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Il settore privato nella cooperazione italiana Applicazione della legge 125 del 2014 luglio 2015

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Page 1: Il settore privato nella cooperazione italiana · 2015”, attraverso il quale ActionAid Italia si propone di analizzare le novità introdotte dalla ri-forma della cooperazione italiana

Il settore privato nellacooperazione italianaApplicazione della legge 125 del 2014

luglio 2015

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Responsabile per conto di ActionAid:Livia Zoli, capo unità di Policy e [email protected]

Ricerca e redazione: Damiano Sabuzi Giuliani, Veronica Boggini, Mirko TricoliSupervisione: Luca De FraiaEditing: Randa El TahmyGrafica: Polaris Publishing and Graphics | www.polarisonline.itCover photo credit: Greg Funnell/ActionAid

Per maggiori informazioni: [email protected]

Questo policy paper è stato integrato con gli spunti e le precisazioni emerse a seguito del dibattito tenutosi martedì 7 luglio 2015, in occasione del workshop di presentazione.

Il presente documento è stato messo a punto da ActionAid sulla base di una ricerca commissionata a Human Foundation e all’Agenzia LAMA nel quadro del progetto “Framing the future development: A policy proposal for influencing the Italian coope-ration post-2015”, realizzato in partnership con la Bill & Melinda Gates Foundation. Tale progetto ha tra gli obiettivi quello di analizzare il coinvolgimento del settore priva-to profit italiano nel quadro della riforma di legge della cooperazione allo sviluppo (Legge 125/2014).

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Indice

Introduzione ....................................................................................................2

1. Il contesto internazionale e la riforma italiana: cosa cambia per il settore privato ..................................................................................................3

2. Definire il settore privato come attore di cooperazione: principi, standard e modelli di coinvolgimento .....................................................13

3. Strumenti di finanziamento .................................................................. 27

4. Il monitoraggio e la valutazione dell’impatto sociale degli investimenti del settore privato nella cooperazione internazionale .... 35

Raccomandazioni ........................................................................................41

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Il settore privato nella cooperazione italiana

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Introduzione

Il processo di riforma della cooperazione italiana, entrato nella fase implementativa dopo l’ap-provazione della Legge 125/14, vede l’introduzione di elementi di novità fondamentali e signi-ficativi, tra cui il ruolo del settore privato profit1 come soggetto del sistema della cooperazione allo sviluppo del nostro Paese. Il presente policy paper si propone di fornire un’analisi dei rischi e delle opportunità legate al coinvolgimento del settore privato nell’ambito del processo di rifor-ma, fornendo raccomandazioni per gli attori coinvolti sul tema: MAECI, Agenzia, Cassa Depositi e Prestiti, multinazionali, PMI, cooperative, imprese sociali, società civile.

La realizzazione del policy paper si inserisce nell’ambito delle attività previste dal progetto ”Framing the future development: a policy proposal for influencing the Italian cooperation post-2015”, attraverso il quale ActionAid Italia si propone di analizzare le novità introdotte dalla ri-forma della cooperazione italiana (Legge 125/14), contribuendo fattivamente al dibattito sulla nuova architettura di governance, sui nuovi attori introdotti dalla legge e sull’allocazione dell’A-iuto Pubblico allo Sviluppo (APS) italiano. In questo documento verranno trattate le potenziali criticità e i benefici del coinvolgimento del settore privato nell’ambito delle attività di sviluppo, alla luce delle norme introdotte e dei meccanismi di regolazione esistenti in Italia e a livello in-ternazionale. Sulla base delle analisi proposte ActionAid Italia fornirà delle raccomandazioni in vista del perfezionamento delle norme secondarie, in particolare lo Statuto dell’Agenzia, che determineranno l’azione dei nuovi attori chiamati a confrontarsi direttamente con le sfide della cooperazione, a partire da quella dell’efficacia.

Per la messa a punto del policy paper ActionAid si è avvalsa della collaborazione di Human Foundation, organizzazione non profit che, oltre ad occuparsi di ricerca ed advocacy su inno-vazione e finanza sociale, promuove la creazione di reti tra imprese, pubblica amministrazione, fondazioni, ONG e altri attori economici e del mondo della finanza, oltre che dell’Agenzia LAMA.

Nelle pagine a seguire verranno trattati i temi legati all’auspicato crescente ruolo del settore privato italiano nelle attività di cooperazione, specialmente con riferimento alla definizione di tale settore come soggetto del sistema della cooperazione. Si analizzeranno la nuova normati-va italiana in materia e gli standard delle organizzazioni internazionali a cui la Legge 125/14 fa riferimento; si esamineranno le caratteristiche degli organi chiamati a gestire le novità relative al coinvolgimento del settore privato, in particolar modo la Cassa Depositi e Prestiti; si proporrà un focus sui nuovi strumenti finanziari e si approfondirà il delicato tema relativo al monitoraggio dei progetti di cooperazione che vede coinvolto il settore privato. Nell’ultima parte del policy paper si proporranno le raccomandazioni di ActionAid relativamente al coinvolgimento del set-tore privato nelle attività della cooperazione italiana allo sviluppo.

1 Nel testo a seguire, per “settore privato” si intende il “settore privato profit”.

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1. Il contesto internazionale e la riforma italiana: cosa cambia per il settore privato

1.1 Il settore privato profit nella cooperazione: una classificazioneIl documento finale della conferenza sull’efficacia degli aiuti di Busan del 2011 prevedeva un coinvolgimento del settore privato nella creazione di un ambiente favorevole che consenta al settore privato di contribuire allo sviluppo. In particolare, per il settore privato si prevede la par-tecipazione alla definizione e alla gestione di strategie e policies finalizzate alla riduzione della povertà e alla diffusione di meccanismi innovativi di finanziamento. Il fine ultimo era quello di coniugare gli sforzi degli attori dello sviluppo tradizionali (stati, organizzazioni internazionali, so-cietà civile) e del settore privato per raggiungere obiettivi comuni di sviluppo.

Una crescita finalizzata alla riduzione della povertà dev’essere inclusiva e sostenibile, deve cre-are opportunità di lavoro per uomini e donne, produrre know how e generare entrate attraverso il sistema fiscale. Per ottenere uno sviluppo economico sostenibile nei Paesi partner è necessa-ria l’azione bilanciata e combinata degli aiuti esterni, dei Paesi partner e del settore privato.Una classificazione utile per differenziare la partecipazione del settore privato nei programmi di sviluppo è quella proposta da ActionAid International2, che elenca tre distinte categorie, perme-abili e sovrapponibili secondo il tipo di progetto: building, leveraging, delivering.

Building: la strategia alla base di questa categoria è lo sviluppo del settore privato dei Paesi partner, che generi occupazione, know how diffuso e una diversificazione delle attività im-prenditoriali. In questo caso gli aiuti esterni diventano uno strumento di supporto per investi-menti diretti in determinati settori strategici o indiretti, per esempio attraverso la costruzione di infrastrutture.

Leveraging: l’obiettivo in questo caso è l’aumento delle risorse per i programmi di sviluppo attra-verso il coinvolgimento del settore privato, che diventa partner nei programmi e che contribuisce a mobilizzare risorse finanziarie addizionali e investimenti. Spesso questo si traduce in un impe-gno economico-finanziario del privato su diversi livelli: multinazionali, imprese dei Paesi donatori o dei Paesi partner. In molti casi i Paesi donatori ricorrono, per questa strategia di intervento, alle imprese multinazionali già affermate e con esperienza nei Paesi partner. Le forme assunte dal le-veraging sono le Partnership Pubblico Private (in tutti i settori d’intervento, dall’agricoltura all’edu-cazione), il blending, (fare leva sugli investimenti privati attraverso gli aiuti pubblici), e i challenge fund (aiuti finalizzati a stimolare il settore privato su specifiche aree tematiche).

Delivering: in questo caso il settore privato è soggetto implementatore di iniziative finanziate con aiuti pubblici, che si impegna attraverso la stipula di contratti pubblici a fornire beni e/o ser-vizi (per esempio servizi di consulenza, costruzione di infrastrutture, forniture per uffici, ecc.).Anche attraverso questa classificazione verrà analizzato il ruolo del settore privato italiano nel quadro della riforma, partendo dal contesto internazionale descritto di seguito.

1.2 Il settore privato profit e l’evoluzione del suo coinvolgimento nella cooperazione internazionale

Nel corso degli ultimi 15 anni gli organismi internazionali, le Nazioni Unite, l’Organizzazione per la Cooperazione Economica e lo Sviluppo (OCSE), l’Unione europea e la Banca Mondiale,

2 Action Aid, Aid to, with and through the private sector: emerging trends and ways forward, April 2014, ActionAid Discussion paper.

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hanno prodotto risoluzioni, linee guida, comunicazioni che lasciano intendere un’evoluzione del ruolo giocato dal settore privato nei programmi di cooperazione. L’obiettivo del Monterrey Consensus on Financing for Development del 20023, era di coinvolge-re maggiormente il settore privato dal punto di vista finanziario, cercando di mobilizzare i capi-tali da esso detenuti verso forme di investimenti sostenibili nei Paesi partner, in particolare attra-verso gli investimenti esteri diretti, lo sviluppo delle partnership pubblico private e gli altri flussi privati. Il documento approvato nel meeting internazionale di Doha4 del 2008, recepisce questa impostazione, prevedendo la possibilità che programmi, meccanismi e strumenti a disposizione delle agenzie di sviluppo multilaterale e dei donatori bilaterali possano essere usati per incorag-giare gli investimenti privati.

In ambito OCSE/DAC sono stati delineati i principi guida delle attività di cooperazione a parti-re dalla Paris Declaration on Aid Effectiveness (2005), che avrebbero dovuto orientare le attivi-tà dei donatori tradizionali: ownership, alignment, harmonisation, managing for results, mutual accountability.

Il processo di apertura verso nuovi attori e nuove modalità di partnership inizia nell’incontro di Accra del 2008 e si sviluppa tre anni dopo a Busan, in occasione del 4th High Level Forum on Aid Effectiveness. Le aperture verso i non-traditional donor protagonisti della South-South Cooperation e il ruolo centrale dei privati nelle attività di cooperazione allo sviluppo5, sono elementi di forte novità. Nella conferenza di Busan è stato riconosciuto a ciascun sogget-to, pubblico e privato, un ruolo definito nell’apportare esperienze, pratiche e opportunità di apprendimento e collaborazione. L’obiettivo dichiarato era proprio quello di produrre cam-biamenti in seno alle politiche e ai programmi di cooperazione allo sviluppo, tali da rafforza-re la leadership dei paesi partner nei processi di sviluppo, puntando sulle opportunità che possono ad esempio venire da una migliore mobilitazione delle risorse domestiche e sulla collaborazione con il settore privato. Nasce quindi nel 2011 la Global Partnership for Effective Development Co-operation (GPEDC), organo che riunisce i donatori multilaterali e bilaterali, le economie emergenti, i soggetti donatori e i riceventi, i Paesi beneficiari, il settore privato, le organizzazioni governative e della società civile. Il GPEDC sta conducendo analisi circa l’effi-cacia della cooperazione allo sviluppo a livello sia globale sia locale, sviluppando un quadro di monitoraggio che include nuovi indicatori riguardanti il settore privato, la partecipazione della società civile, la parità di genere e la trasparenza.

Le “Linee Guida dell’OCSE destinate alle imprese multinazionali”, allegate alla Dichiarazione OCSE del 27 giugno 2000 sugli Investimenti internazionali e le imprese multinazionali, sono un insieme di raccomandazioni che i Governi firmatari rivolgono alle imprese multinazionali conte-nenti “principi e norme volontari per un comportamento responsabile delle imprese, conforme alle leggi applicabili”.Esse si prefiggono di stimolare il contributo positivo che le imprese multinazionali possono apportare al progresso economico, ambientale e sociale e di minimizzare le difficoltà connes-se all’attività d’impresa. Costituiscono il corpo di raccomandazioni più ampio sottoscritto dai governi e coprono tutte le tematiche di rilievo: diritti umani, occupazione e relazioni industriali, ambiente, divulgazione di informazioni, lotta alla corruzione, interessi del consumatore, scienza e tecnologia, concorrenza e fiscalità.Prevedono, altresì, la possibilità che uno stakeholder contesti ad un’impresa la violazione delle Linee Guida nello svolgimento della propria attività imprenditoriale disciplinando un meccani-smo di composizione stragiudiziale della controversia insorta mediante la presentazione di un’i-

3 Il Monterrey Consensus è il risultato della Conferenza Internazionale delle Nazioni Unite sul Financing for Development, tenutasi a Monterrey, in Messico, nel 2002.

4 Doha Declaration on Financing for Development, United Nations, 2009.5 Busan Declaration, punto 5. “We also have a more complex architecture for development co-operation, characterised by a greater

number of state and non-state actors, as well as co-operation among countries at different stages in their development, many of them middle-income countries. South-South and triangular cooperation, new forms of public-private partnership, and other modalities and vehicles for development have become more prominent, complementing North-South forms of co-operation”.

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stanza innanzi al Punto di Contatto Nazionale competente (meccanismo delle istanze). Il contenuto delle Linee Guida si è progressivamente ampliato ed evoluto nel tempo per adeguarsi ai profondi cambiamenti intervenuti nel contesto economico mondiale: la cre-scente globalizzazione, i mutamenti dello scenario economico internazionale, le nuove istanze etiche scaturite dalla crisi economico-finanziaria, il ricorso alla cooperazione quale strumento di stabilizzazione e di equilibrio internazionale, hanno fatto sì che, a dieci anni dall’ultima revisione delle Linee Guida, in occasione della riunione annuale dei PCN del 2009, venisse lanciato il processo di aggiornamento delle Linee Guida giunto a definizione nel 2011, con la sottoscrizione, da parte dei 46 Governi firmatari delle Linee Guida, della versione aggiornata. I principi e gli standard enunciati nelle Linee Guida OCSE “mirano ad assicurare che le attività delle Imprese Multinazionali siano conformi alle politiche governative, a rafforzare le basi per una fiducia reciproca fra le imprese e le società in cui operano, a migliorare le condizioni per gli investimenti esteri e a valorizzare il contributo apportato dalle Imprese Multinazionali allo svilup-po sostenibile”6.

Nel documento programmatico di Rio+20 The Future WeWant7 si riafferma che per otte-nere uno sviluppo sostenibile serve il coinvolgimento diretto sia del settore pubblico sia di quello privato, dando particolare risalto allo strumento delle partnership pubblico-pri-vato. Affermando, inoltre, l’importanza di creare dei regolamenti nazionali e delle politiche che permettano alle pratiche della Corporate Social Responsibility di divenire strumento dell’industria per lo sviluppo sostenibile, si riconosce e dichiara apertamente che il settore privato deve presentare una serie di caratteristiche quali: dinamicità, inclusività, buon fun-zionamento, responsabilità ambientale e responsabilità sociale, identificandolo al contempo come un prezioso strumento che può offrire un contributo cruciale alla crescita economica e alla riduzione della povertà.

Nel contesto descritto, il miglioramento dell’efficacia degli aiuti della cooperazione allo sviluppo risulta avere un ruolo importante nell’attirare nuove fonti di finanziamento. A questo proposito, la Banca Mondiale, nel documento Financing for Development Post-2015 del 2013, punta sulla capacità dei Paesi a basso reddito di mobilizzare risorse interne dei privati e sulla necessità di puntare su fonti innovative di finanziamento.

Com’è noto, il 2015 è un anno di svolta, in quanto la programmazione sviluppata nell’an-no 2000 con i Millennium Development Goals (MDGs) si conclude con un parziale rag-giungimento degli obiettivi prefissati (United Nations Department of Economic and Social Affairs, 2015) ed evolve nel nuovo framework, rappresentato dai Sustainable Development Goals (SDGs)8. Per il raggiungimento dei risultati di sviluppo identificati negli SDGs9, l’ap-porto del settore privato – a livello globale e locale – sarà cruciale se risponderà ai prin-cipi dell’investimento responsabile, alla sostenibilità ambientale e sociale e alle politiche

6 Linee Guida OCSE, 2011, http://www.oecd.org/daf/inv/mne/MNEguidelinesITALIANO.pdf.7 United Nations, Resolution adopted by the General Assembly on 27 July 2012, http://www.uncsd2012.org/thefuturewewant.html8 Gli SDGs, nati dalla Conferenza di Rio+20 del 2012, sostituiranno gli MDGs nel settembre 2015, in occasione dell’Assemblea

Generale delle Nazioni Unite. Di seguito l’elenco dei 17 nuovi obiettivi identificati, da raggiungere entro il 2030: terminare la po-vertà in tutte le sue forme, ovunque; eliminare la fame, raggiungendo la sicurezza alimentare migliorando le condizioni nutritive promuovendo un’agricoltura sostenibile; garantire una vita sana e promuovere il benessere di tutti a tutte le età; garantire istru-zione di qualità inclusiva ed equa promuovendo forme di apprendimento permanente per tutti; raggiungere la parità di genere ed empowerment di donne e ragazze; garantire l’accesso e la disponibilità di acqua e servizi sanitari per tutti; assicurare l’accesso a fonti di energia a tutti in maniera sostenibile e moderna; promuovere una crescita economica inclusiva e sostenibile, con una occupazione decente per tutti; costruire una infrastruttura resistente, promuovendo l’innovazione e industrializzazione sostenibile e inclusiva; ridurre l’ineguaglianza intra e infra nazionale; rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri resistenti e so-stenibili; assicurare schemi produttivi e di consumo sostenibili; prendere azioni urgenti contro i cambiamenti climatici e i relativi impatti; conservare e le risorse idriche utilizzandole in maniera sostenibile; proteggere e promuovere un uso sostenibile degli eco-sistemi terrestri, in termini di deforestazione e desertificazione, di degradazione del terreno e perdita di biodiversità; promuovere società pacifiche e inclusive, fornendo accesso alla giustizia per tutti; rafforzare le modalità di implementazione e rivitalizzare la partnership globale per lo sviluppo sostenibile.

9 Financing for Development, Addis Abeba 13-16 Luglio 2015.

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attive di CSR, come si evince dal recente documento Private sector investment and su-stainable development (Nazioni Unite, 2015). Pertanto, il settore privato è invitato a piani-ficare le proprie operazioni in un orizzonte temporale di più lungo periodo, a intraprendere nuovi processi produttivi o utilizzare strumenti finanziari che soddisfino i bisogni dei Paesi a basso reddito.

1.3 Il settore privato nella cooperazione italiana

Il partenariato pubblico-privato nella Legge 49 del 1987

La Legge 49/1987 per la realizzazione di progetti a favore dei Paesi in via di sviluppo prevede-va, oltre a doni diretti a questi stessi Paesi e a organizzazioni internazionali, anche strumenti finanziari in grado di creare partenariati. Nel testo della legge n. 49 era fatto diretto riferimento al settore privato e agli strumenti finanziari in tre articoli distinti:

• nell’art. 5 si definiva il ruolo del Ministero degli Affari Esteri quale promotore e coordinatore per i programmi operativi in materia di Cooperazione allo Sviluppo, riguardanti il settore pubblico così come quello privato;

• nell’art. 6 si prevedeva la concessione di crediti finanziari agevolati, a valere sul Fondo rotativo costituito presso il Mediocredito centrale, a enti e banche estere, a Stati, banche centrali o enti di Stato in Paesi in via di sviluppo; al comma 3 si stabiliva che “i crediti di aiuto anche quando sono associati ad altri strumenti finanziari (doni, crediti agevolati all’esportazione, crediti a condizioni di merca-to), potranno essere concessi solamente per progetti e programmi di sviluppo rispondenti alla finalità della presente legge”;

• nell’art. 7 si prevedeva la possibilità di concedere, a valere sul Fondo di rotazione di cui all’Art. 6, “crediti agevolati alle imprese italiane con il parziale finanziamen-to della loro quota di capitale di rischio in imprese miste da realizzarsi in Paesi in via di sviluppo con partecipazione di investitori, pubblici o privati, del paese be-neficiario, nonché imprese private dello stesso”. Al Mediocredito Centrale veniva affidata, tramite apposita convenzione, la delega circa le attività di valutazione, erogazione e gestione dei crediti in oggetto.

Quest’ultimo strumento, identificato nell’art. 7 della Legge 49/1987, che prevedeva l’uti-lizzo di crediti agevolati per la creazione di imprese a capitale misto, non è risultato molto utilizzato. Infatti, tra il 1998 e il 2012 sono stati concessi crediti agevolati per la creazione di imprese miste per un totale di circa 105 milioni di euro, la maggior parte dei quali al-locati prima del 2000. Si tratta di una cifra esigua sia rispetto al totale degli investimenti diretti italiani finanziati nello stesso periodo, pari a 32 miliardi di € secondo le statistiche dell’OCSE, sia rispetto ai crediti di aiuto erogati, che nel suddetto periodo ammontavano a 5,7 miliardi di €10.

Il settore privato nella Legge 125/2014

Nel testo della nuova Disciplina generale sulla cooperazione internazionale per lo sviluppo si fa chiaro e diretto riferimento all’art. 23 ai soggetti aventi finalità di lucro come soggetti del siste-ma della cooperazione. La tabella 1 riporta i riferimenti al “settore privato” nei diversi articoli della legge.

10 Action Aid, L’Italia e la lotta alla povertà nel mondo. Una nuova democrazia del cibo. Annuario delle cooperazione allo sviluppo, 2014, Carocci Editore, Roma.

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TABELLA 1 - Riferimenti al settore privato nella Legge 125/2014

Articolo 2 Definisce i destinatari delle politiche di APS italiane individuando nel settore privato dei Paesi beneficiari un possibile partner nonché obietti-vo di programmi di sviluppo.

Articolo 8 Istituisce un apposito fondo rotativo fuori bilancio, costituito in capo alla società Cassa Depositi e Prestiti, per l’erogazione di crediti concessio-nali destinati al miglioramento della situazione economica e monetaria dei Paesi in via di sviluppo, diretti a favorire e promuovere il progresso tecnico, culturale, economico e sociale di detti Stati.

Articolo 12 Prevede la redazione di un documento triennale di programmazione e d’indirizzo della politica di cooperazione allo sviluppo.

Articolo 16 Istituisce il Consiglio Nazionale della Cooperazione allo Sviluppo, che è un organo consultivo composto dai principali soggetti pubblici e pri-vati, profit e non profit, della cooperazione internazionale allo sviluppo.

Articolo 17,

comma 3

Definisce le mansioni dell’Agenzia per la Cooperazione allo Sviluppo e Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo. L’Agenzia, do-tata di autonomia decisionale di spesa entro un limite massimo di due milioni di euro, fra le proprie attività ha anche quella di promuovere for-me di partenariato con soggetti privati per la realizzazione di specifiche iniziative.

Articolo 20 Fa riferimento alla riorganizzazione della Direzione Generale per la Co-operazione allo Sviluppo la quale fra le altre attività detiene quella di valutazione dell’impatto degli interventi di cooperazione allo sviluppo e verifica del raggiungimento degli obiettivi programmatici, ivi compresi quelli che includano attori del settore privato profit.

Articolo 23,

comma 2,

punto d

Riconosce quali soggetti della cooperazione allo sviluppo italiana i sog-getti privati con finalità di lucro, purché agiscano con modalità conformi ai principi della legge, aderiscano agli standard in materia di responsa-bilità sociale e alle clausole ambientali, nonché rispettino le norme sui diritti umani per gli investimenti internazionali.

Articolo 27 Specifica il ruolo del privato profit all’interno della cooperazione inter-nazionale allo sviluppo italiana. Gli attori individuati sono le imprese e gli istituti bancari, questi soggetti potranno partecipare a procedure di evidenza pubblica per contratti, nazionali, europei e internazionali per la realizzazione di iniziative di sviluppo. Viene inoltre specificato sia il Comitato Interministeriale per la Cooperazione allo Sviluppo (CICS) a stabilire la quota del fondo rotativo che può essere concesso ai privati profit italiani e le condizioni in base alle quali possono essere concessi i crediti.

Tabella 1 - Fonte: Elaborazioni Human Foundation e ActionAid su dati Legge 125/2014, maggio 2015

Come si evince dalla tabella, la nuova legge fornisce un quadro più chiaro e articolato rispetto alle forme di coinvolgimento del settore privato, rafforzando così l’impiego di strumenti di finan-

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Il settore privato nella cooperazione italiana

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ziamento ed investimento quali:

1) I crediti di aiuto11 (art. 8 della Legge 125/14), si tratta di crediti concessio-nali a valere su un Fondo rotativo costituito presso la Cassa Depositi e Prestiti SpA, destinati a Stati, banche centrali, enti di Stato del paese beneficiario o Organizzazioni internazionali12. I crediti di aiuto destinati ai Paesi meno avanzati (PMA) e ai Paesi altamente indebitati (HIPC) a seguito delle Raccomandazioni OCSE-DAC del 2001 e del 2008 devono essere completamente slegati. I pro-getti finanziati sono realizzati da imprese aggiudicatarie di gare internazionali e i termini e le condizioni finanziarie (tasso d’interesse, durata del credito, periodo di grazia) risultano migliori dei crediti di mercato e sono connessi al reddito pro capite del paese beneficiario.

2) Procedura di matching (art. 8 della Legge 125/14), i crediti di aiuto posso-no anche essere utilizzati anche come forma di sostegno pubblico indiretto al proprio settore privato. Infatti, si può attivare tale procedura su richiesta di un’impresa italiana che partecipa a una gara internazionale, finalizzata alla realizzazione di progetti di sviluppo in PVS, in cui le Autorità locali di fat-to richiedano a tutti i concorrenti oltre all’offerta tecnico-economica anche un’offerta finanziaria nella forma di aiuti, la quale assume carattere deter-minante nella fase di aggiudicazione. Tale sostegno finanziario, è “legato” essendo condizionato all’aggiudicazione della gara in favore dell’impresa italiana13.

3) Linee di credito per le piccole medie imprese locali dei PVS (art. 8 della Legge 125/14), riferite al settore privato vengono erogate attraverso il sistema bancario del paese partner, sono destinate all’acquisto di beni e servizi di origine italiana per una percentuale variabile dal 50% al 70% del valore complessivo ed hanno l’obiettivo di abbattere i tassi d’interesse di mercato del credito commer-ciale nei Paesi di riferimento14.

4) I crediti agevolati (art. 27 della Legge 125/14), come per la 49/87, anche la 125/2014 consente di erogare finanziamenti agevolati alle imprese italiane che realizzano impre-se miste nei Paesi partner15 utilizzando una quota del fondo rotativo. Esso prevede la concessione di crediti agevolati alle imprese italiane per il parziale finanziamento (70%)

11 Disciplinati dall’Art. 8 legge 125/14: “Iniziative di cooperazione con crediti concessionali. 1. Il Ministro dell’economia e delle finanze, previa delibera del Comitato di cui all’articolo 21, su proposta del Ministro degli affari esteri e della cooperazione inter-nazionale, ed in base alle procedure stabilite dalla presente legge, autorizza la Società Cassa depositi e prestiti Spa a concedere, anche in consorzio con enti o banche estere, a Stati, banche centrali o enti pubblici di Stati di cui all’articolo 2, comma 1, nonché a organizzazioni finanziarie internazionali, crediti concessionali a valere sul fondo rotativo fuori bilancio costituito presso di essa ai sensi dell’articolo 26 della legge 24 maggio 1977, n. 227. 2. Ove richiesto dalla natura dei programmi di sviluppo, i crediti con-cessionali possono essere destinati al finanziamento dei costi locali e di acquisti in Paesi terzi di beni, servizi e lavori inerenti alle iniziative di cui al presente articolo”.

12 Una delle novità, rispetto alla legislazione precedente è la possibilità di individuare anche le “Organizzazioni finanziarie interna-zionali” come eleggibili a tali finanziamenti concessionali. Presso tali Organizzazioni si potranno in tale modo istituire ad esempio trust fund, finanziati a credito, per la realizzazione di progetti nelle aree di competenza delle OO.II. stesse, qualora coincidano con quelle di interesse per la Cooperazione, sulla base di quanto stabilito dalle Linee Guida 2014-2016 (da I quaderni della Coopera-zione Italiana, Gli strumenti finanziari della cooperazione italiana a sostegno dello sviluppo del settore privato, MAECI, 2015).

13 Le caratteristiche dello strumento finanziario in questione sono regolamentate dall’OCSE tramite l’Arrangement on Guidelines for Officially Supported Export Credit e dalla Delibera del Comitato Direzionale n. 117/2013.

14 MAECI-DGCS, Gli strumenti finanziari della cooperazione italiana a sostegno dello sviluppo del settore privato, in I Quaderni della Cooperazione italiana, 2015.

15 Art. 27 legge 125/14: “Una quota del Fondo rotativo può essere destinata a: a) concedere ad imprese italiane crediti agevolati per assicurare il finanziamento della quota di capitale di rischio, anche in forma anticipata, per la costituzione di imprese miste in Paesi partner, individuati con delibera del CICS, con particolare riferimento alle piccole e medie imprese; b) concedere crediti agevolati ad investitori pubblici o privati o ad organizzazioni internazionali, affinché finanzino imprese miste da realizzarsi in Paesi partner o eroghino altre forme di agevolazione identificate dal CICS che promuovano lo sviluppo dei Paesi partner; c) costituire un fondo di garanzia per i prestiti concessi di cui alla lettera a).”

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della loro quota di capitale di rischio in imprese miste da realizzarsi in Paesi in via di sviluppo, con partecipazione di investitori pubblici e privati, anche congiuntamente, del Paese destinatario. I crediti possono essere concessi in Paesi partner individuati dal Comitato Direzionale, tenendo conto delle priorità geografiche generali della Co-operazione italiana e della sussistenza di adeguate garanzie agli investimenti esteri. È possibile accedere ai finanziamenti a fronte di conferimenti in denaro in conto capitale sociale (e, nella misura del 20% dell’importo finanziato, anche in natura). La partecipa-zione al capitale delle imprese miste da parte delle società italiane deve essere finaliz-zata alla realizzazione di nuove iniziative e/o all’ampliamento di iniziative preesistenti16. Come abbiamo messo in evidenza in un nostro precedente rapporto17 il nostro paese ha ampiamente utilizzato questo strumento soprattutto alla fine degli anni Ottanta e nella prima metà degli anni Novanta, quando esso costituiva fino al 40% dell’APS bilaterale. Negli anni sia il volume dei crediti di aiuto sia la loro percentuale sul totale dell’APS bilaterale sono diminuiti sostanzialmente, ricoprendo un ruolo sempre meno importante nella cooperazione italiana. Uno degli elementi che ab-biamo riscontrato è che - a differenza dei progetti a dono, per i quali è relativamente facile reperire informazioni sull’ente esecutore dell’intervento - per quanto riguarda i crediti di aiuto non è altrettanto semplice trovare dettagli sulle aziende italiane che si sono aggiudicate le gare di appalto; queste informazioni non sono presenti nel database OpenAid18, né tantomeno nel database CRS dell’OCSE/DAC.

5) Cofinanziamenti con istituzioni sovranazionali e blending con fondi dell’U-nione europea19, si tratta di finanziamenti congiunti con Istituzioni finanziarie in-ternazionali (IFI), come la Banca Mondiale, la Banca Europea degli Investimenti o la Banca dello Sviluppo dell’America Latina, fornendo un finanziamento a credito d’aiuto (art. 8 della Legge 125/14) che si può sommare a linee di credito conces-se al Paese beneficiario dalle istituzioni partner. Le IFI possono fornire assistenza tecnica alla Stazione appaltante locale, per la realizzazione delle gare d’appalto per i contratti di progettazione e realizzazione dei lavori, finanziati a valere sul credito DGCS. In questo schema il credito d’aiuto italiano (a tassi concessionali) viene concesso direttamente ad una impresa mista costituita in loco, che realiz-zerà l’opera, la quale potrà essere parallelamente finanziata anche dalle istituzio-ni finanziarie partner della DGCS, a tassi commerciali20. Tali cofinanziamenti sono utilizzati per grandi iniziative, in particolare per la realizzazione di infrastrutture nei Paesi partner. Le operazioni di blending con fondi dell’Unione europea prevedono un cofinanziamento di programmi/progetti di cooperazione in Paesi partner, tra soggetti pubblici, a valere su Trust Fund dedicati21. Anche in questo

16 In merito ai requisiti, si richiede alle imprese italiane una rilevante partecipazione nel capitale di rischio (almeno del 20%), così come nella gestione dell’impresa, nella formazione e sviluppo del management locale. La partecipazione degli investitori locali (imprese o cittadini del PVS) non potrà essere inferiore al 25% del capitale di rischio dell’iniziativa. Il finanziamento agevolato non potrà in ogni caso superare l’importo di Euro 10.000.000,00 e potrà avere una durata di un massimo di 10 anni, di cui 5 di grazia. Questo significa che gli interessi sul finanziamento, che ad oggi equivalgono allo 0,372% (15% del tasso per il credito industriale, che a febbraio 2014 è il 2,48%,) inizieranno ad essere restituiti dall’impresa richiedente il finanziamento a partire dal sesto anno. Come riportato in MAECI-DGCS, Gli strumenti finan-ziari della cooperazione italiana a sostegno dello sviluppo del settore privato, in I Quaderni della Cooperazione italiana, 2015.

17 ActionAid, L’Italia e la lotta alla povertà nel mondo. Una nuova democrazia del cibo. Annuario delle cooperazione allo sviluppo, 2014, Carocci Editore, Roma.

18 Rispetto al reperimento di informazioni sull’ente esecutore dell’intervento a credito di aiuto, il Direttore generale per la Coopera-zione allo Sviluppo ha ricordato come si tratti di gare non bandite dalla cooperazione italiana, ma da stazioni appaltanti estere con procedure diverse a seconda delle previsioni degli accordi governativi che regolano le concessione del credito d’aiuto. Le deci-sioni in merito alle aggiudicazioni sono di conseguenza responsabilità delle stesse stazioni appaltanti straniere. Ciononostante, si è registrata la disponibilità a verificare le condizioni per assicurare che tali dati relativi alle aggiudicazioni siano pubblicati anche sulla piattaforma DGCS al fine di assicurarne la massima pubblicità, nonché la massima trasparenza.

19 MAECI-DGCS, Gli strumenti finanziari della cooperazione italiana a sostegno dello sviluppo del settore privato, in I Quaderni della Cooperazione italiana, 2015.

20 MAECI-DGCS, Gli strumenti finanziari della cooperazione italiana a sostegno dello sviluppo del settore privato, in I Quaderni della Cooperazione italiana, 2015.

21 La DGCS/MAECI cita come esempio il blending di risorse tra UE e DGCS in Niger, a valere sul Trust Fund “Infrastrutture UE-Afri-ca” in MAECI-DGCS, Gli strumenti finanziari della cooperazione italiana a sostegno dello sviluppo del settore privato, in I Quaderni

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Il settore privato nella cooperazione italiana

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caso si utilizzano generalmente per la realizzazione di infrastrutture.

6) Conversione del debito (Legge 209 del 25 luglio 2000), l’Italia si impegna a cancellare parte del debito di un paese beneficiario a fronte della destinazione da parte del paese stesso di risorse equivalenti alla cancellazione, in valuta locale, per la realizzazione di progetti di sviluppo. In linea teorica è possibile la parte-cipazione del settore privato nei progetti così finanziati, il limite individuato è la conversione delle risorse a disposizione in valuta locale.

1.4 Il rischio dell’aiuto legatoPer aiuto legato si intende la prassi di vincolare la concessione di risorse considerate APS dall’OC-SE al successivo acquisto di beni e servizi provenienti dal proprio territorio. All’art. 2 della 125/2014 al comma 4 il legislatore ha tenuto a precisare che “Nelle attività di cooperazione allo sviluppo è privilegiato, compatibilmente con la normativa dell’Unione europea e con standard di normale ef-ficienza, l’impiego di beni e servizi prodotti nei Paesi e nelle aree in cui si realizzano gli interventi”. Sarà importante verificare quanto il principio espresso nell’art. 2 troverà concreta applicazione nel momento in cui le imprese prenderanno confidenza con gli strumenti previsti dalla legge. Nel 2001, per esempio, la quota di aiuto legato dell’Italia era pari al 91%, scendendo al 22% nel 2008, comunque il peggior risultato europeo dopo quello di Grecia, Portogallo e Spagna. In realtà il dato era distorto dalle operazioni di cancellazione del debito a favore dei Paesi partner, che, contabilizzate come aiuti, sono però slegate per definizione. Al netto di questa dimensione, nel 2008 il dato italiano per l’aiuto legato peggiora, salendo al 39%. Tra 2011 e 2012 la percentuale di aiuto non vincolato dell’Italia, al netto delle azioni relative alla cancellazione del debito, è migliorata in maniera significativa. Dopo un 2011 molto negativo per cui la percentuale d’aiuto legato del nostro Paese era pari al 72%, si raggiunge il 17%, passan-do dalla penultima posizione dopo il Portogallo fino a superare Spagna, Portogallo, Corea, Gre-cia, Austria e Repubblica Ceca.

Con i dati del 2013 (vedi Grafico 1) si può confermare il trend positivo dell’Italia avviato nel 2012: per il 2013 la percentuale dell’aiuto legato, al netto delle cancellazioni del debito, è scesa fin al 7% anche se continua ad essere tra i 10 Paesi DAC che legano maggiormente l’aiuto.Sicuramente dovremmo attendere i dati periodo 2014-2016 per capire se l’Italia avrà effettiva-mente interiorizzato le raccomandazioni delle Peer Review svolte dall’OCSE/DAC nel 2009 e nel 201422, per confermare il trend positivo23 e non far si che questi risultati siano riconducibili a “misure una tantum”24. Inoltre i dati attuali non sono ancora sufficienti per dimostrare la reale efficacia del nuovo impianto legislativo italiano. Successivamente all’entrata in vigore della Legge 49/87, in particolare nei primi anni novanta, gli aiu-ti legati erano determinati dall’uso dei crediti concessionali erogati in base all’art. 6 della legge 49/87 a favore di Stati, banche centrali o enti di Stato del paese partner legati, appunto, a lavori, forniture o servizi di origine italiana. Inoltre, a volte i crediti di aiuto legati potevano anche essere accoppiati (procedura di matching) a una gara internazionale a cui partecipasse un’impresa italiana: in questo

della Cooperazione italiana, 2015.22 Cfr. Ministry of Foreign Affairs, DAC Peer Review 2009: Memorandum, Rome 2009 e OCSE-DAC, Peer Review of the Develop-

ment Co-Operation Policies and Programmes of Italy Draft Secretariat Report (Note by the Secretariat), 26 March 2014.23 A questo proposito, il Direttore Generale per la Cooperazione allo Sviluppo ha qui segnalato come si tratti di un trend consolidato, non

dovuto a misure contingenti. Del resto, in sede di Peer Review OCSE-DAC 2013, era stato riconosciuto all’Italia il progressivo allineamento alle raccomandazioni sullo slegamento dell’aiuto, sulla evidenza che dal 2002 la DGCS, proprio in ottemperanza alle raccomandazioni OCSE, stesse progressivamente slegando i crediti d’aiuto. La prime misure in tale senso erano state prese per i paesi Least Developed Countries a seguito della Decisione CIPE n.61/2002 ed erano proseguite, conformemente alle raccomandazioni OCSE 2008 per tutti i crediti d’aiuto destinati ai paesi HIPC (Decisione CIPE n.93/2009). Infine, sempre in linea con le raccomandazioni OCSE, la cooperazione italiana ha provveduto a slegare i crediti per i paesi upper-middle income. In ragione di quanto precede, la percentuale di slegamento dell’aiuto italiano (doni e crediti) è aumentata costantemente: dal 68% del 2010, al 78% nel 2011, al 83% nel 2012, fino al 93% nel 2013.

24 Su questo rischio poneva l’accento anche l’OCSE/DAC nella Peer Review sopra citata.

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caso il credito di aiuto era condizionato all’aggiudicazione della gara da parte dell’impresa italiana. Rispetto all’aiuto legato, il Legislatore prevede all’articolo 8 della Legge 125/14 la definizione di iniziative di cooperazione con crediti concessionali, facendo riferimento ai principi dell’Ar-rangement OCSE-DAC per le procedure di erogazione. In particolare, i crediti legati al reddito pro-capite del paese non devono superare la soglia massima stabilita dalla Banca Mondiale per i Paesi a reddito medio-basso di 4.125 dollari USA. La percentuale massima di aiuto legato può giungere al 95% del credito per i PVS limitrofi e Paesi OCSE, mentre per i Paesi meno avanzati (PMA) e HIPC (Heavily Indebted Poor Countries) l’aiuto potrà essere slegato.

Grafico 1 - Percentuale APS legato al netto delle cancellazioni del debito (Paesi DAC)25

Fonte: elaborazioni ActionAid su dati OCSE - DAC, giugno 2015

25 Per la Francia non sono disponibili i dati necessari per elaborare i dati per anno 2013; per la Repubblica slovacca e la Slovenia non sono disponibili i dati per nessuna annualità.

85

73

63,4

50,5

38

24

19

16

12

7

3,3

2,5

2

2

1

1

1

0

0

0

0

0

0

0

0

89

53,3

69,5

44,93

30,2

3,4

20,2

14,03

16,9

6,7

2

1,8

3,5

1,3

0

0

8,2

0

0

0,7

0

3,2

Portogallo

Grecia

Repubblica Ceca

Austria

Corea

Stati Uniti

Finlandia

Spagna

Giappone

Italia

Belgio

Germania

Paesi Bassi

Nuova Zelanda

Lussemburgo

Svezia

Svizzera

Australia

Canada

Danimarca

Islanda

Irlanda

Norvegia

Polonia

Regno Unito

Francia

2012 2013

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PHOTO: CRYSTALINE RANDAZZO/ACTIONAID

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2. Definire il settore privato come attore di cooperazione: principi, standard e modelli di coinvolgimento

2.1 Quale ruolo può assumere il settore privato nel quadro della riforma della cooperazione?

L’art. 23, al comma 2, lettera D, inserisce tra i soggetti del sistema della cooperazione inter-nazionale “i soggetti con finalità di lucro, qualora agiscano con modalità conformi ai principi della presente legge, aderiscano agli standard comunemente adottati sulla responsabilità so-ciale e alle clausole ambientali, nonché rispettino le norme sui diritti umani per gli investimenti internazionali”.

Tale comma fornisce dunque un elemento fondamentale per l’identificazione dei soggetti privati a scopo di lucro che possano partecipare alle attività della cooperazione internazionale italiana: la dimostrazione della correttezza dell’operato di tali organizzazioni appare come fondamentale precondizione alla cooperazione di questi con lo Stato per la realizzazione di un progetto o pro-gramma di cooperazione internazionale. È importante notare come il rispetto degli standard non sia un requisito unicamente per quanto riguarda gli interventi finanziati, ma interessi soprattutto la realtà for profit in sé, che, se intende intraprendere attività di cooperazione, non deve presentare elementi di incoeren-za nel proprio core business con i principi e le finalità promosse dalla cooperazione interna-zionale.Questa impostazione è coerente con le più recenti evoluzioni normative a livello interna-zionale, che nel riconoscere il ruolo fondamentale del settore privato richiamano la neces-sità di associare l’operato globale del settore privato con la sostenibilità ed il sostegno di principi etici.

2.2 Standard internazionali e certificazioni volontarieIl panorama internazionale mostra un’articolata e complessa varietà di principi che danno indi-cazioni rilevanti per il coinvolgimento del settore privato. A questi si affiancano le iniziative del settore privato stesso, impegnato in maniera crescente nel presentare la propria conformità a standard ambientali, sociali e relativi al rispetto dei diritti umani e dei lavoratori. Recepire e garantire l’osservazione di standard e principi internazionalmente riconosciuti e ri-chiedere l’aderenza a certificazioni rappresenta un punto di partenza imprescindibile per il nuo-vo corso della cooperazione italiana, senza però dimenticare che gli standard non hanno una cogenza per i partecipanti e non prevedono un processo formale di monitoraggio e applicazio-ne dei principi (per cui le organizzazioni aderenti non hanno l’obbligo di seguire le indicazioni rispetto a varie questioni concernenti i diritti umani, il lavoro, l’ambiente, l’anti-corruzione, etc.) e che le certificazioni sono di carattere volontario.

Una regolamentazione vincolante rispetto a standard minimi condivisi potrebbe rappresentare la soluzione ideale per garantire sufficiente coerenza tra i framework nazionali ed una effettiva esecuzione dei principi; d’altronde, gli standard dovrebbero prendere in considerazione anche i vincoli che condizionano la partecipazione soprattutto delle piccole imprese nelle iniziative di sviluppo26.

26 P. Lucci, Post-2015 MDGs: What Role for Business?, 2012, London: Overseas Development Institute.

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L’approccio dell’UE per il coinvolgimento del settore privato

In linea con l’assunzione da parte del settore privato di un ruolo sempre più attivo nella cooperazione allo sviluppo, l’Unione Europea ha provveduto ad esprimersi in merito attraverso diversi documenti.Nel maggio del 2014 è stata pubblicata la comunicazione della Commissione Europea “Un ruolo più incisivo del settore privato nella crescita inclusiva e sostenibile dei Paesi in via di sviluppo”27. La Comunicazione parte dal presupposto che il settore privato possa generare una crescita inclusiva e sostenibile nei paesi in via di sviluppo, affermando la volontà forte di coinvolgere il settore privato quale partner. In particolare, si richiama il concetto di “Private Sector Enga-gement” (PSE). Con tale concetto si intende identificare un’impresa come attore di sviluppo, coerentemente con quanto disposto dalla Legge 12528 e nel senso indicato dalla Commissio-ne Europea ed elaborato nelle Conclusioni del Consiglio Sviluppo del dicembre 2014, sotto presidenza italiana.

Nelle conclusioni del Consiglio Europeo dei Ministri degli Affari Esteri dello scorso 12 di-cembre, successivo alla comunicazione della Commissione europea “Un ruolo più incisivo del settore privato nella crescita inclusiva e sostenibile dei Paesi in via di sviluppo”29, è pre-sente un invito all’implementazione di una serie di standard volti alla promozione della RSI in coerenza con quanto scritto nella citata comunicazione. Nello specifico, al paragrafo 20 si legge:“The Council supports the Commission’s and Members States’ efforts to promote Corporate Social Responsibility, in particular through the implementation of the internationally recognised guidelines and principles, i.e. the UN Guiding Principles on Business and Human Rights, the In-ternational Labour Organisation (ILO) Tripartite Declaration of Principles Concerning Multination-al Enterprises and Social Policy, the Organisation of Economic Cooperation and Development (OECD) Guidelines for Multinational Enterprises, the UN Global Compact, and the International Organisation for Standardisation (ISO) 26000 Guidance Standard on Social Responsibility”.Possiamo quindi assumere che a livello UE il quadro di riferimento minimo in relazione agli stan-dard sia costituito da:

• UN Guiding Principles on Business and Human Rights e UN Global Compact;

• ILO Tripartite Declaration of Principles Concerning Multinational En-terprises and Social Policy;

• Linee Guida OCSE per le imprese multinazionali;

• Certificazione ISO 26000 sugli standard di responsabilità sociale.

Lo stesso documento, inoltre, fa esplicito riferimento anche alle discussioni avvenute in sede OCSE-DAC circa il framework di misurazione della FFD post-2015 e ai principi di Busan, quali basi per raggiungere gli obiettivi dell’efficacia, dell’impatto sullo sviluppo e del coordinamento fra gli attori.

27 Commissione europea, Un ruolo più incisivo del settore privato nella crescita inclusiva e sostenibile dei Paesi in via di sviluppo, COM (2014) 263 DEF. del 13/05/2014, 2014.

28 Il Direttore generale per la Cooperazione allo Sviluppo precisa che una tipologia di PSE potrebbe fare riferimento alle “esternalità” positive che potrebbero derivare da un investimento privato per una progettualità di sviluppo. Tale obiettivo può realizzarsi a partire da un impulso dell’impresa oppure dell’amministrazione, che si fa parte proponente di iniziative volte a cogliere l’opportunità fornita dall’operatività di aziende private in settori strategici (sia dal punto di vista del business che della cooperazione allo sviluppo). Una progettualità privata potrebbe quindi essere integrata da un progetto pubblico di cooperazione allo sviluppo, finanziato con fondi a dono o credito d’aiuto, oppure nel settore privato, finanziato tramite linee di credito PMI sul presupposto che impresa privata, istituzioni e altri attori della società civile possono convergere sulle caratteristiche di una determinata progettualità, e concorrere a realizzarla e a finanziarla, attraverso vari strumenti. Il blending finanziario può includere un investimento privato ed attuare un effetto leva a partire da esso. E’ ovvio che in questo schema l’impresa dovrebbe aderire a principi e linee guida internazionalmente riconosciute di Corporate Social Responsibility

29 Commissione europea, Un ruolo più incisivo del settore privato nella crescita inclusiva e sostenibile dei Paesi in via di sviluppo, COM (2014) 263 DEF. del 13/05/2014, 2014.

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UN Guiding Principles on Business and Human Rights e il Global Compact

Un quadro di riferimento per l’intervento di tutte le imprese private30 nelle attività di coopera-zione è rappresentato dagli UN Guiding Principles on Business and Human Rights, che defini-scono un framework fondato su tre pilastri principali che definiscono obblighi e responsabilità rispetto alla protezione, al rimedio e al rispetto per i diritti umani31. Sulla base di questo fra-mework si articola anche il Global Compact delle Nazioni Unite, iniziativa orientata alla promo-zione della sostenibilità nelle attività d’impresa32. Nel documento (2005) sono presentati i principi necessari per sviluppare la corporate sustaina-bility quale strumento efficace per lo sviluppo sostenibile:

• trasparenza e accountability;

• piattaforme per l’azione e partnership per scalare e ottimizzare gli sforzi privati;

• incentivi e linee guida per rafforzare i casi studio positivi circa le tematiche so-stenibili.

Il Global Compact33 delle Nazioni Unite propone 10 principi universali per orientare correttamen-te l’azione delle imprese nelle attività produttive nei Paesi partner, rappresentando un documen-to politico fondamentale per la programmazione del MAECI al momento di definire gli interventi futuri e i criteri di eleggibilità degli attori privati profit in programmi di cooperazione allo sviluppo internazionale34.

TABELLA 2 - Le indicazioni di “doing no harm” dello UN Global Compact

Diritti umani 1. Le imprese dovranno supportare e rispettare la protezione dei diritti umani internazionali

2. Non devono essere coinvolte in violazioni dei diritti umani

Standard sul

lavoro

3. Le imprese devono sostenere la libertà d’associazione ed il ri-conoscimento effettivo del diritto alla contrattazione collettiva

4. Eliminazione in tutte le sue forme del lavoro forzato ed obbligato

5. Abolizione del lavoro minorile

6. Le imprese non devono fare nessuna discriminazione nel dare occupazione

30 Principi generali: “These Guiding Principles apply to all States and to all business enterprises, both transnational and others, re-gardless of their size sector, location, ownership and structure”.

31 Il dovere dello Stato di proteggere dagli abusi contro i diritti umani di parti terze (comprese imprese) attraverso appropriate poli-tiche, regolamentazioni e sanzioni; la responsabilità delle aziende nel rispettare i diritti umani, implicando una due diligence per evitare l’infrazione dei diritti degli altri ed affrontare gli impatti negativi; la necessità di un maggior accesso a soluzioni di rimedio per le vittime di abusi legati a operazioni aziendali, sia giudiziarie sia non giudiziarie.

32 Poiché il rispetto dei diritti umani è essenziale nella definizione del primo principio del Global Compact, UN Global Compact e UNCHR hanno sviluppato congiuntamente delle note esplicative per evidenziare le connessioni e complementarietà tra i due documenti. In sintesi, i Guiding Principles completano il Global Compact, definendo un framework che guida i suoi aderenti nel rispetto degli impegni a favore di diritti umani (https://www.unglobalcompact.org/issues/human_rights/the_un_srsg_and_the_un_global_compact.html.

33 In Italia per dare riscontro all’importanza dei dieci principi enunciati nel Global Compact è stato creato un network dal nome Global Compact Network Italia, costituito da 39 partecipanti, di cui fanno parte enti del non profit come Fondazione ENI Enrico Mattei, Fondazione Sodalitas, Pentapolis, imprese come Barilla, Enel, Edison, Italcementi, attori finanziari come Cariparma, Grup-po Generali, Unicredit, associazioni come ABI, Associazione Diplomatici. Quelli citati sono solo alcuni dei firmatari italiani dello UN Global Compact; infatti, ad oggi gli aderenti sono 219, di cui 18 non sono più considerati partecipanti attivi, poiché non hanno ottemperato agli impegni di comunicazione rispetto ai propri progressi effettuati.

34 Francesco Capecchi, Capo Ufficio X della DGCS, Ministero degli Affari Esteri, nell’intervista concessa in data 22 Maggio 2015.

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Ambiente 7. Le imprese devono adottare un approccio precauzionale alle sfide ambientali

8. Devono intraprendere iniziative per la promozione della re-sponsabilità ambientale

9. Devono incoraggiare lo sviluppo e la diffusione di tecnologie appropriate in termini ambientali

Anticorruzione 10. Le imprese devono lavorare contro qualsiasi forma di corru-zione, inclusa l’estorsione e l’abuso d’ufficio

Tabella 2 – Fonte: elaborazioni Human Foundation e ActionAid su dati ONU, maggio 2015

In particolare, nel caso del Global Compact, che prevede una sottoscrizione, le imprese, pur non assumendo comportamenti del tutto responsabili, potrebbero rivendicare avanzamenti nel-la cooperazione rispetto alle istanze di responsabilità sociale promosse dalle Nazioni Unite.

L’ ILO e la “Tripartite Declaration of Principles Concerning Multinational Enterprises and Social Policy”

Con la Dichiarazione tripartita di principi sulle imprese multinazionali e la politica sociale, adottata nel 1977 e emendata nel 2006, l’International Labour Organization (ILO) afferma al-cune linee guida volte a indirizzare gli Stati, i governi e il mondo del lavoro nei settori dell’im-piego, delle condizioni lavorative e delle relazioni industriali.Tale dichiarazione evidenzia il rischio che le attività delle multinazionali conducano ad un’ecces-siva concentrazione di potere economico e a conflitti con gli obiettivi delle politiche nazionali35 e non propone una definizione stringente di impresa multinazionale36, lasciando anzi aperta la possibilità a tutte le tipologie di imprese di applicare tali linee37.Fra i principi da osservare, vi sono:

• il rispetto degli obiettivi delle politiche dei Paesi nei quali operano le imprese, compresa l’attenzione affinché le attività siano in armonia con le priorità dello sviluppo e gli obiettivi sociali del paese di riferimento;

• l’abolizione del lavoro minorile;

• il riconoscimento effettivo del diritto alla contrattazione collettiva;

• l’attenzione ai massimi standard di sicurezza e salute sul luogo di lavoro.

Le Linee Guida dell’OCSE

Le Linee Guida per le imprese multinazionali dell’OCSE, già citate, del 2011, enunciano principi che le imprese possono adottare in modo volontario. Tuttavia, i Paesi aderenti alle Linee Guida

35 Art. 1: “the advances made by multinational enterprises in organizing their operations beyond the national framework may lead to abuse of concentrations of economic power and to conflicts with national policy objectives and with the interest of the workers. In addition, the complexity of multinational enterprises and the difficulty of clearly perceiving their diverse structures, operations and policies sometimes give rise to concern either in the home or in the host countries, or in both.”

36 Art. 6: “To serve its purpose this Declaration does not require a precise legal definition of multinational enterprises; […] Multina-tional enterprises include enterprises, whether they are of public, mixed or private ownership, which own or control production, distribution, services or other facilities outside the country in which they are based. The degree of autonomy of entities within multinational enterprises in relation to each other varies widely from one such enterprise to another, depending on the nature of the links between such entities and their fields of activity and having regard to the great diversity in the form of ownership, in the size, in the nature and location of the operations of the enterprises concerned”.

37 Art. 11: “The principles laid down in this Declaration do not aim at introducing or maintaining inequalities of treatment between multinational and national enterprises. They reflect good practice for all. Multinational and national enterprises, wherever the prin-ciples of this Declaration are relevant to both, should be subject to the same expectations in respect of their conduct in general and their social practices in particular.”

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si impegnano in modo vincolante ad attuarle secondo la Decisione del Consiglio dell’OCSE sulle Linee Guida destinate alle Imprese Multinazionali. Inoltre, i temi trattati nelle Linee Guida possono anche essere oggetto di leggi nazionali e di impegni internazionali:

• realizzare uno sviluppo sostenibile;

• rispettare i diritti umani;

• incoraggiare lo sviluppo delle competenze locali;

• incoraggiare la formazione di capitale umano, creando opportunità di occupa-zione;

• astenersi dal ricercare o accettare esenzioni non contemplate nelle norme di legge;

• sostenere e fare osservare i principi di buon governo societario;

• promuovere un rapporto di fiducia reciproca fra le imprese e il contesto sociale;

• promuovere la consapevolezza dei lavoratori circa le politiche aziendali;

• integrare una due diligence nei sistemi di gestione del rischio d’impresa;

• evitare di provocare o contribuire con le proprie e altrui attività un impatto negativo;

• incoraggiare partner commerciali ad applicare principi di comportamento re-sponsabile;

• coinvolgere gli stakeholder dando opportunità di far valere il loro punto di vista;

• astenersi da ingerenze nelle attività politiche locali.

È importante sottolineare come il campo di applicazione delle Linee Guida riguardi tutti i settori produttivi e vada oltre le sole imprese multinazionali, per estendersi anche alle PMI: tale eviden-za si qualifica dalla definizione di impresa multinazionale presente nelle Linee Guida stesse, che appare molto ampia: si parla infatti di “imprese o altre entità insediate in più Paesi e collegate in modo tale da coordinare il loro funzionamento in vari modi”38.Inoltre, nella parte I del documento, si chiarisce che “pur riconoscendo che le piccole e medie imprese non dispongono delle stesse capacità delle grandi imprese, i governi aderenti le invita-no, tuttavia, a osservare le raccomandazioni delle Linee Guida nella misura più ampia possibile”.Il Governo italiano garantisce la divulgazione e messa in pratica delle Linee Guida OCSE at-traverso il Punto di Contatto Nazionale (PCN), istituito con Legge 273/2002 e costituito con successivi decreti ministeriali (30 luglio 2004, 18 marzo 2011 e 4 giugno 2015) all’interno del Ministero dello Sviluppo economico (MiSE), Divisione Politiche Internazionali, promozione della responsabilità sociale d’impresa e del movimento cooperativo.

La diffusione delle Linee Guida e la loro corretta attuazione viene assicurata dal PCN attraverso il supporto agli interessati e l’organizzazione di iniziative volte a incentivare il dialogo e la col-laborazione fra istituzioni, sindacati, imprese e società civile. Inoltre, l’organo si occupa anche della composizione e risoluzione delle controversie che possono insorgere a causa del mancato rispetto dei principi contenuti nelle Linee Guida.

Tali Linee Guida, infatti, prevedono un meccanismo di composizione delle controversie attraver-so il quale gli stakeholder che ritengono che un’impresa italiana abbia violato uno dei principi - sul territorio nazionale o all’estero - possono rivolgere un’istanza al PCN, che dopo una valuta-zione preliminare può decidere di aprire un’istruttoria e mediare fra le parti per il raggiungimento di un accordo entro 12 mesi dall’apertura della stessa.

38 Linee Guida OCSE, parte I “Concetti e Principi”, punto 4.

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Il settore privato nella cooperazione italiana

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Con riferimento ai principi elencati, l’OCSE ha stabilito che le imprese coinvolte in attività di cooperazione allo sviluppo producano e rendano pubblici documenti di policy che le impegnino formalmente al rispetto dei sopraelencati principi. L’Italia, in tal senso, è uno dei Paesi firmatari, pertanto i soggetti privati interessati a implementare progetti di cooperazione allo sviluppo do-vranno seguire le linee guida elencate.

I dispositivi di erogazione del credito alle imprese presentati con la delibera n. 56 del CIPE del 2/8/201339, tradotti in dettaglio dal regolamento del Fondo di Garanzia approvato dal CIPE il 20/2/201540, forniscono maggiori indicazioni per delineare i requisiti stabiliti dal Ministero per l’accesso a credito agevolato destinato ad attività di cooperazione internazionale.

La delibera approva le “Procedure di istruttoria delle iniziative finanziabili ai sensi dell’art. 7 Leg-ge 49/87” (ora art. 27 Legge 125/14). In tali procedure sono indicati i requisiti (e la relativa do-cumentazione da presentare) che le imprese devono soddisfare, indicati nella tabella seguente, che mette a confronto gli standard OCSE con i requisiti per il MAECI.

TABELLA 3 - Standard OCSE e requisiti MAECI a confronto

Standard OCSE Requisiti MAECI

Realizzare uno svi-luppo sostenibile

La sostenibilità viene valutata relativamente alla richiesta di analisi di im-patto ambientale, di conformità alla legge vigente in loco in ambito am-bientale, di introduzione di tecnologie appropriate, di condizioni di gover-nance e rispetto dei diritti del lavoro, di posizionamento sul mercato locale ed internazionale dell’impresa mista valutata. Viene inoltre considerata la sostenibilità finanziaria dell’operazione.

La valutazione di aspetti relativi alla promozione della cultura d’impresa, dell’innovazione, della ricerca, possono inoltre contribuire alla valutazione di sostenibilità dello sviluppo introdotto con la creazione dell’impresa mista.

Rispettare i diritti umani

Viene richiesto il rispetto delle normative locali e internazionali sulla sicu-rezza e salubrità del lavoro e delle convenzioni internazionali sul lavoro minorile.

Incoraggiare lo svi-luppo delle compe-tenze locali

Sono esplicitamente richiesti impegni in termini di assistenza tecnica, for-mazione e trasferimento di tecnologia, anche in relazione all’adeguatezza delle tecnologie proposte al contesto ed al livello di competenze locali. Il riferimento al chiaro valore aggiunto generato a livello locale è altrettanto importante.

Incoraggiare la for-mazione di capita-le umano, creando opportunità di oc-cupazione

Oltre agli impegni richiesti in termini di formazione, uno dei principali criteri di valutazione è la significatività dei posti di lavoro stabili creati attraverso l’apertura o l’espansione dell’impresa effettuata grazie alla concessione del credito d’aiuto. Particolare attenzione è posta all’occupazione giova-nile e femminile.

39 “Nuovo regolamento per le agevolazioni in favore di imprese miste operanti in Paesi in via di sviluppo” (Legge n. 49/1987, art. 7).40 Delibera CIPE n. 34/2015: “Regolamento recante disposizioni operative del Fondo di garanzia per le agevolazioni in favore di

imprese miste operanti in Paesi in via di sviluppo” (Legge n. 125/2014, articoli 8 e 27).

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Astenersi dal ricer-care o accettare esenzioni non con-template nelle nor-me di legge

Nelle informazioni di carattere socio-economico sono anche richiesti gli incentivi esistenti da parte delle autorità locali e gli aiuti internazionali di cui l’impresa beneficia. Il controllo sui CV dei soci e la certificazione anti-mafia ex. Art. 38 rafforzano la legalità richiesta all’impresa che beneficia del credito d’aiuto.

Sostenere e fare osservare i principi di buon governo societario

Vengono richiesti elementi relativi alla struttura operativa: struttura tecni-ca, amministrativa e gestionale, loro giustificazione nel contesto locale, presenza e permanenza di personale italiano con incarichi tecnici, di assi-stenza tecnica e/o formazione.

Promuovere un rapporto di fiducia reciproca fra le im-prese e il contesto sociale

Viene favorito l’insediamento all’interno di distretti industriali, o che raf-forza le catene di valore locali anche attraverso l’attivazione di indotti, anche attraverso la creazione di reti di impresa internazionali. Sono inoltre esplicitamente richieste le attività di promozione della cultura di impresa e lo status dell’impresa mista nel contesto locale (qualora sia già esistente).

L’analisi degli aspetti ambientali, di sicurezza e salubrità sul lavoro con-corre alla comprensione della capacità dell’iniziativa di creare un eco-si-stema localmente sostenibile a livello imprenditoriale.

Promuovere la con-sapevolezza dei la-voratori circa le po-litiche aziendali

Non vengono effettuate particolari richieste in tal senso alle imprese miste dal MAECI: gli aspetti di governance indicati nelle procedura di istruttoria sembrano focalizzarsi maggiormente sugli aspetti organizzativi dell’azien-da che sulla promozione della consapevolezza e partecipazione dei lavo-ratori relativamente alle politiche aziendali.

Integrare una due diligence nei siste-mi di gestione del rischio d’impresa

Tale requisito non viene richiesto, sebbene venga effettuata una valutazio-ne del rischio d’impresa a livello finanziario, economico e locale.

Evitare di provo-care o contribuire con le proprie e al-trui attività un im-patto negativo

Viene richiesta una analisi degli aspetti ambientali, di sicurezza e salubrità sul lavoro, nonché informazioni di carattere socio-economico sulla regio-ne del sito del progetto, quali ad esempio la vicinanza di aree residenziali, la situazione ambientale.

Inoltre l’UTL locale effettua una valutazione sulla mancanza di motivi osta-tivi per lo svolgimento dell’iniziativa, tenendo conto della strategia di ri-duzione della povertà del paese beneficiario ed anche delle informazioni reperibili in loco sui soci locali dell’impresa mista.

Non vengono richieste esplicitamente le misure preventive di eventuali impatti negativi alle imprese miste.

Incoraggiare part-ner commerciali ad applicare principi di comportamento responsabile

Sebbene tale elemento non sia richiesto in maniera esplicita, viene effet-tuata un’analisi sui partner locali e vengono richieste le misure di “promo-zione della cultura d’impresa”.

Non è richiesta esplicitamente una valutazione dell’applicazione di prin-cipi di comportamento responsabile sulle value chain locali di fornitura.

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Coinvolgere gli stakeholder dando opportunità di far valere il loro punto di vista

Le misure di coinvolgimento degli stakeholders non vengono richieste esplicitamente tra i criteri di valutazione.

Astenersi da inge-renze nelle attività politiche locali

Requisito non esplicitamente richiesto.

Produzione e pub-blicazione dei do-cumenti di policy

La produzione e diffusione pubblica dei documenti di policy non viene richiesta, così come non è richiesto nessun tipo di reporting sui risultati sociali ed ambientali, sulle misure di prevenzione e mitigazione dei rischi di impatti negativi sul contesto locale e sulla catena produttiva in cui l’im-presa mista va ad inserirsi.

Fonte: Elaborazioni Human Foundation e ActionAid su dati OCSE e Delibera n.56 del CIPE del 2/8/2013

Come indicato nella tabella 3, alcuni dei requisiti indicati dall’OCSE sono stati effettivamente adottati all’interno dell’impianto legislativo del MAECI41 che regola l’accesso delle imprese al credito agevolato destinato ad attività di cooperazione internazionale. La tabella mostra come siano tuttavia ancora presenti importanti lacune, ad esempio relativamente alla richiesta di evi-tare di provocare - direttamente o indirettamente - impatti negativi con le proprie attività.Sarebbe opportuno integrare dunque i principi OCSE non ancora introdotti, quale elemento strin-gente di definizione della legittimità delle imprese a operare nella cooperazione internazionale.

Le certificazioni internazionali

Fra gli standard riconosciuti a livello internazionale dalle imprese rientrano gli schemi di certifi-cazione dell’International Organization for Standardization (ISO) e la norma SA (Social Accounta-bility) 8000. L’International Organization for Standardization (ISO) è la più grande organizzazione sviluppatrice di standard internazionali volontari, che ha prodotto finora più di 19.500 standard, in grado di definire specifiche e codici di condotta per i più svariati settori e organismi. Nello specifico, due sono gli standard che riguardano più da vicino il comportamento delle imprese: la ISO 26000 e il pacchetto ISO 9000. Lo standard ISO 26000 non prevede una certi-ficazione, ma fornisce utili linee guida sulla RSI. Esso si rivolge a tutti i tipi di organizzazione e riguarda, fra gli altri, il rispetto dei diritti umani, le politiche del lavoro e l’ambiente42. Trae fonda-mento dai Guiding Principles on Business and Human Rights dell’ONU.

Le normative ISO 9000 racchiudono una serie di linee guida volte a definire i requisiti che un’im-presa deve possedere ai fini dell’implementazione di un sistema efficiente di gestione della qualità, in modo da assicurare efficacia nella produzione e nell’erogazione del servizio, nonché la soddisfazione del cliente. Il pacchetto ISO 9000 si compone di tre norme: ISO 9000, 9001 e 9004: l’unica delle tre che funge da certificazione per le imprese è la ISO 9001, mentre le due restanti fungono da guida nell’utilizzo e applicazione della 9001.

Tali norme sono universali, ossia applicabili a qualunque tipo di organizzazione (non solo le imprese - dunque - ma anche il settore no profit, il mondo accademico etc.), a prescindere da

41 Delibera n.56 del CIPE del 2/8/2013, tradotta in dettaglio dal regolamento del Fondo di Garanzia approvato dal CIPE il 20/2/2015. La delibera approva le “Procedure di istruttoria delle iniziative finanziabili ai sensi dell’art. 7 Legge 49/87” (ora art. 27 Legge 125/14).

42 Guidance on Social Responsibility

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dimensione e settore di attività, questo perché definiscono i principi a cui il soggetto deve con-formarsi, ma non le modalità con cui deve produrre un prodotto o un servizio. La ISO 9001 permette il monitoraggio dell’intero processo produttivo - andando a definire ogni fase e attività, ma anche la vision e missione del soggetto - e mette al centro la soddisfazione dell’utente finale (il cliente/consumatore).

La norma SA8000 è uno standard internazionale elaborato da Social Accountability Internatio-nal (SAI), organizzazione leader nel mondo delle certificazioni sociali nel mondo del lavoro. Tale norma è una certificazione etica, applicabile alla quasi totalità dei settori produttivi, volta a valu-tare se le imprese ottemperano ad alcuni requisiti minimi previsti a garanzia dei diritti dei lavora-tori, non solo all’interno dell’impresa ma con riferimento all’intera catena produttiva.

La norma verifica il rispetto di procedure e standard di comportamento nelle seguenti aree:

1. lavoro minorile;

2. lavoro forzato;

3. salute e sicurezza dei lavoratori;

4. libertà di associazione e diritto alla contrattazione collettiva;

5. non discriminazione;

6. procedure disciplinari;

7. orario di lavoro;

8. livello salariale minimo;

9. adozione di un sistema di gestione della responsabilità sociale orientata al mi-glioramento.

La garanzia di conformità SA8000 è rilasciata con un meccanismo molto simile a quello delle certificazioni ISO ed è particolarmente indicata alle imprese che vogliano garantire l’integrità dell’intera catena di fornitori, specialmente laddove essa ponga problemi di controllo, ovvero si estenda a Paesi problematici per i rispetto dei diritti umani e lavorativi43.Le certificazioni aziendali sono di norma un adempimento volontario, vale a dire liberamente perseguibili dal soggetto interessato senza alcun tipo di imposizione normativa. Ricordiamo, tuttavia, che l’ISO 9001 è già requisito obbligatorio in alcuni concorsi pubblici, ad esempio per le procedure di appalto per le imprese intenzionate a eseguire lavori commissionati da Enti Pub-blici per un valore superiore ai 150.000 euro44.

Pur essendo una certificazione etica, anche la SA8000 - in quanto equiparabile alla certificazio-ne di qualità - ha natura di requisito soggettivo delle imprese e potrebbe essere richiesta come requisito di partecipazione.Anche la disciplina relativa alla cooperazione internazionale italiana potrebbe dunque ricorrere a tali certificazioni quali requisiti fondamentali per le imprese profit che vogliano intraprendere attività di cooperazione, ad esempio attraverso l’inserimento di tali requisiti fra i documenti da fornire al momento della richiesta di credito agevolato.

43 F. Perrini, C. Vurro, “Misurare per Gestire e Creare Valore per gli Stakeholder: Lo Stato dell’Arte e le Prospettive Future nella Valu-tazione della Responsabilità Sociale d’Impresa”, Università Commerciale “Luigi Bocconi”.

44 D.lgs 163/06, art. 40.

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Allo stato dell’arte, la delibera CIPE n. 56 del 2 agosto 2013 (Regolamento attuazione art. 7 Leg-ge 49/87), all’art.3 (requisiti soggettivi dell’impresa richiedente) fa già riferimento alla normativa nazionale di recepimento delle direttive europee sugli appalti pubblici (D.lgs 163/2006), citando-ne l’art. 38 quale fonte di requisiti minimi che le imprese richiedenti devono possedere. Non fa tuttavia menzione dell’art. 40, il quale affronta appunto il tema delle certificazioni internazionali45.

I principi di Busan

Come evidenziato nel primo capitolo, la New Global Partnership for Effective Development Co-operation di Busan mostra importanti aperture verso i non-traditional donors protagonisti della South-South Cooperation e un forte richiamo al ruolo dei privati nelle attività di coopera-zione allo sviluppo46.Oltre a riaffermare il principio dell’aiuto slegato e a sollecitare i singoli Paesi alla programmazio-ne di piani nazionali per effettivamente slegare il loro Aiuto allo Sviluppo, il documento segna una svolta significativa con il passaggio dal concetto di efficacia degli aiuti a quello di effica-cia della cooperazione allo svilippo. Si riaffermano alcuni principi condivisi per raggiungere gli obiettivi comuni, quali la titolarità dei Paesi partner (Ownership), e si introducono nuovi principi come lo sviluppo basato sui risultati (Result Based Development), la partnership inclusiva per lo sviluppo, la trasparenza e la comune responsabilità di tutti gli attori della cooperazione (Joint and Mutual Accountability).Per raggiungere tale risultato si è dovuto necessariamente fare alcune concessioni sul carat-tere volontario di applicazione dei principi inclusi nel documento, ma è fuor di dubbio che essi possano essere un’utile guida per indirizzare e valutare l’impatto del settore privato profit nelle attività di cooperazione internazionale.

Il quadro strategico e il Piano d’azione dell’UNCTAD

La United Nations Conference on Trade and Development ha proposto un quadro strategico di riferimento e un Piano d’azione per gli investimenti privati relativi ai Sustainable Development Goals. Individuando delle sfide relative alle politiche da promuovere per migliorare l’apporto del privato (UNCTAD, 2014), evidenzia la necessità di:

• produrre principi guida e una leadership globale per stimolare l’investimento;

• mobilizzare i fondi per l’investimento in sviluppo sostenibile;

• canalizzare i fondi disponibili in investimenti relativi ai settori evidenziati nei Su-stainable Development Goals47;

• massimizzare l’impatto dell’investimento privato sullo sviluppo sostenibile e con-temporaneamente minimizzare i rischi e i lati negativi.

Le indicazioni della FAO

La Food and Agriculture Organization (FAO) nei propri documenti48 relativi alle partnership con il settore privato, richiama i già citati principi delle Nazioni Unite, quali UN Guidelines on Coope-

45 “I soggetti esecutori a qualsiasi titolo di lavori pubblici devono essere qualificati e improntare la loro attività ai principi della qualità, della professionalità e della correttezza. Allo stesso fine i prodotti, i processi, i servizi e i sistemi di qualità aziendali impiegati dai medesimi soggetti sono sottoposti a certificazione, ai sensi della normativa vigente”.

46 Busan Declaration, punto 5. “We also have a more complex architecture for development co-operation, characterised by a greater number of state and non-state actors, as well as co-operation among countries at different stages in their development, many of them middle-income countries. South-South and triangular cooperation, new forms of public-private partnership, and other modalities and vehicles for development have become more prominent, complementing North-South forms of co-operation”.

47 I settori individuati nei Sustainable Development Goals sono: energia; mitigazione del cambiamento climatico; sicurezza alimenta-re; telecomunicazioni; trasporti; biodiversità e ecosistema; salute; acqua e servizi sanitari; adattamento al cambiamento climatico; educazione.

48 FAO, Responsible Governance of Tenure of land, fisheries and forests in the context of national food security, 2012, http://www.fao.org/nr/tenure/voluntary-guidelines/en/ e FAO, FAO Strategy for partnerships with the private sector, 2013.

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ration between the United Nations and the Business Sector, Global Compact Principles, sotto-lineando l’importanza del processo di allineamento di lungo periodo con le principali politiche e criteri in materia di rapporti tra settore pubblico e privato espressi a livello internazionale. La FAO ha prodotto (2012) delle linee guida in materia di regime della proprietà49, intitolato Voluntary Guidelines on the Responsible Governance of Tenure of Land, Fisheries and Forests (VGGT). Sono uno strumento, non legalmente vincolante, indirizzato a Stati, corti giudiziarie e agenzie governative, individui e comunità, società civile, investitori, professionisti in materia e accademici. Attraverso questo strumento vengono definite e regolate le dinamiche relative all’accesso di risorse chiave quali: la terra, le foreste, le zone di pesca. La tematica è globale e riguarda tutti i Paesi. Nel testo della FAO sono specificati alcuni principi alla base di una corretta definizione e utilizzo dei regimi di proprietà, quali:

• riconoscere e rispettare i diritti di utilizzo e i detentori di tali diritti;

• salvaguardare gli effetti di un diritto di proprietà da minacce esterne;

• promuovere e rendere più facile lo sfruttamento di legittimi diritti di proprietà;

• prevedere conseguenze di tipo legale qualora vi sia una lesione dei diritti di pro-prietà;

• prevenire dispute, conflitti e corruzione in materia di tali diritti50.

La FAO indica precisamente alcune aree in cui è possibile il coinvolgimento del settore privato, come lo sviluppo e l’implementazione di programmi a carattere tecnico, il dialogo politico, la definizione di norme e standard, l’attività di advocacy e comunicazione, la gestione della cono-scenza e disseminazione la mobilizzazione di risorse. Allo scopo di incoraggiare e rendere più pratica l’attuazione delle VGGT, a partire dal 2014 la FAO ha iniziato a lavorare su un nuovo documento, “Operationalizing the voluntary guidelines on the responsible governance of tenure: a technical guide for investors” che ha lo scopo di dare delle indicazioni più stringenti, in particolare al settore privato, relativamente agli investimenti privati in agricoltura. Su questo documento è stata aperta una consultazione alla quale ActionAid sta par-tecipando attivamente. Il documento dovrebbe chiudersi entro settembre 2015.

2.3 I modelli di intervento del settore privato nella cooperazione

Filantropia

Una forma particolarmente diffusa di partecipazione del settore privato ad attività di coopera-zione allo sviluppo è quella della filantropia, che si espleta attraverso donazioni a fondo perduto effettuate a favore di organizzazioni, in alcuni casi pubbliche, nella maggior parte private no profit. Le varie tipologie di attori del mondo privato for profit sono impegnate in attività filantro-piche, che possono assumere forme diverse, fino a stabilire relazioni di partnership stabili e più strutturate con ONG. Un incentivo diretto alle imprese ad effettuare donazioni a progetti di svi-luppo è la possibilità di godere delle agevolazioni fiscali legate a tali donazioni51. Le recenti tendenze di indirizzo per l’efficacia dell’azione delle organizzazioni for profit nella cooperazione allo sviluppo (Ashley, 2009)52 pongono l’accento sul fatto che queste riescono ad

49 Si specifica chi può usare le risorse, per quanto tempo e seguendo quali condizioni.50 È fatto diretto e specifico riferimento nel testo del 2012 al fatto che questi principi riguardano anche gli attori non statali e in par-

ticolare le imprese private che hanno anche la responsabilità di rispettare i diritti umani.51 È possibile dedurre dal reddito le donazioni per un importo non superiore a 30.000,00 euro o al 2% del reddito d’impresa dichia-

rato (art.100, comma 2 lettera a-h del D.P.R. 917/86), o dedurre dal reddito le donazioni, in denaro o in natura, per un importo non superiore al 10% del reddito complessivo dichiarato e comunque nella misura massima di 70.000,00 euro annui (art. 14, comma 1 del D.L. 35/05 convertito in legge n. 80 del 14/05/2005).

52 C. Ashley, Harnessing core business for development impact (Background Note), 2009.

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ottenere un maggiore impatto attraverso l’adattamento del proprio core business a finalità so-ciali ed ambientali piuttosto che attraverso il solo sostegno di misure filantropiche a scopo più o meno apertamente compensativo. Sembra andare in tal senso anche l’impianto della Legge 125/14, che concede finanziamenti alle organizzazioni principalmente per attività di investimen-to a scopo sociale legate al proprio core business e non propone linee di finanziamento o so-stegno ad attività unicamente filantropiche portate avanti dal settore privato.

Reti tematiche formali, reti di impresa

Allo scopo di rispettare, promuovere e diffondere particolari standard, così come per il raggiun-gimento di obiettivi che rispondano a bisogni sociali, le organizzazioni for profit possono creare delle reti tematiche formali, anche con enti di natura diversa.

Queste reti possono costituire fondi, anche in partenariato con fondazioni private ed altri enti a carattere finanziario (fondi d’investimento responsabili, fondi ad impatto, fondazioni bancarie, fondazioni d’impresa). Nello scenario italiano, sembra essere interessante, anche in prospettiva degli strumenti di promozione dell’impresa privata introdotti dalla Legge 125/14, la possibile costituzione di reti d’impresa53 come nuovi attori della cooperazione allo sviluppo: queste reti potranno includere attori finanziari, imprese, imprese sociali, ONG, per ridurre la frammentazione degli interventi, rendendo possibili maggiori sinergie, facilitando l’accesso anche a realtà di minori dimensioni e capacità tecnico-finanziarie.

Esecuzione di progetti di cooperazione allo sviluppo come fornitori in gara d’appalto

Come indicato nella classificazione introdotta nel primo capitolo, il settore privato profit può inserirsi nelle attività di cooperazione allo sviluppo attraverso modalità di “delivering”. In tal senso, le imprese possono essere assegnatarie di contratti da parte di istituzioni pubbliche dei Paesi partner e degli organismi di cooperazione internazionale per fornire beni e servizi all’inter-no di progetti di cooperazione internazionale. È il caso dei crediti d’aiuto offerti dal MAECI ex art. 8 Legge 125/1454, e di quelli concessi con la procedura di matching su credito d’aiuto55, che affronteremo nel capitolo 3.

Le Partnership Pubblico-Private

Di fondamentale importanza nel quadro di riferimento dei modelli di coinvolgimento del settore privato nella cooperazione internazionale sono le Partnership Pubblico-Private (PPP), che si stanno diffondendo sempre più a livello nazionale e transnazionale. Le PPP sono degli schemi adottati in regime di collaborazione fra un’istituzione pubblica e un’impresa privata, per l’erogazione di un servizio. L’adozione di un partenariato determina per i

53 La Rete di Impresa è un accordo, formalizzato in un “Contratto di Rete”, basato sulla collaborazione, lo scambio e l’aggregazione tra imprese e rappresenta un modello di business alternativo rispetto a quello individualistico e frammentato del nostro tessuto economico. Lo scopo principale delle Reti di Impresa è quello di raggiungere degli obiettivi comuni di incremento della capacità innovativa e per questo della competitività aziendale. La legge prevede ampia autonomia contrattuale per adeguare gli obblighi giuridici agli scopi e agli obiettivi che le imprese retiste vogliono ottenere. Sulla base di un programma comune, le imprese retiste possono: a) Collaborare nell’ambito delle rispettive imprese; b) Scambiare know-how o prestazioni industriali, commerciali, tec-nologiche; c) Esercitare in comune attività di impresa. Le Reti possono avere un fondo patrimoniale comune e un organo comune e, in tal caso, chiedendo la registrazione presso il Registro Imprese, ottenere il riconoscimento della soggettività giuridica.

54 I crediti d’aiuto possono essere destinati al finanziamento di lavori, di forniture e di servizi di origine italiana (crediti legati) con eventuali spese in loco, nei PVS limitrofi e nei Paesi OCSE, fino ad una percentuale massima del 95% del credito. In alternativa, ai sensi delle raccomandazioni OCSE-DAC del 2001 e del 2008, se diretti ai così detti Paesi PMA e HIPC, possono essere “slegati”. I termini e le condizioni finanziarie di tali crediti sono connessi al livello di concessionalità attribuito al Paese in funzione del suo reddito pro capite.

55 Secondo la procedura di matching il Governo italiano, su richiesta dell’impresa, manifesta alle Autorità Locali la propria disponibi-lità a concedere un credito d’aiuto in risposta ad una gara internazionale finalizzata alla realizzazione di progetti di sviluppo in un PVS. Tale sostegno finanziario, essendo legato, è naturalmente condizionato alla aggiudicazione della gara in favore della impresa italiana.

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contraenti una condivisione di responsabilità, rischio d’impresa, competenze. Attraverso le PPP si co-finanziano progetti privati con un alto tasso di impatto, i settori della cooperazione in cui ad oggi vengono più utilizzate le PPP sono quelli dell’agricoltura e dell’agribusiness, della salute e dei trasporti e della logistica (OCSE/WTO, 2013). Dall’analisi delle indicazioni del Libro Verde dell’UE sulle PPP ed il diritto comunitario degli ap-palti pubblici e delle concessioni (2004) e delle raccomandazioni dell’OCSE (2008) identifichia-mo una serie di elementi caratterizzanti lo strumento:

• la necessità di un quadro istituzionale e regolatore chiaro, trasparente e prevedi-bile, al fine di assegnare precise responsabilità ad attori pubblici e privati;

• la definizione di un arco temporale per la collaborazione di lungo periodo, corro-borato da un forte coinvolgimento politico-istituzionale che garantisca l’accetta-zione sociale di questo tipo di partnership;

• il ruolo importante dell’operatore economico, che partecipa a varie fasi del pro-getto (progettazione, realizzazione, attuazione, finanziamento). Il partner pubbli-co si concentra principalmente sulla definizione degli obiettivi da raggiungere in termini d’interesse pubblico, di qualità dei servizi offerti, di politica dei prezzi, e garantisce il controllo del rispetto di questi obiettivi;

• la ripartizione dei rischi tra il partner pubblico e quello privato, sul quale sono trasferiti rischi di solito a carico del settore pubblico. Le PPP tuttavia non impli-cano necessariamente che il partner privato si assuma tutti i rischi, o la parte più rilevante dei rischi legati all’operazione. La ripartizione precisa dei rischi si effet-tua caso per caso, in funzione della capacità delle parti in questione di valutare, controllare e gestire gli stessi;

• la necessità di istituzioni pubbliche competenti in grado di condurre analisi tec-niche per supportare le decisioni politiche rispetto all’utilizzo di questo tipo di strumento.

Le imprese miste

L’apertura di imprese miste avviene attraverso la partecipazione di un’impresa con investimento di capitale in un’impresa estera. Le motivazioni per l’apertura di un’impresa mista in un PVS da parte di un’impresa italiana pos-sono essere molteplici. L’investimento può ad esempio essere legato al rafforzamento della catena di valore all’interno della quale opera, o della catena di distribuzione con meccanismi di franchising (Lucci 2012). L’impresa mista può anche essere esplicitamente diretta al migliora-mento delle condizioni di vita dei dipendenti di un’impresa nei PVS. Questa attività da un lato è maggiormente riconducibile alle politiche di RSI, tuttavia può rientrare in questa categoria qualora fosse legata all’espansione delle attività di un’impresa locale in ambiti aventi un impatto positivo, o in progetti formativi per accrescere le competenze del personale impiegato e delle risorse umane sul territorio di appartenenza dell’impresa.

È auspicabile che l’innovazione nell’offerta di beni e servizi possa anche essere indirizzata al miglioramento delle condizioni sociali, ad esempio rivolgendo i propri servizi ai consumatori a basso reddito, in aree geografiche dove lo sviluppo di business inclusivo (ad esempio nei settori della microfinanza, dell’energia, dell’acqua, delle comunicazioni, dell’igiene, etc.) può essere particolarmente appropriato sia come soluzione sociale sia in termini di redditività economica. Non meno importante per gli attori privati è la spinta all’apertura di imprese miste per accedere ad opportunità quali quelle presentate nelle sezioni precedenti (gare d’appalto e PPP), avvalen-dosi di un partenariato locale ed integrando le competenze tecniche ed organizzative tra impre-se dello stesso settore. Lo strumento identificato nell’Art. 7 della legge 49/87, oggi corrispondente all’art. 27 della Leg-

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ge 125/14, prevede l’utilizzo di crediti agevolati per la creazione di imprese a capitale misto.

Come abbiamo già dimostrato in uno studio di ActionAid del 201456, tale strumento in passato non è stato molto utilizzato, con solo 81 iniziative imprenditoriali finanziate tra il 1998 e il 2012 e solo 105 milioni di euro concessi per la creazione di imprese miste. La parziale concorrenza con gli strumenti di finanziamento introdotti da SIMEST nel 1991, l’abbassamento dei tassi di interesse e l’esclusione del settore industriale dai settori eleggibili sono state tutte probabili concause dello scarso successo dello strumento. Un ulteriore fattore, da riscontrarsi come bar-riera esistente per le imprese di piccole dimensioni e per le cooperative ed imprese sociali, è la sottocapitalizzazione che rende difficile la presentazione delle garanzie necessarie all’affida-mento del credito. I casi più noti finanziati attraverso crediti agevolati sono riconducibili infatti a imprese di medie e grandi dimensioni.

Fondi ad impatto sociale, iniziative di microfinanza, investimenti etici

Si tratta di iniziative private di investimento sotto forma di capitale di rischio in imprese o orga-nizzazioni con l’obiettivo di generare un impatto sociale o ambientale misurabile insieme a un ritorno di tipo finanziario (G7 2014). Il rischio per l’investitore privato è alto, vista la partecipazione diretta come investitore e può es-sere mitigato dalla fornitura di garanzie più o meno solide dal beneficiario dell’investimento o da un ente terzo che ponga delle risorse a garanzia del credito. I beneficiari sono solitamente imprese sociali, in genere oltre la fase di start up al fine di ottene-re rendimenti più sicuri e stabili. I fondi che investono in “seed capital” sono più spesso fondi a dono, che possono in taluni casi essere offerti dalle stesse istituzioni finanziarie private, in part-nership con attori pubblici o privati.

L’art. 8 della Legge 125/14 (ex art. 6 Legge 49/87) prevede tra le sue misure anche la possibi-lità di aprire linee di credito per stimolare il settore privato locale attraverso iniziative di credito, come effettuato in otto57 Paesi partner al momento, attraverso linee di credito legate all’acqui-sto di beni e servizi italiani per una percentuale variabile dal 50% al 70%.È possibile supporre, in virtù delle indicazioni offerte dalla nuova legge, che tale misura continui ad essere portata avanti. Appare tuttavia ugualmente interessante la possibilità di avviare spe-rimentazioni attraverso meccanismi di blending58 (argomento che verrà affrontato nel prossimo capitolo) per la co-creazione di fondi microcreditizi o di fondi ad impatto sociale, con istituzioni finanziarie internazionali ed istituzioni della finanza etica private.

56 ActionAid, L’Italia e la lotta alla povertà nel mondo. Una nuova democrazia del cibo. Annuario della cooperazione allo sviluppo, 2014, Carocci Editore, Roma.

57 Albania, Tunisia, Senegal, Palestina, Ghana, Egitto, Serbia ed Uruguay.58 Dall’inglese to blend, è un meccanismo finanziario che combina doni (grants) e prestiti (loans) in modo da mobilitare gli investi-

menti privati. È una strategia molto utilizzata dalla Commissione europea grazie alla sua capacità di fare lievitare i fondi disponibili partendo da una piccola componente a dono che consente di generare un effetto moltiplicatore attraverso i prestiti, così da permettere all’Unione europea di ridurre il budget direttamente destinato alla cooperazione. I fondi ottenuti sono utilizzati dalle istituzioni finanziarie per realizzare azioni di sviluppo su iniziativa di imprese e governi locali.

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3. Strumenti di finanziamento

La necessità di mobilizzare risorse addizionali rispetto agli aiuti tradizionali allo sviluppo e di mi-gliorarne l’efficacia di utilizzo comportano l’ideazione e la diffusione di strumenti finanziari inno-vativi che possano contribuire al raggiungimento di risultati tangibili di sviluppo sostenibile.La sfida è quella di facilitare un maggiore investimento di flussi finanziari nelle aree di bisogno globali e migliorare la qualità delle politiche, degli approcci e degli strumenti esistenti, cercando di limitare al massimo gli effetti negativi, come ad esempio le distorsioni di mercato, la corruzio-ne, l’evasione fiscale, i flussi finanziari illeciti e l’inazione.Nel 2014, il Comitato Intergovernativo di Esperti sulla Finanza per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite ha pubblicato un rapporto59 in cui si esplicitano i nove principi chiave dell’approc-cio strategico volto a regolare l’ecosistema finanziario per lo sviluppo:

1. assicurare la ownership e la leadership delle nazioni nell’implementazione di strategie nazionali di sviluppo sostenibile, di pari passo con la creazione di un contesto internazionale favorevole;

2. adottare politiche pubbliche efficaci come la costruzione di una strategia finan-ziaria per lo sviluppo sostenibile;

3. fare uso di tutti i flussi finanziari in modo olistico, complementare e non sostitu-ivo;

4. combinare i flussi finanziari con i bisogni e gli usi più appropriati (ad esempio: obiettivi di sviluppo sostenibile a lungo termine dovrebbero essere finanziati at-traverso strumenti finanziari di lungo periodo);

5. massimizzare l’impatto della finanza pubblica internazionale;

6. includere criteri di sviluppo sostenibile nelle strategie finanziarie nazionali, nei portafogli di investimento e nelle decisioni di investimento private;

7. sfruttare le sinergie delle diverse dimensioni dello sviluppo sostenibile,quella economica, ambientale e sociale;

8. adottare un approccio multi-stakeholder, che metta al centro le persone e che sia inclusivo per raggiungere risultati tangibili sul terreno;

9. assicurare trasparenza e accountability del settore finanziario a livello nazionale, regionale e internazionale.

3.1 Gli strumenti finanziari per il settore privato for profit nella legislazione italiana

Come già affrontato nel primo capitolo, la partecipazione del settore privato nei programmi fi-nanziati attraverso l’aiuto pubblico allo sviluppo può essere distinta in tre categorie60, permeabili e sovrapponibili a secondo del tipo di progetto e caratterizzate da fonti di finanziamento diverse.Per quanto riguarda il contesto italiano, gli strumenti finanziari previsti dalla nuova legge di ri-forma della cooperazione italiana, utilizzabili anche dal settore privato, possono essere distinti

59 United Nations, Report of the Intergovernmental Committee of Experts on Sustainable Development Financing, 2014, United Nations Publication, New York.

60 Building, leveraging, delivering.

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nelle sopracitate categorie come segue:

• art. 6 Legge 49/87 e art. 8 Legge 125/14 l’uso primario è normalmente associato al “building” e secondariamente al “delivery”.

• art. 7 Legge 49/87 ora art. 27 Legge 125/14 sono associati alla categoria del “building”.

Fondo di garanzia (art. 7 Legge 49/87 ora art. 27 Legge 125/14 ): sono normalmente ascrivibili alla categoria del “building” e del “leveraging”. Una delle forme assunte dal leveraging è costitu-ita dal blending.61 62 63

BOX 1 – FOCUS: Il blending

Il blending combina fondi a dono (grants) con prestiti (loans). Consente inoltre di sfruttare i fondi per la cooperazione utilizzando i prestiti delle istituzioni.

Tale strategia è emersa recentemente, fino a diventare pratica comune nella finanza per lo sviluppo: la stessa Commissione europea vi fa particolarmente ricorso, grazie alla capa-cità di generare un effetto moltiplicatore sui fondi a dono. Tale pratica consente dunque all’UE di ridurre il budget destinato alla cooperazione, mobilitando risorse attraverso i pre-stiti. I fondi mobilitati vengono poi utilizzati dalle istituzioni finanziarie per realizzare azioni di sviluppo su iniziativa di imprese e governi dei Paesi partner.

A ottobre del 2014, tuttavia, la Corte dei Conti Europea (ECA), con la relazione speciale n.16/201457, ha messo in guardia la Commissione europea circa il ricorso al finanziamento combinato. Nello specifico, Karel Pinxten - membro dell’ECA e responsabile della relazio-ne - ha affermato che “la futura Commissione, dovendo operare con forti vincoli di bilan-cio, sarà sottoposta a enormi pressioni per spingere fino al limite l’effetto leva dei fondi UE mediante i prestiti. È di fondamentale importanza che si faccia ricorso al finanziamento combinato solo quando la Commissione può chiaramente dimostrare il valore aggiunto. L’audit dimostra che, in passato, questo non è sempre stato il caso”58.

Pur valutando positivamente la generale efficacia del combinare sovvenzioni e prestiti, l’ECA sottolinea che i benefici potenziali non sono stati pienamente realizzati59 a causa dei limiti di gestione del meccanismo da parte della Commissione europea.

Si evidenziano in particolare una serie di problemi chiave da affrontare con urgenza: in-nanzitutto il blending può condurre “a uno spreco dei fondi UE per lo sviluppo quando vengono sovvenzionati programmi/progetti che sarebbero stati comunque intrapresi” e - qualora non venga impiegato con cura - “può provocare una bolla del debito nei Paesi che dispongono di entrate limitate per il servizio del proprio debito”. La Corte ha analiz-zato 30 progetti, sottolineando come il processo di approvazione utilizzato dalla Commis-sione sia stato poco accurato e come spesso le decisioni per l’assegnazione delle con-cessioni non siano state evidenziate in modo convincente, sollevando il problema della trasparenza e comprensibilità dei meccanismi di blending. L’ECA ha prodotto dunque una serie di raccomandazioni per la Commissione europea, che viene invitata ad accertarsi che l’allocazione delle sovvenzioni dell’UE sia basata su una valutazione documentata del valore aggiunto in termini di raggiungimento di sviluppo (addizionalità).

61 “L’efficacia del combinare le sovvenzioni dei meccanismi di investimento regionali con i prestiti concessi dalle istituzioni finanzia-rie a sostegno delle politiche esterne dell’UE”, http://www.eca.europa.eu/Lists/ECADocuments/SR14_16/SR14_16_IT.pdf

62 Comunicato Stampa del 22 ottobre 2014, ECA/14/46, http://www.eca.europa.eu/Lists/ECADocuments/INSR14_16/INSR14_16_IT.pdf63 Osservazioni 38 e 39

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Per fare ciò, propone di:

• assicurarsi che siano adottate linee guida adeguate per indirizzare il coinvolgi-mento della Commissione a tutti i livelli di approvazione e follow-up del processo;

• avere un ruolo più pro-attivo nella identificazione e selezione dei progetti;

• elargire le concessioni solo quando effettivamente necessarie per i beneficiari;

• migliorare il sistema di monitoraggio delle concessioni, implementando un framework di misurazione dei risultati che includa indicatori per il follow-up dell’impatto.

Il Consiglio europeo del 26 maggio 2015 ha accolto favorevolmente le raccomandazioni della Corte, inserendole nelle proprie conclusioni e invitando la Commissione europea a seguirle, rimarcando anche l’assoluta necessità di assicurare “la titolarità e la rispondenza alle strategie di sviluppo nazionali e/o regionali interessate”60.

Alle evidenze sollevate dalla Corte dei conti europea si aggiunge anche la ricerca con-dotta dallo European Network on Debt and Development (EURODAD)61, che evidenzia le numerose criticità che persistono nell’implementazione degli attuali meccanismi di blen-ding a livello europeo.

In particolare, dalla ricerca emergono tre conclusioni:

10. l’alto rischio di spreco delle già limitate risorse stanziate in qualità di APS;

11. la carenza di trasparenza e comprensibilità dei meccanismi di blending;

12. il rischio di minare la titolarità dei Paesi partner.

Tenendo in considerazione il fatto che le evidenze circa gli effetti di tale pratica sono ancora molto limitate62 e analizzando le criticità emerse dalla relazione speciale dell’ECA e dallo studio di EURODAD, sembra dunque opportuno provvedere alla revisione di tali meccanismi, per assicurare trasparenza ed efficacia e preservare le già scarse risorse dedicate all’APS da possibili sprechi.

Occorre procedere con una ristrutturazione della struttura di governance degli aiuti, in modo da garantire la piena ownership dei Paesi partner e la partecipazione di tutti gli sta-keholder coinvolti. I progetti intrapresi devono essere in linea con le strategie di sviluppo dei Paesi in cui si inseriscono, comprese le politiche industriali e energetiche e di sviluppo del settore privato locale.

In secondo luogo, appare fondamentale assicurare una reale trasparenza attraverso la di-vulgazione delle informazioni relative al blending, compresi gli standard sociali, ambienta-le e di governance, i contratti, gli accordi di investimento e le partnership. Occorre inoltre assicurare la piena accessibilità di tali informazioni agli individui interessati.

Infine, particolare importanza assume la questione della valutazione: si devono condur-re valutazioni di sostenibilità del debito in modo indipendente dai creditori e rafforzare i meccanismi di controllo, attraverso valutazioni - altrettanto indipendenti - degli impatti dei progetti, con un’attenzione particolare alle garanzie sociali e ambientali.

64 65 66

64 http://data.consilium.europa.eu/doc/document/ST-9140-2015-INIT/it/pdf65 “A dangerous blend? The EU’s agenda to ‘blend’ public development finance with private finance”, EURODAD66 “EU blending facilities: implications for future governance options”, ODI 2011

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3.2 Altri strumenti finanziari utilizzati in attività di cooperazione ma non espressamente previsti dalla Legge 125/2014

Analizzeremo qui di seguito alcuni strumenti finanziari utilizzati dal settore privato profit e non profit nella cooperazione allo sviluppo (fondazioni, ONG, banche regionali, imprese, cooperati-ve, ecc.). Si tratta di strumenti con modalità di intervento e obiettivi diversi ma riconducibili, più o meno direttamente, ad attività di cooperazione attuate nei Paesi a basso reddito. Il dibattito sulla loro efficacia e sul comune perseguimento di obiettivi di sviluppo resta tutt’ora aperto.

Microcredito e microfinanza: entrambi strumenti dedicati a soggetti altrimenti esclusi dal set-tore finanziario tradizionale a causa della loro condizione economico-sociale.Il microcredito consiste nella concessione di piccoli prestiti a fronte di un progetto di impresa sostenibile o di esigenze finanziarie primarie (es. casa, salute, formazione), mentre la microfi-nanza si compone si prodotti e servizi finanziari. Il microcredito, soprattutto quello imprenditoriale, genera potenzialmente un’addizionalità molto alta, in quanto - finanziando tipicamente una fase di start up - può attirare ulteriori investimenti e generare ricchezza quando l’impresa si consolida. Il livello di ownership nel microcredito e nella microfinanza varia a seconda della normativa nazionale di riferimento. In generale si tratta in ogni caso di sistemi di finanziamento ben radicati nel paese e che riflettono le priorità di svi-luppo determinate dal paese stesso. La provata capacità di questi strumenti di creare sviluppo nei Paesi in cui si è radicato è fuor di dubbio, per quanto sia un livello di sviluppo che prescinde dalle opere infrastrutturali, dai servizi integrativi di welfare sociale e da altri interventi più struttu-rali. Esistono standard, parametri e indici di riferimento comuni che hanno permesso di limitare al massimo il livello di frammentazione di questi strumenti finanziari, caratterizzati anche da una buona efficacia per quanto riguarda le politiche di gender empowerment. Il sistema di microfi-nanza si è inoltre dimostrato estremamente facile da replicare e capace di crescere in termini di scala, il che ha permesso di determinare tassi di crescita interessanti anche per il settore finan-ziario tradizionale per investimenti puramente commerciali.

Debt Conversions (swaps): cancellazione di parte del debito dovuto da un paese partner e originato dalla concessione di crediti di aiuto, a fronte della messa a disposizione di risorse equivalenti per investimenti locali in misure di sviluppo ambientale o sociale. Per quanto riguar-da l’Italia, dal 2000 al 2014, sono stati conclusi 25 accordi di conversione del debito per un am-montare totale di € 600 milioni circa67.

Sustainable Investment Bonds: obbligazioni rivolte a investitori che desiderano integrare l’im-pegno per uno sviluppo sostenibile ambientale e sociale nelle proprie decisioni di investimento. Gli utili generati vengono accreditati su un conto specifico della Banca Mondiale (ente emetti-tore) che sostiene iniziative per lo sviluppo locale, adattamento al cambio climatico e progetti di mitigazione del rischio. Dalla prima emissione inaugurale nel 2008, la Banca Mondiale ha emes-so circa 3 miliardi di USD di Green Bonds attraverso 44 transazioni in 16 valute.68

Social impact funds: fondi che investono - sotto forma di capitale di rischio - in imprese o or-ganizzazioni con l’obiettivo di generare un impatto sociale o ambientale misurabile insieme a un ritorno di tipo finanziario (G7, 2014). In Italia si stima che nel 2020 gli investimenti a impatto sociale possano raggiungere circa 30 miliardi di euro69.

Low profit investments: investimenti in imprese sociali che offrono beni e servizi alla popola-zione alla base della piramide del reddito. Tali attività prevedono inizialmente un ritorno finanzia-

67 UNDP, Innovative Financing for Development: a new model for development finance?, (Discussion paper), January 2012 e MA-ECI-DGCS, Gli strumenti finanziari della cooperazione italiana a sostegno dello sviluppo del settore privato, in I Quaderni della Cooperazione italiana, 2015.

68 UNDP, Innovative Financing for Development: a new model for development finance?, (Discussion paper,) January 2012.69 UNDP, Innovative Financing for Development: a new model for development finance?, (Discussion paper), January 2012.

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rio sull’investimento piuttosto limitato, l’investitore sarà quindi attratto maggiormente dal ritorno in termini di impatto sociale generato dall’impresa nella quale investe.

Development investment bonds: strumenti finanziari grazie ai quali gli investimenti privati nei Paesi partner vengono diretti allo sviluppo di infrastrutture, educazione, salute. La remunerazio-ne dell’investimento proviene dall’agenzia donatrice o dal paese ospitante l’intervento.

Social bonds: obbligazioni tradizionali che servono a sostenere finanziariamente le iniziative non profit nel sociale. Le banche devolvono una quota dell’ammontare sottoscritto o degli utili generati a associazioni o enti no profit oppure dedicano l’intero importo raccolto a organizza-zioni del terzo settore. Attualmente non ci sono dati per poter definire quante risorse siano state destinate al terzo settore grazie a questo strumento (2013).

Social Impact Bonds: strumenti finanziari finalizzati alla raccolta, da parte del settore pubbli-co, di finanziamenti privati. La restituzione e la remunerazione del capitale investito è aggan-ciato al raggiungimento di un determinato risultato sociale (metodo “pay for result” o “pay for success”).

Challenge Funds: fondi istituzionali destinati al settore privato e costituiti per rispondere a un’esigenza specifica modulata sotto forma di obiettivi generali piuttosto che outcomes speci-fici. Permettono di sfruttare la creatività del settore privato per problemi di sviluppo sostenibile: viene inizialmente offerto un grant per lo sviluppo dell’idea e la fase di start up, per poi pre-vedere investimenti commerciali che si remunerano grazie al successo dell’iniziativa. A livello mondiale a fine 2013 una stima di tutti i CF disponibili era di circa 1 miliardo di USD, nonostante alcuni siti riportino solo le cifre degli ultimi finanziamenti, quindi questo ammontare potrebbe essere più consistente70.

3.3 Il ruolo di Cassa Depositi e Prestiti come banca di sviluppo alla luce della Legge 125/14

Nell’ambito della riforma avviata dalla Legge 125/14, l’idea di avere un’istituzione finanziaria a sostegno delle azioni di cooperazione allo sviluppo costituisce uno degli aspetti più innovativi, volto ad allineare l’Italia alle esperienze di altri Paesi che già ne dispongono. Fra gli esempi più rilevanti di istituzioni finanziarie per lo sviluppo nei Paesi europei si annovera-no le esperienze di Francia e Germania.

Proparco è l’istituzione finanziaria francese, il cui controllo è per il 57% detenuto dall’Agence Française de Développement (AFD), mentre il restante 43% da partner privati domestici ed esteri a livello globale. In particolare, nell’ambito di un’estrema diversificazione geografica e set-toriale, Proparco investe in progetti conformi a tre criteri fondamentali: 1) una reale attenzione ai più poveri; 2) una comprovata capacità di generare sviluppo e impiego; 3) una sensibilità con-creta per l’impatto ambientale e la sostenibilità sociale. Questi criteri sono inclusi nella politica di investimento di Proparco, che dal 2009 aderisce ai “Principi per gli investimenti responsabi-li”71 adottati da tutte le istituzioni finanziarie europee per lo sviluppo. In termini di strumenti, Proparco offre partecipazioni dirette nel capitale, partecipazioni indi-rette attraverso il sostegno a fondi d’investimento, prestiti a medio e lungo termine in valuta forte o in moneta locale, garanzie agli istituti bancari nei PVS e servizi di consulenza e accom-pagnamento. Con 850 milioni di euro investiti nel 2013, Proparco si colloca come investitore re-sponsabile di primo piano nello scenario internazionale, con un’attenzione particolare all’Africa, come da sua tradizionale priorità, integrandola con interventi mirati in America Latina, Asia e nel

70 A.M. O’Riordan, J. Copestake, J. Seibold, D. Smith, Challenge funds in International Development (research paper), December 2013.

71 www.unipri.org

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Mediterraneo. Proparco, inoltre, applica alla sua attività un metodo di valutazione del proprio impatto che è comune a diverse istituzioni finanziarie internazionali e elaborato dalla tedesca DEG (banca per lo sviluppo costituita dalla KfW)72: il GPR (Geschäftspolitisches Projectrating73). Pubblica inoltre un report annuale con i risultati relativi ai propri interventi74.

L’istituzione francese adatta il proprio approccio a seconda delle zone di intervento: nei Paesi emergenti si incoraggia la responsabilità ambientale e sociale e si assegna un’importanza cre-scente ai progetti di efficienza energetica. Nei Paesi in via di sviluppo, soprattutto in Africa, so-stiene la crescita e l’impiego. Selezionati soprattutto in base all’impatto sullo sviluppo, i progetti sostenuti riguardano l’accesso al finanziamento di imprese e banche, la costruzione di infra-strutture di base e la lotta contro il cambiamento climatico. Infine, Proparco si concentra esclusivamente su finanziamenti a lungo termine, in Paesi o su contropartite giudicati troppo rischiosi dalle banche commerciali. Deve dunque offrire degli strumenti che rispondano a tre grandi bisogni degli investitori privati nei Paesi in via di sviluppo: accedere a finanziamenti di lungo termine, coprire o ridurre certi rischi, soprattutto politici, e di-sporre di soluzioni adatte alle problematiche proprie di tali Paesi.

Per quanto riguarda l’esperienza tedesca, invece, la KfW ha creato una banca per lo sviluppo, la KfW Entvicklungsbank, con investimenti per circa 3,5 miliardi di euro in 1.800 progetti in più di 100 Paesi per lottare contro la povertà. Già dagli anni sessanta operava grazie anche alla Deut-sche-Investitions und Entwicklungsgesellschaft (DEG) con un portafoglio di progetti per 5,3 mi-liardi di euro a sostegno del settore delle PMI tedesche private impegnate nella modernizzazione delle infrastrutture di base dei Paesi emergenti, dai trasporti all’acqua, dall’educazione alla sanità.

In sostanza, per conto del Governo tedesco e prioritariamente del Ministero Federale della Co-operazione Economica e dello Sviluppo (BMZ), la KfW finanzia e sostiene programmi e progetti che coinvolgono soprattutto il settore pubblico nei Paesi partner e nelle economie emergenti, seguendo tutto il processo, dalla concezione ed esecuzione al monitoraggio e alla valutazione dell’impatto. L’obiettivo principale è quindi quello di aiutare i Paesi partner a combattere la po-vertà, mantenere la pace, proteggere sia l’ambiente sia il clima e forgiare la globalizzazione in maniera adeguata.

Nei passati decenni la KfW è cambiata molto nella sua struttura e nei suoi meccanismi, senza mai venir meno alla sua mission di fondo per lo sviluppo. Oggi essa affianca le industrie tede-sche nei mercati internazionali non solo come centrale di credito, ma anche come garante di fatto degli accordi e come procacciatrice di commesse. Emette obbligazioni che hanno la ga-ranzia dello Stato tedesco e può operare sui mercati aperti.Il sostegno della Banca per lo Sviluppo - KfW - si adatta alle diverse esigenze e condizioni del paese partner. Il modello di finanziamento scelto dipende dalle dimensioni del debito del paese, dal suo output economico e dal livello di sviluppo, dalla capacità di performance del partner di progetto così come dal tipo di progetto. Il modello può includere sia fondi a dono puri che pre-stiti da fondi a budget ma anche prestiti che combinano fondi a budget e fondi propri della KfW stessa. Le condizioni di questi prestiti sono particolarmente favorevoli (interesse, termine, etc.) e la KfW può anche erogare fondi a dono o prestiti direttamente dalle sue risorse le cui condi-zioni sono proporzionali al rischio.

Sotto l’indirizzo della Cooperazione Finanziaria Tedesca, i fondi a dono erogati dal budget del Governo federale sono principalmente allocati a Paesi poveri e poco sviluppati. I fondi non ven-gono ripagati e i criteri per l’erogazione devono tenere conto della ownership e dell’impegno del paese partner. I fondi a dono e i prestiti a condizioni particolarmente agevolate sono destinati soprattutto ai Paesi più poveri. Nel 2013 infatti il 44% di questi fondi sono stati destinati all’Afri-

72 Cfr. pag. 6573 https://www.deginvest.de/DEG-Englische-Dokumente/About-DEG/Our-Mandate/Detailed-GPR-Description.pdf74 Proparco, “Mesure des résultats et Impacts des Interventions de Proparco”, 2014.

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ca Subsahariana. Anche i Paesi più sviluppati possono tuttavia richiedere fondi agevolati posto che siano diretti alla riduzione della povertà o alla protezione di beni pubblici come ad esempio le foreste tropicali.Nel caso dei prestiti per lo sviluppo la KfW combina fondi governativi con fondi propri che rac-coglie a tassi particolarmente favorevoli sul mercato dei capitali. I termini e le condizioni sono strutturati per assicurare che i costi vengano coperti e che i prestiti rispettino le condizioni degli accordi internazionali per l’assistenza ufficiale allo sviluppo (APS).

Appare rilevante sottolineare che negli ultimi 3 anni la Cassa Depositi e Prestiti ha unito le sue forze con la KfW tedesca, la francese Caisse des Depots et Consignations e la Banca Europea per gli Investimenti (BEI) per creare la “Rete Marguerite” dei fondi equity e il Long Term Inve-stors Club per riportare la finanza pubblica e privata a sostenere investimenti di lungo termine nelle infrastrutture e nei settori dell’energia e della ricerca.Sulla base della cooperazione già in essere, dunque, si presume che la Cassa Depositi e Prestiti trarrà indicazioni dalle esperienze delle suddette istituzioni ai fini della definizione dello spettro delle proprie attività e delle modalità con cui strutturarle.

Insieme alla futura Agenzia per la cooperazione allo sviluppo, tale innovazione potrebbe costi-tuire il sistema appropriato per dare maggior efficienza ed efficacia all’azione dell’Italia all’e-stero a livello di “sistema paese”. Come indicato al capo V, articolo 22 della legge 125/14, la Cassa Depositi e Prestiti (CDP) è l’istituzione che assumerà il ruolo di istituzione finanziaria per la Cooperazione internazionale allo sviluppo. La scelta si è probabilmente basata sulle ingenti somme finanziarie gestite, la dimostrata capacità di mobilitare risorse finanziarie - anche colle-gandosi a fondi europei e internazionali - e di creare partenariati tra pubblico e privato e nuovi strumenti finanziari per garantire le risorse necessarie al sistema produttivo, agli investimenti, allo sviluppo delle infrastrutture, al sostegno dell’economia e delle imprese. Inoltre, CDP opera normalmente con orizzonti temporali più lunghi di quelli delle ordinarie programmazioni annuali o triennali.

Oltre a rappresentare un indiscutibile sostegno alla futura Agenzia per la cooperazione allo svi-luppo, garantendo tempi certi per le risorse finanziarie e favorendo la partecipazione a bandi europei e internazionali, una simile istituzione potrebbe rappresentare il riferimento finanziario unico di tutte le risorse per la cooperazione allo sviluppo, attualmente frammentate nei bilanci di più ministeri e talvolta difficilmente identificabili. Il nuovo statuto di CDP prevede esplicitamen-te, all’articolo 3, A2 comma v, che possa sostenere finanziariamente attività di cooperazione allo sviluppo.

Già nel 2009 CDP aveva riformato le proprie operazioni, includendo tra le proprie attività il fi-nanziamento diretto di progetti di interesse pubblico, l’export finance, il social housing e il so-stegno alle PMI, proseguendo fino ad oggi con sempre più mansioni e l’ingresso nel gruppo di Sace, Simest e Fintecna. L’ultima riforma dell’inizio del 2015 ha anche deliberato l’aumento delle risorse dedicate all’internazionalizzazione e all’export, portandole da 6,5 miliardi di euro a 15 (+130%). CDP potrà operare, oltre che con la garanzia di Sace, anche con quella di altre agenzie di credito all’esportazione straniere, e stipulare accordi specifici con banche di sviluppo nazionali e altri con enti finanziari multilaterali costituiti da accordi internazionali, quali Banca Mondiale, Banca Europea per lo Sviluppo, Banca di Sviluppo Interamericana e BEI, come espli-citato all’art. 31 della Legge 125/14.

L’attrattività di questa struttura per il settore privato, oltre che per l’erogazione di crediti conces-sionali come previsto agli articoli 8 e 27 della legge 125/14, risiede nel fatto che CDP potrebbe mitigare parte del rischio connesso alla concessione di crediti agevolati per l’apertura di impre-se miste nei Paesi partner, di per sé particolarmente rischiosa, attraverso il già citato fondo di garanzia che verrà gestito attraverso un’apposita convenzione tra il Ministero per l’Economia e la Finanza e CDP stessa. Il valore del fondo di garanzia è stato determinato, di concerto con

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il Ministero dell’Economia e della Finanza, in 10 milioni di euro. Il Fondo opererà attraverso un conto corrente inattivo che verrà attivato a prima richiesta nel caso in cui l’investimento oggetto del prestito concessionale andasse in default.

CDP garantirà comunque la propria mission di investire e proteggere il proprio patrimonio, in particolare il risparmio privato postale, pur partecipando in iniziative a favore del settore privato nella cooperazione allo sviluppo. Da una parte, farà riferimento a severi parametri di valutazio-ne, secondo un principio di cautela, per i singoli interventi a fronte dell’impiego delle proprie ri-sorse di cassa; dall’altra, come previsto all’articolo 31 della legge 125/14, CDP utilizzerà tutti gli strumenti a disposizione per realizzare operazioni di interesse pubblico nei confronti o sostenu-te da altri enti pubblici, regioni, province, o comuni, in accordo con quanto previsto nel suo sta-tuto, e opererà il più possibile in co-finanziamento con altre istituzioni finanziarie internazionali. Le operazioni saranno realizzate a seguito di un’attenta valutazione della sostenibilità econo-mico-finanziaria delle proposte e nel rispetto dei limiti finanziari stabiliti annualmente attraverso un’apposita convenzione con il Ministero per l’Economia e le Finanze.

3.4 Aspetti fiscali settore privato e cooperazione allo sviluppoLe dichiarazioni e i principi guida relativi alla fiscalità e alla tassazione delle grandi aziende mul-tinazionali che operano anche nei PVS sono prodotte dal OCSE, G2075, Unione europea, Ban-che di Sviluppo Regionali76. La nuova agenda globale dovrebbe affrontare il problema da più punti di vista per riuscire a incrementare la trasparenza del mercato e rafforzare gli obblighi e gli standard delle imprese in termini di contabilità e relazioni finanziarie. Di grande rilevanza risulta anche la tematica relativa allo scambio delle informazioni a livello internazionale, in quanto gli accordi bilaterali non sono sufficienti e appare necessaria l’adozione di azioni multilaterali a ca-rattere internazionale77.

Argomento centrale rimane la necessità che le imprese paghino una quota adeguata di tasse nel paese in cui operano, rispettando il regime fiscale locale e evitando la ricerca di esenzioni che potrebbero danneggiare le già deboli economie di alcuni Paesi partner. È fondamentale evitare di concedere crediti a quelle imprese che - direttamente o indirettamen-te - sono basate o svolgono operazioni in paradisi fiscali: a questo proposito alle imprese si dovrebbe richiedere la piena accessibilità delle informazioni relative alla proprietà di ogni entità direttamente o indirettamente collegata all’impresa beneficiaria, includendo conti bancari, trust funds e fondazioni.

L’obiettivo primario di tali richieste è quello di evitare l’uscita illecita di flussi monetari dai Pa-esi partner dovuta ad evasione fiscale o strategie di evasione: tale fuoriuscita si configura es-senzialmente come una perdita di denaro per i Paesi partner, che non genera nessun tipo di beneficio distributivo o impatto sociale positivo78. A tale necessità fanno appello l’Integrated Safeguards System dell’African Development Bank e la relazione di sintesi del Segretario Gene-rale delle Nazioni Unite di dicembre 2014 sull’agenda post 201579, che si pongono come chiari strumenti di policy atti ad orientare i decision-makers.

75 “Report to G20 Development Working Group on the Impact of Base Erosion and Profit Shifitng in Low Income Countries.”76 African Development Bank, “Resource Mobilization for Poverty Reduction in East Africa: Lessons for Tax Policy Administration.”77 DIE, Post 2015: The international battle against tax fraud and evasion, 2013, German Development Institute Briefing Paper

16/2013. 78 Eurodad “Private profit for public good? Can investing in private companies deliver for the poor?”, 2012.79 “The Road to Dignity by 2030: Ending Poverty, Transforming All Lives and Protecting the Planet”, 2014. Punto 145: “All compa-

nies must pay their taxes, respect labour standards, human rights, and the environment. Empowered civil society actors, through action and advocacy, must rally to the cause, and contribute to a sustainable, equitable, and prosperous future.”

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4. Il monitoraggio e la valutazione dell’impatto sociale degli investimenti del settore privato nella cooperazione internazionale

Negli ultimi vent’anni l’attenzione rivolta alla responsabilità sociale delle imprese è cresciuta di pari passo con un proliferare di linee guida, codici di condotta, modalità di reporting standard volti ad assicurare - e a misurare - la responsabilità delle imprese nelle loro attività.Anche nella cooperazione internazionale, considerato il coinvolgimento sempre più signi-ficativo del settore privato in programmi volti a perseguire obiettivi sociali, si è assistito ad una modificazione della logica sottostante ai processi di valutazione, attraverso l’integrazio-ne con un insieme di strumenti di controllo e gestione tradizionalmente utilizzati dal settore privato profit. Il crescente coinvolgimento del settore privato in attività di cooperazione internazionale rende la valutazione dell’impatto sociale dei progetti centrale per assicurare che il profit sia promotore di sviluppo sostenibile e per evitare il rischio che le attività di responsabilità sociale siano utilizzate semplicemente come “licenza ad operare” in contesti stranieri80.

4.1 Metodologie di valutazione utilizzate nella cooperazione internazionale

Le metodologie di valutazione più utilizzate su progetti di cooperazione internazionale sono in larga parte fondate sul “modello logico”81, che descrive la logica di un intervento82 attraverso:

• input, ovvero le risorse impiegate per lo svolgimento di attività programmate;

• attività del progetto stesso;

• output, ovvero i prodotti e servizi, tangibili ed immediati, che risultano dalle atti-vità svolte;

• outcomes, ovvero i risultati, vale a dire cambiamenti ed effetti avvenuti sui gruppi target del progetto (a livello sociale, economico ed ambientale) come conse-guenza degli output, su un lasso di tempo superiore;

• impatto, ovvero i cambiamenti strutturali e gli effetti consolidati nel tempo che i risultati hanno avuto sulla società e sull’ambiente, e che non si sarebbero pre-sentati in assenza dell’intervento.

A tale modello è poi normalmente associata l’analisi dei fattori esterni di rischio e delle condi-zioni esterne per la buona riuscita dell’intervento.La valutazione di progetti e programmi di cooperazione allo sviluppo si basa su sistemi di mi-surazione e reporting che distinguono tra modalità qualitative e quantitative di raccolta delle informazioni. Né una né l’altra modalità, tuttavia, appaiono veramente efficaci se utilizzate da sole: il ri-corso a indicatori puramente quantitativi presenta numerosi vincoli e rischia di condurre ad analisi superficiali dei fattori di contesto - spesso difficili da misurare quantitativamente - ; l’utilizzo di soli elementi qualitativi è altrettanto problematico, a causa dell’elevato rischio di fornire una presentazione poco rigorosa e con informazioni difficili da comparare. Una valutazione puramente qualitativa rende inoltre estremamente complessa la verifica esterna e oggettiva dei risultati raggiunti e la possibilità di replicare l’intervento attraverso una sua

80 P. Lucci, Post-2015 MDGs: What Role for Business?, 2012, London: Overseas Development Institute.81 C. Weiss, Evaluation: Methods for studying programs and policies, 1998, Englewood Cliffs, NJ: Prentice – Hall.82 Detto “progetto” o “programma” a seconda della sua minore o maggiore durata, grado di complessità e integrazione tra le varie

attività previste.

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modellizzazione.Infine, la valutazione dei risultati raggiunti da un progetto di cooperazione internazionale può incorrere in una serie di distorsioni, tanto per quanto riguarda le misurazioni qualitative, che per quelle quantitative. Fra le principali si riscontrano:

• incentivi perversi. La misurazione è in genere associata alla verifica del raggiungi-mento di target prestabiliti. Gli implementatori potrebbero essere incentivati a rag-giungere tali target indipendentemente dall’appropriatezza in termini di contributo all’outcomes del progetto. Questo può avvenire, ad esempio, nel caso in cui l’impre-sa selezioni gruppi di beneficiari più facili da raggiungere o nel caso in cui solo i casi di maggior successo vengano presi in analisi (c.d. fenomeno del cherry-picking);

• manipolazione dei dati. Questo aumenta il rischio di distogliere l’attenzione dai risultati che effettivamente il progetto intende raggiungere;

• mancanza di flessibilità degli indicatori. Il processo valutativo deve poter con-siderare l’aggiornamento degli indicatori in corso d’opera, a fronte di mutamenti contestuali e strategici.

4.2 Metodologie di valutazione dell’operato nel settore privato profitIl settore privato si è organizzato con strumenti propri di valutazione, generando, a partire dagli anni novanta, numerosi standard di reporting83. Inoltre, gli obiettivi perseguiti dalle imprese vengono sempre più definiti con i portatori di inte-resse (clienti, fornitori, lavoratori, comunità e governi dei Paesi in cui le imprese operano): al rispetto della legislazione nazionale e internazionale, le imprese aggiungono dunque obiettivi “volontari” (dal do no harm all’integrazione degli obiettivi di CSR nella strategia aziendale84).Tali pratiche di misurazione - tuttavia - non sono ancora diffuse nella PMI, e anche nelle grandi organizzazioni le dimensioni di output e outcome vengono spesso confuse. In Italia la misurazione dell’impatto sociale è ancora poco sviluppata nel settore privato, che spesso si appoggia al mondo delle ONG per la misurazione dei risultati sociali in attività di coo-perazione internazionale. In tal senso, l’istituzione del Consiglio Nazionale della Cooperazione allo Sviluppo (art. 16 della Legge 125/14) pone le basi per la partecipazione di attori esterni alla definizione di standard di misurazione anche per la cooperazione bilaterale italiana.

4.3 Elementi di complessità nella valutazione dell’impatto dei progetti di cooperazione che coinvolgono il settore privato

La selezione del MAECI delle proposte per credito concessionale e aiuto agevolato presen-tate dalle imprese private è incentrata principalmente sull’esistenza di standard di idoneità e valuta l’impatto economico, sociale e ambientale del progetto al momento del finanziamen-to, ma senza precise indicazioni sul monitoraggio e con valutazioni su una minima parte dei finanziamenti85. Sarebbe auspicabile un monitoraggio degli outcome sociali e ambientali raggiunti86 - calibrando le richieste sulle dimensioni del progetto e sulla capacity di imprese e partner locali -, insieme

83 Es. le certificazioni ISO e SA8000, i meccanismi di labeling certificato, la GRI.84 Questo avviene nei casi in cui siano inclusi criteri di ESG o legati alla triple-bottom line come elementi centrali della strategia

d’impresa. 85 La DGCS effettua controlli su circa il 10% delle imprese miste finanziate e non sono richiesti criteri relativi al reporting pubblico

del monitoraggio dei risultati sociali, economici ed a livello ambientale raggiunti dall’impresa (MAECI 2015).86 “Vale la pena sottolineare come già nelle delibere del Comitato Direzionale relative all’approvazione di prestiti per imprese miste (ad

esempio quelle ultime di Etimos) siano state espressamente indicate attività di monitoraggio in itinere e sia stata debitamente prevista una valutazione ex post effettuata da una società esterna”: contributo del Direttore Generale per la Cooperazione allo Sviluppo del 27/07/2015.

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all’adozione di metriche condivise. Le sanzioni potrebbero essere un’extrema ratio, mentre sa-rebbe produttivo introdurre attività di supporto che permettano correzioni agli interventi qualora non raggiungano risultati sufficientemente positivi.Il finanziatore spesso non tiene poi conto del fattore di rischio associato all’apertura di impre-sa87. Negli investimenti aventi motivazioni miste (ritorno economico e ritorno sociale) è impor-tante quindi esplicitare il grado di rischio legato al raggiungimento degli obiettivi sociali che il finanziatore intende sostenere.

Un altro elemento critico è la misurazione dei benefici sul territorio, spesso distribuiti, cosa che non sempre rende possibile il campionamento. Evidenze dimostrano che a facilitare il processo contribuiscono la presenza di dataset storici e informazioni su interventi preceden-ti88, condizioni poco presenti nei PVS. Un’eventuale assistenza tecnica nella raccolta dei dati dovrebbe tenere in conto anche di questo, oltre che dell’importanza dei dati già raccolti in maniera routinaria dai partner.Infine, occorre tenere conto dei rischi di indebolimento delle capacità istituzionali locali, nonché dei rischi relativi a distorsioni del mercato locale che possono essere causate da pratiche di aiu-to legato. Le raccomandazioni dell’OCSE sulla riduzione e progressiva cancellazione dell’aiuto legato costituiscono una base normativa imprescindibile.

4.4 Il settore privato e i principi di efficacia degli aiutiI fora sull’efficacia degli aiuti di Parigi (2005), Accra (2008) e Busan (2011) hanno portato donatori, beneficiari, settore privato e società civile a riconoscere una serie di principi, volti a monitorare e valutare l’impatto e l’effettivo valore delle risorse destinate alla cooperazione allo sviluppo, per assicurare massimizzazione dei risultati e rispetto della sostenibilità nel lungo periodo.

I principi, contenuti nella Dichiarazione di Parigi sull’efficacia degli aiuti, sono cinque: ownership (i PVS stabiliscono le proprie strategie di lotta alla povertà89, migliorano le istituzioni e combat-tono la corruzione); allineamento (i Paesi donatori si uniformano a tali obiettivi); armonizzazione (i Paesi si coordinano e condividono le informazioni); risultati misurabili; responsabilità recipro-ca. Inoltre, con il 4th High Level Forum on Aid Effectiveness di Busan nasce la Global Partner-ship for Effective Development Co-operation (GPEDC), che sta conducendo un’analisi circa l’efficacia della cooperazione allo sviluppo a livello sia globale sia locale, sviluppando un quadro di monitoraggio che include nuovi indicatori riguardanti il settore privato, la partecipazione della società civile, la parità di genere e la trasparenza. I principi di Parigi e il sistema di monitoraggio della GPEDC possono essere un’utile guida per indirizzare e valutare l’impatto del settore privato profit in attività di cooperazione internazionale.

4.5 L’addizionalità degli aiutiNel misurare l’impatto occorre poi tenere conto dell’addizionalità90, tema già trattato preceden-temente, verificabile attraverso la constatazione che i fondi utilizzati mobilitino altre forme di finanza (altrimenti non mobilitate) e che vi sia un reale impatto sullo sviluppo.

87 La garanzia concessa a imprese e istituti finanziari da parte del MAECI (art. 27 della Legge 125/14) tiene conto solo in parte di tale possibilità, considerando un fattore di “rischio Italia” di 1 a 12 (ovvero un’impresa su 12 fallisce in Italia), concedendo 5 anni di grazia sulla concessione del credito alle imprese (su un totale di 10 anni di finanziamento agevolato) e un tasso di interesse pari al 15% di quello praticato sul mercato del credito industriale (MAECI 2015).

88 G8 - Social Impact Investment Taskforce 2014.89 http://www.oecd.org/dac/effectiveness/parisdeclarationandaccraagendaforaction.htm90 Il principio di addizionalità prevede lo stanziamento di risorse ai fini di mobilitare attività e/o investimenti che non si sarebbero

verificati (del tutto o con la stessa entità). Gli stanziamenti non possono sostituirsi agli aiuti pubblici dello Stato partner, ma si devono accompagnare a questi.

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Un recente studio sull’addizionalità finanziaria91 mostra la scarsità di evidenze circa la reale capacità dei privati di mobilitare risorse aggiuntive. Inoltre, i finanziamenti privati sono spesso diretti a Paesi con livelli di reddito più elevati.

BOX 2 – Alcuni strumenti di valutazione dell’impatto diffusi nel settore privato e legati all’impact investing

GRI: la Global Reporting Initiative è stata una delle prime iniziative a sviluppare uno strumento di valutazione della sostenibilità delle imprese. Le Sustainability Reporting Guidelines della GRI vengono sottoposte ad aggiornamenti continui, aumentando la propria copertura sia in termini settoriali che di utilizzo effettivo da parte delle imprese. A Maggio 2015, ben 7598 organizzazioni del settore privato sono iscritte al database globale del GRI, dove è possibile consultare più di 20000 report di RSI.

IRIS (Impact Reporting and Investments Standards): è il catalogo di tutte le metriche di performance generalmente accettate che vengono utilizzate nell’impact investing per la misurazione degli obiettivi sociali, ambientali e finanziari, per la valutazione di accordi e la crescita della credibilità del settore. IRIS incorpora e allinea gli standard esistenti, piuttosto che produrne di nuovi, ed è gestito dal Global Impact Investing Network (GIIN), un’organizzazione no profit che ha per mission la crescita e l’aumento dell’efficacia dell’impact investing. Più di 5000 organizzazioni stanno lo utilizzando a livello globale.

GIIRS (Global Impact Investing Rating System) è collegato agli standard IRIS. É un sistema di autovalutazione online che misura l’impatto su tutti gli stakeholders di un’impresa (considera lavoratori, fornitori, clienti, comunità ed ambiente). A seconda delle dimensioni dell’impresa e del settore industriale, la valutazione include tra i 120 e i 180 indicatori. Ogni domanda è pesata e va a strutturare un indicatore aggregato. Il 70% dei punti sono focalizzati sugli output, 25% sulle buone pratiche introdotte ed il 5% sulle politiche promosse. Le organizzazioni che hanno 5 stelle (il massimo) sono quelle che hanno almeno 125 punti sui 200 totali. Queste ottengono il certificato BCorp, seguendo un processo di verifica basato su tre livelli, con una autovalutazione, una revisione della documentazione formale prodotta ed una visita sul sito da parte di auditor. Solo il 10% delle imprese che lo utilizzano hanno effettuato il processo di verifica a tutti e tre i livelli.

91 J. Pereira, Literature review on the additionality of using ODA to leverage private investments, 2015, in UK Aid Network, http://www.ukan.org.uk/wordpress/wp-content/uploads/2015/03/UKAN-Leveraging-Aid-Literature-Review-03.15.pdf (link controllato il 7 giugno 2015).

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Case study: Big Society Capital, valutazione ed accountability attraverso l’approccio Pay for Results

Il Regno Unito ha sviluppato un sistema articolato per promuovere cultura e prati-che di misurazione d’impatto del Terzo Settore e della Cooperazione Internazionale, sviluppando un contesto giuridico e operativo favorevole, stabilendo linee guida e infrastrutture di dati condivise e lasciando spazio ad iniziative dal basso (Montesi e Grieco, 2015).

Un incentivo è stato fornito dallo sviluppo dei SIB (Social Impact Bonds) per il finanzia-mento di servizi sociali innovativi, in cui il ruolo della misurazione dell’impatto sociale generato assume un rilievo fondamentale nella stima della remunerazione degli investitori e ha incentivato lo sviluppo di una infrastruttura di misurazione di impatto.

Il governo britannico ha promosso politicamente tale strumento, ottenendo in sede eu-ropea una deroga alla normativa sugli aiuti di stato per lo stanziamento di un finanzia-mento di ben 400 milioni di sterline, finalizzato alla capitalizzazione della Big Society Capital (BSC).

Big Society agisce come una banca di investimento del Terzo Settore, essendo la sua missione quella di investire in imprese sociali, istituzioni benefiche e organizzazioni di volontariato che incontrano difficoltà nel reperire sul mercato finanziamenti a condi-zioni accessibili. BSC si propone di erogare una serie di servizi finanziari alle organiz-zazioni del settore sociale, di raccogliere risorse per realizzare maggiori investimenti nel settore e di supportare le organizzazioni nel conseguimento di una maggiore so-lidità e stabilità finanziaria. La copertura finanziaria dell’operazione è stata assicurata dal prelievo dei conti dormienti presso banche e istituti di credito rimasti inattivi per almeno 15 anni.

Le proposte di finanziamento vengono valutate da BSC attraverso tre criteri: l’impatto sociale, il ritorno finanziario ed il potenziale di sviluppo in termini di mercato di investi-mento sociale. Questi tre fattori di valutazione vengono ponderati e possono compen-sarsi tra di essi (ad esempio una proposta con grande impatto sociale e basso ritorno finanziario può ottenere lo stesso punteggio di una con alto ritorno finanziario e minore impatto sociale).

È interessante notare come gli indicatori identificati da BSC, indipendentemente dal set-tore in cui vengono applicati, tengano sempre conto delle dimensioni di genere, richie-dendo esplicitamente agli intermediari finanziati di misurare il numero di donne coinvolte nel progetto ed il numero di beneficiarie dirette. Tali dati vengono messi in relazione alla copertura totale del target raggiunta da ognuno dei progetti finanziati, per meglio com-prendere le eventuali distorsioni nel raggiungimento degli obiettivi ed il loro bilanciamento di genere.

BSC propone una propria metodologia, il Social Impact Test, pur accettando metodologie di valutazione ed accountability proposte dai partner, previa verifica della robustezza dei processi di valutazione dell’impatto proposti. Il grado di profondità richiesto ai partner per la raccolta delle evidenze di impatto è commisurato all’entità del finanziamento e dunque del progetto supportato.

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Tabella 4. Big Society Capital, i criteri del social impact test

Area di impat-to sociale

Domande Aree di analisi (test)

Mission Quali sono gli obiettivi di cambiamento?

Solidità della strategia.

Comprensione del contesto.

Impatto Quale estensione avrà il cambiamento che si intende ottenere?

Ampiezza e profondità dell’impatto.

Area di impatto/numero di beneficiari raggiunti.

Processi di innovazione attivati.

Sviluppo organizzativo.

Governance Come verrà gestito l’impatto sociale gene-rato?

Regole costitutive, accordi, garanzie fornite per la re-alizzazione della mission e la redistribuzione del valo-re generato.

Composizione e ruoli del comitato di investimento e di gestione.

Exit strategy prevista.

Attività In che modo ed attra-verso quali attività l’in-termediario finanziario dell’investimento so-ciale intende raggiun-gere la sua mission?

Track record dell’intermediario.

Propensione alla mission, capacità del team di gestio-ne.

Congruenza ed allineamento tra i ritorni finanziari e quelli sociali.

Misurazione e

Valutazione

dell’Impatto

In che modo l’interme-diario intende misurare il cambiamento otte-nuto, ed apprendere/migliorare l’approccio attraverso tali informa-zioni?

Livello di integrazione della valutazione di impatto nei processi di investimento.

Chiarezza della pianificazione e del targeting propo-sto dall’organizzazione.

Sistema di monitoraggio e reporting periodico previsto.

Presenza di auditing sociale con verifica esterna indi-pendente di parte terza.

Processi di apprendimento interni previsti.

La misurazione di impatto è dunque centrale nell’approccio Pay for Results, poiché è lo strumento funzionale a definire il grado di raggiungimento degli obiettivi e dunque l’ad-dizionalità rispetto ad altri investimenti pubblici indirizzati al raggiungimento degli stessi obiettivi e l’integrazione con l’intervento pubblico in caso di “fallimenti del mercato”.

Il monitoraggio dell’impatto deve essere inserito come componente fondamentale dei processi di decision-making interni alle organizzazioni supportate da BSC, che devono presentare un piano di monitoraggio che mostri un chiaro dispiegamento di risorse uma-ne e finanziarie dedicato. Inoltre, BSC predilige i progetti con un equo bilanciamento tra risultato/rischio sociale e risultato/rischio finanziario.

È essenziale, per l’intermediario finanziario che accede al finanziamento, aver previsto un processo di misurazione e validazione esterna ed indipendente, che effettui audit a cadenza regolare volti a misurare gli indicatori di risultato del progetto.

I target da raggiungere devono dunque essere realistici, nonché chiaramente collegati ai bisogni ed alle aspettative dei beneficiari del progetto e gli indicatori stabili (e comparabili nel tempo), standardizzati, specifici, concretamente misurabili.

Infine, sono richiesti chiari meccanismi di feedback del processo di monitoraggio sull’o-perato delle organizzazioni beneficiarie e il processo valutativo deve prevedere un piano di disseminazione e condivisione dei risultati con tutti i principali stakeholders e shareholders del progetto.

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Raccomandazioni

Nelle prime settimane di giugno 2015 sono stati licenziati due documenti attesi da tempo dai vari stakeholder della cooperazione italiana: il regolamento recante lo Statuto dell’Agenzia Italiana di Cooperazione allo Sviluppo, inviato ai pareri delle Commissioni Esteri di Camera e Senato, e il Documento Triennale di Programmazione, di Indirizzo e Relazione sulle Attività di Cooperazione. In particolare, dalla lettura dello Statuto permangono incertezze sulla de-finizione dello spazio che il settore privato profit avrà nei programmi di sviluppo del nuovo sistema italiano di cooperazione. Rimane dunque fondamentale giungere a una precisa de-finizione del ruolo del settore privato come soggetto di cooperazione, così come inteso all’Art. 23 della Legge 125/14, individuando con chiarezza requisiti minimi e standard che ne regolino l’operato, così come quanto previsto per le ONG attraverso l’idoneità ad operare nei Paesi partner.

Gli interventi della società civile e del settore privato saranno caratterizzati da approcci e meto-dologie diverse, ma l’accesso ai fondi pubblici attraverso cui operano dovrebbe essere regolato in modo analogo. Facendo tesoro di quanto previsto dal testo di riforma, ovvero che i soggetti con finalità di lucro debbano operare secondo i principi e la finalità della legge, vanno mantenuti saldi i principi di solidarietà e di cooperazione alla luce dell’orientamento al profitto che caratterizza l’attività di questi attori.

ActionAid, alla luce delle riflessioni sviluppate all’interno di questo policy paper, propone le seguenti raccomandazioni, chiedendo

al Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, all’Agenzia e alla Cassa Depositi e Prestiti:

• di attribuire alla DGCS o all’Agenzia un chiaro ruolo di verifica di quanto previsto all’art 23 comma 2, d, ovvero l’accertamento del fatto che i soggetti con finalità di lucro che vogliano essere qualificati come soggetti di cooperazione “agiscano con modalità conformi ai principi della presente legge, aderiscano agli standard comunemente adottati sulla responsabilità sociale e alle clausole ambientali, nonché rispettino le norme sui diritti umani per gli investimenti internazionali”. Di introdurre conseguentemente la verifica dell’adesione dei soggetti con finalità di lucro a più comuni standard, alla quale associare un sistema incentivante, nel quadro di quanto previsto all’art. 27 comma 2 della Legge 125/14, che premi i soggetti che possano dimostrare di aderire a standard più stringenti, in partico-lare per le singole progettualità oggetto di bando;

• di inserire, fra le condizioni minime che i soggetti con finalità di lucro siano rite-nuti a rispettare per operare nei Paesi partner attraverso il sistema dell’APS ita-liano, la piena adesione ai principi di Busan, alla dichiarazione dell’ILO, al Global Compact delle Nazioni Unite e alle Linee Guida dell’OCSE per le imprese multi-nazionali, in armonia con le Conclusioni del Consiglio Europeo di dicembre 2014;

• di richiedere, quale condizione minima, ai soggetti con finalità di lucro qualificati come “soggetti di cooperazione”, di rispettare le Linee Guida OCSE destinate alle imprese multinazionali come quadro di riferimento in materia di condotta responsabile d’impresa:

• perché si tratta di un corpo di raccomandazioni sottoscritto da 46 Paesi (OCSE e non OCSE), che i rispettivi Governi si sono impegnati a promuovere e a salvaguardarne l’attuazione presso le imprese che operano a livello nazionale ed internazionale;

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• perché le LG costituiscono il più completo framework internazionale per “contenuto” e “meccanismo di tutela” (vedi gestione istanze a cura del Punto di Contatto Nazionale) declinati sul tema della respon-sabilità sociale d’impresa e, a seguito dell’aggiornamento del 2011, fanno esplicito riferimento ai Guiding Principles Business Human Ri-ghts delle Nazioni Unite e alla necessità per l’impresa di implementare un sistema di due diligence della catena di fornitura per prevenire i rischi di impatti negativi, riconducibili all’attività d’impresa, nelle ma-terie delle LG;

• di assicurare il rispetto di standard internazionalmente riconosciuti in materia di Responsabilità Sociale di Impresa e rispetto dei diritti umani attraverso un riferi-mento più puntuale all’interno delle procedure di selezione, qualora previste, alle certificazioni volontarie (ISO26000, pacchetto ISO9000 e SA8000). Tale risultato è raggiungibile inserendo tali certificazioni tra i requisiti vincolanti o ricorrendo ad un meccanismo premiante che preveda punteggi più alti alle imprese in posses-so delle certificazioni citate;

• di creare un elenco, analogamente per quanto avviene per i soggetti della società civile, a cui le imprese del settore privato possano iscriversi per accedere ai fon-di istituzionali stanziati per l’APS previa verifica, da parte della DGCS o dell’A-genzia, delle condizioni minime per l’accesso a tali fondi, da definirsi attraverso l’adempimento agli specifici requisiti indicati al punto precedente. Prevedere, a margine di tale elenco, un meccanismo di monitoraggio nel tempo che verifichi il mantenimento dei requisiti minimi richiesti per accedere ai fondi dell’APS, attività che potrebbe essere svolta dall’Agenzia Italiana di Cooperazione allo Sviluppo;

• di richiedere, ai fini della valutazione dei finanziamenti da concedere alle impre-se per progetti di cooperazione internazionale, l’introduzione di procedure di monitoraggio degli outcome sociali e ambientali raggiunti da indicare espres-samente nelle future delibere del Comitato Direzionale relative all’operatività delle imprese miste;

• di vincolare una parte dei finanziamenti concessi alle imprese al sostegno di attività di sviluppo di piani di monitoraggio degli outcome sociali e ambientali, in modo da richiedere maggiori garanzie sulle catene di fornitura e sulla promo-zione di un comportamento responsabile (ad esempio attraverso la richiesta di quali misure l’impresa intenda intraprendere per incentivare e promuovere un comportamento responsabile dei partner commerciali oppure, per particolari tipi di progetti, la richiesta - non obbligatoria ma preferenziale - di accordi di rete per l’introduzione di sistemi di certificazione e labeling delle catene di va-lore all’interno delle quali l’impresa mista è coinvolta);

• di passare da una valutazione statica ad un monitoraggio continuo e pubblico, teso a dimostrare l’adozione di policy da parte dell’impresa per il raggiungimento degli obiettivi sociali e economici stabiliti, differenziando le procedure di monito-raggio a seconda delle dimensioni e della rilevanza strategica dei progetti finan-ziati, calibrando le richieste effettuate in termini di monitoraggio alle dimensioni del progetto e alle capacità delle imprese e dei partner locali;

• di applicare un sistema di correzioni collegato alle attività di monitoraggio, qualora i progetti non risultino raggiungere risultati sufficientemente positivi. Il ricorso a sanzioni è considerato come extrema ratio, mentre è da incentiva-re l’affiancamento del Ministero ai percorsi effettuati dalle imprese finanzia-te o l’aumento di valutazioni esterne, volte anche a misurare l’addizionalità dell’intervento finanziato rispetto agli impieghi governativi ed internazionali già previsti nel contesto locale;

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• di chiarire lo spettro d’azione e d’autonomia della Cassa Depositi e Prestiti at-traverso l’attesa convenzione tra MAECI, CDP e Agenzia, prevista dall’art.22 comma 2 della Legge 125/14, che dovrebbe fare chiarezza circa le modalità attraverso le quali si veicolano i fondi destinati alla cooperazione internazionale, distinguendo attentamente l’internazionalizzazione d’impresa dalla cooperazio-ne allo sviluppo;

• di assicurare che le decisioni relative ai crediti concessionali e all’erogazione di crediti agevolati da parte di Cassa Depositi e Prestiti siano governate da una valutazione non solo della sostenibilità economico-finanziaria, ma anche dalla verifica dell’impatto sociale connesso alle attività finanziate tramite tali crediti;

• di assicurare, altresì, piena trasparenza nelle operazioni di finanziamento, a parti-re dalle procedure di selezione e istruttoria relativamente alle imprese assegnata-rie di credito. A tal fine va garantita la piena accessibilità alle informazioni relative alle imprese beneficiarie di finanziamento, ivi comprese le valutazioni circa l’im-patto sociale delle attività delle suddette e la loro adesione.

Al settore privato:

• di adattare il proprio core business ai principi e alle finalità della cooperazione internazionale, superando l’approccio incentrato esclusivamente sulla massimiz-zazione del profitto e sulla minimizzazione del rischio. Le imprese che vogliano entrare nel sistema italiano di cooperazione internazionale devono adottare un approccio inclusivo e multi-stakeholder, che metta al centro le persone e che tenga conto del rendimento sociale generato dalle proprie attività;

• di integrare lavoratori e stakeholders esterni nella definizione dei piani di RSI, assicurando sensibilizzazione e partecipazione nella definizione, o quantomeno nella consapevolezza, delle policy aziendali;

• di adattare la propria condotta ai principi di Busan, alla dichiarazione dell’ILO, al Global Compact delle Nazioni Unite e alle Linee Guida dell’OCSE per le imprese multinazionali.

Alla società civile:

• di collaborare con le imprese attraverso attività di incontro e condivisione del know-how, in modo da adottare una visione sistemica che permetta di valoriz-zare le specifiche identità di ciascun attore all’interno di una cornice di obiettivi di sviluppo condivisi.

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PHOTO: POULOMI BASU/ACTIONAID

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