consultatodei documenti. E se avessero ra-gione?

Le scritte che riapronoil caso del “falso medievale”

BARBARA FRALE

REPUBBLICA TV

Oggi su Repubblica Tv l’audiogallery

con un’intervista a Barbara Frale,

autrice de I Templari e la Sindonedi Cristo, a cura di Giulia Santerini

IL LIBRO

I Templari e la Sindone di Cristodi Barbara Frale è il nuovo studio

sull’ordine religioso-militare

più potente del Medioevo

in uscita dall’editore

il Mulino (252 pagine, 16 euro)

Repubblica Nazionale

Page 4: Il mistero dei templari

l’attualitàDinosauri

Fece la sua comparsa sui fronti della Prima guerra mondiale,poi fu protagonista della Seconda: dapprima come avanguardiadei successi nazisti, poi come artefice della vittoria alleataDurante la Guerra fredda fu lo strumento della repressionemilitare. Adesso è perfetto, carissimo e poco adattoai conflitti contemporanei. E le ordinazioni sono crollate

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14GIUGNO 2009

Più della genialità di Napoleone e delle dot-trine di von Clausewitz, ha cambiato afondo la guerra moderna. Fa paura anchesolo a sentirlo sfilare rombante in una una

parata, e fino a ieri averne di più e migliori era certez-za di vittoria. Oggi è una macchina da guerra perfetta,potente, veloce e ipertecnologica, eppure sembra sulviale del tramonto, come unvecchio dinosauro. Parliamodel carro armato: dopo aver-ne sfornati a centinaia di mi-gliaia o a milioni per tutto ilVentesimo secolo, le grandipotenze si stanno rassegnan-do a relegarlo nel mondo deiricordi. E anche nuove poten-ze e Paesi emergenti ne vogliono sempre di meno.

L’allarme è venuto dai tedeschi, che con il Leopard2 costruiscono quello che resta tuttora, insieme alloM1 Abrams americano, il miglior carro armato delmondo: dopo trent’anni di successi, dopo un exportda record in quindici nazioni, dal Cile a Singaporepassando per Spagna, Svizzera, Grecia e Polonia, nes-suno lo vuole più. Peggio ancora va ai concorrenti:dell’Abrams, la U.S. Army ha rinunciato alla secondaversione. Anche Challenger inglesi, Leclerc francesi oT-90 russi si smerciano a fatica. Finito lo scenario apo-

calittico della Guerra fredda, si combattono quasi so-lo guerre asimmetriche, cioè eserciti regolari controterroristi o guerriglieri. Un nemico imprevedibile, in-visibile, spesso pronto a colpire nelle città e non inbattaglie campali. Quei mostri da sessanta tonnellatee passa, con motori da 1500 cavalli, un’elettronica a li-velli aeronautici e cannoni che fanno invidia a quellinavali, costano troppo e non servono più.

Viale del tramonto amaro, per l’invenzione rivolu-zionaria cui, manco a dirlo, pensò per primo Leonar-do da Vinci. A lui si ispirarono i britannici, introdu-

cendo nella Prima guerramondiale il primo carro ar-mato della storia. Goffo e len-to, si chiamò tank, serbatoio,un po’ per la sua forma, un po’per spacciarlo alle spie nemi-che per serbatoio mobile peri camion militari e protegge-re il segreto. Quel nome in co-

dice divenne comprensibile a livello globale.La guerra 1914-18 vide le prime battaglie tra coraz-

zati. Eppure gli anziani generali di tanti stati maggio-ri, specie in Francia o in Polonia, non credettero nellanuova arma. Accecati dalla fede nella cavalleria, nel-la guerra di trincea e nelle linee fortificate, non sep-pero capire a tempo il nuovo pericolo, proprio men-tre Hitler riarmava in segreto la Germania. Solo ungiovane, brillante ma allora sconosciuto generalefrancese, Charles de Gaulle, ammonì che la linea Ma-ginot non sarebbe servita a nulla. La vecchia guardia

ANDREA TARQUINI

Il declino del tankCom’è invecchiatoil re delle battaglie

MK V (Regno Unito)

L’ultimo modello impiegato nel primo conflitto

che vide l’impiego di carri armati, la Grande guerra

Questa nuova arma, che poi sarà perfezionata

dalla Germania hitleriana, fu introdotta dai britannici

Furono loro a chiamarlo “tank”, cioè cisterna,

per nasconderne al nemico il vero impiego d’assalto

PANZERKAMPFWAGEN II (Germania)

Costruito da diverse aziende tedesche con contratti

che lo designavano come “trattore agricolo 100”,

per celare al resto del mondo il riarmo nazista,

in teoria proibito dalla pace di Versailles. Fu l’arma

della prima fase del secondo conflitto mondiale:

l’invasione della Polonia, della Francia e del Belgio

PANZER VI TIGER (Germania)

Questo carro pesante eccezionalmente potente,

prodotto tra il 1942 e il 1944, fu protagonista

del campo di battaglia specie sul fronte russo

Il sistema di sospensioni a ruote sovrapposte

era però vulnerabile al fango e al freddo,

con conseguenze che furono talora disastrose

T-34 (Unione Sovietica)

Protagonista di tutte le storie militari della Seconda

guerra mondiale, considerato tecnicamente

un capolavoro. Prodotto in numerosissimi

esemplari, fu una delle armi che contribuirono

in maniera determinante alla sconfitta del nazismo,

grazie in particolare alla robustissima corazza

M4 SHERMAN (Stati Uniti)

Fu schierato per la prima volta dagli alleati

nella battaglia di El Alamein, nell’ottobre del 1942

Fu poi su tutti i fronti europei, sbarcato al seguito

delle truppe in Italia e in Normandia, e passato

in dotazione anche ai britannici. Combatté

anche nel Pacifico e successivamente in Corea

ILYUŠIN IL-2 (Unione Sovietica)

Lo Šturmovik (assaltatore), prodotto in numero

superiore ad ogni altro tipo d’aereo (oltre 36 mila

esemplari), fu efficacissimo contro i panzer tedeschi

Era corazzato (un “tank volante”) e di fatto

fu la prima arma a mettere in crisi la supremazia

del carro armato, imposta dalla guerra nazista

AL FRONTEDicembre 1941:carri armatiappena sfornatidalle fabbrichecanadesi partonoper il fronte russo,dove affronterannoi panzer nazisti

Mostri da sessanta tonnellateche diventano inutili

contro terroristi o guerriglieri

Repubblica Nazionale

Page 5: Il mistero dei templari

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 14GIUGNO 2009

in uniforme, a Parigi come a Varsavia, non volle ascol-tare, e così, con le Panzerdivisionen di von Runstedt,Rommel e Guderian senza rivali in campo, il Blitzkriegnazista inginocchiò quasi tutta l’Europa. Guerra-lampo, addio guerra di trincea, addio inutili cariche dicavalleria, che polacchi e, in Russia, italiani lanciaro-no per ultimi contro gli invincibili blindati. L’UnioneSovietica che Hitler voleva annientare si adeguò ap-pena in tempo. Marescialli e generali dell’Armata ros-sa convinsero Stalin, l’industria spostata oltre gli Ura-li sfornò decine di migliaia di corazzati: i KV, intitola-ti come dice la sigla a Klimen-ti Vorošilov, e i leggendari, ve-locissimi T-34. «Vi fermere-mo», «Per la Patria», «DaMosca a Berlino», era scrittosulle torrette. I russi combat-terono e vinsero contro laWehrmacht la più grandebattaglia di tank della storia,tra Kursk e Orel. E sul fronte occidentale, a El Alameine con gli sbarchi alleati in Sicilia e Normandia, grazieai carri armati l’inglese Montgomery e l’americanoPatton vinsero. Più piccoli e meno blindati ma moltopiù numerosi dei potenti Tiger e Panther tedeschi, gliSherman made in Usa circondati da folle in festa di-vennero, da Roma a Parigi, un simbolo di gioia per laLiberazione.

Dopo il 1945, il tank restò arma decisiva, ma per unaguerra che non sarebbe scoppiata mai: quarantamilacarri sovietici e diecimila della Nato si fronteggiavano

nell’Europa divisa, e le loro avanguardie erano faccia afaccia al Checkpoint Charlie di Berlino. Per il carro ar-mato venne il ruolo inglorioso di arma suprema dellarepressione: sovietica a Berlino Est, Budapest e Praga,di dittature militari ispirate da Washington nella Ateneespugnata di notte dal generale Pattakos, o a Santiagomessa a ferro e fuoco da Pinochet. Quasi solo nelleguerre arabo-israeliane, il tank restava decisivo. Altro-ve, lo soppiantava sempre più l’aereo da attacco a voloradente. Già nella «Grande guerra patriottica» com-battuta dai russi contro i nazisti, l’incubo della Wehr-

macht erano gli indistruttibili,blindati Ilyušin 2 Šturmovik:sfrecciando a pochi metri diquota, facevano marmellatadei panzer invasori.

È un lungo viale del tra-monto, e il mitico tank sem-bra quasi arrivato alla fine. Lapresa della Bagdad di Saddam

è stata forse il suo canto del cigno. In Afghanistan e al-trove servono molto di più truppe speciali ultramobi-li, elicotteri armati, blindati leggeri contro il mordi efuggi della guerriglia. Gli americani hanno con il po-tente aereo A10 il pronipote dello Šturmovik, e persi-no in Cecenia e Georgia Putin ha vinto piuttosto conl’aviazione. Alle grandi parate, i dinosauri rombanoancora, ma ben presto, forse, resteranno solo sui mo-numenti, come i due T-34 che sembrano vegliare co-me mastini sonnolenti il memoriale della vittoria so-vietica, qui a un passo dalla Porta di Brandeburgo.

Eppure ha ancora un futurosarà un robot da combattimento

FABIO MINI

Icarriarmati più moderni in servizio appartengono alla terza generazione, anzi alla 3.5, come gli ame-ricani Abrams M1A2 SEP, i tedeschi Leopard 2 A5 e A6, i russi T-80 UM e T-90, i Challenger 2 inglesi,i francesi Leclerc, i nostri Ariete, i Merkava IV israeliani e i T-99 cinesi. Sono carri pesanti fino a 70

tonnellate con cannoni da 105 a 125 millimetri di calibro. La quarta generazione è già in fase di svilup-po con qualche idea innovativa e molti problemi di costi. I russi stanno preparando il Black Eagle e il T-95 mentre gli americani lavorano all’XM 1202 della serie Mounted Combat System (MCS). I carri di que-sta generazione saranno più leggeri, ma sempre nell’ordine delle 50 tonnellate, con equipaggio di treuomini, torrette senza personale, a controllo remoto e con sistemi di autocaricamento. Si studiano an-che carri senza torretta. Le soluzioni tecnologiche più avanzate si concentrano sulla protezione attivacon corazze di leghe leggere e pregiate e sistemi per la neutralizzazione dei missili controcarro da spal-la. La velocità raggiungerà i 100 km/h e monteranno cannoni fino a 140 mm. di calibro.

Dovrebbero essere pronti entro il 2020 e nel frattempo si affaccia la quinta generazione che do-vrebbe costituire il vero salto tecnologico e operativo. Si studiano carri leggeri (tra 20 e 26 tonnellate),facilmente trasportabili dagli aerei e aviolanciabili. Carri veloci, invisibili ai radar, con un solo uomodi equipaggio, sistemato in un ambiente condizionato e impenetrabile alle munizioni perforanti e agliaggressivi chimici, radiologici e biologici. Potranno avere motori elettrici alimentati da pannelli sola-ri e probabilmente saranno fra i primi utilizzatori della trasmissione di energia inviata dai satelliti. Lacorazza composita sarà potenziata da generatori di campo magnetico in grado di neutralizzare i mis-sili. Avrà spazio per portare tre assaltatori o per caricare missili guidati anticarro o anti-qualsiasi cosa.L’armamento principale non sarà il cannone in torretta, ma una batteria di missili, razzi e mitraglie-re. L’operatore agirà da una console simile ad un videogioco e riceverà input da una centrale di co-mando collegata con sensori esterni al carro e con una rete di sensori connessi in fibra ottica inseritinella struttura del carro stesso in grado di rilevare ogni minaccia.

Dovrebbe essere questo l’ultimo passo verso la realizzazione di carri da battaglia completamentesprovvisti di personale: i robot da combattimento. Il carro del futuro, vicino e lontano, esiste già. Leprogettazioni si basano su tecnologie esistenti anche se non mature. I costi saranno incredibili e an-che i profitti. Un carro di oggi costa dai tre ai sei milioni di dollari. Uno del futuro supererà facilmentei cento milioni. In Europa ci sono oltre 20mila carri armati fermi nei parcheggi — per fortuna — chequalcuno spera di sostituire. Nel mondo i più ricchi e i più poveri comprano carri armati. Gli ameri-cani hanno annunciato la riduzione del loro programma di acquisizione, ma non hanno posto limitialla produzione e all’esportazione. A questo punto chiedersi se il carro ha futuro è retorico.

M48A3 (Stati Uniti)

La vedova del generale George Patton battezzò

questo modello col cognome del marito (stesso

nomignolo aveva avuto la precedente serie M47)

Fu il tank che accompagnò l’affermazione degli Usa

come potenza militare planetaria: entrò in servizio

nella guerra di Corea, ma servì anche in Vietnam

T-54 (Unione Sovietica)

Fu il grande antagonista dell’M48 americano,

di cui è grosso modo coevo. È probabilmente

il carro armato prodotto in maggior numero

di esemplari della seconda metà del XX secolo

Il T-55 (un T-54 con lievi modifiche) fu usato

nell’invasione della Cecoslovacchia del 1968

AMX-30 (Francia)

Questo carro armato francese, la cui produzione

iniziò a metà degli anni Sessanta, appartiene

ai grandi arsenali occidentali della Guerra fredda

Fu prodotto anche per altri Paesi della Nato,

come la Spagna. Negli scenari strategici di allora

veniva contrapposto ai T-54 del Patto di Varsavia

MERKAVA (Israele)

Carro da combattimento usato per la prima volta

nell’invasione del Libano del 1982, durante la quale

sconfisse i T-72 siriani e contribuì ad affermare

la supremazia israeliana nella guerra di mezzi

corazzati. I cannonieri di questi tank

hanno fama di essere i migliori del mondo

M1A1 ABRAMS (Stati Uniti)

È entrato in produzione nel 1985 ed appartiene

alla più recente generazione di carri armati

(attualmente si produce una serie successiva,

l’M1A2 SEP). Pesa circa 60 tonnellate

ed è attualmente “il” tank dell’esercito Usa,

usato nelle due guerre dell’Iraq (1991 e 2003)

LEOPARD 2 (Germania)

Anche questo carro armato, oggi prodotto

nelle serie A5 e A6, appartiene alla generazione

più recente ed è considerato equivalente all’Abrams

americano e al T-90 russo. I tank del XXI secolo

saranno più veloci, più leggeri, invisibili ai radar,

con un solo uomo d’equipaggio. E carissimi

Schierato contro il popolonelle vie di Praga

o in quelle di Atene

Repubblica Nazionale

Page 6: Il mistero dei templari

All’inizioè nato come scherzo in vernacolo. Un ami-co argentino che vive da infiniti anni a Palermo michiede di fare un instant book sulla “Lapa”, su quelmezzo che in Sicilia viene da sempre chiamato co-sì, in barba ed in dispregio a tutti gli inutili apostro-fi del mondo. Vernacolo “La Lapa” lo è sempre sta-

ta, fissata com’è facilmente nel paesaggio quotidiano di vigne,campagne, spiagge, trazzere in salita e strade provinciali disastra-te. Carica di bambini, sulla spiaggia proletaria a fornire teglie di pa-sta “col forno” (a Palermo si dice così) e “melloni” ghiacciati concui condire la domenica di sabbia, mare e pallone. Presente almercato del pesce di Mazara, da dove si staccava in corsa alle quat-tro, alle cinque del mattino per portare le occhiate, i totani, i polpie le sarde al mercato del Capo, della Vucciria.

Ci voleva abilità a guidarla perché tre ruote non sono quattro eanche uno come Valentino Rossi ci avrebbe trovato piuttosto im-barazzo. L’Ape si guida praticamente in piedi, con un manubrioda vespa e bisogna dargli di controsterzo perché alle curve non tilasci sull’asfalto in una gran cascata di pesci. Le prestazioni infini-te della Lapa in Sicilia erano, sono inversamente proporzionali al-le sue limitate capacità. Un motore da cinquanta, a volte cento-venticinque, che deve essere stirato in seconda per darvi l’abbri-vio della terza e che ha un rumore da falsetto di quartiere, un ner-vosismo indisponente ma anche disperante, l’Ape svegliava pri-ma dell’alba gli abitanti già insonni dei quartieri del centro di Pa-lermo. Ci si metteva allora, rassegnati sulle balate dei balconi, colprimo caffè della giornata a guardarne le evoluzioni, tanto si sa-peva che era inutile riprendere sonno. Per i “filetti”, gli abitanti deiquartieri bene, la Lapa era il kitsch del proletariato, il ghiribizzo del

loro voler a tutti costi ancora il carretto, con in più i paladini diFrancia e i “giummi”, i fiocchi e pennacchi che una volta addob-bavano la testa annoiata del cavallo da tiro.

E le barzellette sulle Lape e i rispettivi guidatori si sprecavano:come quella che raccontava di Zu Tano che aveva dato via il muloper comprarsi l’Ape e che si ostinava in salita a non calargli mai laseconda. Ai ragazzini molesti che gli urlavano dai lati, «Zu Tanu,calacci a secunna», calaci la seconda, lui rispondeva sprezzante:«No, s’ave a insignari», deve imparare, come se l’ostinazione delmulo si fosse trasmessa al pistone dell’Ape. Il mezzo, la “triruote”come si chiama a Trapani, è un esempio impressionante di adat-tabilità: ci si potevano portare pile di mobili, canestri di frutta, ba-

re, fercoli di Cristo e di Santa Rosalia, suocere, finocchi, carabat-tole di plastica, sale e cartoni. Questa sua docilità è dovuta all’es-sere un mezzo senza pretese, a cui non importa mostrare la mar-ca e il tipo, ma che si nasconde in tutti i travestimenti del quoti-diano. Un inno all’accessibilità totale, un google del traffico, unmezzo per svicolare tra i vicoli, per consentire il passaggio dalletrame della città vecchia ai traumi della città di viale Lazio con spe-culazione immobiliare e morti ammazzati.

Vernacolo, sì, con tanto di gusto per questo mezzo così nostro ecosì buffo, un misto tra un triciclo e un aereo — entrambi mezzi sutre ruote — una presa in giro del fuoristrada e più pratico di qua-

lunque suv, e soprattutto un mezzo gelosamente custodito dal“popolo”. Per questo noi, “i filetti”, lo guardavamo con una sim-patia paternalista, come si guarda a qualcosa di “folclorico” e “ca-ratteristico”. Ma poi sono venuti i primi viaggi, l’allargamento de-gli orizzonti e uno si cominciava a rendere conto che al Cairo, a Cal-cutta, ad Hanoi il taxi locale, il tuk tuk dal rumore riconoscibile tramille, altro non era che la nostra Lapa.

Solo che non era più nostra. Qui un’intera cultura l’aveva adot-tata come soluzione a un traffico enorme ma efficiente e povero,era la risposta intelligente di paesi rampanti all’alterigia dell’im-pero dell’automobile lucida e sgassante. Ci si rendeva conto umil-mente che questo mezzo aveva sostituito il risciò, liberando ilcliente dal senso di colpa nei confronti del galoppo umano e la-sciandogli tutto il tempo di sentirsi coinvolto nel vero sgomitantetraffico di bici, cyclo, dromedari, milioni di pedoni, carretti, ele-fanti, scimmie, elemosinanti, burocrati sino-indiani bloccati inauto bianche. Uno da dentro, dal sedile signorile e improvvisatodel tuk tuk, si sporgeva a comprare frutti, a respingere o a teneremani, e poi si voltava verso la compagna di viaggio e capiva chequella vicinanza alle sue gambe nel bordello del mondo là fuori erala cosa più prossima alla felicità. E allora, una volta tornato a casa,si domandava: accidenti come è importante l’Italia che ha inven-tato tutto questo.

Poi un ingegnere che aveva lavorato alla realizzazione dell’Apevi raccontava che invece no, la proprietà aveva deciso che non sipoteva più produrre un mezzo per poveracci e aveva tolto il piededall’acceleratore. E uno si chiedeva dove avevano buttato l’intel-ligenza gli italiani degli anni Ottanta, dove avevano perso il lumedell’intelletto e di come va il mondo. Possibile che non avesserocapito che questo era il mezzo più potenzialmente diffondibile inPaesi come la Cina e l’India, evidentemente allora pensati come

FRANCO LA CECLA

A Palermo è “la Lapa”, a Trapani “la triruote”, in Italia è da sempreuna compagna del popolo. Ha sostituito il carretto, ha il suo habitat nei viottolie nei mercati, ognuno la modifica in base al suo mestiere e lei, docile

come un animale domestico, lascia fare. Poi si è trasferita nelle altre città ingorgate del mondoed è stata subito adottata. Come racconta un libro sull’incredibile triciclo-aeroplano

CULTURA*

la leggendadell’

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14GIUGNO 2009

Zu Tano la trattava come il muloche aveva prima e le parlava

“S’ave a insignari”, deve imparare

ruoteTre

1994Serie speciale Ape

Cross 50 per ragazzi

Colorato, roll-bar,

bagagliaio, autoradio

2009La rievocazione

dell’Ape Calessino

sarà disponibile

anche in versione elettrica

1948Nasce due anni

dopo la Vespa:

motore 125 cc

Costa 170 mila lire

Repubblica Nazionale

Page 7: Il mistero dei templari

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 14GIUGNO 2009

Paesi di poveracci.Il nostro sistema automobilistico si ingolfava invece in una cor-

sa agli spigoli di puro design, elaborava venti forme dello stesso su-go, e non capiva che l’automobile era la cosa più vecchia e supe-rata che esistesse al mondo. Infatti la tecnologia dell’automobileè quella dei dinosauri, con tempi antidiluviani che non si accor-gono di crisi energetica, sicurezza, densità urbana, sostenibilitàambientale, elasticità nel traffico, multifunzionalità. Ma scher-ziamo! Queste sono cose per poveracci. A noi rimane il design, lamoda e il mondo là fuori ha di sicuro torto. Allora si cominciava acapire che fortuna si aveva avuta nel crescere pur da “filetti” nel-l’Italia popolare, nell’Italia che è fatta ancora di gente e non di ope-ratori della comunicazione, che è fatta di problemi da risolverecon praticità.

Mentre questo autunno in via Maqueda osservavo il passaggiodi una ridicola e ripulita Ape per turisti, versione caprese con tet-toietta a righe (costo quindicimila euro), ho visto arrivare un verogioiello della tecnica, una Lapa per caldarroste, con un caminofumante portatile, che consentiva lo spostamento delle braci edelle castagne e allo stesso tempo con il suo fumo attirava l’atten-zione — corredata ovviamente da specchietti, pennacchi, lustrinie lumini. Allora ho capito che per l’industria italiana non c’è spe-ranza, i designer fanno la spola per capire com’è il mondo tra laTriennale di Cadorna e la Triennale fuoriporta della Bovisa. Ilmondo sta tutto lì evidentemente, cosa volete.

Forse è per questo che le nostre convenzioni internazionali siinceppano, per questo preferiscono altri a noi, perché sono stufidella nostra autoreferenzialità — è il caso di dirlo — noiosa e spoc-chiosa. Il mercato cinese bye bye, il mercato indiano nemmeno apensarlo, d’altro canto Sonia Gandhi viene dalla peggio periferiadi Torino, come poterla ascoltare, fortuna che se la sono presa i po-

veri. I poveri, questo è il tema. I poveri hanno più soluzioni prati-che dei ricchi. L’Ape è una di queste, ma lo sono i taxi collettivi, lascamionetas che si fermano dove voi volete e non solo dove la lineadel bus comunale pretende sia utile. Ci sono cinquanta modi di-versi di muoversi in una città come Rio o Mumbay e tutti più effi-cienti della nostra lugubre metropolitana. Mumbay ha il sistemadi catering più efficiente del mondo. Ogni giorno, a ora di pranzo,milioni di ragazzini in bici o moto portano il cibo cucinato dallemogli dei lavoratori ai lavoratori stessi e non sbagliano indirizzo.E Mumbay ha ventitré milioni di abitanti. Restare imbottigliati neltraffico della Cassia o in quello di corso Buenos Aires vi può solofare pensare che non ci rimane che ridere della nostra incapacitàdi vivere. Cosa racconta l’Ape, la Lapa, la tre ruote, il tuk-tuk? Cheesistono soluzioni appropriate, che il mondo può cambiare solose i microcosmi quotidiani affrontano direttamente i problemi, sela strada ridiventa il dominio della gente e delle folle e non delle ve-trine e dell’ordine pubblico della noia.

La povertà è una parola inventata dai ricchi per nascondere lapropria distanza dalla realtà. I più bravi tra i ricchi sono capaci diporre un fine alla povertà, eliminando fisicamente i poveri o sem-plicemente allontanandoli dalla propria vista. Ma poi c’è tutto ilmondo intorno e le cose vi ritornano addosso come un boome-rang. Come antropologo ho appreso che questa è l’antropologiadella quotidianità e La Lapa mi ha insegnato più cose di Malinov-ski e Levi Strauss messi insieme. Non è un caso che questo è un li-bro molto amato e comprato da gente che con l’antropologia nonc’entra nulla e sbeffeggiato dall’accademia degli antropologi no-strani. Ma si sa che l’accademia è come certi semafori inutili ven-duti a centinaia nel Sud d’Italia. Dovrebbero servire per indicareun passaggio o un cambiamento e invece sono ridicoli pali di Na-tale accesi tutto l’anno.

1958Nasce l’Ape D:

170 cc. Slogan: “Ape,

il veicolo che vi aiuta

a guadagnare”

1961Si passa a cinque

ruote con Pentarò

Portata 700 chili

e trasmissione diretta

1969Piaggio presenta

l’Ape 50, il primo

modello nella categoria

ciclomotori

1971È la rivoluzione: l’Ape Car. Guida

a volante; motore a due tempi

da 220 cc. Un piccolo autocarro

1984Il primo Ape a gasolio

e a iniezione diretta

Cilindrata 422 cc,

cambio a cinque marce

1952-54Aumentano potenza

(150 cc) e portata

L’Ape C carica

fino a 350 chili

ILLUSTRAZIONE UFFICIO STAMPA PIAGGIO

IL LIBRO

Sarà in libreria

il 16 giugno L’ApeAntropologia

su tre ruote dalla Siciliaall’India (elèuthera,

96 pagine, 14 euro)

scritto da Franco

La Cecla con foto

di Melo Minnella

(alcune illustrano

queste pagine)

Repubblica Nazionale

Page 8: Il mistero dei templari

Abbiamo chiesto a Guido Ceronetti cosa intenda per Teatro distrada e perché lo ritenga, come ha scritto più volte, una via disalvezza per il Teatro in generale. Ecco la sua risposta.

Dire di stradaesclude già una definizione degnadi un’enciclopedia. Nell’Oxford Companion tothe Theatre si può consultare la voce Theatre-on-the-Round(a pagina 823) dove si accenna aforme di rappresentazioni in ogni luogo, mo-derne, a partire dal 1920, in una cerchia di spet-

tatori. Ma strada si proietta nell’indeterminato... Strada è laGrande Strada, la strada maestra di Dostoevskij, nei

Demoni, di cui «non si vede la fi-ne» ed è simile

alla vita ed aisogni umani.Strada è la leg-g e n d a r i aSixty-Six ame-ricana, comeun qualsiasi vi-coletto medie-vale d’Italia oFrancia: stradacolloca il teatroin uno spazio delNon-Finito e gliconferisce la di-mensione più pro-pria, che non deli-mita nessuna sala.Faccio spesso il pa-ragone con la Scaladi Piermarini e Bot-ta: questa è talmen-te, inevitabilmentespazio chiuso, da ne-garsi come teatro, è

un imbuto filtrato per ascol-tanti, una scena che, spo-standosi soltanto da chiu-so a chiuso, in realtà nonviaggia e rimane immo-bile, al centro della piaz-za. La sua funzione è al-tra da ciò che è teatro.

Teatro di strada sipuò anche povera-mente definirlo co-me quello dove simette o si passa colpiattino: ma io hofatto una spetta-colosa raccolta dimonete con unarete da farfalle,per una voltainnocente, e

nelle arene (senza tori,Dio ce ne liberi!) la raccolta si fa

all’ingresso, la raccoglitrice chiude la ten-da e si trasfigura in attrice, in acrobata... Il piattino in

realtà significa l’Offen, l’Aperto della moneta, dello scambiomonetato, significa la stradità essenziale della moneta libera-

mente offerta, in opposizione siderale all’orribile chiusuradeitransiti finanziari. Il piattino on the road, quando si è artisti enon mendicanti, è un compenso di felicità, niente lo uguaglia.Chi lo rifiuta agli artisti di strada è un vero porco. Non si stravi-zia di ricchezza, in strada; tuttavia non va confuso col Teatropovero di Ierzy Grotowski. Pur volendosi dire povero, il teatrodi Grotowski non è di strada, la sua è povertà concettuale cheè essenzialmente penuria dogmatica di rappresentazione tea-trale. La stessa rappresentazione scompare (specie dopo Pon-tedera) e diventa azionepriva di nome e anche di rapporto conl’arte teatrale; in profondo, niente di più chiuso, rispetto all’A-perto del vero Teatro di strada... Certamente il Teatro di stradapuò essere fatto in sale, dove ospitando una compagnia di ar-tisti di strada, quella sala cartellonisticamente, programmati-camente (oltre che per qualsiasi tempo-meteo) chiusa, e perarchitettura estranea alla strada, diventa magicamente unastrada, chiusa soltanto ai rumori stradali e ai gas del traffico.Quando fui invitato per la prima volta a lavorare per Il Piccolodi Milano, era inteso lo fossi per portarci col mio Teatro dei Sen-sibili esclusivamente uno spettacolo di strada, non una simu-lazione di recita o di esibizione al chiuso. La meravigliosa com-pagnia di girovaghi di Ansiktet (Il Volto) di Ingmar Bergman,memorabile capolavoro, si esibisce di castello in castello, e neicastelli reca il soffio onnipotente dell’Aperto, la luce del NonFinito dei sogni umani. Vedere quel film mi fa soffrire, perchéio sono stato chiamato dalla strada, come suonatore d’organodi Barberia, all’età di sessantaquattro anni, e poi come artistede la rue, con numeri d’invenzione, addirittura a settanta. Miritengo tale, ancora, purtroppo a intervalli sempre più lunghi,da dodici... Zeami, il cui celebre trattato sul No nipponico è delQuindicesimo secolo, assicura che un teatrante è finito a qua-ranta — ma le nostre vie e piazze pedonali, per ravvivarsi, pergiustificarsi, agli autentici artisti di strada con le loro fragili at-trezzature non controllano l’anagrafe, né quanto gli resta disabbia nell’oriolo. Ci avrà mai pensato, filologa geniale, Nico-le Loraux? Dioniso, demone ispiratore del canto del caprone(= la tragedia), è un Dio dell’Aperto, un Dio claustrofobo, il Diodelle Baccanti che fuggono dalle città e dai ginecei per correrecorrere senza fine... Se chiudiamo Dioniso e la sua corte di sca-tenate in una platea di incollati a poltrone, tra tossi e costrizio-ni di vescica, sudori e arie condizionate, il Dio scardinerà tuttele porte, incendierà il teatro... Bisogna immolargli spazi abita-ti dai venti, affacciati sulla sera che comincia appena. Quella èl’ora dei lamenti di Ecuba e del gallo nero che, dice un verso diSeferis, emette rantoli rochi dalla gola di Cassandra.

E, sì, è vero, ho detto, ripeto spesso che nella strada c’è la sal-vezza del teatro. Credo (dentro non ci sono) che da noi l’inva-denza politica e l’inevitabilità della dipendenza dal denaropubblico stiano sempre più facendo arrostire gli enti dram-matici su spietati spiedi, e la caccia al pubblico giovane, scia-mante altrove, nella generale passività al virtuale, ai gamestec-nologici, non so quanto sia fruttuosa. Ma sul tema spettatorinon ho competenza. Il Teatro di strada, per la sua eccessivaesplicabilità, ne attira sempre, ma se lo si fa impegnativo nei si-gnificati e nelle evidenze simboliche, l’attenzione del pubbli-co fino al termine è malsicura. Inoltre, lavorando con musicaviva, da strumenti, organo, fonografo, senza assordare pub-blico e finestre con altoparlanti a tutto volume (cosa che a mepare un imperativo etico) si constata in quale deplorevole sta-to siano ridotti i timpani: una debole o nessuna amplificazio-ne non li raggiunge nella loro sfondatezza. Gli orecchi più sen-sibili a vocalità e musiche di strada sono bambini e cani. Sem-pre protestano quando madri e padroni li tirano via.

La vida es sueño:poiché tutto lavora a cancellare il sogno, noiche ci accaniamo a trasmetterlo, a snidarlo dai tombini, da ul-timi saremo i primi.

Uno spettacolo del poeta-saltimbanco al Piccolodi Milano fa da bussola alla rassegna “Masterclass”,confronto tra gli allievi di accademie venutida tutto il mondo. Ed è l’occasione di tornarea spiegare perché la salvezza dei palcoscenicista nelle mani degli artisti on the road

SPETTACOLI

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14GIUGNO 2009

GUIDO CERONETTI

Teatrostradadi

Ceronetti cantastorie“Io trasmetto i sogni”

CIRCUSI ventagli che illustranoqueste paginesono tratti da MisticLuna Park,1987In basso, una fotodal Ceronetti Circusdel 2001e una illustrazioneper Stranezzae Sapienzadegli angeli mortali

Repubblica Nazionale

Page 9: Il mistero dei templari

Il Maestro, gli attori-ragazzinie una ribalta abitata dal vento

ANNA BANDETTINI

Lo scrittore insondabile che abbiamo letto in Il silenzio dei corpi, l’esegetafulminante dell’Ecclesiaste, l’estroso autore di M’illumino di tragico, l’i-pnotico poeta, l’inventore di aforismi apocalittici, l’artista ottantaduenne

dall’aspetto minuto e dal sorriso dolce si mette in scena al Piccolo Teatro di Mi-lano come regista, autore e co-interprete con uno dei suoi spettacoli strambi eirraccontabili che ci riportano al nostro presente con ironica lucidità.

Lo spettacolo è Strada come santuario(il 19 e 20 giugno, ore 17, al Teatro Streh-ler-Scatola Magica), ultima invenzione di Guido Ceronetti e del suoteatro da sublime saltimbanco, cuore della rassegna “Master-class-La casa delle scuole di teatro”. Ideata da Luca Ronconi, larassegna è occasione di confronto — quest’anno sul tema delclown — tra giovani allievi di diverse scuole di teatro interna-zionale («per loro l’importante è vedere: vedere che ci sono altristili dal proprio», sottolinea Ronconi): da quella del Piccolo al-l’Accademia Shepkin di Mosca, dal Liceo Dante Alighieri di Lati-na alla Shanghai Theatre Academy, dall’Università di Cinema eTeatro di Budapest al Royal Welsh College of Music and Drama diCardiff, dalla Scuola Paolo Grassi di Milano all’Ecole Supérieure diStrasburgo.

In mezzo a loro, Ceronetti e il suo Teatro dei Sensibili fondato nel’70 (oggi ne fanno parte anche Egeria Sacco, Luca Mauceri, France-sca Rota), sono i “maestri di strada”, raccontatori alla maniera deivecchi cantastorie in spettacoli di sorprendente semplicità. Stradacome santuario propone una serie di improvvisazioni sceniche ispi-rate a un libro recente di Ceronetti, Le ballate dell’angelo ferito, uscitonei primi mesi di quest’anno da Il Notes Magico, poco prima dell’a-delphiano e più poderoso Insetti senza frontiere: sono suggestioni det-tate dalla cronaca, come la poesia su Eluana Englaro, e storie sparse,dalla morte di Beatrice Cenci all’assassinio di Novi Ligure, dalla con-giura di Catilina all’omicidio di Trotzkij, vicende di morte, devastazionidi ieri e di oggi, richiami sottili ai valori di una ecologia dell’anima.

«Ceronetti è rimasto tra i pochi a credere nella sacralità della parola e ilsuo teatro di strada ne è la destinazione ideale — spiega Sergio Escobar, ildirettore del Piccolo —. All’inizio temevo che questo lo tenesse lontanodalla sensibilità dei giovani oggi frastornati da un eccesso di comunicazione, in-vece sono i giovani, tantissimi giovani, i primi a riconoscere il valore dello stiledel teatro di strada ceronettiano, che non è quello che si fa sui marciapiedi, coni trampoli e i mangiafuoco, ma quello povero e austero del raccontatore di stra-da, quello che incarna la vocazione dei cantastorie e saltimbanchi».

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 14GIUGNO 2009

COL CILINDROGuido Ceronetti

ad Asti, nel 1996

(Foto di Pasquale

Mingo, proveniente

dal Fondo Ceronetti

della Biblioteca

cantonale di Lugano)

I DISEGNIDa sinistra, in senso

orario, un disegno

di Ceronetti

con Antigone;

un disegno dedicato

a Beckett; un’altra

foto del poeta;

in strada a Milano

nel 2001; un disegno

per La Traviata;

Ceronetti al festival

di Spoleto e un altro

disegno-locandina

del poeta

Repubblica Nazionale

Page 10: Il mistero dei templari

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14GIUGNO 2009

i luoghiMemorie salvate

Riprende vita l’antico quartiere giudaico della capitale sirianaSi restaurano palazzi, alcuni trasformati in alberghi e negoziNella sinagoga di Shaara al Amin si festeggia il rimpatriodi un buon numero di famiglie dalla diaspora. E c’è chi coltivaun sogno: poter fare da ponte con Israele nei colloqui di pace

DAMASCO

All’ombra di un pergolatonella città vecchia di Da-masco, sul lato di una cortearaba rinfrescata da una

fontana d’acqua zampillante, si apre la si-nagoga di Shaara al Amin, la Via del Giusto.È sabato mattina e c’è un gran daffare. Lapreghiera dello Sabbath si è appena con-clusa e lo shamash, il custode Yosef, è tuttoinfervorato in cima a una scala nel riporregli addobbi rimasti dallo Shavuot, la Pen-tecoste, la festa della mietitura.

Quest’anno non si è badato a spese: altoe smilzo come un ago, Yosef s’aggrovigliafra metri di festoni argentati, spighe di gra-no, drappi in velluto ricamati col MagenDavid, la stella di David. Dal basso ilkhakham Albert Qaméo, il rabbino capodella comunità ebraica siriana, gli impri-me un senso d’urgenza. Infatti quest’an-no, il 5769 del calendario ebraico, reca unalieta novella: il ritorno a Damasco di unbuon numero di famiglie espatriate. L’an-tico quartiere dei musawi, i seguaci di Mo-sè, l’appellativo in arabo degli ebrei siriani,più o meno disertato da decenni, rinasce.Si restaurano palazzi in rovina, s’inaugu-rano gallerie d’arte e alberghi di charme ri-cavati da vecchie case.

Già si sono viste, calcola il khakham Al-bert, tre delegazioni di rabbini — daBrooklyn, da Parigi, dall’Italia — «in visitaalle scuole talmudiche della capitale e diAleppo». Sono rientrate casate importantiper festeggiare il Rosh HaShanàh, l’annonuovo. E stavolta, lui si rallegra, s’è davve-ro cantato e ballato per la Simkhat Torah.Nella sinagoga s’è riascoltato il suono deipizmonim, gli inni ispirati alle melodie deimaqamat, ottave composte in base allascala araba, microtonale. Ma adesso, diceconcitato il rabbino, dietro l’angolo incal-zano altre feste. Già si preparano allegre ta-volate di frittelle, di pasticcini ma’amul ri-pieni di pistacchi e datteri, di knaffeh ba-gnati con l’acqua di rose: «Il profumo delleradici ebraiche mediorientali», fa ispiratoil khakham.

Quante cose sono successe in Shaara alAmin, da due anni a questa parte. Una ve-ra rivoluzione per monsieur Albert (il suonome proprio è Albir, ma le sorelle Rahil eBella, sempre al suo fianco, lo chiamanoAlbert, alla francese). Dirimpetto alla sina-goga ha aperto i battenti il “Talisman”, unalbergo-boutique. Nella casa d’angolo sul-la destra s’è insediato lo scultore Ali Mu-stafa, avendo conquistato discreta fama a

Parigi e New York. E il sabato, nel tempio,s’affacciano genti forestiere: ebrei occi-dentali impiegati nei settori in espansionedell’economia, o figli di illustri famiglie che«da un po’», dice il rabbino, «vengono a stu-diare l’arabo, la lingua dei mizrahi, gliisraeliti orientali. Altri l’ebraico, oggi inse-gnato all’università».

I capelli argentati, l’espressione mite esempre assorta, il khakhamAlbert sospin-ge l’uscio risplendente in rame della sina-goga: «Osservi bene, questa è l’arte degliebrei damasceni». Sui due battenti il cesel-latore ha captato nei suoi disegni spighe digrano, tralci di vite, alberi, candele che pa-re fiammeggino sotto i simboli delle festereligiose: la luna di Rosh HaShanàh, la bi-lancia di Yom Kippur, le tavole della leggedi Shavuot.

All’interno, nella navata in penombra, ilcolpo d’occhio è quello delle antiche co-munità orientali, osservanti dell’ortodos-sia, anche per la contiguità storica e reli-giosa con Gerusalemme. I marmi in stileomayyade rosa e avorio; il minbar, la piat-taforma del lettore, posta al centro della si-nagoga; i sefarim torah, i rotoli manoscrit-ti del Pentateuco, in contenitori di rame in-crostati d’argento; l’uso di recitare ognigiorno la birkat kohanim, la benedizionesacerdotale dei primordi biblici: tutto, qui,racconta l’alba dell’ebraismo.

«Una comunità vecchia quanto Dama-

sco», sostiene il rabbino, il che vuol diremillenni di storia. «Dai tempi di Mosè», in-terviene la sorella Rahil, occhi celesti den-tro una faccia luminosa alla Leah Rabin.Certo è che la sinagoga del profeta Elia, fuo-ri città, risale al Settimo secolo avanti Cri-sto. E san Paolo era in viaggio verso questesinagoghe già duemila anni fa.

Seguendo il respiro della storia, il micro-cosmo dei musawi s’è di volta in volta dila-tato e contratto. Fu centro di grande sape-re, fra il Cinque e il Seicento, col rabbinomistico Hayim Vital. Custodiva il Codice diAleppo, il più antico manoscritto della Bib-bia completo di punteggiatura e vocali.S’ingrossò con l’arrivo dei sefarditi dal-l’Andalusia. E sotto i califfi e gli Ottomanitutto sommato, dice Albert, «la comunitàprosperava».

Per avere un saggio di tanta ricchezzabasta affacciarsi alla soglia di Beit Farhi:seimila metri quadrati di meraviglie rina-scono sotto il tocco esperto dei restaurato-ri. Era il palazzo di Haim Farhi, ministrodelle finanze ottomano. «Una famiglia ric-chissima, più dello Stato», s’impettisceRahil. Emigrati a Londra, hanno venduto lacasa a un mercante musulmano. Entro unanno, dicono gli attuali proprietari, l’archi-tetto Roukbi e l’arredatrice olandese Dyk-smo, «questo sarà un grand hotel, il “PashaPalace”». Fra impalcature e detriti ripren-dono colore i paesaggi in miniatura dise-

Il ritorno degli ebrei di DamascoALIX VAN BUREN

GIOIELLI DI PIETRASopra, da sinistra, una decorazione a forma

di pigna e arabeschi a Bait Nizam;

una decorazione di pietra a Bait Lisbona

gnati sulle imposte, i giardini di arabeschisu pareti e soffitti, i pannelli con scritte be-nedicenti in ebraico.

A mezz’ora di cammino, l’anziano AbuMahmud custodisce il cimitero ebraico.Giungono echi di leggende sopravvissuteall’ombra di fichi e di mimose. File di tom-be linde e ordinate conservano incisi i no-mi in ebraico e in arabo del sarto Azra Ga-da; del professore Yatche, che introdusse ilsistema metrico; del cesellatore Nasswa,col simbolo dello scalpello. Una colonna li-berty sembra applaudire “Madame”, la di-va-ballerina Maryam Maknou. Sopra tutti,troneggia il sepolcro del «mago rabbino»Vital: «Chieda una grazia», ripete Rahilmentre posa sassolini sul tumulo del san-to. Quanti fossero i musawi in passato, èdifficile stabilirlo: c’è chi parla di centomi-la, chi di sessantamila. «Non sono molti,ma hanno grande influenza e enormi ric-chezze», scriveva nel 1855 il pastore pre-sbiteriano Josias Porter.

Le ondate migratorie, a volte fughe, Al-bert le fa iniziare da lontano: dalla rivolu-zione industriale venuta a spodestare i si-gnori della seta; dalla leva militare intro-dotta dai Giovani Turchi; dalle tasse delmandato francese. I più ricchi scelsero leAmeriche. Poi le scosse del 1947, la parti-zione della Palestina, il rogo della sinagogadi Aleppo nei tumulti anti-sionisti. Altrisalparono. Con Nasser e l’infausta unionefra Siria e Egitto comparvero le brutte stig-mate del musawi sui documenti, il divietodi commerciare, il coprifuoco. Finalmen-te, le prime aperture di Hafez al-Assad nel1974, e nel 1992 il via libera per intercessio-ne americana. «Si sparsero fra Brooklyn,America Latina, Londra, Israele». Oggi sicalcolano appena 150-200 anime rimastea presidiare i beni della comunità. «L’ulti-mo bar mitzvah è stato nel 2000».

Se si domanda ai Qaméo perché siano ri-masti, Rahil non si fa pregare. L’idea che lacontentezza, il quieto vivere e la nazionecoincidano è una convinzione, dice,rafforzatasi alla vista degli espatriati. Nonrimpiangono forse, racconta, la dolce vitadi Damasco? Gli orari comodi, i giochi la se-ra con gli amici? La maggioranza «va e vie-ne: chi per vendere, chi per restaurare e af-fittare, altri per rimanere. Con la notevoleeccezione di chi è in Israele: le loro pro-prietà sono conservate dallo Stato». I piùaspettano la pace: «Da cinquant’anni»,conclude Albert. Nel congedarsi il rabbinoconfida una speranza: che gli ebrei sirianipossano far da ponte con Israele nei collo-qui di pace, «quando avverrà il tanto attesoprimo incontro. Ma quando avverrà?», so-spira. «Chissà...».

BALCONI E CORTILISopra al titolo, una parete decorata

a Bait Lisbona; Casa Farhi dipinta a fineOttocento; un palazzo a Bait Niyadu

STELLA A SEI PUNTEIl particolare di una porta decorata a Siba‘i Bait

Repubblica Nazionale

Page 11: Il mistero dei templari

le tendenzeEccessi

I tagli al budget sono alle spalle, anche graziealle catene low cost che si adattano alla parolad’ordine dettata dagli stilisti: apparireVanno bene sandali, cappelli di pagliae t-shirt, l’importante è il tocco di follia:conchiglie, cristalli e colori fluo

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 14GIUGNO 2009

L’estate è la stagione degli amori, dellaseduzione e della voglia di apparire.Complice l’abbronzatura che fa tuttipiù belli, si scatena il desiderio di es-sere più eccentrici, osare di più conabiti e accessori colorati, molto di-

versi dal solito. Il conto alla rovescia per l’inizio dell’e-state è già iniziato e, tra sette giorni, decolla la nuovastagione che, seguendo i trend della moda sarà all’in-segna di una vena creativa che dà spazio anche alle fol-lie. Parafrasando una celebre canzone di Vasco Rossiche dice «voglio una vita esagerata», gli stilisti si sonosintonizzati su una “moda esagerata”, dove tutto èconcesso perché l’estate con i suoi colori e i suoi pro-fumi, accende la fantasia e richiede abiti più grintosi.

E alloravia libera a tutto quello che d’inverno non sifa. Sì ai cappelli di paglia tempestati di conchiglie (co-me fanno Benetton e Prada), alle t-shirt sensuali (ge-nere Fornarina), agli short da Lolita (modello Fioruc-ci), ai sandali con le zeppe riciclate (le propone, tra gli

altri, Camper) che danno una andatura particolare.Gli abiti di garza e di chiffon con stampe animalier edai colori fluo la fanno da padrone insieme ai jeansaderenti come una seconda pelle. Trovarli è facile. So-no i best seller delle grandi catene low cost, da Zara aH&M, passando per Mango, Pro Mode e Conbipel.

Ma attenzione, la moda esagerata non contemplasciatterie. Nel trionfo dell’eccesso tutto deve avereuna impronta chic. Le paillettes, i coralli e i luccichiidei cristalli Swarowsky fanno tendenza da Just Caval-li, D&G e Blumarine insieme alle micro-tuniche da in-dossare con i leggings, accessorio che ha conquistatomamme e ragazzine. Sì perché la moda pazza che spo-pola nelle vetrine non è più pensata solo per le ragaz-ze. È qualcosa di più trasversale che offre proposte diabbigliamento anche alle donne più adulte ma con uncorpo in forma, come succede ormai a molte signore

abili nell’adottare tutte le strategie possibili per ral-lentare l’invecchiamento.

È vero che la crisi ha tagliato pesantemente ibudget per lo shopping. Ma in vista della va-canza al mare, non importa se in Costa Sme-ralda o a Iesolo, su una isoletta greca o a Capri,a Rimini o a Forte dei Marmi, le donne sonopiù propense all’acquisto, per rinnovare gliabiti da sfoggiare la sera in discoteca, al risto-rante famoso o alla pizzeria dove ci si incontracon gli amici. E nella stagione che favorisce inuovi amori, l’imperativo è non passare inos-

servata, sfoggiando cose estrose. Qualcheesempio? Una borsa oro di Prada, un sandalo

dall’architettura futurista di Ferrè, una borsa dadiva, in pitone bianco, firmata Donatella Versace o

una cintura con gioielli incorporati dei Dolce e Gab-bana. E ancora: un abito da dea greca firmato AlbertaFerretti, un kaftano di Etro, una mise da sera Guccicon i colori brillanti, una giacca con il decolleté a for-ma di cuore di Giorgio Armani. Come dicono gli stili-sti: «L’estate giustifica la voglia di apparire, la fantasiaè scatenata e gli abiti non fanno che assecondare que-ste esigenze».

LAURA ASNAGHI

Voglia di scordarel’inverno e la crisi

TESORO DEL MAREI tessuti della borsa Versace

sono disegnati dall’artista Julie Verhoeven,

che ha reinterpretato la stampa Trésorde la mer creata da Gianni Versace

GIOIELLI SOMMERSILa collana Etro ha fiori azzurri e dorati

che si ispirano a quelli dei fondali marini

Quest’accessorio prezioso è proposto

sia con l’abito da sera che con la t-shirt

ECO-AVVENTUREEcco le sneaker mediterranee Camper,

in cotone organico, dotate di una pianta

ergonomica. Sono pensate per le giovani

globe-trotter con spirito ecologista

DIVAMai più senza cappello di paglia

colorata. Benetton lo propone

in versione diva, con la falda larga,

perfetto per proteggere il viso

dai raggi solari e avere

un’aria fatale

SUPER SEXYGli short maculati

griffati Fiorucci

rappresentano

uno dei pezzi

più hot

del guardaroba

femminile. Sono

super sexy,

perfetti per

esibire

gambe

spettacolari

SOLE TRA LE DITALe infradito-gioiello di Emilio Pucci

sono adatte per le serate

in discoteca o i party bordo piscina

LISERGICOTra le magliette più fashion

dell’estate ci sono quelle di Custo

Barcelona, con le inconfondibili

stampe originali e fantasiose

A SAINT-TROPEZTop modello Saint-Tropez

proposto da Pianura

studio. Si porta

con gli short come Brigitte

Bardot nei Sessanta

FIORI NEL DESERTOCarpisa propone le ceste in paglia

da spiaggia con decori di limoni

gialli, fiori estivi e morbidi volant

A TUTTA ZEPPAScarpe con la zeppa

in tessuto dai colori

vibranti. Nella collezione

di Cafè Noir i sandali

si arricchiscono anche

di ricami e pietre luccicanti

SEDUZIONE BEATChi frequenta le spiagge più alla moda

deve fare un pieno di bikini e costumi

Questo proposto da Beat Generation,

con stampa anni Settanta, è un modello

adatto alla seduzione sotto l’ombrellone

PROFONDO GIALLOAnche gli occhiali da nuoto

devo essere all’ultimo grido

Quelli gialli di Arena sono fatti

apposta per non passare

inosservati tra le onde

Repubblica Nazionale

Page 12: Il mistero dei templari

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14GIUGNO 2009

i saporiSvolte del gusto

Erano duecentomila quarant’anni fa, ne sono rimastiquarantamila e chiudono i battenti nella misura di duecentoal mese. Colpa dei ritmi accelerati della società di oggi,colpa dei divieti antifumo, colpa della moda del cibo lightEppure in soccorso di questo tempio della cucina popolarestanno accorrendo gli insospettabili: i grandi chef

C’erano una volta i bistrot. Piastrelle alle pareti, bancone dilegno e zinco, sedie scricchiolanti, aria carica di fumo,piatti robusti e bicchieri di vetro spesso, un’atmosfera ri-lassata, tollerante, polverosa.Per più di un secolo, i bistrotsono stati set ideali per film di ogni genere, da Irma la dol-cefino a Il favoloso mondo di Amélie. Jean Gabin e Bernard

Blier, Lino Ventura e Simone Signoret: un intero popolo di attori ha recitatotra bicchieri di vino e marmitte (pot-au-feu) fumanti, taglieri di charcuteriee terrine con gli immancabili cetriolini agri.

Negli ultimi quarant’anni, in Francia si sono spente le luci di oltre cento-cinquantamila bistrot: l’ultima indagine ne ha censiti meno di quarantami-la, con un ritmo di duecento chiusure al mese. Se continua così, tra vent’an-ni i bistrot saranno protetti come i panda, lumache e choucroute verrannoiscritti nell’elenco dei piatti arcaici e bisognerà organizzare dei cineforumcon gli sceneggiati noir et blancdel commissario Maigret per ritrovarne umo-ri e ambientazioni.

Più che la globalizzazione poté lo smarrimento sociale. Perché tutto o qua-si nei bistrot suona stonato rispetto ai ritmi sincopati e asettici del nuovomangiare fuori casa. Nei bistrot, anche addentare un petit morceau di ca-membert richiede un minimo di rituale, l’omelette va gustata con calma pergoderne le mollezze interne, il caffè — petit noir — va assaporato con il go-mito appoggiato al banco, chiacchierando col barista.

Del resto, la cucina dei bistrot è nata per restituire il piacere della tavola fa-migliare ai dannati del pasto fuori casa. Un po’ trattoria e un po’ osteria, perquella democratica trasversalità di consumo che consente a tutti di sedersi inpace, indipendentemente dall’ordinazione, dal sorseggiare un bicchierino dicalvados — calvà — all’affondare i denti in un succulento gigot d’agneau (mol-to apprezzato dal presidente Obama durante il recente tour parigino nello sto-rico bistrot “La Fontaine de Mars”), mentre il patron asciuga svelto il bancocon l’immancabile torchon di tela grezza, rigorosamente bianco e rosso.Assediati dai fast food, svuotati dall’applicazione della legge che vieta il fumonei locali pubblici (varata nel 1976 e disattesa per oltre trent’anni), accanto-nati in nome della cucina light, i bistrot sono stati sul punto di soccombere.A salvarli, se il mercato continuerà a dar loro ragione, le aperture/riaperturedei grandi chef di Francia, da Paul Bocuse a Jean-Paul Lacombe, che hannoaffiancato ai loro super locali pluristellati una messe di locali bistrot-style overi bistrot rivisitati, come il “Benoît” di Alain Ducasse.

Se non avete tempo e modo di andare in Francia, regalatevi una gita ad Al-ba, dove Enrico Crippa — giovane e bravissimo cuoco d’avanguardia — hasdoppiato il palazzetto di proprietà dei barolisti Ceretto in ristorante gour-mand e “piola”, versione piemontese del bistrot. Tra cucchiaiate di insalatarussa e bocconi di bollito col bagnetto verde potreste avere la visione di GinoCervi e Andreina Pagnani che discutono bonariamente davanti a un piatto ditestina di vitello (tête de veau en tourte).

Slow foodmadein France

BistrotNostalgia

LICIA GRANELLO

Repubblica Nazionale

Page 13: Il mistero dei templari

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 14GIUGNO 2009

AUX LYONNAIS 32 Rue St Marc

Tel. (+33) 1-42966504

menù da 30 euro

LA FONTAINE DE MARS129 Rue Saint-Dominique

Tel. (+33) 1-47054644

menù da 35 euro

LEON DE LYON 1 Rue Pléney

Tel. (+33) 4-72101112

menù da 30 euro

LE NORD18 Rue Neuve

Tel. (+33) 4-72106969

menù da 22 euro

FERNAND7 Quai de la Douane

Tel. (+33) 5-5681234

menù da 20 euro

LE BISTROT D’EDOUARD16 Place Parlement

Tel. (+33) 5-56814887

menù da 20 euro

PIERRE16 Place Félix Barret

Tel. (+33) 4-91529767

menù da 18 euro

LE BISTROT DES PISTOLES27a Rue Du Panier

Sempre aperto

menù da 15 euro

Boudin noirDal francese antico

boudine, ventre,

la versione francese

del sanguinaccio,

preparato a partire

da sangue e grasso

di maiale infilati

nel budello

Si consuma freddo

o caldo, con mele,

mostarda o insalata

Omeletteaux fines herbes

Cottura in padella

ben imburrata

per le uova, sbattute

(poco, altrimenti

non si gonfiano)

con sale pepe e odori

tritati fini. Prima

di ripiegare in tre,

si rinforza il gusto

con burro fuso ed erbe

Crème BrûléeNon caramellato,

bensì bruciato

(con pistola a fiamma,

stampo arroventato

o sotto il grill)

lo zucchero

che sovrasta la soave

crema di uova

e panna, profumata

con vaniglia e cotta

a bagnomaria

Salade de chèvre chaud

Le mini-forme

di formaggio

di capra, appoggiate

su fette di pane

rustico e infornate

fino a consistenza

untuosa,

troneggiano

sull’insalata

arricchita a piacere

Soupe à l’oignonRobusta e golosa,

la zuppa di cipolle

con brodo di pollo,

pane raffermo

e formaggio

a listarelle sottili

Si serve in cocotte

individuali

Gratinatura per

la variante lionese

Gigotd’agneau

Per il cosciotto

d’agnello alle erbe,

carne infornata

dopo averla salata

e aromatizzata con

timo e rosmarino

Sopra e intorno,

spicchi d’aglio, olio,

pomodori, cipolle

e fiocchetti di burro

Filets de rougeten papilloteLe triglie

di scoglio

sono preparate

in modo da esaltarne

gusto e naturalità,

come nella cottura

al cartoccio,

con extravergine,

timo e una fetta

di limone

itinerari

Lione Bordeaux Marsiglia

Non riesco nemmeno a immaginare come potrebbeessere Parigi o la mia amata Francia senza i bistrot.Mi interrogo in questi giorni su quanto sta accaden-

do nel mio Paese, perché se è vero che c’è una crisi in atto inun segmento della ristorazione francese, e parigina in par-ticolare, e che molte cose stanno mutando nelle abitudini enei gusti della clientela tradizionale dei bistrot, è altrettan-to certo che questi locali storici non potranno mai sparireperché sono un pezzo di storia della Francia, oltre che l’e-spressione di una cultura europea.

L’emergenza vera è che i bistrot stanno cambiando gra-dualmente pelle, e si stanno silenziosamente trasforman-do in qualche cosa di diverso da quello che sono sempre sta-ti. Tutto ciò rappresenta una perdita atroce per chiunqueabbia a cuore la salvaguardia delle identità di un territorio.Il bistrot per me, ad esempio, è da sempre il caffè più vicinoa casa, è l’angolo di città dove incontri le persone, dove rie-sci a comunicare, ed è il posto del ristoro nel senso più alto,dove ti puoi cibare di tranquillità e di lentezza, e dove puoiprenderti la libertà di sfogliare in pace un quotidiano men-tre bevi il tuo caffè, oppure di ordinare a pranzo il piatto delgiorno, che è un classico dei nostri bistrot e che si basa sul-la stagionalità degli ingredienti.

Sono anch’io convinto che qualcuno li stia uccidendo,ma questo non vuole necessariamente dire che chiuderan-no sotto i nostri occhi senza che la gente se ne accorga, op-pure senza che nessuno intervenga per fermarne il declino.

Personalmente non riesco a tollerare, e nemmeno a com-prendere le scelte di chi gestisce certi bistrot parigini: c’è chisi ostina per esempio a chiedere due, tre, addirittura quat-tro euro per un caffè, non rendendosi conto che in questomodo sta affossando la storia del bistrot e la sua profonda eradicata identità popolare. Certo non è solo colpa di queigestori, perché è normale che i divieti contro il fumo e l’as-salto delle catene stiano influenzando l’andamento dei bi-strot, ma è il cambiamento e non la chiusura che mi spa-venta maggiormente.

Quando un parigino va nel suo bistrot sotto casa, vuoleun caffè, vuole sfogliare il suo giornale, vuole la sua birra, unpiatto semplice della tradizione, non può pensare di spen-dere ogni giorno una cifra esagerata per concedersi il lussodi cose normali, che sono parte della sua vita da sempre. Equesto vale anche per me, che nei bistrot della mia città hosempre cercato la normalità di Parigi. Adesso mi indispet-tisce tutta questa paura che i bistrot chiudano, perché ho lasensazione che qualcuno li voglia unicamente trasformarein un’altra cosa per salvare i propri profitti e la propria im-presa. Capisco la questione del fumo, che è stata una rivo-luzione totale per i bistrot e per tutti i locali tipici in Francia,ed è giusto che si introducano soluzioni nuove come le “ter-rasse” riservate ai fumatori, ma le altre lamentele che arri-vano dai bistrot mi sembrano un po’ pretestuose.

(Testo raccolto da Guido Andruetto)

Depardieu.La mia casa sotto casaGERARD DEPARDIEU

‘‘

da LE BISTROT

Parigi

Georges BrassensLes calamiteux de la placequi viennent en rangcomme les harengsVoir en face la bell’ du bistrotI disastratiche vengono in filacome le aringheA vedere da vicinola bella del bistrot

RatatouilleIl segreto

è nella cottura

Cipolle, pomodori,

peperoni, melanzane

e zucchine

sono cotte

separatamente

e poi mescolate

Rifinitura in padella

con olio e odori

dell’orto

Repubblica Nazionale

Page 14: Il mistero dei templari

l’incontroCampioni della risata Re del cinepanettone, showman,

mattatore, a cinquantotto annisi è ormai emancipato dal ruoloscomodo di figlio del regista

di “Ladri di biciclette”:“Mio padre - racconta -è la persona che piùmi ha spinto a trarrepiacere da tutto,a non rinunciare a niente”E lui, dopo una valanga

di titoli comici, non rinuncia alla cartadrammatica: interpreterà un ruolonerissimo nel nuovo film di Pupi Avati

‘‘

C’è una certa criticacinematograficacapace di rovesciartiaddosso soloinsofferenza. Eppurenon amo l’adulazione,è un’arma pericolosa:guai a chi ti fatroppi complimenti

tellettuali come Fofi e Ghezzi. Un uomoche coltiva il fascino delle contraddizio-ni. Sembrerebbe un cinico, un finto, unirrimediabile narciso (lo è in qualchemodo), un generone, un qualunquista.Invece vive di passioni umane, etiche esentimentali. «L’unica salvezza è l’a-more. Io piango per certe manifestazio-ni di affetto. Lo dico senza alcuna reto-rica. L’amore è invecchiare assiemecon una persona che ti contraccambiae che nel caso mio è mia moglie Silvia. Èessere padri senza fare gli amici dei tuoifigli (a Mariarosa e Brando ho fatto sen-tire il peso della protezione, educando-li anche duramente). È contare sulleamicizie solide, e anche far innamorarele persone che ti ascoltano. A pensarcibene la grandezza del cinema di mio pa-dre sta tutta nella pietas che lui mettevanelle storie, perché si può essere Berg-man, Visconti o Rosi, ma la bontà cheVittorio De Sica ha fatto sentire in filmcome Umberto D. o Ladri di biciclette èuna cosa unica».

Christian si mette volentieri in gioco,si scopre, ammette pecche, fa ritrattispericolati e coraggiosi dei fenomenisociali. «Cominciamo da me. Di difettice ne ho, eccome. Sono superficiale, so-no ignorante, (avrei dovuto leggere dipiù), sono permaloso. Però mi metto indiscussione. Stimo un regista che mimanda a quel paese perché sono con-vinto che, facendo così, si curi meglio dime. Guai a quelli che ti fanno troppicomplimenti, l’adulazione è solo un’ar-ma, un’ipocrisia, un artificio, e nel mi-gliore dei casi è una noia. E se mi devoattribuire da solo un pregio, magari ri-schioso, è quello di dire il più spesso chesi può la verità, di agire essendo me stes-so, senza sovrastrutture».

Il nodo che torna costantemente agalla nei suoi ragionamenti è fondatosul rapporto tra arte da baraccone e ar-te impegnata. «Penso a mio padre chediceva “Adesso vi recito due versi di Sal-vatore Di Giacomo” e magari era la Let-tera amirosa, e lui sapeva essere im-peccabile ed elegante con una lettera-tura dialettale. Penso a quel trucco ca-sereccio ma saggio che mi trasmise,“Va tutto detto senza effetto comico,taglia sempre la risata, non la far scop-piare mai, e alla fine vedrai che l’ap-plauso sarà grandissimo”. E sorrido seripenso a Zavattini che raccomandavadi leggere Il Capitale di Marx mentre iomi bevevo le pagine di Siddharta e sullavoro avevo in testa la paillette. Peròquando uscivi dalla casa di Zavattini,lui settantenne io sedicenne, avevi vo-glia di fare l’amore».

Così il Christian De Sica ridicolo efanfarone personaggio dei film delle fe-

ste, pronto a partire a fine agosto perl’America per gli episodi incrociati delprossimo Natale a Beverly Hills assie-me a Ferilli, Ghini, Conticini, Hunziker,Gassman, Tognazzi, fa l’elogio dei profd’antico stampo. «Come si fa a non am-mirare mio suocero Verdone senior, glistoici insegnanti che ho conosciuto, lagente che ti consegna il proprio saperecome se raccontasse storie di famiglia?Il contrario di certa critica cinemato-grafica che ti rovescia addosso una spe-cie di insofferenza, che un tempo se laprese con mio padre stroncandolo peri troppi film pane, amore e fantasia, eche tuttora sostiene che Il giardino deiFinzi Contini è una schifezza e che soloCiprì e Maresco sono un capolavoro as-soluto. E dire che oggi ci sono cineastidavvero geniali, Garrone e Sorrentino,che non solo apprezzo e condivido inpieno, ma dai quali sarei subito pronto,desideroso di farmi dirigere».

Da qui ad arrivare alla politica il pas-so è breve. «Premetto che sono uno di si-nistra. Ma come non rendersi conto chea volte la sinistra ha il complesso del pa-dreterno? Avevo trovato bellissimo Con

le peggiori intenzioni, il romanzo diAlessandro Piperno su una famiglia diebrei benestanti, l’ho proposto a vari re-gisti italiani, e ho sempre trovato riser-ve o rifiuti: solo perché si parlava di gen-te ricca? Questo fatto esclude che ci pos-sa essere un’etica, una poetica? Comesiamo messi male...».

Christian, anche quando polemizza,ha un’aria sorniona, non conoscestrafottenze (quelle tipiche di certi suoipersonaggi cinematografici), ha anziun garbo tagliente fatto di senso dell’u-morismo, come ha dimostrato nell’in-solente e tenero libro Figlio di papà, unalbum di memorie messo in circolazio-ne in contemporanea con un grosso erigenerativo suo exploit teatrale, Parla-mi di me, dove ha dimostrato una voltadi più d’avere un appeal da showman,da cantante e da parlatore. «Mi sono ac-corto che nelle duecentottanta replicheho avuto sempre un rapporto intimocol pubblico. Anche un grande pubbli-co da stadio. A Jesolo mi hanno dedica-to un pezzo di lungomare, e all’inaugu-razione c’era una folla incredibile. Esarà una civetteria, ma ho anche un’al-tra immagine in memoria, quella di mea piazza San Pietro che due anni fa pren-devo più applausi di Ratzinger appenaeletto. Il Papa mi guardò, si chiese chifossi, e io gli risposi che ero molto notosolo perché avevo fatto un sacco di tv».

Anche se si è quasi del tutto emanci-pato dal marchio “figlio di...”, Christianè un talento con radici e vitalità discor-sive che sono quelle di un uomo che haperso un papà così illustre a ventitré an-ni. «È sempre stato un padre molto ma-turo per me, ma è anche la persona chepiù mi ha spinto a trarre piacere da tut-to, a non rinunciare a niente, sempre apatto di non fare del male a qualcuno».Ora, è proprio lui ad aver avuto da PupiAvati il compito di concludere una tri-logia sulla paternità, e dopo La cena perfarli conoscere con Abatantuono e Ilpapà di Giovanna con Orlando, è ap-punto Christian il genitore che fa termi-nare il ciclo ne Il figlio più piccolo, filmda poco terminato.

«Interpreto un imprenditore schifo-so, un figlio di puttana che sta per falli-re e che in extremis, su consiglio di unbieco commercialista che è Luca Zinga-retti, intesta odiosamente al giovane fi-glio tutte le proprietà in bilico, un patri-monio accumulato tradendo la buonafede della moglie separata che è LauraMorante. Sono un mostro, ma per certiaspetti ho anche un’ombra di umanità.Sicuramente non ne faccio una mac-chietta. È un film tipico di Avati (colquale avevo già fatto nel 1976 Bordella),un lavoro amaro con qualche impen-

nata ironica. Io che sono per il “vecchiostile” della gente e dei professionisti, hoamato un sacco la ricostruzione cheAvati ha fatto di una villa settecentescaa Cinecittà. Ma soprattutto ho accetta-to di cuore un cambiamento di rotta, ilfatto di calarmi in un carattere ribuit-tante, drammatico».

Non è l’unica svolta nel carnet degliimpegni di Christian. «C’è in ballo unaltro ruolo serio in un film di AntonelloGrimaldi. Ma bolle in pentola anche unprogetto sulle figure di due cognati,con la regia di mio cognato Carlo Ver-done. Così come è in sospeso l’idea diun Amici miei 400 con Ghini e Panariel-lo. E nel campo della fiction non mi di-spiacerebbe un omaggio alla storia dimio padre e mia madre». E a teatro? «AlSistina mi hanno proposto una rico-struzione dei fasti di quella sala, Sisti-neide, e io personalmente ho sempre ilsogno di mettere su un Otello a ruoli al-ternati». Ma poi ammette che è uno chesi sveglia alle sette di mattina, dichiarache gli piace il sole, e che la vita sui pal-coscenici è la negazione di questi orari,della vita diurna. «A me piace circolareper Roma. Ho una Harley-Davidsondello stesso genere di Alberto Sordi inUn americano a Roma. Peccato che inquesta città non si formino più queiclan di una volta al ristorante, col fro-cio, il prete, il politico e altri generi mi-sti tutti in una sala. Peccato che gli arti-sti popolari non s’incontrino più con legrandi firme dell’arte, come quandoCorbucci sedeva a via Veneto allo stes-so tavolo di Visconti e compagnia bel-la. Sarà pure per questo che la destranon sta più seduta da nessuna partecon la sinistra...». Lui ha deciso di nonnegarsi nulla. Se avrà tempo, tra poco aLos Angeles s’iscriverà a una scuola ditip tap, e a un corso intensivo d’inglese.Perché è un Oscar Wilde del popolo.

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RODOLFO DI GIAMMARCO

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48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14GIUGNO 2009

Christian De Sica

ROMA

«H o avuto pauradella morte,della povertà edella solitudi-

ne, come tutti gli esseri umani. E ho co-nosciuto il dolore. Ma mio padre mi hainsegnato a godere anche dei momen-ti brutti. Quando nel 2000 mi è arrivatoun petardo nell’occhio mi è parso dimorire, ho avuto nove interventi, il di-stacco della retina, un nodo di plasticanel cavo oculare, il taglio del trigemino,non avevo più il canale lacrimale, e tut-to era soltanto una sofferenza inenar-rabile. Ma sa proprio allora che mi èsuccesso? Che mentre mi sommini-stravano la morfina per operarmi, hoprovato un gran piacere muovendo ipiedi sulla lettiga, una sensazione qua-si di orgasmo. Strana, la vita, eh? E poic’è l’immunità all’angoscia che ti riser-va il mondo dello spettacolo. Quandostava per morire mio padre, io recitavo,ero in scena con Wanda Osiris, e mi so-no reso perfettamente conto che sottoi riflettori avevo l’identica carica dieuforia di sempre, che divertivo e face-vo ridere come le altre sere. Ma appenauscii dalla ribalta ed entrai nelle quinteebbi un crollo totale, non ce la facevopiù. Questo è il teatro. Una droga, unnarcotico...».

Christian De Sica, fisico tonico e sor-riso da imbroglione, toni espansivi e ar-gomenti imbarazzanti, cinquantottoanni sempre sotto accusa per essere ilRe Mida dei cinepanettoni, dna da atto-re comico figlio d’arte e ora convertitoda Pupi Avati a un ruolo drammatico.Artista che ammira i professori e gli uo-mini di cultura vecchia maniera comeZavattini, ma che non si prende con in-

Repubblica Nazionale