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operaincerta 1

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Page 1: in 1 filedi Cesare Pavese p. 06 Ars vivendi L'ozio per riavvicinarsi all'essere di Laura Ciancio p. 08 L'ozio di Nick Neim p. 16 Una giornata rivoluzionaria Riflessioni p. 20 ... Ozio,

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SOMMARIO

Vjagg bla periklu Corto in Sicilia - V di Carlo Blangiforti p. 12 L'ozio Nanè Ovvero una personale piccola lotta di classe di Saro Distefano p. 14

Dolce far niente Quasi un editoriale di Carlo Blangiforti p. 04 AAA Cercasi Nuovo Socra-te Riflessioni di Luca Farruggio p. 05 Versi Diversi L'ozio di Cesare Pavese p. 06 Ars vivendi L'ozio per riavvicinarsi all'essere di Laura Ciancio p. 08

L'ozio Racconto di Nick Neim p. 16 Una giornata rivoluzionaria Riflessioni di Patrizia Vindigni p. 20 Parole Sante L'ozio di Byung-Chul Han p. 21 Lavorare con lentezza Enzo Del Re, il corpofonista pugliese di Meno Occhipinti p. 22

AAA Cercasi Nuovo Socrate

di Luca Farruggio

p. 05

Riflessioni

Ars Vivendi

di Laura Ciancio

p. 08

L’ozio per riavvicinarsi all’essere

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Modi di pensare Anche gli italiani hanno il loro piccolo e arrogante Trump di Carlo Poerio p. 26 Fotorama Oziar… di Meno Occhipinti p. 28 Forse non tutti... Strabismo comunicativo di Meno Occhipinti p. 29 Ozio, il tempo che dedico a me Una giornata particolare di Ciccio Schembari p. 30 Le ville della Dolce Vita Una passeggiata a ritroso nel tempo tra l' "otium" di Villa Ludovisi e quello degli Horti Sallustiani di Maria Cristina Vecchiarelli p. 32 Poesia Emergente Politica e tramonti secondo Paola Cherubini / Samorante: la poesia che è in tutto (ed è tutto) a cura di Ester Procopio p. 38

Verde Chiaro All'ombra di Orazio di Aldo Adamo p. 40 Arretrati Dal 2003 a cura della Redazione p. 42 Occhio Strabico Amori, Affetti e Affettati di Carlo Blangiforti p. 43 Colophon Chi siamo a cura della Redazione p. 44

Ozio, il temp che dedico a me

di Ciccio Schembari

p. 30

Una giornata particolare

Lavorare con lentezza

di Meno Occhipinti

p. 22

Enzo Del Re, il corpofonista pugliese

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4 operaincerta

Quasi un Editoriale

Dolce far niente

Ca

rlo

B

lan

gif

ort

i

Come da vocabolario il dolce far niente indica “uno stato di ozio felice e spensierato”, non apatico e sterile, ma al contra-rio una sorta di nirvana in cui tutti i desideri si smorzano in uno solo, il non far nulla di uti-le. Ecco, questo è il nodo crucia-

In origine fu Plinio il Giovane a rammaricarsi di non poter-ne godere nella nona episto-la nell’ottavo libro del suo Epistularum libri de-cem. Scrisse a Urso: “È un pezzo che non so che cosa sia né ozio, né quiete, né infi-ne quel neghittoso sì, ma pur beato non fare e non esser nulla”.

Il dolce far niente non è esat-tamente il godere dell’inatti-vità, ma resta una scelta co-sciente. Si contrappone all’a-gire fattivo ed efficiente, per-ché nel fare “qualcosa” man-ca quel piacevole languore. Come si diceva non necessa-riamente è immobilità, nel dolce far nulla c’è la decisiva volontà di godere in modo pervicace del non agire, c’è l’ostinazione morbida a go-dere del tempo che ci è con-cesso, del tempo tutto per noi.

le il dolce far niente ha soprat-tutto una dimensione tem-porale più che spaziale, qua-lità più che quantità: non è il non agire, ma il godere dell’a-gire senza scopo alcuno. È bighellona-re, tabbasiari (direbbe Mon-

Ru

bric

a

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Aaro Hellaakoski

talbano), è muoversi in uno spazio familiare e fare cose assolutamente infruttuose.

Ma non è semplice: bisogna avere la vocazione, esserci portati, non a caso questa è una delle espressioni italiane (e questo non si è in tanti a saperlo) che ha avuto più successo nelle lingue stranie-re, specie quelle dell’Europa settentrionale: pregiudizio per pregiudizio, forse, per i viaggiatori del Gran Tour si trattava di qualcosa di così profondamente radicato nell’animo italiano, da non poter esser tradotto. Sweet idleness tentano di tradurre gli inglesi, ma è evidente-mente un patetico tentativo vocato al fallimento. Per sa-per esprimere e descrivere il dolce far niente bisogna sa-perlo vivere.

Ora prima di passare oltre sorprenderà forse il lettore italiano che novanta anni fa, un geografo finnico allampa-nato e con la passione della poesia, Aaro Hellaakoski, im-pose la nostra “espressione nazionale” come titolo di un suo componimento. Per quanto gradevoli, sono versi che non sono passati alla sto-ria letteraria mondiale, ma che conservano un certo gra-do di originalità per il titolo e per la composizione tipogra-fica delle strofe…

Va bene, ora vi lascio che ho altro da fare, anzi non ho nullissimo da fare

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6 operaincerta

AAA Cercasi NUOVO SOCRATE

Riflessioni

Lu

ca

Fa

rru

gg

io

vero lavoro quello di non fare

nulla e di combattere con i

propri mostri e le proprie pa-

ranoie 24 ore su 24. Lavoro

poco retribuito ma, ironica-

mente, è pur sempre un lavo-

ro! Uno spreco di energie.

Se invece ci si concede solo

qualche momento di ozio,

questo può aprire le porte alla

creatività. In queste pause si

passa da un sé che costruisce

a un sé che trova il tempo per

osservare e sistemare ciò che

si è creato. Ma per fare ciò oc-

corre anche saper sostare.

Chi non apre la porta alla con-

templazione non può saper

gustare i frutti del proprio la-

voro. L’ozio, dunque, non è

solo padre dei vizi, ma è anche

un tempo per la gioia, la condi-

visione e la soddisfazione.

“L’ozio è padre dei vizi”. I detti

antichi non si sbagliano mai!

Tuttavia, nell’arco della pro-

pria vita, è necessario che ci

siano dei momenti di ozio, di

riposo. Lo ha fatto anche Dio:

“e il settimo giorno si riposò”.

Si riposò dopo aver creato! Ed

è proprio da qui che volevo

iniziare: ozio e creatività.

E’ vero: se una persona nella

sua esistenza vive sempre

nell’ozio, non sta solo oziando,

ma ha fatto dell’ozio il proprio

lavoro (negozio). Infatti, è un

Ma un sano ozio non è solo

creatività e contemplazione. E’

anche saper ragionare. Que-

sto, in fondo, fu il mestiere di

Socrate. Girando per Atene

aveva la missione (così ordina-

va il δ δ δδ δ δ ) di dire a chiun-

que “Alt”. Fermati, ragioniamo

insieme.

Oggi tra gente che corre sulle

scale mobili, tra chi ha l’agen-

da piena di impegni e si conce-

de pochi e tristi simposi disco-

tecari, sarebbe necessario un

nuovo Socrate che ci potreb-

be invitare a saper creare,

contemplare e ragionare. Chi

siamo? Dove andiamo?

Ma visto che tutti sappiamo la

fine che fece, nessuno di certo

si prenderà la briga di portare

in giro l’arte della maieutica.

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operaincerta 7

Versi

Ce

sare

P

av

ese

Tutti i gran manifesti attaccati sui muri, che presentano sopra uno sfondo di fabbriche l'operaio robusto che si erge nel cielo, vanno in pezzi, nel sole e nell'acqua. Masino bestem-mia a veder la sua faccia più fiera, sui muri delle vie, e doverle girare cercando lavoro. Uno si alza al mattino e si ferma a guardare i giornali nelle edicole vive di facce di donna a colori. fa confronti con quelle che passano e perde il suo tempo, ché ogni donna ha le occhiaie più stracche. Compaiono a un tratto coi cartelli dei cinematografi addosso alla testa e con passi sostanti, i vecchiotti vestiti di rosso e Masino, fissando le facce deformi e i colori, si tocca le guance e le sente più vuote. Ogni volta che mangia, Masino ritorna a girare, perché è segno che ha già lavorato. Traversa le vie e non guarda più in faccia nessuno. La sera, ritorna e si stende un momento nei prati con quella ragazza. Quando è solo, gli piace restare nei prati tra le case isolate e i rumori sommessi e talvolta fa un sonno. Le donne non mancano, come quando era ancora meccanico: adesso è Masino a cercarne una sola e volerla fedele. Una volta - da quando va in giro - ha atterrato un rivale e i colleghi, che li hanno trovati in un fosso, han dovuto bendargli una mano. Anche quelli non fanno più nulla e tre o quattro, affamati, han formato una banda di clarino e chitarre - volevano averci Masino che cantasse - e girare le vie a raccogliere i soldi. Lui Masino ha risposto che canta per niente ogni volta che ha voglia, ma andare a svegliare le serve per le strade, è un lavoro da Napoli. I giorni che mangia, porta ancora con sé pochi amici a metà la collina: là si chiudono in qualche osteria e ne cantano un pezzo loro soli, da uomini. Andavano un tempo anche in bar-ca,

L’ozio

Versi DIVERSI

Ru

bric

a

ma dal fiume si vede la fabbrica, e fa brutto sangue. Dopo un giorno a strisciare le suole davanti agli affissi, alla sera Masino finisce al cinema dove ha già lavorato, una volta. Fa bene quel buio alla vista spossata dai troppi lampioni. Tener dietro alla storia non è una fatica: vi si vede una bella ragazza e talvolta c'è uomini che si picchiano secco. Vi sono paesi che varrebbe la pena di viverci, al posto degli stupidi attori. Masino contempla, su un paese di nude colline, di prati e di fabbriche, la sua testa ingrandita in primissimi piani. Quelli almeno non dànno la rabbia che dànno i cartelli colorati, sugli angoli, e i musi di donna dipinti.

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8 operaincerta

Ars VIVENDI

L'ozio per riavvicinarsi all'essere

La

ura

C

ian

cio

vacanza con gli amici, ma non è

tornato a casa. Si è fermato qui

ventinove anni fa. Il custode di

Budelli andava in pensione e lui

senza pensarci troppo si è offer-

to di sostituirlo. In pochi attimi,

la sua vita ha subìto una svolta

decisiva. Da insegnante di edu-

cazione fisica nella provincia di

Modena ad unico abitante dell’i-

sola dalla spiaggia rosa.

“Per tutto il giorno, svolgo il mio

lavoro di custode dell’isola con-

temporaneamente a tutta una

serie di piccole attività legate

alla vita quotidiana e alla orga-

nizzazione stagionale. Riesco

comunque ad avere molto tem-

po libero, durante il quale leggo,

seguo la televisione, ascolto

musica, passeggio, raccolgo

funghi, vado a pesca, mi dedico

alla cucina…Quando il tempo è

Quando non c’è burrasca Mau-

ro si immerge nel silenzio che

avvolge l’isola e rimane in

ascolto. I libri e la natura sono i

suoi compagni di vita. La matti-

na pratica Tai chi sulla spiaggia,

coltiva un piccolo orto e vive in

una casa-rifugio tra gli arbusti.

Raccoglie tronchi di ginepro che

il mare ha plasmato e ne fa

sculture da vendere ai turisti in

estate. Ciò che ne ricava lo de-

stina alle ONG che operano nei

Paesi poveri. Ogni due settima-

ne, se il tempo lo permette, vie-

ne raggiunto da un amico che

gli porta le provviste. Pulisce i

sentieri nella macchia e control-

la che non vi siano abusi da

parte degli ospiti stagionali.

A 50 anni, Mauro toccava terra

sull’isola di Budelli per un gua-

sto al suo catamarano. Era in

buono, navigo spesso tra le iso-

le. In primavera spesso vado a

passeggiare tra la macchia bas-

sa di Razzoli o passo a trovare

Pietro, il pastore di Santa Maria.

Una vita di semplice sopravvi-

venza insomma, ma colma di

piccoli e grandi piaceri. Ma la

cosa più importante, ciò che fa

la differenza, è che qui ho un

rapporto sereno con il tempo,

con l’ambiente, con il lavoro.

Leggo con gusto, cucino volen-

tieri, mi concentro senza sforzo.

È per questi sentimenti e queste

certezze che sono convinto di

aver fatto la scelta migliore!”

Il lavoro nobilita l’uomo… solo

il lavoro restituisce la dignità

all’essere umano… Di che la-

voro si sta parlando? Quante

sono le persone soddisfatte

del proprio lavoro? Quanti si

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10 operaincerta

forza esistere un modo di vive-

re diverso, fatto di consapevo-

lezza e libertà decisionale. Il

viaggio è iniziato allora, ma al

tempo non avevo ancora idea

di dove mi avrebbe portato.

L’aspetto più drammatico del

modo “normale” di vivere è che

apparentemente non manca

nulla: ci riteniamo fortunati

perché abbiamo un lavoro e

un’automobile e ci possiamo

comprare le scarpe da 200 eu-

ro; in questa condizione è mol-

to difficile accorgersi di star

buttando al vento l’opportuni-

tà di essere veramente liberi.

Dunque non mi mancava nul-

la, penso solo di essere stato

fortunato ad aver avuto un

improbabile momento di luci-

dità durante il quale mi è parso

assolutamente chiaroquanto

fosse drammatica la condizio-

ne di schiavitù mentale in cui

versavo. E’ stato lì che è emer-

so il bisogno di stravolgere

tutto, relegare il lavoro all’ulti-

mo dei miei pensieri, e fare di

tutto per vivere una vita libera,

coltivando le mie passioni e

scegliendo ogni giorno come

impiegare il mio tempo».

Avere tempo per l’immagina-

zione, per la cura dell’am-

biente, per sé stessi in rela-

zione alla natura, per giocare

con i figli, per conoscere l’ar-

te, la storia. L’arte del vivere

in contrapposizione alla con-

notazione totalmente negati-

va del termine ozio, che lo

confina ad essere sinonimo

di pigrizia, inerzia, svoglia-

tezza.

Ma ai tempi dei Roma-

ni otium faceva riferimento

alla dedizione, alla contem-

plazione, alla riflessione, agli

studi e si contrapponeva al

termine negotium, "non ozio"

inteso come attività lavorati-

va. Otium, concepito al modo

degli antichi, non era infatti

una fuga dal lavoro. Al con-

trario, coincideva con l'agire

libero e più esattamente con

il modo d'agire proprio degli

uomini liberi.

I Greci lo intendevano come

riposo, quiete e soprattutto

possesso del proprio tempo

libero, skolé, tempo dedicato

a sé.

Oggi l’espressio-

ne oziare rimanda allo spreco

del proprio tempo e il tem-

po, si sa, è denaro. La società

contemporanea ci obbliga a

produrre per farci poi com-

prare e consumare. Quindi la

parola ozio è bandita e si

preferisce la definizio-

ne svago o vacanza, che esi-

ste solo in funzione di un

rientro al lavoro ancora più

produttivo. Perché i ritmi di

lavoro frenetici sono stres-

santi e necessitano di una

momentanea sospensione

sentono alienati e vorrebbe-

ro avere del tempo per sé,

solo per fermarsi e guardarsi

dentro o per interrompere la

routine e, anche senza do-

versi dirigere verso un’isola

deserta, invertire la rotta?

Francesco ha quasi qua-

rant’anni e vive in un piccolo

paesino del nord Italia immer-

so tra le montagne. Studi

scientifici, una laurea in fisica,

qualche lavoretto saltuario e

quindici anni da impiegato in

una grande azienda operante

nel settore sanitario con uno

stipendio da millecinquecento

euro al mese e un glorioso

contratto a tempo indetermi-

nato. Una vita “normale”. Un

privilegio, di questi tempi. Fino

a qualche anno fa, quando ha

deciso di cambiare vita e di

dedicare tutte le sue energie

per trovare il modo di smette-

re di lavorare e vivere una vita

libera, per coltivare le sue pas-

sioni e scegliere ogni giorno

come impiegare il proprio

tempo.

“Ad un certo punto mi sono

reso conto che la mia vita era

solo l’insieme di azioni auto-

matiche che eseguivo senza

chiedermi perché, a comincia-

re dal caffè che assumevo cin-

que volte al giorno senza un

vero motivo. Una vita affron-

tata senza spirito critico non

poteva essere vita, doveva per

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operaincerta 11

dalla fatica.

1984. Flavio ha sette anni e

guarda una fila di formiche che

si avvicenda instancabilmente

in un foro del muro. Aiuta la

mamma a preparare l’impasto

per la pizza, mette le lenticchie

sull’ovatta dentro un barattolo

di vetro e ogni giorno va a ve-

dere se è spuntato qualche filo

dai semi. Dopo i compiti gioca

con la Lego o, se il tempo è

bello, va in cortile a giocare a

palla con gli amichetti. In esta-

te, quando sta per piovere,

guarda le nuvole e poi le dise-

gna con forme bizzarre oppure

simula con un gran vociare nel

corridoio una gara tra le mac-

chinine su una pista creata dal-

la sua fantasia.

2018. Giada e Tommaso sono

fratelli. Età: sette e cinque anni.

La loro vita è programmata nei

minimi particolari. Tommaso

ha già imparato a scrivere e i

genitori ne sono molto orgo-

gliosi. Va in piscina tre volte

alla settimana e ha iniziato a

fare qualche gara. Giada fre-

quenta una scuola elementare

bilingue, prende lezioni di dan-

za classica due volte alla setti-

mana e di pianoforte una volta

alla settimana (ma poi si deve

esercitare per conto suo).

Quando tornano a casa, prima

di cena, Tommaso vede un

cartone in dvd e Giada fa i

compiti. Oppure, quando viene

loro permesso, possono gioca-

re ai videogame. Entrambi i

genitori lavorano e sono con-

vinti di fare il meglio per i loro

figli. Tommaso a volte soffre

di emicrania e Giada di inson-

nia.

Nella nostra società anche i

bambini hanno l’orario conti-

nuato. Non hanno pause e,

anche se la loro attività cere-

brale è iperstimolata, ne ri-

sente la creatività e l’autono-

mia. Non fantasticano più

perché non hanno il tempo di

oziare.

Riempire tutti gli spazi vuoti

è quasi un obbligo per gli

adulti che, ossessivamente, la

ripropongono nel loro nucleo

familiare, un po’ per abitudi-

ne e un po’ per paura dei

tempi morti, considerati un

grande buco nero nel quale si

può cadere senza scampo.

Ma accade che un giorno

qualcuno non voglia più olia-

re questo ingranaggio, a co-

sto di rimetterci l’agognata

sicurezza economica. Freni,

rallenti o si fermi. Vada in bi-

cicletta o a camminare, ab-

bandoni le grandi città per la

campagna e diventi meno

consumista, condivida un

pezzetto di terra o il volonta-

riato. Si allinei a ritmi più na-

turali e non aspetti di andare

in pensione a settant’anni per

migliorare la propria esisten-

za. Accade che qualcuno

reinventi il proprio stile di

vita.

Avere tempo per sé è l’unico

l’antidoto al vuoto. E il vuoto

può diventare una grande

pagina bianca da riempire.

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12 operaincerta

Viagg bla PERIKLU

Corto in Sicilia - V

Ca

rlo

B

lan

gif

ort

i

pregiudizio, del resto, è como-do. Cava d’impiccio in parec-chie situazioni, cava d’impiccio tutti.

Il caffè è semivuoto: a parte noi, un paio di tavolinetti più in là, ci sono due signori dall’a-spetto distinto. L’aria si riem-pie di tanto in tanto con il tin-tinnio dei cucchiaini contro le tazze di ceramica. Un altro tin-tinnio: si apre la porta e entra-no due giovanotti, sembrano liceali con i loro calzoni a qua-dretti e la paglietta sulle venti-tré.

«Hai finito la tua granita, Cor-to?»

«Sì, era buonissima!»

«Ti dispiace se ti metti fuori e dai un’occhiata al carrettino? Ho visto delle brutte facce.»

La nostra conversazione è in

Paolo Orsi è una persona dal temperamento anomalo: lui uomo di montagna, dell’Alta Italia, che ha deciso di vivere qui, in questa terra, tra queste persone dal passato più gran-de del loro futuro, mi sorpren-de. Per resistere a questa in-dolenza, dice lui, ci vuole un carattere fuori dal comune. Lo osservo mentre proclama a bassa voce questa sua visione del mondo. Tra me sorrido pensando a cosa direbbe un siciliano costretto a vivere a Rovereto. Lo capisco, non so-no, però, d’accordo. Io sono un ebreo di Spagna, i miei avi hanno vissuto un po’ ovunque nel Levante, e noi viviamo a Malta da quasi un secolo: que-ste storie sull’indolenza, l’ozio, l’inappetenza bulimica delle genti del Sud mi pare si ripeta-no ovunque e sempre uguali, si tratta di contingenze e luo-ghi comuni. Coltivare questo

maltese, ma il professore capi-sce lo stesso. Capisce che ho voglia di parlare con lui, senza distrazioni. Capisce che il ra-gazzino dovrebbe tornarsene a casa.

Gli spiego chiaramente qual è la mia idea, cosa vorrei farne di questa cosa. Non è d’accor-do, c’è troppo in ballo, dice, ed è pericoloso. Tira una brutta aria sia nella Turchia Europea sia in Palestina.

«Ezra, sono tornato il mese scorso da Salonicco, una con-ferenza, noiosissima tra l’altro, la città non è tranquilla. Finirà per saltare in area tutta la Ma-cedonia. Ed è questione di giorni, settimane… Greci, bul-gari, turchi, armeni c’è una grande confusione. Poi ci si mettono pure i tedeschi, gli inglesi, i russi, gli austriaci e i francesi a tirare la coperta da una parte o dell’altra. E ci sono

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operaincerta 13

pure gli italiani che vogliono sedersi al tavolo degli adulti. Per non parlare dei Genç Tür-kler, li chiamano, i Giovani Turchi, che gettano olio sul fuoco. Un consiglio, Ezra, re-stane fuori.»

Io lo ascolto distrattamente, osservo Corto appoggiato al carrettino che gioca con le monete vinte ai suoi nuovi amici. Forse non è una buona idea trascinare un ragazzino in questa storia, ma ho buo-nissime ragioni per portarlo con me, mi serve e serve an-che a lui andare a Salonicco.

«E della Bet-Aharon,[1] che mi dici?»

«Ho visto rabbi Muxi de Zac-cuni, beh, lo chiamano Moise Ben Itzak, mi dice che gli ebrei sono tanti, tantissimi e cominciano ad avvertire una pressione indefinibile. Si sen-tono usati. Certo agli inglesi farebbe comodo un altro Sabbatai Zevi,[2] un falso messia che li trascini tutti in Palestina. Come se non ba-stassero i sionisti di Herzl. Già laggiù la situazione non è

calma e a Costantinopoli non piace affatto che si destabiliz-zi l’area. Per questo, ti scon-giuro, lascia perdere, quel-la cosa là fuori non farebbe che accendere gli animi e a pagarne il prezzo sarebbe proprio la vostra comunità. Portatela a La Valletta e amen.»

Lo guardo con distacco, so già che i suoi consigli, onesti e sinceri, cadranno nel vuoto. Lui questo lo sa e lo accetta. Lo fa solo per dovere, nei miei confronti e nei confronti della sua coscienza.

«Sono originali?»

«Anche il tak è del xiv secolo. Con discrezione, quasi senza dargli troppo peso, l’ho de-scritto a Muxi. Sai quei tipi di cassette sono molto rari. Pensa sia proprio quello del Purim di Siracusa…»

Corto è accanto a me, me ne accorgo solo adesso. Ha un’espressione singolare: ascolta cercando di afferrare le parole del professore e le mie. Mi si avvicina con di-screzione, temo voglia chie-

dermi di Salonicco. Lui sa so-lo della visita a Rav Farkas a Catania. Per fortuna non è così.

«Rav Ezra. Devo andare in bagno. La granita era buona ma…»

«Chiedi pure al cameriere. Fa in fretta, non lasciare solo il carrettino!»

Sorrido, mi affido al senso del dovere del ragazzo. Co-me un soldatino mi risponde “Signorsì” e corre al bancone dove lo zoppo è intento ad asciugare alcuni bicchieri. Corto, lo vedo scomparire dietro una porta di noce.

È un attimo. È impercettibile. Come un lampo negli occhi. Il cameriere fa un lieve cenno ai liceali che si alzano di col-po e schizzano all’esterno, verso il carrettino.

Le mie vecchie ossa mi con-sentono solo gridare un urlo strozzato mentre i due trasci-nano via il carrettino: «Corto!»

______________

[1] La Bet-Aharon, fondata nel 1575, era la più recente delle tre scolaesiciliane di Salonicco.

[2] Sabbatai Zevi nella secon-da metà del xvii secolo fu considerato il nuovo Messia. Fu il protagonista, e, insieme a Nathan di Gaza, l’iniziatore del più grande movimento messianico nella storia dell'e-braismo.

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14 operaincerta

L’ozio NANÈ

Ovvero una personale piccola lotta di classe

Sa

ro

Dis

tefa

no

stato abituato a fare io per anni, scoprì che in italiano era “lo zio”. Ma in un tema di italiano la professoressa trovò l’errore: avevo scritto “l’ozio” anziché “lo zio”. E quella benedetta donna ap-partenente alla classe alta della città, ebbe gioco facile a prendere in giro il ragazzi-no proletario, figlio di ope-rai. Nulla contava il fatto che a 13 anni avevo già e tanto “testato” la figlioletta dicias-settenne della mia profes-soressa. Ero un inferiore e

Mio padre aveva due fratel-li. Maggiori di lui. Il grande era Emanuele, il secondo Salvatore, lui il terzo ed uni-co ancora in vita. Tra di loro cinque anni di distanza nella nascita: 1922, 1927, 1932. Per me erano, ovviamente, “U ziu Nanè” e “U ziu Totò”. Da grande, insomma, adole-scente, introdotto in am-bienti cittadini diversi dal mio e certamente più evolu-ti, dove si parlava in italiano e non in dialetto com’ero

la classe si divertì moltissi-mo a sentire la professores-sa prendermi in giro. Non solo. Siccome avevo scritto “l’ozio” con riferimento a mio zio Nanè, nella mia in-nocente e ingenua mente il ragionamento filava tutto e filava liscio: mio zio il gran-de, infatti, era ai miei occhi, un uomo amante dell’ozio. In realtà lui era un grande intellettuale, con studi supe-riori e passioni ricercatissi-me, con molte ore trascorse in approfondite letture, con la pipa e gli occhiali da mio-pe, atteggiamenti riflessivi e ponderati, un very english gentleman. Ci stava definirlo ozioso. Nel mentre l’altro mio zio era un vulcanico organizza-tore, un perenne agitato e agitatore, capo di una banda di teppisti armati fino ai

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denti con quanto erano riu-sciti a rubare ai soldati te-deschi tra il 1940 e il luglio 1943. Certo è che la professores-sa si divertì tanto e con lei la classe scolastica di quel lon-tano 1976 (la gran parte del-la quale appartenente al suo stesso rango, con me e altri sei o sette desapareci-dos perennemente emargi-nati, ma pur sempre con le mani lunghe sotto le gonne delle figlie del notaio medi-co professore dirigente….). Per me si trattò allora (e an-che adesso a pensarci an-che solo un attimo) di una cocente umiliazione. Una mortificazione pubblica che tentai di recuperare con i soli mezzi che avevo a di-sposizione: nello sport face-vo del male ai maschi di quella stessa classe sociale della professoressa, e alle femmine della medesima appartenenza mi approccia-vo in modo talmente spic-cio che se una buona metà al grido di “viddano” scap-pava via, l’altra metà si la-sciava andare al fascino del proletario diretto e deciso, competente e coraggioso, e sempre agitato, mai ozioso. Di questo, quaranta e passa anni dopo mi è rimasto il solo essere agitato. Ma so-vente in un fine a se stesso che dell’antica e trascorsa verde età conserva solo il ricordo sbiadito.

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16 operaincerta

L’ozio

Racconto

Nic

k

Ne

im

va fuori. Bene, ad ogni mia pressione un canale salta col risultato di cambiare conti-nuamente programma alla ri-cerca di qualcosa che mi inte-ressi, che mi incuriosisca al-meno. Il cambiare continuo fa incazzare – scusate, si può scrivere incazzare? Ma ormai mi è scappato – Gina che non lo sopporta, si lamenta che la distrae da quello che sta fa-cendo; e lei di cose ne fa un’in-finità. È un moto perpetuo, non può stare ferma. Anche quando sta a guardare un qualche programma seduta vicino ame, deve fare qualco-sa, deve tenere la mani peren-nemente occupate. Ecco, sia-mo l’opposto: io sto in ozio, lei no; io sto fermo, lei no; io non faccio niente, lei è perpetua-mente occupata. Se non ha niente da fare si inventa qual-cosa, io se ho qualcosa da fare m’invento come non farla. Ep-

Oziare. L’ozio è il padre dei vizi. Ma chi lo diceva? Non me ne intendo molto di vizi ma da qualche tempo so-no diventato un esperto dell’oziare; sono sicuro che il non far niente favorisca la fantasia, stimoli la creatività,. Amo oziare? Non so se mi piace veramente, ma da qual-che tempo, stare sdraiato nella mia poltrona preferita, è la mia occupazione principa-le. In questo momento me ne sto sul divano del soggiorno col telecomando in mano; è come se le dita mi prudesse-ro, per calmare lo stimolo de-vo premere il tasto che cam-bia canale. Mi somiglio a Clint Eastwood quando, in L’uomo dagli occhi di ghiac-cio,premeva il grilletto delle sue pistole facendone fuori due alla volta. Esagero? Beh!, di sicuro uno al colpo lo face-

pure stiamo bene insieme, cre-do che ci amiamo. Ma questo non c’entra con l’oziare. Dunque me ne sto seduto sul divano e aspetto che il tempo trascorra, aspetto che qualche amico mi chiami e se non mi chiama nessuno è meglio per-ché così resto solo. Intanto continuo a cambiare canale alla ricerca di un programma un poco intelligente o interes-sante: impresa impossibile questa mattina. A dire il vero quasi sempre. Ho la sensazio-ne che l’intelligenza stia abban-donando le teste dei program-matori televisivi. Spengo il te-levisore, lascio il telecomando da parte e mi rilasso sul diva-no. Immagino il sollievo di Gi-na: ‘finalmente,’ avrà detto, e intanto che mi figuro il suo sol-lievo, un sorriso di compren-sione mi stende lievemente le labbra; tutto sommato la capi-sco.

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18 operaincerta

mento lei fa finta di non gra-dire la mia invasione dal bas-so, mi trattiene il polso ma non allontana la mano, allora tento un aggiramento, l’assal-to dall’alto: l’abbraccio, la stringo e la bacio. Lei ci sta, capitola, si arrende, ricambia.

Quando nel pomeriggio tardi se ne va, resto solo nella stanza. Ha sciacquato la teiera e le tazze, ha rimesso tutto in ordine, mi ha salutato, ha aperto il portoncino d’entrata, ha mandato un ultimo bacio sulla punta delle dita ed è scomparsa dietro la porta che si è chiusa sulla sua figura. Andata. Adesso sono solo, avrei potuto fermarla pregan-dola di restare ancora, ma a cosa sarebbe servito? Più tar-di sarebbe dovuta comunque andare; allora, meglio adesso. In ogni modo sono sicuro che non mi annoierò, ho una cosa importante da fare. Mi disten-do bene e comincio a vagare con la mente, a pensare, a ri-flettere, mi figuro cose, faccio progetti. È oziare questo? Do-po alcuni minuti abbandono ogni gironzolare mentale e decido di andare: da qualche mese è questo che faccio all’insaputa di tutti, anche di Gina.

Ormai sono diventato pra-tico, mi basta poco per prepa-rarmi, anzi quasi niente: mi stendo bene sulla schiena e allungo più che possibile il corpo. Adesso che sono ben steso devo allentare i muscoli delle braccia e quelli del collo soprattutto, in modo che la testa sembra pesare una ton-nellata e sprofondare nel cu-

Non so se per ringraziarmi dell’interruzione della tortura – per lei – del continuo cam-biare canale o perché ha deci-so di riposare un attimo, sta di fatto che vedo giungere Ginetta – così la chiamo ogni tanto e lei ogni volta che lo faccio sorride – con un vas-soio dove è posata una teiera, due tazze, la zuccheriera e un pugnetto di dolci . Ha trent’anni Gina, è minuta, è la mia ragazza. Si viene a sedere accanto a me. La teiera è col-ma di tisana. Poggia il vassoio sul tavolinetto e con la sua mano, tiepida di traffici in cu-cina e odorosa di cibi e di un lontano sentore del suo pro-fumo preferito, mi aggiusta il ciuffo sulla fronte. Dice. – È bella calda, beviamola

che ci fa bene e ci rilassa. La guardo. È bella Gina. Vi-

so sorridente, occhi neri co-me il carboncino che uso a volte per schizzare paesaggi o abbozzare un quadretto, lab-bra sottili che sembrano inta-gliate con un trincetto, tanto sono perfette e precise nel disegno, capelli neri e lunghi fino alle spalle, braccia esili ma forti, seno … Ma perché perdo tempo a descrivere la donna che amo? Lei finge di non accorgersi del mio guar-darla e continua a riempie le tazzine, mette lo zucchero, mescola, mi porge la tazza. Cominciamo a bere. Osservo la sua figura seduta accanto a me: mi piace. Finiamo di bere e posiamo le chicchere. Intan-to mi ha preso il desiderio di lei e lentamente ma con deci-sione infilo la mano sotto la minigonna. In un primo mo-

scino. Dopo alcuni minuti tut-ti i muscoli sono rilassati, privi di ogni tensione, come corde di violino spezzate che non si possono tendere. Fatto. Ora comincio a pensare di non avere un corpo, inizio a im-maginare che le mie membra non esistano, che non siano mie, che siano sganciate dallo spirito, in modo che io stesso non possa avvertirmi fisica-mente. Lentamente comincio ad uscire dalla corporeità, di-vento crisalide che abbando-na la corazza: lo spirito si fa farfalla. Ci sono riuscito, mi sento privo di muscoli, ossa, tendini, privo di me stesso materia, e allora comincio a levitare, a sollevarmi nell’aria come se una forza mi stesse agganciando e mi stesse tra-sportando in alto. Non con uno strappo violento ma con un movimento progressivo, lento, continuo, sempre più deciso. Non oppongo resi-stenza, mi abbandono e allora lo spostamento diventa più veloce e sicuro: mi sto libran-do nell’aria.

Quando, circa sei mesi fa, mi successe la prima volta, quando riuscii quasi per caso, a levitare nell’aria, fui assalito dal panico, e la paura – di botto – interruppe l’ascensio-ne; fu come se fossi ruzzolato da qualche metro di altezza. Eppure non avvertii l’impatto, solo la sensazione della cadu-ta senza le conseguenze del corpo che cade e precipita. È questo il segreto, non avere paura ma, soprattutto, crede-re che puoi volare, che stai volando, che lo stai facendo,

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inanimato. Non mi meraviglio, il corpo non può viaggiare con me, è lo spirito che si muove e si sposta, portandosi appresso tutte le sensazioni fisiche. Che gusto c’è, voi di-rete, a viaggiare senza il cor-po, lasciandolo abbandonato su un divano? Forse voi avete ragione ma per me è un van-taggio; che me ne farei del corpo paralizzato nelle gam-be? Mi sarebbe d’impiccio, im-pedirebbe i miei movimenti, così invece, riacquisto la per-cezione e tutte le sensazioni, è come se riprendessi l’uso degli arti inferiori che ho per-so per la frattura alla spina dorsale. Quel maledetto inci-dente mi ha tolto l’impiego delle gambe costringendomi a letto e alla sedia a rotelle, ma io l’ho fregato, sono riu-scito a muovermi e spostarmi nello spazio, libero da ogni impedimento, anche se non ho più l’uso gli arti inferiori: ma volando le gambe non servono. Oziare mi ha dato la libertà, mi ha permesso, mi permette e mi permetterà di viaggiare. Intanto che mi spo-sto nello spazio mi giunge un pensiero improvviso che mi mette in eccitazione: e se pro-vassi a sposarmi anche nel tempo? Sbalordisco all’idea di un tale viaggio: esplorare il tempo come se mi muovessi da una stanza all’altra d’un im-menso palazzo posto su di-versi piani.

Come, o forse meglio, di Geronimo Stilton.

ecco. Ho cominciato a speri-mentare circa un anno fa – del resto, tempo ne avevo, il mio non far niente me lo permet-teva – e in poco tempo ho im-parato a levitare, a sollevarmi, a uscire dal mio corpo, a gui-darmi in volo come fossi un volatile, ma più leggero, una piuma portata dal vento. Ho capito subito che potevo an-che spostarmi nello spazio, viaggiare. Sì, è così: dal mio oziare sono riuscito a ottene-re – direi distillare, come mo-sto dall’uva – la capacità di viaggiare nello spazio.

Mi sono sentito come Billy Pilgrim.

Le prime volte sono stati spostamenti timidi, di pochi metri. Ricordo che sono riu-scito a giungere sino in cuci-na, al bagno e mi sono pure affacciato al balcone per guar-dare giù. Fu una brutta sensa-zione quella che mi prese in quel momento, ho dovuto ri-tirarmi di botto: la paura del vuoto. Una volta ho anche se-guito Gina, volevo sapere do-ve andava e cosa faceva quando usciva da casa mia. L’ho raggiunta a un centinaio di metri, ferma ad una vetrina che guardava delle scarpe, mi sono messo buono dietro di lei e l’ho seguita. Se si fosse girata mi avrebbe scorto? Po-tevo essere visto? Ho potuto osservare come la guardava-no sia gli uomini che le donne. Noi uomini guardiamo le don-ne in modo strano, non per vederle ma quasi per posse-derle: le nostre prede. Lo sa-pevate? Le donne invece esa-minavano la mia ragazza co-

me per soppesarla, come per valutare la sua vitalità e la sua pericolosità di donna: la loro avversaria. Ho visto che salu-tava qualche conoscente, che andava tranquilla per la sua strada. D’improvviso mi sono reso conto che non mi inte-ressava sapere cosa facesse e dove andasse la mia ragazza quando era lontano da me, non volevo saperlo, non mi sarebbe piaciuto di sicuro scoprire qualcosa di non pia-cevole. Sono subito volato via e non l’ho più rifatto.

Col tempo ho cominciato a raggiungere i posti che mi erano familiari: il bosco, la collina con le orchidee, il vec-chio quartiere della città. Era piacevole giungere sin dove non potevo in quel momento andare. In breve tempo ho allargato sempre di più i miei giri e aumentato la distanza: Catania, Siracusa, Agrigento, Palermo, Napoli, Roma, Ve-nezia. Tutti posti nei quali ero già stato, non sono ancora riuscito a visitare posti che non ho mai visitato. Non ho ancora capito perché questa impossibilità di giungere fino a luoghi a me sconosciuti, ma così è.

Ecco, ora sono già in aria. Sto iniziando un nuovo viag-gio, dove andrò oggi? Vedre-mo, forse proverò a raggiun-gere Aix-en-Provence dove, nella campagna lì intorno, po-trò volare sui violacei campi della lavanda. Prima di uscire dalla stanza guardo in giù ver-so il divano dove stavo – do-ve sto in realtà – vedo il mio corpo sdraiato, immobile,

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20 operaincerta

Una giornata RIVOLUZIONARIA

Riflessioni

Pa

triz

ia

Vin

dig

ni

in auto, quando decidi di viag-

giare o di non pensare.

Il desiderio di fermarsi è pre-

sente da tempo. Vorrei chie-

dere un part time, però, riflet-

to, non mangio part time e

non pago part time. La casa, la

macchina, il cibo … dovrei di-

mezzare anche l’aria che respi-

ro per far tornare i conti. Deci-

so: Non posso fermarmi e non

posso chiedere il part time.

Oggi, però, lo dedico al mio

desiderio di fuga.

Mi alzo lentamente, mi faccio

una doccia senza fretta, mi ve-

sto scegliendo con cura colori

che urlano, ma non posso ri-

nunciare ad usarne nemmeno

uno. Sarò l’arcobaleno per chi

mi incontrerà. Prendo la mac-

china e mentre avviso che ho

avuto un contrattempo (non è

Il mattino può alle volte pre-

sentarsi con un pizzico di ma-

gia. È quando nel risveglio si

può godere di qualche attimo

di pace, di quel girarsi sull’al-

tro fianco, per tornare tra le

braccia del Sonno. Un attimo

meraviglioso, con quel senso

di pace, che ti fa stare bene.

Discuto tra me e me stessa

sull’opportunità di alzarsi e di

dare spazio ai soliti doveri del-

la giornata ma stamattina No.

Il sole che filtra tra le persiane

mi suggerisce fuga dagli impe-

gni, mi racconta di musica, di

spazi aperti. È come se le mu-

ra si aprissero verso la luce,

quasi crollando, come in un

film. Mi alzo canticchiando un

motivo che ha il sapore di va-

canza. Una di quelle canzoni

ritmate, che ti accompagnano

neanche del tutto una bugia,

sono un contrattempo per me

stessa …) mi dirigo verso il ma-

re, scegliendo la strada che

passa tra le campagne, tra car-

rubeti che hanno conosciuto i

miei avi, tra ulivi contorti e

promettenti morbido e profu-

mato olio.

Poi dietro una curva compare

il mare.

Oggi è pigro anche lui. Le pic-

cole onde si girano in spuma

bianca, che raggiunge la riva,

che si ritrae lentamente, che

lascia segni e conchiglie vuote

sulla spiaggia.

Decido di sdraiarmi e il calore

del sole passa dalla spiaggia al

mio corpo. Mi rilasso, mi ad-

dormento con un sorriso

stampato sul viso. È la mia

giornata dedicata al riposo del

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operaincerta 21

corpo e al nutrimento dello

spirito. Domani in ufficio rac-

conterò la verità. Non ap-

prezzeranno ma sono certa

che capiranno. L’oziare è

un’attività per la quale ormai

siamo disposti a pagare

quanto guadagniamo in mesi

di duro lavoro. OGGI PER ME

È GRATIS! … giusto un giorno

di ferie in meno…

By

un

g-C

hu

l

Ha

n

L’ozio

Ru

bric

a

Parole Sante

L'ozio comincia là dove il lavoro cessa completamente. Il tem-

po dell'ozio è un altro tempo. L'imperativo neoliberista della

prestazione trasforma il tempo in tempo di lavoro, totalizza il

tempo di lavoro. La pausa ne è solo una fase. Oggi non abbia-

mo tempo all'infuori di quello lavorativo. Ce lo portiamo dietro,

così, non solo in vacanza, ma anche nel sonno. Per questo dor-

miamo agitati: i soggetti di prestazione spossati si addormenta-

no come si addormenta una gamba. Poiché serve alla rigenera-

zione della forza lavoro, anche il riposo non è nient'altro che

una modalità del lavoro: il rilassarsi non è l'Altro dal lavoro, ma

il suo prodotto.

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22 operaincerta

Lavorare con LENTEZZA

Enzo Del Re: il corpofonista pugliese

Me

no

O

cch

ipin

ti

mente, “la salute non ha

prezzo”.

Si tratta di Enzo Del Re, un

cantautore/cantastorie pu-

gliese morto nel 2011.

Diplomato al conservatorio,

Del Re ha sempre rifiutato di

suonare gli strumenti tradi-

zionali, utilizzando al loro po-

sto oggetti quotidiani e mate-

riali di recupero (il suo

“strumento” preferito era una

sedia).

Tra le figure più radicali del

movimento politico-musicale

degli anni settanta, nei suoi

spettacoli, veri e propri hap-

pening musicali, imprevedibi-

li, provocatori e interminabili

(uno dei suoi slogan preferiti

era «resistere un minuto più

del padrone» e poiché per lui

Su queste pagine circa una

decina di anni fa si era parla-

to di lavoro (Lavoratori?,

Operaincerta #32, marzo

2008) e io, che volevo fare

l’originale a tutti i costi, avevo

scritto un articolo a proposi-

to del saggio Il diritto all’ozio-

di Paul Lafargue.

Questo mese, invece, consi-

derando che l’argomento su

cui scrivere è proprio l’ozio,

mi vedo costretto, per pareg-

giare i conti, a parlare di lavo-

ro. Però, per non rischiare

una ramanzina da parte del

direttore, eviterò di andare

completamente fuori tema

parlando di chi ha sempre

sostenuto che a lavorare con

velocità “ci si fa male e si fini-

sce in ospedale”. E, giusta-

il padrone dell’artista era il

pubblico, restava sul palco

finché l’ultimo spettatore non

fosse andato via), il

“corpofonista” pugliese

(utilizzava anche il proprio

corpo per dare ritmo alle sue

canzoni) ha spesso denuncia-

to l’alienazione del lavoro in

fabbrica e guardato al rifiuto

del lavoro come a un valore

morale. Denunce portate at-

traverso le sue canzoni, che

avevano sempre quei toni

lievi e ironici che gli erano

congeniali, dense di giochi di

parole e aforismi (“Adoro il

lavoro ma detesto la fatica”).

La carriera musicale di Del Re

è stata lunga e articolata. Ha

iniziato collaborando con An-

tonio Infantino, è passata at-

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operaincerta 23

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24 operaincerta

no Lavorare con lentezza, che

nel 2004 è stata inserita nel-

la colonna sonora dell’omo-

nimo film di Guido Chiesa,

che ha volutamente ripreso

il titolo della canzone,

e Tengo na voglia e fa… nien-

te, brani che Del Re ha ripro-

posto, insieme a Vinicio Ca-

possela, al concerto del Pri-

mo maggio del 2010, una

delle sue ultime e memora-

bili apparizioni pubbliche.

(https://www.youtube.com/

watch?v=4EZYXrOnn0M)

A Enzo Del Re, Angelo Amo-

roso d'Aragona ha dedicato

il documentario Io e la mia

sedia.

(http://www.italiandoc.it/

traverso Dario Fo, è prose-

guita partecipando agli

spettacoli organizzati dal

circuito della sinistra radica-

le. Questa sua coerenza

ideologica lo ha di fatto por-

tato ad autoescludersi dal

circuito commerciale della

canzone d’autore. Del Re

non si è mai registrato alla

Siae, ha sempre autopro-

dotto i suoi dischi e, per i

suoi concerti, chiedeva

sempre di essere retribuito

con l’equivalente di una

giornata di lavoro da metal-

meccanico.

I due suoi più famosi brani

(entrambi tratti dall’LP del

1974 Il banditore) so-

area/public/wid/DZEN/

video.htm)

LAVORARE CON LENTEZ-

ZA

(https://www.youtube.com/

watch?v=4aCEN4y6TS0)

Lavorare con lentezza

senza fare alcuno sforzo

chi è veloce si fa male

e finisce in ospedale

in ospedale non c'è posto

e si può morire presto

Lavorare con lentezza

senza fare alcuno sforzo

la salute non ha prezzo,

quindi rallentare il ritmo

pausa pausa ritmo lento,

pausa pausa ritmo lento

sempre fuori dal motore,

vivere al rallentatore

Lavorare con lentezza

senza fare alcuno sforzo

ti saluto ti saluto,

ti saluto a pugno chiuso

nel mio pugno c'è la lotta

contro la nocività

Lavorare con lentezza

senza fare alcuno sforzo

Lavorare con lentezza

Lavorare con lentezza

Lavorare con lentezza

Lavorare con lentezza

Lavorare con lentezza

TENGO NA VOGLIA E FA...

NIENTE! (https://

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operaincerta 25

www.youtube.com/watch?

v=kYIbbe-yo4M)

Tengo na voglia

na voglia

e fa... niente!

Comm'o sole dint'a capa,

m'è trasuta a pensata

e s'incontro pa' via,

chi ha inventato a fatica

io, ti giuro, l'accido, pecchè

tengo na voglia

na voglia

e fa... niente!

Si a fatica era 'bbona,

m'ha cunsigliato o' dottore,

si a fatica era 'bbona

nun pregavano i preti

benedizione alla fatica

e a chi la vuole.

Tengo na voglia

na voglia

e fa... niente!

Chi m'ha mis'in catena,

passa a vita in vacanza,

io fatico e fatico

e passo pure da stronzo:

vaffanculo alla fatica

e a chi la vuole.

Tengo na voglia

na voglia

e fa... niente!

La fatica è onore,

ma si ta scansi, meglio anco-

ra!

Beato chi, cumm'è, sa riesce a

scansà!

Tengo na voglia

na voglia

e fa... niente!

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26 operaincerta

Modi di PENSARE

Anche gli italiani hanno il loro piccolo e arrogante Trump

Ca

rlo

P

oe

rio

Eppure guardando quelle im-

magini con maggiore atten-

zione sembra che marcino

cantando, gridando slogan e

sventolando bandiere. Pare

non abbiano paura. Forse

confidano nella forza che può

essere espressa da una molti-

tudine di migliaia di individui.

In effetti ho sempre pensato

che non esiste muro o altra

sorta di ostacolo che possa

fermare un essere umano di-

sperato. Innalzare muri per

fermare i migranti, come han-

no già fatto in alcuni paesi e

vorrebbero fare in altri, è inu-

tile perché gli stessi si posso-

no aggirare, scavalcare, oltre-

passare scavando tunnel. L’u-

nico risultato che si raggiunge

è che pur di superare quel

confine un migrante si affide-

Sono un piccolo esercito di

disperati. I primi notiziari te-

levisivi informano che quella

lunga processione di esseri

umani è composta da circa

quattromila persone. In se-

guito rivedranno le stime:

sono seimila, forse settemila.

Sono tanti, prevalentemente

honduregni partiti da San

Pedro Sula, città situata nella

parte nord occidentale

dell'Honduras. Nel corso del-

la migrazione agli stessi si

sono poi aggiunti altri dispe-

rati, guatemaltechi e salva-

doregni. Le immagini televi-

sive di questa lunga colonna

di esseri umani diretta verso

l’America sono impressio-

nanti. La sensazione che stia

accadendo qualcosa di

drammatico, è angosciosa.

rà sempre più ai trafficanti di

esseri umani o seguirà rotte

ancora più pericolose, con il

conseguente aumento del

numero di morti. E se un solo

essere umano è disposto a

far questo, loro sono seimila,

forse settemila individui im-

pauriti, umiliati e affamati

che fuggono dai loro luoghi

d'origine diventati invivibili,

per salvare l'unica cosa che

gli sia rimasta: la vita. Sembra

che marcino verso una terra

promessa, la terra dell'ab-

bondanza, del lavoro per tut-

ti, della sicurezza, della pace.

Desiderano ciò che sogna

ogni migrante. Di fronte a

quella che a tutti gli effetti è

una tragedia di dimensioni

impressionanti, come reagi-

sce la politica? Purtroppo per

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operaincerta 27

quale è ben contento di farsi

rappresentare dagli stessi e di

esorcizzare le fobie sociali di

cui soffre. Gli italiani non fan-

no eccezione. A dar retta a ciò

che circola sugli immancabili

social network sembra che

anche loro siano soddisfatti

del loro piccolo e arrogante

Trump, ministro in grado di

vomitare quotidianamente la

sua dose di veleno contro i

mi-

granti che "mettono in perico-

lo identità e sicurezza del no-

stro Paese". Sono talmente

soddisfatti che quello che era

un partito di minoranza nella

coalizione di governo, oggi

non solo sembra dettare la

linea politica del Governo ma

pare abbia raddoppiato i con-

sensi elettorali, sottraendoli al

partito che detiene la maggio-

ranza. Oggi l'elettore italiano

davanti all'impoverimento

noi ma soprattutto per loro, i

politici vivono in una realtà

parallela. Quindi non stupi-

sce se un borioso e arrogante

Presidente degli Stati Uniti

affidi ai soliti social network

sinistre minacce e prometta

di schierare l'esercito ai con-

fini con il Messico, pur di im-

pedire che quel lungo ser-

pentone di disperati entri nel

suo paese. Semmai è preoc-

cupante che gli americani si

facciano ancora rappresen-

tare da un simile indi-

viduo, miope e

guerrafondaio. A

Trump come a

tanti politici at-

tuali non sem-

bra interessare

cosa spinga mi-

gliaia di persone

a fuggire dai loro

paesi.

Eppure si tratta di nazioni

dove dilagano la guerra, la

fame, la disoccupazione, la

violenza o nei quali una clas-

se politica e amministrativa

corrotta ad ogni livello viene

sostenuta da quegli stessi go-

verni che oggi usano o vo-

gliono usare il pugno duro

con i migranti. E’ anche vero

che Trump come altri gover-

nanti di oggi pensano e parla-

no come la maggioranza del

popolo che rappresentano, il

sempre più diffuso, invece di

pretendere che la politica

affronti i problemi della so-

cietà alla radice e ponga fine

a quella che fino ad ora è sta-

ta una pessima gestione poli-

tica della nostra economia,

sostiene politici il cui unico

scopo è esasperare ancor più

i conflitti in seno alla società,

indicando nell'immigrazione

la causa dei mali del nostro

Paese. Il fine di questi politici

è più che evidente: non

affrontare i problemi reali.

In verità come potrebbe-

ro? Coloro che oggi ali-

mentano il fuoco del

razzismo sono gli

stessi che hanno ge-

stito malamente la

nostra politica nei de-

cenni passati, provo-

cando i tanti danni eco-

nomici di cui oggi patiamo

le conseguenze. L'Italia di og-

gi appare divisa tra una mi-

noranza di individui che ritie-

ne l'immigrazione non sia

una minaccia e la maggioran-

za della popolazione che re-

clama una società più chiusa,

l'esercito schierato alle fron-

tiere, il pugno duro per fer-

mare l'immigrazione. Un mo-

do di pensare che ritroviamo

comunque negli Stati Uniti di

Trump, nel Brasile che ha

eletto un presidente di estre-

ma destra, nel Regno Unito

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28 operaincerta

della Brexit, nell'Ungheria di

Orbán, nella Repubblica Ce-

ca che si fa rappresentare da

un presidente xenofobo e

nella maggior parte del resto

dei Paesi dell'Unione euro-

pea. Insomma, come in tanti

altri paesi, anche in Italia la

maggioranza della popola-

zione sembra preferire un

leader razzista e xenofobo.

__________ Foto tratte da internet e contras-

segnate per essere riutilizzate

Meno Baglieri

FotoRAMA OZIAR...

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operaincerta 29

Forse non tutti SANNO CHE...

Strabismo comunicativo

Me

no

O

cch

ipin

ti

Forse non tutti sanno che c’è

un Paese, l’Italia, nel quale,

quando si parla di femminici-

dio, la notizia è posta in mag-

gior evidenza se l’assassino è

un extracomunitario.

Forse non tutti sanno che

c’è un Paese nel quale ci so-

no notizie che hanno

nell’opinione pubblica

un impatto più forte

rispetto ad altre.

Forse non tutti

sanno che c’è un

Paese nel quale

ci sono notizie

che hanno

maggiore

impatto

sull’opi-

nione

pub-

blica rispetto ad altre per-

ché le seconde vengono in

qualche modo celate da chi

le comunica.

Forse non tutti sanno che

però, nel 2018, in Italia, la

mag-

gioranza

delle

donne è

stata uccisa

all’interno del

proprio am-

biente familiare,

da mariti o da pa-

dri.

Forse, prima di grida-

re all’untore bisogne-

rebbe accertarsi di sapere

chi è realmente l’untore.

Ru

bric

a

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30 operaincerta

Ozio: il tempo CHE DEDICO A ME

Una giornata particolare

Cic

cio

S

che

mb

ari

Alla fine di via Piave ebbi una sorpresa. Una fontana. All’epoca inesistente. Sempli-ce, lineare, senza spruzzi, con l’acqua che scorre sgorgando da tre gradini e sopra un grup-po di otto statue in bronzo fu-so: tre donne che raccolgono uva; una donna in ginocchio ai piedi di un tronco; due donne che trasportano delle ceste; una donna con chitarra seduta sotto un albero; una famiglia:

Alla fine di questo ottobre ho avuto la ventura di tra-scorrere una giornata parti-colare, una giornata di ozio, una giornata tutta per me.

Ero a Milano per la laurea di mia figlia Silvia e dovevo recarmi a Montegrotto Ter-me per una tre giorni di bio-danza, decisi così di fermarmi un giorno a Venezia dove ho vissuto per due anni: 1969-70 e 1970-71. Quasi cinquanta anni fa. C’ero ritornato una sola volta, per una giornata, con moglie e figli.

Nel tardo pomeriggio di martedì 30, arrivai a Mestre dove ho vissuto per due anni: 1971-72 e 1972-73. Decisi di trascorrere la serata a Me-stre. Dall’albergo, vicino alla stazione, mi avviai a piedi lungo via Piave, verso Piazza Ferretto, il centro di Mestre. Camminavo e non riconosce-vo, non ricordavo nulla.

madre con bambino in braccio e padre dietro; due fabbri che battono l’incudine; una donna. Riconobbi subito lo stile dello scultore: Gianni Arricò. Con-trollai su internet ed ebbi la conferma. Gianni Arricò, mari-to di una mia collega. C’erava-mo conosciuti. Realizzò in bronzo fuso la testiera del let-to del mio primo matrimonio e con, un filo d’argento a sezio-ne quadrata, dei braccialetti

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operaincerta 31

spesso a mangiare il piatto più economico: baccalà manteca-to, polenta. E vino, ovviamen-te! A Venezia scoprii il piacere del vino a tavola. Ordinai bac-calà mantecato, polenta e vi-no. Li trovai squisiti. Mangiai lentamente, gustando ogni frammento, accarezzato dal ricordo.

Mi avviai verso San Marco e poi lungo la fandamenta oltre-passando il Ponte dei Sospiri e costeggiando l’hotel Danieli verso i giardini della Biennale. Era pieno zeppo di turisti. Mi internai nel sestiere di Castello dove ho insegnato e risieduto. Non cercai né la scuola né l’a-bitazione, non volevo ricordi precisi. Poche persone in giro, ero fuori dagli itinerari turistici. Trovai un piccolo campo con delle comode panchine, poche persone sedute, mi sedetti an-ch’io e, baciato dal sole mi ap-pisolai. Mi rinfrescai il viso con l’acqua di una fontanella, bevvi un caffè e ripresi a camminare senza una direzione, senza una destinazione, perdendomi tra le calli. Andavo a zonzo ed emergevano, non ricordi e neanche emozioni, solo sensa-zioni, stati d’animo. Mi riconci-liavo col mio passato e con me stesso. Mi perdonavo.

Arrivai al Ponte di Rialto. Lo attraversai e andai a Campo San Polo. Il campo più grande di Venezia, secondo solo a piazza San Marco. C’erano panchine, gente seduta, gente che passava, bambini che gio-cavano. C’era la casa della mia prima moglie. Curiosai nel campanello: trovai il suo nome accanto ad un altro. Mi sedetti

come bomboniere. Nella te-stiera avevamo voluto un Cro-cefisso al centro tra una pan-china con due innamorati e una famiglia. La famiglia lui voleva farla come questa della fontana ma io volli padre, ma-dre e due figli che si tenevano per mano in un giro tondo. Ricordai tutto questo con grande emozione. Fotografai e andai avanti.

Piazza Ferretto. La riconob-bi a stento. Trasformata radi-calmente. Molto bella. Trovai Il buso, l’osteria sotto la sede della sezione del PCI dove, nel 1973, presi la mia prima tesse-ra del Partito. L’osteria si chia-ma ancora Il buso ma l’atmo-sfera è totalmente diversa. Della sezione del PCI nessuna traccia. Ovviamente. Mi fermai appena.

Ritornai verso l’albergo e cenai in un ristorante accanto: moscardini in umido con po-lenta. E vino, ovviamente! Una delizia.

Mercoledì 31, giornata senza pioggia e con sole tiepido do-po l’inondazione. Presi il treno per Venezia e poi il vaporetto lungo il Canal Grande e verso le 11 scesi al Ponte di Rialto. Feci un giro attorno. Comprai una statuina di vetro con cui, sono sicuro, chiuderò in posi-tivo una amara incomprensio-ne con Silvia risalente a quella gita a Venezia con la famiglia. La cosa mi creò una sensazio-ne di benessere che mi ac-compagnò per tutta la giorna-ta.

Là accanto ritrovai la Ro-sticceria San Bartolomeo tale e quale come allora. Ci andavo

su una panchina. Stetti un bel po’ a riposare a guardare ad ascoltarmi.

Avevo una meta per la cena, me l’aveva consigliata Silvia: l’osteria La Zucca. Non era di-stante. La trovai. Aprivano alle 19,30. Erano le 17,30. Comin-ciava a far fresco, mi rifugiai in una chiesa. Alle 18 ci fu la mes-sa. Alle 19 fui all’osteria. Un so-lo tavolino libero, fuori ma ri-scaldato. Nel tavolino accanto, ma proprio attaccato, gomito a gomito, si sedette una giova-ne con, di fronte, un giovane. Parlavano in inglese, ma lei sapeva anche l’italiano. Attac-cai bottone. Erano australiani, lei di origine italiana. Tra una portata e l’altra dell’ottima ce-na presi a raccontare alcune delle mie storie. La ragazza le gradì molto traducendole im-mediatamente al suo compa-gno. Anche la famiglia del ta-volino accanto fu attratta dai miei racconti, solo i genitori, i figli tutto il tempo impegnati con la playstation.

Non poteva esserci conclu-sione migliore per una giorna-ta splendida in cui l’ozio mi aveva nutrito e arricchito.

Con animo pacato e appa-gato mi avviai alla Ferrovia.

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32 operaincerta

Le ville della Dolce Vita

Una passeggiata a ritroso nel tempo tra l' "otium" di Villa Ludovisi e quello degli Horti Sallustiani

Ma

ria

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stin

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dall'imbocco di Porta Pinciana fino alla foce di Piazza Barberi-ni il suo rettilineo pendente che, scavallato il lindo e pom-poso palazzo Margherita, sede dell'ambasciata statunitense, si fa ansa ripida, ampia e tortuo-sa, costeggiando l'antico per-corso di pecorai e vaccari ca-lanti in città dalle campagne circostanti con le mandrie che s'accalcavano per l'abbeverata alla fontana del Tritone, viene il pensiero che questo celeber-rimo stradone (il cui toponimo per esteso, cambiato nell'otto-bre 1919, è Via Vittorio Veneto, e non allude dunque più alla regione del nord Italia bensì alla decisiva battaglia del Pia-ve) abbia vissuto una ben effi-mera stagione di gloria, se si calcola che fin verso la fine dell'Ottocento non era stato ancora nemmeno progettato; perché, come forse non molti sanno, laddove poi avrebbe

Volendosi prestare al facile giochino di Roma capitale dell'ozio per definizione, quale sarebbe il luogo simbolo da associare a quel concetto, comprensivo di tutte le sfu-mature di lussuria, mollezza, eccesso? Via Veneto, ovvia-mente, che ne è stereotipo per eccellenza. Pazienza se adesso pare aver perso anima e fascino, mostrandosi ancora bella, certo, ma sottotono, anodina, intaccata dal grigiore quotidiano, sfregiata dalla fal-cidia dei negozi chiusi per la crisi e dagli ingorghi di traffico né più né meno di qualsiasi altra via del centro, e se si no-ta quanto arranchi nello sfor-zo di offrirsi ancora agli occhi dei passanti con un aspetto in grado di evocare almeno alla lontana lo sfavillante kitsch a cui deve la sua fama planeta-ria. A percorrere, a piedi o in auto,

sgargiato lo splendore postic-cio dei bar e hotel della Dolce Vita prima aleggiavano gli in-canti del paradiso botanico e artistico di villa Ludovisi, "la perla di Roma" amatissima da poeti e letterati che facevano a gara per decantarla, e rasa al suolo tra l'esecrazione genera-le a partire dal 1886 in un'im-ponente lottizzazione post-unitaria per far spazio al quar-tiere che oggi porta, quasi beffardamente, il suo stesso appellativo. La storia di questa villa comin-cia nel 1622, anno in cui il car-dinale Ludovico Ludovisi, ni-pote di papa Gregorio XIV e come molti alti prelati dell'e-poca mecenate degli artisti, amante delle antichità e ap-passionato collezionista, dà incarico al Domenichino di ri-decorare l'antico Palazzo Grande, appena rilevato dagli Orsini, a cui annetterà le adia-

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operaincerta 33

Villa Ludovisi

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34 operaincerta

centi vigne Cavalcanti, Cap-poni e Altieri. Quello e il Ca-sino del Monte, poi detto dell'Aurora, che ha già acqui-stato assieme alla vigna del Nero, vanno a costituire i corpi della tenuta, per la qua-le il porporato ha progetti assai ambiziosi. Come buon augurio per l'esi-to dell'impresa durante i la-vori di sbancamento dei ter-reni emerge dal sottosuolo un patrimonio marmoreo di valore inestimabile: il Galata morente, il Galata suicida do-po aver ucciso la moglie, il cosiddetto trono Ludovisi. Statue e trono tornati alla luce vanno a irrobustire la straordinaria collezione Lu-dovisi, composta da oltre 450 pezzi tra sculture e fregi, copie romane o originali elle-nistici, restaurati secondo il gusto barocco con i decisi interventi di Alessandro Al-gardi e forse anche del Berni-ni. Riprendono così la funzio-ne ornamentale alla quale erano già stati adibiti un mil-lennio e mezzo prima, al tempo in cui in quello stesso luogo sorgevano gli Horti Sallustiani, il più grande par-co monumentale di Roma antica, esteso per oltre trenta ettari dal Quirinale al Pincio, area del complesso secente-sco compresa (come s'è defi-nitivamente appurato al rin-venimento, durante lavori di sistemazione proprio di Via Veneto, di una pietra di gra-nito egiziano che la Soprin-tendenza avrebbe identifica-to come la soglia d'accesso degli Horti da Porta Pinciana

nel periodo della sua massi-ma espansione, tra il I e il III secolo dopo Cristo). Hortus, in latino, significa giardino. E di queste residen-ze, ubicate in amene zone alla periferia dell'agglomera-to urbano, i giardini - vasti come foreste, rigogliosi di piante modellate secondo l'arte topiaria e costellati di tempietti, terme, fontane, portici, ninfei - erano l'ele-mento precipuo, essenziale, indispensabile a cingere "seconde case" di svago e rappresentanza simili per magnificenza a vere e pro-prie regge, preferite alle ville di campagna per la loro posi-zione strategica, essendo in grado tanto di offrire una pa-ce bucolica in relativa lonta-nanza dalla caotica vita citta-dina quanto, al contempo, di assicurare comunque la co-modità della vicinanza ai cen-tri del potere. Così non c'era notabile, nella Roma freneti-camente votata al negotium, che non avesse i suoi horti - famosi, oltre a questi di Sal-lustio, quelli di Lucullo, di Ce-sare, i numerosi di Cicerone -, dove potersi rifugiare di tanto in tanto a praticare l'o-tium, e in questa momenta-nea pausa dall'attività pubbli-ca godere di riposo e tempo libero da destinare esclusiva-mente al proprio privato o agli studi, per ristorare e rie-quilibrare il corpo e lo spirito; ma anche, talvolta, eleggen-doli a dimora principale, temporanea o definitiva. Il nucleo originario degli Hor-ti di Sallustio, sul Quirinale,

venne venduto da Cesare al potente e facoltoso ex sena-tore e tribuno della plebe quando questi, caduto in di-sgrazia dopo una tanto bril-lante quanto poco limpida ascesa al potere, proprio su consiglio (o forse comando) del dittatore di cui era stato sostenitore al tempo della guerra civile si ritirò dalla scena politica, votandosi alla storiografia nonché all'am-pliamento e abbellimento di quella sontuosa tenuta. Lui defunto, la villa passò al ni-pote Sallustio Crispo, consi-gliere di Augusto e Tiberio; e alla morte di questi, nel 21 dopo Cristo, in mancanza di eredi finì nel demanio impe-riale. Ebbe così inizio il suo perio-do d'oro, propiziato dal fatto che, anche per la particolare sicurezza offerta grazie alla vicinanza con i Castra Preto-ria, parecchi imperatori la scelsero come abitazione temporanea in alternativa al Palatino. Vespasiano, come pure suo figlio Tito, vi sog-giornò spesso volentieri, le-gato in modo speciale ai luo-ghi anche, probabilmente, poiché erano stati teatro del-la battaglia campale tra il suo esercito e quello di Vitellio, conclusasi con la morte dell'avversario e con la vitto-ria dei suoi, in seguito alla quale era asceso al trono; e per far partecipe il popolo del godimento di quelle deli-zie aprì al pubblico la parte di parco sul Quirinale. Nerva vi morì, dopo avervi trascorso gli ultimi anni della sua vita.

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Adriano vi promosse impor-tanti lavori di ristrutturazione che le diedero la grandiosa fisionomia definitiva. Aurelia-no, che amava cavalcare, vi fece edificare un porticus mi-liarensis, sorta di ippodromo/maneggio sulla cui spina si innalzava l'obelisco oggi col-locato a Trinità dei Monti, se-parato dal basamento origi-nario finito nel giardinetto dell'Ara Coeli. Il portico "miliarense", cioè lungo mille passi, occupante tutta la lun-ghezza dell'odierna via XX Settembre, si aggiunse ad altre due costruzioni di spic-co: il circo, talmente grande che si pensò di tenervi i gio-

chi in occasione di una mo-mentanea inagibilità del Cir-co Massimo per una piena del Tevere, e il tempio di Ve-nere Ericina. Poi, improvvisamente, il de-clino, a partire dal 410 dopo Cristo, quando i goti, capeg-giati da Alarico, riuscirono ad espugnare per la prima volta nella sua storia l'Urbe en-trando dalla vicina porta Sa-laria, e appena superate le mura si trovarono davanti lo spettacolo della villa. Colpiti da tanta meraviglia fermaro-no il loro assalto alla città per darsi immediatamente a sac-cheggiarla, devastando an-che i giardini al punto che,

secondo la testimonianza dello storico Procopio, non vi fu modo di ristrutturarli. Degli Horti Sallustiani, di-strutti dai barbari e dall'incu-ria, restano al giorno d'oggi ben poche vestigia, in quella che si chiama proprio piazza Sallustio. Ma ancor meno ne rimangono della Villa Ludo-visi, meticolosamente sman-tellata, buttata giù pezzo a pezzo secondo le asettiche disposizioni di un contratto stipulato tra civilissimi ari-stocratici in nome dei rispet-tivi interessi. La storia inse-gna, soprattutto a Roma, che i devastatori non sono sem-pre o solo violenti invasori

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36 operaincerta

dagli atti eclatanti. Possono anche avere le fattezze ri-spettabili di rappresentanti del potere costituito, che non agiscono con furia sanguina-ria ma con calma, ordine e metodo, senza sporcarsi le mani. La villa era andata presto in agonia. Nel XIX secolo era già in decadenza; i Ludovisi, per incapacità gestionali e rove-sci di fortuna, l'avevano già persa e riconquistata tre vol-te, e avevano già in parte di-sperso la collezione del car-dinal Ludovico. Eppure era ancora incredibilmente bella, ammiratissima per gli interni e gli ampi viali progettati da André Le Nôtre, l'architetto della reggia di Versailles, e per le decorazioni del casino dell'Aurora, opera di Agosti-no Tassi e del Guercino. Henry James nel 1883 usa per descriverla toni elegiaci: "Non c'è nulla di meglio a Ro-ma e forse nulla di così bello. Là dentro v'è tutto: viali oscuri sagomati da secoli con le forbici, vallette, radure, boschetti... I prati e i giardini sono immensi e il grande e arrugginito muro della città si stende dietro ad essi e fa che Roma appaia vasta senza che essi siano precisi. Nulla può essere più pittoresco della vista dei bastioni della città che innalzano le loro fanta-stiche merlature sopra gli al-beri e i fiori. Essi sono tap-pezzati di piante rampicanti; quelli che furono un tempo truci baluardi di difesa, ora servono come soleggiate spalliere di frutta".

A quei tempi era pure arduo visitarla, per via dei suoi pro-prietari poco ospitali. E que-sto accresceva il piacere nei fortunati che ci riuscivano. È quello esattamente il termine usato da Stendhal: "Abbiamo errato con delizia negli im-mensi viali alberati del giardi-no che ha un miglio di peri-metro... Cosa chiediamo a un posto così bello? Piacere", che si esalta poi nel ricordare il suo incontro ravvicinato col ratto di Proserpina del Berni-ni, donato al Ludovisi dal car-dinal Scipione Borghese pro-prio nell'anno 1622 e rimasto nella villa fino alla sua demo-lizione. Piacere è anche il ti-tolo del famoso libro di D'Annunzio nelle cui pagine viene menzionata: "... e la Vil-la Ludovisi, un po' selvaggia, profumata di viole, consacra-ta dalla presenza della Giu-none cui Wolfgang adorò, ove in quel tempo i platani d'Oriente e i cipressi dell'Au-rora, che parvero immortali." Giunone qui non è la dea, ma una sua effigie marmorea, e Wolfgang è Goethe, che la-sciò traccia di quella sua pas-sione, culminata nella gioia di poter averne tutti i giorni sotto gli occhi una riprodu-zione, in queste parole: "Con mio grande giubilo, ieri ho collocato nel salotto una co-pia della testa colossale di Giunone, il cui originale è esposto a Villa Ludovisi. È stata il mio primo amore a Roma, e ora la posseggo. Non ci sono parole, che pos-sano renderne un'idea: è un canto di Omero."

E poi, improvvisamente, la fine. È tempo di febbre edili-zia, intorno alla villa si con-centrano brame affaristiche fameliche, e l'ultimo della di-nastia Boncompagni Ludovi-si, il principe Rodolfo, ha bi-sogno di quattrini. L'anno prima si è fatto avanti persi-no il governo, tramite il mini-stero dell'interno, offrendosi d'acquistare parte del giardi-no per realizzarvi il nuovo Parlamento. Ma la trattativa va troppo per le lunghe, e il principe ha fretta di conclu-dere, di realizzare. Così pen-sa di rivolgersi altrove. Foto di uno dei "giardini se-greti" della Villa, 1883 Un giorno del 1885 convoca Theodor Mommsen, il gran-de storico tedesco. Gli apre i cancelli della "perla di Roma", e col volto atteggiato a gran-de afflizione gli consegna una raccolta di dagherrotipi dei viali ombreggiati da lecci e cipressi, le statue pagane, i giardini segreti e i casini, di-cendogli: "conservi queste immagini perché la mia villa dovrà scomparire". È in pro-cinto di firmare, con la me-diazione del sindaco, il nobile papalino Leopoldo Torlonia, una lucrosa convenzione con la Società Generale Immobi-liare per l'edificazione un quartiere residenziale sui suoi terreni: un quartiere di lusso, alto borghese, da far sorgere sulle ceneri della vil-la. Il 29 gennaio 1886 la conven-zione triangolare fra il princi-

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pe, il Comune e la Generale Immobiliare viene stipulata. Pochi giorni dopo irrompono squadre d'operai che comin-ciano a mettersi all'opera senza batter ciglio: livellano i prati, demoliscono le fonta-ne, distruggono i boschi, ac-cendono fuochi, scavano trincee, lavorano la calce. La sistematica procedura di annientamento va avanti sot-to gli occhi esterrefatti del mondo, suscitando una ri-provazione mista ad orrore. Gabriele D'Annunzio si duole nel suo solito stile aulico, da cui traspare uno sgomento reale: "I giganteschi cipressi ludovisii, quelli dell'Aurora, quelli medesimi i quali un giorno avevano sparsa la so-lennità del loro antico miste-ro sul capo olimpico del Goethe, giacevano atterrati... Sembrava che soffiasse su Roma un vento di barbarie e minacciasse di strapparle quella raggiante corona di ville gentilizie a cui nulla è paragonabile nel mondo del-le memorie e della poesia." L'abbattimento di Villa Ludo-visi fu la più esecranda di una serie lunghissima di devasta-zioni dei parchi urbani e su-burbani innescata dalla fame edilizia dei nuovi padroni dell'Italia, i "buzzurri" torinesi scesi nella capitale al seguito della corte dei Savoia. Sotto i colpi delle immobiliari, una ad una, caddero tutte le ville della cinta patrizia, tramuta-tasi in un unico, enorme, osceno cantiere: Massimo, Capizucchi, Nari, Magnani, Patrizi, Altieri, Albani, Gonza-

ga, Olgiati, Strozzi, Bolognet-ti, Rondanini. Il massacro dei giardini romani divenne un caso internazionale. Sui gior-nali stranieri si parlava degli italiani come dei nuovi Van-dali che stavano compiendo un delitto contro l'umanità. Lo storico dell'arte Herman Grimm diede alle stampe un pamphlet che è una sorta di inno romantico in morte del-la Villa, da lui definita "il luo-go più bello della terra". "Predire che sotto il nuovo Governo la villa dovesse an-dare distrutta, come oggi ac-cade, e gli alberi, le querce, i pini abbattuti, come oggi li vedi abbattere, sarebbe stata allora certamente un'offesa che neanche il più acerbo ne-mico dell'Italia avrebbe osato recarle, perché sarebbe sem-brata un'enorme follia". Per ironia della sorte, il ricavato della speculazione, che portò nel giro di trent'anni alla na-scita di uno dei più eleganti quartieri romani, fu assai in-feriore alle aspettative: appe-na cinque milioni e mezzo, dei quali tre quinti all' Immo-biliare, il resto ai Boncompa-gni Ludovisi. E anche lo Stato aggiunse il suo beffardo sug-gello allo scempio, procla-mando a distruzione avvenu-ta villa Ludovisi monumento nazionale. Di Villa Ludovisi rimangono oggi solo il Casi-no dell'Aurora, attuale resi-denza dei discendenti del principe; la facciata del Palaz-zo Grande, incorporata nel palazzo Margherita; una fon-tana, all'interno dello stesso palazzo, ora di proprietà del

governo degli Stati Uniti; e centoquattro pezzi della col-lezione Ludovisi, acquistati nel 1910 dallo Stato, conser-vati tra i distaccamenti del Museo Nazionale Romano di Palazzo Altemps e centrale Montemartini eccetto il Ga-lata morente, finito ai Musei Capitolini.

Per ironia della sorte, il ricavato della speculazione, che avrebbe portato nel giro di trent'anni alla nascita di uno dei più eleganti quartieri romani, fu assai inferiore alle aspettative: appena cinque milioni e mezzo, dei quali tre quinti all' Immobiliare, il re-sto ai Boncompagni Ludovi-si. E anche lo Stato aggiunse il suo beffardo suggello allo scempio, proclamando a di-struzione avvenuta villa Lu-dovisi monumento naziona-le.

Di Villa Ludovisi rimango-no oggi solo il Casino dell'Aurora, attuale residen-za dei discendenti del princi-pe; la facciata del Palazzo Grande, incorporata nel pa-lazzo Margherita; una fonta-na, all'interno dello stesso palazzo, ora di proprietà del governo degli Stati Uniti; e centoquattro pezzi della col-lezione Ludovisi, acquistati nel 1910 dallo Stato, conser-vati tra i distaccamenti del Museo Nazionale Romano di Palazzo Altemps e centrale Montemartini eccetto il Ga-lata morente, finito ai Musei Capitolini.

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Poesia EMERGENTE

Est

er

Pro

cop

io

I RAGAZZI DI CASTAGNÉ

Vi sembreremo strani, ragazzi

che non ci importa di come ci vestiamo

e neanche tanto di parere belli

mentre voi, in sette con un bagno

siete sempre lindi come figurini

che mangiamo sempre pastasciutta

che a volte gridiamo che sembriamo scannarci

e dopo cinque minuti di nuovo a confabulare

come carbonari.

Non capirete neanche perché vi abbiamo raccolti

da quell'angolo fetente dove vi avevano cacciati

e perché ci diamo da fare, e ci agitiamo

e vi facciamo mille domande

e ci sforziamo di farci capire

col nostro buffo inglese imparato dalle band.

Quello che non sapete, non ancora

è che avete toccato tutte e due le nostre anime

quella politica, e quella della dolce umanità

e la voglia di giustizia, e la rabbia ingoiata

e ci fate dire, uno all'altro, o tutti insieme

parole che non ci dicevamo.

A luglio, in una località isolata della provincia di

Verona, Castagné, frazione del comune di Mezza-

ne di Sotto con una quarantina di abitanti, giungo-

no dieci richiedenti asilo. La cooperativa che se ne

occupa, la coop. San Francesco, li ha destinati a un

modesto domicilio, trilocale con quattro posti let-

to, lontano da negozi e dalla città, Bovolone, in cui

alcuni di loro avevano trovato lavoro. I vicini si al-

larmano, i migranti – dal canto loro - si rifiutano di

entrare nella nuova casa: chiedono che i loro diritti

vengano ascoltati. Nulla da fare. Alcuni giorni do-

po, a sette di loro verrà revocato il progetto di ac-

coglienza, sono cioè condannati alla strada e a

una vita di espedienti.

Ru

bric

a

Politica e tramonti secondo Paola Cherubini / Samorante: la poesia che è in tutto (ed è tutto)

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operaincerta 39

Samorante, il nickname sotto cui si cela Paola Cherubini,

è forse la crasi tra il nome e cognome della scrittrice Elsa

Morante? Privata dell'elemento individualizzante "El", che

in spagnolo è anche – da solo – un articolo, non resta

che un o una "Samorante", colui o colei che "sa amare":

non una persona specifica, ma una tensione interiore

universalmente umana. Chi scrive poesia – condizione

necessaria per scrivere poesia – "sa amare": è Samoran-

te.

AMO

Amo il colore di malva nel grigio

dell'alba di stamattina,

amo il rumore soffice

delle berline sull'asfalto

(dopobarba, sigaretta, appretto spray),

amo il gracchiare improvviso di un motorino vecchio

(guanti di lana, metallo caldo, pieghe da sonno),

amo l'arrivo di questa luce di ottobre

che irrompe irrispettosa dai vetri sporchi

lucida il verde, accarezza il rosso

fa della polvere una danza di lucciole

e della mia stanza disordinata

il set in controluce di un film retrò.

VENTIQUATTRO SETTEMBRE

C'era un tramonto stasera

di nuvole ocra lunghe e sfilacciate

come strisce di lenzuolo

su uno sfondo di specchio viola.

Un tramonto traslucido, splendente e malato

come le cose che finiscono

come le facce che si accendono

poco prima di salutarci.

CREDO

Credo che finirà così,

che litigheremo tutto il giorno

e ci respireremo addosso

tutta la notte.

Focus sull’autrice:

Paola Cherubini vive a Verona, e i suoi

interessi principali sono l'attivismo poli-

tico e i tarocchi. In famiglia serpeggia

una vena creativa (il nonno era un pit-

tore abbastanza noto della Verona del

primo novecento) che nel suo caso si è

espressa in modo vario, per poi trovare

inaspettatamente negli ultimi anni una

direzione poetica. Ha un blog,

“Samorante”, nato soprattutto come

raccoglitore (https://

samorante.wordpress.com/ ), al cui in-

terno si ripetono i due filoni qui rappre-

sentati, l’uno politico e impegnato, l’al-

tro lirico di carattere occasionale.

Sfida al lettore:

se questa rubrica ti è piaciuta e desideri

rimanere aggiornato/a iscriviti alla new-

sletter di “Poesia emergente”. È sempli-

ce, basta cliccare su questo link: http://

tinyletter.com/Ester_Procopio

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40 operaincerta

Verde CHIARO

Ald

o

Ad

am

o

Da non crederci! MI stavo scervellando – come spes-so mi capita – per trovare una pianta o un fiore lega-to al tema del mese che è l’ozio. Risultato uguale a zero. Sforzo immane che il mio capo redattore mi riserva di mese in mese, sforzo che non ha sempre successo e che spesso si conclude con il solito si-stema: internet. L’amato odiato scrigno del sapere odierno. E qui, alla fine, ho trovato l’albero dell’ozio: un gelso. È sufficiente an-dare a Bellapais, nell’isola di Cipro. Qui, nei pressi dell’abbazia de la Paix, puoi bere una fresca limo-nata all’ombra di questo magnifico albero che han-no dedicato all’ozio. E questo mi ha fatto pen-sare che oziare all’ombra

All’ombra di Orazio

Ru

bric

a

di un gelso, durante il caldo afoso dell’estate, è un’abitu-dine non solo cipriota ma sicuramente mediterranea. Anche a noi siciliani, non a caso ultimi discendenti degli abitanti della Magna Grecia, ci sarà capitato di oziare sot-to un gelso. Dei suoi frutti ne parla già

Plinio quando descrive le sue proprietà medicamen-tose. Le sue bacche hanno un forte potere antiossidan-te, ricchi di ferro, vitamina A e vitamina C. L’effetto an-tiossidante pulisce le arte-rie, aumentando così il cole-sterolo buono e riducendo il rischio di ipertensione.

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operaincerta 41

La bontà del frutto va oltre le sue qualità biofarmaceuti-che. Basta gustare la granita che si realizza con i gelsi, possibilmente accompagna-ta da una buona panna, e si capisce all’istante perché l’ozio così gestito può diven-tare un gran momento di felicità. E sempre se vuoi, e hai lo spazio, puoi mettere a di-mora un gelso nel tuo giar-dino. Ti servirà, però, tanto spazio perché il suo fusto può raggiungere anche i venti metri di altezza. Qui o altrove, ma sempre sotto l’albero, puoi pro-grammare questi giusti e gu-stosi momenti di libertà… così come insegna il grande Orazio a proposito dell’ozio o otium che dir si voglia… chissà se il poeta di Venosa lo ha pensato all’ombra di un albero di gelso.

CONSIGLI DEL MESE Nel Prato: prepara il letto di semina per i prati da installare

in primavera; se il mese scorso è saltata la concimazione au-tunnale questo è l’ultimo mese utile. Un ‘attenzione particola-re alle zone ricoperte di muschio: in questo caso puoi conci-mare con un prodotto specifico ricco di ferro utile anche per le acidofile. Nel giardino: continua ultimi giorni per la messa a dimora

dei bulbi a fioritura primaverile (fresie, tulipani, crocus, narci-si, giacinti, ranuncoli, etc., etc..); da fine mese a Gennaio puoi impiantare rose, arbusti e piante da frutto a radice nuda (prenota in tempo le varietà). Attento al freddo: ricovera in serra, veranda, androni o in-gressi luminosi le specie poco resistenti al gelo come gli agru-mi e alcune varietà di piante grasse; nel caso il ricovero sia impossibile proteggili coprendoli con il tessuto-non tessuto o con le Serre da balcone o con i tunnel. Le piante da interno: continua le concimazioni liquide e/o

con i bastoncini. Il bonsai: attenzione alle annaffiature perché diminuisce il

fabbisogno idrico tranne per i bonsai da interno se si accen-dono i riscaldamenti; a tal proposito, al fine di mantenere l'u-midità ambientale ideale anche negli interni riscaldati, si rac-comanda di situare il bonsai su un sottovaso con materiale drenante mantenuto umido (questo vale anche per le piante in vaso); continua le concimazioni e sospendi i travasi (tranne per i casi di emergenza). Nell’orto: seminare Pisello, Fava, Aglio, Cipolla e Scalogno.

Il Frutteto: puoi iniziare i trattamenti con prodotti a base

di rame irrorando anche il terreno ai piedi dell’albero, spesso ricettacolo di parassiti. Puoi fare anche i trattamenti anticoc-cidici con l’olio minerale. e se vuoi saperne di più puoi sempre telefonarmi al 348.0180141 o scrivermi su [email protected]

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Numeri ARRETRATI

A c

ura

de

lla

R

ed

azi

on

e

131 - Bacco... 130 - Nell’abisso 129 - Oronero 128 - Al Nord! 127 - The Sound of Silence 126 - Energie 125 - De Mysteriis 2015 124 - Terrore! 123 - Nonsense 122 - Il Paradiso 121 - Il Purgatorio 120 - L’Inferno 119 - Il dialogo 118 - Le sirene 117 - L’approdo 116 - Al volante 115 - Fuoco 114 - Liberi Libri 113 - Polizia 2014 112 - Il sangue 111 - La fortuna 110 - Il disprezzo 109 - Regno animale 108 - Regno vegetale 107 - Regno minerale 106 - Comunicare 105 - La crisi 104 - Casino 103 - La Chiesa 102 - Casa dolce casa

2018 158 - In cammino 157 - Il cattivo 156 - Il brutto 155 - Il buono 154 - La vacanza 153 - Indifferenza 152 - La gelosia 151 - Odissee 150 - Malarazza 149 - La Ricchezza 2017 148 - Vintage 147 - Io sto male 146 - Cartellino rosso 145 - Fratellanza 144 - Uguaglianza... 143 - Libertà... 142 - Fenomeni 141 - Antagonismi & Conflitti 140 - Fratelli maggiori 139 - Homo Faber 138 - Antipodi 137 - Fantastiche creature 2016 136 - Uomo vs macchina 135 - Ridi Pagliaccio! 134 - Le pietre 133 - Venere 132 - Tabacco…

2013 101 - Il Male 100 - V come Vendetta 99 - Gli occhi 98 - 10 anni 97 - Disegni Animati 96 - Corna 95 - La vita è sogno? 94 - Flos floris 93 – L’isola che c’è 92 - xxx-mission 91 - Cavallo di ferro 90 - Futuro interiore 2012 89 - Radio 88 - Cara perfida Albione 87 - Douce France 86 - Tre 85 - Due 84 - Uno 83 - La camicia 82 - Ponti 81 - Di pancia 80 - Il vuoto 79 - Nella merda 78 - Anno nuovo, vita nuova 2011 77 - Rosso 76 - Bianco 75 - Verde 74 - Libera uscita

Quindici anni d’idee

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73 - Appesi allo zodiaco 72 - Gli specchi 71 - Il deserto 70 - Sliding Doors 69 - Terremoto 68 - Senza peccato 67 - Itagliani!!! 66 - Made in Japan 2010 65 - Re e regine 64 - Rivoluzione! 63 - Num3ri 62 - La fuga 61 - ... e Fantasia 60 - Amore... 59 - Pane... 58 - Imago 57 - In nome della legge 56 – L’assenza 55 - Che barba 54 - Il dittatore 2009 53 - La mamma 52 - Africa 51 - Il mare 50 - Stile libero 49 - Rock ‘n’ Roll

48 - Droga 47 - Sesso 46 - Le stagioni 45 - Mercato globale 44 - Reciclaggio 43 - Volta la carta 42 - Caro amico ti scrivo 2008 41 - Le mie prigioni 40 - Riveder le stelle 39 - Vite in vendita 38 - Paure 37 - Spettacolarte 36 - E io pago 35 – L’unione _ La separazione 34 - Sogni e sonni 33 - Bianconero 32 - Lavoratori? 31 - Omosessuali 30 - Ssshhhh 2007 29 - Per passione 28 - Generazione Boh 27 - La Repubblica dei comici 26 - I musicomani 25 - Buonviaggio 24 - Numero verde

23 - È festa! 22 - Pazzo! 21 - TraPassato e futuro 20 - Menzogna e verità 19 - D’Io 18 - Pubblicità padrona 2006 17 - Muri 16 - La notte 15 - Argentina 14 - Tutti a scuola 13 - I piaceri 12 - H2O 11 - Giocosporco 10 - Trinacria 09 - Cara democrazia 08 - Destra o sinistra 07 – L’altra metà 06 - Condonato 2005 05 - Guerra e fame 04 - La famiglia 03 - Zoo 02 - La musica della città 01 – Via vai

Carlo Blangiforti

Occhio STRABICO Amori, Affetti e Affettati

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Il COLOPHON

A

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Gianni Failla Luca Farruggio Veronica Ferlito Daniela Ferrara Annalisa Ferraro Silvia Girasa Roberta Gurrieri Vincenzo La Monica Katharina Landbrecht Adriana Lazzini Nick Neim Francesca Romana Longo Gaetano Giuseppe Magro Alessandro Manuguerra Gina Massari Salvina Monaco Luciano Nicastro Andrea G. G. Parasiliti Fabio Pinna Graziella Priulla Ester Procopio Massimo Romano Gian Piero Saladino Ciccio Schembari Giuseppe Traina Federica Tribastone Marinella Tumino Maria Cristina Vecchiarelli Donatella Ventura Patrizia Vindigni PROGETTO GRAFICO Carlo Blangiforti Meno Occhipinti REALIZZAZIONE DEL SITO Carlo Blangiforti Meno Occhipinti

EDITORE: Associazione Operaincerta DIRETTORE RESPONSABILE: Antonio La Monica VICEDIRETTORE: Meno Occhipinti IL COMITATO DI REDAZIONE Carlo Blangiforti Daniele Colombo Loretta Dalola Saro Distefano Assia Gennaro Enzo Ingallina Sara Sigona COLLABORATORI Aldo Adamo Pietro Ancona Martina Annibaldi Carmen Attardi Anna Maria Baiamonte Salvo Bonaccorsi Stefano Borgarelli Patrizia Boschiero Marinella Calabrese Filippo Camerini Laura Ciancio Vittore Collina Amalia Cornale Alessandro D’Amato

Per mandare i vostri commenti e i vostri contributi [email protected] Il sito è ospitato sui server di Aruba (www.aruba.it) Il giornale esce il 14 di ogni mese Lettere di commento e articoli do-vranno essere inviati alla redazione esclusivamente all'indirizzo di posta elettronica [email protected] Per i brani tratti da altri testi e per le eventuali foto inviate a corredo si dovrà sempre citare autore e provenienza. Il materiale ricevuto sarà vagliato dalla redazione e, anche in caso di eventuale pub-blicazione, il suo contenuto non è necessariamente condiviso dalla direzione del giornale.

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Operaincerta.it Mensile di opinioni, culture, politica, satira, informazione, formazione e incontro. n. 159 del 14 novembre 2018 Testata iscritta nel registro dei giornali e dei periodici del Tribunale di Modica in data 02/08/2005 al numero 1/05

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