il vecchio che raccontava favole e altre storie
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ANTOLOGIA DI RACCONTI DI BENITO CIARLO 1. IL VECCHIO CHE RACCONTAVA FAVOLE 2. SPATOLA 3. IL CORISTA 4. L'INCIDENTETRANSCRIPT
TeleCiarlo e book 2012
IL VECCHIO CHE SCRIVEVA FAVOLE
C’era una volta un vecchio che scriveva favole.
Si era così abituato a convivere con i personaggi delle
sue storie che quasi non era più in grado di distinguerli
dalle persone reali.
Era giudicato uno stravagante, a causa del suo modo di
fare un po’ eccentrico, dovuto, in gran parte, alla sua
enorme distrazione. Immerso com’era nel mondo della
fantasia, trascurava la realtà al punto che, spesso, non
aveva cognizione neppure degli abiti che indossava.
Abitava in uno di quei casermoni-dormitorio nella per-
iferia di una grande città.
Sua vicina di casa era una donna che, come lui, aveva
superato da tempo i settant’anni, con la quale scambiava
il saluto al mattino. Lei di ritorno dalla spesa, lui dalla
passeggiata nella nebbia che gli
suggeriva la favola che avrebbe
scritto quel giorno.
Nel suo immaginario, la sig-
nora Clara - tale era il nome
della vicina - aveva un ruolo
fisso: rappresentava la fata
della saggezza che risolveva la
situazione critica dei protago-
nisti delle sue favole, per lo più giovani ed inesperti.
S’era fatto questa idea sbirciando i libri e le riviste che,
periodicamente, facevano capolino sotto le sue braccia
al rientro mattutino. Letture inconsuete e forse inadatte
per una vecchia signora, a meno che i suoi interessi cul-
turali non fossero notevoli davvero. Queste erano, però,
fantasticherie che, al solito, accompagnavano i suoi em-
brioni di ragionamento. Nella realtà, di chi fosse vera-
mente la signora Clara, non gliene importava granché.
Era una figura funzionale per le sue favole e basta.
La sua situazione aveva un che di curioso: scriveva, da
quando gli era morta la moglie, una favola al giorno, con
grande impegno e curando all’inverosimile la semplicità
dei suoi racconti affinché la storia e la morale fossero
comprensibili per i bambini cui erano destinate, ma non
aveva mai dato da leggere quelle favole a nessuno. Era
solo, come la sua vicina e, come lei - come tutti gli
anziani abitanti del casermone - non aveva nipotini che
venissero mai a trovarlo. Soltanto gente ormai avanti
negli anni, taciturna e poco disposta a socializzare. Li
sfiorava senza accorgersi di loro, salvo focalizzare la sua
attenzione ora su questo ora su quel volto fino a contarne
le rughe, per poterlo poi descrivere come quello di un
personaggio buono o cattivo che fosse.
Tutto qui.
Quel mattino decise di restare fuori più a lungo. Amava
crogiolare i suoi pensieri sull’idea nascente e, questa
volta, la cosa prometteva bene. Gli si stava formando nel
cervello una storia nella quale, per la prima volta da
quando scriveva favole, i protagonisti non erano persone
ma oggetti: un fiammifero spento con la sua paura di
finire nel sacco della pattumiera, un barattolo di colla, un
libro e un vasetto di vetro. L’idea verteva sul recupero
del fiammifero spento ad opera delle mani di un bam-
bino per trasformarlo, insieme a tutti i suoi fratelli recu-
perati, in qualcosa di diverso, una casetta del presepio, ad es-
empio. Sarebbe stato facile, utilizzare la metafora del fi-
ammifero, le comprensibilissime paure di quest’ultimo per
una poco esaltante fine imminente, allo scopo di chiudere il
racconto con una morale del tipo "non tutto il male viene per
nuocere".
Le favole hanno la funzione di educare i bambini. Altrimenti
perché scriverle?
Rifletteva camminando, come suo solito, senza badare più di
tanto al percorso. All’improvviso, nonostante il pastrano pe-
sante e il berretto di lana, avvertì un freddo intenso. Decise,
quindi, di tornare sui suoi passi per rientrare a casa.
Si rese conto, però, che non aveva più idea di dove si trovasse
in quel momento. Il viale alberato e le foglie sotto i piedi
erano gli stessi di sempre, ma, tutt’intorno, le case avevano
assunto un aspetto diverso dal quartiere ove pensava ancora di
essere. Ricordava il suo viale per quanto era lungo, ma non
credeva possibile, almeno così gli parve osservando il paesag-
gio, che potesse sfociare in un viale gemello ed altrettanto es-
teso.
Diede la colpa alla nebbia particolarmente densa ed al freddo
pungente che forse aveva definitivamente compromesso il suo
già scarso senso dell’orientamento.
Per quanto tentasse d’orientarsi, infatti, non riusciva a
ritrovare la via di casa. Vide, offuscata, l’insegna d’un bar.
Pensò che sarebbe stato salutare entrare in un luogo caldo e
poi, (che diamine!), avrebbe chiamato un tassì e si sarebbe
fatto portare a casa di volata.
I pochi avventori erano taciturni e pensierosi, davanti alle loro
tazze di cioccolata. L’uomo sedette ad un tavolino di fronte ed
evitò d’incrociare i loro sguardi.
Il cameriere gli chiese qualcosa ma lui non capì una parola.
Deve essere un profugo, si disse, che non parla l’italiano. Lo
guardò in viso e, a conferma del suo pensiero precedente, notò
i tratti somatici esotici e s’avvide che il colore della pelle rag-
grinzita era olivastro. Indicò le tazze col cioccolato fumante
sul tavolo vicino per fargli capire cosa gradiva.
Subito dopo lo assalì l’angoscia. Un grosso manifesto era aff-
isso al bancone. Vi erano raffigurati dei bambini che gioca-
vano a girotondo. Lo angustiò il fatto di non essere in grado di
leggere e capire le scritte del manifesto, nemmeno i caratteri
cubitali, troppo simili a quelle che, un tempo, i ragazzi muniti
di bomboletta spray tracciavano sui muri o sulle pareti dei
treni. Ma non era nemmeno così: quel manifesto era scritto in
modo incomprensibile. Non una delle lettere sembrava ricor-
dargli, nemmeno lontanamente, quelle dell’alfabeto occiden-
tale. Per quanti sforzi facesse non riusciva a trovare una
similitudine nemmeno con gli ideogrammi delle lingue orien-
tali.
L’angoscia svanì quando il cameriere gli portò la cioccolata.
Squisita e calda, pensò ritemprandosi. Uno degli avventori
parlò col cameriere ad alta voce. Perbacco, questo non sem-
brava un profugo, le sue fattezze erano normali, ma, anche lui
s’esprimeva in quello strano linguaggio. Il suo disagio au-
mentò quando la donna, la compagna del primo, accese una
sigaretta e gli rivolse la parola. Dio solo sa cos’avesse detto.
Pensò che, forse gli stesse chiedendo se lo infastidiva il fumo
della sigaretta, per cui rispose con un cenno che voleva sig-
nificare "fai pure, non mi dai fastidio", abbozzando un sorriso.
Evidentemente, però, fraintese o fu frainteso perché l’altro
s’alzò e venne ad urlargli sul muso una mare di parole che, in
qualsiasi lingua fossero, non potevano che essere parolacce. Il
cameriere, quasi in coro gli ripeté le stesse urla e, senza nem-
meno aspettare che pagasse il conto, lo ributtò fuori, nella
nebbia.
Spintonato, l’uomo che scriveva una favola al giorno, quasi
cadde dal marciapiede. Non ebbe il tempo di indignarsi, per-
ché alzando gli occhi vide che l’insegna di quel bar era scritta
allo stesso modo del manifesto. Così gli annunci pubblicitari e
le confezioni di dolciumi ch’erano nella vetrina. Rinunciò a
capire e s’avviò, sconsolato nella direzione che lo avrebbe,
così presumeva, riportato a casa. Camminò quasi sul ciglio del
marciapiede, voltandosi, di tanto in tanto, nella vana speranza
di veder sopraggiungere un tassì. Il freddo gli indusse brividi
nella schiena. Anche le gambe gli tremavano un po’.
Sedette su una panchina sotto un platano serrando alla gola il
bavero del pastrano, per riprendere fiato. Ormai dovevano es-
sere passate le dieci.
Un cagnolino dal pelo fulvo gli si avvicinò annusandogli le
scarpe. Subito seguito da un bambino che arrivò di corsa per
recuperarlo prendendolo in braccio. Il ragazzetto indossava la
tuta e le scarpe da ginnastica. Il suo abbigliamento era sen-
z’altro inadeguato al freddo e alla nebbia che pungevano
come aghi il corpo del vecchio.
"Non hai freddo?" gli chiese.
Il bimbo parve non capire e gli si parò innanzi con aria inter-
rogativa.
"Fa freddo", ribadì l’uomo delle favole.
"Tu che fai?" gli chiese il bambino.
"Mio Dio", pensò l’uomo, "parla la mia lingua, credevo
d’essermi infilato in un incubo".
"Aspetto un tassì per tornare a casa", rispose.
"Dove abiti?" gli domandò ancora il bambino, mentre il suo
cane, dopo aver dato segni d’impazienza, gli sfuggì di mano,
correndo avanti e indietro sul marciapiede. La domanda scom-
bussolò il vecchio che, soltanto in quel momento si rese conto
di non ricordare l’indirizzo di casa sua.
"Laggiù" rispose, indicando vagamente il fondo del viale. Si
era perso, dunque.
"Com’è casa tua?"
"E’ grande...", fu l’unica cosa che seppe rispondergli.
Ora, con il terrore che gli fece del tutto dimenticare il freddo,
stava rendendosi conto di non ricordare, non solo l’indirizzo,
ma di non avere più la più vaga idea di come fosse fatta casa
sua.
"Che fai?"
"... Aspetto un tassì... te l’ho già detto" - che mi porti dove? -
aggiunse mentalmente l’uomo angosciato.
"Me l’hai già detto. Io volevo sapere che fai di lavoro"
"Non lavoro. Non lavoro più, sono in pensione. Non mi vedi?
Sono vecchio."
"Mmm... cos’è la pensione?"
"E’ quando ti pagano anche se non lavori più. Dopo avere la-
vorato per tanti anni, smetti e ti riposi. Questa è la pensione."
"Allora non fai più niente?"
"Quante domande... sì, non faccio più niente. A dire la verità
scrivo le favole".
La curiosità del ragazzino si scatenò del tutto. No, lui non
sapeva cosa fossero le favole e chiese al vecchio di raccontar-
gliene una e poi un’altra e poi ancora. Il bimbo ed il cane
restarono seduti su quella panchina vicino a lui per diverse
ore. Il bimbo, affascinato dalle storie del vecchio, non era mai
sazio e chiedeva ch’egli continuasse a descrivere quel mondo
fantastico che, ora, sembrava materializzarsi sotto i loro occhi.
Incuranti del passare delle ore e della nebbia che ormai aveva
assunto la consistenza d’un lenzuolo, proseguirono nel loro
gioco ancora per molto. Era diventato un gioco per merito del
bambino, il quale ad ogni racconto faceva seguire delle vari-
azioni sul tema. Il vecchio abboccava e la favola assumeva
nuovi contorni e significati diversi dall’originale.
Il buio li colse improvvisamente. Il ragazzino salutò il vecchio
con un "ciao" e prendendosi il cagnolino sotto il braccio sparì.
L’uomo s’alzò, avviandosi verso un indirizzo ignoto.
***
La signora Clara, scorgendo il vicino lungo disteso nell’an-
drone, ebbe paura che il pover’uomo fosse morto. Gli si
avvicinò e s’accorse che il vecchio respirava ancora.
"Stia su, la prego" gli disse mentre, faticosamente, gli faceva
passare un braccio sotto la testa.
"La fata saggia!...", farfugliò il vecchio, mentre una strana
luce gli attraversava lo sguardo. Poi lo vinse l’affanno,
un’asma che lo faceva sibilare come un mantice.
Lo misero sulla lettiga. La signora Clara gli si avvicinò men-
tre i portantini stavano per caricarlo sull’ambulanza. L’uomo
voleva dirle qualcosa. Accosto’ l’orecchio per afferrarne il
rantoloso sussurro:
"Una volta c’erano le favole... ricordalo ai bambini, fata sag-
gia!"
Clara seguì le luci dell’ambulanza fino a che scmparvero, poi,
tornando nel suo appartamento, capì che non era facile per
nessuno vivere in questo strano mondo dove i bambini erano
diventati, purtroppo, solo il ricordo di un passato assai lon-
tano.
Come le favole, del resto.
SPATOLA
Daniele era stato soprannominato "Spatola" da suo fratello
maggiore, Stefano, a causa della sua passione di spalmar
nutella sul pane. Non era goloso esageratamente Daniele,
amava, però, passare dei bei minuti a spalmare il cioccolato
sulle fette di pane abbrustolito, sul pane fresco, sulle fette di
colomba (a Pasqua) e su quelli di panettone (a Natale).
Spalmava nutella sui taralli, sulle paste dolci, e persino, tal-
volta, sulla carta da musica, il fragilissimo e candido pane
sardo che suo padre portava di tanto in tanto in casa.
Per far questo, usava una piccola spatola, appunto, con la
parte prossimale dentellata, e il suo divertimento era quello di
creare disegni nel marrone, spalmando copiose porzioni di
cioccolato.
Quando cominciò a frequentare la scuola elementare, finirono
per chiamarlo Spatola anche i suoi compagni di scuola e pure
le maestre.
A Daniele non dispiaceva affatto essere chiamato Spatola, per-
ché le bambine e i compagni erano sempre attorno a lui per
ammirare i ghirigori e sbafarsi fino all'ultima briciola ogni suo
capolavoro.
Insomma, Spatola godeva d'una certa popolarità.
Lo stesso accadde quando cominciò a frequentare, qualche
tempo dopo, l'oratorio.
Lì, suor Guendalina la catechista, però, gli diede molto da
pensare e lo rese triste. La suora parlò d'un brutto peccato che
spiaceva a Nostro Signore Gesù : la Gola!
Spatola, sulle prime non capì e chiese:
- Scusi, suor Guendalina, ma come può la gola essere un pec-
cato? Ce l'abbiamo tutti, mica possiamo tagliarcela! -
- Sei il solito impertinente. Sai bene che non parlo della gola
che hai sotto il mento! -
- E di cosa parla allora? -
- Del peccato d'essere troppo golosi! -
- Ah! Vuol dire che se mi piace troppo il cibo faccio peccato?
Allora perché la mamma mi dice sempre "mangia"? -
- Voglio dire che bisogna moderarsi e pensare che al mondo ci
sono molti bambini della tua età che vorrebbero mangiare a
sufficienza e non possono perché non hanno cibo. Non
bisogna pensare di soddisfare i propri desideri fino in fondo:
un piccolo fioretto fa bene al corpo e all'anima. Tu Spatola ne
avresti proprio bisogno, perché sei grasso, non te ne accorgi? -
- Sì, ma che posso farci? Sto bene. Non mangio tanto. Man-
giavo contento quello che potevo, però ora lei mi dice che è
peccato, perciò mangerò di meno e con un po' di tristezza. -
- Non è necessario essere tristi. Bisogna mangiar con gioia e
ringraziare il Signore per il cibo che ci dà. -
Daniele uscì frastornato dalla lezione di catechismo. Pensava
"se io devo ringraziare Dio per il cibo che mi dà, se il cibo lo
procura Dio, perché agli altri bambini, a quelli affamati, non
ne dà tanto quanto ne dà a me?"
Giunto a casa fece una piccola merenda, pane e nutella natu-
ralmente.
***
- Signora questo bambino ha dei denti che sono uno strazio.
Bisogna che ci stia molto attenta ora che li cambia. -
- Dottore, se li lava quattro volte al giorno, eppure ha la carie.
-
- Bisogna star attenti al cibo. Troppi dolci, signora, rovinano i
denti, lo sappiamo, no? -
Spatola fu affrontato dal babbo col cipiglio d'una cosa seria:
- Daniele, è ora che cominci a pensare alla salute dei tuoi
denti: devi mangiare meno dolci e lavarteli ben bene ogni
volta che hai terminato di mangiare.
- Certo, papà, lo faccio già. Me li lavo spesso e anche tutte le
sere prima di andare a letto.
- Allora devi rinunciare ai dolci, sennò il tartaro te li divora.
- Il tartaro? E chi è?
***
- Non muovere la testa ora, è questione di un attimo. Sta
buono! -
Spatola credeva di morire. Il dentista, per quanto simpatico e
dai modi gentili, aveva in mano una siringa con un lungo ago
col quale cercava di bucargli una gengiva. Poi zac! L'ago pen-
etrò e il bambino si sentì formicolare tutta la faccia. Il medico
estrasse il molare cariato e glielo mostrò:
- Vedi cosa ti combina il tartaro? Basta cioccolata, sennò tutti i
tuoi denti faranno questa fine! -
Aprì con un piede la pattumiera e vi fece precipitare dentro il
molare mentre Spatola si sciacquava la bocca.
A furia di buoni propositi il piccolo Spatola non solo rinunciò
ai dolci ma mangiò con moderazione e, ripensando allo strazio
di separarsi dai suoi dentini curò fanaticamente l'igiene della
bocca.
Quell'estate, vicino al fiume, lui e Stefano trovarono una vena
d'argilla.
Spatola cominciò a modellare la creta e invariabilmente ot-
teneva sagome di fette di pane che, asciugandosi al sole, sem-
bravano vere.
Poi prendeva dell'argilla umida e ve la spalmava sopra mu-
golando di piacere come se si trattasse di nutella.
- A casa le colorerò! - disse a suo fratello
- Almeno queste non ti fanno cadere i denti! -
Sì, prova a morderne una e poi vedrai, ehe ehe ehe eh !!!
***
Quella notte non riusciva ad addormentarsi.
La lingua s'ostinava a toccare un microscopico buco apertosi
nell'ultimo dente da latte che ancora non era caduto. La carie,
pensò, potrebbe rovinarmi i denti nuovi. Forse è meglio che
me lo faccia estrarre. Ma l'idea di un'altra iniezione in bocca
lo terrorizzò al punto che, presto, si sforzò di pensare ad altro.
Michele il suo compagno di banco, aveva i denti bianchissimi
e senza nemmeno una carie e sbafava tanta nutella da far
schifo.
Lui la nutella erano mesi che non la mangiava più, e nem-
meno le caramelle e i biscotti farciti. Solo il gelato di tanto in
tanto, e pure quello, quando batteva sul dente bucato gli
faceva vedere paesaggi tipo guerre stellari dal dolore!
Pensò alla maestra. Anche lei aveva denti molto belli. Il suo
sorriso era formidabile, lo metteva di buonumore e gli dava si-
curezza. Voleva bene alla sua maestra come alla mamma.
Anche lei gli diceva spesso: attento ai denti, Spatola! Uff! Era
una congiura, anche i pensieri a parlar di denti ora!
S'addormentò e sognò una focaccia enorme appena sfornata e
un barattolo di nutella. Nel sogno riuscì a spalmare più strati
di cioccolato senza far sbavare nemmeno una goccia sul
tavolo.
Poi costruì con la nutella al centro della focaccia, sull'altra
nutella, un arzigogolato minareto. Sembrava una torta che
aveva visto nella pasticceria di Genoveffa.
Miracolosamente si moltiplicarono i barattoli di cioccolato:
allora come in preda alla furia creatrice cominciò a spalmare
di nutella il mondo. Si vide in Africa, ove spalmò di nutella il
corno d'un rinoceronte e la criniera d'una zebra, al polo sud,
ove lasciò nutella in abbondanza ai pinguini, tanto loro i denti
mica ce li avevano!
Poi vide i volti di molti ragazzi affamati, d'ogni età e d'ogni
colore e la sua scorta di nutella si rivelò insufficiente e poco
gradita.
Si svegliò sudato e piangente. La mamma gli andò vicino per
ascoltarlo e lui le raccontò dello strano sogno.
Stefano nel lettino accanto, rideva come un matto.
Spatola s'irritò:
- Perché ridi?
- Ma ti sei visto? Hai una guancia che sembra una mon-
golfiera, sei molto ridicolo.
- Cos'è una mongolfiera?
- Un pallone che vola in cielo, molto grande!
-Ah!
La mamma sorrise a sua volta e preparò una medicina per
Spatola. Daniele sapeva che il dentista lo stava aspettando:
quel gonfiore era segno che il dente doveva essere tolto. Si ri-
addormentò.
Spalmò di cioccolato il palazzo comunale, la chiesa grande, la
chiesa piccola, la piazza del mercato, il viceparroco, il vigile
urbano, il ponte, la stazione ferroviaria, il postino, l'erbiven-
dolo, Stefano, Michele, suor Guendalina, persino il tendone
del circo e, finalmente, si leccò la spatola assaporando con
gusto la cioccolata fondente. Che faticaccia!
***
- Spatola, cosa farai da grande? -
- Il dentista, naturalmente! -
IL CORISTA
Per un momento si illuse di poter evitare la caduta. S’accorse
della vicinanza d’un ramo al quale aggrapparsi, ma il vento
improvviso allontanò la pianta. Gli parve che il vento stesse
ridendo di lui. Mancò la presa e precipitò.
L’inizio del volo verso il fondo lontanissimo fu di una dol-
cezza inimmaginabile, quasi un galleggiare nell’aria tiepida,
ma la luce del tramonto fu inghiottita dalla voragine così che,
all’effimero crepuscolo, si sostituirono rapide e fittissime, le
tenebre. I contorni del precipizio sparirono dalla sua vista,
così come il residuo chiarore del cielo, lassù.
Percepì i sussurri dell’aria mentre, finalmente, realizzò che
stava cadendo nel vuoto. Sensazione vecchia per lui, già
provata milioni di volte. Provò impazienza, stanchezza ed il
solito latente rancore.
”Amo la musica di Beethoven, mi piacciono l’allegria e l’ar-
monia di quella musica, adoro la sua maestosità.”
”Ami la musica… ergo ami Beethoven!”
”Perché l’ouveture del Fidelio viene eseguita solo in occasioni
tragiche? Perché risuona ora nel mio cranio come preannunci-
asse la fine imminente di un sogno?. Canta mamma, canta, ti
prego. Cantami una ninna nanna. Vorrei ascoltare la canzone
di Fiordiligi che mi cantavi quand’ero piccolo.”
”No, ma che ti viene in mente? Non posso, c’è tanto da fare
qui, non vedi?”
”Ti prego, mamma, cantami una canzone allegra. Magari
quella che cantasti ieri.”
”Non era una canzone quella, bambino mio.”
Percepì, nettissima, l’accelerazione. Capì l’incongruenza dello
scagliarsi contro un bersaglio remoto, irraggiungibile. Ebbe
paura del buio e istintivamente cercò d’assumere una po-
sizione fetale. Poi, incontenibile, provò il desiderio d’urlare.
Urlò, finalmente, ma non udì la sua voce frantumarsi contro le
pareti del burrone.
”Per la miseria, mamma! Cosa si può cantare se non una can-
zone?”
”Una filastrocca, un’aria, un lied, una romanza e tant’atre
cose.”
”Un accidente! Sempre canzoni sono!. O no?”
”Sì. hai ragione caro: sempre canzoni sono.”
Respirare divenne via via più difficile. Come riflesso in uno
specchio concavo si vide bianco e calvo. Gli occhi grandi e
bitorzoluti come quelli d’una mosca. La bocca una ferita
oscena nel volto scarno, gli zigomi enormi ed esangui. im-
maginò il suo corpo scomposto come le tessere d’un puzzle.
Scacciò la fastidiosa immagine dalla mente e si concentrò
sulla respirazione. Era come voler controllare i movimenti
peristaltici del suo intestino, impossibile. Fitte terribili gli ar-
tigliarono la gola. Provò tanta arsura. Quindi, inaspettato, un
mondo di suoni s’infiltrò nel suo cervello: musica, tantissima
musica.
”Ecco il regalo del babbo per il tuo compleanno.”
”Grazie. Lui dov’è?”
”E’ dovuto ripartire ieri, lo sai. ma ti ha lasciato davvero un
bel regalo, vedrai.”
”Già. è dovuto ripartire. Al solito. Cosa c’è nel cofanetto?”
”Aprilo su. è un dono che ti piacerà di sicuro.”
”Les Simphonies de M. Louis de Beethoven. Louis???
Luigi???. mamma, ma Ludwig non significa Lodovico?”
”Come no? Ma Lodovico e Luigi hanno lo stesso significato,
quindi per la proprietà…”
”….Transitiva?… Mah!”
La musica si fece dolcissima. Le note della Cantata 147 di
Bach aleggiavano nell’aria sospinte da mille flauti e da un
coro di bimbi. ”Giovanni Sebastiano Bach.”: ne farfugliò il
nome, felice per averlo riconosciuto in quella confusione.
cominciò a sua volta a cantare sussurrando tra e lacrime
”Jesus Bleibet meine Freude.”
”Bach” pensò ancora e sorrise. Immaginò il compositore im-
parruccato che su una bici da corsa praticava il faticoso eser-
cizio d’inseguire. l’anno liturgico. Una corsa a tappe costellata
di vittorie.
Ora il brano s’era trasformato nel coro poderoso dell’Aida. I
tenori e i bassi urlavano dell’immensità di Ftah. Tentò di acco-
darsi ma udì la sua voce frantumarsi come una lastra di ghiac-
cio sottile rotta da un sasso scagliato con forza. Provò ancora,
cocciuto come al solito, senza badare alle smorfie di disgusto
e all’aria accigliata del Maestro. Doveva farcela. Eccola la sua
voce, diventare poderosa finalmente. La sua gola era libera
d’esaltarsi in una cattedrale vuota e colma d’echi: ”Confutatis
maledictis!” Grandiosa esecuzione, avrebbero scritto i giornali
all’indomani. Gli aghi che decisero di perforargli l’ugola non
gli impedirono di percepire la moltitudine di voci che s’uni-
vano alla sua, mentre la musica mutava ancora. Il vento bat-
teva il tempo come mille anni prima.
”Freude Schoner Gotterfunken.”: era il suo amatissimo
Lodovico dell’Orto delle Rape!
♦♦♦
”Sta morendo.”
”Misericordia. era cominciato tutto come un banale mal di
gola.”
Un lampo vermiglio attraversò la fuliggine di quell’inter-
minabile budello. Timpani lontani ed incalzanti. Borodin.
Borodin? Straniero tra gli angeli. Che furto!
♦♦♦
D’improvviso si fece silenzio assoluto. Gli spartiti del Te
Deum di Berlioz furono aperti sul Judex Crederis. Il cipiglio
del Maestro era solenne. L’enorme doppio coro e l’orchestra
aspettavano l’attacco. Era la prima lettura di un’opera diffi-
coltosa ma bellissima.
”Gesù. io sto morendo. e tu mi parli di Berlioz?”
♦♦♦
Vortici gorgoglianti avvilupparono il suo corpo. Ebbe la vi-
sione d’un pandemonium tragicomico.
Ascoltò e riconobbe tutte le armoniche dell’impatto. Vide il
suo cuore fuoriuscirgli, ancora palpitante, dal torace e i suoi
occhi gonfiarsi a dismisura tanto che le orbite non li con-
tenevano più. Di nuovo percepì il lampo vermiglio. Ite missa
est. basta, per favore.
La natura è pietosa e meticolosa. Nessuno immagina quanta
musica vi sia nel dolore. Anche il proiettile fischia la
sconosciuta armonia prima di massacrarti le carni.
Il vento, per l’ultima volta s’impadronì delle sue orecchie,
sussurrandogli delicatissime variazioni sul tema del ”Giro-
tondo”.
”Oh Ludwig, la senti anche tu?”
♦♦♦
Pensò con orrore che l’avrebbe ritrovato un cane. L’idea lo
terrorizzava.
”Perché ho tanta paura degli animali, mamma?”
”E’ un’innocua fobia. Crescendo ti abituerai all’idea che gli
animali non sono cattivi.”
”Neanche i lupi?”
”Neanche loro. poverini.”
”Ma io non voglio che mi ritrovi un cane!”
”No, non sarà come pensi. ti copriranno le foglie. E’ l’Au-
tunno, ricordi?”
”Io voglio che siate voi a venirmi a cercare, papà. Mi ritro-
verete facilmente questa volta. Non posso più scappare.”
”Certo, verrò a cercarti. Porterò con me i tuoi amici del coro.”
”Grazie. E tu, mamma, verrai?”
”C’è tanto da fare qui. però vedrò di esserci.”
”Lascia perdere.”
Sarebbe venuta comunque, ne era persuaso. Fu la sua ultima
consapevolezza.
♦♦♦
Mille ombre lo attorniarono. Scorse il movimento d’un arche-
tto. Udì accordare gli strumenti d’una orchestra che intuì
grandiosa, sul LA dell’oboe.
”The trumpet shall sound!”
Cantò finché un sipario di sangue calò nella sua gola.
In quel momento, il Coro, diretto da Giorgio Federico Haen-
del in persona, esplose nell’ultimo HalleluJah.
L'INCIDENTE
Il cartello elettronico lampeggiava mettendo sull'avviso gli au-
tomobilisti: attenzione coda di 3 km!
Il sole, quel pomeriggio, aveva deciso di fare gli straordinari.
Disponendosi in asse con il tratto d'autostrada che stavo per-
correndo a passo d'uomo, aveva trovato il modo di infastidire
la carovana di cui facevo parte, ora dardeggiando, ora ab-
bagliando. S'era messo sull'orizzonte come uno specchio us-
tore ottenendo il temporaneo accecamento dei guidatori in
colonna.
Le fila si serrarono e fummo irrimediabilmente fermi. Invocai
un'improbabile eclissi o un'altrettanto improbabile nuvola.
L'andirivieni d'ambulanze e camionette dei vigili del fuoco,
concitato su entrambe le corsie di marcia, il baluginio delle
rotolampade, il salmodiare delle sirene, ottennero l'effetto di
propagare, moltiplicandola, l'impazienza che si era im-
padronita dell'intera carovana in sosta.
Presto alcuni sportelli delle vetture e dei camion furono aperti
e, sull'asfalto, i curiosi sollevavano inutilmente il capo al fine
di individuare la causa del blocco. Puntuali, giunsero alle mie
orecchie le prime bestemmie. L'asfalto semiliquefatto spro-
fondava sotto le suole emanando il caratteristico odore di
carne lessa in un brodo d'ammine aromatiche.
L'olandese, pesante e sudato, con un salto, scese dal lato op-
posto al posto di guida, dal suo mastodonte, finendo su un
piede di una signora vestita di nero che sostava nei pressi di
una vecchia Mercedes sventagliandosi. L'impatto provocò le
urla delle donna per un dolore che lei stessa definì insopporta-
bile. Il marito della donna corse repentinamente verso i due,
non per soccorrere la moglie, ma per aggredire quel bestione
biondo alto mezzo metro più di lui.
Nel parapiglia che ne seguì, la Mercedes fu ridotta ai minimi
termini, l'ometto aggressivo si ritrovo' con due denti in meno e
la bocca sanguinante mentre l'olandese incredulo si guardava
il pancione da cui sporgeva il manico scheggiato di un cac-
ciavite.
Si riaccapigliarono e, ancora una volta, nessuno dei numerosi
automobilisti presenti ebbe la voglia o la forza di cercare di
separarli. I due se le stavano dando di santa ragione, ma
l'olandese perdeva colpi, affannava, arrancava mulinando le
braccia. Allertai con il mio cellulare il 118: presto l'olandese
sarebbe stramazzato al suolo, poiché la sua maglietta bianca,
ora, cominciava ad evidenziare una macchia cremisi e untuosa
che si dipartiva da sotto quel manico che fuoriusciva dal suo
ventre in modo quasi osceno. Con terrore mi accorsi che un
altro TIR si era spostato sulla corsia d'emergenza alle mie
spalle bloccandola completamente. Ero ancora in linea con l'-
operatore del 118 quindi lo informai anche di questo partico-
lare.
Un minuto dopo, come previsto, il grasso olandese cadde
riverso tra il suo camion e la macchina che lo precedeva.
L'ometto si lisciò a fatica i baffetti sudati e si terse il sangue
dalla bocca, guardandosi intorno, tronfio come un trapezista
alla fine della sua evoluzione senza rete. Ma l'aria di trionfo
lasciò il posto prestissimo al deliquio, sicché cadde anche lui
come un macigno, urtando il capo contro il piede sano della
moglie che su di esso si puntellava malferma e ancora urlante.
Un ultimo, spasmodico e, per certi versi comico, urlo le uscì
dalla gola, dopodiché anche lei cadde riversa.
In quella, un signore occhialuto che brandiva una borsa da
chirurgo esibendola a mo' di lasciapassare, si fece largo tra la
folla di curiosi, sbraitando d'essere un medico.
Mentre il medico portava soccorso alle persone giacenti sul-
l'asfalto, m'accorsi che due poliziotti sopraggiunti in motoci-
cletta stavano facendo muovere il TIR che alle nostre spalle
aveva parcheggiato nella corsia d'emergenza.
Per un attimo vi fu un silenzio innaturale, tanto denso che
potemmo distinguere il canto delle cicale che, nei campi che
fiancheggiavano l'autostrada, inneggiavano all'estate. Arrivò
netta alle mie orecchie l'imprecazione del medico che, agi-
tando le braccia verso il cielo diceva che - Cristo! - non
poteva crederci, ma i due uomini erano proprio morti.
Dopo mezz'ora un'ambulanza caricò la donna e s'allontanò a
passo d'uomo verso un ospedale, mentre la lunghissima coda,
di cui io rappresentavo la propaggine estrema, riprendeva a
muoversi incitata da nervosi gesti di sei o sette poliziotti. L'a-
tra, formatasi dietro la Mercedes e il TIR avrebbe penato an-
cora qualche tempo.
Chissà perché mi trovai a fantasticare. Mi chiedevo se quei
due ultimi morti e quella povera donna dai piedi due volte
frantumati, avrebbero fatto parte delle statistiche delle vittime
del traffico di questo week-end d'agosto.
Aumentai l'andatura, ansioso di nascondermi da quella luce
che diventava insopportabile. Egoisticamente stavo pensando
che m'era andata bene, con due morti avrei potuto essere trat-
tenuto come testimone.
Riflettevo sull'assurdità dell'episodio al quale avevo assistito.
Credo che anche il sole, nello stesso momento, avesse i miei
stessi pensieri e provasse lo stesso disgusto: lo dimostra il
fatto che decise di tramontare seduta stante.