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1 giugno 2008 - anno VIII Indice In ricordo di don Pierino Arcieri e di Dario De Fidio ......................................................................... p. 3 Don Pierino Arcieri, Servo per Amore p. 4; Don Pierino Arcieri, Testamento spirituale p. 6; Dario De Fidio: la passione per l’uomo p. 8 Editoriale CIAULA A. “Una questione della Chiesa e posta anche alla Chiesa” I sessant’anni della Lettera collettiva dell’Episcopato meridionale su I problemi del Mezzogiorno (15 gennaio 1948) “ 13 Convivium IO, IO, IO… e gli altri. C come cinema, cultura, comunicazione. Atti del Convivio 2006 CACUCCI F. Per una teologia della comunicazione ............................................................................................. “ 25 MARRONE D. Saluto introduttivo ....................................................................................................................................... “ 31 CIAULA A. Presentazione del Convivio 2006 ......................................................................................................... “ 33 VIGANÒ D.E. Il cinema e i cattolici in Italia: l’esperienza dell’Ente dello Spettacolo ........................ “ 37 IO, IO, IO… e gli altri di A. Blasetti. Scheda del film con analisi e lettura di p. N. Taddei ......................... 46 Breviario del Cinelettore ........................................................................................................................................... 51 CIAULA A. Gesù nel cinema: presentazione del volume e del suo autore ......................................... “ 53 MAROTTA V. Gesù nel cinema: il volto e il mistero ................................................................................................ “ 57 La Sala della Comunità come “Convivio delle Differenze”. L’esperienza a TranI-Barletta-Bisceglie. Prospettive LOSAPPIO R. Progetto culturale e Sala della Comunità. Il percorso a Trani-Barletta-Bisceglie ........... “ 63 SAVINO GIANNOTTI Nascono altre cinque Sale della Comunità. Il nuovo decreto arcivescovile ..................... “ 67 Parrocchia e progetto culturale. Lettera dell’Arcivescovo alla Comunità Diocesana ........ 69 Decreto di istituzione Sale della Comunità ........................................................................................ 74 RIEFOLO G. L’esperienza del Cinecircolo nella Sala della Comunità Sant’Antonio a Barletta ........... “ 75 MARRONE D. Multimedialità e formazione teologica .......................................................................................... “ 77 CIAULA A. L’operatore della cultura e della comunicazione Percorsi formativi e inculturazione nel territorio ............................................................................. “ 81 Note BISCONTIN C. I difetti della predicazione omiletica corrente. Suggerimenti per evitarli ..................... “ 89 CIAULA A. Padre Nazareno Taddei, mio maestro .............................................................................................. “ 105

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1giugno 2008 - anno VIII

IndiceIn ricordo di don Pierino Arcieri e di Dario De Fidio ......................................................................... p. 3Don Pierino Arcieri, Servo per Amore p. 4; Don Pierino Arcieri, Testamento spirituale p. 6; Dario De Fidio: la passione per l’uomo p. 8

Editoriale

CIAULA A.“Una questione della Chiesa e posta anche alla Chiesa” I sessant’anni della Letteracollettiva dell’Episcopato meridionale su I problemi del Mezzogiorno (15 gennaio 1948) “ 13

Convivium

IO, IO, IO… e gli altri. C come cinema, cultura, comunicazione. Atti del Convivio 2006

CACUCCI F.Per una teologia della comunicazione ............................................................................................. “ 25

MARRONE D.Saluto introduttivo ....................................................................................................................................... “ 31

CIAULA A.Presentazione del Convivio 2006 ......................................................................................................... “ 33

VIGANÒ D.E.Il cinema e i cattolici in Italia: l’esperienza dell’Ente dello Spettacolo ........................ “ 37

IO, IO, IO… e gli altri di A. Blasetti. Scheda del film con analisi e lettura di p. N. Taddei ......................... “ 46Breviario del Cinelettore ........................................................................................................................................... “ 51

CIAULA A.Gesù nel cinema: presentazione del volume e del suo autore ......................................... “ 53

MAROTTA V.Gesù nel cinema: il volto e il mistero ................................................................................................ “ 57

La Sala della Comunità come “Convivio delle Differenze”. L’esperienza a TranI-Barletta-Bisceglie. Prospettive

LOSAPPIO R.Progetto culturale e Sala della Comunità. Il percorso a Trani-Barletta-Bisceglie ........... “ 63

SAVINO GIANNOTTI

Nascono altre cinque Sale della Comunità. Il nuovo decreto arcivescovile ..................... “ 67Parrocchia e progetto culturale. Lettera dell’Arcivescovo alla Comunità Diocesana ........ “ 69Decreto di istituzione Sale della Comunità ........................................................................................ “ 74

RIEFOLO G.L’esperienza del Cinecircolo nella Sala della Comunità Sant’Antonio a Barletta ........... “ 75

MARRONE D.Multimedialità e formazione teologica .......................................................................................... “ 77

CIAULA A.L’operatore della cultura e della comunicazione

Percorsi formativi e inculturazione nel territorio ............................................................................. “ 81

Note

BISCONTIN C.I difetti della predicazione omiletica corrente. Suggerimenti per evitarli ..................... “ 89

CIAULA A.Padre Nazareno Taddei, mio maestro .............................................................................................. “ 105

2 giugno 2008 - anno VIIIIndice

CiSCS - Centro Internazionale dello Spettacolo e della Comunicazione Sociale (a cura di) Padre Nazareno Taddei, sj. Biografia, Premi, Pubblicazioni ......................................................... p. 113

FARINA P.Eutanasia. Il punto di vista della dottrina cristiana ........................................................................... “ 117

La famiglia, tra coscienza e responsabilitàUna riflessione sulle sfide alla famiglia cristiana nella società contemporanea ................. “ 127

Speranza e modernità nell’Enciclica Spe Salvi di Benedetto XVI ..................................... “ 137

Teologia e Diritto Penale. Incontro Seminariale - Università degli Studi di Bari .............. “ 145

La questione della trascendenza ........................................................................................................ “ 155

L’umano evangelico nell’IRC della scuola. La questione antropologica ...................... “ 159

Un colloquio internazionale su Pensamento de Simone Weil e o incontroentre as culturas. Rio de Janeiro, 27-31 agosto 2007 ...................................................................... “ 171

MARRONE D.Don Tonino Bello e la questione meridionale ............................................................................. “ 177

PASQUALE F.P.Le relazioni peritali e la discrezionalità dei giudici nella loro valutazione ............... “ 187

Percorsi di Studio

CIAULA A.Media e Magistero: un lavoro su Pio XI e il cinema ................................................................. “ 197

BASSI M.Pio XI e il cinema. Tesi di diploma ......................................................................................................... “ 199

Dissertazioni per il Diploma

Giugno 2007 - Febbraio 2008 ................................................................................................................... “ 227

Dissertazioni per il Magistero

Settembre 2007 - Febbraio 2008 ............................................................................................................. “ 235

Documenti

MARRONE D.A quarant’anni dalla morte: Lorenzo Milani un educatore di “razza”

Inaugurazione - Riflessione introduttiva dell’Anno Accademico 2007-2008 ........................ “ 243

PIOVANELLI S.La figura e l’opera di don Lorenzo Milani

Prolusione dell’Anno Accademico 2007 - 2008 ................................................................................. “ 247

MARRONE D.Incontro culturale con l’Ambasciatore d’Israele presso la Santa Sede

Indirizzo di saluto del Direttore dell’Istituto ...................................................................................... “ 255

ODED B.H.Incontro culturale con l’Ambasciatore d’Israele presso la Santa Sede

Discorso dell’Ambasciatore ....................................................................................................................... “ 259

RECENSIONI

a cura di FARINA P. ............................................................................................................................................ “ 269

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In ricordodi don Pierino Arcieri

e di Dario De Fidio

Due amici ci hanno lasciato durante l’ultimo anno accademico: don Pie-

rino Arcieri il 3 dicembre 2007 e Dario De Fidio il primo febbraio 2008.

Don Pierino era il Padre Spirituale dell’Istituto, discreto, sorridente, sem-

pre a disposizione di chiunque avesse bisogno di un semplice consiglio o

di confessarsi.

Dario De Fidio è stato docente di Psicologia e anche ha tenuto il Semina-

rio di Psicologia della Comunicazione. Accompagnava con professionalità,

serenità e il sorriso quanti avevano bisogno di lui.

Le loro figure, anche a nome di tutta la comunità dell’Istituto, sono qui

ricordate dai colleghi Luigi De Pinto e Tina Doronzo che per varie occasioni

furono più vicini a ciascuno di loro. Di Don Pierino pubblichiamo anche il

testamento spirituale, preziosa testimonianza della sua presenza operosa

e discreta tra quanti lo conobbero.

Il Direttore

mons. Domenico Marrone

4

Don Pierino Arcieri,Servo per Amore

Ha senso la vita? C’è un senso nell’esistenza, e a noi, animali metafisici, è riservata la felice avventura o la dura condanna di scoprirlo (aleteia) ovvero tutto ciò che esiste gravida soltanto del senso che ciascuno gli conferisce? Immanenza? Trascendenza? Sono le domande degli uomini in questua di significato. Non solo dei filosofi. Sono le mie, le tue domande. Acute riflessioni sopraf-fatte da intense emozioni. Meglio non pensarci. Anche per igiene mentale. Si tenta un’improbabile, illusoria fuga, ci s’immerge nella frenesia della quotidianità, nel frastuono degli impegni di noi uomini attivi, pronti ad indossare la maschera del divertissement (Pascal aveva ragione!).

Poi sulla tua polverosa via di Damasco incontri qualcuno, come te in cammino. Intuisci subito che è un viandante speciale. È innamorato della vita: lo testimoniano, tra l’altro, il fragore delle sue risa, la serietà del lavoro, la semplicità dei gesti, la sete di sapere, l’umiltà dell’intelligenza, il bisogno di documentarsi, la voglia di spendersi per ridare dignità alle persone bistrattate. Decidi di fare un tratto di strada insieme e speri che ti accetti come compagno di viaggio.

Quelle domande tornano come questioni da dirimere, veri e propri test di arguzia formulati con sottile ironia e autentico humor, tanto per non prendersi sul serio. E scopri che, mentre lascia volentieri a te la scelta del terreno filosofico, egli s’inerpica scattante e con vigore sul sentiero tortuoso del servizio ai fratelli indigenti. Lì egli trova le orme più marcate di quel Dio che gli è entrato dentro. È il dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, di Gesù Cristo. Prima ancora che dei filosofi, appunto.

E ti trascina. Non sopporta l’ipocrisia. Vuole essere coerente e ai giovani che, appena presbite-ro, gli vengono affidati, richiama la Parola: “Non chi dice Signore, Signore, ma chi fa la volontà del Padre”. E in città vi sono molte “zone” in cui il Padre è assente. I servizi alla persona, per esempio. Occorre sensibilizzare gli amministratori e Lui non si tira indietro. Non vi è più dubbio. È un rivoluzionario. Rosso per giunta. Si reca a far visita ai suoi concittadini più poveri e corre sulle zone terremotate dell’Irpinia. Anima i campi di Mani Tese, smaschera le falsità ideologiche di chi specula sul flagello della fame nel mondo, guida la preghiera ed è il primo a salire e scendere dai fabbricati per raccogliere indumenti, carta straccia, rifiuti da trasformare in micro progetti e segni di speranza nelle zone sottosviluppate.

E ti scuote dai tuoi perbenismi, ti invita a sporcarti le mani, a rinunciare ai tuoi colletti bianchi per indossare la tuta dell’operaio, a irrobustire le tue braccia perché siano tese a sostenere chi soffre. A che serve la vita? Che senso ha? Per Lui la vita è DONO e VA DONATA. Hai ricevuto gratuitamente, restituisci con altrettanta gratuità. Questa è giustizia. Dovunque. Sempre. Senza calcolo. Con estrema generosità. Attorno alla mensa eucaristica per condividere il Pane della Vita come attorno al fuoco delle serate estive sulla spiaggia a gustare la mitica focaccia di Ripalta del-l’ottima Lucia. Nelle corsie dell’ospedale dove non distingui più il cappellano dall’infermiere come nella direzione spirituale dove ti conduce paziente e fiducioso nel farsi strumento dell’incontro con Dio. Con grande attenzione. A lasciarsi interpellare dalla Parola sapientemente instillata dalla sua analisi nelle lezioni bibliche (ho sempre pensato che se avesse avuto la possibilità, sarebbe diventato docente di Sacra Scrittura) come a cogliere i segni dei tempi che non sfuggivano alla sua sensibilità di uomo in situazione.

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Penso subito a lui quando mi nominano direttore del Consultorio Familiare E.P.A.S.S. So di poter contare sulla sua squisita abnegazione e desidero offrire alle coppie una guida saggia e premurosa, la stessa sperimentata da me e da Cristina, mia moglie. Al suo pronto “sì” aggiunge un candido: “Non sono preparato” e parte immediatamente per un corso di formazione in consu-lenza familiare. Uno schiaffo alla presunzione, mia intanto, di chi pensa di essere già arrivato. Gli sono grato anche per questo. E lo sono quanti, operatori e utenti, sono rimasti edificati dalla sua presenza e dal suo servizio. I fidanzati per primi ai quali insegna a “ben litigare” e a intravedere nella loro storia d’amore un segno dell’Amore più grande che ha inondato questo mondo.

E ti cattura. Perché è stato catturato. “Un peccatore ostinatamente amato da Dio Padre”, dirà nel suo testamento. Tale è in ogni sua attività. E tu cerchi di carpire il segreto del suo cuore quando ti forma durante i campi scuola cosi come ti affanni a scoprire le sue strategie di gio-co nelle spassosissime partite a carte. Un autentico uomo di Dio. Affamato della Sua Parola e assetato del Suo Spirito E pensare che quando si vuole punire Pierino Arcieri gli si commina la pena di una settimana di esercizi spirituali. Come punire il figlio goloso obbligandolo ad una scorpacciata di nutella.

Uomo di Dio ma anche uomo di Chiesa e per la Chiesa. La considera vera sposa di Cristo e poi gli ha donato la gioia del Battesimo e del Sacerdozio per questo raramente è duro nei suoi confronti. E ne avrebbe di motivi! Piuttosto si compiace come quando analizziamo centinaia di documenti e pronunciamenti del Magistero sul tema della fame del mondo e scriviamo a quattro mani il libro per Mani Tese “La fame interpella l’uomo”. È il 1982, lavoriamo d’estate tra frizzi e lazzi, com’è nostro costume e non manchiamo di notare che la parola della Chiesa è viva, profetica, reboante ma ahinoi spesso inascoltata. Un sospiro, l’ennesimo e via. Siamo servi, per giunta inutili. Continuiamo a servire.

E lui, Servo per Amore finalmente ti libera. Dalla banalità, dai tuoi legacci, dai tuoi limiti per avvinghiarti ad un Amore più grande di cui sei chiamato ad essere segno significativo. L’ultima, estrema liberazione l’ha compiuta, o almeno ha tentato di compierla, negli ultimi giorni della sua luminosa vita: “Non siate tristi, mi ricongiungo finalmente al Padre. Mi attende la pienezza della Vita”.

Mi accoglie con un sorriso, non più fragoroso questa volta, appena accennato ma altrettanto sincero, ricco di fraterna amicizia e accompagnato da una flebile voce che ripete il mio nome. Molto ha inteso dirmi in quel momento. Io ho risposto con il mio silenzio trattenendo a stento le lacrime che poi sono fluite copiose.

Pierino, hai dato un senso alla mia vita . Rendo grazie a Dio per essersi manifestato tuo tramite Ho goduto del tuo amore. Proverò a mantenerti in vita come “uomo ostinatamente amato da Dio Padre, gioioso fratello di sangue in Gesù Cristo, presbitero obbediente, ca-sto, audace, pervaso dallo Spirito, dono debordante di sé alle comunità affidategli, amico franco, generoso e riconciliante, instancabile operatore di pace e di giustizia, guida illuminata e sicura, sublime cantore del Signore della vita, premuroso compa-gno di strada dei poveri, conforto e speranza per i sofferenti, testimone del Risorto, credente credibile”1 .

Luigi De Pinto

1 Dallo Statuto dell’Ass. Onlus “Don Pierino Arcieri, Servo per Amore”, sorta in Bisceglie, il 7 aprile 2008.

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Don Pierino ArcieriTestamento spirituale

Oggi 23 luglio 2007, memoria di Santa Brigida, pa-trona d’Europa, dopo aver celebrato la liturgia delle ore, alla presenza di Dio Padre, Figlio e Spirito Santo, sento vivo il desiderio della gratitudine per il dono del Battesimo e del Presbiterato.

Ho la piena consapevolezza di aver servito il Signore e la Chiesa da peccatore, ostinata-mente amato da Dio Padre.

Tutto quanto ho potuto vivere quotidiana-mente è stato un grande dono.

La Chiesa locale mi ha donato la gioia della fraternità sacerdotale e la gioia per l’accoglien-za riservatami dalle comunità parrocchiali.

Non nascondo che spesso ho incontrato sofferenza e incomprensione. Il servizio della Parola che il Signore mi ha concesso mi ha fatto crescere nella conoscenza,

nell’amore e nell’adesione stabile a Lui.Spigolosità e mancanza di umiltà sono stati i miei limiti naturali che sono diventati le feritoie

attraverso le quali Dio Padre col dono del suo Amore fedele e misericordioso è entrato per ri-conciliarmi.

I miei peccati sono davanti a me insieme al volto misericordioso di Dio. Ho causato sofferen-za ai miei vescovi e ai miei confratelli specie nei primi anni di sacerdozio. Li riconosco tutti, ne sento la responsabilità e benedico il Signore perché nel dialogo franco è stata sempre vincente la riconciliazione e il perdono.

Il mio cammino di conversione, pur tra tante soste, mi ha condotto ad avere lo sguardo fisso su Gesù. La sofferenza fisica, accolta con serenità, mi ha portato ad offrirmi al Signore per una disponibilità a servire la sua Chiesa in modo incondizionato.

Dal giorno in cui mi è stato diagnosticato l’epatocarcinoma, la mia fede non è vacillata, con-sapevole che le sofferenze sono ben poca cosa di fronte alla speranza e alla pienezza della vita che mi attende, in virtù della caparra dello Spirito che Dio Padre mi ha donato col Battesimo.

La meditazione del compimento della mia vita ha prevalso sulle banalità e mi ha concesso di essenzializzare il tutto nel TUTTO di Dio, unico Bene.

Ho chiesto al Signore di farmi da cireneo ogni volta che le prove della chemio mi debilitavano. È allora che ho sperimentato la gioia nella prova perché la comunione col Signore mi portava ad affermare che quelle prove erano del Signore e che Lui in me le portava si di sé.

La Parola di Paolo: “sia che viviamo, sia che moriamo siamo del Signore” ha dimorato in me.

La celebrazione eucaristica quotidiana l’ho vissuta, col passare degli anni, quale dono d’Amore capace di plasmare la vita celibataria del Presbitero.

“Fate questo in memoria di me” si è illuminato di giorno in giorno fino al dono totale di sé.

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La gioia di sperimentare la potenza dello Spirito che trasforma il Pane e il Vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo, quella stessa potenza trasformava anche me nel corpo di Cristo consegnato ai fratelli con tutta la mia limitatezza.

Ho testimoniato la bellezza del presbiterato nella via dei consigli evangelici.Obbedienza: consegna nelle mani di Dio di tutta la mia vita, dono Suo. Obbedienza alla mia

storia, ai miei Vescovi con tutte le difficoltà possibili. Obbedienza alla comunità: la presenza di Cri-sto in me si è rivelata con l’accoglienza di chiunque il Signore abbia messo sul mio cammino.

Cammino nella povertà: possibile solo attraverso l’essere misericordioso verso quei poveri che sono di Dio e che abitano le corsie degli ospedali e i quartieri della parrocchia.

Ritengo e voi tutti ne siete testimoni che non mi sono mai tirato indietro di fronte alle tante miserie e povertà. Ho prestato il mio servizio di animazione in “Mani tese”, nel Consultorio Familiare, nella Caritas, nel volontariato, nei Gruppi Famiglie … come ho potuto, con la consa-pevolezza dei miei limiti, lasciando a tutti il profumo dell’amore del Padre.

Chiedo perdono se spesso mi è venuto meno il sorriso nell’accoglienza. Cammino nella castità. Progressivamente il Signore mi è stato vicino, mi ha liberato dai peccati

di lussuria, concedendomi un cuore colmo del suo Spirito e del suo amore capace di generare amore all’intorno e dentro le attività di ministero.

La sequela di Gesù Buon Pastore, Sposo fedele della sua sposa, di Gesù servo e Signore mi ha fatto scoprire che Dio è l’origine e il fine della carità pastorale.

L’ AMORE è da Dio; il centro dell’Amore è in Dio e Solo da lui e per lui l’amore ha senso.La sponsalità nei confronti della Parola di Dio è stato il segreto di una vita donata.Canterò per sempre la bontà del Signore per la vita che mi è stata data dai miei genitori insieme

a quella dei miei fratelli e delle mie sorelle.Su questa mia vita nessuno ha mai assunto l’atteggiamento del possesso.Sono grato ad essi per la testimonianza di povertà e di essenzialità che ho custodito nel

cuore.Le cure materne della sorella amatissima Lucia che ha condiviso il mio cammino presbiterale

saranno ricompensate dal Signore. L’attenzione disinteressata dei miei fratelli Mimmo, Pino, Vincenzo e della sorella Maria, è stata la testimonianza più bella di una famiglia solidale.

Sono grato alla Chiesa che mi ha dato il Battesimo generandomi alla vita di Figlio di Dio.Sono grato a tutti gli educatori che hanno fatto discernimento sul mio ministero sacerdotale.Sono grato ai miei confratelli sacerdoti che hanno condiviso l’audacia di scelte pastorali. A loro

chiedo di perseverare nella fedeltà al Signore e nella fedeltà alla storia per la crescita spirituale del gregge del Signore.

Perdono di cuore a tutti, nessuno escluso, perché nel mio cuore scopro l’AMORE gratuito di Dio, grazie al quale è possibile la via del perdono e della pace.

E perdonatemi tutti voi, vescovi, confratelli e fedeli, perché solo la logica del dono gratuito ci consente di continuare a fare Eucaristia per il mondo.

Pietro Arcieri sacerdote

8

Dario De Fidio:la passione per l’uomo

Metter mano a scrivere di Dario De Fidio – sembra fuori posto a dirlo – per me è una gioia, è un onore, un pensiero per un amico sincero, una persona di forte livello morale, un professionista di alto spessore cul-turale, un docente serio e responsabile, uno sportivo appassionato e generoso e soprattutto un cattolico saldo nella fede che ha saputo fino all’ultimo vivere la sua malattia con le parole di San Paolo: “le soffe-renze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi” (Rm 8,18).

Dario De Fidio nato a Barletta il 9 luglio 1953, ultimo di quattro fratelli con cui è cresciuto sotto la guida vigile e attenta dei genitori che li hanno saldamente educati al senso della famiglia, dell’impegno, del dovere, all’amore verso la propria religione e al rispetto verso il prossimo, il primo febbraio 2008 ci ha dovuto lasciare dopo aver lottato con grande coraggio e tanta fede contro un male incurabile.

Psicologo di grande profilo professionale, psicoterapeuta ad orientamento analitico-transazio-nale, ha collaborato ed insegnato con il SIEB, con la FIS Roma, con l’Università di Urbino e molti altri Enti di formazione. Ha lavorato in ricerche e pubblicato assieme ai cattedratici proff. Puca e Banchieri. È stato autore con il prof. Cancheri delle versioni automatiche dei test di personalità Rorschach (Ver. Pralp3) e MMPI-2 (Ver. Panda). Nel 1984 ha pubblicato Problemi di comunicazione e terapia negli psicotici (CDP ed.) e nel 1988 Il Minnesota Multiphasic Personality Inventory (MMPI), un contributo descrittivo e interpretativo. Profondo conoscitore di testing, lavorava presso gli Istituti Ospedalieri “Don Uva” a Bisceglie. Ampio l’elenco dei documenti e dei testi pubblicati.

Presso il nostro Istituto, Dario De Fidio insegnava Psicologia e teneva il Seminario di Psicologia della Comunicazione; faceva parte della Commissione qualificazione docenti.

Svolgeva la libera professione presso il suo studio a Barletta e tutti i suoi pazienti lo hanno sempre qualificato un uomo disponibile e corretto, un professionista etico e preparato.

Con noi docenti di ogni tipo di scuola e soprattutto con qualche docente di Religione, Dario aveva spesso contatti diretti perché parecchi alunni approdavano al suo studio per problematiche che a noi insegnanti spesso sfuggivano e su cui Dario De Fidio ci esortava a riflettere, ad essere guida e sostegno degli alunni. Questa attenzione verso i giovani, verso la loro crescita serena, verso le loro problematiche nate dal disagio della cultura odierna, verso la difficoltà e la fragilità con cui essi affrontano le prime difficoltà della vita ha portato sempre Dario ad essere vicino agli adolescenti ed ai giovani aiutando tanti genitori a comprendere e ad aiutare i propri figli.

Questa sua vicinanza ai giovani era anche dovuta alla sua sconfinata passione per lo sport: Dario è stato un grande sportivo. Il calcio è stato il suo più grande amore coltivato nel Vivaio Primavera del San Benedetto del Tronto che lo ha portato ad essere un valente portiere negli anni ’70 delle nostre squadre locali (Andria, Bisceglie).

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La sua esperienza di vita e di lavoro, la sua capacità di comunicazione, la serenità del suo sguardo e del suo dire, la pacatezza del suo essere diventava punto di riferimento per quanti si rivolgevano a lui per una visita, per una terapia, per un consiglio, per un dialogo.

Lui, che ha aiutato tantissimi suoi pazienti a capire il senso della vita e a superare con i suoi consigli e le sue terapie i disagi, le sofferenze, gli accadimenti incomprensibili della vita, alla fine ha dovuto essere il terapeuta di se stesso.

Lo ho ascoltato nell’ultima passeggiata che ci è stata concessa di fare insieme tornando a Barlet-ta dal suo ultimo Collegio dei Docenti dell’ISSR di Trani nel mese di giugno scorso. Ha raccontato dei suoi molteplici impegni… tanti in itinere, alcuni da iniziare, altri da concludere, dei suoi studi e delle sue ricerche, delle sue aspirazioni future e poi si è fermato su questo… Futuro!

Alle mie domande senza parole mi ha risposto di aver preso tempo fino al mese del settembre seguente per dare risposte di conferma per gli impegni presi o da prendere. Dario stava aspet-tando che il tempo e le terapie intense a cui andava sottoponendosi dessero qualche risultato concreto, aspettava – mi aveva confidato – che le sue preghiere e l’affidamento che aveva riposto in Dio avessero un esito che gli potesse permettere di tener fede ai suoi impegni. Anche duran-te il Collegio dei Docenti da cui stavamo tornando, il Direttore don Mimmo Marrone gli aveva chiesto di entrare a far parte di qualche nuova Commissione del nostro Istituto e Dario aveva accettato pur con gli occhi bassi e il cuore rivolto verso il cielo. A chi, come me, lo ha conosciuto fin dall’infanzia, in quell’occasione non potevano sfuggire quegli occhi bassi velati di tristezza, di paura, di lacrime.

Il nostro Istituto ha perso, così, un docente serio e preparato, un grande sportivo (e chi ama lo sport ama la vita), un professionista che aveva ancora tanto da offrire attraverso i suoi studi e le sue ricerche, un uomo di grande fede che ha sperato fino alla fine pur nella consapevolezza che la sofferenza e la morte sono parte integrante della vita dell’uomo.

Mi piace concludere questo ricordo con le parole prese da sant’Agostino che la moglie Ales-sandra, i suoi figli ed i suoi fratelli hanno lasciato a noi tutti in memoria di Dario dietro l’ultima sua foto:

Perché dovrei essere fuoridai vostri pensieri e dalla vostra mente,

solo perché sono fuori dalla vostra vista?Non sono lontano, sono dall’altra parte,

proprio dietro l’angolo.Rassicuratevi, va tutto bene.

Il vostro sorriso è la mia pace.

Tina Doronzo

10 giugno 2008 - anno VIII

11giugno 2008 - anno VIII

12

“Una questione della Chiesae posta anche alla Chiesa”

di ANTONIO CIAULA*

I sessant’anni della Lettera collettiva dell’Episcopato meridionalesu I problemi del Mezzogiorno (15 gennaio 1948)

Editoriale

Il 25 gennaio 1948 i vescovi di Campania, Calabria, Puglia, Basilicata e Molise pubbli-cavano una lettera collettiva su «I problemi del Mezzogiorno» conosciuta e citata come Lettera collettiva dei vescovi del Mezzogiorno (o dell’Episcopato meridionale) su problemi del Mezzogiorno,1 sottoscritta da 72 vescovi dell’Italia meridionale continentale oltre che da due prelati e tre abati.

Il documento, riprendendo la “questione meridionale” posta tra Ottocento e Novecen-to, fu come “provocata” sia dal tema dalla XXI Settimana sociale dei Cattolici (settembre 1947) su “I problemi della terra e del lavoro nella dottrina della Chiesa” che dal fatto che l’evento si era svolto a Napoli.

I suoi sessant’anni non devono passare solo come una ricorrenza da ricordare e celebrare, ma devono, come per la coeva Carta Costitu-zionale italiana, essere occasione per una sua conoscenza più approfondita senza fermarsi alla notizia subito consumata e cancellata per

far spazio all’informazione successiva come, ormai, sempre più spesso accade nella società dell’immagine o dell’informazione.

Vanno anche ricordate le sue vicende di que-sti sessant’anni – mentre a gennaio 2008 è stata annunciata una Nota sul Mezzogiorno da parte della Conferenza Episcopale Italiana2 - magari soffermandosi sulle cadenza ventennale che ha visto il documento dell’Episcopato meridionale del 1968 e a quello dell’intera Conferenza Episcopale Italiana dal titolo Sviluppo nella so-lidarietà: Chiesa italiana e Mezzogiorno del 18 ottobre 1989 che suscitò una serie di iniziative anche con la ripubblicazione del documento del 1948.3 Con quest’ultimo documento in cui si sottolinea che il Mezzogiorno d’Italia “porta con sé la sua forte ricchezza umana e la sua freschezza di spirito” (n. 38) i vescovi “hanno inteso applicare alle concrete situazioni del-l’Italia i principi, i criteri e le direttive universali della Dottrina cristiana”.4 L’affermazione “Il paese non crescerà se non insieme” diventò

* Docente stabile di Sociologia, Comunicazioni Sociali e di Pastorale delle Comunicazioni Sociali - Istituto Supe-riore di Scienze Religiose San Nicola, il Pellegrino - Trani.

1 Enchiridion Cei, 4, Bologna 1991, p. 1409-1433.2 Cfr. Comunicato stampa finale dei lavori del Consiglio Permanente della Conferenza Episcopale Italiana tenutosi

a Roma dal 21 al 24 gennaio 2008, consultabile in www.chiesacattolica.it/cci_new/documenti_cei/2008-01/30-3/Comunicato %20finale%20gen08.doc.

3 Il testo fu ripubblicato in P. BORZOMATI - D. PIZZUTI - M. GIORDANO, La Chiesa e i problemi del Mezzogiorno 1948-1988, AVE, Roma 1988, p. 69-90.

4 Così Giovanni Paolo nel discorso al mondo del lavoro industriale ed agricolo della Basilicata presso gli stabi-limenti dell’Enichem di Pisticci scalo, sabato 27 aprile 1991, nel corso della sua visita pastorale in Basilicata.

14 giugno 2008 - anno VIIIEditoriale

una sorta di slogan del documento del 1989; da tale affermazione fu tratto il titolo del primo Convegno ecclesiale pugliese “Crescere insie-me in Puglia” tenutosi a Bari dal 29 aprile al 2 maggio 1993, esattamente quindici anni fa. Il convenire di tutte le Chiese di Puglia dopo un itinerario di riflessione delle diverse chiese diocesane impegnate nella “lettura pugliese” di quel documento avveniva a qualche giorno dalla morte di don Tonino Bello il 20 aprile 1993; definendolo “profeta coraggioso nel ministero e testimone forte della croce della grave malattia” mons. Settimio Todisco chiuse

l’intervento introduttivo al convegno con una preghiera “A Maria Vergine della sera”5 com-posta proprio da don Tonino e poi riportata come ricordo del Convegno ecclesiale. A don Tonino Bello e al suo meridionalismo è dedi-cato in questo numero il saggio del Direttore dell’Istituto don Mimmo Marrone.

Per mio conto (solo una fortunata coinci-denza?) pensando a questo editoriale che ho voluto dedicare alla Lettera collettiva del 1948 l’idea immediata è stata quella si seguire il pensiero di mons. Michele Mincuzzi,6 (che fu padre nell’episcopato di don Tonino Bello) le

Giovanni Paolo II richiama la “ricchezza” e la “freschezza” di cui parla il documento Cei per “far appello, per voi stessi e per coloro dai quali il vostro sviluppo in qualche misura dipende, qui ed in altre regioni d’Italia, in Europa e nel mondo. Nessuna parte dell’umanità è indipendente dalle altre. Anche quando le decisioni, ad esempio in campo agricolo, si prendono altrove, ben lontano magari da voi, esse finiscono per ricadere sulla vostra vita quotidiana. E pertanto è doveroso che non siate mai dimenticati. Si tratta di un vostro diritto!”. Il testo del discorso è reperibile su http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/speeches/1991/april/documents/hf_jp-ii_spe_19910427_mondo-lavoro_it.html. Giovanni Paolo II parlando ai sacerdoti della Calabria (nella Cappella del Seminario di Catanzaro - sabato, 6 ottobre 1984 durante la visita pastorale a quella Regione), si riferì alla Lettera collettiva del 1948, ponendo la “questione meridionale” come fatto che interpella tutta la comunità cristiana: “La Chiesa, infatti, con i suoi pastori, i suoi sacerdoti, con i religiosi e le religiose, con tutto il laicato che vive l’impegno cristiano nelle molteplici realtà della vita sociale, ha un compito fondamentale nella soluzione dei problemi che formano la “questione meridionale” e più specificamente la “questione calabrese” che non è solo questione economica. “Si tratta infatti - come leggiamo nella lettera collettiva dell’episcopato dell’Italia meridionale su “I problemi del Mezzogiorno”, lettera che, come è noto, è stata redatta nel 1948 da un illustre figlio di questa terra, alunno di questo seminario, il già arcivescovo di Reggio Calabria monsignor Antonio Lanza - si tratta, ripeto, di esigenze e di problemi non estranei alla vita dello spirito, i quali, pur sotto l’aspetto materiale, economico e sociale, nascondono esigenze più profonde e rivelano una più alta istanza: quella cioè di una religione più pura e di una giustizia più piena”.

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/speeches/1984/october/documents/hf_jp-ii_spe_19841006_sa-cer doti-calabria_it.html

5 S. TODISCO, Crescere insieme in Puglia, intervento introduttivo, 29 aprile 1993 in CONFERENZA EPISCOPALE PUGLIESE – ISTITUTO PASTORALE, Dalla Disgregazione alla Comunione. Nota pastorale e Atti del Primo Con-vegno Ecclesiale Crescere insieme in Puglia. Le Chiese di Puglia per una Comunità di uomini solidali. 29 aprile - 2 maggio 1993, a cura di Antonio Ciaula, Litopress Lombardo, Modugno 1994, p. 25-34.

6 Michele Mincuzzi, nato a Bari il 18 giugno 1913, fu ordinato sacerdote il 25 luglio 1936 da mons. Marcello Mimmi arcivescovo di Bari, di cui fu collaboratore per 15 anni. Nel 1938 conseguì la laurea in Sacra Teologia presso l’Università Gregoriana.

Fu Cappellano del lavoro al Porto di Bari e Delegato all’Apostolato del mare; assistente del Movimento Laureati di A.C. e delle Conferenze di San Vincenzo per gli studenti delle scuole medie; fondatore dell’Unione Operai Cattolici, primo Assistente diocesano e provinciale delle Acli baresi e delegato regionale dell’Onarmo - Opera Nazionale Assistenza Religiosa e Morale agli Operai. La Comunità Braccianti lo vide protagonista. Tra i vescovi pugliesi di riferimento per la sua formazione ed il suo impegno di giovane sacerdote ebbe mons. Monterisi e mons. Di Donna. Fece anche esperienza amministrativa in campo assistenziale anche come Presidente del-l’Ospedale Fallacara a Triggiano (all’epoca gestito dall’Onarmo) e, successivamente, dell’Ospedale Di Venere di Bari-Carbonara.

Nella diocesi di Bari fu prima Pro Vicario Generale e poi Vicario Generale. A Bari fu animatore del settimanale cattolico Tempi nostri su cui scriveva gli editoriali quasi sempre con pseudonimi. Eletto alla Chiesa titolare di Sinnipsa il 19 luglio 1966 e il 2 ottobre 1966 fu consacrato vescovo nella Cattedrale di Bari da mons. Enrico Nicodemo, arcivescovo di Bari, di cui fu ausiliare. Fu trasferito alla diocesi di Ugento - S. Maria di Leuca il

15Editorialegiugno 2008 - anno VIII

cui “dimensioni profonde del ministero” sono state appena enunciate e mai ancora approfon-dite e fatte conoscere. Un’antologia dei suoi scritti, discorsi, interventi, con introduzione di Italo Mancini, è stata raccolta nel 1986 a cura di Ettore Bambi con il significativo titolo “Parla al mio popolo”.7

Appassionato della tematica meridionale sotto i vari aspetti dal teologico - pastorale all’antropologico, mons. Mincuzzi parla della Lettera collettiva del 1948 inserendola nel tema più ampio del rapporto tra Comunità ecclesiali e Mezzogiorno d’Italia.8 Prima dà “uno sguar-do al passato” e si sofferma sulla pastoralità meridionale di mons. Monterisi9 e sul meridio-nalismo di don Sturzo, concludendo che

“Il suo meridionalismo pastorale (di mons. Nicola Monterisi, ndr) come azione tipica, specifica della Chiesa per il Mezzogiorno fu una voce isolata. Bisogna attendere il 1948, data della Lettera collettiva dell’Epi-scopato meridionale”.10

Inoltre, su Monterisi e Sturzo mons. Min-

cuzzi afferma che

“Essi hanno intuito che la questione me-ridionale è questione della Chiesa e posta anche alla Chiesa; ma dovevano fare i

conti con una Chiesa di molto anteriore al Concilio Vaticano II”. 11

Subito dopo mons. Mincuzzi parla della lettera dell’episcopato meridionale (1948):

“I vescovi meridionali in apertura della Lettera affermano il carattere pastorale del loro intervento, che pur riguarda par-ticolari problemi soprattutto di carattere economico e sociale. Particolarmente in-teressante una affermazione che collega il progresso con lo spirito evangelico: «La giustizia umana, nella sua attuazione, non è statica. La legge e la perfezione dell’uma-nità “è nel suo ininterrotto progredire, nel suo continuo rinnovarsi, nella sempre più completa e profonda “livietazione” dei valori umani da parte dello spirito evan-gelico. E ciò è vero, non solo per i singoli, ma anche, ed in maniera particolare, per la società, per le sue strutture e le sue forme di esistenza». Più sorprendente è l’affermazione della indipendenza fra il tipo di religiosità meridionale e le condi-zioni di vita arretrata delle popolazioni. Riassumo: il sottotitolo del paragrafo è eloquente: Religio munda et immaculata. Al doveroso riconoscimento alla fedeltà religiosa meridionale segue l’analisi della religiosità descritta come “sentimento e tradizione orientata assai spesso verso l’esclusiva o prevalente ricerca dei beni materiali e intristita non di rado da forme parassitarie e superstiziose». Ricordato

12 ottobre 1974 ove operò fino al 27 gennaio 1981 quando fu promosso arcivescovo metropolita di Lecce. Divenuto emerito il 29 gennaio 1989, visse a Bari ove morì il 3 giugno 1997. È sepolto nella cripta del Duomo di Lecce ove fu traslato.

È stato il consacrante di don Tonino Bello al quale fu anche legato da profonda amicizia. Alcuni suoi scritti, oltre quelli episcopali recuperabili nei Bollettini Diocesani delle diocesi in cui è stato, sono Il cappellano del lavoro, Roma, 1954; Parla al mio popolo, Lecce 1986; Servi di tutti, schiavi di nessuno, Cavallino di Lecce 1989; Sogni sulla catechesi di un Vescovo a riposo, Bari 1992; Scommesse pastorali, Bari 1994.

7 M. MINCUZZI, Parla al mio popolo, introduzione di Italo Mancini, Edizioni Rosso di sera – Lecce, 1986. Le dieci sezioni in cui si articola il volume sono curate da Ettore Bambi, Fulvio De Giorgi, Sandro Rotino, Reno Sacquegna e Marcello Semeraro.

8 M. MINCUZZI, Comunità ecclesiali e Mezzogiorno d’Italia, in M. MINCUZZI, “Parla al mio popolo”, cit., p. 51-66. Si tratta del testo di una relazione tenuta il 30 dicembre 1966 alla Settimana di studi teologico - pastorali tenutasi a Cassano delle Murge presso l’ ”Oasi Santa Maria”dal 27 al 30 dicembre 1966 e pubblicata in AA.VV, I ministeri nella vita della Chiesa, Ecumenica Editrice, Bari, 1977.

9 Di Monterisi, Mincuzzi afferma “la sua pastoralità può definirsi meridionale: una pastorale che nasce dall’in-terno della storia del popolo meridionale. Il fondamento della sua pastoralità è il concreto giudizio storico, il riferimento delle esigenze della Chiesa locale a situazioni precise”. E, più avanti dice “sono tentato di citare altre pagine di mons. Monterisi, ma devo fermarmi”. Ibid, p. 54.

10 Ibid., p. 55. 11 Ibid., p. 56.

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che la religione non si esaudisce nel culto, i vescovi con citazioni bibliche esortano a una purificazione della fede, dalla quale non può distinguersi l’amore ai fratelli. E proseguono: «Pertanto, venerati fratelli e figli dilettissimi, se noi misuriamo la vita religiosa delle nostre popolazioni alla stregua di questi principi, e sappiamo rico-noscere le non poche, né lievi difficoltà e resistenze che l’attuazione delle norme di giustizia incontra nel Mezzogiorno d’Italia, dobbiamo con amarezza concludere che non di rado ci muoviamo in un mondo cristiano solo d’appartenenza, il quale ci impegna ad un lavoro e ad un apostolato che gli ridia la sua anima ed il suo pieno si-gnificato. Non possiamo, infatti, rimanere indifferenti o inerti di fronte alla persisten-te miseria di alcune classi del popolo...». E sono richiamati di seguito i problemi del mondo agricolo.In filigrana è leggibile il nesso fra evange-lizzazione, intesa piuttosto come Chiesa evangelizzata, Chiesa fedele al Vangelo e promozione umana. Più che i problemi trattati, che nel 1948 erano prevalente-mente quelli agricoli, la Lettera oggi si rivela anticipatrice della pastorale che si sviluppa sul filo della coerenza tra fede e vita, del rapporto fede e storia, fede e politica, fede e promozione umana. Non si parla di comunità ecclesiali, che è una espressione non corrente al tempo; ma l’appello è rivolto alla Chiesa nel Mezzo-giorno e la denunzia della grave situazione di ingiustizia è severa, di stile profetico, diciamo oggi; è un esercizio della coscienza critica della Chiesa nel mondo meridio-nale. Certo, rileggendo la Lettera con la sensibilità ecclesiale di oggi rileveremo che, pur chiaramente emergendo una sincera preoccupazione per i bisogni reli-giosi e sociali delle popolazioni meridio-nali, manca una messa in questione della Chiesa stessa nella realtà meridionale, per cominciare da se stessa un’autentica opera di rinnovamento. È, comunque, una tappa alla quale seguiranno altre, raggiunte con lentezza, con notevoli interruzioni, senza collegamenti.”12

Seguendo ancora mons. Mincuzzi nella cadenza ventennale, così illustra Il documento dell’Episcopato meridionale (1968) pubblicato nel XX anniversario dalla pubblicazione della Lettera collettiva del 1948, di cui lo stesso

Mincuzzi si fa promotore all’interno della Cei. Così lui riferisce:

“Un documento di particolare importan-za per la sua autorità è quello redatto dall’Episcopato meridionale e presentato all’assemblea generale della CEI nell’apri-le 1969. Vi detti l’avvio, ricordando nel gruppo di studio che riuniva i vescovi per zone geografiche (nord, centro, sud) che eravamo nel XX anno della pubblicazione della Lettera collettiva del’48 e chieden-do che almeno l’Episcopato meridionale riprendesse il tema di fondo. In un tempo molto limitato tre vescovi furono incari-cati di provvedere alla stesura di un breve intervento da leggersi nell’assemblea. In sostanza l’intervento affermava la cor-responsabilità delle Chiese del Sud nella questione meridionale. Fatto l’indice dei problemi tutt’ora gravi e insoluti, il docu-mento affermava pesanti condizionamen-ti». Si rilevava inoltre il coinvolgimento dei pastori, giacchè la pastorale «essendo essenzialmente evangelizzazione dei poveri, ne risultava seriamente condizio-nata». Si voleva alludere alla confusione di responsabilità nel’opinione popolare fra Chiese e D.C. Notevole era l’appello rivolto ai «rurali, agli artigiani, ai lavora-tori delle fabbriche, ai padri di famiglia perché si facciano protagonisti della loro rinascita». Seguiva un appello ai sacerdoti che in alcune zone del Mezzogiorno condi-vidono situazioni di povertà. Concludeva il documento una esortazione ai sacerdoti a rendere credibile la loro attività pastorale con la testimonianza della povertà.«È certo - cito il documento - che molto i sacerdoti possono per sostenere le loro popolazioni nel cammino verso un più giusto e integrale sviluppo con la forza della Pasqua cristiana che è riscatto anche da ogni servitù umana e accesso ad un umanesimo plenario».Il documento ha molti limiti. Fu quasi improvvisato. Fu letto dal vescovo di Aversa, riscuotendo un caldo applauso di consenso. Il Card. Urbani, presidente, nelle sue conclusioni chiese all’Assemblea se intendeva far proprio il documento. L’Assemblea approvò all’unanimità. Tutto sommato, era una provocazione. Questa fu accolta, ma non produsse effetti. Era, però desiderio del gruppo meridionale dei vescovi di incontrarsi per seguire la situa-zione di grave disagio del Mezzogiorno e adeguare l’attività pastorale per un forte impulso di condivisione. Il desiderio è tut-tora nell’olimpo dei buoni propositi”.13

12 Ibid., p. 56-57.13 Ibid., p. 58-59.

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Tra le tante iniziative in ordine sparso mons. Mincuzzi ricorda l’assemblea dei Gesuiti dell’Italia meridionale (Napoli, 29 aprile – 1 maggio 1973); il convegno pastorale promosso dalla Conferenza Episcopale Salernitano - Luca-na (Montesano, settembre 1975); una mezza giornata dedicata dalla Conferenza Episcopale Pugliese nel 1971; la lettera pastorale dell’arci-vescovo di Potenza mons. Sorrentino nel 1973 nel XXV di quella del 1948 e il coraggioso Seminario Caritas del 1974 su il Mezzogiorno e la comunione tra le Chiese in Italia definito “senza peli sulla lingua”.14

Particolarmente indicative su alcuni modi di affrontare la questione meridionale (ed allo stesso tempo della franchezza genuina di mons. Mincuzzi) sono le parole con cui egli riferisce di un’altra iniziativa:

“È da menzionare il recente convegno di Palmi, promosso da «Monitor Ecclesia-sticus» e sostenuto dalla passione me-ridionalistica di Mons. Fiorenzo Romita, della Congregazione per il Clero. Ho letto appena una relazione e ho il vago sospetto che tutto il convegno si sia svolto nel ven-to delle rivendicazione, dell’apologetica, dell’ottimismo. D’accordo, il pessimismo scoraggia e blocca, ma l’ottimismo illude e non fa compiere passi in avanti. Anche

la santità è degli scontenti, purché non in misura patologica”.15

“Il problema del Mezzogiorno è problema di promozione umana” afferma mons. Mincuzzi che, oltre a “proposte di mediazione culturale tra Vangelo e promozione umana”, in altra occasione parla di “un forum per l’amicizia Nord – Sud tra territori e Chiese”.16

Diversi i filoni indicati da mons. Mincuzzi che sono da approfondire come, ad esempio quello riguardante la figura e gli interventi di mons. Nicodemo di cui qui si accenna solo alle relazioni da lui tenute all’Assemblea Generale dell’Azione Cattolica Italiana nel 1955 su I problemi spiri-tuali del Mezzogiorno17 e al Convegno degli Assistenti delle Acli del 1957 su L’industrializ-zazione del Mezzogiorno nei suoi riflessi umani e pastorali. Ambedue i documenti, insieme all’Atto costitutivo e lo Statuto della Charitas Socialis (Molfetta, 29 ottobre 1952, in cui si fanno espliciti riferimenti alla Lettera del 1948) e al Documento dei Vescovi del Mezzogiorno del 1969 sono stati pubblicati da Francesco Sportelli in Appendice ad un suo articolato saggio su Istituzioni collegiali dei vescovi e Mezzogiorno d’Italia nel secondo dopoguerra18 al quale si rimanda anche per alcuni particolari a cui

14 Ibid., p. 60-61.15 Ibid., p. 61.16 M. MINCUZZI, Le Chiese italiane e i problemi del Mezzogiorno, relazione tenuta al Convegno Nazionale della Pastorale

Sociale e del lavoro, Frascati 15-18 settembre 1982, in M. MINCUZZI, “Parla al mio popolo”, cit., p. 67-79. 17 E. NICODEMO, I problemi spirituali del Mezzogiorno, in E. NICODEMO, Problemi d’oggi, Bari 1963, p. 7- 32. Molto

interessante la scaletta della relazione in cui mons. Nicodemo definisce gli “aspetti nevralgici della complessa situazione spirituale del Mezzogiorno” secondo l’espressione da lui usata nella parte finale della relazione: a) Carenza di idee; b) Frequente conseguente mancanza di basi; c) Risveglio del senso civico e radicali trasforma-zioni in atto; d) Penosa scarsezza di vocazioni ecclesiastiche; e) Rincrudimento della propaganda protestante; f) Disorientamento in campo politico. Mons. Nicodemo, pur Sacrae Theologiae Doctor, argomenta anche con dati quantitativi; ad esempio, al paragrafo c) Risveglio del senso civico e radicali trasformazioni in atto compara i dati di “alcune diocesi della bassa Italia con altre di quasi uguale popolazione dell’alta Italia” per i dati riguardanti numero di oratori, asili, sale cinematografiche, rivendite Buona stampa; campi sportivi; biblioteche; tesserati A. C. Le diocesi del sud sono Bari, Benevento, Palermo, Reggio Calabria, Mileto rispettivamente comparate con Treviso, Vittorio Veneto, Genova, Vercelli, Cremona. Per le stesse diocesi, al paragrafo successivo riguardanti le vocazioni compara il numero dei cattolici, delle parrocchie dei sacerdoti diocesani e religiosi, dei seminaristi e delle religiose. Questi passaggi mi hanno sempre affascinato e devo dire che sono alla base anche di alcune mie scelte e di interessi di studio di tipo sociale e statistico anche dopo una “consegna” da lui datami.

18 F. SPORTELLI, Istituzioni collegiali dei vescovi e Mezzogiorno d’Italia nel secondo dopoguerra, in Odegitria, Annali dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose “Odegitria” di Bari, IV-1997, Ecumenica Editrice, p. 197 - 208. Al saggio segue un’Appendice in cui l’autore ripubblica i seguenti documenti: 1. Charitas Socialis. Comitato per l’assistenza delle zone depresse della Puglia e Lucania. Atto Costitutivo, Ibid., 209-210; Statuto , Ibid., 211-212;

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mons. Mincuzzi accenna e. magari, non poteva maggiormente esplicitare perché protagonista. Interessante anche un passaggio sull’incidenza della Lettera del 1948 in Italia.19

La storia più recente riguarda quanto legato al già citato documento Cei del 1989 Sviluppo nella solidarietà: Chiesa italiana e Mezzogior-no che suscitò diverse iniziative e seminari di studio. Tra queste si ricordano, oltre al Primo Convegno Ecclesiale delle Chiese di Puglia del 1993, il seminario di studio tenutosi a Potenza dal 25 al 27 aprile 1990.20 Nello stesso filone rientra l’iniziativa dell’Istituto Teologico Calabro di Catanzaro che aveva tenuto un convegno a Catanzaro, nell’ambito della Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale che voleva essere “il con-tributo dei credenti alla speranza del Sud”.21

Particolare rilievo assume l’iniziativa or-ganica della Pontificia Facoltà Teologica di Napoli che ha promosso un proprio progetto di ricerca, coordinato da Ciro Sarnataro, in collaborazione con il Servizio nazionale Cei per il progetto culturale, sul tema L’identità

meridionale, che viene elaborato nell’anno accademico 1999-2000, avviato concretamen-te nell’anno successivo e concluso nel marzo 2002 con un convegno di carattere nazionale tenutosi a Napoli. Il progetto che si è voluto caratterizzare per un approccio scientifico multidisciplinare al tema, è stato articolato in quattro itinerari di ricerca rispettivamente per i profili storici, sociologici, filosofici e teologici. Al progetto di ricerca sono stati invitati a dare il proprio contributo scientifico non solo i mem-bri della comunità accademica della Facoltà teologica, ma anche docenti delle Università civili e studiosi di altre istituzioni qualificate scientificamente. Le conclusioni del progetto di ricerca sono state racchiuse in cinque volumi curati dai rispettivi coordinatori scientifici di area.22 Prendendo spunto dall’uscita in libreria di tali volumi, la Facoltà Teologica di Napoli, con il patrocinio della CEI, ha promosso agli inizi del 2007 i Colloqui sull’identità meridionale che si sono tenuti a Milano presso l’Univer-sità Cattolica,23 a Bologna presso il Palazzo arcivescovile24 e a Roma presso l’Istituto della

2. E. NICODEMO, I problemi spirituali del Mezzogiorno, Relazione all’Assemblea Generale dell’Azione Cattolica Italiana, Napoli 12 novembre 1955, Ibid. 213 - 227; 3. E. NICODEMO, L’industrializzazione del Mezzogiorno nei suoi riflessi umani e pastorali, Convegno degli Assistenti delle Acli, Roma 22 settembre 1957, Ibid. 227 - 242; 4. Documento dei Vescovi del Mezzogiorno all’Assemblea della CEI del 14-19 aprile 1969, Ibid. 243 – 247.

19 F. SPORTELLI, Istituzioni collegiali dei vescovi e Mezzogiorno d’Italia nel secondo dopoguerra, cit., nota 8.20 Si veda, in particolare, la relazione del prof. Cosimo Damiano Fonseca che fa un’excursus dal 1948 al 1989; Cfr.

C.D. FONSECA, Chiesa e società nel Mezzogiorno durante gli ultimi decenni (1948-1989), in “Chiesa e Mezzogior-no”, Atti del Seminario di studio, Potenza 25-27 aprile 1990, Roma, Edizioni Dehoniane, 1990, pp. 31-48.

21 FACOLTÀ TEOLOGICA DELL’ITALIA MERIDIONALE - ISTITUTO TEOLOGICO CALABRO DI CATANZARO, Per un discernimento teologico - pastorale dell’ethos meridionale, Atti del Convegno, Catanzaro, 12 – 14 marzo 1988, “Vivarium”, Rivista di scienze teologiche, volume VI (ns), n. 2, anno 1998.

22 Questi i volumi pubblicati: G. DI GENNARO e D. PIZZUTI (a cura), L’identità meridionale. Percorsi di riflessione socio-logica, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2002 (Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, Library, 2); P. GIUSTINIANI e S. MURATORE (a cura), L’identità meridionale. Percorsi di riflessione filosofica, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2003 (Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, Library, 3); A. STAGLIANÒ (a cura), L’identità meridionale. Percorsi di riflessione teologica, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2004 (Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, Library, 4); F. SPORTELLI (a cura), L’identità me-ridionale. Percorsi di riflessione storica, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2005 (Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, Library, 1); C. SARNATARO (a cura), L’identità meridionale. Percorsi di riflessione multidisciplinare, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2005 (Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, Library, 5).

23 Al Colloquio del 23 gennaio 2007 sono intervenuti Lorenzo Ornaghi, Luigi Pizzolato, Giancarlo Andenna, Gianni Ambrosio, Virgilio Melchiorre, Cosimo Damiano Fonseca, Ciro Sarnataro.

24 Al Colloquio del 25 gennaio 2007 sono intervenuti Maurizio Tagliaferri, Evandro Minardi, Giorgio Sgubbi, Stefano Martelli, Cosimo Damiano Fonseca, Ciro Sarnataro.

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Enciclopedia Italiana Treccani.25 Con l’iniziati-va dei Colloqui la Facoltà Teologica di Napoli “ha voluto socializzare i risultati delle proprie ricerche sulle identità meridionali, spingendo a guardare da Milano, da Bologna e da Roma il Mezzogiorno per farsi sorprendere dalla ric-chezza plurale del Sud italiano che, con fiducia, vuole commisurarsi con il futuro”.

Sul piano della quotidianità ma anche dell’autorevolezza va ricordato l’intervento del cardinale Crescenzio Sepe, arcivescovo di Napoli, durante la Giornata del Mezzogiorno tenutasi a Napoli l’11 giugno 2007 organizzata dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Que-sti alcuni passi che, insieme all’approfondimen-to scientifico della Facoltà Teologica di Napoli, rappresentano una sorta di status quaestionis in questo sessantennio, in attesa della Nota annunciata da parte della CEI:

“La competizione globale induce il nostro Paese a valorizzare tutte le energie e po-tenzialità di cui dispone dal Nord al Sud, così che la questione meridionale, a poco meno di sessanta anni dall’inizio dell’inter-vento straordinario per il Mezzogiorno, è tornata ad essere oggetto di riflessione.D’altronde liquidare la questione meridio-nale come questione retorica o lasciarsi prendere da atteggiamenti di scetticismo o di rinuncia sarebbe, come ha giustamente affermato il nostro Presidente, Giorgio Napolitano, “una assurda distorsione e una fuga dalle responsabilità”. (Intervento del Presidente della Repubblica Giorgio Napo-litano alla Fiera del Levante, Bari, 14 settembre 2006)La questione meridionale rimane una questione aperta che va affrontata con il coraggio della verità, perché solo la verità libera da ogni distorsione. Se il Meridione è ancora oppresso da una serie di fattori che impediscono il libero sviluppo di tutte le sue potenzialità, la sua principale debo-lezza consiste nella mancanza di verità. Un uomo di Chiesa non ha certo soluzioni economiche da proporre per risolvere i problemi strutturali di un mancato svilup-

po che politici e economisti, sociologi e giuristi hanno analizzato e affrontato con ben altre competenze. Tuttavia è compito della Chiesa offrire il suo contributo di esperienza e di passione per la verità. Ri-tengo, dunque, che un primo passo verso la verità consiste nel liberarsi dai luoghi comuni che hanno contraddistinto il dibat-tito sulla questione meridionale. Spesso si è imputato al Mezzogiorno la mancanza di una concezione di svilup-po-progresso e la mancanza di spirito imprenditoriale, di un sapere volto alla produzione di beni e servizi. Inoltre, tesi contrapposte, che ugualmente hanno avu-to pretesa di veridicità, in quanto basate su dati reali, se da un lato hanno messo in evidenza diversi aspetti della questione meridionale degni di attenzione, dall’altro hanno delineato una visione contrad-dittoria della realtà meridionale che ha impedito di affrontare il problema nella sua verità. Una verità che pare nascondersi proprio nelle tante contraddizioni che caratterizzano il Mezzogiorno. Per arrivare al nocciolo della questione, e affrontarla nella sua verità, bisogna chie-dersi innanzitutto se è giusto continuare a parlare di questione meridionale come se il Mezzogiorno fosse un’area omogenea e non una realtà composita e differenziata sia in termini di contesti socio-culturali, sia riguardo ai rapporti di dipendenza econo-mica tra centro e periferia che caratteriz-zano le aree con sviluppo anomalo. Forse il problema è stato affrontato sempre in un’ottica deviante senza comprendere che esistono differenti meridioni. Sarebbe stato più veritiero parlare di questione napoletana, di questione calabrese, di questione pugliese o siciliana. Popolazioni diverse, con storie, filosofie di vita e tradizioni differenti non possono essere accomunate solo per essere state un tempo parte di un unico regno. Già nel 1989 i Vescovi italiani mettevano in guardia da questa miopia, sostenendo che “Appare più appropriato parlare di «Mezzogiorni», ossia di aree differenziate – talvolta all’interno delle stesse regioni – di sviluppo come di emarginazione”. (CEI, Chiesa italiana e Mezzogiorno: sviluppo nella solidarietà, Roma, 18-10-1989, n. 7)26

25 Al Colloquio del 6 febbraio 2007 sono intervenuti Francesco Paolo Casavola, Gianfranco Dioguardi, Andrea Milano, Francesco Bonini, Cosimo Damiano Fonseca, Ciro Sarnataro oltre che Giuseppe Reale e Gian Tommaso Scarascia Mugnozza.

26 www.webdiocesi.chiesacattolica.it/cci_new/documenti_diocesi/126/2007-06/11-193/GIORNATA_DEL_MEZ-ZOGIORNO.doc

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Il card. Sepe aggiunge che

“un secondo passo verso la verità consiste nell’avere il coraggio di riconoscere che la questione meridionale non è riducibile allo squilibrio economico tra Nord e Sud”. Lo sviluppo nel sud non solo è incompiu-to, ma è anche «distorto»”. (CEI, Chiesa italiana e Mezzogiorno: sviluppo nella soli-darietà, Roma, 18-10-1989, n. 10) Il disagio del Sud è aggravato, infatti, da una serie di meccanismi concatenati tra loro che non solo rischiano di diventare un circolo vizioso difficile da spezzare, ma stanno determinando un’ulteriore regressione del Mezzogiorno. Il suo essere stato più oggetto che soggetto del proprio sviluppo ha favorito una dipendenza verticale dalle istituzioni”.[..]Un terzo passo verso la verità consiste, allora, nel coraggio della denuncia per spezzare quel circolo vizioso di cui si diceva prima. Se compito della Chiesa è formare le coscienze, richiamando tutti gli uomini e tutto l’uomo alla verità evangelica e alle sue potenzialità etiche, è compito di tutti gli uomini e donne di buona volontà denunciare ogni forma di illegalità che confonde i diritti con i favori e, superando ogni atteggiamento di omertà, costringere le istituzioni alla trasparenza etica e alla riduzione di inutili costi. […]Un quarto passo ancora verso la verità, per rimuovere gli aspetti che impediscono lo

sviluppo del Sud, consiste nel liberarsi da una concezione di sviluppo che guarda a modelli lontani dalla nostra realtà. Proba-bilmente lo squilibrio tra Nord e Sud deriva anche dal fatto che si è sempre creduto di poter salvare il Meridione guardando al Nord, imponendo quindi una cultura economica, mai come oggi globalizzata, che mal si sposa con la filosofia della vita della nostra gente. I modelli di sviluppo e di organizzazione industriale imposti al Sud, e importati senza sufficiente attenzio-ne alle realtà locali, non solo non si sono integrati nei nostri modelli socio-culturali, ma hanno avuto un effetto di disgrega-zione del precedente tessuto economico, sociale e culturale proprio del Sud”. (CEI, Chiesa italiana e Mezzogiorno: sviluppo nella solidarietà, Roma, 18-10-1989, n. 10)[…]Infine, l’ultimo passo verso la verità consiste nell’abbandonare ogni forma di rassegnazione e di disfattismo e avere il coraggio non certo di rimuovere, cancel-lare o adeguare la nostra storia, ma di inventare nuovi percorsi e investire sul futuro aprendo il Meridione al nuovo che avanza”.27

L’annunciata Nota della Conferenza Episco-pale Italiana per questo sessantennio imporrà certamente di ritornare sull’argomento in questa rivista.

***

27 Ibid.

21Editorialegiugno 2008 - anno VIII

In questo numero

Salòs del 2008 presenta al suo interno una sorta di monografia sul cinema data dalla pubbli-cazione degli Atti del Convivio 2006 dal titolo “IO, IO, IO … e gli altri. C come cinema, cultura, comunicazione” ai quali si aggiungono, nella rubrica Percorsi di studio alcuni passi di un lavoro di tesi riguardanti Pio XI e il cinema e, nella rubrica Note, un ricordo di p. Nazareno Taddei la cui metodologia per la lettura dei media ed il loro uso, in particolare nella comunicazione religiosa e pastorale, è seguita nell’Istituto. La parte Convivium presenta un’articolata riflessione sul cinema e le sue implicanze pastorali. La presenza di mons. Cacucci nella rivista, Gran Cancelliere della Facoltà, che ha diretto, da esperto di cinema, la lettura del film di Alessandro Blasetti, è qui docu-mentata dal suo saggio, gentilmente concessoci, Per una teologia della comunicazione. Difficile, infatti, riportare su carta quanto è avvenuto prima, durante e dopo il film di Blasetti proiettato a Barletta nella Sala della comunità S. Antonio e letto sotto la guida di mons. Cacucci. Per tale motivo con le modalità di un “fuori testo” è pubblicata, per gentile concessione del CiSCS, una scheda del film con la lettura di p. Nazareno Taddei. A beneficio di quanti si affacciano a cono-scere le fasi della lettura di un film queste poche “fuori testo” è completata da un Breviario del cinelettore redatto e sperimentato da don Luigi Minerva.

Di rilievo la relazione del prof. mons. Dario Eduardo Viganò, presidente dell’Ente dello Spetta-colo, su Il cinema e i cattolici in Italia: l’esperienza dell’Ente dello Spettacolo, che sta conducendo l’Ente anche in modo professionalmente innovativo.

Non poteva mancare un intervento su Gesù nel cinema affidato al prof. sac. Vito Marotta, autore dell’omonimo volume.

Infine, gli interventi della tavola rotonda presentano uno spaccato della realtà dell’Arcidiocesi di Trani-Barletta-Bisceglie attraverso le Sale della comunità. Non mancano però riflessioni più organiche come quella del Direttore prof. mons. Domenico Marrone su Multimedialità e for-mazione teologica e quella del sottoscritto su L’operatore della cultura e della comunicazione. Percorsi formativi e inculturazione nel territorio.

Nutrita la rubrica Note dove alcuni saggi del prof. Paolo Farina testimoniano la presenza attiva dei docenti dell’Istituto anche fuori dello stesso.

Infine, nella rubrica Documenti, sono registrati due momenti della vita dell’Istituto: l’incontro culturale con l’Ambasciatore di Israele presso la Santa Sede, S.E. il dott. Ben-Hur Oded e la pro-lusione dell’anno accademico 2007-2008 tenuta dal cardinale Silvano Piovanelli su La figura e l’opera di don Lorenzo Milani.

Se dovessi sintetizzare in alcune immagini questo numero darei l’ipotetica copertina ai visi di don Milani, p. Taddei, mons. Mincuzzi e don Tonino tutti accomunati da un’unica passione per la Chiesa e per l’uomo. I primi due accomunati dalla passione educativa a partire dall’alfabetizzazione che in Taddei diventa necessità di aiutare a leggere il nuovo linguaggio dei media. Don Michele e don Tonino come pastori del Sud che indicano le piste da percorrere nella chiesa e nella società. Due persone del Nord dell’Italia e due persone del Sud. Quattro testimoni. (a. c.)

23

24

Per una teologia della comunicazione1

di FRANCESCO CACUCCI*

La Chiesa, durante il Concilio Ecumenico Vaticano II, ha inserito fra i suoi argomenti anche quello sugli strumenti della comunica-zione sociale.2

Il 4 dicembre 1963, nella cerimonia di chiu-sura della seconda sessione, Paolo VI promulgò solennemente il Decreto sugli strumenti della comunicazione sociale Inter mirifica.

L’Inter mirifica sintetizza un Magistero operante già da cinquant’anni addietro e manifesta, come caratteristica di fondo, la pastoralità.

Alcuni hanno parlato di «vuoto teologico» a proposito di questo documento, forse par-

* Arcivescovo metropolita di Bari-Bitonto, Gran Cancelliere della Facoltà Teologica Pugliese. Nato a Bari, sacerdote dal 1966 e vescovo dal 1987, è dal 1999 arcivescovo di Bari. Ha conseguito la Laurea in Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana in Roma e quella in Scienze Politiche presso l’Università degli Studi di Bari. In seguito all’approfondimento della teoria e metodologia della comunicazione presso il Centro dello Spettacolo e della Comunicazione Sociale di Roma, ha pubblicato Teologia dell’immagine: prospettive attuali, Roma, 1971; Il prete nel cinema italiano, Bari (Ecumenica) 1980. È stato condirettore del Seminario Arcivescovile di Bari, Direttore dell’Istituto di Cultura Cristiana di Bari e Vice Preside dell’Istituto di Teologia Ecumenico-Patristica Greco-Bizantina San Nicola in Bari. Ha insegnato Teologia Pastorale e Mezzi della Comunicazione Sociale presso il Pontificio Seminario Teologico Regionale di Molfetta. Tratto costante del suo impegno culturale è stato l’inse-gnamento della natura del fenomeno mass-mediale, insieme alla guida nella lettura del film. È stato Presidente della Commissione Episcopale per la Cultura e le Comunicazioni Sociali della Conferenza episcopale italiana. Dal 31 gennaio 2008 è Presidente della Conferenza Episcopale Pugliese.

1 Testo già pubblicato in Presenza Pastorale, 63, 1993, n.10, pp. 11-19. Gentilmente concesso dall’autore.2 Il primo intervento della Chiesa, in questo campo, risale ad un Decreto della Sacra Congregazione Concistoriale,

che datava al 10 dicembre 1912: cf E. BARAGLI, Cinema cattolico, Roma 1965, pag. 32.

tendo dalla convinzione che la «pastorale» sia legata a una visione «strumentalistica» e non affondi invece le sue radici nella teologia. Peraltro non mancano, nel decreto conciliare, gli elementi dottrinali propriamente detti.

Nell’Introduzione (n. 1) l’aspetto dogmati-co rientra in una teologia della creazione, che raggiunge nella costituzione Gaudium et spes l’espressione più compiuta.

Si tratta non tanto di giudicare le realtà ter-restri «sub specie peccati» quanto di scoprirle e di illuminarle «sub ratione fidei». Già aveva affermato Pio XII nell’Enciclica Miranda prorsus, del 1957, che la Chiesa fonda il diritto nativo di

L’Inter mirifica trent’anni dopo

26 Convivio 2006 giugno 2008 - anno VIII

usare direttamente gli strumenti della comuni-cazione sociale, che sono realtà terrestri, sulla natura del messaggio della salvezza eterna che è chiamata a comunicare a tutti gli uomini.

Ma la Chiesa ha anche il dovere di istruire sull’uso degli stessi strumenti, che esercitano un influsso potente sul modo di pensare degli uomini del nostro tempo.

Pio XII suffraga la necessità che la comu-nicazione debba attuarsi in ragione del bene morale, con il richiamare il significato della comunicazione che Dio fa di se stesso all’uomo, sul piano naturale, soprannaturale, di visione beatifica, cui anche la comunicazione tra gli uomini deve conformarsi.3

L’uomo non può, diversamente dal suo Creatore, nell’opera di perfezionamento spi-rituale dei propri simili, agire in modo diretto sull’animo umano, ma solo comunicare per mezzo di segni sensibili.

Le principali affermazioni teologico-morali della Miranda prorsus saranno riprese nel

Decreto Inter mirifica, che conferirà ad esse un’impronta pastorale, connettendole con il concetto di comunicazione e comunicazione attraverso l’immagine.

Gli strumenti della c. s. possono comunicare quelle dimensioni soprannaturali del mistero divino che l’uomo è incapace di scoprire e manifestare con le sole energie della sua per-sonalità. Si è affermato che, se «Cristo avesse scelto l’epoca presente per la sua opera di rivelazione e redenzione, Egli si sarebbe cer-tamente espresso anche con questi strumenti, dando al film lo stesso senso e la stessa strut-tura della parabola evangelica»4.

A distanza di 30 anni, il Decreto conciliare conserva la sua freschezza, non «corretto» né «migliorato» da altri documenti magisteriali. L’Inter mirifica ha trattato «dei principi dottrinali essenziali e delle direttive più generali», non subendo in tal modo l’usura del tempo, sotto il boom dell’innovazione tecnologica.

3 Punto centrale del documento papale, in tale direzione, sono i nn. 24-26, inspiegabilmente ignorati nella Istruzione pastorale Communio et progressio (1971): «Dio, essendo sommo bene, elargisce incessantemente i suoi doni agli uomini, oggetto di sua particolare sollecitudine ed amore; dei quali doni, alcuni sono per le anime (...), alle quali, prima di comunicarsi nella visione beatifica, Dio si unisce mediante la fede e la carità, che ‘si è riversata nei nostri cuori per lo Spirito Santo, che ci fu dato’ (Rom 5,5)» (Miranda prorsus, n. 24). «Inoltre, desideroso di ritrovare nell’uomo il riflesso della sua propria perfezione (Mt 5,48), Dio ha voluto farlo partecipe di questa divina liberalità e lo ha associato alla propria opera, facendolo messaggero, largitore e dispensatore di questi beni ai suoi fratelli e a tutta l’umanità. L’uomo, infatti, per esigenza della sua stessa natura, fin dal mattino della sua esistenza, prese a comunicare agli altri i suoi beni spirituali per mezzo di segni... (Perciò) tutti gli strumenti di comunicazione umana devono essere indirizzati all’eccelso fine di rendere l’uomo anche in questo campo quasi dispensatore di Dio» (ib., n. 25).

4 R. MAY, Le dimensioni culturali ed operative del cinema secondo il Decreto Inter mirifica, in «Il Decreto conciliare Inter mirifica nella dimensione teologica, sociologica ed operativa, Assisi 1965 (pro manuscripto).

Comunicazione / comunione

Fulcro e base di una specifica teologia dei mass media è il termine-concetto di comu-nicazione, sul quale poggiano specialmente questioni di teologia dogmatica.

La Communio et progressio, Istruzione pastorale applicativa dell’Inter mirifica, nel proporre alcuni elementi teologici, accenna ad una tesi socio-teologica sulla correlazione,

nel progetto di Dio, tra comunicazione e comunione.

Paolo VI aveva, qualche anno prima, sottoli-neato «l’ideale di passare dalla comunicazione alla comunione. Di fatto, con un uso giudizioso di questi nuovi mezzi di comunicazione, sia-mo invitati ad una comunione più profonda

27Convivio 2006 giugno 2008 - anno VIII

con tutti gli uomini, figli dello stesso Padre, e tutti fratelli. Diciamo “siamo invitati”: per-ché il processo non è automatico. Infatti il progresso tecnico non ci rende migliori; non comporta necessariamente, da se stesso, il progresso spirituale (...). Ognuno vede i rischi dell’impresa: sta a noi impossessarci di questi nuovi strumenti per ricavarne nuove possibilità di amore».5

Conviene riportare i tre passi più signifi-cativi:

«Secondo la fede cristiana quella comunità e comunione tra gli uomini che costituisce il fine ultimo di ogni comunicazione, trova la sua fonte e il suo modello esemplare nell’altissimo mistero dell’eterna unione trinitaria del Padre, del Figlio e dello Spiri-to Santo in una sola vita divina» (n. 8).

«Quando l’uomo, con la colpa propria, si ribella al suo Creatore, per il disordine che segue ad ogni trasgressione finisce in di-scordia con se stesso, quindi anche in risse esiziali con i propri fratelli e finalmente nell’interruzione di ogni comunicazione (cf Gen 4,1-16; 11,1-9). Ma nel suo amore verso gli uomini Dio non sopporta il loro rifiuto.Egli, infatti, concepì il disegno di dare cor-so alla storia della salvezza (cf Gen 3,15; 9,1-17; 12,1-3), stabilendo un dialogo con gli uomini e, venuto il tempo, comunicò ad essi se stesso (cf Ebr 1,1-12): “Il Verbo si fece carne” (Gv 1,14). Liberato il genere umano con la sua morte e resurrezione, Gesù Cristo, Figlio di Dio incarnato, Parola e insieme immagine del Dio invisibile (Col 1,15; 2Cor 4,4), ha partecipato a tutti gli uomini la verità e la vita stessa di Dio con raddoppiata abbondanza. Quale unico me-

«Comunicazione/comunione» è il leit motiv di numerosi passi della Communio et progressio.6

Un altro elemento consiste nell’indicare alcuni modelli divini, in cui la comunicazione/comunione si attua nel modo più compiuto e perfetto7. La prima parte dell’Istruzione si intitola: «Elementi dottrinali sui mass media nella visione cristiana».

Per una teologia della comunicazione

diatore tra il Padre e gli uomini, egli stesso consolida la pace e la comunione con Dio e rinsalda la fratellanza fra gli uomini (cf Ad gentes, n. 3). Da allora il più solido fondamento e il mo-dello supremo di unione tra gli uomini si trova in Dio, che si è fatto nostro fratello umano, e ha ordinato ai suoi discepoli di portare la buona novella a tutti gli uomini, in ogni dove e in ogni tempo (Mt 28,19)» (n. 10).

«Durante la sua dimora terrena Gesù Cristo si è mostrato quale comunicatone perfetto. Infatti, incarnandosi, assunse la natura di quelli che dovevano raccogliere il suo messag-gio, da lui espresso con le parole e con tutto il suo modo di vivere. Egli parlava pienamente inserito nel suo popolo; proclamava perciò a tutti, con fortezza e perseveranza, il messag-gio divino, ma adeguandosi al loro modo di parlare e alla loro mentalità, al loro stato e situazione. Istituendo l’Eucarestia, Gesù Cristo ci donò la più perfetta forma di comunione che potesse venir concessa agli uomini; vale a dire: la comunione tra Dio e l’uomo, e perciò anche il più intimo e perfetto legame tra gli uomini. Infine, Cristo ci ha comunicato il suo Spirito vivificante che è principio di comunità e di unità (cf Lumen Gentium, n. 29). Nella Chiesa, che è il Corpo mistico di Cristo e la nascosta pienezza del Cristo glorificato “egli abbraccia tutto” (Ef 1,23; 4,10)» (n. 11).

5 Discorso Voici le terme, dell’11 aprile 1969 (L’Osservatore Romano, 13 aprile 1969).6 Cf nn. 2, 6, 7, 8, 9, 11, 12.7 Cf E. BARAGLI, Verso una teologia dei mass media. Dall’Inter mirifica alla Communio et progressio, in «La Rivista del

Clero Italiano», 5 (1983), pagg. 450-542.

28 Convivio 2006 giugno 2008 - anno VIII

Ma Dio comunica all’uomo, quando si rivela, la sua presenza, che è insieme ma-nifestazione ed azione, a cui corrisponde nell’uomo la conoscenza e la partecipa-zione. Se poi intendiamo per linguaggio “uno strumento non specificato di comunicazione”8, si può affermare che il linguaggio, primo mo-mento della comunicazione tra Dio e l’uomo, si esprime nella trama della storia umana, in determinate modalità, con segni che non sono solamente parole ma fatti di rivelazione e avvenimenti storici.

Un’autentica teologia della comunica-zione deve ben considerare la distinzione tra l’aspetto ontologico (sul piano dell’es-sere) e quello linguistico. Questi due aspetti, spesso indebitamente confusi, orientano verso conclusioni artificiose e misticheggian-ti. Le tesi più disparate, e a volte contraddittorie, trovano la loro giustificazione nella Scrittura e nelle rielaborazioni dei Padri e dei Dottori.

La teologia della comunicazione porta a quella che potrebbe definirsi «la dimensione cosmica della comunicazione», il verificarsi cioè,

Aspetto ontologico e aspetto linguistico

nel fatto comunitario umano, dei criteri che stanno a base della comunicazione divina all’uomo. Attra-verso una strada fenomenologica e interpretativa è possibile risalire al mistero stesso di Dio, alla sua comunicazione-comunione trinitaria.

L’uomo contemporaneo, immerso in un mondo di comunicazione di ogni genere, trova la possibilità di incontrarsi col Comunicatore per eccellenza. Che se questa è la strada attraverso la quale arriva, egli vede subito la necessità di sconvolgere e rispettare, di distruggere e con-servare: dalla liturgia alla morale all’ascetica. La natura e la storia - sebbene secondo formalità diverse - sono il «linguaggio» attraverso cui Dio comunica: non si posso-no respingere o declassare, si devono solo «leggere». È questo un ambito essenziale per una retta teologia della comunicazione.

Il discorso ontologico è previo, ma indispen-sabile. Ovviamente non è l’unico; però è il primo che si può fare per non ripercorrere cammini già percorsi o per non camminare a vuoto. Poi verrà il discorso linguistico, epistemologico, perfino ermeneutico.

A mio parere, l’attività rivelatrice-comunica-trice di Dio si è manifestata storicamente, in modo dominante, attraverso l’immagine: dalla creazione che è una determinata imitazione, un riflesso dell’essere divino alla rivelazione personale storica codificata nella Scrittura del-l’Antico e del Nuovo Testamento, dove primario è il valore e la funzione delle immagini.

La stessa rivelazione totale si realizza nel Verbo Incarnato, Immagine perfetta del Padre, che por-terà l’uomo alla rivelazione finale o escatologica, meglio espressa col termine di «visione», quando l’immagine di Dio nell’uomo raggiungerà il suo grado più alto.

8 N. TADDEI, L’immagine, oggi, nella vita, Milano 1967, pag. 92.

La comunicazione tra Dio e l’uomo attraverso l’immagine

Ecco a quale livello si può formulare un tenta-tivo di teologia della comunicazione. L’immagine è un segno dominante con cui Dio ha rivelato o manifestato o comunicato la sua presenza all’uomo attraverso la storia dell’umanità.

La lettura della Communio et progressio deve essere illuminata da un passo della Costituzione Dogmatica sulla Divina Rivelazione, Dei Verbum, che chiarisce la comunicazione di Dio fatta all’uomo mediante la sua Immagine Perfetta realizzata nel Verbo Incarnato:

29Convivio 2006 giugno 2008 - anno VIII

«Egli, vedendo il quale si vede anche il Padre (cf Gv 14,9), col fatto stesso della sua presenza e con la manifestazione di sé, con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e spe-cialmente con la sua morte e la sua resurrezio-ne dai i morti, e infine con l’invio dello Spirito Santo, compie e completa la rivelazione e la corrobora con la testimonianza divina, che cioè Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte» (n. 4).

Cristo, è la Parola, l’Immagine attraverso cui Dio si esprime, è la perfetta manifestazio-ne, comunicazione, rivelazione di Dio. Il Dio nascosto del Vecchio Testamento consente di svelarsi.

I Vangeli riferiscono che, durante la sua vita, Cristo ha predicato la sua dottrina attraverso delle pa-role. Ma Gesù si è espresso in termini intuitivi ricchi di immagini e di parabole, secondo la concezione e la formulazione delle idee proprie del mondo orientale e semitico. Si è posto in «sintonia» con la gente della sua epoca.

Alcuni ritengono ancora che la vera spiri-tualità non possa esprimersi attraverso delle parole, delle espressioni verbali, confondendo tra ciò che è parola e ciò che è spirituale. Na-turalmente bisogna distinguere tra la Parola divina e la parola umana, perché la «materia-lità» della Parola confonde la «spiritualità» delle nostre parole; la visibilità del Verbo, la realtà dell’Immagine denuncia l’astrazione delle nostre parole.

Cristo ha comunicato, mediante il suo in-segnamento, ciò che ha visto del Padre e ha reso chiara, mediante la sua coscienza uma-na, una perfetta conoscenza umana di Dio9. La rivelazione che il Verbo Incarnato ha fatto di Dio non si attua solo mediante il suo insegnamento dottrinale, ma anche nei suoi atti, nei suoi miracoli, in tutta la sua vita. La funzione mediatrice di Cristo consiste nel restaurare l’immagine divina nell’uomo, intendendo l’immagine in prospettiva ontologica, sul piano dell’es-sere. La redenzione ci trasforma in questa immagine soprannaturale10.

Nettamente distinto è l’aspetto lingui-stico.

La Dei Verbum afferma che Dio ha parlato nelle Scritture “per homines more hominum” (n. 12), mutuando l’espressione da sant’Agostino11 ed ispirandosi alla formulazione di Giovanni Cri-sostomo, il quale, per sostenere il valore del senso letterale contro «l’allegoria» degli alessandrini, aveva sviluppato la teoria della sunkatabasis, ossia della condiscendenza12. Il numero 13 della Dei Verbum si chiude con un parallelo tra la parte umana della Bibbia e l’umanità del Verbo: «Le parole di Dio, infatti, espresse con lingue umane, si son fatte simili al parlare dell’uomo, come già il Verbo dell’Eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell’umana natura, si fece simile all’uomo» 13.

9 Cf SAN GIOVANNI EUDES, La vie et le royaume de Jésus dans le ames chrétiennes, II parte, § 4 (Oeuvres, t. I), Vaunes 1905, pag. 168.

10 Cf 2Cor 3,18; Rom 8,29.11 Cf De Civitate Dei, 17,6,2; PL 41,537.12 Cf In Gen 3,8 (hom. 17,1); PG 53,134.13 Cf F. CACUCCI, Teologia dell’immagine. Prospettive attuali, Roma 1971, pagg. 155-180.14 Cf La Civiltà Cattolica, 1991, IV, pagg. 325-336.

Nuova età, nuova evangelizzazione: dalla Redemptoris missio alla Aetatis novae

Il 22 febbraio 1992, in coincidenza con il vente-simo anniversario della Communio et progressio è uscita l’Istruzione pastorale Aetatis novae.

Il titolo - «Nuova età» - richiama un’altra espres-sione che spesso ricorre negli interventi di Giovanni

Paolo II. Evangelizzare è offrire «l’annuncio (evan-gelium) del fatto che Dio ama gli uomini, li chiama a credere in Cristo e, per suo tramite, in comunione con lui e con i fratelli, a partecipare alla vita stessa di Dio»14. Nuova evangelizzazione, dunque, non

30 Convivio 2006 giugno 2008 - anno VIII

perché nuovi contenuti, bensì perché la «nuova età (...), creata dalla comunicazione moderna» (Re-demptoris missio, n. 37), esige nuove modalità nella comunicazione degli stessi contenuti.

L’evangelizzazione è dunque comunicazione; non può quindi sottrarsi alle leggi della comuni-cazione. È di importanza basilare cogliere il preciso angolo visuale sotto il quale la Chiesa consi-dera la comunicazione di massa in rapporto all’evangelizzazione.

La Redemptoris missio offre una prospettiva veramente rivoluzionaria:

«Non basta usarli (i mass media) per diffondere il messaggio cristiano e il ma-gistero della Chiesa, ma occorre integrare il messaggio cristiano in questa “nuova cultura” creata dalla comunicazione mo-derna» (n. 37).

Il Papa va ben oltre la concezione strumen-tale dei mass media come cassa di risonanza, per sostenere quella dei mass media come formatori di mentalità, in quanto deter-minanti quella «nuova cultura» nella quale «occorre integrare il messaggio cristiano».

Questa nuova concezione della comunica-zione sociale proposta dal Papa, scientifica-

mente fondata, assume un valore rilevante per la riflessione teologica e pastorale.

Ho affermato in precedenza che la comu-nicazione può essere considerata sotto vari aspetti. Alla comunicazione appartiene anche l’evangelizzazione: «Che conoscano te e colui che tu hai mandato» (Gv 7,3), «perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10).

L’evangelizzazione è comunicazione in-tellettiva e comunicazione producente, che produce, cioè, ciò che significa. È un’ulteriore applicazione della distinzione tra aspetto linguistico e aspetto ontologico. Nel campo soprannaturale basti pensare ai Sacramenti.

Una teologia della comunicazione trova qui ulteriori spazi di ricerca. La nostra incor-porazione nel Corpo Mistico di Cristo, come prefigurazione della comunione ultima e perfetta, è richiamata dall’istruzione Aetatis novae (n. 6). Anche l’approfondimento del ruolo del peccato nell’impedire la comunione tra gli uomini, separandoli da Dio, permette di allargare il discorso ai condizionamenti che dai mass media provengono per una co-municazione che si collochi nel cuore della Chiesa e del mondo.

Saluto introduttivo

di DOMENICO MARRONE*

* Direttore Istituto Superiore di Scienze Religiose San Nicola, il Pellegrino - Trani.1 Vedi curriculum sulle note iniziali della relazione di mons. Viganò.

Benvenuti a tutti.

Siamo alla sesta edizione del “Convivio delle differenze”. Questa iniziativa culturale del nostro Centro di Studi Teologici, sin dal suo esordio - sollecitato dal nostro Pastore che mai manca di sottolineare la diaconia formativa del nostro Istituto nel tessuto diocesano - ha mirato a proporsi quale tentativo piccolo ma significativo di scandagliare non solo i loci theologici, quale sua finalità istituzionale, ma anche di scorgere i “semina Verbi” sparsi nella cultura del nostro tempo, attraverso i diversi luoghi culturali in cui essa si esprime.

Il cinema è uno di questi luoghi. In esso confluiscono i più importanti fenomeni che investono la società, la cultura, il costume. Non è pertanto estraneo alla religione, di cui con-serva i grandi contenuti morali, mediati e non di rado trasfigurati dalle regole del linguaggio cinematografico.

Il cinema è anche il luogo ove, come ac-cade per la letteratura, sopravvivono i grandi miti e le grandi narrazioni, se ne ospitano gli eterni conflitti, se ne offre, più o meno incon-sapevolmente, un’ermeneutica. Non poche tematiche di carattere religioso ed esistenziale

nascono nel cinema e attraverso il linguaggio cinematografico giungono al grande pubblico. È per questo che abbiamo voluto confrontarci con le sfide che il linguaggio cinematografico pone alla comunicazione, e in particolare alla comunicazione della fede nell’attuale contesto culturale.

Abbiamo sentito il bisogno di metterci in ascolto di voci autorevoli che ci aiutassero ad affacciarci in questo nuovo panorama “attrez-zati” di strumenti metodologici ed ermeneutici. Il primo nostro ospite che saluto con cordialità e gratitudine, è Mons. Dario Viganò.

Il suo curriculum basta per comprendere la competenza di don Dario che questa sera ci offre il servizio della parola e il dono della presenza.1

Ma prima di metterci in ascolto di mons. Viganò, che ringrazio per la sua disponibilità ad animare questo nostro momento di riflessione, cedo la parola al Prof. Tonino Ciaula che con l’entusiasmo e la vivacità intellettuale che lo caratterizzano, non ha esitato ad assumersi l’onere organizzativo di questa iniziativa. Sarà lui ora a illustrarci le motivazioni e i significati del tema scelto quest’anno.

32 Convivio 2006 giugno 2008 - anno VIII

In questo momento non possiamo non rivolgere una preghiera di suffragio per il compianto P. Salvatore Manna, già docente del nostro Istituto.

Egli che ha vissuto nel servizio e nell’amore alla Verità possa ora contemplarla senza veli nel faccia a faccia con Colui che dona la vita in abbondanza.

Il Direttore ha incaricato me per una rifles-sione introduttiva a questa ottava edizione del Convivio delle differenze che non può non iniziare con un saluto e un benvenuto a tutti.

Prima di iniziare vorrei comunicare che hanno fatto giungere il plauso per l’iniziativa, con gli auguri per il suo successo, il prof. Ciro Sarnataro, direttore dell’Istituto di Teologia Pastorale della Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale e il dott. Michele Parti-pilo, presidente Ordine dei Giornalisti di Puglia che si congratula rilevando, oltre ai contenuti, anche la grafica interessante del pieghevole e della locandina.

Questa edizione è stata pensata da un po’ di tempo. Perciò non nascondo una certa dif-ficoltà nel selezionare alcune riflessioni tra le ipotesi e gli approcci successivi alla tematica in modo da presentare a voi le motivazioni di fondo. Nel narrarle, collocherei innanzitutto sullo sfondo quella formazione teologica richiesta dal curriculum di studi del nostro Istituto; aggiungerei la tipologia degli incontri annuali del Convivio ed, infine, la tematica del cinema che, unitamente a quella di tutti gli altri mezzi di comunicazione sociale, rientra sempre più spesso nelle riflessioni come importante

Presentazione del Convivio 2006

di ANTONIO CIAULA*

* Docente stabile di Comunicazioni Sociali e di Pastorale delle Comunicazioni Sociali - Istituto Superiore di Scienze Religiose San Nicola, il Pellegrino - Trani.

componente nella formazione della mentalità dell’uomo contemporaneo.

Il necessario raccordo tra tali elementi ha prodotto questa edizione dal titolo Io… io… io… e gli altri… C come cinema, cultura, co-municazione.

L’iniziativa è illustrata in modo sintetico nel pieghevole e nella locandina ed in particolare nella seconda anta del programma-invito.

Questa introduzione sarà molto breve per lasciare il massimo spazio possibile al relatore prof. mons. Dario Edoardo Viganò, presidente dell’Ente dello Spettacolo al quale è affidata la parte che può essere definita “la prospettiva storica” di questo Convivio con la sua relazione su Il cinema e i cattolici in Italia: l’esperienza dell’Ente dello Spettacolo.

La pluralità delle riflessioni mi induce ad elencarle solo per temi e suggestioni come se fossero i titoli di testa di un film che, spesso, rappresentano in modo completo l’anteprima sintetica del film stesso; una sorta di indice delle parti alla stregua dell’indice per capitoli in un libro.

I titoli del Convivio 2006 presenterebbero, in sequenza per accostamenti, seguendo quasi

34 Convivio 2006 giugno 2008 - anno VIII

il percorso dell’occhio di chi legge il program-ma-invito.

Queste le ideali possibili sequenze:

• una panoramica su questa sala e su tutti voi che siete parte attiva di questo Convivio che è occasione di incontro e di apertura del-l’Istituto con il territorio. Gli incontri infatti sono aperti a credenti e non credenti.

Se per gli studenti dell’Istituto il Convivio è un approfondimento monotematico an-nuale di tipo seminariale, per quanti hanno frequentato l’Istituto è occasione di incon-tro e proposta di aggiornamento. Ne vedo diversi che saluto cordialmente;

• un primo piano sul programma-invito e poi sulla locandina soffermandosi sui singoli incontri e, dopo aver mostrato il titolo, chiuderebbe la sequenza sull’intesta-zione “Facoltà Teologica Pugliese” seguita da “Istituto di Scienze Religiose S. Nicola il Pellegrino - Trani” per evidenziare il taglio scientifico e non solo culturale che questi incontri devono avere. Queste inquadrature farebbero riferimento al momento attuale di passaggio dell’Istituto di Trani nella Facoltà Teologica Pugliese.

Il secondo incontro del Convivio sarà con-dotto da mons. Cacucci, Gran Cancelliere della nuova Facoltà, studioso della teologia dell’immagine ed esperto di cinema. Non è nuova l’attenzione delle Facoltà Teologiche al cinema. Mons. Viganò può essere testi-mone di una sua presenza a dicembre scorso alla Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna dove ad una sua relazione sul contesto e la prassi credente in cui si trova il Direttorio Comunicazione e Missione è stato accostata la riflessione-ricerca su come la sofferenza e la morte sono affrontate nel linguaggio del cinema contemporaneo. Nella presen-tazione di queste Mattinate seminariali 2005-2006 della Facoltà, si sottolinea la consapevolezza che «gli strumenti della co-municazione sociale sono ben più che sem-plici strumenti: essi sono veri e propri agenti

di una nuova cultura. Ogni mezzo è diverso e va riconosciuto nella sua peculiarità. Con questa cultura segnata dalla presenza inci-siva e capillare dei media siamo chiamati a confrontarci, coniugando la passione per il Vangelo con il discernimento intellettuale, e lo sguardo di fede con l’interpretazione dei fenomeni. Così potremo intraprendere quel cammino di inculturazione della fede e di evangelizzazione della cultura che è la que-stione centrale di questo inizio millennio» (CEI, Comunicazione e missione. Direttorio sulle comunicazioni sociali nella missione della Chiesa del 2004, n. 10.12.13).

• un ulteriore passaggio sui tre righi successivi riguardanti l’Arcidiocesi di Trani-Barletta-Bisceglie, la Commissione Diocesana per Pastorale della Cultura e delle Comunicazioni Sociali e la testata In Comunione a sottolineare la particolare porzione del territorio pugliese, chiesa locale in presenza attiva ma anche il posizionamen-to grafico dell’Istituto di Scienze religiose di Trani tra le due righe: quello della Facoltà e quello dell’Arcidiocesi prefigurando il suo compito di istituzione accademica nel terri-torio della sesta provincia pugliese;

• uno zoom sul logo del Convivio, seguito, infine, dal titolo Io… io… io.. e gli altri.. C come cinema, cultura, comunicazione. Qui le inquadrature tornerebbero a voi che siete in questa sala accostate a quelle della Sala della Comunità Sant’Antonio di Barletta mostrandola durante l’attuale programma-zione di cineforum. Sarebbe quest’ultimo, un anticipo sulla tavola rotonda finale del nostro Convivio - il cui programma sarà dif-fuso successivamente - che ha come tema La sala della comunità come “Convivio delle differenze”. L’esperienza a Trani Barletta Bisceglie. Prospettive.

Il Convivio delle differenze vuol essere un’ini-ziativa tesa a ricostruire una nuova forma di dialogo prezioso per credenti e non.

E mai come quest’anno il riferimento del

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card. Martini al fatto che in ciascuno di noi abita “un non credente e un credente che si parlano dentro”, nel desiderio di un dialogo interiore sulle ragioni fondamentali del vivere e del credere.

Di tale desiderio la metodologia proposta nel Convivio vuole essere espressione nel parlarsi convivialmente in un coinvolgimento di ciascun interlocutore che parla e ascolta in un’umile ricerca di un annuncio essenziale, di un nuovo linguaggio, di riscoprire le ragioni ultime dell’esistenza.

Se è vero, come afferma il Direttorio Comu-nicazione e Missione al n. 10, che “gli strumen-ti della comunicazione sociale sono ben più che semplici strumenti: essi sono veri e propri agenti di una nuova cultura”, la riflessione sul cinema, che è proposta dell’edizione 2006 del Convivio, vuole essere uno stimolo, una provocazione ad un particolare incontro con la cultura contemporanea. La metodologia e le finalità sono parzialmente indicate nelle due frasi poste in quarta del programma:

• “Leggere un film non è valutarlo ma scoprire l’idea dell’autore veicolata tramite la vicenda ed il racconto del suo film”.

• “Se non cè significato ci risparmieremo un sacco di fastidi, perché non avremo bisogno di scoprirne uno”. (Lewis Carrol, Alice nel paese delle meraviglie)

Se la prima frase suggerisce un principio metodologico di lettura, la seconda descrive indirettamente l’impegno da mettere nel-l’operazione della lettura alla scoperta anche del significato.

Sia chiaro che, parafrasando la seconda affermazione, se non ci abituiamo a leggere il film - così come tutti i media sarebbe come rimanere nel paese delle meraviglie mentre siamo chiamati a usare questi strumenti che sono sì inter mirifica come dice il Vaticano II o

miranda come afferma Pio XII ma che sono da usare con intelligenza sia come spettatori che come comunicanti.

Il nostro vuol essere uno stimolo ad ac-costarsi in modo scientifico al linguaggio cinematografico ed alla sua lettura. In questo modo il Convivio 2006 - sottolineando la con-suetudine di Trani e del territorio della nuova Sesta Provincia col mondo del cinema - non si vuole fermare alla location pugliese.

Il recente affidamento (1 marzo) da parte della Giunta della Regione Puglia delle attività della Fondazione “Apulia Film Commission” all’Assessorato del Mediterraneo può essere colto come un segno dei tempi di un passaggio dai puri aspetti di produzione - certamente im-portanti - a una ricerca di significati di cui il Me-diterraneo può essere simbolo di un Convivio delle differenze tra i popoli del Mediterraneo in cui la Puglia ha da sempre un ruolo molto preciso. Se oggi la Puglia può essere conside-rata - come è - un bellissimo teatro di posa sia per le bellezze naturali e paesaggistiche che per quelle architettoniche e artistiche non credo lo sia da meno quanto a intelligenza ed idee.

È necessario, perciò, una promozione (al di là di un marketing di tipo territoriale e, co-munque, non assistenziale) che faccia operare il passaggio dalle idee alla loro espressione con-creta. La nuova stagione del cinema pugliese - come è stato definito quest’ultimo periodo - potrebbe così avere evoluzioni insperate.

Se al Religion Today Filmfestival - Festival di cinema e religione - di Trento si è voluto intito-lare al Convivio delle differenze la serata finale di premiazione rendendo esplicito omaggio a don Tonino Bello, sarebbe solo un sogno vedere nella nascente Sesta Provincia una Rassegna Cinematografica Religiosa che sappia unire il duc in altum teso anche ad “annunciare il vangelo in un mondo che cambia” a dei segni di speranza che la lettera di Pietro ci invita a realizzare non solo in preparazione al Conve-gno ecclesiale di Verona?

36

Il cinema rappresenta non solo la cosiddetta settima arte, ma anche l’oggetto di indagini e di studi poliedrici: può essere, ad esempio, fatto oggetto di studi di stampo sociologico o diventare un dispositivo testuale da analizzare con una strumentazione di tipo semiotico. Può essere, infine, un oggetto intorno al quale si condensa un’attenzione, un progetto culturale e, nel caso specifico, un’azione da parte del mondo cattolico italiano.

Le mie considerazioni saranno di stampo prettamente storico, pertanto non analiz-zeremo il grande bagaglio dell’immaginario culturale, delle simboliche culturali attraverso le quali noi conosciamo e che comunque, in qualche modo, intercettano alcuni modi che abbiamo oggi di conoscere la realtà. La mia intenzione è quella di fornire alcuni spunti di riflessione sul rapporto che intercorre tra la Chiesa, cioè il mondo cattolico, e l’istituzione cinema. Ritengo infatti che tale rapporto, lungi

Il cinema e i cattolici in Italia:l’esperienza dell’Ente dello Spettacolo*

di DARIO E. VIGANÒ**

dal configurarsi come l’oggetto di un interesse storico-filologico fine a se stesso, sia un argo-mento di studio interessante, quanto meno se si cerca di delinearne i contorni più ampi.

In genere il rapporto tra Cinema e Chiesa viene indagato dagli storici del cinema attorno a tre periodi fondamentali.

Il primo, che corrisponde agli anni Venti, agli anni Trenta, è caratterizzato da una preoccu-pazione morale della Chiesa e, quindi, da una serie di iniziative volte a elaborare dei giudizi sulle opere. Nella storia del cinema questo è un momento che fornisce molto materiale soprattutto a quegli storici dissacratori che in-terpretano l’interesse della Chiesa per il cinema solo in termini di censura.

Il secondo momento di indagine riguarda l’atteggiamento dei cattolici nei confronti del Neorealismo. Il giudizio che generalmente viene espresso a riguardo è molto spesso

* Trani; Auditorium - Sala Comunità San Luigi; 14 marzo 2006. Versione non rivista dall’autore.** Prof. mons. Dario E. Viganò. Nato a Rio de Janeiro nel 1962, Presidente dell’Ente dello Spettacolo e direttore

della Rivista del Cinematografo, Dario E. Viganò è Presidente della Commissione Nazionale Valutazione Film della CEI e docente di Comunicazione presso la Pontificia Università Lateranense, dove è vice preside dell’Istituto Pastorale Redemptor Hominis e direttore del Centro Interdisciplinare Lateranense.

Il suo più recente libro di cinema, Gesù e la macchina da presa. Dizionario ragionato del cinema cristologico (Lateran University Press, 2005) - che presenta la prima raccolta completa delle opere cinematografiche dedicate alla storia di Gesù - è stato tradotto e diffuso anche all’estero. È autore, tra l’altro, di Un cinema ogni campa-nile. Chiesa e cinema nella diocesi di Milano (Il Castoro, 1997), Cinema e Chiesa. I documenti del Magistero (Effatà, 2002) e I sentieri della comunicazione. Storia e Teorie (Rubbettino, 2003). Con Daniela Iannotta, ha pubblicato Essere. Parola. Immagine. Percorsi del cinema biblico (Effatà, 2000).

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inadeguato alla complessità del dato, perché ritengo, sulla base degli studi da me condotti, che il mondo cattolico non abbia mai avuto una posizione né pregiudiziale né contrapposta al Neorealismo.

Il terzo ambito che viene preso in esame in questo rapporto Chiesa-Cinema considera, in particolare, lo sviluppo del cineforum dagli albori fino agli anni Settanta, quando nasce la paura che questi circoli di cultura cinematogra-fica si stessero trasformando in vere e proprie associazioni culturali di natura politica.

Io credo che il rapporto Chiesa-Cinema sia assolutamente più ricco e più variegato di quanto non si possa desumere dall’analisi dei tre momenti fin qui descritti.

Diciamo subito che quando il Cinema nasce - nascita che, convenzionalmente, dobbiamo porre nel 1895 - c’è da subito interesse e atten-zione da parte della Chiesa per questo medium un po’ particolare, che aveva appena lasciato la fantasmagoria, la pratica delle ombre cinesi, che aveva appena superato l’esperienza delle filmine dipinte a mano sul vetro.

Un agente della “Lumière” in Italia, Vitto-rio Calcina, ottiene il permesso di riprendere Leone XIII nei Giardini Vaticani. È una ripresa densa di significati anche dal punto di vista simbolico. A un certo punto si può notare che Leone XIII, primo Papa senza potere temporale, evidentemente non è conscio della potenzialità espressiva dello strumento. Il Pontefice, infatti, arriva in carrozza nei giardini vaticani, fa la sua passeggiata, poi si siede. È interessante vedere uno dei suoi segretari che si avvicina al Santo Padre, in quel momento fermo, seduto, mentre riposa dopo la passeggiata, e dice: “Benedica, faccia qualche cosa perché se resta fermo la forza espressiva del cinema non funziona, diventa una fotografia”.

In quel momento Leone XIII benedice la macchina da presa, quasi benedicendo con questo gesto gli spettatori. Poiché il cinema, l’ottica cinematografica, è quel frammento di visione che si pone tra ciò che avviene nel momento della produzione e lo spettatore, in quel momento c’è una benedizione di Leone

XIII non solo allo strumento, ma anche agli spettatori. Questo è un segmento gestuale fortemente carico di valenza simbolica.

Poiché gli americani non accettano di rima-nere indietro rispetto agli italiani e ancor meno dietro a degli italiani inviati dai francesi, poco tempo dopo i vescovi statunitensi fanno pres-sione perché un loro operatore, Dixon, possa fare lo stesso tipo di ripresa sempre con Leone XIII. Abbiamo, perciò, ben due filmati del Papa della Rerum Novarum, che si lascia riprendere dal cinema e crea, seppur senza un documento pontificio, una benevola accoglienza di questo strumento. Questo però è ancora poco rispetto alle strategie che verranno adottate dal mondo cattolico.

Cosa succede dunque nel mondo cattolico? Soprattutto, cosa succede a quel mondo catto-lico fatto dalla base delle parrocchie?

A Milano, dove c’è una forte e tradizionale esperienza degli oratori, c’è anche una rivista che si chiama Eco degli oratori, che è una sorta di bollettino per far circolare le idee di queste strutture in mille e più parrocchie; una comu-nicazione attorno alle idee dell’arcivescovo, piuttosto che rispetto agli interventi normativi anche della Curia.

In questo bollettino, nel 1906, appare una rubrica intitolata Pro cinematografo, giusti-ficata dal fatto che in quell’anno a Milano si tiene un evento nazionale, una fiera, dove sono messe in mostra le varie innovazioni tecniche, anche cinematografiche. Qualche prete va a visitare questa mostra; nasce così e viene messa in comune, in circolo, l’idea di attrezzare i saloncini parrocchiali (che erano teatrali una volta) con le prime macchine del cinema. Oltre a condividere l’idea, si pensa an-che a consorziarsi per realizzare degli acquisti comunitari.

L’anno che, però, segna davvero l’ingresso dei cattolici nel mondo del cinema è il 1909, anno in cui c’è un impegno concreto su due città.

A Roma viene costituita l’Unitas, casa di pro-duzione cattolica fondata nel 1909 e attiva dal

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1910. Dopo pochi mesi dall’organizzazione, nel 1911 furono prodotti 15 film, un impegno importante dal punto di vista della produzione. E mentre Roma produce, a Milano nasce il pri-mo Concorso di Cinematografia, un concorso cattolico nel quale viene inserita la possibilità di assegnare un premio denominato Premio Cardinal Ferrari dal nome dell’arcivescovo di Milano del tempo. Il premio non fu però asse-gnato prima dell’anno seguente.

Sempre a Milano, nel 1909, nasce la Fede-razione Cinematografica Diocesana che ha tra i suoi scopi il noleggio dei film morali, all’uopo riveduti, che venivano proiettati nelle chiese, diventando delle vere sale del cinema.

Nel 1912 la congregazione cardinalizia vieta l’uso delle proiezioni nelle Chiese. È un divieto da benedire perché diede vita a trasformazioni che si moltiplicarono in maniera esponenziale e accelerarono i tempi di costruzione delle sale cinematografiche parrocchiali. Bisognava, quindi, attrezzarsi con degli spazi per creare un’occasione di spettacolo protetto secondo i criteri della morale cattolica.

Si era, però, giunti al momento del primo confronto bellico. Finito il conflitto mondiale, si diffonde l’idea di consorziare le sale e, quindi, nel 1926, nasce a Milano la prima associazione di categoria, C.U.C.E., Consorzio Utenti Cinema Educativo, che intende collegare tutte le sale di pubblico spettacolo educativo con un momen-to di riflessione. Il C.U.C.E. pubblica il primo numero della Rivista del Cinematografo.

Il C.U.C.E. fa degli interventi molto forti in un periodo in cui la politica di presenza dei cattolici nel mondo del cinema è una battaglia condotta dai preti ma fortemente voluta dalla gerarchia.

Con le produzioni ed il fatto di organizzarsi per proiettare film negli oratori, nasce il proble-ma dei film riveduti dai sacerdoti e le classifiche della revisione morale.

La censura nasce nel 1918, quindi molto più avanti; questa preoccupazione, di tipo educativo però, è presente già nel 1911 ed, evidentemente, fa nascere delle vere e proprie classificazioni.

Mentre si trasformavano le salette teatrali in sale del cinema, in Italia i film che inizialmente erano delle passioni riprese dal cinematografo che raccontava la passione e la morte di Gesù da due punti di vista: quello verosimile (grande dolore, grande impatto emotivo per cui tutti piangevano) e quello che sottolineava aspetti eclatanti come ad esempio Cristo che cammina sulle acque.

Questi piccoli film vengono considerati a livello dottrinale; gli anni Trenta, infatti, a differenza degli anni Cinquanta, segnano un momento importante caratterizzato dalla dif-fusione degli interventi del magistero.

Nel 1930 il segretario centrale del Segreta-riato Centrale della Pubblica Moralità dell’Azio-ne Cattolica accoglie il C.U.C.E. strutturando, così, quella situazione che per alcuni aspetti sussiste anche oggi; ci si preoccupa di mettere in cantiere uno studio per creare una struttura che si occupi esclusivamente di cinema e che sia l’interfaccia riconoscibile, con tutti i crismi, della gerarchia cattolica. Di conseguenza, na-sce il CCC, Centro Cattolico Cinematografico.

Il Centro Cattolico Cinematografico nasce nel 1935 e recupera l’esperienza (sviluppata a Milano) delle valutazioni e delle revisioni e pubblica tutte le segnalazioni cinematografiche che, ad oggi, sono circa 140mila.

Questi volumi sono un patrimonio impor-tante perché raccolgono le analisi morali dei film. L’analisi, inizialmente fatta dal CCC, che rappresentava la Chiesa, è compito oggi della Commissione Nazionale Valutazioni Film della Conferenza Episcopale Italiana.

Sono anni in cui il magistero interviene molto. Ad esempio, nel 1929 con la Divini illius Magistri, da cui prende vita la Legione della decenza, movimento di opinione statunitense che ha come obiettivo quello di moralizzare il cinema.

Successivamente, ci fu una enciclica di Pio XI rivolta al cinema, la Vigilanti cura. Sono interventi che certamente riconoscono la validità del cinematografo, rispetto al quale pongono una serie di attenzioni riguardanti il dilagare dell’immoralità degli spettacoli. La gerarchia, quindi, non benedice solamente ma

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dà anche disposizioni molto precise a riguardo, tipo questa:

“Si porta a conoscenza dei Rev.mi sacerdoti che tengano cinematografi di istituti di educazione e di associazioni cattoliche, (quindi, scuole cattoliche e oratori, ndr) che si è costituito in Milano, il Consorzio Utenti Cinematografi Educativi, il quale si inca-rica di assistere gli utenti presso le case fornitrici”.1

In sostanza, “mettiamoci insieme” per avere più forza contrattuale nel noleggio.

“Solo a questo consorzio e, per esso, alla commissione di nomina Arcivescovile che ne fa parte, è affidata la responsabilità delle revisioni delle pellicole noleggiabili, e solo le case che avranno accettato le condizioni da esso stabilite potranno dare sufficiente garanzia ai Rev.mi sacerdoti riguardo alle pellicole noleggiate, pellicole che la Commissione anzidetta si incariche-rà di esaminare e di far preventivamente correggere, se del caso”.2

Quindi i film sono in grande parte censurati

e tagliati. È interessante capire che stiamo os-servando un mondo diverso da quello di oggi; è un mondo in cui solo le case che accetta-vano di dialogare con un consorzio potevano interloquire con un circuito di sale. C’era una situazione di forza non indifferente. Si aggiun-ga che presso la sede del Consorzio

“si accettano le iscrizioni degli utenti, ac-compagnate da una tassa di iscrizione di £ 10, e si possono avere degli schiarimenti opportuni nonché lo statuto del consorzio. Si encomia l’indovinata iniziativa che ai giorni nostri non è solo utile, ma assolu-tamente necessaria”.3

Siamo nel 1926. Tutte le esperienze svi-luppatesi a Milano arrivano a Roma. Gli anni

Trenta sono gli anni che segneranno in maniera determinante le condizioni future dei cattolici nel mondo del cinema sia dal punto organizza-tivo (dove tutto viene gestito dalla presidenza dell’Azione Cattolica) che per lo sviluppo di una serie di norme, di sanzioni, di prescrizioni. E la Rivista del Cinematografo sembra essere lo strumento attraverso il quale far giungere questi richiami.

La Rivista del Cinematografo nasce a Milano e nel 1938 diventa strumento del Segretariato del Centro Cattolico Cinematografo e quindi diventa non solo un’occasione per il dibattito ma anche un luogo sul quale far conoscere il pensiero della gerarchia. Ad esempio, il Car-dinal Schuster scrisse che

“nonostante i ripetuti provvedimenti per assicurare il buon uso del cinematografo nelle sale cattoliche, ogni tanto si verifi-cano alcuni inconvenienti con grave disca-pito della serietà delle nostre istituzioni e qualche volta anche con scandalo dei buoni. Questi dolorosi episodi si devono in gran parte attribuire alle numerose dif-ficoltà di scelta di pellicole che venivano offerte dall’industria. Più e più volte gli interessati hanno manifestato il desiderio che si avesse a creare una casa di completa fiducia, per questo servizio, sotto il con-trollo delle competenti autorità. Il deside-rio è finalmente diventato realtà”.4

Il mondo cattolico ha sempre tentato la strada della produzione. Tolta qualche opera dignitosa è sempre stato un fallimento.

“Come già tutti gli interessati sanno, si è fondata a Roma la Lux Christiana, che, benedetta dal Santo Padre, s’accinge ora al servizio delle sale cattoliche aprendo la sua prima agenzia, in Milano, per tutta la Lombardia. Ritenuto quindi che con questo si è provveduto efficacemente

1 E. TOSI, Cinematografi educativi, in “Rivista Diocesana Milanese”, n. 11, novembre 1926, p. 432.

2 Ibidem.

3 Ibidem.

4 I. SCHUSTER, Regolamento per I cinematografi delle istituzioni cattoliche, in «Rivista del Cinematografo», n. 10, ottobre 1933, pp. 208-209.

41Convivio 2006 giugno 2008 - anno VIII

alla necessità delle sale cinematografiche cattoliche…”5

e qui si da una serie di disposizioni su dove si devono prendere le pellicole, chi le deve revisionare, che tipo di pellicole si possono utilizzare e così via, e si conclude

“…ferme restando le disposizioni su ri-ferite, per quanto riguarda gli spettacoli di cinematografo sonoro e parlato, in via provvisoria e solo fino all’inizio della prossima quaresima (18 febbraio 1934) si concede che i cinematografi muti già funzionanti possano continuare a fornirsi anche altrove, purché le pellicole siano revisionate e approvate dal CCE e tali risultino dalla pubblicazione nella Rivista del Cinematografo”.6

Vedete come il C.U.C.E. - Consorzio Utenti Ci-

nematografi Educativi - si trasforma per vari mo-tivi di assetti societari in Consorzi Cinematografi Educativi; quindi la Rivista del Cinematografo diventa lo strumento attraverso il quale si mo-strano e si portano a conoscenza le direttive.

Siamo ancora negli anni Trenta. Si interviene in maniera precisa, o meglio si creano le basi delle strategie dell’intervento dei cattolici nel mondo del cinema. È il momento in cui - non dimentichiamo la triste esperienza del fascismo Italia - in qualche modo prende linea la mora-lizzazione del cinema.

Il fascismo cerca di creare delle pressioni forti anche su istituzioni e su uomini cattolici perché si adottino linee difensivistiche di mo-delli esemplari delle varie istituzioni cattoliche, come ad esempio la famiglia. Quindi il fascismo è interessato non solo a fare pressioni perché la Chiesa in qualche modo intervenga in maniera difensiva rispetto a tali istituti, ma perché così facendo sostenga apertamente il fascismo: una richiesta di produzione di opere cinematogra-fiche spettacolari che si caratterizzassero per la congiunzione degli ideali della fede con i concetti nazionali. Questo fu un appello, una pressione forte da parte del mondo politico, che non fu accolta evidentemente anche per-ché si era ormai giunti alle soglie del secondo grande conflitto mondiale.

Durante la guerra tutto si blocca, soprat-tutto quanto non è rilevante e necessario alla vita concreta della popolazione coinvolta dal conflitto. Negli ultimi mesi di combattimenti si intuisce, naturalmente, che la guerra è prossima alla conclusione e che da lì a poco ci sarebbe stata la ripresa anche delle attività culturali; quindi, l’impegno importante, sempre in termini di protezione, di quei modelli di ideali di vita che erano ispirati al cattolicesimo.

Proprio negli ultimi mesi del conflitto mondiale si affianca al Centro Cattolico Cine-matografico un Consulente Ecclesiastico e si avvia anche un’importante opera editoriale. La Chiesa non si fa trovare impreparata alla fine del conflitto mondiale: da una parte inserisce un prete che possa garantire l’interfaccia con la gerarchia e la preoccupazione morale rispetto al centro cattolico cinematografico, che certo nella sua attività di produzione si muove perse-guendo anche alcuni obiettivi più propriamente laici, dall’altra parte inizia un’attività editoriale molto importante per cui abbiamo delle opere come il cinema e la morale che si diffondono nel sapere.

Un’esperienza molto interessante, del 1942, è la realizzazione del film Pastor angelicus in occasione del giubileo episcopale di Pio XII, opera che Gedda (presidente del Centro Cattolico Cinematografico) definisce come il primo significativo impegno cristiano nel cine-ma. Le preoccupazioni morali sembrano ormai sullo sfondo degli anni Trenta. Emerge, invece, un’idea di Chiesa che deve impegnarsi attiva-mente investendo su uomini di altissimo profilo ed investendo anche in produzioni importanti.

È la radio a proporsi con forza in questo periodo, dopo aver dimostrato la propria im-portanza durante la guerra. Accanto al Centro Cattolico Cinematografico nasce il Centro Cat-tolico Radiofonico e, a completare l’impegno della Chiesa sui media culturali, anche il Centro Cattolico Teatrale.

5 Ibidem.

6 Ibidem.

42 Convivio 2006 giugno 2008 - anno VIII

L’Azione Cattolica con il Segretariato Cen-trale della Pubblica Moralità - che aveva dato vita al Centro Cattolico Cinematografico - dà vita anche a questi altri due centri perché ci si è ormai accorti del mutamento epocale che sta investendo il mondo dei media. L’intervento dei cattolici non è più esclusivamente su un segmento del mondo della comunicazione, ma su più fronti. In questo quadro di maggio-re impegno la Orbis Film nel 1945 produce Il Testimone e, soprattutto, Le porte del cielo di Zavattini.

Quindi abbiamo il Centro Cattolico Cine-matografico che produce, ma anche Orbis e Universalia producono. L’Universalia è una casa di produzione il cui presidente era anche il direttore dell’Osservatore Romano, il conte Della Torre. Egli realizza la prima forma di “compromesso storico”: in quegli anni Visconti stava girando La terra trema con finanziamenti del Partito Comunista. Siamo tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e l’inizio della ripre-sa. I quattrini del Partito Comunista finiscono e, perché il capolavoro viscontiano possa essere portato a termine, viene finanziato dai fondi cattolici che giungono al regista milanese at-traverso l’Universalia, gestita, come detto, dal conte Della Torre. Fu un prestito non preso alla leggera da Visconti, che si rendeva conto delle implicazioni di un accordo del genere, ma alla fine il regista accettò il finanziamento perché il denaro non è né di destra né di sinistra. La terra trema di Visconti, quindi, realizza veramente il primo “compromesso storico” tra mondo cattolico e Partito Comunista.

Fu un grande fermento di produzione, grande investimento, specie tenendo conto che, nel frattempo, si andavano riorganizzando nuovamente le sale del cinema cattolico che, come vedremo successivamente, arriveranno a rappresentare oltre il 50% di tutti gli schermi presenti su tutto il territorio nazionale. Quindi, come cattolici, abbiamo avuto una grande forza di politica culturale non sfruttata.

Non c’è poi solo la produzione, ma anche gli interventi del Magistero. Abbiamo una serie di interventi e, in particolare, due grandi discorsi

di Pio XII, di cui lo scorso anno abbiamo cele-brato i cinquant’anni.

Diciannove anni dopo la Vigilanti cura, Pio XII con le riflessioni sul film ideale, sente la necessità di affrontare in maniera approfondita il problema del cinema, propone un giudizio sistematico su un fenomeno che, col passare del tempo, si trasforma in maniera sostanziale e viene alimentato straordinariamente. A mio avviso i due discorsi sono gli interventi più alti che il magistero pontificio abbia mai fatto sul cinema, i più sistematici. Tenete conto che siamo nel 1955 e probabilmente sia in Segre-teria di Stato che presso Aggiornamenti Sociali e a Civiltà Cattolica c’erano circuiti di grande calibro che potevano preparare materiali per il Santo Padre.

Con i Discorsi sul Film ideale siamo di fronte a due testi che sono come due parti di un uni-co grande studio che non solo fa riferimento ad acquisizioni estremamente moderne per l’epoca - sociologia e psicologia - per cui crea, ad esempio, una teoria dello spettatore, ma stiamo di fronte ad un intervento in cui il Santo Padre affronta davvero in profondità la que-stione del cinema. I due straordinari interventi nascono in due occasioni diverse, entrambe nel 1955; la prima è il 21 giugno 1955, quando il Papa incontra i rappresentanti dell’industria cinematografica, mentre la seconda è il 28 ot-tobre, in occasione dell’Assemblea dell’Unione Nazionale degli Esercenti Cinematografici e della Federazione Internazionale dei Distributo-ri. Sono due discorsi molto importanti, lunghi, complessi e molto ben articolati.

Due anni dopo abbiamo l’enciclica Miran-da Prorsus, nella quale non si parla solo del cinema, dato che la radio era ormai una realtà sviluppata e si era agli inizi della televisione.

L’intervento dei cattolici nel mondo del cinema, quindi, è certamente preponderante, ma si sta delineando ormai quel panorama prospettico e differenziato di un impegno complesso e variegato dei cattolici nel mondo del sistema della comunicazione.

Abbiamo tre centri, il Centro Cattolico Cine-matografico, quello Teatrale e quello Radiofo-

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nico, dalla fusione dei quali - e con l’aggiunta del Centro Televisivo -, nel 1946, nasce l’Ente dello Spettacolo che a marzo di questo anno compie 60 anni. Anche l’Ente dello Spettacolo nasce per volere dell’Azione Cattolica. Il presi-dente è Gedda. L’Ente dello Spettacolo ingloba i centri cattolici che erano del Segretariato per Pubblica Moralità dell’Azione Cattolica.

Dopo la produzione, gli interventi; un centro nazionale, l’Ente dello Spettacolo che coordina questi interventi e che gestisce la Rivista del Cinematografo che è l’organo ufficiale; alla filiera manca solo la distribuzione.

Nel 1949 nasce l’ACEC, Associazione Catto-lica Esercenti Cinema che era già richiesta dalla Vigilanti Cura del 1936. Si realizza un grande circuito. Successivamente nascono i SAS, Servi-zi Assistenza Sale, che recuperano l’esperienza del noleggio (ricordate il C.U.C.E), della cen-tralizzazione, della formazione del noleggio e, comunque, dei servizi di tipo commerciale di cui le sale hanno bisogno.

A questo punto il progetto è completo: gli interventi, la produzione, la distribuzione. Queste sale avevano bisogno di momenti che non fossero solamente la programmazione ordinaria, quella del sabato e della domenica, cioè il cinema spettacolare, ma aveva bisogno anche di una riflessione cinematografica. Come risposta a questo bisogno, nasce nel 1953, voluto dall’Ente dello Spettacolo, il Centro Studi Cinematografici.

Dal Centro sorgono esperienze e proposte diverse: a Milano, ad esempio, Don Giuseppe Gaffuri viene considerato il “prete del cinema”, a Roma va ricordata l’opera di padre Felix Morlion; a Milano, ancora, nasce l’esperienza di padre Nazareno Taddei. Queste esperien-ze, sorte col Centro Studi Cinematografici, sviluppano un’analisi e una lettura del film di cui successivamente si occuperà anche la FIC, Federazione Italiana Cinematografica.

Gli anni Cinquanta sono anni importanti dal punto di vista degli interventi, però sono anche anni in cui si segna una frattura impor-tante fra i cattolici e gran parte della cultura

cinematografica italiana, una frattura che sembra inesorabile. La Chiesa di Pio XII vede svilupparsi prepotentemente un modello di vita che vuole emulare; quello americano, portato in Europa già durante la guerra dalle truppe alleate. Agli occhi di Pio XII questo è un pericolo per la famiglia, per i valori della società e per la salvaguardia della moralità dei giovani. È un modello che nei diversi paesi dell’Europa Occi-dentale esplode con maggior eco nel cosiddet-to miracolo economico. Quindi, se la minaccia nazifascista era stata definitivamente sepolta, il Papa vede all’orizzonte altre minacce come il comunismo, il suo radicamento violento in alcuni Paesi dell’Europa e soprattutto la sua espansione in Asia. Allo stesso modo alcune affermazioni del capitalismo preoccupano il Papa che vi vede degli aspetti che non aiutano alla costruzione di quel mondo migliore che appunto il Papa vuole, cioè quel mondo con una civiltà permeata dai valori cristiani.

Possiamo dire, quindi, che gli anni Cin-quanta segnano in qualche modo gli inizi di questa frattura, presente ancora oggi, e che viene codificata nel Vaticano II. Di fatto, il cristianesimo geografico inizia la sua defla-grazione. Inizia ad entrare in crisi l’idea che geograficamente l’Italia sia permeata dai valori del cattolicesimo. Sono state importate tante cose buone dagli alleati americani insieme a una produzione esorbitante di cinema, che va a costruire delle culture simboliche che ali-mentano dei modelli di vita. In questo periodo abbiamo lo sgretolarsi del rapporto tra mondo cattolico e mondo della cultura in un momento in cui paradossalmente le istituzioni cattoliche godono di una grande consistenza egemonica perché gli anni Cinquanta sono gli anni della forte espansione e del rafforzamento della Democrazia Cristiana.

La Mostra Internazionale del Cinema a Vene-zia e il Centro Sperimentale del Cinema sono in mano a persone cattoliche. Da una parte, però, viene meno il rapporto tra il mondo cattolico e la cultura italiana e dall’altra le istituzioni hanno forte potere egemonico ma a una egemonia politica e organizzativa non corrisponde una adeguata vitalità culturale.

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Nonostante l’intuizione che la formazione sia un momento importante, a livello politico si prediligono gli interventi settoriali e provvisori con una grave perdita di incidenza. Non man-cano interventi anche di strategia politica come quelli, ad esempio, di Petrucci o di Lonero (ba-rese), ma non abbiamo un intervento strategico a livello politico importante e determinante.

Inoltre, nel mondo cattolico sorgono dei pro-blemi interni come il triste fatto de La dolce vita che lega la figura di padre Nazareno Taddei a Fel-lini. È una vicenda interessante e tragica insieme perché il dramma si consumò per la tempistica, il tempo fu cioè un pessimo alleato per Taddei. A Milano, al Centro San Fedele, c’era la rivista Letture gestita dai Gesuiti. Fellini fece una visione privata al San Fedele de La dolce vita.

Padre Taddei pubblicò, in anticipo su tutte le altre riviste, un piccolissimo trafiletto, non una critica, ma solo un far sapere che c’era stata questa visione con un primo abbozzo di giudizio. Dalla visione privata all’uscita della rivista passò poco tempo; ma, anche in poco tempo, la rivista arrivò in mano all’Arcivescovo e, soprattutto, arrivò a Roma. Ci furono grosse questioni e, quindi, il Cardinale Arcivescovo chiese di ritirare la rivista e di far si che il giudi-zio fosse più consono a quelle che erano le in-dicazioni del Centro Cattolico Cinematografico di allora. Così, quello che era stato un piccolo accenno, sul numero seguente divenne una lunga disamina e una precisa analisi del film di Fellini, del quale si parlava bene, dandone anche le motivazioni. Questo fece andare su tutte le furie il Cardinale Arcivescovo perché si vide preso in giro. Padre Taddei fu allontanato immediatamente da Milano (ad un esilio in Germania, di fatto, seguì anche una pesante segregazione in casa). Fu una vicenda di non facile soluzione anche perché il Cardinale Arci-vescovo di Milano divenne Papa. Fu una ferita dura; da La dolce vita ad oggi quest’uomo non ha mai ricevuto un pass per il reintegro ufficiale nella Chiesa cattolica. Il lungo esilio di Padre Taddei è terminato, si può dire, quando arrivai all’Ente dello Spettacolo. A novembre scorso è stato consegnato a Padre Taddei il Premio Bresson chiudendo così questo ciclo della storia

italiana. Taddei fu colui che nel 1954 iniziò le trasmissioni televisive della Messa in tv, un per-sonaggio importante, certo caratterialmente problematico, ma dal punto di vista professio-nale tutt’altro che uno sprovveduto.7

Negli anni Sessanta abbiamo Giovanni XXIII che aveva già incontrato il cinema perché, in quanto patriarca di Venezia, celebrava tutti gli anni la Messa per il mondo del cinema nel qua-le c’era una forte presenza cattolica di stampo internazionale grazie all’OCC - Organizzazion Cattolic du Cinema, che purtroppo ha cambia-to sigla e si chiama SIGNIS (quello che prima era un acronimo, adesso è un nome di fantasia che non presenta un significato proprio).

Pensate che Giovanni XXIII nel 1959, ricordando che nel 1949 si fondò l’ACEC - l’associazione di categoria delle sale catto-liche - afferma che si è a buon punto e che l’esperienza acquisita autorizza a pensare che non si resterà dove si è arrivati ma si proseguirà con animo risoluto, con discrezione e tran-quillità. Sono, quindi, anni importanti, in cui si promuove l’Associazione cattolica dei critici cinematografici, che in qualche modo lavora per la prima legge sistematica sul cinema, la legge n. 1213 del 1965.

Grazie a questo gruppo di critici cattolici convocati dall’Ente dello Spettacolo si svilup-peranno poi ulteriori iniziative.

Negli anni Sessanta abbiamo una distribu-zione straordinaria; il 50% delle sale cinema-tografiche sono di proprietà cattolica; sono gli anni in cui l’Osservatore Romano introduce le pagine dello spettacolo.

Gli anni Settanta mettono paura alla gerar-chia perché le sale del cinema si trasformano in veri e propri luoghi di dibattito politico. Negli anni 1968-1970, quindi, si chiudono le saracinesche e tra la fine degli anni Sessanta e

7 La vicenda iniziata con la “lettura” de La dolce vita pubblicata su “Letture” di marzo 1960 è riferita dallo stesso p. Taddei nel libro-intervista di Andrea Fagioli Nazareno Taddei, un gesuita avanti, edizioni Edav, giugno 2000.

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l’inizio degli anni Settanta abbiamo una morìa delle sale e un totale disimpegno della Chie-sa. L’Azione Cattolica abbandona l’Ente che diventa una struttura pienamente autonoma. Il premio dell’OCC a Teorema di Pasolini nel 1968 crea un grosso sussulto nel mondo cat-tolico; in conseguenza di questo si chiudono le sale e l’esperienza produttiva si conclude, gli unici interventi possibili sono quelli di richiamo all’osservanza delle norme.

Questa situazione è statica fino alla metà degli anni Ottanta per una serie di motivi, an-che se sono gli anni in cui ci si riappropria in qualche modo del profilo ecclesiale che stava maturando a partire da Vaticano II, celebrato molto prima. I frutti di questo si iniziano a vedere a metà degli anni Ottanta, quando abbiamo un ritorno di impegno della chiesa e dei cattolici nel mondo del cinema.

Si riscontrano ben due interventi diretti della Conferenza Episcopale Italiana: uno agli inizi degli anni Ottanta, nel 1982, e l’altro alla fine degli anni Novanta. Si riaprono molte sale. Va tenuto conto del fatto che negli anni ’60 di 12.000 sale esistenti in Italia 6.000 erano cattoliche. Quelle sale c’erano ancora, ma chiuse. Oggi ne sono state riaperte 1.200 e questo significa che, sebbene molte parroc-chie abbiano destinato la loro sala ad utilizzi diversi, sono luoghi che esistono ancora e per la riapertura delle quali c’è la possibilità, con la nuova legge del cinema, di ottenere finanziamenti.

C’è quindi la possibilità di un ritorno delle Sale cosiddette della comunità. Non sono più

sale esclusivamente cinematografiche ma, in qualche modo, si aprono alla polifunzionalità.

In questo contesto l’Ente dello Spettacolo si rafforza e abbiamo alcune iniziative come l’avvio del primo portale di cinema, cinemato-grafo.it che ad oggi ha 20 milioni di contatti mensili. È il più importante portale di cinema in Italia, i suoi servizi sono utilizzati da altri grandi portali come yahoo e MSN, pertanto il settore dell’editoria elettronica è uno di quelli dalle maggiori potenzialità di sviluppo. Anche l’editoria cartacea continua ad avere una grande rilevanza, per darne un’idea si può ricordare che l’Ente ha pubblicato un Dizionario del Cinema e alla fine dell’anno usciranno tre volumi di Storia del cinema.

In tutto questo, anche un’altra associazione, l’ACEC, si è data allo sviluppo di un importante piano di sostegno e di supporto delle Sale della Comunità.

“Quando il cinema, obbedendo ad uno dei suoi principali scopi, fornisce un’immagine dell’uomo così come esso è, deve proporre, partendo dalla realtà, valide occasioni di rifles-sione sulle condizioni concrete nelle quali egli vive. Offrire spunti di riflessione su argomenti quali l’impegno nel sociale, la denuncia della violenza, dell’emarginazione, della guerra e delle ingiustizie, spesso affrontati dal cinema nei cento anni della sua storia, e che non possono lasciare indifferenti quanti sono preoccupati per le sorti dell’umanità, significa promuovere quei valori che la Chiesa ha a cuore e contribuire materialmente alla loro diffusione attraverso un mezzo di così facile impatto con il pubblico”.8

8 GIOVANNI PAOLO II, Messaggio per la 29° Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali “Cinema, veicolo di cultura e proposta di valori”, 28 maggio 1995.

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REG. Alessandro Blasetti - ASSISTENTE ALLA REG. Andrea Borghesio - AIUTO REG. Isa Bartalini - SOGG. Ales-sandro Blasetti, Carlo Romano - SCENEGG. Alessandro Blasetti, Carlo Romano - COLLAB. ALLA SCENEGG. Age, Furio Scarpelli, Adriano Baracco, Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Lianella Carrell, Suso Cecchi D’Amico, Ennio Flaiano, Giorgio Rossi, Libero Solaroli, Vincenzo Talarico - FOTOGR. (b. e n.) Aldo Giordani - OPERATORE ALLA MACCHINA Sergio Bergamanini - ASSISTENTE ALLA MACCHINA Franco Frazzi - SCENOGR. Ottavio Scotti - AIU-TO SCENOGR. Carlo Agata - ARREDAMENTI Dario Cecchi, Renato Beer - AIUTO ARREDATORE Oreste Sabbatini - COST. Milena Bonomo (Tessuti e coperte del Lanificio di Somma; abiti maschili FACIS) - AIUTO COST. Angiolina Menichelli (C.S.C.) - TRUCCO Giannetto De Rossi - AIUTO TRUCCATORE. Massimo De Rossi - PARRUCCHIERA Maria Miccinelli - SEGRETARIA DI EDIZIONE Maria Grazia Baldanello FOTOGR. DI SCENA Angelo Pennoni - MONT. Tatiana Morigi - AIUTO MONT. Valentina Guerra - MUS. Carlo Rustichelli, diretta da Bruno Nicolai (ed. musicali CAM) - FONICO Pietro Vesperini - MICROFONISTA Giorgio Minoprio - MISSAGGIO Mario Morigi - INTERPR. Walter Chiari (Sandro), Gina Lollobrigida (Titta, sua moglie), Vittorio De Sica (il comm. Trepossi), Marcello Mastroianni (Peppino Marassi), Silvana Mangano (Silvia), Nino Manfredi (I’addetto al vagone letto), Elisa Cegani (governante in casa Marassi), Caterina Boratto (Luigia, cognata di Peppino), Grazia Maria Spina (nipote di Peppino), Vittorio Caprioli (il deputato), Franca Valeri (la segretaria di redazione), Mario Pisu (il vincitore del Capranica), Paolo Pa-nelli (un fotoreporter), Lelio Luttazzi (un regista), Elio Pandolfi (un telecronista), Mario Valdemarin (cameriere del vagone-restaurant), Fanfulla (un portiere), Giustino Durano (un vigile urbano), Sylvia Koscina (una diva), Mario Scaccia (un giornalista), Andrea Checchi (un uomo che prega), Saro Urzí (id.), Umberto D’Orsi (un viaggiatore in treno), Carlo Croccolo (id.), Graziella Granata (una ragazza in treno), Salvo Randone (il viaggiatore col menú), Marisa Merlini (una signora al telefono), Luisa Rivelli (una signora che balla), Gianni Rizzo, Nerio Bernardi, Mim-mo Poli, Marina Malfatti (una ragazza che balla), Piero Pastore, Silvio Bagolini, Francesco Baiolo, Renato Caizzi Terra (C.S.C.), Salvatore Campochiaro, Enzo Cerusico, Alberto Cevenini (C.S.C.), Solveig D’Assunta, Ermelinda De Felice, Rica Dialina, Rossana Di Rocco, Maria Rosaria Di Pietro, Alessandro Dori, Mario Ferrari (il viaggiatore del formaggio), Ettore Geri, Charles John Karlsen, Renato Malavasi, Gianni Manera, Geneviève Marck, Vittorio Mazza, Fabrizio Moroni (un ragazzo al telefono), Paul Muller, Lia Murano, Enzo Petito, Umberto Sacripante, Rosella Spinelli, Carlo Sposito, Daniela Surina (una monaca), Tellino Tellini, Giulio Tomassini, Elsa Vazzoler (una signora col ventaglio), Luigi Visconti, Leena von Martens, Antoinette Weynen - DIR. DI PROD Renato Panetuzzi, Piero Ghione - DIRETTORE AMMINISTRATIVO Fernanda Ventimiglia - SEGRETARIO DI PRODUZ. Alberto Rovere - PROD.

IO, IO, IO…e gli altri1

di Alessandro Blasetti1966

1 Il programma del Convivio prevedeva la lettura del film “Io, io, io… e gli altri” di Alessandro Blasetti (1966) tenutasi giovedì 23 marzo, ore 16,00 Salla della Comunità Sant’Antonio, Barletta. La lettura è stata guidata da S. Ecc. Mons. Francesco Cacucci, Arcivescovo metropolita di Bari-Bitonto, Gran Cancelliere della Facoltà Teologica Pugliese che ha introdotto e fornito diversi spunti metodologici prima, durante e dopo la proiezione. Non potendo dare resoconto dell’incontro viene qui pubblicata la lettura del film tratta da NAZARENO TADDEI sj (a cura di), 10 Film da rivedere, ed. CiSCS, Roma, 1995, per gentile concessione del Centro Internazionale dello Spettacolo e della Comunicazione Sociale. Si ringrazia la sig.a Gabriella Grasselli, presidente del Centro.

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Luigi Rovere per Cineluxor e Rizzoli Film - STABILIMENTO E MEZZI TECNICI Rizzoli Film, Safa Palatino - NEGATIVI, POSITIVI ed EFFETTI OTTICI SPES - ORIG. Italia, 1966 - DISTR. Cineriz - 116’, 2900 m.

Il GIUDIZIO UFFICIALE CATTOLICO (C.C.C., Italia) del tempo: «Per quanto impostato con intenzioni critiche satiriche o moralistiche, il lavoro presenta alcune scene sensuali troppo insistite in maniera tale da apparire come uno sfruttamento ambiguo di elementi erotici e morbosi. Per conseguenza alla visione del film si impongono nette riserve. Per adulti con riserva.»

ANALISI E LETTURAdi Nazareno Taddei sj

«È LA STORIA DI Sandro giornalista e scrittore, il quale, impegnato in una inchiesta sull’egoi-smo - nel corso della quale ne rileva acutamente la presenza in ogni aspetto della vita (il contatto con il prossimo, il matrimonio, la politica , la religione, la morte, l’amicizia, il sesso, il successo), mentre egli stesso non comprende il pratico insegnamento antiegoista dell’amico Peppino (che lo porta a vedere nel bosco due vecchietti innamorati simbolo di una vita d’amore e di dedizione, e che morrà poi in un eroico ultimo gesto di altruismo) - costatando, in un casuale incontro, come Silvia (celebre diva che egli aveva avviato ad una deludente carriera cinematografica, sciupando cosí per leggerezza ed egoismo il profondo slancio affettivo di lei, e che aveva in effetti reso vuota di ogni soddisfazione interiore) sia umiliata dal fanatismo dei suoi ammiratori, prende coscienza dei valori rappresentati dai due vecchietti di Peppino».

Come vicenda, il film è la storia di Sandro, giornalista incaricato di svolgere un’inchiesta sul-l’egoismo, e di alcuni personaggi che gli sono variamente legati: l’amico Peppino, l’amica Silvia, la moglie Titta, Trepossi, ecc..

Come racconto cinematografico, la parte narrativa è strutturata nell’arco di tempo com-preso tra due viaggi che Sandro compie da Milano a Roma e durante il secondo dei quali egli ha occasione di vedere Silvia - attrice di successo, da lui stesso spinta verso quella carriera - umiliata profondamente, proprio dall’entusiasmo dei suoi fans.

Si possono cosí notare due filoni narrativi - il primo, la storia presente di Sandro; il secondo, costituito da una serie di piccoli e grandi episodi da lui rivissuti o immaginati nel contesto del-l’inchiesta che sta conducendo - che si incontrano alla fine attraverso l’episodio dell’umiliazione di Silvia, permettendo cosí di ricostruire tutta la storia del rapporto Sandro-Silvia.

Sul treno Milano-Roma, Sandro ha vari incontri (i proletari del corridoio, la ragazza al fine-strino) che lo portano a riflettere sull’oggetto della sua inchiesta (il discorso dal grattacielo, la donna sulla spiaggia). Nella notte un sogno angoscioso (si trova per la strada senza pantaloni) permette di introdurre, caratterizzandoli quelli che saranno i personaggi principali del film: la moglie, il commendatore Trepossi, il sensibile e altruista Peppino, suo buon amico. Appena giunto a Roma (scena del telefono), Sandro incontra Peppino che, promettendogli di mostrargli una cosa meravigliosa, lo conduce nel bosco a vedere due vecchietti che camminano sereni tenendosi affettuosamente per mano.

Anziché aderire all’ingenuo entusiasmo dell’amico, Sandro ne resta infastidito e seccato. Rientrato a casa, la descrizione e l’evocazione della vita di Sandro con la moglie, l’invito degli

amici ed il gioco frivolo e possessivo di Titta, offrono occasione per una serie di annotazioni sul matrimonio (il primo incontro, Sandro e Titta a letto, Sandro che cerca di scrivere mentre la moglie lo disturba).

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Il mattino seguente, osservando l’onorevole Filippi far ginnastica sul terrazzo, Sandro immagina gli intrallazzi politici di costui (la celebrazione dell’incarico ottenuto in seguito alla morte di un collega), indici di un egoismo che si manifesta nella tensione verso il potere, precisata successi-vamente ai vari livelli (individuale, di partito, di popolo) con annotazioni ora grottesche (il vigile tronfio sulla sua pedana, i tre gradini dell’ascesa politica), ora tragiche (il gioco delle cocuzze).

Segue poi un capitolo su alcuni aspetti dell’egoismo in rapporto alla religione (si va in chiesa per ripararsi, per farsi vedere, per cercare aiuto superno negli interessi materiali; questa parte si conclude con la sequenza di Sandro confessore).

E viene quindi affrontato il lungo e complesso capitolo relativo alla morte: i numeri del lotto, le vacanze per la morte del presidente, la lettera del suicida, su su fino alla morte di Peppino, con tutte le sue molteplici e acute componenti (p.e. il necrologio), col secondo viaggio di Sandro a Milano e relativi incontri vari (la bara, le donne della famiglia ecc.). Nel viaggio di ritorno, gli avvenimenti di cronaca portano a introdurre un capitolo sul sesso, visto sempre sotto il profilo dell’egoismo.

Ed ecco l’incontro col personaggio di Silvia. Senza farci sapere nulla di lei, l’autore l’aveva introdotta a poco a poco, dalla cover-girl dell’inizio, rivista sui tavolini della redazione, fino alle sue apparizioni ammonitrici (in una rievocazione dei due vecchietti, ma soprattutto nell’episodio della confessione).

Ma è nella parte finale che il personaggio si rivela in tutta la sua storia: come avviata da San-dro alla carriera artistica, ora profondamente umiliata e impoverita proprio dal successo di cui è all’apice.

È così che i due annunciati filoni narrativi prendono consistenza strutturale secondo due ordini di perni gravitanti ambedue attorno al personaggio di Sandro:

a) in senso per così dire orizzontale, si passano in rassegna tutte le principali circostanze carat-terizzanti la vita (il contatto con il prossimo, la vita coniugale, la religione, la politica, l’amicizia, il sesso, ecc.);

b) in senso per così dire verticale, troviamo la figura di Peppino, che contrasta con tutte le altre figure per il suo altruismo, e la figura di Silvia, che pure a suo modo contrasta con le altre figure del film, ma che si inserisce particolarmente nella storia di Sandro, non più come contrasto este-riore, normativo, così come qualcosa che sgorga dall’interno della personalità di Sandro stesso, poiché è lui che in qualche modo ha creato il personaggio che ora lo rimprovera.

Pertanto nello sfondo di una vita in cui l’egoismo ha così gran parte, incuneandosene in tutti gli aspetti e sotto le piú svariate forme, la figura di Sandro è misurata in qualche modo dalle figure di Peppino e di Silvia, con la precisazione che quest’ultima è ora desolata proprio per aver seguito con umile fiducia i suoi consigli.

Silvia cercava in Sandro qualcosa di bello e di personale, e questi - egoisticamente - ha creduto di offrirglielo, consigliandola verso la via di quel successo che ora la fa infelice.

La significazione della «vicenda» nasce ovviamente da quella degli episodi mostranti i vari aspetti dell’egoismo della vita e si limita a questo. Ma la significazione del «racconto», pur sullo sfondo di questa realtà egoistica così universalmente diffusa, pone al centro Sandro, cioè colui che - proprio mentre fa un’inchiesta sull’egoismo, e la fa con notevole spirito di osservazione e intelligenza - resta vittima dell’egoismo stesso nella forma più pacchiana.

Blasetti sottolinea questa significazione fin dall’inizio del film (p.e. quando Sandro raggiunge il suo scompartimento attraverso i vagoni del treno) non abbandonandolo mai (p.e. il discorso sul sesso verso la fine del film) fino alla sequenza finale.

Una nota particolare merita l’apparizione di Silvia. Sandro aveva indirizzato Silvia al cinema

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prima di fare l’inchiesta, ma - ora che fa l’inchiesta - Silvia è per lui voce obiettiva della coscienza che lo dovrebbe richiamare in sé (le varie misteriose apparizioni), e infatti - di fronte all’umilia-zione brutale della donna - Sandro finalmente penserà; e i due vecchietti di Peppino (simbolo di amore vero e quindi di antiegoismo) gli verranno alla mente, pensosa, come per contrappunto. Sandro così prenderà coscienza in qualche modo dell’egoismo che lo ha guidato nei rapporti con Silvia e dell’egoismo in genere.

In altre parole, la significazione immediata del racconto è la seguente: «Sandro, che pur sta scoprendo l’egoismo in tutti gli aspetti della vita, non si rende conto come anch’egli ne sia vittima al punto di non capire nulla della vera figura morale dell’amico (del quale peraltro sep-pe tessere un magnifico necrologio) e di non accorgersi nemmeno che per un atto di egoismo fatuo e leggero aveva rovinato l’esistenza a una donna che gli si era spiritualmente affidata; e ciò fino a quando, vedendo questa donna umiliata e avvilita proprio al culmine e per causa di quel successo al quale egli l’aveva avviata, si pone pensoso a riflettere sull’insegnamento che Peppino gli aveva lasciato».

L’universalizzazione di questa significazione appare facilmente.Anzitutto, il film si preoccupa di mostrare come l’egoismo sia un aspetto di tutta la realtà

umana (la rassegna attraverso le situazioni-chiave della vita umana, come sopra accennato). In questo senso, Sandro è solo una situazione tipica o un caso in più: l’egoismo c’è in tutta la vita, perfino in coloro che lo studiano e lo condannano.

In secondo luogo, il livello d’universalità a cui l’autore tratta i personaggi (Sandro - Peppino - Silvia) nei perni strutturali è quello della persona umana e non quello dell’individuo o della categoria o dell’età o della professione o altro: Peppino - che, come individuo, è certamente inusitato e quasi eccentrico (e lo consideriamo così, perché l’egoismo invade talmente tutti da considerare eccentrico chi non lo è) - diviene emblematico non nelle sue vicende personali, bensì attraverso i suoi due vecchietti. Questi sono, per così dire, l’emblema del suo spirito (non del suo comportamento: quindi livello di persona umana e non di individuo) sia perché Peppino guarda ad essi come a un miraggio, sia perché essi ne riflettono il vero fondo umano. Ed essi rappresen-tano l’amore vero al livello di persona umana normale: la dedizione religiosa fonte di serenità, la tenerezza anche sensibile al di là del sesso, ecc.. È questo «Peppino universalizzato» che agisce sul Sandro della ultima inquadratura. Analogo discorso per Silvia. All’autore, nella connessione strutturale del film, non interessa l’attrice che voleva qualcosa di serio nella vita; non interessa nemmeno la donna: interessa la persona umana, che - proprio come persona umana - è stata derubata dal successo dell’attrice (v. colloquio sulla terrazza dell’albergo veneziano).

È la persona, non l’attrice o la donna, ad essere avvilita dal fanatismo degli ammiratori: divenuta «cosa», «sogno» «sesso» ecc. che ciascuno può toccare e morsicare a pezzi senza riguardo per quello che c’è «dentro». Lo stesso dicasi per Sandro: non è il giornalista o lo scrittore o il maschio, bensì Sandro come persona umana che è vittima - e non si accorge di esserlo - di quell’egoismo che come scrittore sta fustigando.

Pertanto, la significazione del racconto assume l’universalità del livello di persona umana e potrebbe così esprimersi: «l’egoismo è qualcosa che invade e penetra tutti, in ogni circostanza, al punto di farci perfino considerare bene il male che facciamo (per il fatto che lo facciamo noi) e da impedirci di cogliere, quand’esso è in gioco, i veri valori della vita».

Tematicamente il film è notevolmente positivo sia per la profondità dell’assunto (è uno dei problemi radicali dell’esistenza umana, quello del peccato originale [cfr. Conc. Trid. Sess. V]), sia per l’efficacia espressiva con la quale lo dimostra. Da notare che la validità espressiva è ottenuta non solo sul piano rigoroso della struttura linguistica, bensì anche su quello spettacolare, cosicché

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essa viene colta di fatto anche da chi non compie una «lettura» vera e propria, ma si limiti alla significazione della vicenda. Ne è prova la reazione del grosso pubblico in sala: prima ride, ma alla fine se ne va pensoso.

Cinematograficamente a una certa narratività spettacolare (alla cui finalità tematica si è pe-raltro accennato), il film mostra una struttura solida ed interessante, che ha ben poco da invidiare alle piú azzardate esperienze linguistiche e di montaggio recenti. Per questa novità linguistica, forse c’è stato chi - non cogliendo l’intima forza strutturale e distratto dalla spettacolarità dei singoli episodi - ha ritenuto di riscontrare una frammentarietà che non esiste affatto.

Esteticamente, il film si presenta come opera spettacolarmente fruibile, e attraverso lo spet-tacolo, comunicante un preciso messaggio tematico. È dunque difficile parlare di «contemplabi-litas» in senso stretto. Ma se non si può parlare di arte come «contemplabilitas», si può parlare molto bene di arte come «factio», sia per i pregi già notati della cinematograficità e della stessa struttura, sia per la sicura adesione degli interpreti, sia soprattutto per il ritmo delle immagini. L’autore non si è posto - né quindi ha raggiunto - mete espressive in senso poetico, bensì si è proposto di fare un film-conferenza, un film cioè che il grosso pubblico fosse attratto a vedere, così tuttavia da trarne insegnamento.

Moralmente, il film, che a prima vista pare qua e là indulgere eccessivamente ad attrattive spettacolari, a visione più mediata rivela la giustificazione di certe scelte, le quali, sotto l’apparente disinvoltura d’immagine, mostrano con precisione il nascondersi dell’egoismo in determinate si-tuazioni. È il caso di certe scollacciature che a prima vista parrebbero messe lí come puro pretesto, mentre di fatto nascondono l’unghiata contro chi si comporta a quel modo. Da tener presente inoltre che il film è destinato al grosso pubblico smaliziato e dai sapori grevi, difficilmente sen-sibile alle consuete forme di richiamo spirituale; non è indirizzato a persone abituate a ricevere richiami da altri pulpiti più tradizionali. A parte questi aspetti esteriori dell’immagine, la bontà altissima della tematica e la validità della sua espressione a ogni livello di lettura depongono per l’alto valore morale di quest’opera originale e profondamente umana. Da notare poi - cosa rara per l’epoca in cui il film è uscito - la bella figura che vi fa il sacerdote in tutte le circostanze: figura di uno che è nel mondo pur non essendo del mondo, sempre pronto a fare del bene, pure con i suoi difetti e con i suoi limiti.

Il film può essere adatto per cicli sui film con particolari procedimenti narrativi sulla satira di costume, sui problemi morali e umani del matrimonio e della famiglia, sui problemi spirituali dell’esistenza.

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La cinelettura è un’operazione intelligente, a volte difficile, ma liberante e sempre entusiasman-

te. Secondo la metodologia del Centro Internazionale dello Spettacolo e della Comunicazione

sociale, elaborata dal prof. Nazareno Taddei, sono da farsi almeno sette operazioni successive

per poter “leggere” convenientemente un’opera cinematografica:

Breviario del Cinelettore1

1 È parso opportuno ed utile, dopo la scheda di lettura del film proiettato durante il Convivio, pubblicare queste indicazione pratiche definite Breviario del Cinelettore. Tale sintesi, degli anni Settanta - Ottanta costituiva il vademecum del Cineforum del CesAmB - Centro Sant’Alberto Magno in Bari - Palese. La redazione è del sac. Luigi Minerva, all’epoca parroco della Parrocchia Sant’Alberto in Bari. (a.c.).

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1. Ricerca e ripartizione della vicenda (= la trama, la storia, il fatto: la “cosa rappresentata”);

2. Ricerca del racconto cinematografico (= i modi, le scelte tecniche, le angolazioni particolari e gli effetti originali: la “rappresentazione della cosa”);

3. Ricerca del protagonista:• chi o cosa riempie di sé lo schermo;• chi o cosa intorno a cui ruotano tutti gli altri elementi dell’opera;• chi o cosa fa una chiara e progressiva evoluzione dall’inizio alla fine dell’opera;• chi o cosa, se sottratta, fa cadere tutto il discorso dell’opera;

4. Ricerca dei perni strutturali (ricavabili dai “come” cinematografici della vicenda e del rac-conto, due o più episodi e/o maniere particolari ed originali di rappresentare la storia, scelti e chiaramente marcati per una significazione pregnante: sono le “chiavi” della lettura);

5. Ricerca del livello di universalizzazione del significato di una storia, necessariamente particolare e definita, ma capace di emblematizzare una realtà oggettiva;

6. Ricerca dell’idea centrale o messaggio idealogico che ha inteso lanciare l’autore con la sua opera;

7. Ricerca del fondo mentale o piattaforma ideologica dell’autore, ricorrendo anche alle altre opere del medesimo autore.

Solo dopo o durante queste sette operazioni di “lettura” cinematografica è possibile espri-mere un giudizio di valutazione:

• sulla struttura dell’opera (= se tutti gli elementi - immagini, fono, colore, ritmo, montaggio, ecc. - concorrano unicamente ed unitamente a costruire progressivamente una dimostrazione dell’idea centrale);

• sulla poetica o contemplabilità estetica delle parti e del tutto;

• sulla moralità dell’opera, che non vien meno, per principio, con la rappresentazione ogget-tiva del male, quanto con la complicità o compiacimento che l’autore a volte dimostra nella descrizione di inutili dettagli, nella comunicazione “rifilata o clandestina”, nelle alonature morbose e scandalizzatici, quando non vien meno proprio per l’idea centrale, dichiaratamente immorale o blasfema.

Siamo al terzo incontro del Convivio.Nel primo mons. Dario Viganò con com-

petenza e passione ha presentato l’excursus storico riguardante l’Ente dello Spettacolo e, comunque il rapporto del mondo cattolico specie italiano con il cinema.

L’aspetto metodologico è stato affrontato nell’immediatezza della lettura del film. La presentazione di mons. Cacucci prima della proiezione del film, e le brevissime indicazioni date in alcune parti del film anche solo con il richiamo ad un particolare e la guida per gli interventi finali hanno racchiuso una serie di aspetti sia semiologici che di significato che richiederebbero una relazione specifica solo per elencarli. La sua guida competente ed esperta ha mostrato in modo anche stimolante come si può essere studiosi dell’immagine dal punto di vista teologico e lettori delle sue rappresen-tazioni e significazioni.

L’incontro di oggi intende essere una panorami-ca sulla ricerca sul volto e il mistero di Gesù nell’arte ma soprattutto in quell’arte che è il cinema. Il Direttorio CEI sulle comunicazioni sociali Comuni-cazione e Missione (2004), al n. 40, parla di forme contingenti legate alla storia e al tempo.

Il Direttorio afferma:

“Nata dall’evento comunicativo del Verbo, la Chiesa è costituita essenzialmente come trasmissione di questo evento di comuni-cazione tra gli uomini nelle forme comuni-cative della società umana. Forme legate alla storia, al tempo. Forme contingenti. Che non penalizzano la missione della Chiesa, ma anzi offrono nuove opportuni-tà per andare in tutto il mondo e predicare il Vangelo ad ogni creatura”.

Per parlarci di Gesù nel cinema: il volto e il mistero è qui con noi il prof. don Vito Marotta al quale mi lega una lunga amicizia.1 Don Vito affronterà una problematica molto comples-sa che parte da una riflessione teologica sui moderni mezzi di comunicazione sociale e, in particolare, del cinema visto che, come don Vito stesso racconta, nasce da ragazzo quando a Gioia del Colle Pasolini faceva le riprese del Vangelo secondo Matteo reclutando le com-parse tra i braccianti allettati dalle 5.000 lire al giorno di un lavoro lieve contro le 100 lire per lavorare duro sotto il sole e le intemperie.

L’ultimo lavoro di don Vito è la pubblicazione del volume Gesù nel cinema che costituisce la sua ricerca per il dottorato in teologia pastora-

Gesù nel cinema:presentazione del volume e del suo autore

di ANTONIO CIAULA*

* Docente stabile di Comunicazioni Sociali, di Pastorale delle Comunicazioni Sociali e Sociologia - Istituto Supe-riore di Scienze Religiose San Nicola, il Pellegrino - Trani

1 Il curriculum del prof. sac. Vito Marotta è inserito nelle note iniziali della sua relazione pubblicata nelle pagine a seguire.

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le. Nella presentazione del volume il prof. Ciro Sarnataro della Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale che ha scientificamente seguito don Vito nel percorso pluriennale per il conseguimento del dottorato di ricerca in teolo-gia pastorale così definisce don Vito: appassio-nato cinefilo, ma anche e soprattutto sacerdote generosamente ed entusiasticamente impegna-to in prima linea nella formazione di operatori pastorali della comunicazione sociale.

Il cuore della ricerca dell’autore è il rap-porto tra il cinema e Gesù. L’accostamento è preparato richiamando il lungo percorso dei tentativi umani di riprodurre artisticamente il volto di Gesù, gli episodi della sua vita, in certo modo il suo mistero, mostrando l’importanza dell’intuizione artistica e della via della bellezza per arrivare a Dio.

Evitando aspetti esclusivamente tecnici, viene richiamata l’importanza dell’invenzio-ne del cinema, inizialmente pensato come riproduzione di immagini in movimento, e poi affermatosi come forma moderna di arte, e sono presentati sinteticamente gli aspetti pro-pri di questo affascinante medium: il cinema comunica utilizzando codici e strumenti lin-guistici complessi, non semplici da individuare, non riducibili soltanto all’emotivo; il cinema è voce del mondo, dell’arte, della cultura, aiuta la Chiesa ad interpretarne il senso. In questo modo, l’autore dà ragione anche del proprio interesse, della propria passione e del proprio impegno educativo per il cinema, da tanti ancora considerato banalmente come mezzo di divertimento e d’evasione.

A questo punto, il lavoro prende in esa-me direttamente un certo numero di opere cinematografiche dedicate a Gesù, senza na-scondersi gli interrogativi di fondo: è in grado il cinema, come opera d’arte, di “dire” Gesù Cristo? di aiutare a conoscerlo, così come si diceva anticamente della Biblìa pauperum per i fedeli analfabeti (ma anche alfabetizzati) del Medioevo (e di oggi)? di aiutare a comprendere l’attualità del suo insegnamento e l’importanza della sua missione a favore degli uomini?

A queste domande il volume, con attenzio-ne alla complessità dell’impresa tentata dal cinema, e con molta aderenza alla situazione reale, risponde nei termini seguenti: • quando si confronta con la figura di Cristo (e

questo è accaduto quasi fin dall’inizio, per il fascino esercitato dalla Scrittura e dalle sue “storie” e dai suoi personaggi straordinari) il cinema ne presenta aspetti affascinanti, ma soffre di molte limitazioni;

• talvolta comunica un Gesù che non è quello dei Vangeli, o della fede della comunità cri-stiana, ma quello immaginato dall’autore;

• il cinema può “comunicare” Gesù anche non parlando direttamente ed esplicitamente di lui, ma raccontando storie che “ripercorro-no” la sua vita, “riproducendo” o trascri-vendo i suoi conflitti, i suoi insegnamenti, le sue relazioni in contesti culturali distanti e diversissimi…;

• anche quando ne offre profili discutibili o presenta ricostruzioni “immaginarie” della sua vita, che toccano profondamente la sensibilità dei cristiani e della chiesa, tuttavia, in qualche modo richiama l’interesse sulla figura di Gesù, stimola il dibattito e la ricerca personale, aiuta a portare l’attenzione su di lui e a ricercarne, con l’aiuto della Chiesa, il vero significato per la storia dell’umanità.

Giustamente, come si intuisce, viene tentata una proposta di criteriologie interpretative, adeguate all’oggetto dell’indagine e ad esso limitate, e da non confondere con le classifica-zioni che riguardano il successo commerciale e di pubblico, oppure l’attività critica volta a individuare l’estetica dell’autore, o le matrici e le correnti culturali cui l’autore rinvia, o nelle quali si riconosce, o anche il profilo etico dell’opera.

L’analisi condotta dall’autore apre molti altri interrogativi (forse più di quanti non è riuscita a risolvere, ma questo rientra nei caratteri normali di ogni ricerca). Ad esempio: la qualità “teologica” di un film su Gesù dipende dalla ricerca di puntigliosa fedeltà ai testi sacri che parlano di lui? dalla fede personale del regista e dei suoi collaboratori? dalla sincerità con

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cui egli compie la sua ricerca, anche se è non credente? Da una vera capacità di intuizione artistica del mistero nascosto nella vicenda umana del Cristo?

A conclusione di questa breve presenta-zione, richiamo l’attenzione su altri aspetti attraenti del volume: il consistente numero

di pregevoli immagini d’arte e di opere cine-matografiche, una buona bibliografia e una filmografia corredata di tutti i dati utili.

La passione dell’autore per la materia della sua ricerca è nello stesso tempo percepibile, e controllata, sicché lo stile non eccede mai nell’enfasi, anzi risulta accattivante, scorrevole e chiaro.

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Il cinema, nella sua storia, ha dato molti volti a Gesù. La frequente presenza di Gesù nella storia del cinema testimonia un interesse sia da parte degli autori sia da parte del pubblico. A tal fine si sono ricercate le motivazioni che hanno portato gli uomini ad usare il linguaggio dell’immagine, partendo dall’iniziativa di Dio, che si autocomunica attraverso l’immagine.1

Dio attrae Mosè all’incontro e si mostra attraverso un roveto che non si consuma. (cf. Es. 3).2

Gesù nel cinema:il volto e il mistero*

di VITO MAROTTA**

Già in origine era data l’immagine della creazione, in cui Dio comunicando crea e crea l’uomo a sua immagine. L’immagine del Cri-sto crocifisso, a cui il cristiano è configurato, impegna ad operare perché sul volto di ogni uomo siano riconosciuti i tratti dell’immagine di Cristo. Il termine di “questa” assimilazione è la risurrezione e ancora una volta è l’immagine.

È di ogni uomo il bisogno di un volto che segni la sua vita. Il Figlio di Dio è l’immagine perfetta del Padre, a lui l’uomo è chiamato ad

* Trani; Auditorium - Sala Comunità San Luigi; venerdì 24 marzo 2006.

** Docente di Evangelizzazione e mass media nell’ISSR di Bari; Direttore Scuola di Comunicazione Sociale - diocesi Bari- Bitonto; incaricato regionale per le Comunicazioni Sociali della Conferenza Episcopale Pugliese; Prof. sac. Vito Marotta, sacerdote e giornalista, ha conseguito il Dottorato in Teologia Pastorale presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale di Napoli (Sezione San Tommaso d’Aquino) e il Master in Scienze della Tecnica e dell’Opinione Pubblica presso la Pontificia Facoltà Teologica Lateranense di Roma. È esperto di comunicazione tecnologica ed elettronica, lettura strutturale della fotografia, lettura strutturale del cinema; consigliere nazionale dell’Unione Cattolica Stampa Italiana e vice-presidente per la Regione Puglia; direttore responsabile de L’Odegitria, Organo ufficiale della Arcidiocesi di Bari-Bitonto e del Notiziario diocesano; docente di Comunicazione Sociale a Bari presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose della Facoltà Teologica Pugliese e responsabile della Scuola di Comunicazione Sociale della diocesi di Bari-Bitonto; relatore e incaricato stampa in convegni nazionali e internazionali; ha partecipato a numerose trasmissioni televisive e collabora con varie testate giornalistiche regionali e nazionali.

È direttore per la Diocesi di Bari-Bitonto dell’Ufficio Comunicazioni Sociali e Incaricato Regionale delle Co-municazioni Sociali per la Conferenza Episcopale Pugliese. Parroco dal 1991, ha al suo attivo numerosi saggi ed è autore dei recenti volumi Sullo schermo ho cercato il tuo volto, ed. Aries e Virgo, Bari 2005 e Giovanni Paolo II pane spezzato per il mondo, ed. Aries e Virgo, Bari 2005. Ha curato i volumi: La stampa nella diocesi di Bari-Bitonto (a cura), Ecumenica Editrice, Bari 1993, 295 pp. e Una Chiesa, un quartiere (a cura), Ecumenica Editrice, Bari 2000, pp.173. Ultimamente Gesù nel cinema, Ecumenica Editrice, Bari 2006, 208 pp.

1 CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Un volto da contemplare, in “Sussidio liturgico-pastorale. Quaresima-Pasqua”, 3 (2001), 24-29.

2 Cf. E. BIANCHI, Esodo. Commento esegetico spirituale, Qiqajon, Bose 1991.

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assimilarsi per riscoprire in sé quell’essere stato creato ad immagine e somiglianza. È l’uomo cerca di dare forma al suo pensiero immagi-nando il suo Dio. “Cercate il Suo volto. Il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto”. (Salmo 26). Ma la Scrittura lo metteva in guardia: “Non avrai per te altri dei davanti al mio cospetto. Non farai per te scultura a tutta immagine di ciò che (esiste)…” (Dt. 5,8). Il divieto cade con il Dio che si fa uomo.

Quello che non poteva essere visto, né poteva essere rappresentato, si è mostrato definitivamente in Gesù, Volto su cui è possibile contemplare l’immagine del Dio Creatore.

Nella chiesa delle origini l’arte cristiana, con simboli e con allegorie, rivela alla memoria dell’iniziato realtà che ha ascoltato nella cate-chesi. La Chiesa temeva l’idolatria ma esitava a rinunciare all’immagine come mezzo di co-municazione. Gregorio Magno affermava che le figure sono per gli illetterati ciò che le lettere sono per chi sa leggere.

L’uomo, immagine imperfetta per il pecca-to, ha bisogno dell’immagine perfetta che è il Cristo per ritrovare e perfezionare ciò a cui Dio l’ha predeterminato.

A livello popolare un ritratto classico del Gesù rappresentato nell’arte è quello con i lun-ghi capelli, la fronte alta, il volto maestoso, la barba spesso bipartita. Questo tipo di ritratto, nella prima arte cristiana, è raro. Nell’arte cata-combale, più vicina alla narrazione apostolica, è mostrato un Gesù giovanile. La narrazione iconica sta ad indicare la natura divina non sottoposta al processo di invecchiamento. Il Buon pastore è la classica immagine di Cristo nei primi secoli che indica la potestà regale di Gesù come pastore divino di tutti i popoli.

Con l’inizio del secolo IV cessarono le perse-cuzioni contro la Chiesa e bisognava presentare Gesù al mondo pagano. Egli è raffigurato come maestro elegante e spiritualmente superiore: seduto con autorità su un seggio da maestro, sandali ai piedi, vestito con il manto dei filosofi e in mano il rotolo della scrittura. È l’eterno

giovane, siede in mezzo ai sapienti del mondo ed insegna la sapienza divina.

Nella metà del IV sec. abbiamo un volto di Cristo probabilmente il più antico con i linea-menti che ci riconducono al volto dell’uomo della Sindone di Torino. Il Cristo è raffigurato a mezzo busto. Sono già presenti i tratti del Pantocrator bizantino: la frontalità, gli occhi ben aperti, la barba, l’aureola, gli abiti, la mano destra benedicente alla greca, con il pollice appoggiato all’anulare. Il concetto di ritratto di Gesù si palesò dopo che si ebbe la certezza di possedere un’immagine esatta del suo volto, individuato nell’immagine acheropìta trovata a Kamulia.

Uguale notorietà si creò per l’immagine del Santo Volto Mandylion di Edessa (ora iden-tificato con la Sindone di Torino). I due volti compiacenti della Veronica e della Sindone, divennero gli archetipi della successiva figura-zione del volto di Cristo.3

Di tutte le immagini di Gesù la più nota è la raffigurazione crocifissa. L’immagine del crocifisso non era presente negli ambienti d’incontro delle prime comunità cristiane. Nelle catacombe e nelle chiese domestiche nella Roma della prima evangelizzazione la passione e la morte di Gesù venivano espresse attraverso altre immagini.

Dal IX secolo comincia a diffondersi un’im-magine di crocifisso con i segni della sofferenza ma, ancora, l’artista cristiano per quasi tutto il primo millennio non ha rappresentato sulla croce un uomo morto, bensì un Gesù vivente. Giunta da Pisano è il primo interprete in Italia dell’iconografia del Cristo morto, giunta e diffusa dall’area bizantina. La struttura com-positiva di questo esemplare è il modello su cui Cimabue elabora in senso drammatico la sua figura di Cristo sofferente. Cimabue nei crocifissi di Arezzo e Firenze giunge a una so-luzione ancora più drammatica accentuando

3 B. CHENU, Tracce del volto, ed. Qiqajon, Comunità di Bose 1996, 150.

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il senso della sofferenza umana nella curva, detta bizantina, del bacino, nelle lunghe ombre scavate del volto, nell’uso di un colore livido e cadaverico che non indulge a dubbi di sorta: il sacrificio supremo è compiuto.4

Dal punto di vista artistico, l’espressione più importante dell’immagine di Cristo fu in Oriente il Pantocrator e nell’Occidente medie-vale la cosiddetta Maiestatis Domini. L’Oriente coglie gli effetti dell’incarnazione di Dio e li manifesta col suo atteggiamento nei confronti delle icone. L’Occidente cristiano, invece, è convinto che la presenza primaria del Figlio di Dio attraverso i secoli sia riscontrabile nella sua Parola.

I maestri rinascimentali reintroducono ele-menti pagani nell’arte cristiana, ma questo giustifica una sorta di nuova iconoclastia nelle regioni europee conquistate dalla Riforma.

Gli artisti del barocco per reazione alla Rifor-ma hanno cercato di tradurre in nuove forme le esperienze mistiche di numerosi santi del Cinquecento; e danno all’osservatore l’impres-sione di partecipare egli pure ad un’estasi, ad una visione.5 In questi casi il Cristo è mostrato in un cielo lontano sulle volte delle chiese, come un giudice di giovanile bellezza e come l’eroe che erompe vincitore di una tomba.

Non esiste un Cristo tipico nell’arte del XX secolo. Nell’arte oggi da una parte si nota in Occidente un nuovo interesse “da collezioni-sta” per le icone cristiane orientali, dall’altra parte è ferma la ricerca per esprimere in forma nuova il divino.6

La nuova arte del cinema ereditando codici dell’arte visiva che la precede, tenta di espri-mere il mistero all’uomo contemporaneo. Il cinema è un gran dispositivo per raccontare delle storie, uno straordinario rielaboratore e narratore di vicende, era impossibile che il cinema e la Storia delle Storie non incrociassero i loro cammini. Fecero seguito pellicole che, in ripetute edizioni, portarono sullo schermo storie sacre.

Per il cinema, fare memoria non è una semplice trasmissione di informazioni da emit-tente a recettore. Ciò significa che anche nel parlare di Dio, bisogna assicurare la possibilità che gli scambi siano reversibili.7 È questo che crea la memoria. Il cinema non fa selezione, nulla sfugge al mezzo tecnico: vi sono grandi responsabilità in chi realizza un’opera.

I secoli non hanno sciolto il nodo sul come rappresentare Gesù. Il film a soggetto biblico, fin dall’inizio, fa riferimento da una parte alla tradizione religiosa popolare, e dall’altra al gusto e all’attrazione per il meraviglioso e il miracoloso in una modalità di recitazione e di costruzione delle scene ancora legata al teatro medioevale.8

Il Christus diretto da Giulio Antamoro nel 1916 è uno dei primi film che cerca di sfug-gire ai limiti della cinematografia degli inizi. La realizzazione del tema cristologico è fatta da uomo di fede e con una buona capacità di tecnica cinematografica.9

È il cinema italiano a stabilire negli anni Sessanta i modelli di un rinnovato cinema. La lezione la riceviamo da Pier Paolo Pasolini che

4 H. PFEIFFER, S.J., Il volto dei volti, mistero e fascino del santo volto, Velar, Bergamo 1997, 12-198.5 J. PELIKAN, Gesù, l’immagine attraverso i secoli, Mondadori, Milano 1998, 18-248.6 F. CARDINI, Symbola, in “Luoghi dell’infinito”, n.5 (1998), 32-36.7 GIOVANNI PAOLO II, “Una scintilla divina nel genio di chi crea”, Catechesi del Mercoledì, in Osservatore Romano,

12 Agosto 1988.8 Cf. L. CASTELLANI, Quando il Vangelo diventa copione cinematografico, L.D.C., Leumann (Torino) 1990.9 M. VANELLI, Christus. Alle origini del cinema religioso, in “Quaderni C.E.I. - Ufficio Nazionale per le Comunicazioni

Sociali”, Roma 2000, 5-9.

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nel 1963 realizza La ricotta. È un tentativo di attualizzare la passione di Cristo, contrappo-nendosi alle sacre rappresentazioni di illustra-zione pittorica. Il breve film è la premessa ideale all’opera che Pasolini firma l’anno seguente: Il Vangelo secondo Matteo. La novità di Pasolini stava nell’affermare, scegliendo uno solo dei quattro vangeli, che non è possibile “la” storia di Gesù ma solo una personale storia dell’in-contro con Gesù. Pasolini non vuole avvicinare Gesù al mondo moderno; con una confezione accattivante preferisce mostrarne la radicalità, lo scandalo. Nel suo film si avverte una ricerca di essenzialità al punto che prima della morte del Salvatore sceglie di non mostrarne nulla. Il tutto segnò un fortissimo distacco dai canoni oleografici del precedente cinema a soggetto biblico.10

Su questa linea anche Rossellini presenta il suo Messia. La vicenda di Cristo viene collocata all’interno dell’attesa salvezza del popolo ebrai-co. Il regista non ha aggiunto un atto di fede personale nella divinità ma si è incentrato di più sulla predicazione morale e sul messaggio evangelico.11

La lezione di Pasolini non basta e ritorna, con il Gesù di Nazareth di Zeffirelli, il racconto tradizionale con un prodotto di grande rilievo estetico.

Il film si situa sulla linea di una ricostruzione storica della pagina evangelica. Èun film che sottovaluta alcuni momenti centrali nella storia terrena di Gesù.12

D’Alatri nel film I Giardini dell’Eden rac-conta il periodo oscuro della vita nascosta di

Gesù, sul quale i Vangeli stendono un velo di silenzio. Il Gesù di D’Alatri rompe gli schemi classici ma si mantiene fedele ai grandi valori universali.13 Con Jesus di Roger Young si ritorna alla tradizione: religione, conversione e buoni sentimenti. Il regista presenta la figura del Mes-sia attraverso chiavi di lettura insolite, quali: l’amore di Maria, sua madre; l’appassionata sequela degli apostoli; l’ammirazione della folla; le preoccupazioni delle autorità religiose di Gerusalemme.14

Ciò che il vangelo non dice, il narratore cinematografico lo immagina e lo fa vedere. Nella sua opera The Passion Gibson ha scelto di servirsi, oltre che del racconto evangelico, anche delle visioni di una mistica tedesca, A.K. Emmerik. Il cinema aiuta a riflettere su Gesù proponendo storie e figure che devono la loro notorietà allo stesso Gesù.15 La forza di queste immagini sta nel fatto di essere una presenza di Lui in assenza di sue immagini.

Il curato del film Diario di un curato di cam-pagna vive la passione su se stesso, nella sua carne minata da un male incurabile, nell’ostilità che incontra, nella solitudine che sperimenta, nell’intuizione di avere rinunciato alla giovinez-za, in una inquietudine che è realmente alla ricerca di senso e di grazia.16

Il regista Tim Robbins mostra in Dead Man Walking un condannato a morte disteso su un letto a forma di croce per suggerire un’analogia non nella colpa ma nella pena. È attraverso questa chiave di lettura che si vogliono co-gliere, nelle immagini del film, gli elementi importanti per una riflessione cristologica.

10 P. P. PASOLINI, a cura del Centro S. Fedele dello Spettacolo, Il Vangelo secondo Matteo, in “Letture”, Milano 30 giugno 1965, 1-8.

11 V. FANTUZZI, Il Gesù di Rossellini, in Rivista del Cinematografo, 3 (1975), 147-149.12 E. BARAGLI, Il mio Gesù di Franco Zeffirelli, in “La Civiltà Cattolica”, 3068 (1978), 154-158.13 Cf. L. BAUGH, Chiesa, cinema e I giardini dell’Eden di Alessandro D’Alatri. La tradizione del film su Gesù, in

“Consacrazione e Servizio”, 1 (1999), 52-63.14 N. MARZIANI, Vita di Jeoshua Giovane, in “Ciak”, 10 (1988), 13-17.15 Ibidem.16 L. BINI, Robert Bresson, registri cinematografici, in “Letture” 3 (1986), 50.

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Il Pranzo di Babette di G. Axel è un ode al-l’incanto dell’arte culinaria, ma è nel parabolico narrare di un dono di sé, che porta a identifi-care Babette come “figura Christi”. Grazie alla creatività di Babette, il cibo e il piacere dei sensi si rivelano grazia incarnata per un’esperienza di conversione.17

Il cattivo tenente di Abel Ferrara18 è la storia di un ufficiale di polizia corrotto che indaga su un caso di violenza carnale subito da una suora che conosce i suoi aggressori ma ha deciso di perdonarli.

Di fronte al suo silenzio il cattivo tenente capisce di essere nel torto e inizia il suo per-corso di espiazione.

L’intentio operis della Mészàros è di pre-sentare ne La settima stanza una donna (il film narra la vita di Edith Stein) che ha vissuto cercando la sua verità, individuata poi, al pun-to più alto, nella tentata unione con Dio. La protagonista viene assimilata a Gesù che cade sulla via della croce.

La riflessione e la ricerca si incentra ora su alcuni film con immagini provocatorie di Gesù, che hanno impedito di comprendere che questi film contribuiscono a sviluppare riflessioni sulla natura dell’uomo Gesù.

Lontani dagli schemi classici di Hollywod, Jesus Christ Superstar porta sullo schermo la figura di Gesù Cristo con i moduli espressivi del-la musica rock. Gesù è visto come antesignano del fenomeno hippy e si sottolinea l’aspetto di

rottura delle convenzioni d’inquetitudine gio-vanile senza approfondire troppo il messaggio spirituale.19

Nel film di Scorsese, L’ultima tentazione di Cristo, la tentazione è quella di un provare a sfuggire alla sua missione. La tentazione è una lunga sequenza in cui Gesù si sposa, invecchia fin all’incontro con Giuda che lo rimprovera per non aver portato a termine la sua missione. Di fronte al mistero Scorsese dichiara la pro-pria inadeguatezza, ci rappresenta un Cristo perplesso dinanzi alla sua identità e alla Sua missione.20

Usando una tecnica da thriller e totalmente immerso in una cultura New Age, Stigmate è un film che usando immagini cristiane sviluppa un discorso innervato di un anticristianesimo profondo.

Stigmate è il frutto di questa tesi che il Vangelo di Tommaso è il vero Vangelo e il Vaticano ha operato per nascondere la verità. Ogni artista che racconta Gesù traduce in real-tà il desiderio di dargli il volto e riconoscerlo. Punto di partenza è pur sempre la narrazione evangelica.

Anche nei film d’argomento non esplicita-mente religioso è possibile trovare autentici valori umani, una concezione della vita ed una visione del mondo aperte verso il trascendente. Il cinema è un mezzo particolarmente adatto a raccontare il mistero ineffabile che circonda il mondo e l’uomo.21

17 A. MANZATO, Il Pranzo di Babette, in “Letture”, 10 (1988), 54.18 S. DANESE, Il cinema di Abel Ferrara nel cinema delle parabole, in “Quaderni di Nostro cinema”, Acec. 41 (1999),

59-68.19 L. BINI, Jesus Christ Superstar, in “Letture”, n.3 (1974), 240-243.20 N. TADDEI, L’ultima tentazione di Cristo, in “Edav”, 307.(1990), 17.21 A. BOURLOT, Un film: una storia del tempo e dell’amore, in AA.VV., in “La Parola ripresa”, Milano 1997, 21.

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Prima di entrare nell’argomento, ringrazio l’Istituto di Scienze Religiose per aver scelto la comunicazione quale tema centrale di questa edizione del Convivio delle Differenze in una prospettiva territoriale ed ecclesiale con par-ticolare riferimento alla nostra realtà. Questa occasione ci permette di fare il punto della situazione e di rilanciare l’impegno dell’Arci-diocesi in questo settore.

E venendo ora al tema affidatomi, sono co-stretto a fare una premessa, con la quale vorrei evidenziare quelle dinamiche, inizialmente slegate tra di loro, che, in seguito, incastonan-dosi, hanno favorito la nascita della Sala della Comunità Sant’Antonio in Barletta. Si tratta, in verità, di una ricostruzione già fatta in altra occasione1 (che, qui, ritengo necessario ripro-porre, magari con qualche adattamento).

Da tempo il clero barlettano - all’interno degli orientamenti pastorali per gli anni ’90 ruotanti attorno al tema Evangelizzazione e testimonianza della carità - avvertiva l’esigen-za, portandola poi al Vescovo, di promuovere una realtà impegnata sul piano della cultura in ordine soprattutto ai giovani; un segno fat-

tivo di presenza in questo campo che richiede capacità di dialogo, di confronto, ma anche di investimenti in strutture e mezzi.

L’accelerazione a questa dinamica è stata data, a parere mio, dalla fase di preparazione e dalla celebrazione del Convegno della Chiesa italiana tenutosi a Palermo nel 1995, al quale l’Arcidiocesi partecipò con una sua delegazio-ne, all’interno della quale c’ero anch’io.

Qui, si capì che l’evangelizzazione doveva passare anche per le vie della cultura e della comunicazione sociale.

E, fu proprio a Palermo che prese corpo il Progetto culturale orientato in senso cristiano, per il quale, la Chiesa, fedele al compito di pro-porre la persona di Gesù Cristo, come evento risolutore della storia (queste sono parole di un documento del 1997 della Presidenza della Conferenza Episcopale Italiana sul Progetto culturale), contemporaneamente ne doveva mostrare fino in fondo la valenza culturale della sua presenza e del suo messaggio, la ca-pacità di incidere nel modo con cui un uomo, un popolo vedono ed esprimono se stessi e la realtà.2

Progetto culturalee Sala della Comunità

di RICCARDO LOSAPPIO*

* Docente di Filosofia - Istituto Superiore di Scienze Religiose San Nicola, il Pellegrino - Trani; Diacono, Direttore della Commissione Diocesana per la Pastorale della Cultura e delle Comunicazioni Sociali; Direttore del periodico In Comunione.

1 Cfr. In Comunione, 2001/07, pp. 11-14.2 Presidenza CEI, Progetto culturale in senso cristiano. Una prima proposta, 1977, 1.

Il percorso a Trani-Barletta-Bisceglie

64 Convivio 2006 giugno 2008 - anno VIII

Naturalmente il vento di Palermo si fece sentire anche nella nostra diocesi, che seppe inserirsi bene nel nuovo clima inaugurato dalla grande assise palermitana della Chiesa italiana. Infatti i settori della cultura e della comunica-zione sociale furono oggetto di attenzione e furono messi nella condizione di essere operati-vi. Vorrei fare, a proposito, qualche esempio: la costituzione, ma soprattutto il rafforzamento, degli Ufficio diocesani Comunicazioni sociali e Beni culturali; l’attivazione del Servizio dioce-sano per il Progetto culturale; la nascita di In Comunione, il mensile diocesano; la parteci-pazione ai convegni nazionali; la celebrazione delle Giornata delle Comunicazioni Sociali, di Avvenire, di San Francesco di Sales (il santo protettore dei giornalisti); l’introduzione delle nuove tecnologie; l’avvio dell’inventariazione dei beni culturali ecclesiastici diocesani.

Il merito di quanto citato va a Mons. Car-melo Cassati e ai suoi collaboratori.

Mons. Giovan Battista Pichierri, ponendosi sulla scia del suo predecessore, ha conferma-to questa attenzione, incoraggiandone gli sviluppi.

Ragione per cui, conclusi i lavori di restauro della Chiesa di S. Antonio, dinanzi al proble-ma di quale destinazione pastorale si dovesse dare ad essa, Mons. Pichierri non ha esitato ad accogliere la proposta di finalizzarla al Progetto culturale, costituendovi in essa una Sala della Comunità. Nel farlo, posso dire che il Vescovo ha tenuto presente anche il Giubileo del 2000. Più volte, sin dal suo in-gresso in diocesi nel 2000, aveva detto, ma anche scritto, che l’evento giubilare dovesse produrre frutti concreti, o segni di rilievo, nei diversi ambiti pastorali. E posso attestare, che Mons. Pichierri, pensava, quale frutto o segno del Giubileo, per Barletta, e nel campo della cultura, all’abbinamento Chiesa Sant’Antonio e Sala della Comunità.

La Sala della Comunità Sant’Antonio è il risultato del convergere di quattro istanze o dinamiche:1. L’esigenza del clero di Barletta di cui ho

parlato all’inizio.

2. La ricaduta in Diocesi del Convegno di Palermo.

3. La conclusione del restauro della Chiesa di Sant’Antonio.

4. Il Giubileo del 2000.

Naturalmente, va detto, che questa scelta fu anche il risultato di un lavoro di tessitura silen-zioso e lento promosso dall’Ufficio diocesano comunicazioni sociali e dal Servizio diocesano per il Progetto culturale che, coinvolgendo altri uffici diocesani, poterono avvalersi, a proposito, di un documento ufficiale del 1999 della Commissione ecclesiale nazionale per le comunicazioni sociali, la Nota pastorale dal titolo La sala della comunità: un servizio pa-storale e culturale.

Questo documento, frutto di un aggior-namento - provocato da Palermo ’95 - della precedente Nota del 1982 dal titolo Le sale cinematografiche parrocchiali, sottolinea due elementi: 1. il concetto di Sala della comunità deve

essere maggiormente comprensivo rispetto a quello di Sala cinematografica parrocchia-le;

2. La Sala della comunità deve essere concepi-ta come struttura primariamente pastorale, nel contesto del Progetto culturale orienta-to in senso cristiano.

La Sala della comunità, pertanto, svolge un compito di inculturazione della fede nel territorio in uno stile di dialogo anche con chi non vive l’esperienza ecclesiale.

A proposito, vorrei ricordare le significative parole di Giovanni Paolo II proferite nel 1995, durante il Convegno ecclesiale di Palermo: la cultura è un terreno privilegiato nel quale la fede si incontra con la cultura. In tal senso La Nota del 1999 afferma:

“Le sale della comunità hanno il pregio di svolgere un’azione pastorale e culturale di ampio respiro, che coinvolge tutte le componenti della comunità ecclesiale e si rivolge, attraverso le varie forme della comunicazione sociale, anche a coloro

65Convivio 2006 giugno 2008 - anno VIII

che sono lontani dalla fede ma mostrano interessi per i grandi temi dell’esistenza umana”.

La Sala della comunità Sant’Antonio è stata inaugurata il 12 ottobre 2001, all’interno delle linee pastorali poste in atto da Mons. Giovan Battista Pichierri, in sintonia con la Zona pa-storale di Barletta.

Oggi essa è un centro culturale cattolico, riconosciuto dal Servizio Nazionale per il Pro-getto culturale della CEI. È luogo di incontro di tanti operatori culturali, di diversa estrazione e provenienza. Ospita numerose iniziative a carattere culturale (concerti, tavole rotonde, seminari di studio, teatro, cineforum, mo-stre, etc.). È sede dell’omonimo cinecircolo, del Forum cittadino delle associazioni per la cultura.

Si tratta di un lavoro non facile, per il quale non esiste alcuna ricetta preconfezionata, che richiede, però, passione per la ricerca, creatività, conoscenza del territorio e delle problematiche ad esso connesse, capacità di reperimento di quelle risorse - anche di tipo economico - attraverso le quali realizzare quanto progettato.

In base all’esperienza di questi anni, mi sento di sottolineare quanto segue:• Non basta avere un salone, un televisore, un

computer … per dire facciamo la Sala della comunità. Essa poggia su un ben preciso e qualificato progetto che va studiato, fatto

proprio. Mi piace, a proposito, esprimermi con questo slogan: Meno sale della comu-nità, ma più Sala della comunità.

La Sala della comunità ha una propria iden-tità che deve essere tutelata.

• Non va assolutamente dimenticato che la Sala della comunità, per definizione, è il luogo in cui la comunità cristiana esprime la propria indole missionaria attraverso l’uso saggio dei moderni strumenti della comunicazione sociale.

• Gli operatori della Sala devono: a) possedere una robusta spiritualità;b) avere un forte senso di ecclesialità;c) avere buone doti comunicative;d) essere preparati professionalmente nel

campo della cultura e delle comunica-zioni sociali.

Inoltre, tornando alle risorse economiche, sento di dover affermare che fare cultura co-sta. Una delle difficoltà in cui, in questi anni, noi della Sala della Comunità Sant’Antonio ci siamo imbattuti è infatti quella di natura finanziaria. Su questo piano, come ho detto, gli operatori devono diventare esperti nel reperire risorse su diversi versanti. Ma, senza dubbio, va esteso il significato della parola “carità”. Certo il primato spetta all’azione di carità verso l’indigente, verso il povero, soprattutto quello che manca di cibo, vestiti, casa.

Ma non sarebbe male pensare anche alla carità per la cultura, a quel gesto di sostegno a chi lavora per far emergere la valenza culturale del messaggio evangelico.

66

Non mi soffermo sul valore e sul significato della Sala della comunità, in quanto il prof. Losappio, che mi ha preceduto, nel suo inter-vento ha egregiamente delineato l’identità di questo strumento pastorale.

Invece, vorrei spendere qualche parola

sul documento dell’Arcivescovo Parrocchia e Progetto Culturale, del 1 agosto 2004, inviato come Lettera alla Comunità Diocesana. Spero che venga pubblicato negli atti di questa edi-zione del Convivio delle differenze.1

Rileggendolo a distanza di quasi due anni,

lo ritengo fondamentale per lo sviluppo suc-cessivo che la Sala della comunità (SdC) ha avuto nella nostra Arcidiocesi, in quanto ne ha accelerato la istituzione di nuove sulla base di criteri chiari, proprio per evitare quel pericolo evidenziato dal prof. Losappio di snaturamento della Sala medesima.

Il documento, pur nella sua brevità, rappre-

senta una riflessione completa sull’argomento. Mi piace scorrerlo leggendo soltanto i titoli dei singoli paragrafi:

1. Il Direttorio sulle comunicazioni sociali nella missione della Chiesa;

Nascono altrecinque Sale della Comunità

di SAVINO GIANNOTTI*

2. Per un servizio pastorale e culturale: la Sala della Comunità (SdC);

3. La SdC e il Progetto culturale;4. La Nota del 1999;5. Cos’è la SdC;6. Chi anima la SdC;7. I destinatari della SdC;8. La SdC e i mezzi della comunicazione;9. Il Grande Giubileo del 2000 e la prima SdC

diocesana;10. È necessario continuare;11. Alcune indicazioni operative;12. Conclusione.

Si tratta di un documento apripista nel quale Mons. Pichierri dichiara che “Alla luce del ma-gistero e della esperienza in atto nella SdC di S. Antonio in Barletta, desidero che tale espe-rienza si estenda e si realizzi nella altre Zone Pastorali”. Nel contempo, l’Arcivescovo detta alcune indicazioni operative molto importanti che cito per intero:1. La SdC potrà essere istituita anche a livello

parrocchiale a seguito di un mio decreto vescovile;

2. L’istituzione avverrà solo dopo che il gruppo di animazione avrà seguito un corso di for-mazione curato dalla Commissione cultura e comunicazioni sociali;

* Docente stabile di Teologia Pastorale Istituto Superiore di Scienze Religiose San Nicola, il Pellegrino - Trani; Vicario generale dell’Arcidiocesi di Trani-Barletta-Bisceglie.

1 Il documento è pubblicato nelle pagine che seguono.

Il nuovo decreto arcivescovile

68 Convivio 2006 giugno 2008 - anno VIII

3. La SdC dovrà far parte di un organismo più ampio, la Rete diocesana della SdC, coordinata dalla Commissione diocesana cultura e comunicazioni sociali.

E queste indicazioni sono state osservate in occasione della istituzione di ben cinque nuove SdC, il cui decreto istitutivo è datato 24 gennaio 2006.2

Si tratta delle seguenti Sale:

1. S. Luigi in Trani presso la Chiesa di S. Luigi;

2. Giovanni Paolo II nella Parrocchia S. Gio-vanni Apostolo in Barletta;

3. L’Areòpago nella Parrocchia S. Paolo Apo-stolo in Barletta;

4. Giovanni Paolo II nella Parrocchia S. Ferdi-nando Re in San Ferdinando di Puglia

5. Padre Giuseppe Maria Leone nella Parroc-chia Santo Stefano in Trinitapoli.

L’auspicio è che la Commissione diocesana cultura e comunicazioni sociali avvii il discerni-mento ai fini della istituzione di SdC nelle Zone pastorali di Bisceglie, Corato e Margherita di Savoia.

2 Anche questo documento è pubblicato nelle pagine che seguono (ndr).

69Convivio 2006 giugno 2008 - anno VIII

Carissimi ministri ordinati, vita consacrata, fedeli laici cristiani,

la parrocchia, per essere la casa e la scuola della comunione tra le dimore degli uomini (cfr. Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, Documento pastorale della CEI, 2004), deve tenere presenti e usare le forme originarie della comunicazione, quelle che la tradi-zione ci insegna e quelle dei nuovi strumenti mediatici.

1. Il Direttorio sulle Comunicazioni Sociali nella missione della Chiesa

Ora la Chiesa italiana ha a disposizione un prezioso strumento per dare alla sua azione pasto-rale una maggiore aderenza rispetto alla nuova cultura veicolata dai media. È il Direttorio sulle comunicazioni sociali nella missione della Chiesa, approvato nell’ultima Assemblea generale dei Vescovi (maggio 2004).

Nell’introduzione si precisa che “con il Direttorio si intende proporre alla comunità ecclesiale italiana un quadro strutturato dei contenuti e delle prospettive da cui partire per realizzare una pastorale che consideri le comunicazioni sociali non come un settore, ma come una sua dimen-sione essenziale. L’attuazione di una pastorale organica e integrata che assume pienamente le opportunità e le sfide della comunicazione sociale esige un forte impegno educativo e una coerente azione pastorale supportata da competenze e da strumenti adeguati. Le due parti del Direttorio offrono sia i fondamenti sia le indicazioni operative per una svolta nella mentalità e nell’impegno di tutti i cristiani, ciascuno secondo i propri doni e le specifiche responsabilità, af-finché l’inculturazione del Vangelo dentro i linguaggi mediatici renda i media stessi sempre più capaci di trasmettere e di lasciare trasparire il messaggio evangelico”.

2. Per un servizio pastorale e culturale: La Sala della Comunità

In vista dell’incontro diocesano che avremo il prossimo 23 ottobre su “Parrocchia, cultura, mezzi della comunicazione sociale ed Evangelizzazione”, a cura della Commissione diocesana cultura e comunicazioni sociali, con la presenza di Mons. Claudio Giuliodori (Direttore dell’Ufficio nazionale comunicazioni sociali), desidero presentarvi schematicamente alcune considerazioni sulla “Sala della comunità”, attingendo dalla Nota pastorale della Commissione Ecclesiale per le comunicazioni sociali, avente lo stesso titolo del marzo 1999 e, nel contempo dare degli orien-tamenti operativi.

Parrocchia e progetto culturale1

Lettera dell’Arcivescovo alla Comunità Diocesana

1 Pubblicato in Bollettino Diocesano, 2/2004, pp. 113-119.

70 Convivio 2006 giugno 2008 - anno VIII

L’aspetto culturale della trasmissione della fede oggi incrocia i fenomeni della comunicazione mass-mediale. La Sala della Comunità è uno dei luoghi significativi che si può ritenere come laboratorio della fede, laddove la comunità cristiana, parrocchiale o interparrocchiale si ritrova per non perdere di vista i codici culturali che un tempo si individuavano in strumenti per così dire pesanti e più duri (la letteratura, la filosofia, il costume); oggi, invece, attraverso i mezzi di comunicazione di massa che sono più leggeri e soft, perché virtuali, la cui memoria è labile trac-cia e quindi agisce di più sui processi emozionali, affettivi, a distanza, meno stabili e stabilizzati (cfr. Franco Giulio Brambilla, Parrocchia e Progetto culturale, in “Osservatorio Comunicazione e Cultura”, n. 7/2004, pp.3-5).

3. La Sala della comunità e il Progetto Culturale

La Sala della Comunità (SdC) può essere vista ponendosi da diverse prospettive, ma quella più consona è rappresentata dal Progetto culturale orientato in senso cristiano, divenuto scelta della Chiesa italiana a partire dal Convegno ecclesiale di Palermo del novembre 1995, puntualmente e vigorosamente confermata in questi anni.

Sul Progetto culturale si è detto e si è scritto molto, ma in questo contesto, sinteticamente, va affermato che esso non si identifica con la pastorale della cultura come mero ambito settoriale, quanto piuttosto nello sforzo, fatto a livelli diversi, e uno di questo è la parrocchia in sinergia con il livello diocesano, di far emergere la valenza culturale di tutta l’azione pastorale.

Il Progetto culturale, perciò, rappresenta un orizzonte, tra gli altri, in cui deve passare la stessa Evangelizzazione. Si tratta di uno sforzo teso a ridire e a riproporre la fede in linguaggi per i quali il Vangelo di Cristo - annuncio di vita, di giustizia, di solidarietà, di impegno e responsabilità, di apertura alla dimensione altra da quella storica in cui ogni uomo e tutta l’umanità trova la sua definitiva sede - possa risuonare carico di senso e di significato in un mondo • che cambia• lacerato• privo di certezze• con tanti segni di morte• con forti spinte a rendere irrilevante socialmente e culturalmente la fede religiosa cristiana

della stessa Chiesa• con il sacro relegato al privato e all’irrazionale• sempre più penetrato invece dalla razionalità scientifica e dal predominio della tecnologia

dimenticando la dimensione trascendente dell’esistenza umana.

Il Progetto culturale ha lo scopo di attestare che il sapere della fede:• ha carattere di dignità culturale qualificata;• illumina e dona senso all’esistenza umana, alle grandi questioni dell’umanità, alla ricerca del-

l’uomo e all’esigenza di felicità e di senso che emerge soprattutto dal mondo dei giovani;• poggia su una solida antropologia.

Da ciò consegue che l’azione ecclesiale deve essere contraddistinta da una chiara competenza comunicativa. La stessa rivelazione è comunicazione, è parola fatta carne.

4. La Nota del 1999

La Sala della Comunità rientra a pieno titolo tra quelle opportunità concrete, dinamiche, che la comunità cristiana si dà per rendere comunicativa la fede in Gesù Cristo. Di essa, come già detto, ne tratta il documento della CEI già menzionato.

71Convivio 2006 giugno 2008 - anno VIII

Questa Nota del 1999 rappresenta un necessario e sostanziale aggiornamento della prece-dente del 1982: Le sale cinematografiche parrocchiali. Rispetto a questo documento, il recente presenta un nuovo concetto, più comprensivo, della “Sala della Comunità”, non più intesa come sala cinematografica parrocchiale, ma come “struttura primariamente pastorale, nel contesto del Progetto culturale” (dalla Presentazione) della Chiesa italiana. In essa infatti confluiscono le esperienze, le acquisizioni di più di un decennio, nonché le scelte pastorali in ordine alla cultura promosse dal convegno ecclesiale nazionale di Palermo del novembre 1995.

5. Cos’è la SdC

Perentoria e chiara la definizione di “Sala della Comunità” che troviamo nel documento: con essa “non si definisce solo uno spazio fisico, ma si indica una precisa attitudine della comunità cristiana a diffondere il messaggio evangelico, coniugandolo con le diverse espressioni culturali e utilizzando i linguaggi propri della comunicazione moderna” (SdC, 2).

Il che fa capire subito che le sale di comunità si inseriscono, sul piano delle possibili proposte e degli interventi concreti, nell’ambito dell’evangelizzazione della cultura e dell’inculturazione della fede. Esse “infatti hanno il pregio di svolgere un’azione pastorale e culturale di ampio respiro, che coinvolge tutte le componenti della comunità ecclesiale e si rivolge, attraverso le varie forme della comunicazione sociale, anche a coloro che sono lontani dalla fede e mostrano interesse per i grandi temi dell’esistenza umana”. (SdC, 4).

Le SdC si collocano “sul versante del ripristino e della qualificazione delle condizioni di ascolto, delle facoltà di attenzione e di elaborazione critica oggi fortemente minate da un processo di dissipazione, di relativizzazione, da una forte omologazione del gusto e della tendenza a vivere con superficialità. La sala della comunità si presenta come lo spazio dove autenticamente si fa cultura, cioè si coltiva il gusto, la mente e il cuore” (SdC, 11).

Luogo confortevole e accogliente, in cui ciascuno trova una serie di stimoli culturali e formativi per inserirsi, la sala della comunità è una risorsa messa a disposizione dei gruppi e dei singoli “dove si possono incontrare e conoscere altre persone interessate a un percorso di ricerca o a una condivisione di esperienze”(SdC, 14). Spazio in cui si formulano proposte organiche di intratte-nimento, di riflessione, possibilmente secondo una programmazione mirata al raggiungimento di precisi obiettivi educativi e culturali, senza rinunciare alla coltivazione “del gusto estetico e nell’affinare le facoltà critiche, dialettiche e interpretative delle persone” (SdC, 15).

6. Chi anima la SdC

“Soggetto dell’animazione della sala della comunità è la comunità cristiana dislocata su un territorio, ovvero presbiteri, religiosi e laici nella condivisione dell’unica passione per il Vangelo di Gesù Cristo e la sua accessibilità all’uomo contemporaneo” (SdC, 18). Ad essi tocca il compito di realizzare un discernimento culturale, facendo proprio il compito di “plasmare una mentalità cristiana, che in passato era affidato alla tradizione familiare e sociale” (SdC,18). La sala della comunità perciò si presenta come “propedeutica al tempio”, in quanto, dovrà andare “oltre i luoghi ed i tempi dedicati al sacro e raggiungere i luoghi e i tempi della vita ordinaria - famiglia, scuola, lavoro, sport, arte, ecc. - e attraversare il variegato e complesso mondo della comunica-zione spettacolare” (SdC, 18).

Quanto alla gestione della sala della comunità, la Nota prospetta l’individuazione da parte della comunità cristiana di una équipe di persone “che, per dono di Dio e per competenze proprie, possano assumere uno specifico servizio pastorale nei settori della cultura e della comunicazio-ne. (…) il gruppo animatore dunque ha il compito di intercettare le domande e di cogliere le aspettative del territorio in cui opera, facendo riferimento al piano pastorale diocesano e agli

72 Convivio 2006 giugno 2008 - anno VIII

orientamenti pastorali della Chiesa Italiana” (SdC, 19). Chiaro il riferimento alla figura di animatore della cultura e della comunicazione, varata definitivamente dal Direttorio della comunicazione di recente approvazione da parte della CEI.

Nella SdC dovrà essere perseguito il coinvolgimento delle associazioni: “è auspicabile una sinergia tra associazioni con profilo culturale e pastorale coerente, con una configurazione giu-ridica ben definita e che si occupano di comunicazione” (SdC, 21). E ciò perché tali associazioni hanno una propria competenza e una capacità di attrazione dei giovani.

7. I destinatari della SdC

Il destinatario principale della vita della sala della comunità è l’intera comunità locale: non solo la comunità dei credenti, ma anche coloro che non vi appartengono, in uno spirito di dia-logo e di confronto, che assume la forma della testimonianza. È su questo piano che si gioca l’evangelizzazione: “È dalla validità e dai risultati di questo approccio che nasce una possibilità concreta di evangelizzare chi non ha fede. I cristiani hanno l’opportunità di verificare la solidità della propria fede, la capacità di trasmettere il messaggio cristiano con i linguaggi correnti e la qualità della loro carità” (SdC, 23).

8. La SdC e i mezzi della comunicazione

La SdC, così descritta, si presta bene per la realizzazione di percorsi educativi oltre che con il cinema, anche con la televisione, il teatro e la musica. In questo contesto vanno annoverate an-che le nuove tecnologie della comunicazione che sono caratterizzate dai sistemi informatici: “Tra essi, oltre alla comunicazione satellitare e alla multimedialità, un ruolo di assoluto primo piano va sempre più rivestendo la rete Internet. Proprio le opportunità comunicative offerte da questi mezzi e la loro presenza a livello di consumo individuale li rendono una questione ineludibile per la sala della comunità”. (SdC, 36)

9. Il grande giubileo del 2000 e la prima SdC diocesana

Tutti ricorderanno che, in occasione del Grande Giubileo del 2000, quale espressione di impe-gno e conversione della nostra Chiesa diocesana alle esigenze della Evangelizzazione, dichiarai l’impegno a promuovere la creazione, con gradualità e negli anni venturi, di realtà segno operanti in ciascuna delle cinque zone pastorali. Per quanto attiene l’ambito pastorale della cultura e della comunicazione, mi parve opportuno, dopo aver effettuato il giusto discernimento e un’ampia consultazione con i fratelli presbiteri, di accogliere l’istanza, proveniente da più parti, di creare nella Chiesa di S. Antonio in Barletta, la prima SdC della Diocesi (inaugurata il 12 ottobre 2001), affidandone la responsabilità al Diac. Riccardo Losappio, direttore della Commissione diocesana cultura e comunicazioni sociali, dal medesimo accettata con grande entusiasmo nella consape-volezza delle difficoltà da dover affrontare. Più volte il Diacono, parlandomi di questa esperienza, ha definito la SdC come “laboratorio dove la comunità cristiana, attraverso l’apposito gruppo di animazione, tenta di tradurre in concretezza e nel territorio tutto quel patrimonio dottrinale ed esperienziale che, su scala più vasta, in questi anni è andato accumulandosi nella Chiesa italiana in ordine alla cultura e alle comunicazioni sociali”.

10. È necessario continuare

Alla luce del magistero e della esperienza in atto nella SdC di S. Antonio in Barletta, desidero che tale esperienza si estenda e si realizzi nella altre Zone Pastorali. Ora si dà la possibilità in Tra-ni, dove a tal fine potrebbe essere valorizzata la Chiesa di S. Luigi, e a San Ferdinando, presso il Centro di ascolto caritas interparrocchiale. Anche in seno alle comunità parrocchiali potrebbero essere istituite le SdC. E ciò perché le istanze del Progetto culturale possano trovare sempre più spazio nell’attività pastorale di ogni parrocchia e dell’intera Diocesi.

73Convivio 2006 giugno 2008 - anno VIII

Pertanto invito tutti ad attivare un discernimento e ad individuare laici motivati e disponibili all’impegno.

11. Alcune indicazioni operative

Mi permetto di dare alcune indicazioni operative che dovranno essere tenute in considerazio-ne, tutte finalizzate alla realizzazione di SdC in un contesto di qualità e fedeltà allo spirito del documento citato:1. La SdC potrà essere istituita anche a livello parrocchiale a seguito di un mio decreto vescovile;2. L’istituzione avverrà solo dopo che il gruppo di animazione avrà seguito un corso di formazione

curato dalla Commissione cultura e comunicazioni sociali.3. La SdC dovrà far parte di un organismo più ampio, la Rete diocesana delle SdC, coordinata

dalla Commissione diocesana cultura e comunicazioni sociali.

12. Conclusione

A conclusione, vi esorto, carissimi, a ringraziare Dio che ci fa vivere in questo tempo così ricco di stimoli di grazia, diretti ad una conversione sincera e all’annuncio del Vangelo agli uomini del nostro tempo che si prendono con la rete della testimonianza di vita cristiana e con una presenza attiva nella storia.

Vi incoraggio, poi, a vivere il mistero della Chiesa che è comunione e missione così come ci dice Gesù: “Ecco: io vi mando come pecore in mezzo a lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe. State in guardia dalla gente, perché vi consegneranno ai tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe; e sarete condotti davanti a governatori e re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani. Ma quando vi consegneranno, non preoccupatevi di come e che cosa direte, perché vi sarà dato in quell’ora ciò che dovrete dire: infatti non siete voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi” (Mt 10, 16-20). La colomba è sempli-ce nel senso della libertà che la porta là dove trova il cibo per vivere. Il serpente è prudente nel difendere il capo quando è colpito per non restare ferito mortalmente. Così anche noi dobbiamo essere liberi nello Spirito per non perdere il cibo della vita eterna, cioè l’Eucaristia, e prudenti per non essere aggrediti dalle sfide della fede sino a rimanere privi di essa. Libertà e prudenza sono le ali che ci permettono di annunziare il Vangelo in questo mondo che cambia, così come Gesù ci comanda: “Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali … In qualunque casa entriate, prima dite: Pace a questa casa! … Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: Si è avvicinato a voi il regno di Dio. Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle piazze e dite: Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino. … Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza colui che mi ha mandato” (Lc 10, 3-4.5.8-11.16).

La nostra opera di Evangelizzazione sia caratterizzata dal coraggio, dalla parresia, dalla gioia ad imitazione dei nostri Santi Patroni: S. Nicola il pellegrino, S. Ruggero, S. Mauro, S. Sergio, S. Pantaleo!

Vi benedico dal profondo del cuore nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, invocando su tutta la Chiesa diocesana la sollecitudine materna di Maria, Stella della nuova Evangelizzazione.

Trani, 1 agosto 2004X Giovan Battista Pichierri

Arcivescovo

74 Convivio 2006 giugno 2008 - anno VIII

Nell’intento di prestare un servizio pastorale e culturale per la crescita spirituale in spazi idonei al dialogo e al confronto, così come è illustrato nel Direttorio delle Comunicazioni sociali nella missione della Chiesa, pubblicato dalla CEI il 18/06/2004,

D E C R E T I A M O

l’istituzione delle seguenti Sale della comunità:

• S. Luigi in Trani presso la Chiesa di S. Luigi, non più adibita a culto;• Giovanni Paolo II nella Parrocchia S. Giovanni Apostolo in Barletta;• L’Areòpago nella Parrocchia S. Paolo Apostolo in Barletta;• Giovanni Paolo II nella Parrocchia S. Ferdinando Re in San Ferdinando di Puglia;• Padre Giuseppe Maria Leone nella Parrocchia Santo Stefano in Trinitapoli.

Contestualmente le suddette sale, assieme alla Sala della Comunità di Sant’Antonio in Barletta, inaugurata il 12 ottobre 2001, costituiscono la Rete diocesana delle Sale delle Comunità, il cui coordinamento è affidato alla Commissione diocesana cultura e comunicazioni sociali.

Trani, 24 gennaio 2006,Festa di San Francesco di Sales,patrono dei giornalisti e degli operatoridella comunicazione sociale

Decreto di istituzioneSale della Comunità

Prot. 1094/06

X Giovan Battista PichierriArcivescovo

Mons. Giuseppe AscianoCancelliere Arcivesovile

L’esperienza del Cinecircolo nella Sala della Comunità Sant’Antonio a Barletta

di GIOVANNI RIEFOLO*

* Presidente Cinecircolo Sant’Antonio - Barletta.

Uno dei primi frutti dell’attività della Sala della Comunità Sant’Antonio è stato la co-stituzione del Cinecircolo Sant’Antonio. Si pervenne a questo risultato in quanto, tra i volontari animatori della Sala medesima, vi erano alcuni con la passione per il cinema e con qualche competenza nel settore. Fu facile veicolare perciò questa risorsa all’interno delle linee ideali di un circolo di cultura cinemato-grafica cattolico. Furono presi i contatti con l’ANCCI (Associazione Nazionale Circoli Cine-matografici Italiani), organismo di promozione culturale sorto in senso all’Associazione Cat-tolica Esercenti Cinema (ACEC) al fine di dare assetto organizzativo alle attività culturali che si svolgono nella “sale delle comunità” associate all’ACEC, sia nel campo cinematografico sia nel più vasto ambito di tutti gli strumenti della comunicazione sociale.

L’ANCCI ci fornì tutta l’assistenza necessaria

e così il 17 luglio 2002 si costituì il Cinecircolo Sant’Antonio che, in data 7 agosto 2002, si diede anche una configurazione formale.

Quanto alle finalità di esso, basta ricordare

l’art. 2 della suo Statuto, che recita così:

“Il circolo esclude scopi di lucro e si pro-pone di svolgere attività cinematografica, oltre che teatrale e musicale attraverso proiezioni, dibattiti, conferenza, corsi, pubblicazioni ed ogni altra manifestazione o iniziativa nel quadro di attività culturali

mediante gli strumenti della comunicazio-ne sociale e audiovisiva.In linea più generale rientra tra gli scopi del Circolo promuovere la cultura e l’arte attraverso attività specifiche e di forma-zione e predisporre servizi di assistenza e consulenza culturale per i propri soci”.

Il cuore dell’attività del Cinecircolo Sant’An-tonio è rappresentato dalle rassegne cinemato-grafiche, che ogni anno si svolgono da gennaio a giugno. Esse si rivolgono solo ai soci iscritti e consistono nella visione dei film previsti nel programma con successivo dibattito.

La prima rassegna di 15 film risale al 2003 con il titolo Guerra e pace nel mondo del cinema; nel 2004, Società, famiglia, giovani; nel 2005, I tre colori della vita; è in via di svol-gimento l’edizione 2006, dal titolo Il tonfo di un sasso.

I soci iscritti sono mediamente 40, princi-palmente giovani. Certo non sono tanti, ma nemmeno pochi; e poi non abbiamo grandi pretese. Quello che ci interessa al momento è di offrire un servizio di qualità che sia occasione di incontro, confronto e approfondimento, per il tramite del cinema, di varie tematiche sulle piccole e grandi questioni che ci interpellano tutti i giorni.

76

Non si può misconoscere l’importanza decisiva dei mezzi di comunicazione sociale nella configurazione dell’attuale società. Stiamo vivendo una rivoluzione tecnologica che, per il numero, la qualità e la velocità dei cambiamenti implicati, si configura come una trasformazione epocale la cui importanza risulta evidente se si considera la dimensione dei fenomeni in atto.

Una rivoluzione nella quale, tutti, volenti o nolenti, siamo coinvolti e di cui non è ancora possibile evidenziare tutte le conseguenze e coglierne la reale portata. Il coinvolgimento impedisce di distanziarsi e quindi di poter leg-gere con una certa oggettività i dati e le varie prospettive, di individuare le varie tendenze e di cogliere le regolarità empiriche rilevanti in modo tale da poter esprimere un giudizio.

Lo scrittore Michael Crichton sostiene che “tutti i grandi cambiamenti sono come la morte. Non puoi vedere l’altro lato finché non sei là”. Ed effettivamente le nuove tecnologie computazionali, così come a suo tempo l’elet-tricità e la televisione, appaiono sempre più portatrici di effetti sociali di così ampia rilevanza da sfuggire alle più lucide capacità di previsio-ne. Gli strumenti telecomunicativi, le immagini sintetiche, i mondi virtuali, non hanno ancora rivelato appieno il loro vero potenziale e non

Multimedialità e formazione teologica

di DOMENICO MARRONE*

sembra ancora possibile oggi avere la misura della rivoluzione che si sta operando, non solo nel settore del trattamento dell’informazione e della comunicazione, ma anche a livello di relazioni sociali, della conoscenza, della per-cezione dei processi immaginari e simbolici, nonché della consapevolezza di sé dell’uomo e del suo posto nel mondo.

Le nuove tecnologie della comunicazione rappresentano un elemento di rottura rispetto alle pratiche del passato, consentono la crea-zione di nuovi modelli sociali e organizzativi e infine costituiscono delle nuove opportunità di azione collettiva.

L’atteggiamento globale dell’uomo e del cri-stiano di fronte ai mezzi di comunicazione so-ciale deve essere ovviamente di segno positivo, dato che sono frutto dell’ingegno umano e, in definitiva, doni di Dio. Questo atteggiamento inizialmente positivo non esonera l’uomo e il cristiano dal dover fare un discernimento etico nei loro confronti.

«Ne consegue che la Chiesa non può non impegnarsi sempre più profondamente nel mutevole mondo delle comunicazioni sociali. La rete mondiale delle comunica-zioni sociali si sta estendendo e sta diven-tando sempre più complessa e i mezzi di

* Docente stabile di Teologia morale e Direttore Istituto Superiore di Scienze Religiose San Nicola, il Pellegrino - Trani.

78 Convivio 2006 giugno 2008 - anno VIII

comunicazione sociale hanno un effetto sempre più visibile sulla cultura e sulla sua trasmissione».1

In questo scenario in dinamismo non è più pensabile assumere un atteggiamento di tipo geremiaco e perdersi a sognare un mondo «come prima», che però non tornerà. È invece ora che prendiamo un po’ in considerazione le parole del saggio Qoelet: “Non chiederti perché i tempi antichi erano migliori di quelli attuali: non è una domanda intelligente (Qo 7,10)”. Se è vero che i tempi stanno cambian-do, è altrettanto vero che i tempi sono sempre cambiati.

Pertanto, è necessario cercare di chiarirsi le idee il più possibile, e tentare di esplorare la terra di frontiera nella quale ci si sta avventu-rando, creare delle piste da percorrere. Occorre prendere consapevolezza degli aspetti positivi di queste nuove realtà per poterli utilizzare al meglio e cercare di individuare quelli negativi per poterli contrastare elaborando strategie e modalità di azione capaci di neutralizzarli.

La mutazione è in corso e il progresso tec-nico-multimediale sta riplasmando e dando forma ad ogni livello della vita planetaria. Tutto ciò significa diventare esperti in mediazione e capacità di modulare in diversi linguaggi, diversi stili, altre culture, senza tradire per questo la fedeltà al depositum fidei di cui la Chiesa è custode.

Il problema reale è quello di adottare nella concretezza pratica questa mentalità nuova e affrontare le situazioni alla luce di questo nuo-vo modus operandi soprattutto nel momento in cui si vanno ad utilizzare queste nuove tecnologie.

In questo settore non si può improvvisare ma è indispensabile una specifica preparazione per poter «tradurre» nella nuova dimensione i principi autentici del cristianesimo. Occorrono

quindi due «specializzazioni» (in senso ampio del termine!): • quella inerente le tecniche e i contenuti, • e quella inerente la capacità di «traduzione»

e «di sapersi muovere all’interno». Non bastano più solo buon senso, intelli-

genza e capacità generiche. Questa è la sfida che ci sta davanti.

Mi limito ad indicare solo tre principali aspet-ti positivi derivanti dalle nuove tecnologiche multimediali, con particolare riferimento alla telematica. Sono vantaggi da non sottovalutare sia per quanto riguarda la formazione in ge-nere che la formazione teologica, intesa come ricerca e ancor più come didattica.

1. Velocità di accesso alle informazioni per arrivare e attingere a fonti documentali o a materiale didattico. L’apprendimento, secondo questa modalità di fruizione della rete, richiama la prospettiva cognitivista, poiché l’apprendimento viene interpretato come costruzione della propria conoscenza da parte del discente.

2. Apprendimento collaborativo: in que-sto caso, oltre alle possibilità di accedere all’informazione, l’aspetto interessante è rappresentato dall’opportunità di intera-zione tra i soggetti. Non si tratta di una relazione unilaterale (soggetto-teso), ma bi-laterale (soggetto-soggetto) o multi-laterale (soggetto-soggetti), in cui viene favorito un apprendimento di tipo potenzialmente cooperativo tra le persone coinvolte. Tra le possibilità di apprendimento collaborativo, offerte dalla telematica si possono citare: a. il confronto e la condivisione in rete di

esperienze tra docenti;b. la condivisione di unità di apprendimento;c. lo sviluppo cooperativo di percorsi di-

dattici e l’assistenza alla ricerca, in cui il docente può ottenere un supporto di tipo metodologico da colleghi o da esperti.

1 GIOVANNI PAOLO II, Predicatelo dai tetti: il Vangelo nell’era della Comunicazione Globale. Messaggio per la 35ª

Giornata Mondiale delle Comunicazioni sociali; cfr. anche Pontificio Consiglio per la Cultura, Per una pastorale della cultura, 23 maggio 1999, n. 9).

79Convivio 2006 giugno 2008 - anno VIII

3. Gestione della didattica. Le principali funzioni gestionali a cui la telematica può contribuire sono le seguenti: a. distribuzione del materiale didattico in

forma digitale (software, dispense, do-cumenti audio e video);

b. accessibilità alla “risorsa” docente sia in tempo reale che in tempo differito (video-conferenza o chat, nel primo caso, ed e-mail o registrazione delle lezioni nel secondo caso);

c. controllo a distanza del processo di ap-prendimento e verifica dei risultati.

Concludo notando che negli ultimi anni vi è stato, da parte degli esperti di didattica, un notevole incremento di interesse rispetto all’interazione telematica.

Dopo i primi sfrenati entusiasmi di alcuni, secondo i quali la rete avrebbe potuto o addi-

rittura dovuto rimpiazzare qualsiasi altra mo-dalità di intervento sul piano della didattica, si è cominciato a ragionare sulla questione nella sua complessità.

La rete va riconosciuta come un valido sup-porto alla didattica che però non è in grado di sostituire del tutto le tradizionali forme della relazione educativa, le quali si basano sulla prossimità fisica. Rimane comunque valido il criterio che ogni mezzo di comunicazione tra-smette un determinato significato e influisce sul nostro pensare e comunicare.

Questo deve indurci, soprattutto nell’ambito dell’evangelizzazione e della formazione teo-logica, a un uso intelligente delle tecnologie nuove, consapevoli che “le finalità buone non possono essere raggiunte con mezzi sconve-nienti” (A. Huxley).

80

A. La nuova cultura generata dai media. Integrare il messaggio cristiano in que-sta nuova cultura

I media formano una nuova cultura. La Chiesa non è chiamata soltanto a usare i media per diffondere il Vangelo ma, oggi più che mai, a integrare il messaggio salvifico nella nuova cultura che i potenti strumenti della comunica-zione creano e amplificano. Essa avverte che il loro uso fa parte della sua missione (Giovanni Paolo II, Il Rapido Sviluppo, lettera apostolica ai responsabili delle comunicazioni sociali, 24 gennaio 2005).

Giovanni Paolo II a Palermo chiedeva alla Chiesa italiana di intraprendere nuove strade per la missione affermando che «non è il tempo della semplice conservazione, ma della missione».1 Nella esortazione apostolica Il Rapido Sviluppo Giovanni Paolo II riprende il famoso passo di Redemptoris Missio 37c dove già indicava nuove strade e non solo quella della pastorale tradizionale. Sottolineando che

L’operatore della culturae della comunicazione

di ANTONIO CIAULA*

l’areopago della comunicazione è stato forse un po’ trascurato in quanto si privilegiano generalmente altri strumenti per l’annunzio evangelico e per la formazione.

Giovanni Paolo II afferma che, oltre ad aver lasciato il campo dei mass media all’iniziativa di singoli o di piccoli gruppi, essi “entrano nella programmazione pastorale in linea secondaria”.

B. L’analisi e le strade concrete indicate dal Direttorio Comunicazione e Missione

Fin dal titolo Comunicazione e Missione, il Direttorio sulle comunicazioni sociali nella missione della Chiesa si pone sulla scia delle tematiche appena elencate e vuole indicare strade concrete. Una è quella dell’operatore della cultura e della comunicazione al quale è dedicato l’intero sesto capitolo

Per introdurre il tema dell’operatore o ani-matore nei suoi aspetti più generali e fondanti proverò a sfogliare il Direttorio Comunicazione

Premessa

* Docente stabile di Comunicazioni Sociali e di Pastorale delle Comunicazioni Sociali - Istituto Superiore di Scienze Religiose San Nicola, il Pellegrino - Trani.

1 GIOVANNI PAOLO Il, Discorso al convegno Ecclesiale di Palermo (23 novembre 1995), n. 2, in CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Il vangelo della Carità per una nuova società in Italia, Atti del III Convegno Ecclesiale (Palermo, 20-24 novembre 1995), ed. AVE, Roma 1997, p. 56.

Percorsi formativi e inculturazione nel territorio

82 Convivio 2006 giugno 2008 - anno VIII

e Missione intrecciando alcuni punti con note sintetiche e commenti fatti su tali punti. Defi-nito “una bussola per i media e gli operatori pastorali” il Direttorio, come afferma il card. Ruini nella presentazione, “intende • aiutare le comunità ecclesiali a prendere

coscienza del ruolo dei media nella nostra società;

• far maturare una competenza relativa alla conoscenza, al giudizio, alla utilizzazione dei media per la missione della Chiesa;

• sviluppare alcune idee circa i punti nevralgici della pastorale delle comunicazioni sociali;

• offrire una piattaforma comune per i piani pastorali che ciascuna diocesi è chiamata a realizzare”.

In conclusione, il presidente della Cei evi-denzia che il Direttorio

“potrà risultare quanto mai utile sia per favorire un maggiore raccordo tra i media sia per sviluppare una pastorale organica ben supportata da organismi e strutture come gli uffici diocesani e regionali delle comunicazioni sociali, le associazioni del settore e i centri formativi, in modo parti-colare i seminari e le facoltà teologiche”.

I contenuti del Direttorio Comunicazione e Missione

I titoli dei quattro capitoli della prima parte del Direttorio dedicato a “Comunicare il Van-gelo nella cultura mediale” ribadiscono da vari punti di vista il concetto dell’integrazione del messaggio cristiano nella cultura sottolineando l’aspetto dei media come formatori di menta-lità più che come cassa di risonanza.

Questi i titoli dei quattro capitoli:

• Le comunicazioni sociali crocevia del cambiamento;

• Da cristiani nella cultura dei media;

• Integrare il messaggio cristiano nella cultura dei media;

• Educare e fare cultura nella società me-diatica.

Tutti sono esplicativi del titolo di questa prima parte dedicato alla comunicazione del Vangelo nella cultura mediale che - come si legge al capitolo I - “esercita un’influenza sempre più diretta sulle persone e sulle loro relazioni” (n.14). Il capitolo conclude con l’invito a “guardare con gli occhi della fede ai media” (n.25) riconoscendone i limiti “ma ancor più le potenzialità e operare affinché diventino una concreta risorsa per la missione della Chiesa”.

Il Direttorio avverte anche della necessità di vigilare su tre aspetti “in vista della missione ecclesiale: la perdita dell’interiorità, l’incontro superficiale e la sostituzione della verità con l’opinione” (n. 25).

Se è necessario essere da cristiani nella cul-tura dei media, il capitolo II richiama anche al rapporto interpersonale ed evidenzia il ruolo della testimonianza che rimane “la prima mo-dalità della comunicazione della fede, anche nel ‘villaggio globale’“.

Il terzo capitolo - integrare il messaggio cristiano nella cultura dei media - è cen-trale di tutta la prima parte. Si afferma che “per svolgere la sua missione in questo nuovo contesto culturale, alla Chiesa, che esiste per evangelizzare, viene richiesta una conversione pastorale che include ed esige una conver-sione culturale.

Perciò, come “la pastorale catechistica italiana ha avuto dopo il Concilio Vaticano II una stagione feconda di rinnovamento” così, all’inizio del nuovo millennio, vengono richieste nuove forme dell’evangelizzazione e, “a tale proposito, gli strumenti della comunicazione sociale offrono ai catechisti nuove risorse e nuovi percorsi per l’educa-zione alla fede”.

Necessario, quindi, educare e fare cultura

83Convivio 2006 giugno 2008 - anno VIII

nella società mediatica2 alla cui tematica è dedicato il quarto capitolo.

Nella seconda parte del Direttorio, dedicata a Percorsi e iniziative pastorali, i quattro capitoli riguardano la pastorale organica delle comuni-cazioni sociali, l’animatore della comunicazione e della cultura, i media nella missione della chiesa, ed , infine, si precisano responsabilità, strutture e organismi chiudendo, agli ultimi due numeri (nn. 202-203) su strutture e percorsi al servizio della formazione.

La figura dell’animatore della comuni-cazione e della cultura diventa abbastanza centrale in questa seconda parte, così come rispetto al nucleo centrale della prima parte e, direi, dell’intero documento: integrare il messaggio cristiano nella nuova cultura formata dai media.

Il verbo integrare è usato anche nel V ca-pitolo quando, parlando di pastorale organica, viene affermato che

“l’idea da sviluppare è quella di un piano integrato per le comunicazioni sociali, a partire dal quale realizzare una program-mazione pastorale non limitata al solo uf-ficio diocesano per le comunicazioni sociali o ai media, ma capace di coinvolgere tutti gli ambiti pastorali”.

Vengono, quindi, indicati

“alcuni ambiti di specifica attenzione: coniugare fede e cultura; capire e parlare i nuovi linguaggi mediatici; integrare i me-dia con la pastorale; formare gli operatori pastorali; favorire la ricerca della verità; condividere le risorse e creare sinergie; partecipare al progresso dei popoli; inve-stire risorse umane ed economiche”.

A ragione, poi, nel VII capitolo (I media nel-la missione della chiesa) il Direttorio afferma che “l’’interesse della Chiesa per i media non

nasce primariamente dalla ricerca di spazi per la comunicazione religiosa, ma piuttosto dalla responsabilità di fronte a mezzi tanto potenti, capaci di influenzare, fino a determinarli, i modelli di pensiero e gli stili di vita”.

Perciò, continua il Direttorio,

“la nascente cultura segnata dalla presen-za di media elettronici pervasivi e potenti solleva nuove domande, ma offre anche nuove opportunità per la comunicazione religiosa, la formazione e la stessa ricerca teologica. Non basta travasare le espres-sioni della fede, i valori etici o i modelli di pensiero e di vita cristiani nei nuovi contesti comunicativi”.

L’ultimo capitolo (VIII) definisce respon-sabilità, strutture e organismi. Quanto alla responsabilità il Direttorio afferma che “L’intera comunità ecclesiale è responsabile dello sviluppo di una compiuta pastorale delle comunicazioni sociali, pur nella diversità dei ruoli e delle competenze. Le comunità ec-clesiali, in ogni articolazione ed espressione, sono chiamate ad approfondire la conoscenza del fenomeno della comunicazione nei vari aspetti”. Per quanto riguarda le strutture e gli organismi pastorali, viene indicata la creazione nelle diocesi di un “osservatorio permanente cui fare riferimento per la comprensione del fenomeno comunicativo”.

Ritengo che questa panoramica di tematiche presentate dal Direttorio sia necessaria per me-glio delineare la “nuova figura” dell’animatore della comunicazione e della cultura a cui è dedicato il VI capitolo di Comunicazione e Mis-sione. A tale capitolo del Direttorio vi rimando per una più approfondita lettura ma anche studio. Qui farò solo qualche riferimento e toccare quei nodi che sembrano non risolti o problematiche appena accennate che il Direttorio indica lascian-do all’attuazione pratica.

2 Ciascun fruitore dei prodotti mediali - lettori, telespettatori, radioascoltatori, navigatori della rete Internet - è “il vero protagonista della comunicazione”. “Su di essi, con l’obiettivo di affinarne le capacità critiche e le aspettative culturali, occorre intervenire per migliorare la qualità dei media e la loro corretta fruizione”. Essi infatti - afferma il IV capitolo del Direttorio - possono “sancirne il successo o il fallimento” (n. 73). Di conse-guenza, “ogni agenzia educativa dovrà farsi carico di questo compito: la famiglia, la parrocchia, la scuola, le associazioni. A questa responsabilità educativa non è legittimo sottrarsi” (n.73 e n. 74).

84 Convivio 2006 giugno 2008 - anno VIII

Guardando ai compiti assegnati all’operato-re/animatore ci si accorge subito che non sono assolutamente semplici né che si possono improvvisare. Il Direttorio afferma che

“Cultura e comunicazione, tra loro inter-dipendenti, spalancano nuovi orizzonti all’azione pastorale, chiamando in causa nuove figure di animatori nell’ambito della cultura e della comunicazione, che affianchino quelle ormai ampiamente ri-conosciute del catechista, dell’animatore della liturgia e della carità”.

Quanto ai destinatari della sua azione ag-giunge che essa

“da un lato dovrà svilupparsi verso chi è già attivamente impegnato nella pastora-le, per aiutarlo a meglio inquadrare il suo operato nel nuovo contesto socio-culturale dominato dai media; dall’altro dovrà aprire nuovi percorsi pastorali, nell’ambito della comunicazione e della cultura, attraverso i quali raggiungere persone e ambiti spesso periferici, se non estranei, alla vita della Chiesa e alla sua missione”.

Una figura, quindi, che deve saper agire all’interno della comunità ecclesiale e nella società civile “In nome della Chiesa e all’interno di una precisa programmazione pastorale”; “in base alla propria sensibilità e competenza”; infine, “all’interno di ambiti professionali o settori della comunicazione e della cultura dove la Chiesa è poco presente o del tutto assente”.

Quanto ai “nuovi animatori”: il documen-to suggerisce di “individuarli in particolare tra i giovani. Sono loro oggi a coltivare in modo particolare competenze informa-tiche, musicali, mass-mediali, artistiche, socioculturali. Oltre ad essere sensibili e competenti, i giovani sono spesso più dut-tili, intraprendenti e disponibili ad avviare esperienze nuove”.

Quanto al metodo, si afferma che: “la prospettiva più realistica sembra quella di for-mare gruppi di animatori che lavorino insieme perseguendo progetti specifici, anche a livello

interparrocchiale, zonale o diocesano, quando fossero di difficile attuazione nelle singole parrocchie”.

I nn. 131-133 del Direttorio riguardano i percorsi per una formazione specifica partendo dalla molteplicità dei percorsi formativi (131) al mandato e al riconoscimento pubblico (132) fino al continuo approfondimento teologico-pastorale (133). So che l’instancabile prof. Riccardo Losappio con la relativa Commissione Diocesana sta già curando gli aspetti formativi. Permettetemi però alcune riflessioni di caratte-re generale sull’argomento e la riflessione su alcuni punti che contengono, a mio parere, aspetti critici.

Più che agli atti del Convegno Nazionale degli animatori della comunicazione e la cul-tura tenutosi a Roma il 17 febbraio 2005 con il titolo Con il genio della fede in un mondo che cambia credo sia meglio riferirsi al Se-minario di Chianciano ( 24-26 giugno 1999) su La figura dell’operatore per la cultura e la comunicazione. In particolare mi riferirò ai tre laboratori guidati da p. Saturnino Muratore, don Roberto Giannatelli e don Fausto Bonini che trattando rispettivamente del- Cammino ecclesiale e nuovo contesto cul-

turale, cioè dove si va a collocare la figura dell’operatore;

- Profilo di questa figura, le caratteristiche e la formazione;

- L’aspetto operativo: dove e come dovrebbe operare questa figura;

delineavano identità, compiti e aspetti formati-vi di quello che allora era chiamato operatore della cultura e della comunicazione e che poi diventerà “animatore” (il suggerimento, accolto dal Direttorio, senbra nascere da qui).

Afferma, in particolare, p. Saturnino Mu-ratore:

“Definire il ruolo di questa figura è difficile. Di fatto non abbiamo indicato gli elementi di un percorso formativo. Difficile identi-ficare la figura perché c’è incertezza nella descrizione e nella conoscenza definita

85Convivio 2006 giugno 2008 - anno VIII

del progetto culturale. Nelle comunità alla base, nelle parrocchie, dove pulsa la vita e si sente il concreto, questi temi non sono ancora arrivati. Ecco il problema: come entrare nei progetti, nei programmi delle diocesi? Come creare un contesto di com-prensione e di accoglienza di queste nuove sensibilità e di figure di operatori?”3

È molto utile richiamare quanto p. Muratore aveva sottolineato che nel laboratorio:

“Sul primo punto (comuni e di fondo della formazione e della vita delle nostre comunità ecclesiali, ndr.) è stato richiamato e condi-viso quanto, in modo sintetico e lucido, dice lo strumento di lavoro del nostro Seminario lì dove riprende le conclusioni del primo ambito del convegno di Pa-lermo: “Un’autentica conversione della pastorale si realizza anche attraverso una sintesi dinamica tra magistero, teologia e catechesi e attraverso raccordi e percorsi integrati tra la pastorale della cultura della comunicazione ed ogni altra forma e ambito di pastorale ordinaria. I laici, in modo particolare nell’ambito di aggrega-zioni ecclesiali, sono chiamati ad offrire un contributo specifico e ad esprimere modalità profetiche di riflessione e propo-sitività culturale, occasione di confronto e dialogo critico con le culture, utilizzazione intelligente dei mezzi di comunicazione”.Gli impegni presupposti da questa sintesi sono quelli formativi di fondo: costruire un’immagine di Chiesa come comunione e partecipazione, che richiede la conoscenza e l’accoglienza del Vaticano Il; riconoscere in concreto il ruolo dei fedeli laici. Que-sto, della missione dei laici, è stato un tema insistito perché richiama la natura prevalentemente laicale dell’ambito della cultura e della comunicazioni sociale (cfr. Gaudium et spes).Altro tema: quello della cultura. Tutti d’accordo nel dare nuovo spessore, quel-lo culturale, alla pastorale; o cercare lo spessore culturale delle molteplici forme dell’azione pastorale. Cultura e comunica-

zione, un binomio che è alla base delle nostre comunità ma che deve trovare maggiore attenzione da coloro che han-no la responsabilità della comunità. Ci si preoccupa ancora troppo dell’uso degli strumenti della comunicazione sociale e meno dell’ambiente e del mondo in cui sono collocati. Si esprime un giudizio non tanto a partire dalla loro natura quanto dall’utilità degli stessi per l’evangelizza-zione. Cultura e comunicazione riguardano strettamente la missione della Chiesa e la cultura cristiana è chiamata a non evitare il confronto e il dialogo, senza sudditan-ze o riduzioni. Infatti, il servizio della conoscenza della cultura è centrale nella Chiesa e lo deve essere, attraverso luoghi di elaborazione culturale, entrando in dialogo, vivendo la reciprocità con diverse presenze. Ecco la necessità di un laicato responsabile e l’utilità di un autentico servizio ministeriale che faccia cogliere ciò che è oltre quello che si fa o avviene. Oc-corrono “luoghi” di elaborazione culturale, strutture e persone preparate.Cultura, comunicazione, comunicazione sociale sono tre realtà distinte ma che si integrano, tre livelli per i quali occorre una sorta di impasto... È sembrato, proprio a chi è più sensibile al problema delle comu-nicazioni sociali, che si è parlato si di co-municazione ma la comunicazione sociale, che specifica e che richiama un ambiente proprio nel quale bisogna essere presenti, con competenza, è rimasto assente, come lo è d’altronde in larghe fasce della nostra comunità ecclesiale.Sulla figura dell’operatore alcuni sosten-gono che occorre valorizzare l’esistente, specializzando quello che abbiamo e non moltiplicando ruoli che potrebbero risultare giustapposti. Il richiamo a questa figura di operatore pastorale (perché non parlare di animatore della cultura e della comunicazione?) è certamente un’idea feconda e geniale, in un mondo civile, ecclesiale che cambia e parlarne è come un invito per le nostre comunità a prestare attenzione, a tutti i livelli, alla cultura e comunicazione”.4

3 S. MURATORE (a cura di), Cammino ecclesiale e nuovo contesto culturale, cioè dove si va a collocare la figura dell’operatore, in Quaderni della Segreteria Generale della CEI - NOTIZIARIO DELL’UFFICIO NAZIONALE COMUNICAZIONI SOCIALI E DEL SERVIZIO NAZIONALE PROGETTO CULTURALE, La figura dell’operatore per la cultura e la comunicazione, La figura dell’operatore per la cultura e la comunicazione, Sussidio ad uso degli operatori e Atti del seminario di Chianciano, Anno III n. 32 novembre 1999, p. 86.

4 S. MURATORE (a cura di), Cammino ecclesiale e nuovo contesto culturale, cioè dove si va a collocare la figura dell’operatore, cit., p. 85- 86.

86 Convivio 2006 giugno 2008 - anno VIII

Qui p. Muratore aveva rilevato la difficoltà di definire “il ruolo di questa figura” come riportato nella sua prima citazione nella quale, sottolineata l’’incertezza nella descrizione e nella conoscenza definita del progetto cul-turale’ aveva anche posto alcuni interessanti interrogativi come quelli del modo di entrare nei progetti, nei programmi delle diocesi e di come creare un contesto di comprensione e di accoglienza di queste nuove sensibilità e di figure di operatori.

Proponendo questa nuova figura, il Diretto-rio indica di percorrere, comunque, la strada della promozione della figura dell’operatore della cultura e della comunicazione.

A questo punto siamo interpellati come istituzione di formazione. È opportuno ritor-nare a quanto ancora p. Saturnino Muratore riferiva sui lavori del Seminario di Chianciano del 24-26 giugno 1999:

“Il terzo punto (alcuni temi utili, forse ur-genti, ma non sviluppati nel nostro lavoro, ndr) : temi accennati e non svolti. quello del ruolo degli Istituti superiori di scienze religiose e degli Istituti di scienze religiose, quello degli Istituti di studio e delle facol-tà. Un tema accennato: quale ruolo hanno in questo contesto di attenzione a cultura e comunicazione e comunicazione sociale? E ancora: la formazione e il coinvolgimento dei seminari teologici; così come - oltre il volontariato pastorale - la necessità di investimenti economici per favorire la pro-fessionalità e la continuità nel lavoro. Sulle strutture esistenti, in particolare sui centri culturali, si è detto di attuare un principio che è quello della sussidiarietà: andare

dove, quando si è richiesti, e quindi essere di sostegno, di animazione nelle nostre comunità, diocesi e parrocchie.”5

Già dal 1999, quindi, eravamo interpellati come Istituto di Scienze Religiose anche se il tema veniva solo posto in quel momento. Oggi credo si possa dare una risposta. L’occasione di questo Convivio in cui vengono anche annun-ciate nuove Sale della Comunità pongono in evidenza con maggiore forza tutta la proble-matica e con preciso riferimento al territorio. Le indicazioni di Giovanni Paolo II, tradotte nel Direttorio sono chiare:

“L’impegno nei mass media, tuttavia, non ha solo lo scopo di moltiplicare l’annunzio: si tratta di un fatto più profondo, perché l’evangelizzazione stessa della cultura moderna dipende in gran parte dal loro influsso. Non basta, quindi, usarli per dif-fondere il messaggio cristiano e magistero della chiesa, ma occorre integrare il mes-saggio stesso in questa «nuova cultura» creata dalla comunicazione moderna. È un problema complesso, poiché questa cultura nasce, prima ancora che dai con-tenuti, dal fatto stesso che esistono nuovi modi di comunicare con nuovi linguaggi, nuove tecniche e nuovi atteggiamenti psicologici” (RM, 37c).

Sono indicazioni che valgono per tutta la comunità ecclesiale. Sono indicazioni che l’operatore della cultura e della comunicazione deve incarnare nel territorio, in questo terri-torio. E tutti siamo impegnati a sostenerlo in questa direzione.

5 Ibid.

87

88

La predicazione omiletica ha un ruolo non secondario nella pastorale. È parte integrante di quella “mensa della Parola” che, assieme alla mensa del Pane, nutre e sostiene la fede dei battezzati. Appartiene perciò al “culmine” e alla “fonte” della vita delle chiese. Grazie ad essa è dato anche a noi, oggi, di rivivere l’esperienza dei due di Emmaus: camminare lungo i sentieri della vita accompagnati dalla spiegazione delle Scritture, illuminate dal Si-gnore crocifisso e risorto.

D’altra parte si deve ammettere che la pre-dicazione omiletica ai nostri giorni si trova in difficoltà. È una persuasione diffusa, conferma-ta anche da studi e rilevamenti specifici. Natu-ralmente non mancano omileti che svolgono con efficacia il loro ministero e sono perciò

I difetti della predicazioneomiletica corrente

di CHINO BISCONTIN**

apprezzati, ma non è raro sentire lamentele da parte di chi ascolta e incontrare predicatori che parlano del disagio che avvertono nel loro ministero.

Tutto ciò appartiene alle conseguenze di quel più vasto fenomeno di rapidissima trasformazione della comunicazione che ci vede coinvolti e frastornati, ma vi sono anche cause intrinseche a questa particolare attività di comunicazione ecclesiale. Su di esse vale la pena di riflettere.

Senza la pretesa di fornire un elenco com-pleto, passiamo in rassegna quelle debolezze dell’odierna predicazione che è possibile os-servare con maggiore frequenza.

Un discorso obiettivamente non logico

È un difetto spesso legato ad un’inadeguata preparazione del predicatore e alla scarsità del tempo dedicato a progettare l’omelia.

L’omelia è un discorso. Il termine “discorso” contiene un’analogia, che paragona il susse-guirsi delle frasi ad una corsa. È chiaro che un discorso dovrebbe disegnare un itinerario che

trasmetta un senso. A chi ascolta dovrebbe risultare chiaro qual è il punto di partenza e quale l’arrivo e, tenendo conto di entrambi, dovrebbe apparire logico il tracciato seguito. Fuori di metafora: dovrebbe essere chiaro quale aspetto della realtà aveva di mira il predicatore e perché se n’era occupato, e quali modifiche

* Relazione tenuta a Trani, al clero dell’Arcidiocesi, il 28 febbraio 2008.

** Sacerdote, Direttore della Rivista Servizio della Parola, ed. Queriniana.

Suggerimenti per evitarli*

90 Note giugno 2008 - anno VIII

della proclamazione del dogma. Di tutto ciò nell’omelia citata non v’è traccia.

Lo schema ha, in realtà, una sua logica, ma essa è soggettiva, legata alle caratteristiche interiori individuali del predicatore. Dell’espres-sione “Immacolata Concezione”, egli ha lascia-to cadere “Concezione” e si è concentrato su “Immacolata”, parola che usa come metafora la “macchia”. Quest’immagine, che tradizio-nalmente è usata per esprimere la bruttezza di uno stato di peccato, lo ha visto particolarmen-te sensibile. Non solo, ma egli l’ha associata immediatamente ad una determinata categoria di peccaminosità, quella che riguarda i disordini in campo sessuale. A sua volta l’immoralità sessuale gli ha evocato ricordi d’immagini e scene viste alla televisione che, evidentemente, lo hanno impressionato. La sfiducia di ottenere un consenso da parte dei giovani lo ha portato, infine, a fare appello all’autorità dei genitori nel processo educativo.

Si potrebbero fare molte osservazioni a pro-posito di questo difetto, ma ci limitiamo a segna-lare l’inconveniente più serio di una predicazione abbandonata alla logica soggettiva.

Chi ascolta avrà l’impressione di ascoltare un’opinione individuale e non d’essere guidato a misurarsi con la Parola dell’unico Maestro e Signore. L’assemblea sarà portata ad incentrare l’attenzione sul predicatore, sulle sue propen-sioni e sui suoi umori, piuttosto che essere guidata ad ascoltare la Parola. Se la cosa è frequente, o addirittura abituale, si verifiche-ranno una diseducazione ed una distorsione permanenti nell’assemblea, che non verrà aiutata e sostenuta a dedicare attenzione alla Parola e a Colui che parla.

L’omelia ha delle regole, una sua disciplina. In particolare i riferimenti indispensabili per l’omelia sono:

• Le letture bibliche proclamate• Il contesto liturgico immediato e generale• Il contesto pastorale della comunità cele-

brante.

1 Sono riportati in neretto e riquadrati esempi citati dal relatore e ripresi nella relazione.

della realtà egli voleva ottenere mediante l’omelia, verso quale finalità indirizzava il suo intervento. I contenuti e vari passaggi del suo parlare, i mezzi retorici usati, il modo di ini-ziare e di concludere… dovrebbero apparire ragionevoli come particolarmente adatti al raggiungimento dello scopo.

Non raramente, invece, i contenuti del-l’omelia non sono giustificabili sulla base del contesto celebrativo, la sua traiettoria procede attraverso cesure e scatti non coordinati: un insieme di ghirigori per spiegare i quali il riferi-mento obiettivo è assai poco utile. Sarebbe più proficua una conoscenza del mondo interiore dell’omileta e delle concatenazioni d’immagini ed idee che egli si porta dentro, come carat-teristiche della sua individualità. L’impressione che si ricava, in tali casi, è che l’omelia sia ab-bandonata all’arbitrarietà individuale, come se il predicatore non avesse consapevolezza d’al-cuna disciplina e criteriologia cui obbedire.

Per la festa dell’Immacolata Concezione della B. V. Maria, un predicatore iniziò la sua omelia esaltando la purezza verginale di Maria, facendo un ampio elogio di que-sta virtù. Passò a denunciare con particola-re foga l’immoralità dilagante dei costumi, in campo sessuale, nella nostra società. Proseguì parlando della televisione come di un pericolo molto grave, come istiga-trice di ogni sfrenatezza. Alla fine tornò a proporre Maria come modello di purezza, raccomandando ai genitori di ispirarsi a lei nell’educazione dei figli e soprattutto delle figlie.1

Parleremo più oltre del difetto del mora-lismo, dilagante in uno schema siffatto di predica. Qui interessa rilevare la mancanza di una logica obiettiva cui il predicatore avrebbe dovuto sottomettersi. L’oggetto della festa dell’Immacolata Concezione di Maria non è la sua verginità e la sua castità, ma l’iniziativa preveniente della grazia di Dio, in vista della nascita del Cristo. Una tale direzione è indicata chiaramente dalla scelta delle letture bibliche del Lezionario, dalle orazioni e dal prefazio che si leggono nel Messale, ispirati al testo

91Notegiugno 2008 - anno VIII

L’omelia come intrattenimento

Si sa che durante la celebrazione eucaristica festiva ci deve essere la predica, e che essa deve durare una decina di minuti, minuto più minuto meno. Si tratta, dunque, di occupare quello spazio di tempo, riempiendolo di argomenti di carattere religioso. Lo si può fare anche in maniera che la cosa risulti interessante e anche piacevole. Ma ci si deve porre il problema del-l’utilità dell’omelia, altrimenti il rischio di cadere in una forma di intrattenimento religioso che lascia il tempo che trova è molto alto.

Si immagini un viaggiatore in treno. Giun-ge allo scompartimento assegnato e vi si accomoda. Nello scompartimento c’è già un altro viaggiatore. Tra i due nasce una conversazione, ovviamente non preparata e non finalizzata, se non al trascorrere il tempo del viaggio senza annoiarsi. Si parla di temi piacevoli, vengono scambiati pareri o racconti gradevoli. Un buon intratteni-mento, niente di meno e niente di più!

Lo scopo dell’omelia va stabilito con chia-rezza in fase di preparazione. Solo uno scopo può fornire i criteri in base ai quali operare le scelte necessarie alla composizione dell’ome-lia. Altrimenti tali scelte obbediranno ad altre istanze (ciò che è più familiare al predicatore, ciò che persuade lui, ad esempio) e il risultato sarà un’omelia con scarso frutto.

Si consideri quanto si può leggere in un sussidio, allegato ad un quotidiano italiano e destinato ad un Master per corrispondenza, sulla gestione e strategia d’impresa. Il sussidio è intitolato Le competenze manageriali: l’arte di comunicare e public speaking:

Preparare un discorso è operazione com-plessa. Senza un metodo di preparazione, questa complessità risulta di difficile gestione per il manager. Per preparare un discorso chiaro e persuasivo è meglio mettere in atto un processo strutturato di analisi.La prima attività necessaria consiste nella definizione precisa dell’obiettivo o degli

obiettivi del discorso. L’obiettivo non deve descrivere che cosa farà chi parla (spiegare l’argomento A, informare del fatto B, convincere qualcuno a presentar-mi il suo conoscente C) ma piuttosto che cosa faranno gli interlocutori dopo averlo ascoltato: aver compreso e memorizzato l’argomento A, essere in grado di riferire il fatto B, correre a telefonare al loro co-noscente C.Definendo l’obiettivo in modo corretto, la nostra mente si prepara ad affrontare il discorso in modo congruente. Per esempio, se un professore del liceo definisce il pro-prio obiettivo “spiegare bene un teorema di matematica”, probabilmente si concen-trerà solo sui termini da usare, sul flusso della dimostrazione, sull’esattezza delle formule. Se invece il professore si pone come obiettivo il fatto che gli studenti comprendano e poi ricordino per sempre il teorema, si farà anche altre domande: “Come faccio a conquistare la loro atten-zione e poi a mantener-la?”, “Come faccio a garantirmi il fatto che comprendano pienamente tutti i passaggi?”, “Come faccio ad assicurarmi che memorizzino le formule?”. È vero che non sempre a queste domande si riesce a trovare risposta imme-diata: tuttavia senza le domande corrette, risulterà complesso trovare le risposte più congruenti. C’è di più: un bravo professore è quello che gestisce bene la lezione sul piano tecnico oppure colui che stimola l’apprendimento degli studenti e rende appassionante la materia? Analogamen-te, il bravo manager è colui che presenta in modo perfetto gli scenari che hanno suggerito il piano strategico adottato dall’azienda o colui che fa in modo che le scelte siano condivise dai collaboratori?

Chi deve tenere l’omelia deve proporsi un obiettivo da raggiungere, e tale obiettivo non consiste nel contenuto della predica, ma in ciò che accadrà a coloro che sono i destinatari della predicazione. Il contenuto, insieme con le modalità comunicative, è il mezzo per il raggiungimento di quell’obiettivo.

Un’esperienza che si è ripetuta molte vol-te durante corsi di aggiornamento sulla predicazione è il seguente. Dopo aver

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fatto ascoltare un paio di volte un’omelia precedentemente registrata, viene chie-sto ai partecipanti di individuare quale era l’eventuale scopo che il predicatore si era proposto. Le opinioni erano molte e disperse in maniera casuale. Il che signi-fica che lo scopo non era percepibile con chiarezza neppure ad ascoltatori partico-larmente attenti.

É necessario, dunque, fissare con chiarezza uno scopo, e naturalmente dovrà essere con-gruo con quello che sarà il “tema” dell’omelia e il “motivo” della celebrazione, come vedre-mo oltre.

A questo proposito possiamo distinguere tre tipi di predicatori: • il predicatore centrato su se stesso; • il predicatore centrato sull’omelia; • il predicatore centrato sull’assemblea a cui

si rivolge. Probabilmente questi sono anche i passi del

percorso di un omileta che, via via, è diventato un buon predicatore. All’inizio l’ansia e altro lo portavano a preoccuparsi del giudizio degli ascoltatori; una volta acquisita una certa sicu-rezza e maturità l’attenzione si concentra sul contenuto; quando la piena consapevolezza si sarà fatta strada l’attenzione verrà rivolta ai partecipanti all’assemblea.

Quando si vuol fissare l’obiettivo dell’omelia, non si deve guardare verso di sé, né considerare i contenuti dell’omelia come il fine, poiché essi sono uno dei mezzi a disposizione. É indispen-sabile, invece, volgere lo sguardo su coloro che saranno i destinatari del discorso.

«Che cosa mi propongo di provocare in coloro che mi ascolteranno, in base a questo contesto liturgico di cui la mia omelia è parte? Quale percorso omiletico, fedele al funziona-

mento liturgico, è il più adatto perché questo accada?». Queste due semplici domande possono indirizzare correttamente lo sforzo di chi prepara un’omelia.

Ecco una buona regola utile per costringe-re se stessi ad essere rigorosi nell’indivi-duare l’obiettivo. Lo scopo va dichiarato con una frase che deve sempre cominciare con: «Coloro che mi ascolteranno…», e deve continuare descrivendo qualcosa che dovrebbe accadere a loro e in loro. Nulla vieta che lo scopo possa essere così descritto: «Coloro che mi ascolteranno comprenderanno meglio…», e al posto dei puntini collocherò le verità che ritengo necessario e utile spiegare. Ad esempio: «Coloro che mi ascolteranno compren-deranno con chiarezza perché per loro è importante partecipare alla Messa della domenica».Ma i cambiamenti da ottenere negli ascol-tatori non possono essere solo di questo tipo: essi sono molti. Ecco una breve tipologia:• Trasmettere informazioni: far conoscere

fatti, situazioni, dati … • Far comprendere: spiegare, chiarire,

approfondire, mettere in relazione, fare esempi …

• Far prendere coscienza: sensibilizzare, far sentire l’importanza, rompere l’in-differenza …

• Persuadere: abbattere le resistenze, convincere, far apparire vero e possibile …

• Far avvertire la responsabilità: coinvol-gere, far sentire l’esigenza, far abbrac-ciare uno scopo …

• Muovere all’impegno: far interiorizzare obiettivi, motivare all’azione, far desi-derare, indicare un percorso …

Con questo accorgimento sarà più difficile, mentre scelgo i percorsi dell’omelia, dimenti-care coloro a cui mi rivolgo e il senso che può avere per loro quello che andrò spiegando.

Le forzature sentimentalistiche

Giustamente S. Agostino, erede della reto-rica classica, sostiene che l’omelia deve com-muovere, mettere in movimento i sentimenti. Ciò non significa, però, che la predica debba

scadere nel sentimentalismo. Accade, invece, di ascoltare delle omelie intrise d’aggettivi ridondanti (“Il Papà buono che è nei cieli, misericordioso e dolcissimo…), che ricorrono

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volentieri a diminutivi (“La nostra Mammina del cielo…”) ed esclamativi (“assolutamente straordinario! …straordinariamente bello!”), con una serie di frasi che iniziano tutte con la medesima espressione, ripetuta in successione più e più volte (“È quel sangue che ci ha sal-vato... È quel sangue che ci ha lavato... È quel sangue che ha pagato per noi…È quel sangue che…”). In tempi recenti, per un’evoluzione in senso devozionale, emotivo, d’una parte non trascurabile della religiosità, questa tendenza si è accentuata: la s’incontra con certa frequenza in celebrazioni per gruppi ecclesiali particolari, in santuari, in certa predicazione radiofonica.

Un prete all’inizio di una celebrazione eucaristica ha rivolto questo saluto all’as-semblea: “La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la te-nerezza di S. Giuseppe siano con tutti voi”. A parte l’inaspettata “trinità” risultante, tale saluto ha dato il tono all’apertura di una celebrazione che nel seguito ne ha mantenuto la promessa. L’omelia, incen-trata sulla figura di S. Giuseppe, esaltava soprattutto i tratti della sua affettuosità paterna. Tratti non desunti da un’attenta considerazione dei dati evangelici, ma ampiamente congetturati sul profilo di una figura paterna idealmente precostituita dall’omileta.

Ascoltando certe omelie, si ha la netta im-pressione che la logica sottesa sia più quella del transfert psicoaffettivo che quella derivante dal rapporto con i testi scritturistici proclamati, con il mistero liturgico e con il sacramento celebrati.

È come se si assistesse non all’impresa di chi cerca di rendere quest’assemblea più aperta alla comunicazione, alla comunione e alla fedeltà al suo Maestro e Signore, quanto piuttosto al proposito di condurre gli ascoltatori entro un grembo emotivamente e affettiva-mente caloroso. Una risposta a bisogni affettivi di tipo primario, quelli che caratterizzano non l’età adulta, ma quella infantile.

È proprio questo l’aspetto più preoccupante: il cambiamento della direzione dell’attenzione (dal Signore alle dinamiche relazionali dell’as-semblea stessa, a volte incentrate sull’omileta) e dell’orizzonte (dalla storia della salvezza ad

un’atmosfera psicoaffettiva in funzione, insie-me, d’esaltazione e gratificazione emotiva e di rassicurazione).

È una deformazione che, a livello rituale più generale, si può notare anche in certe celebrazioni di gruppi ecclesiali particolari. È quello che accade, ad esempio, quando la preghiera dei fedeli e l’abbraccio di pace vengono ad occupare uno spazio di tempo, e così un rilievo, molto ampio rispetto agli altri elementi della celebrazione. Oppure quando l’intrusione prepotente d’elementi scenografici eclissa la dimensione verticale della celebrazione (cartelloni attaccati alla mensa dell’altare, con messaggi ri-guardanti prevalentemente la situazione relazionale del gruppo). Oppure, per fare un ulteriore esempio, quando alla presen-tazione delle offerte sono portati all’altare e deposti o direttamente sulla mensa o in prossimità oggetti che non entrano in dialogo con quel momento liturgico e le sue logiche. L’interruzione rituale così provocata attira l’attenzione sulla “novità” costituita dagli oggetti e sul messaggio che la loro presenza trasmette: non raramente, ancora una volta, essi riguardano la natura e le dinamiche dei rapporti nel gruppo ce-lebrante. È inevitabile che l’omelia s’intoni all’atmosfera così creata. Non è raro, in casi come questi, sentire esclamazioni del tipo: “Che bell’esperienza! Che esperienza commovente!”.

Una cosa è il sentimento, altra il sentimen-talismo. Esiste, infatti, il rischio di estenuare la fede in un vago estetismo religioso. L’omelia deve farsi carico, tra l’altro, di una pedagogia che sappia condurre verso una religiosità au-tenticamente radicata nelle Scritture e uma-namente matura.

Ribadiamolo: non si vuol negare legittimità ai sentimenti e agli affetti. Anzi, rispetto ad un recente passato, un’attenzione e un rispetto maggiore per la “devozione” va senz’altro ritrovata.

Il pathos viene attivato tutte le volte che un messaggio interagisce con i bisogni dei desti-natari. Come è noto, è stato Abraham Maslow a tentare di redigere un elenco ordinato dei nostri bisogni fondamentali. Secondo la sua concezione, i nostri bisogni si possono rap-presentare come una scala gerarchica di tipo evolutivo: la soddisfazione del primo gruppo di

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bisogni è condizione necessaria per il formarsi di quelli del secondo gruppo, e così fino al livello più elevato.

Come si vede, alla base di questa gerarchia ci sono i bisogni primari: quelli fisiologici (come soddisfare la fame e la sete, dormire a suffi-cienza, mantenere l’organismo in equilibrio, …); e quindi i bisogni di sicurezza (bisogno di protezione, di tranquillità, di essere liberi dalla paura, di poter considerare il mondo come una realtà prevedibile e organizzata, di sentirsi sicuri nel proprio ambiente sociale e fisico, …).

In secondo luogo vi sono i bisogni psicolo-gici e sociali: quelli di appartenenza e di amore (voler amare ed essere amati, sentirsi accettati ed appartenere ad un gruppo, evitare l’isola-mento e l’abbandono, bisogno di amici, di un figlio, di un compagno per la vita, …); quindi i bisogni di stima e competenza (bisogno di sentirsi rispettati, apprezzati, considerati, di aspirare all’autostima ed alla propria indipen-denza).

Sul gradino più alto troviamo il bisogno di autorealizzazione (bisogni del sé): vivere attua-lizzando ed espandendo le proprie potenzialità e aspettative, perseguire i propri ideali estetici e di giustizia. Si può aggiungere anche il biso-gno di trascendenza, inteso come tendenza ad andare oltre se stessi, per sentirsi parte di una realtà più vasta, cosmica o divina e percepire il tutto come abitato da un senso positivo.

Tutte le volte che un messaggio evoca e comunque incrocia uno di questi bisogni, il pathos dei destinatari viene alterato e messo in moto.

Si pensi, per fare qualche esempio, alle pa-role di Gesù sul pane di vita o sull’acqua che spegne per sempre la sete, o su quelle che promettono la dignità di figli e figlie di Dio, o la parabola del buon pastore e del padre misericordioso, e così via.

La retorica classica ha studiato, in partico-lare, le cosiddette “figure retoriche”, una parte non trascurabile delle quali ha atti-nenza con il discorso che stiamo facendo. Ne abbiamo già parlato altrove. Dire: “Gli uomini sono aggressivi gli uni verso gli altri”, e dire “Homo homini lupus, l’uomo è un lupo verso gli altri uomini” (metafora) non fa lo stesso effetto; l’evo-cazione del lupo, a cui sono legate paure ataviche che vanno a ferire il bisogno di sicurezza, opera un’alterazione dello stato d’animo di chi ascolta. Allo stesso proce-dimento ricorre Gesù quando parla dei cattivi pastori, che sembrano miti pecore, ma dentro sono lupi rapaci. Ugualmente, qualificare il re Erode Antipa, come fa Gesù, chiamandolo “volpe” (ancora una metafora), non è la stessa cosa che dire “astuto e infido”: l’immagine dell’animale che va a sovrapporsi a quella del re pro-voca una reazione emotiva di diffidenza e di presa di distanza. Per fare ancora un esempio: agli ascoltatori non accadrà la stessa cosa se sentono parlare di “persone che praticano la maldicenza” o, invece, di “linguacce affilate come spade” (sineddo-che). Un cenno anche sull’effetto prodotto

BISOGNI DEL SÈAutorealizzazione e trascendenza

BISOGNI SOCIALIBisogni di stima, di amore e appartenenza

BISOGNI PRIMARIBisogni fisiologici e di sicurezza

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da un linguaggio che ha a che fare con uno dei sensi di cui è dotato il nostro corpo. L’espressione: “Un’esistenza ordinata” non è priva di un’ombra di moralismo; l’equivalente: “Un’esistenza armoniosa”, che fa riferimento al senso dell’udito e alla metafora musicale, evita l’inconve-niente. Queste parole messe sulle labbra di Gesù: “Io come luce sono venuto nel mondo, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre (Gv 12, 46), fanno riferimento alla vista, oltre che alla meta-

fora tenebre-pericolo, errore-male, etc… Si consideri ancora l’efficacia dell’invito e dell’affermazione di Gesù: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò.Prendete il mio giogo sopra di voi e impa-rate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero» (Mt 11, 28-30), che fa riferimen-to contemporaneamente alla percezione tattile e al gusto.

Su un versante opposto al precedente, si colloca un ulteriore difetto che ha ricevuto un certo impulso proprio dalla riforma conciliare, evidentemente mal compresa. La riforma ha creato l’esigenza di fornire ai partecipanti alle celebrazioni molte informazioni di carattere sia liturgico sia esegetico, e altrettante precisazioni di natura dottrinale. Ciò ha spinto non pochi predicatori a concepire l’omelia come una spe-cie di breve lezione esplicativa. Non si vuol qui escludere che si debbano fornire informazioni e nozioni di tale tipo, e che la predicazione sia anche didattica, ma ciò non deve essere lo scopo ultimo ed esclusivo dell’omelia. A questo difetto sono esposti preti giovani che, più o meno consciamente, fanno riferimento, come modello per l’omelia, a lezioni cui hanno partecipato durante gli studi teologici. Oppure celebranti che non hanno contatti pastorali diretti con le persone che compongono l’as-semblea.

L’omelia non può esaurirsi nell’interpreta-zione della Scrittura, ma deve essere inter-pretazione della vita sia pure con la luce che deriva dall’ascolto della Scrittura; l’attenzione non va alla Parola in sé, ma attraverso la parola al Parlante, in dialogo qui e ora con questa porzione del suo popolo. L’omelia non può limitarsi all’interpretazione dei segni e dei simboli liturgici, ma concorre, con le azioni e gli elementi del simbolismo liturgico, all’unico evento sacramentale della comunione tra il Si-

Il didatticismo

gnore vivente e questa comunità di suoi disce-poli. L’omelia non può ridursi alla spiegazione di una verità di fede in maniera catechistica, senza occuparsi di quanto sta avvenendo qui e ora, nella celebrazione sacramentale, e senza chiedersi che cosa tutto ciò possa significare per l’esistenza concreta dei partecipanti alla celebrazione.

Un’omelia della prima domenica di qua-resima. Il predicatore ha fatto la scelta, in sé legittima, di parlare della quaresima nel suo insieme. Ha iniziato con un cenno al significato che il numero quattro, e il qua-ranta in derivazione, ha nella Bibbia. Ha continuato parlando dei quaranta anni di peregrinazione del popolo d’Israele dalla schiavitù verso la terra promessa. Ha pro-seguito spiegando il senso dei quaranta giorni trascorsi da Gesù nel deserto, dopo il battesimo. Infine ha informato sulla pras-si battesimale e penitenziale della chiesa nei primi secoli. Ha concluso affermando che è da tutto ciò che ha origine la quare-sima appena inaugurata.

Lo schema è molto limpido e certamente segue una logica obiettiva, ma che cosa dif-ferenzia questo discorso da una conferenza divulgativa sulla storia della liturgia? Manca completamente ogni impegno mistagogico, ogni sforzo per rendere significativa e coinvol-gente, oltre che interessante, la quaresima oggi e qui, per queste persone concrete.

A volte certi predicatori si limitano a passare in rassegna la prima lettura, il salmo, la seconda

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lettura e il Vangelo, soffermandosi su qualche versetto difficile e spiegandone brevemente il significato. A volte non si preoccupano neppu-re di cogliere un collegamento tra le varie parti ma semplicemente accostando l’uno all’altro, come capita, i tre o quattro frammenti di ese-gesi. È un’altra forma di didatticismo che non realizza la natura dell’omelia.

Quando l’omelia cade nel didatticismo si può dire di essa ciò che è stato detto di certa cattiva teologia: “Risponde in modo più o meno chiaro a domande che nessuno pone e che a nessuno stanno a cuore”. Ed è proprio questo il danno più rilevante. Il rito diventa irrilevante rispetto alla vita e, in fin dei conti, si trasmette l’impressione che Dio rimanga estraneo ai problemi reali dell’esistenza. Il con-trario di ciò che le Scritture affermano quando qualificano Dio come “il Vivente”.

Dunque, si tratta di guardare verso coloro che ascolteranno. Ma, si badi bene, l’assemblea non può essere considerata una massa anoni-ma. Essa è il risultato del convergere di molti individui, ciascuno con la sua personalità e le sue caratteristiche. Non basterà dunque aver riguardo dell’assemblea in generale. Altrimenti il predicatore non sarà in grado di rispondere a domande di basilare importanza, quali: «Questo argomento provocherà l’interesse di chi ascolta? E per quale motivo potrebbe provocarlo? Che cosa lo alimenterà e terrà vivo? Quali resistenze incontrerà il mio discorso nella mente degli interlocutori e come posso affrontarle in modo efficace? Quali domande desidererebbero porre, se potessero interloqui-re? Quali vantaggi ne verranno se mi staranno ad ascoltare?». Si dovrà avere coscienza che l’assemblea è composta da individui, sia pure radunati dalla medesima fede, e da individui concreti: questi qui e non altri.

Un suggerimento. Mentre prepari l’omelia, evoca il volto di alcune tra le persone che normalmente frequentano la celebrazione. Scegli cinque o sei di esse, rappresentative della maggio-ranza dei partecipanti. Quelle domande, e altre simili, rivolgile a ciascuno dei volti che hai evocato: «Quali resistenze proverà

Roberto in questo passaggio dell’omelia, e quali obiezioni mi farebbe? Perché Annalisa dovrebbe starmi ad ascoltare, e con quale vantaggio? E Loris si sentirà coinvolto?». E poiché il contatto visivo tra chi parla e coloro che ascoltano è di rilevante importanza, Roberto, Annalisa e Loris saranno anche i volti reali verso cui guarderai mentre predichi, per cogliere eventuali reazioni. Naturalmente se, almeno ogni tanto, potrai parlare a quattrocchi con Rober-to, Annalisa e Loris, o con altri abituali destinatari della tua omelia o con alcuni collaboratori parrocchiali particolarmente sensibili, disposti a raccontare con sincerità le loro reazioni, tanto di guadagnato. Può essere utile anche far registrare, almeno talvolta, una propria omelia e riascoltarsela dopo un paio di settimane, mettendosi il più possibile dalla parte di chi l’ha ascoltata. Si tratta di una severa forma di penitenza… ma che non manche-rà di alleviare quella degli ascoltatori!Tutto ciò è possibile a chi ha una buona conoscenza di coloro che compongono l’assemblea: il parroco, il viceparroco, il prete che regolarmente esercita il mini-stero in una comunità. Diverso è il caso del predicatore occasionale. Ma non do-vrebbe chiedere e ottenere da chi lo invita delle informazioni di massima in merito all’assemblea? Diversa, almeno in parte, è anche la situazione di chi tiene l’omelia in una grande chiesa cittadina o in un san-tuario. Ma in quest’ultimo caso all’omileta è possibile farsi un’idea del profilo medio del frequentatore di quel dato santuario: stando al confessionale o accettando o provocando qualche colloquio, la cosa non sarà difficile.

Coloro che si abituano a lavorare con questo metodo si renderanno conto che chi parla ad un’assemblea numerosa e composita tenderà a privilegiare una parte di essa. Bisognerà es-sere coscienti di questo fatto e saperlo gestire. Sarebbe deleterio privilegiare sempre la stessa parte dell’assemblea, abbandonando del tutto le altre. Ciò vale anche per eventuali messe con ampia partecipazione di bambini. Un’omelia rivolta esclusivamente a loro finisce per tra-smettere agli adulti un’immagine infantile della fede, e l’entusiasmo sentimentalistico di alcuni di essi non dovrebbe costituire un incentivo per l’omileta. Non solo, ma non occorrono grandi competenze pedagogiche per accorgersi che

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gli stessi bambini provano viva attenzione per discorsi “da grandi”. Un giovane prete si è sentito dire da un bambino: «La tua predica era troppo da bambini».

E sarebbe ancora più dannoso se il criterio, più o meno esplicito, di selezione della parte a cui dedicare particolare attenzione non corri-spondesse a quelli proposti da Gesù, con il suo

esempio e il suo insegnamento. Privilegiare, ad esempio, i più colti rispetto ai meno istruiti, i più devoti rispetto ai più tiepidi, i più attenti rispet-to a quelli meno interessati (gli adolescenti…), coloro che danno sempre ragione al parroco piuttosto che i critici, coloro che frequentano sempre rispetto agli occasionali (nelle grandi feste), i giusti rispetto ai peccatori, e così via.

Il moralismo è un difetto talmente presen-te nelle omelie che il termine “predica”, che nella parlata comune le designa, nei dizionari dei sinonimi è affiancato a: “sgridata, rimpro-vero, ramanzina, predicozzo, tirata, filippica, rimbrotto e fervorino”. Naturalmente non si vuol negare che sia compito dell’omelia anche la parenesi, o esortazione morale, che, anzi, normalmente non dovrebbe mancare. Si vuole, però, evidenziare una fastidiosa e deleteria deformazione della predicazione morale. Per moralismo intendiamo qui la caratteristica ne-gativa di un discorso su ciò che si deve o non si deve fare, gracile nelle motivazioni o a causa dei contenuti o a causa delle modalità espo-sitive, e di conseguenza destinato ad essere sterile o anche controproducente. Si cade nel moralismo quando si tranciano giudizi negativi generici e generalizzati (“Il male che fanno i mezzi di comunicazione di massa…”: Sempre? In ogni caso? Tutti?). Coloro che ascoltano o troveranno l’affermazione esagerata e non credibile, e la rifiuteranno; oppure proveranno un senso d’inquietudine e d’angoscia paraliz-zante e rassegnato, e saranno sospinti verso un’inerzia sterile e brontolona (“Dove andremo a finire di questo passo…?!”).

Si ottiene un risultato analogo quando si pronunciano condanne contro soggetti non diversificati (“I giovani d’oggi... le donne… gli immigrati…”: tutti?), o quando la condanna di modi di fare molto diffusi non è sufficien-temente argomentata (“Il consumismo… La moda…”: ma quando il consumo diventa con-

Il moralismo

sumismo e perché? Quando e perché seguire le indicazioni della moda è un male?).

Un altro esempio sono le prescrizioni mas-simaliste, perentorie e, nelle circostanze con-crete, non realistiche (“Per Cristo dobbiamo essere pronti a rinunciare a tutto, anche alla vita…”: l’affermazione in sé è corretta, ma nel-le stragrande maggioranza dei casi non corri-sponde alle nostre situazioni pastorali), oppure indicazioni generiche e non accompagnate da una “pedagogia” che sappia tener conto della gradualità e della fatica di certi cammini.

Chi predica, ad esempio, la necessità di perdonare le offese ricevute, non può ignorare che la cosa può risultare difficile, in certi casi persino drammatica, e che non di rado può essere solo una meta verso cui camminare con fatica e gradualità. “Biso-gna perdonare, perché chi non perdona il suo prossimo non può pretendere che Dio lo perdoni”. L’affermazione è corretta. Ma un’omelia, rivolta ad un’assemblea in cui diverse persone possono avere questo problema irrisolto, non può limitarsi a ciò. Basti considerare l’effetto prodotto in una persona che, a causa di un’offesa o di un danno davvero laceranti, psicologicamen-te non è in grado ancora di perdonare. Si finirà col caricare questa persona o di un senso di colpa schiacciante, o di una rabbia che può diventare ribellione generalizzata e distacco dai precetti evangelici, conside-rati impraticabili. L’omileta deve parlare di un aiuto da chiedere con insistenza nella preghiera, di una buona volontà che è già testimoniata da qualche piccolo passo, compiuto man mano che si rende concretamente possibile, di un sostegno fraterno cui ricorrere…

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La stortura più grave della deriva moralistica va individuata, normalmente, nel mancato rispetto dell’ordine evangelico nell’annuncio. L’opera di Dio e il suo dono, la grazia, prece-dono la prescrizione morale, la sostengono e la motivano in positivo.

Certamente un discepolo di Gesù deve perdonare, ma l’annuncio del perdono gra-tuito di Dio, che abbraccia anche chi per il

momento non ce la fa a perdonare, precede la prescrizione morale. Non solo, ma la motiva e la sostiene. Non è un caso che l’esortazione morale, nel Nuovo Testamento (d’ora in poi: NT), appare associata, nella maggioranza dei casi, a consolazione e conforto e solo seconda-riamente a rimprovero: quest’ordine delle cose è squisitamente evangelico, corrisponde alla logica della salvezza donata in Gesù, e perciò va rispettato anche da chi tiene le omelie.

La scarsa qualità religiosa

Un’ulteriore lacuna della predicazione omi-letica corrente consiste in una scarsa qualità religiosa di molte omelie. Certamente tutte le omelie hanno un contenuto che verbalmente tratta argomenti religiosi, ma molte prediche lasciano insoddisfatti coloro che partecipa-no alle celebrazioni in cerca di una qualche esperienza della vicinanza di Dio. Non poche omelie, pur parlando di Dio, non nascono da un vero parlare con Dio e non si propongono esplicitamente e seriamente d’essere uno spa-zio offerto a Dio perché Egli stesso possa avere un’opportunità di comunicazione. Troppo spesso Dio è unicamente oggetto del discorso omiletico, e non il soggetto di una misteriosa presenza “sacramentalmente” mediata dal parlare umano e in esso avvertita.

Negli schemi dell’oratoria sacra del passato era previsto che il predicatore si rivolgesse direttamente a Dio con una preghiera al-l’inizio, dopo aver esposto all’assemblea il tema e l’intendimento del suo discorso, e che un’altra preghiera la rivolgesse verso la fine del suo discorso. Ancor oggi il pa-store protestante che tiene il sermone ad un’assemblea sa che deve preparare anche un’apposita preghiera con cui si rivolgerà a Dio all’inizio e alla fine. Non mancano, nella predicazione corrente, omileti che spontaneamente innalzano il loro parlare fino alla preghiera esplicita, ma la cosa è meno frequente del desiderabile. Dovreb-be far riflettere, tuttavia, sia la preghiera prescritta dal Messale a chi si accinge a leggere in assemblea il Vangelo che tutto il riguardo rituale riservato alla proclama-

zione della Parola. Più in generale si ha l’impressione che, nel tempo dedicato alla preparazione dell’omelia, lo spazio dedi-cato alla meditazione, intesa come ascolto adorante rivolto a Dio e al Signore Gesù, sia piuttosto scarso o addirittura assente. Ciò può dipendere da vari fattori, tra cui va annoverata certamente una compren-sione inadeguata della natura dell’omelia. Essa, come diremo in seguito, va concepita come atto “sacramentale” e non come un discorso qualunque. Di conseguenza chi tratta l’omelia dovrebbe essere animato da un rispetto religioso analogo a quello da tenere con le azioni sacramentali.Era questo, a quanto si narra, il segreto del Curato d’Ars: negli ultimi anni di vita la sua voce era così flebile che solo una parte del-l’assemblea era in grado di udire le parole che pronunciava. Tutti, però, si sentivano raggiunti da una qualche comunicazione che confortava la loro fede.

Troppo spesso lo stato d’animo del predi-catore che si accinge a preparare l’omelia è quello di chi dice a se stesso: “Che cosa andrò a dire domenica alla gente che mi ascolterà?”. In questo caso la risposta andrà cercata solo nella riflessione. La domanda corretta dovrebbe essere, invece, del tipo: “Che cosa vorrà dirci Dio, che cosa vorrà dirci il Signore Gesù, quan-do saremo riuniti in assemblea?”. In questo secondo caso la meditazione orante diventerà indispensabile. E sarà del tutto probabile che le parole che sgorgheranno porteranno con sé il profumo e la mediazione della vicinanza di Dio e della sua parola vivente.

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l’’anagnosi’ diventi ‘anamnesi’, ossia perché quello che è stato detto in altri tempi e in altri luoghi venga ridetto, in modo vivo e nuovo, qui e ora”.

Del resto, come abbiamo visto altrove, già nelle Scritture Parola e Spirito sono congiunti, e tale unione viene espressa in analogia con il parlare umano che è reso possibile dal respiro. Per questo S. Ireneo scrive che “colonna e sostegno della chiesa è il Vangelo e lo Spirito di vita”. E il legame è suggellato da Gesù, Pa-rola di Dio incarnata per opera dello Spirito, e Signore risorto che invia lo Spirito perché guidi i discepoli alla comprensione delle parole del Maestro e anche del non detto: “Molte altre cose ho ancora da dirvi, ma per ora non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future” (Gv 16,12- 13). Perché le parole del Signore sono spirito e vita non va dimenticato, inoltre, che lo Spirito ha guidato il processo che ha fatto sorgere le Scritture: lo stesso Spirito deve anche presiedere al farsi Parola della Scrit-tura. Come afferma la Dei Verbum al n. 12: “La Scrittura dev’essere letta e interpretata nello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta”. L’azione dello Spirito per un efficace rapporto con le Scritture è dunque necessaria.

La necessità dell’azione dello Spirito nell’in-terpretazione della Scrittura è richiesta anche dal fatto, già sottolineato, che la Scrittura non è immediatamente Parola di Dio, se con questa espressione intendiamo l’effettivo parlare di Dio qui e ora. La Scrittura “contiene la Parola di Dio” (DV 24), ma evidentemente non la esaurisce. Essa ne è come il testimone che la rappresenta. Il sacramentum in cui tale Parola può essere ascoltata. Nonostante gli insegna-menti conciliari, rimane ancora la concezione che mentre i sacramenti donano la grazia, la parola biblica dona la dottrina, e può solo pre-parare alla fruttuosa ricezione del sacramento e della sua grazia. Ma se la Parola di Dio non è accolta e vissuta come sacramento, come trasmissione di potenza e di grazia, ma solo come luogo in cui reperire precetti e dottrina,

“Perché la parola di Dio operi davvero nei cuori ciò che fa risuonare negli orecchi, si richiede l’azione dello Spirito santo; sotto la sua ispirazione e con il suo aiuto la parola di Dio diventa fondamento dell’azione liturgica, e norma e sostegno di tutta la vita. L’azione dello stesso Spirito santo non solo previene, accompagna e prosegue tutta l’azione liturgi-ca, ma a ciascuno suggerisce nel cuore tutto ciò che nella proclamazione della parola di Dio vien detto per l’intera assemblea dei fedeli, e mentre rinsalda l’unità di tutti, favorisce anche la diversità dei carismi e ne valorizza la molteplice azione” (Ordinamento delle Letture Messa, 2ª ed., n. 9).

Già l’Eucologio di Serapione, nel terzo secolo, manifestava la consapevolezza della necessità dell’intervento dello Spirito per la comprensione delle Scritture nella fede e per una loro fruttuosa interpretazione, e prevedeva una epiclesi prima della proclamazione delle letture e una seconda dopo l’omelia. La prima invoca: “Ti chiedo di mandare il tuo Spirito san-to nelle nostre anime e di farci comprendere le Scritture da lui ispirate; concedi di interpretarle con purezza e in maniera degna, perché tutti i fedeli qui radunati ne traggano profitto”. La seconda chiede: “T’imploriamo per questo popolo; manda lo Spirito santo; il Signore Gesù venga a visitarlo, parli alle menti di tutti e disponga i cuori alla fede; conduca a te le nostre anime, o Dio delle misericordie”. J.J. Von Allmen, considera la lettura delle Scritture seguita dalla predicazione come un evento, reso possibile dall’azione dello Spirito:

“Quando si fa la lettura della Bibbia succede qualcosa di fondamentale: il testimone, la cui testimonianza era stata per così dire sepolta nelle lettere, si alza per prendere la parola; questo evento è possibile per intervento dello Spirito santo. La lettura della Scrittura deve essere preceduta da una epiclesi, perché è grazie allo Spirito che avviene questa specie di risurrezione della Scrittura in Parola, e la Scrittura, sotto forma di lettura, trova la sua giustificazione e il suo posto nel culto della Chiesa: la lettura, infatti, viene compiuta perché il testimone ritorni a testimoniare e

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resterà sempre parola su Dio e non parola di Dio. La presenza del Cristo è reale, anche se diversa nella modalità, sia nella Parola che nel Pane. Il Cristo ha comunicato la vita divina predicando la Parola e spiegando la Scrittura, ed ha compiuto la Scrittura donando a noi il suo corpo e versando il suo sangue. Ma come la consacrazione del Pane esige l’azione dello Spirito, così il medesimo Spirito deve interve-nire perché il Libro diventi sacramento della Parola, parlare di Dio qui e ora.

Ora, l’azione che per eccellenza opera il pas-saggio dallo scritto biblico alla Parola di Dio è la predicazione. La predicazione consiste nel far passare l’evangelo dallo stato di scrittura a quel-lo di parola. Ed è proprio in questo passaggio che è fondamentale l’azione dello Spirito santo. Anzitutto lo Spirito guida il predicatore nella sua preghiera, nella meditazione delle Scritture, nel suo servizio di pastore. In secondo luogo lo Spi-rito apre uno spazio nel cuore degli ascoltatori perché la Parola vi sia accolta e porti frutto. La parola del predicatore non è la parola di Dio; è

il veicolo o lo strumento della parola divina, la rappresenta. Solo l’azione dello Spirito nel cuore degli ascoltatori permette loro di percepire la parola di Dio attraverso le parole umane. Vi è sempre una differenza fra ciò che Dio è e ciò che lo manifesta sacramentalmente, fra la sua parola e il discorso che la rappresenta.

Si deve inoltre tener conto che l’annuncio della parola di Dio è anche trasmissione di una parola ispirante. In At 10,44 l’ascolto della predicazione di Pietro provoca la discesa dello Spirito! Quando la parola è ispirata, cioè prodotta dallo Spirito, è anche sempre portatrice dello Spirito, cioè ispiratrice della risposta da dare a Dio. Come dice Louis Bouyer: “L’ispirazione della Parola, sia annunziata che letta nell’assemblea cultuale, non deve mai pensarsi separata o separabile dall’ispirazione sempre attuale e viva, dalla quale il popolo è portato, soprattutto nella sua preghiera co-munitaria, verso l’adempimento della propria speranza”.

Inadeguatezza del processo comunicativo

Tratteremo altrove su alcuni aspetti metodo-logici riguardanti il processo comunicativo me-diante la parola in pubblico. Ma va segnalata la persuasione, comune tra gli esperti, che pur non mancando di buoni predicatori la maggio-ranza di essi oggi non è in grado di utilizzare i mezzi di una comunicazione qualitativamente buona. Alcuni cenni esemplificativi.

Se ad un gruppo di preti, mediante un questionario, si chiede quanto tempo mediamente essi dedicano per preparare l’omelia di una comune domenica e, con una successiva domanda, si chiede di spe-cificare quanto di quel tempo è impiegato per decidere dei contenuti e quanto per trovare il modo più efficace per comuni-carli, ci si potrà facilmente rendere conto di una diffusa mancanza di professionalità comunicativa. Sulla base della presunzione che chi ha qualcosa di valido da dire trove-rà spontaneamente anche il modo migliore per comunicarlo, il tempo dedicato all’ef-ficacia comunicativa è o assente o molto

scarso. Ciò può essere anche il risultato della formazione “classica”, così incentra-ta sui contenuti e sulle idee e così poco propensa ad interessarsi di pedagogia e di metodi di efficace comunicazione. In un progetto comunicativo gestito da esperti, invece, il tempo che è dedicato al come comunicare in modo efficace è notevolmente superiore a quello speso per decidere il che cosa dire. La povertà di una seria preparazione retorica, teorica e pratica, nel curriculum di studi dei futuri preti, aggravatasi dopo la riforma conci-liare e solo di recente un po’ riconsiderata, fa sentire tutto il suo peso.

Affinché un discorso pubblico sia davvero comunicativo, è indispensabile che tra colui che parla e coloro che ascoltano vi sia una buona intesa. Essa, tra l’altro, è frutto di un adeguato linguaggio, ben compreso non solo da chi parla ma anche da chi ascolta. Il voca-bolario deve corrispondere, il più possibile, a quello correntemente usato da chi ascolta.

101Notegiugno 2008 - anno VIII

di chi l’ascolta dall’altra che determina la se-rietà, l’interesse dell’omelia. È una questione di competenza comunicativa.

Che cos’è la comunicazione? Si tratta di un processo, e cioè di un insieme concatenato di azioni, mediante il quale un Emittente o Locu-tore stabilisce una relazione con un Destinatario o Ricevente, che può essere un individuo o un gruppo, per trasmettere o scambiare conoscen-ze, convinzioni, emozioni, intenzioni, utilizzan-do un sistema di segni (la lingua orale o scritta, i gesti, i suoni, le immagini…). La comunicazione si realizza nella misura in cui il messaggio rag-giunge il Destinatario; la comunicazione è ben riuscita quando al Destinatario perviene proprio quel significato che il Locutore intendeva fargli giungere.Fin dall’antichità questa esperienza è stata oggetto di analisi e di riflessione.

In questi ultimi cinquanta anni, però, gli studi sulla comunicazione si sono moltiplicati, in parte sulla traiettoria della tradizione prece-dente, in parte seguendo strade inedite, aperte dalle nuove conoscenze nel campo della psico-logia individuale e collettiva, delle dinamiche relazionali, dei processi sociali e degli studi sulla semiotica e sulla linguistica.

La predicazione è una particolare forma di comunicazione pubblica mediante un discor-so e il predicatore non può trascurare l’utilità che deriva dal conoscere i risultati degli studi in proposito. Ecco perché in questa seconda sezione esporremo gli elementi fondamentali della comunicazione, con particolare riferimen-to a quanto accade quando si prende la parola in pubblico, sottolineando di volta in volta ciò che può risultare utile a chi esercita il ministero della predicazione.

Per fare un esempio, consideriamo lo sche-ma elaborato da Roman Jakobson , un filologo, linguista e critico russo, poi emigrato negli Stati Uniti, che ha avuto un grande influsso negli studi più recenti sulla comunicazione:

CONTATTOMESSAGGIO

EMITTENTE DESTINATARIOCODICE

CONTESTO

Il predicatore non deve dare per scontato che chi lo ascolta comprenda il significato delle parole che pronuncia solo perché a lui suonano familiari. E non soltanto per termini appartenenti allo stretto gergo teologico, quali: kenosi, kerigma, kairos, koinonia (termini tutti che un normale programma di videoscrittura, pur dotato di un ricco vocabolario di controllo, segna come errori di battuta!) e via dicendo. O per termini del vezzo di circoli ecclesiastici quali: iniziazione, discernimento, icona, lectio divina eccetera. Ma anche per le grandi parole della tradizione: grazia, mistero, memoriale, alleanza. Parole che certamente non vanno lasciate cadere, ma la cui capacità comunica-tiva è usurata, limitata. Anche i procedimenti mentali, i ragionamenti e le concatenazioni simboliche, mediante le quali si cerca di produr-re persuasioni o decisioni, devono essere simili a quelli percorsi normalmente dagli ascoltatori. La predicazione percorre non raramente sentie-ri che sono familiari a chi ha studiato teologia, ma non possono essere tali per la quasi totalità dei membri dell’assemblea.

Ad un predicatore che ha frequentato il liceo classico e ha fatto studi teologici, un percorso tra ragionamenti e prove razio-nali può apparire il più adatto a provocare convinzioni e decisioni. Non è detto che coloro che lo ascoltano frequentino abi-tualmente gli stessi sentieri. La citazione di alcune esperienze e un paio di racconti possono risultare più efficaci di un formi-dabile ragionamento, con il suo procedere stringente.

Un discorso che voglia essere seguito e trovato interessante, inoltre, deve avere un riferimento preciso a ciò che gli ascoltatori sperimentano come rilevante nella loro esisten-za. Essi vivono gioie e dispiaceri, speranze e delusioni, successi e sconfitte, preoccupazioni e attese. Tutti questi stati d’animo sono collegati a circostanze, avvenimenti, situazioni, persone, relazioni.... In che rapporto sta l’omelia che essi stanno ascoltando con queste loro passioni? Vi trovano una qualche luce, un conforto, un sostegno, una speranza, un incoraggiamento? È la relazione tra i contenuti e i modi dell’omelia da una parte e le dimensioni reali dell’esistenza

102 Note giugno 2008 - anno VIII

Si tratta di un emittente che vuol far giun-gere il suo messaggio ad un destinatario. É indispensabile che tra i due vi sia un contatto, e che i contenuti mentali dell’emittente passino attraverso un processo di codifica, che li renda percepibili, e di decodifica, che li renda com-prensibili al destinatario. Il tutto avviene in un contesto, entro il quale il messaggio acquista il suo senso e il suo significato.

Jakobson individuò anche le “funzioni” collegate a ciascun elemento del suo schema comunicativo, e dal nostro punto di vista è questo il pregio maggiore della sua propo-sta. Per “funzione” - termine derivato dalla matematica - si deve qui intendere la qualità o capacità che ha una particolare azione co-municativa, che le permette di legare tra loro una intenzione - quella di chi comunica - ad un risultato - l’effetto che si voleva ottenere nel destinatario. Si può anche dire che le funzioni sono le componenti della comunicazione, quelle sopra elencate, viste però nel loro di-namismo, nel loro funzionamento.

(contatto) funzione FATICA(messaggio) funzione POETICA

(emittente) (destinatario)

funzione EMOTIVA funzione CONATIVA

(codice) funzione METALINGUISTICA(contesto) funzione REFERENZIALE

Per il predicatore è indispensabile conoscere le “funzioni” che entrano in gioco nella comu-nicazione e a cui può e deve ricorrere con com-petenza per realizzare una omelia efficace.

Esse si possono paragonare agli arnesi a cui un artigiano ricorre nello svolgimento del suo lavoro.

Non è possibile fare un buon lavoro nella predicazione se non si conoscono quali sono gli arnesi a cui si può ricorrere e come fun-zionano!

Si deve, per fare un ulteriore esempio tratto dagli studi sulla comunicazione, tener conto che non comunichiamo soltanto in maniera verbale, ma anche paraverbale e non verbale. Essi non solo dei semplici “contenitori” del “messaggio”, né il messaggio è costituito solo dai contenuti razionali delle parole.

Il messaggio è costituito dall’insieme degli “impulsi” che partono dall’emittente e giun-gono ai destinatari, comprese naturalmente le parole che hanno indubbiamente una grande rilevanza, ma non solo esse.

Sottolineiamo in maniera più chiara qui ciò che più di una volta abbiamo ritenuto di dover sottolineare riguardo ad aspetti ampiamente trascurati nella predicazione corrente.

Può essere interessante considerare il peso che hanno le diverse componenti. In condizioni normali è stato calcolato che il “peso” che ha ognuna delle tre componenti:

Il risultato può apparire sorprendente, e certamente mette in discussione molti nostri pregiudizi. La situazione dell’omelia - è vero - risulta particolare e l’atteggiamento di aper-tura e di attenzione accordata, fin dall’inizio, a colui che parla e alle sue parole è superiore a quanto avviene in situazioni più comuni. Tuttavia i risultati citati debbono far riflettere anche il predicatore.

103Notegiugno 2008 - anno VIII

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mu

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azio

ne

verb

ale Sono tutte le informazioni che vengono

codificate mediante parole, organizzate in frasi, a loro volta ordinate in un discorso.

Il tono della voce (acuto o grave), il volume (alto o sommesso), l’accentuazione, il ritmo o la velocità, le pause tra una parola e l’altra.

L’aspetto esteriore, i gesti, la postura, l’espressione del volto, la direzione dello sguardo, il comportamento spaziale, la distanza o vicinanza corporea.

Verbale 7%

Paraverbale 38%

Non verbale 55%

Verbale7%

Non Verbale55%

Paraverbale38%

104 Note giugno 2008 - anno VIII

Suggerimenti Bibliografici

Testi teologico-pastorali sull’omelia:

• SODI M. e TRIACCA A. (a cura di), Dizionario di omiletica, Elle Di Ci-VELAR, Leumann (To) - Gorle (Bg) 1998.

• BISCONTIN C., Predicare oggi: come e perché. Queriniana, Brescia 2001.

• BISCONTIN C., Predicare bene, Messaggero - FTT, Padova 2008.

• CATELLA A. (a cura di), L’omelia: un messaggio a rischio, Messaggero, Padova 1996.

• CRADDOCK F. B., Predicare, Ancora, Milano 1997.

• DE ZAN R. (a cura di), Dove rinasce la parola, Messaggero, Padova 1993.

• DELLA TORRE L., «Omelia», in: Sartore d. e Triacca a. (a cura di), Nuovo dizionario di Liturgia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1993 s.

• FALSINI R. (a cura di), La parola di Dio nella celebrazione, Edizioni O.R., Milano 1984.

• MALDONADO L., L’omelia. Predicazione liturgia comunità, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 1995.

• PRONZATO A., La predica prova della fede?, Gribaudi, Milano 2005.

• STENICO T., L’omelia. Parola e comunicazione, Libreria Ed. Vaticana, Roma 1998.

Sulla comunicazione efficace:

Introduzioni generali:

• CAPRETTINI G. P., APPIANO A., SCALI A. (a cura di), Comunicazione (collana Sintesi), A. Vallardi, Milano 2000.

• TESTA A., Farsi capire, Rizzoli, Milano 2000.• VOLLI U., Manuale di semiotica, Laterza, Roma-

Bari 2000.• VOLLI U., Il nuovo libro della comunicazione, Il

Saggiatore, Milano 2007.

Sulla comunicazione in pubblico mediante la pa-rola:

• BOZECK P. E., Comunicare con efficacia, Franco Angeli, Milano 1996.

• BREGANTIN D., Corso per parlare in pubblico, De Vecchi, Milano 2005.

• BRENTANO C. A., Corso completo per parlare in pubblico, De Vecchi, Milano 1990

• GRIGIS S. A., Parlare in pubblico, FrancoAngeli, Milano 1995.

• ROZAKIS L. E., Parlare in pubblico, Tecniche Nuove, Milano 1997.

• SANSAVINI C., Parlare in pubblico o “la presen-tazione persuasiva”, Demetra, Colognola ai Colli (Vr) 2002.

di ANTONIO CIAULA*

Padre Nazareno Taddei, mio maestro

«Padre Nazareno Taddei, gesuita, sembra una di quelle persone con l’orologio avanti. Arriva agli appuntamenti, ma ancora non c’è nessuno. Si stanca di aspettare e passa oltre. Quando arrivano gli altri, si guardano intorno, ma non lo vedono. “Io c’ero”, dice Taddei. Ma gli altri, sempre più d’uno, a volte decine, re-plicano: “No che non c’eri. Abbiamo guardato dappertutto. Eravamo in tanti”. Così è successo che iniziasse le trasmissioni televisive religiose prima ancora della nascita ufficiale della tv. È stato mandato in esilio per aver detto che “La dolce vita” di Fellini è un film che parla della Grazia, e per questa sua idea si è messo con-tro i cardinali. Fino a che, trent’anni dopo, un cardinale ha celebrato i funerali di Fellini. Da un po’ di tempo predica in Internet: ha iniziato in tempi non sospetti, quando a “navigare” non c’era quasi nessuno. Adesso è scomparso, ma la sua opera guarda ancora avanti». 1

Così il giornalista Andrea Fagioli sintetizza la vita e le opere di padre Taddei che già aveva trattato nel 2000 nel libro-intervista Nazareno Taddei, un gesuita avanti2 dove era riuscito a far esprimere il padre, in modo più organico,

anche su alcuni aspetti e vicende su cui nor-malmente preferiva glissare o solo accennare o, comunque, di cui parlava, dietro insistenti richieste, magari in qualche dopocena dei suoi corsi così come è successo a me a Muzzano Biellese ad agosto del 1978. Ed in quei casi, il suo modo di raccontare (l’ho capito, non immediatamente, preso dalla voglia di cono-scenza dei fatti) volgeva intorno a quella che, nella sua metodologia di lettura, è l’idea cen-trale. È quanto ho sentito ripetergli sempre più spesso le ultime volte che ho avuto l’occasione di incontrarlo come a maggio 2005 quando, durante il Congresso eucaristico di Bari, lo ac-compagnai a Matera, nella zona della location di Passion, in visita da don Gavazzeni.

Tutto è provvidenziale. È la chiave di lettura che lui dava alle vicende della sua vita anche a quelle meno spiegabili. Quel provvidenziale potrebbe essere definito il racconto della vicen-da di un gesuita che credeva all’obbedienza. Quante volte la sottolineatura dell’obbedienza nel ricordare, ad esempio, alcuni difficili pas-saggi riguardanti la lettura del film La dolce vita per cui fu esiliato a Monaco di Baviera: “castigato per aver obbedito: un gesuita che

* Docente stabile di Comunicazioni Sociali e di Pastorale delle Comunicazioni Sociali - Istituto Superiore di Scienze Religiose San Nicola, il Pellegrino - Trani.

1 Il giudizio, così come riportato, apre il sito di Dio dopo Internet fondato da p. Taddei nel 1995 per le sue prediche dalla rete. Cfr http://www.diodopointernet.it/page.asp?pageID=901.

2 A. FAGIOLI, Nazareno Taddei, un gesuita avanti, p. 124, ed. Edav, giugno 2000.

106 Note giugno 2008 - anno VIII

veniva castigato per aver rispettato la ‘santa obbedienza’”.3

Eppure p. Taddei non era un tipo facile; p. Federico Lombardi parla di “rigore” all’omelia per i suoi funerali presso la Chiesa del Gesù in Roma.4 E non era nemmeno uno che taceva in modo tattico passando sopra la verità, come sa chi l’ha appena appena conosciuto.5

La robusta formazione tomistica, che gli fa affermare che Tommaso d’Aquino è il suo maestro di cinema, l’ha ricevuta da p. Roberto Busa, docente di filosofia dei gesuiti dal 1941 al 1969 oltre che autore del monumentale Index Thomisticus elettronico, che parla così di due suoi allievi, il card. Martini e p. Taddei.

“Tra i due grandi più grandi che ricordo, ci sono il cardinale Martini e padre Taddei. Li paragono a due dinosauri di tipo diverso. Il cardinale Martini, di fatto, si è dimostrato un locomotore elettrico capace di tirarsi dietro le mille parrocchie di Milano, però su due binari classici e tradizionali che c’erano già. Il padre Taddei mi è sembrato un ‘quattro-ruote-fuori-strada’”.6

Anche padre Busa è un tipo che non fa sconti. A proposito del libro-intervista, che dichiara di aver letto tutto d’un fiato, afferma che “vi si dice che padre Taddei forse ha un brutto carattere: cancellate quel ‘forse’”.7 Queste pennellate aiutano ad abbozzare la fisionomia di una personalità certo non facile ma eccezionalmente feconda che non faceva sconti, neppure a sé stesso.8

Un suo allievo, mons. Francesco Cacucci, attesta pubblicamente che p. Taddei “ha de-terminato la mia vita”.9 Credo siano in tanti, in tutto il mondo, che possono condividere l’affermazione di mons. Cacucci. Mi riferisco a quanti seguono la sua metodologia istruendo anche gli altri a decifrare la struttura di ogni tipo di comunicazione (anche della vita quoti-diana talvolta) per non parlare di chi si ferma ad apprendere la sola “lettura” dei media.

La formulazione su base scientifica della “Teoria della comunicazione di massa” e le metodologie della “lettura strutturale” e della “strategia dell’algoritmo contornuale” hanno travalicato da tempo il vecchio continente e, at-traverso la sua opera, sono diffuse dall’America del Nord e del Sud fino all’Estremo Oriente. In oltre cinquant’anni di studi ed esperienze anche all’estero, Nazareno Taddei ha dato un notevole apporto allo studio scientifico dei linguaggi. Da apripista, su incarico del card. Schuster, si occu-pò dell’ora religiosa settimanale nelle trasmis-sioni televisive della Rai ancor prima dell’inizio ufficiale delle trasmissioni (3 gennaio 1954). Direttore dei programmi religiosi della Rai, ha realizzato fino al 1960 oltre 200 regie televisive ottenendo per la Rai i primi due riconoscimenti internazionali (Montecarlo, 1958 e 1959). Nel 1962 ha fondato e diretto lo Schedario Cinema-tografico per il quale ha ottenuto la Targa Leone S. Marco alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1966. Autore di numerosi saggi e libri tradotti in America, Asia ed Europa, Nazareno Taddei

3 A. FAGIOLI, Nazareno Taddei, un gesuita avanti, cit., p. 46. 4 F. LOMBARDI, sj, Uomo di fede austera e rigorosa, omelia per i funerali di p. Taddei nella Chiesa del Gesù in Roma

il 22 gugno 2006, Edav,n. 342, luglio 2006, p. 10.5 Si veda, ad esempio, la testimonianza di Eugenio Bicocchi alla presentazione del volume Nazareno Taddei, un

gesuita avanti, il 17 giugno 2000 a Bocca di Magra. Cfr. Presentazione del volume “Andrea FAGIOLI, Nazareno Taddei, un gesuita avanti”, 17 giugno 2000 - Bocca di Magra (Sp), ed. Edav, dicembre 2000, p. 29-30.

6 Presentazione del volume “Andrea FAGIOLI, Nazareno Taddei, un gesuita avanti”, 17 giugno 2000 - Bocca di Magra (Sp), ed. Edav, dicembre 2000, p. 7.

7 Ibid., p. 8.8 Ricordo in particolare il suo racconto del coma dopo il grave incidente di macchina subìto. Oltre alla descri-

zione, da regista, della visione di una grande luce, il Padre amava descrivere il suo disagio nel non avere “Il cravattino” (in cui sintetizzava le deficienze umane) per presentarsi al giudizio particolare.

9 Presentazione del volume “Andrea FAGIOLI, Nazareno Taddei, un gesuita avanti”, cit., p. 17.

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è stato docente universitario di “Teoria della comunicazione” e di “Metodologia e didattica degli audiovisivi” alla Gregoriana e alla Latera-nense di Roma, all’Università di Sassari e in vari atenei internazionali.10

Credo che l’opera di padre Taddei sia stata solo appena delibata specie se si pensa che, uffi-cialmente è stato “sdoganato” solo Il 24 novem-bre 2005 con l’assegnazione del Premio speciale “Robert Bresson” dell’Ente dello Spettacolo presieduto dall’intelligenza di mons. Dario Viga-nò. Così, solo pochi mesi prima della sua morte, avvenuta a Sarzana (Sp) il 18 giugno 2006, viene definitivamente chiuso il ciclo dell’esilio iniziato nel 1960 con la vicenda della “lettura” del film La dolce vita di Fellini. Significativo il fatto che il premio, che riconosce nella motivazione ufficiale “l’impegno profuso, per oltre mezzo secolo, nell’ambito delle comunicazioni sociali e in parti-colare della televisione e del cinema” gli sia stato consegnato dal suo ex-allievo, mons. Francesco Cacucci alla presenza del prof. Francesco Caset-ti. Le loro figure istituzionali rispettivamente di Presidente della Commissione episcopale per la cultura e le comunicazioni sociali e di Direttore del Dipartimento comunicazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, nel silenzio della cornice del monastero di Santa Scolastica a Subiaco, sono garanti di un ciclo che si chiu-de. P. Taddei, apprezzando molto anche le loro parole, annota:

“Evento piccolo, ma vero evento; piccolo, ripeto, per lo scarso spessore del mio con-tributo, che mi fa riconoscere immeritevole di quel Premio, nonostante i due veri voli pindarici che mons. Cacucci e il prof. Ca-setti hanno potuto dipingere su quel poco che ho fatto e che mi ha fatto assegnare il premio; ma vero e proprio evento storico, perché esso fa cascare ufficialmente il muro di reciproche incomprensioni e diffidenze che in questi decenni hanno impedito di lavorare insieme, per la maggior gloria di

Dio, due enti sorti con la stessa finalità di servizio e di propositi e nello stesso nome di Cristo, l’uno, l’Ente dello Spettacolo dell’Autorità ecclesiastica in Italia; l’altro, il nostro Centro dello Spettacolo e della Comunicazione Sociale, fondato e gestito con la benedizione dell’Autorità religiosa in Italia e dello stesso Padre Generale; enti, ambedue, obbligati a lavorare in un clima odioso da competizione, ben poco cristia-no, anziché di fraterna collaborazione. Ne ringrazio di tutto cuore, spero con voi e a nome vostro, il buon Gesù”. 11

P. Taddei non si era mai tirato indietro se chiamato in occasioni ufficiali della Chiesa ita-liana come quando fu affidata a lui la relazione principale del IV Convegno Cei sui mezzi di comunicazione sociale tenutasi a Bari dal 22 al 25 aprile 1976 come immediata preparazione al Convegno nazionale Evangelizzazione e Promozione umana.12 Fu in quella occasione che l’ho incontrato personalmente per la prima volta anche se avevo sentito parlare di lui e avevo letto alcuni suoi scritti.

Nella Traccia di preparazione al Convegno Evangelizzazione e Promozione umana veni-va richiesto alla Chiesa un ripensamento del rapporto tra evangelizzazione e promozione umana in riferimento ai nuovi problemi aperti dai mutamenti socio-culturali in atto. Nella rela-zione p. Taddei dopo aver evidenziato che tutti i problemi sociali e pastorali contemporanei sono legati ai media divenuti tessuto connet-tivo di tutte le altre problematiche specie nel cambio di mentalità e del trapasso di cultura in atto evidenziato dalla Traccia predetta, si sofferma in particolare sul problema fonda-mentale della mentalità indotta, appunto, dai media che ha sconvolto - per un fatto semio-logico, prima che psicosociologico - il modo di vedere e la realtà dell’uomo. Evidenzia, quindi, che il primo dovere pastorale è quello di af-frontare adeguatamente (su basi scientifiche)

10 Per alcuni cenni biografici più completi, i riconoscimenti avuti e le opere principali si veda la scheda nelle pagine che seguono.

11 N. TADDEI sj, La relazione mai letta: “Io, bambino di 86 anni”, Edav n. 342, luglio 2006, p. 3.12 Cfr. Cei - IV Convegno nazionale sui mezzi di comunicazione sociale “Educazione ai mass media: impegno dei

cattolici” - Bari, Edav, n. 38, p. 687. La relazione è pubblicata in un opuscolo. Cfr. N. TADDEI s.j., Mass media, Evangelizzazione e Promozione umana, Edizioni CiSCS, Roma 1976.

108 Note giugno 2008 - anno VIII

il problema della mentalità imposta - nei suoi due aspetti di massificazione e di strumenta-lizzazione - con la conseguente necessità di un’educazione adeguata e specifica attraverso metodologie corrette e sperimentate e sottoli-nea il fatto che quanti fanno evangelizzazione devono impossessasi delle nuove metodologie espressive evitando stereotipi (e, prima ancora, sapendoli individuare in quelle strategie di comunicazione) e usare una vera e propria strategia che esige un radicale rinnovamento non di strutture ma di metodi, di tattiche, di criteri operativi.13 Egli afferma:

“se alla radice c’è un problema praticamen-te di comunicazione e quindi di linguaggio, va da sé che un cambio di strutture non è sufficiente a determinare tale rinnovamen-to. È proprio la mentalità della strategia pastorale che va rinnovata, senza intaccare i princìpi. Vanno rinnovati molti criteri ope-rativi mutuati da tempi ch’erano diversi dai nostri e che solo empiricamente sono stati adattati alle nuove esigenze socioculturali. Ma come non è ammissibile che, cambiando criteri operativi e strategici, si buttino via anche principi e criteri tuttora validi perché ancorati alla profonda natura delle cose, così non è ammissibile che si facciano pas-sare ancora per princìpi o criteri immutabili cose che erano solo applicazioni, adatte a determinare epoche e a determinare circo-stanze, oggi non più esistenti”.14

Nelle conclusioni p. Taddei richiama alla con-versione continua, al cambiamento interiore da una mentalità materialistica ad una mentalità cristiana come obiettivo della comunicazione pastorale e come

“invito a controllare e a modificare conti-nuamente la rotta verso l’affermazione del Regno di Dio e quindi anche a formulare e a seguire adeguatamente una strategia che tenga conto del trapasso di cultura. Ancora più a monte, è invito a passare da

una mentalità materialistica - il formali-smo e il formulismo vi appartengono, pur se ammantati di contestazione - a una mentalità cristiana, cioè fondata sulla spiritualità”. 15

La relazione di p. Taddei fu molto apprezzata come testimonia mons. Francesco Ceriotti, diret-tore dell’Ufficio nazionale Cei per le Comunica-zioni sociali, che, nell’introduzione all’opuscolo che la pubblica, riporta anche il pensiero di mons. Guglielmo Motolese, arcivescovo di Ta-ranto e vice presidente della Cei. Mons. Ceriotti, sottolinea lo stretto legame tra i documenti preparatori del Convegno EPU e la relazione di p. Taddei ed evidenzia la relazione

“affrontando il problema dell’incidenza dei mass media sull’uomo contempora-neo e sottolineando come essa sia legata anche alla natura degli strumenti della comunicazione sociale, mette in evidenza l’imprescindibile necessità di un serio im-pegno educativo, se si vuole realizzare una presenza costruttiva in questo importante settore della vita sociale. Impegno che per essere efficace esige un approccio su basi scientifiche in conformità al documento base pubblicato dalla CEI in preparazione al Convegno su Evangelizzazione e pro-mozione umana che si terrà nel prossimo autunno”.16

Le parole conclusive di mons. Motolese, riportate da mons. Ceriotti nell’introduzione, collegano i temi del trapasso di cultura e della secolarizzazione a quello della incidenza dei mass media sulla mentalità corrente ed indican-do la direzione della formazione urgente in tale campo che porti a saper elaborare e tradurre i contenuti della fede in opinione pubblica. 17 Mons. Motolese afferma:

“non può e non deve sfuggire a quanti portano le gravi responsabilità dell’apo-stolato, l’incidenza sociale ed educativa di tutti i mezzi in genere della comunicazione sociale, il loro peso, la loro strumentalità e la loro forza di suggestione. Non può e non deve sfuggire questa incidenza a noi che viviamo una grande ora di respon-sabilità e di fermenti nuovi, impegnati a un rinnovamento autentico di fede tra le nostre comunità per una crescita religiosa capace di una testimonianza nuova della professione cristiana nel mondo, che sia preparata ad affrontare l’urto sempre

13 N. TADDEI sj, Mass media, Evangelizzazione e Promo-zione umana, cit. p. 71-72.

14 N. TADDEI s.j., Mass media, Evangelizzazione e Promozione umana, cit. p. 73.

15 Ibid., p. 73-74.16 Ibid, p. 5.17 Cf. F. CERIOTTI, Presentazione…, cit., p. 6.

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crescente con la realtà, che sembra volersi evolvere prescindendo da Dio, anzi annun-ciando che siamo nell’epoca della fine della religione e della sua morale... La comunità cristiana ha bisogno oggi dei mezzi di comunicazione sociale per creare nel suo ambito una opinione pubblica cattolica, che deve tradursi in capacità di elaborare giudizi sereni, retti, equilibrati, liberi. Sorge qui l’impegno per la formazione e la qualificazione umana e cristiana degli operatori della comunicazione sociale e dei recettori”.

A distanza di più di 30 anni credo si possa anche notare che l’apprezzamento riguardava, prevalentemente, i contenuti della relazione di p. Taddei, cosa già rilevante per l’epoca. Occorre tener presente, infatti, un certo clima di sospetto nei confronti di questo gesuita collocato tra gli apocalittici per il fatto di privi-legiare l’aspetto dei media come formatori di mentalità rispetto alla loro funzione strumen-tale di cassa di risonanza, cosa che, come si è visto nelle lunghe citazioni precedenti, veniva accettato nei contenuti anche dalla gerarchia e dagli organismi ufficiali. Mi riferirò solo a un testo dell’epoca che definisce p. Taddei “uno dei semiologi più noti in campo ecclesiale […] nettamente orientato verso la lettura apocalit-tica e pessimista della comunicazione sociale” anche se l’autore dichiara che Taddei “ricono-sce esplicitamente la funzione kerigmatica e soteriologica dei mass media”18. Chi scrive è il paolino Rosario F. Esposito conosciuto come esperto di Massoneria anche se per il carisma paolino e l’appartenenza alla famiglia di don Alberione, si è interessato anche ai media ma più per passione che da specialista. Esposito, teso verso una dichiarata interpretazione e ver-so un uso costruttivo dei mass media afferma

che la massificazione non esiste (è il titolo del suo libro)19 e, quindi, si scaglia contro Nazareno Taddei, gesuita “uno dei teoreti di questa carat-teristica della massificazione”.20 Il pensiero di p. Taddei, di cui vengono citati passi dalle pagine 169-171 di Mass media e libertà. Appunti,21 verrebbe così accomunato alle scomuniche che la chiesa ha lanciato contro la libertà di stampa. Ecco quanto afferma p. Esposito:

“I fulmini lanciati dagli apocalittici, e so-prattutto dai detentori del potere contro la stampa, e peggio ancora contro il gior-nalismo, a partire dal ‘700 soprattutto, costituiscono un genere letterario abbon-dantissimo, Le scomuniche delle gerarchie civili e religiose – specialmente quelle della Chiesa Cattolica – contro la libertà di stampa, sono anch’esse fatto ben noto. Gli apocalittici di oggi si collocano nella mede-sima linea, al momento che l’avvento della tecnotronica e dell’informazione globale è un fatto inevitabile”.

Certo, ognuno è libero di pensarla come crede e le scuole di pensiero possono essere tante ma c’è da chiedersi se Esposito cono-scesse il fatto che p. Taddei era stato oggetto di provvedimenti ecclesiastici più che essere persona che “lanciava fulmini”. O si deve essere portati a pensare che p. Taddei era un obiettivo facile? Forse per questo si può sparare sulla Croce Rossa?

A parziale discarico di p. Esposito va rilevato che padre Taddei non è l’unico nel suo miri-no anche se risulta più “bersagliato” di altri. Ponendosi nella sua ottica salvifica per un’in-terpretazione e un uso costruttivo dei mass media e percorrendo quello che lui definisce un patrimonio da scoprire e valorizzare si trova una classificazione di quanti

18 R.F. ESPOSITO, La massificazione non esiste. Per un’interpretazione e un uso costruttivo dei mass media. Edizioni Paoline, Roma 1978, p. 258. Esposito fa qui riferimento ad un passo tratto dalle pagine 24-25 di N. TADDEI, Predicazione all’epoca dell’immagine, LDC, Torino, 1964.

19 Su p. Rosario Esposito (1921-2007) e sulla sua “paolinità” si veda A. COLACRAI, Un comunicatore schietto e di qualità, n. 1, 2008. Ho avuto modo di conoscerlo personalmente presentandolo per una sua conferenza a Bari agli inizi degli Ottanta. Sulle affermazioni del suo libro ci scambiammo alcune battute, direi gustose, come possono essere quelle tra un barese e un napoletano.

20 R.F. ESPOSITO, La massificazione non esiste, cit., 46. 21 N. TADDEI sj, Mass media e libertà. Appunti, Dessì, Sassari 1972.

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“Impostati impeccabilmente sul piano ideo-logico, sono invece deficienti su quello pa-storale a causa della scelta in ultima analisi elitaria e classista, talune opere e attività cristiane che pure hanno raggiunto risultati degni di rilievo:in Francia, fra gli altri, i lavori dell’Ab. A. Ayfree e del suo continuatore J. Gnitti, come pure dell’Agel, del Ludmann, ecc.; in Italia quelle dei PP. Taddei, Bini, Baragli, Pignatiello, Cacucci e degli studiosi e circoli che ad essi si ispirano. In Germania molti circoli universitari e pubblicisti, come quello di Monaco, di Munster, di Koln, la rivista cattolica Comunicatio socialis animata spiritualmente dal verbita F. J. Eilers, e altri che spesso fanno fatica a credere nel signifi-cato profetico e salvifico dei mass media; lo stesso dicasi del mondo anglosassone”. 22

Direi, in sintesi, che quella di padre Taddei poteva passare anche come una visione anti-conciliare, in contrasto con l’aggettivo sostan-tivato del titolo decreto del Vaticano II che con il mirifica sembrava evidenziare, ma solo a una lettura superficiale, una visione definita ottimistica quasi che l’altra (che portava alla strada dell’educazione alla lettura dei media) fosse solo pessimistica. Inutile sottolineare una certa superficialità nella semplice conoscenza del decreto (non dico del suo studio) che, al n. 1, definisce le funzioni dei media con i verbi raggiungere (cassa di risonanza) e influenzare (formatori di mentalità).

Sarà inutile anche osservare che per le case editrici cattoliche il mirifica e il raggiungere (dando risonanza a qualcosa) sono state le

direzioni di marcia anche di investimenti (e … ritorni) economici come pure è inutile osservare che la diversità di carisma tipico di ciascun ordi-ne, congregazione, istituto di vita apostolica si risolve molto spesso in una sorta di separatezza più che in contributi tipici e, quindi, multiformi alla stessa causa.

Ho voluto ripercorrere alcuni periodi vissuti personalmente scegliendo l’intervento di p. Taddei in una manifestazione ufficiale della Cei nel 1973, il suo evidenziare elementi precisi del suo pensiero (condivisi quanto a contenuti dagli stessi organismi e rappresentanti eccle-siastici) e, nel contempo, riportare accadimenti coevi attraverso le posizioni “contrarie” (per usare un eufemismo) al Padre. Direi che occorre essere grati a Rosario F. Esposito per il modo preciso e puntuale con cui ha pubblicizzato il suo pensiero23 e divenendo, inconsapevolmen-te, la punta dell’iceberg di incomprensioni, divieti nei fatti e, comunque, di quel “muro di reciproche incomprensioni e diffidenze che in questi decenni hanno impedito di lavorare insieme” al quale p. Taddei si riferiva a Subia-co alla consegna del “Premio Bresson”. Tutto questo oggi (ma anche ieri per chi è stato vicino a p. Taddei) permette di capire il tipo di isolamento creato intorno alla sua persona e la conseguente sua sofferenza mai lasciata trasparire e condensata nella frase ripetuta “Tutto è provvidenziale”.

Si capisce, laddove non fosse abbastanza

22 R.F. ESPOSITO, La massificazione non esiste, cit., 262-263. Per quanto riguarda l’Italia Esposito afferma di aver trovato casi molto ricchi e suggestivi e ricorda per l’italia “le presenze dei prelati Facchinetti, Costantini, Salotti, di don Giacomo Fino, don Emilio Magri, P. Petazzi; per la Francia, l’opera del Capéran, del Dieux, del Lhande, e altri”. Ibid., p. 262.

23 I riferimenti a p. Esposito, pure con qualche battuta, non hanno certamente intenzione polemica quanto quella di ristabilire la verità. Per chi scrive questo aspetto della verità è un omaggio a p. Taddei che sulla verità e testimonianza misura la correttezza dell’informazione. La ricerca della verità nella comunicazione e la santa ubbidienza sono elementi portanti nella vita di p. Taddei. Ambedue erano anche componenti del suo essere gesuita. Verità, fedeltà alla Chiesa e al Papa, santa ubbidienza nella Compagnia di Gesù le ho viste da lui espresse in diversi momenti: nel suo racconto dell’esilio comminatogli per aver agito per santa obbedienza; dispiacere per la mancanza di verità in alcuni aspetti della famosa vicenda come pure nel non essere “riconosciuto” da parte di un porporato sostenuto in seminario da parte di suo padre, medico condotto e una verità ristabilita dal card. Ottaviani che si china anche per aiutarlo mentre lui, ingessato dopo l’incidente, cade a terra nell’atto di salutarlo. Il suo “vivere” la Compagnia di Gesù ho avuto modo di vederlo in diverse occasioni non ultimi i riferimenti a p. Matteo Ricci e a s. Pietro Claver durante i suoi corsi. Mi ha colpito l’affetto e la sua devozione per p. Arrupe manifestate in occasione dell’ictus che lo colpì il 7 agosto 1981. Eravamo alla Casa internazionale del Movimento Oasi a Castelgandolfo per un corso.

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chiaro, il rifiuto da parte del Padre di qualsiasi tipo di sponsorizzazione delle sue iniziative con un conseguente maggiore onere e, talvolta, anche con qualche critica. E in questa situazio-ne p. Taddei moltiplica i suoi impegni a favore dell’idea costante dell’educazione audiovisiva a cui è dedicato il titolo-sigla della sua testata: Edav che inizia le sue pubblicazioni nel 1972 con 360 numeri editi a maggio 2008. Nel 1973 trasforma il suo CSCS - Centro dello Spettacolo e della Comunicazione Sociale, fondato nel 1953, in CiSCS - Centro Internazionale dello Spettacolo e della Comunicazione Sociale dan-do ad esse la figura giuridica di associazione e cadenzando le attività con convegni annuali a tema. Si impegna a fondo nei Corsi estivi (iniziati già nel 1965) per cui i suoi allievi si mol-tiplicano rappresentando anche vari settori.

Qualsiasi tipo di incontro o semplice confe-renza diventa occasione per riversare gli ultimi frutti di anni di studi e di esperienze in Italia e all’estero; è perennemente alla ricerca di forme espressive nuove per comunicare argomenti complessi che sa tradurre in quell’opera didat-tica che è il Corso di Educazione all’immagine, in 8 volumi-videolibro, costituiti da lucidi per lavagna luminosa raccolti in 63 lucidi. Editi nel 1977, i volumi hanno il pregio dell’originalità data dal sistema della “sovrapposizione iconica in funzione concettuale” ideato da P. Taddei che permette di illustrare (facendoli capire) concetti complessi (comprende, infatti, i fon-damenti filosofici della comunicazione in forma accessibile) potendoli utilizzare dalle elementari e medie fino a corsi specialistici. Sono ormai 30 anni che uso tale strumento, di cui 15 (in modo particolare) per seminari e corsi presso l’Istituto (oggi Superiore) di Scienze Religiose di Trani verificando costantemente la sua efficacia. Ri-tengo che il Corso di Educazione all’immagine, sia l’opera descrive meglio il Padre in quanto lui stesso faceva costante riferimento ai nuclei dei videolibri per le illustrazioni di suoi articoli

su Edav. Chi conosce Edav e i videolibri del corso può testimoniare la sua continua ricerca rappresentata in nuovi nuclei esplicativi dei precedenti e/o o l’aggiunta di alcuni particolari in quelli già editi per esprimere nuovi contenuti. Mi fermo a indicare solo alcune delle attività dirette a una sorta di semina in campi sempre nuovi rimandando alla scheda che segue per tutta quella serie di attività sia accademica che di impegno per l’educazione all’immagine nella scuola e a quella editoriale. Credo che la motivazione di uno dei premi ricevuti da p. Taddei testimoni l’impegno educativo del Padre a cui viene assegnata la Medaglia d’Argento 1996 a Piano di Sorrento, dal Centro Studi e Ricerche Bartolomeo Capasso, per il Cente-nario del Cinema al massmediologo, critico e docente universitario “per la sua lunga e feconda attività di maestro dell’educazione dell’immagine, con la quale ha ormai creato in tutta Italia un gran numero di discepoli in grado di proseguire nel cammino innovativo da lui indicato. Nazareno Taddei è presidente del Centro internazionale dello Spettacolo e della Comunicazione Sociale di Roma”.

Non credo sia capitato solo a me di ricevere da lui una sorta di lunga lezione privata quando, venuto a Bari per tenere un seminario su Au-diovisivi in medicina24 a maggio 1979, accettò di passare la serata a casa. Ebbi “l’orgoglio” (subito da lui tacitato) di mostrargli un mio lavoro che aveva richiesto poco meno di trenta ore di preparazione. Avevo preparato una serie di lucidi sul Credo, ovvero sulla nascita della professione di fede nella primitiva comunità cristiana dopo la resurrezione di Cristo. Volle vedere le fonti di studio, entrando nel merito di affermazioni di teologi alla ricerca del contenuti puri. In definitiva, sotto lo sguardo divertito di mia moglie, mi disse che avevo fatto un’opera di trasposizione concettuale e non di traduzione in linguaggio dell’immagine. Erano le 20,30 di sera e finimmo di lavorare verso le 2 di notte

24 Il seminario su Audiovisivi in medicina (in particolare sull’uso didattico di diapositive fatte e sonorizzate dai docenti e messe a disposizione degli studenti in biblioteca) fu tenuto da Padre Taddei dal 16 al 18 maggio 1979 ai cattedratici di della Facoltà di Medicina presso Biblioteca Facoltà di Medicina - Università degli Studi di Bari. Cfr. Edav, n. 69, p. 31.

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quando lo riaccompagnai in albergo. Insomma, fu una full immersion di educazione con l’im-magine ripercorrendo tutti i passi della strategia dell’algoritmo contornuale. Posso affermare che non fu solo una “lezione privata” dedicata all’argomento predetto (che pure molto mi è servita anche per l’insegnamento della sua metodologia sia in generale che dal punto di vista della pastorale della comunicazione); mol-te scelte da me utilizzate circa il “come” della comunicazione (dalle scelte grafiche all’impa-ginazione, ad esempio) vengono dall’incontro vissuto con la sua metodologia. Ritornando a quella sera di maggio 1979 è come se avessi avuto una sorta di lezioni di regìa.

Questo ricordo mi serve per evidenziare e testimoniare di persona che quanto da lui creato in campo dell’educazione all’immagine e con l’immagine non può essere ristretto solo ad alcuni campi della comunicazione mediale anche se è indubbia la sua esperienza e com-petenza specifica nel campo del cinema. Credo che dagli inizi degli anni Novanta i fatti abbiano cominciato a dar ragione al “gesuita avanti”. Nonostante l’occasione mancata dell’edu-cazione all’immagine introdotta nella scuola elementare italiana con i Programmi del 1985 e diventata, in realtà, una sorta di educazione all’osservazione e all’espressività-creatività

del bambino e non a fornirgli gli elementi di base per leggere e capire i media, si è andata facendo strada l’esigenza di un’educazione ai media.25 Non si è ancora arrivati a riconoscere a Nazareno Taddei il “marchio d’origine” e la paternità che veda, ad esempio, la mentalità massmediale, fenomeno semiologico e socia-le.26 Forse ci vorrà tempo. Dovranno cadere ancora delle prevenzioni.27

Per questo ha un valore molto grande l’azio-ne di mons. Dario Viganò di “sdoganare” il Pa-dre. Credo sia solo l’inizio della “scoperta” del pensiero di Nazareno Taddei da parte di tanti, specie nella comunità scientifica ma anche in campo ecclesiale e pastorale.

Non me ne vorrà mons. Dario Viganò se antepongo a lui un’altra persona. Mi riferisco a Giovanni Paolo II che, con il passo di RM 37c che compendia elementi di scienza della comunicazione con elementi di ecclesiologia e di teologia pastorale ha posto in evidenza la “nuova cultura” creata dalla comunicazione moderna sottolineando che “cultura nasce, prima ancora che dai contenuti, dal fatto stesso che esistono nuovi modi di comunicare con nuovi linguaggi, nuove tecniche e nuovi atteggiamenti psicologici”.

Credo che questo sia stato il miglior premio ricevuto da p. Taddei in vita.

25 Non mi risulta, ancora, che siano nate altre metodologie di lettura. In alcuni casi ho notato ottime attività che vanno oltre l’approccio culturalistico e spesso salottiero con cui si affrontano le questioni relative al mondo della comunicazione. Per chiarire in termini semplici si tratta, ad esempio, di individuare nel linguaggio del-l’immagine quelle regole che corrispondono nella lingua italiana a leggere “ce” l’unione della lettera “c” con la lettera “e” e, diversamente a leggere “ca” l’unione della lettera “c” con la lettera “a”; che se poi vogliamo avere il suono “che” occorre unire le tre lettere “c”, “h”, ed “e”. L’esempio è davvero banale ma può ser-vire a capire. Nel campo della carta stampata si rifletta alla gabbia di un giornale ed ai tipi di impaginazione che sono costanti nelle varie parti del mondo (seguendo precise regole) a prescindere dalla lingua / alfabeto utilizzato. Non vorrei aver ridotto la metodologia di p. Taddei a esempi banali ma credo che sia meglio usare qualsiasi modo utile a far passare delle idee. La precedenza della lettura (di un film, del giornale, della tv ecc.) rispetto alla valutazione o a riferimenti a simboliche di diverso tipo vuol essere solo l’indicazione di una strada metodologicamente corretta.

26 Cfr. N. TADDEI sj, La mentalità massmediale, fenomeno semiologico e sociale, Edav, n. 160, p. 3. 27 In campo ecclesiale alcuni passi si stanno facendo. Vorrei ricordare quanto, ad un anno dalla morte di p. Taddei,

afferma mons. Giuseppe Betori, segretario generale della Cei che ripercorre alcuni momenti della sua vita (tra questi, mons. Betori ricorda anche che fu amico del “grande maestro Fellini” e che Pasolini, nel 1965, propose a p. Taddei di diventare direttore della Mostra del cinema di Venezia) e augura “a tutti gli amici dell’opera di Padre Nazareno Taddei” di avere la sua stessa o “passione per la cultura e amore grande per il Vangelo”. (G. BETORI, Passione per la cultura, amore per il Vangelo, Edav, n. 351, giugno 2007, p. 7).

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Biografia

Nasce a Bardi il 5 giugno 1920, vive la sua infanzia e l’età formativa a Malè (Trento). Nel 1932 entra nel Seminario di Trento e nel 1940 nella Compagnia di Gesù dove viene ordinato sacerdote a Trento il 15 giugno 1952 e dedicato dai Superiori a tempo pieno ai settori della Comunicazione Sociale e dell’im-magine. Segretario Nazionale della Compagnia di Gesù per le Comunicazioni Sociali dal 1979 fino alla sua morte. Muore a 86 anni a Sarzana (SP) il 18 giugno 2006.

La figura e l’opera di p. Taddei è eccezionale e notevolissima: dal 1945, non appena finita la guerra, approfondisce e sviluppa la ricerca nell’ambito della musica popolare e di montagna e inizia studi privati sul linguaggio dell’immagine particolarmente cine-matografica, sulla semiologia e sulla comunicazione di massa. In oltre 50 anni di studi e di esperienze in Italia e all’estero ha dato un notevole apporto allo studio scientifico dei linguaggi distinguendo tra «linguaggi concettuali», impostati sulla parola segno diretto di concetti e «linguaggi contornuali», impostati su l’immagine, segno diretto di contorni e quindi per analogia sulla contornualità e quindi sulla convenzione. Ha formulato, su base scientifica la «Teoria della comunicazione di massa» e le metodologie della «lettura strutturale» (l’educazione A i mass media - formazione a un atteggiamento attivo e critico di fronte ai vari tipi di immagine, particolarmente quella «tecnica» ed elettronica [computer]) e della «strategia dell’algoritmo contornuale» (utilizzazione delle nuove tecnologie della co-municazione - audiovisivi e computer- mediante l’«educazione CON l’immagine»), diffuse ormai dall’America Nord e Sud all’Estremo Oriente.Nell’ambito della multiforme attività assumono un posto di rilievo i suoi studi, sia per la loro profondità e organicità sia per la loro incidenza culturale e formativa. Teorico della co-municazione sociale di fama internazionale è stato promotore e indefesso animatore di diverse attività educative e fonda a Milano negli anni Cinquanta il Centro San Fedele dello Spet-tacolo, che dirige sino alla sua morte, conservando con rara lungimiranza la documentazione prodotta nel corso di più di cinquanta anni di attività.Ancora oggi il Centro da lui fondato (ora CiSCS) ne continua l’opera con notevole successo, anche attraverso la pubblicazione di una rivista «Edav (Educazione Audiovisiva)» apprezzata per la qualità dei temi affrontati.Dal 2005 lo «Schedario-Base» e una parte dell’Emeroteca co-stituiscono il «Fondo Nazareno Taddei s.j.», presso la Cineteca Comunale di Bologna. Dal 2007 il CiSCS e l’EDAV hanno istituito il Premio Padre Nazareno Taddei sj alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia da assegnare al film in concorso che «esprima autentici valori umani con il miglior linguaggio cinematografico».

Titoli accademici, didattici e culturali

• Licenza maggiore in filosofia presso la Pontificia Facoltà di Gallarate (1945)

Padre Nazareno Taddei, sj• Diploma di Magistero in Composizione e direzione d’or-

chestra, presso il Conservatorio « Benedetto Marcello» di Venezia, col M° Malipiero sr. (1949)

• Laurea in lettere e pedagogia all’Università di Padova (1949)

• Licenza di Baccalaureato in teologia presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma (1952)

• 1945/52: inizia studi privati sul linguaggio dell’immagine particolarmente cinematografica, sulla semiologia e sulla comunicazione di massa, mediante• lettura delle opere che è possibile rintracciare nella

confusione dell’immediato dopo-guerra, con particolare riguardo agli autori classici del linguaggio cinematografico, prima attraverso le collezioni di «Bianco e Nero», «Cinema Vecchia Serie» e altre riviste specializzate, e poi un po’ alla volta attraverso le opere dirette di autori quali Arnheim, Bachlin, Balazs, Barbaro, Bazin, Calvino, Campassi, Canu-do, Carpenter, Casiraghi, Chiarini, Consiglio, Ejsenstein, Fenu, Innamorati, Lemaitre, Leprohon, Lo Duca, May, Mitry, Morin, Moussinac, Pasinetti, Pudovkin Sadoul, Uccello, Viazzi e altri;

• contatti personali con autori, registi e teorici quali Agel, Ajfre, Barthes, Blasetti, Bresson, Chiarini Delannoy, Dreyer, Ferrabino, Metz, Mitry, Morin, Morlion, Trnka, Zavattini, ecc. Tali contatti di lettura e personali vengono ovviamente allargati a mano a mano che la letteratura in argomento si diffonde e le condizioni generali si normalizzano;

• collaborazioni sporadiche col Centro Sperimentale di Cinematografia e con analoghe Scuole di altre nazioni (p.e. Lovanio, Mosca, Praga, Stoccolma, Parigi).

Fonda nei primi anni del dopoguerra, a Padova, una delle prime «Città dei Ragazzi».Costituisce (1951) lo Schedario-Base: raccolta di documenti nel campo della comunicazione di massa (soprattutto cinema), che raggiunge le oltre 90.000 schede con circa 8 milioni di informa-zioni primarie; sostituito nel 1978 da un archivio elettronico. Fondatore (1953) e presidente a vita del CiSCS (Centro in-ternazionale dello Spettacolo e della Comunicazione Sociale) di Roma, associazione culturale di promozione sociale senza scopo di lucro, per l’educazione ai mass media e l’uso delle nuove tecnologie della comunicazione. Il C.i.S.C.S. si caratterizza per considerare lo spettacolo e la comunicazione sociale sotto il profilo dello studio, della cultura e dell’educazione, ma nello spirito del Concilio Vaticano II. Fondatore (1964/1966), Direttore e Docente del biennio «Schola Internationalis S.J. Apostolatus Communicationis So-cialis» (Bergamo e Milano), dove si profilano i due settori della critica e della realizzazione cinematografica e televisiva. Fondatore (1977) e Presidente dell’Ispromedia (Istituto per la programmazione di metodologie didattiche audiovisive) di Roma, cooperativa per la realizzazione di audiovisivi.Iniziatore e direttore per quattro anni della rubrica spetta-colo e cinema della rivista «Letture» del Centro San Fedele di Milano (1957).

114 Note giugno 2008 - anno VIII

Fondatore e direttore a vita dello Schedario Cinematografico, enciclopedia del cinema a schede (1962); di Note Schedario, mensile che esce dal 1969 al 1972 quando è sostituito dal mensile Edav (Educazione Audiovisiva); Edav continua diretto da Andrea Fagioli sempre edita dal CiSCS.Fondatore della Collana di Studi Epoca dell’Immagine, sotto la sigla «i7» (1963), che si articolerà in seguito in Studi, Monogra-fie, Galleria e Pocket di studio. Comprende autori, oltre Taddei, quali Aldo Bernardini, Gianfranco Bettetini, Noêl Breuval, Mons. Francesco Cacucci, Renato May. Tre volumi della serie «Studi» di Taddei, Bettetini e May sono stati variamente premiati al Festival di Venezia 1965. Fondatore della Trento Film con sede a Trento per la produzione di documentari e cortometraggi sulla montagna.Fonda (1995) e cura fino alla sua morte la rubrica di «pre-diche» Diodopointernet (www.diodopointernet.it), ora curata da alcuni sacerdoti. Autore di numerosi libri e saggi variamente premiati (alcuni tradotti in inglese, portoghese, spagnolo, coreano).Autore di saggi, studi e articoli su Bianco e nero e Civiltà Cattolica, alcuni dei quali tradotti all’estero e saggi di estetica musicale sul mensile della Associazione Italiana S. Cecilia (1940-56), oltre ovviamente sulle pubblicazioni da lui fondate lo Schedario Cinematografico, Note Schedario e Edav.Autore di noti Canti di Montagna e fondatore di Cori di montagna che hanno raggiunto fama anche internazionale.Maestro e consulente di insigni registi (come Olmi, Pasolini, Fellini, Blasetti).Regista e organizzatore fin dall’inizio e per circa 10 anni delle trasmissioni religiose della Rai-Tv, su incarico del Card. Schuster, acquisendo a questa, con due suoi lavori, i primi due Primo Premio mondiale Unda (Montecarlo 1958 e 1960).Lasciò la RAI e le trasmissioni religiose a causa dello scandalo contro il film La dolce vita di Fellini che scoppiò nel 1960 e lo vide protagonista: per ordine dei Superiori studiò su basi scientifiche il film e ne scrisse su «Letture»; articolo che fece infuriare alcuni uomini della Chiesa col risultato che fu mandato in esilio dal Sant’Ufficio con la proibizione di scrivere e pubblicare. Rientrò ufficiosamente dopo due anni.Regista di lavori cinematografici variamente premiati anche internazionalmente diretti per conto della Trento Film e della Provincia Autonoma di Trento .Membro di Commissioni ministeriali, di Comitati scientifici, della Commissione Cultura della Provincia della Spezia.Consulente per la Cultura in due legislature presso la Provincia Autonoma di Trento (1960-64) sotto la presidenza del dr. Bruno Kessler, più volte invitato all’estero (dal Brasile alla Corea) per interventi spesso determinanti, è stato uno dei 14 «invitati» di tutto il mondo al 2° Colloquio internazionale dell’Unesco su I media nella società, vedendo accettati e inseriti nel Documento finale i concetti da lui esposti.Membro di Giurie nazionali e internazionali di Festival di Cinema, di Concorsi Fotografici e nel 2000 membro di Giuria del “Premio Religion Today - premio del cinema delle religioni” di Trento.Membro della Consulta dell’Ufficio Nazionale della CEI per la Comunicazione Sociale dal 1978 per alcuni anni. Relatore in diverse realtà quali Convegni, Tavole rotonde, Seminari, ecc., nazionali ed internazionali.

Docente universitario dal 1964 di «Teoria della comunicazio-ne» e di «Metodologia e didattica degli audiovisivi» «Dottrina e storia del cinema», «Filosofia del linguaggio dell’immagine», «Lettura strutturale e giudizio critico del film», «Teoria fattuale della comunicazione di massa», «Metodologia Pastorale della comunicazione di massa», in diverse Università italiane e stra-niere. Tra queste citiamo le Pontificie Università Gregoriana e Lateranense di Roma, l’Università di Sassari, la Scuola Superiore di Giornalismo dell’Università Cattolica di Milano, la Facoltà Fi-losofica Aloisianum di Gallarate, l’Università Javeriana di Bogotà (Colombia), l’Università Ibero-Americana di Mexico-City (Messi-co), l’IMECSO di Medellin (Colombia), l’Università Cattolica del Pernambuco di Recife (Brasile), l’Università «Andrès Bello» di Caracas (Venezuela), lo Studio Paolino della Comunicazione So-ciale e l’Università Seraphicum di Roma, l’Università di Lovanio (Belgio), l’Università di Barcellona, la Conferenza asiatica UNDA, gli ICE (Istituti di Scienza dell’Educazione) di Spagna presso l’Università di Estremadura, di Badajos, di Santiago da Compo-stella, di Murcia e la Convention Hall di Atlantic City, Facultad de Teologìa di S. Cugat del Valles (Barcellona, Spagna).Nel 1970: «Special Guest Lecturer» del Dipartimento della Comunicazione dell’Università Loyola di Montreal (Canada).Ma già dal 1953/54 inizia a tenere corsi privati di teoria del linguaggio cinematografico e televisivo e di regia, dai quali usci-ranno – tra gli altri – i registi Bettetini, Mandelli, Olmi, Sandrini; la due volte medaglia d’oro mondiale per la cinematografia veloce ing. Achille Berbenni del Politecnico di Milano; studiosi e critici quali Bernardini, Raffaelli, Ortolani (dell’Università Sophia di Tokio e delle Haway), Barros (dell’Università di Belo Horizonte in Brasile) e altri. Dal 1965 con i «Corsi d’Estate» di educazione all’immagine e con l’immagine, riconosciuti dal Ministero della Pubblica Istruzione, inizia la formazione di insegnanti e contribuisce no-tevolmente a far entrare nella scuola come materia obbligatoria il cinema e l’educazione all’immagine in genere.Dal 1986, ha collaborato col C.I.R.U. (Centro Italiano Relazioni Umane, di P. Messori S.J.), che curava la formazione umanistica degli istruttori di Polizia per incarico del Ministero degli Interni e quella degli Istruttori delle FF.SS., nel settore di questa forma-zione concernente la comunicazione e gli audiovisivi.Nel 1981 per il Ministero della Pubblica Istruzione ha realizzato e diretto il Progetto Edacof per l’introduzione siste-matica nella scuola italiana dell’”educazione all’immagine e con l’immagine attraverso la fotografia”. Il progetto durato alcuni anni ha prodotto un gruppo di circa 150 formatori di formatori esperti.Dal 1985 per la Provincia Autonoma di Bolzano (parte italiana) ha realizzato l’aggiornamento dei suoi docenti circa i mass-media e l’uso didattico degli audiovisivi. Ha inoltre realiz-zato e diretto l’aggiornamento di tutti gli insegnanti elementari per l’introduzione nei programmi scolastici delle 3 Educazioni: all’immagine, motoria, musicale.Nel 2000 per la Lux Vide ha realizzato delle guide con lettura strutturale ed applicazioni didattiche dei film del Progetto La Bibbia versione educational.Nel 2000-2002 ha diretto per il Progetto del Fondo Sociale Europeo dell’Edav di Valdichiana il settore dedicato ai mass media e nuove tecnologie.

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Premi

Nella sua lunga e apprezzata carriera, p. Taddei ha ricevuto alcuni riconoscimenti tra i quali:- 1952/1960: quale iniziatore responsabile e regista delle Tra-

smissioni religiose televisive della RAI-TV, ha conseguito alla RAI i primi due Primo Premio internazionale Unda con i reportages televisivi Tra gli zingari (Montecarlo 1958) e Disse: alzati e cammina (Montecarlo 1959).

- Diploma di partecipazione alla X Mostra Internazionale del Documentario di Venezia col documentario La mamma bianca (1959).

- Premio di qualità Ministero Turismo e Spettacolo col docu-mentario su I paria del Bengala (1960)

- Premio Targa Leone S. Marco «per la teoria e l’estetica» col volume Trattato di teoria cinematografica alla Biennale di Venezia - XXVI Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, 1965.

- Premio Targa Leone S. Marco con lo Schedario Cinemato-grafico «per la sezione periodici di cultura e di studio» alla Biennale di Venezia - XXVII Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica - XI Mostra Internazionale del libro, 1966.

- Coppa d’argento e Diploma al «II Incontro con il Tecnofilm», per il documentario Parco Adamello-Brenta (1972), realizzato per conto della Provincia Autonoma di Trento.

- Premio del Sottosegretariato Governativo al Turismo Spagnolo al Festival Internazionale del Film sul Turismo e Folklore di Bruxelles col documentario Parco Adamello-Brenta (1973).

- Premio «Città di Sorrento» (Immagine e Ambiente) 1990.- Premio «Narducci» 1991 per «l’attività svolta con influsso

cristiano e sociale nel campo della Comunicazione di massa», Lerici 4 agosto 1991.

- Medaglia d’Argento 1996 a Piano di Sorrento, dal Centro Studi e Ricerche Bartolomeo Capasso, per il Centenario del Cinema al massmediologo, critico e docente universitario «per la sua lunga e feconda attività di maestro dell’educazione dell’immagine, con la quale ha ormai creato in tutta Italia un gran numero di discepoli in grado di proseguire nel cammino innovativo da lui indicato. Nazareno Taddei è presidente del Centro internazionale dello Spettacolo e della Comunicazione Sociale di Roma».

- Targa d’Argento a Sorrento (1999) in occasione del venten-nale del CMEA (Centro meridionale di educazione ambientale) per «l’importante apporto dato a questa nostra attività».

- Targa dalla Provincia Autonoma di Trento (2000) «a Nazareno Taddei per quanto ha fatto in campo culturale e cinematografico coniugando particolare ed universale».

- Targa del Comune di Malè quale «cittadino benemerito» in occasione del 50mo di Messa (2002).

- Premio Speciale «Robert Bresson» dell’Ente dello Spetta-colo «per l’impegno profuso nell’ambito delle comunicazioni sociali, in particolare della televisione e del cinema» (24 novembre 2005).

- Targa del Comune di Malé a un «personaggio-simbolo della comunità» (23 dicembre 2005).

Pubblicazioni

P. Taddei è stato inoltre autore di numerosissimi libri, dispen-se ed ha collaborato a pubblicazioni di autori vari, ha diretto ricerche sui mass media, tesi di laurea, oltre che autore di au-diovisivi, di canti di montagna e religiosi (parole e musica), di documentari cinematografici. Ricordiamo:

Documentari

• per la Provincia Autonoma di Trento: Bosco d’autunno nel Trentino; L’affascinante storia delle Dolomiti; Arti-giani nel Trentino; Parco Adamello- Brenta.

• per le Suore di Maria Bambina: La mamma bianca.• per la Rai: I paria del Bengala; Disse: alzati e cammina;

Filocamo pittore sacro.

Volumi

• Venezia 1958: la XIX Mostra Internazionale d’Arte Ci-nematografica, Milano 1958, ed. Letture.

• Panorama del cinema mondiale nei festival interna-zionali 1959, Milano 1959, ed. Letture

• Trattato di Teoria Cinematografica, vol. I°: L’immagine, pp. 330, 16 ill. n.t. e 119 ill. f.t., Milano 1962, ed. i7. (Pre-mio Targa Leone S. Marco per la Teoria e l’Estetica, Venezia 1965).

• Predicazione nell’epoca dell’immagine, pp. 103, Tori-no, 1963, ed. LDC. Tradotto in Spagna (Bilbao 1964, ed. Desclée de Brouwer).

Mons. Francesco Cacucci, Presidente della Commissione Episcopale Cei per la Cultura e le Comunicazioni Sociali consegna a p. Nazareno Taddei il Premio Speciale «Robert Bresson» dell’Ente dello Spettacolo «per l’im-pegno profuso nell’ambito delle comunicazioni sociali, in particolare della televisione e del cinema» (Subiaco, 24 novembre 2005).

116 Note giugno 2008 - anno VIII

• Metodica critica e metodologia critica del film, pp. 56, Venezia 1964, ed. Cineforum.

• Lettura strutturale del film, pp. 250, Milano i7, 3 edizio-ni: 1964, 1965, 1968. La 3a edizione, interamente rifatta e poligrafata dal CiSCS ha avuto 25 ristampe. Tradotto in Colombia (Bogotà 1967, ed. CNMCS; Medellin 1967, ed. Imesco); Filippine (sulla 3a edizione; Manila, 1973; prefa-zione di Gloria D. Feliciano, decano Istituto di Mass Com-munication all’Università delle Filippine e presentazione di Josephino Javellana, direttore programmi nazionali Radio Veritas di Manila.

• Giudizio critico del film, pp. 286, Milano 1965, ed. i7. • L’immagine oggi nella vita, pp. 360, 12 tav. f.t., Milano

1966, ed. i7.• Mass media e libertà, pp. 271, 47 tav., Sassari 1972, ed.

Dessí. • Panorama metodologico di Educazione all’immagine

e con l’immagine, pp. 175 + III + tav. n.t., 3 edizioni, 1973 e 1974, Roma, ed. CiSCS.

• Lettura strutturale della foto e del fumetto, pp. 160 + III + tav. in e f.t., 3 edizioni, Roma 1973, ed. CiSCS.

• Cineletture serie n. 1, per le Medie Inferiori, ed. CiSCS.• Cineletture serie n. 2, per le Medie Superiori, ed. CiSCS.• Voglio essere libero anche nell’epoca dell’immagine,

1974, ed. CiSCS. • Pastorale della Comunicazione Sociale, pp. 720, Roma

1973, ed. CiSCS-PUG (Pontificia Università Gregoriana).• Educare con l’immagine in 2 volumi, Roma 1976, ed. Ci-

SCS. Tradotto in Spagna ( Madrid 1979, ed. Marova). • L’avventura semiologica del film, Roma 1976, ed. CiSCS.• Mass media Evangelizzazione e Promozione umana, Roma

1976, ed. CiSCS.• Dalla veritá all’immagine, Roma 1979, ed. CiSCS.• Introduzione alla lettura dei mass media, Roma, 1979, ed.

CiSCS. Tradotto in Brasile (Recife 1979, ed. CNBB).• Lettura strutturale del Giornale, Roma, 1979, ed. CiSCS.

Tradotto in Brasile (Recife 1979, ed. CNBB).• Pastorale e mass media, Roma 1980, ed. CiSCS per la

Pontificia Università Lateranense.• Nuova evangelizzazione, nuova comunicazione, Roma,

1994, ed. Edav. Tradotto in Corea (Seoul, 1994, ed. San Paolo).

• 10 film da rivedere, Roma 1995, ed. Edav.• Dalla comunicazione alla lettura strutturale del film,

Roma 1998, ed. Edav.• Dio dopo Internet, Roma 1999, ed. AdP.• Tuttofellini, Roma 2002, ed. Edav.• Cinema Culture Religioni, Roma 2002, ed. Edav.• Papa Wojtyla e la “nuova” cultura massmediale, Roma

2005, ed. Edav.

Audiovisivi

• Videolibri, lucidi per lavagna luminosa, l’originalità del si-stema ideato da P. Taddei «la sovrapposizione iconica in funzione concettuale»:

- Corso di Educazione all’immagine, 8 voll.: 63 nuclei, Roma, 1977, ed. CiSCS.

- I sacramenti: il concetto, 1 volume: 10 nuclei, Roma 1977, ed. CiSCS.

• Dialibri - Il linguaggio della fotografia, 360 dia + libri-guida,

Torino 1978, ed. Ldc-CiSCS. - Come il consumismo vede la famiglia, 47 dia sonoriz-

zate + guida, Vicenza 1980, ed. Cipielle-CiSCS. - Le tre dimensioni dell’amore coniugale, 63 dia sono-

rizzate + guida, Vicenza 1980, ed. Cipielle-CiSCS. - Aprirsi al mondo, 6 unità didattiche catechistiche, arti-

colate in fiabe e preghiere audiovisive, canti e giochi, per il primo ciclo delle elementari, Vicenza 1981, ed. Cipielle-CiSCS.

- La fotografia nella scuola per la vita, Corso in dia-positive (300) con commento, realizzato per il Ministero della Pubblica Istruzione a cura dell’Associazione Italiana Fotocine; libro di testo dell’operazione ministeriale per l’introduzione nella scuola italiana dell’«Educazione A l’immagine e CON l’immagine», Roma 1981

• Vhs- Lèggere le meraviglie, documentari sul trentino, Roma,

ed. Edav - Storia del linguaggio cinematografico, 6 Lezioni di

Nazareno Taddei redatte da Eugenio Bicocchi, Roma 1992, ed. Edav

- Arte… Amore… Speranza, 4 cortometraggi degli anni ’60, Roma, 2000, ed. Edav

- La Poltrona di Fellini, due interviste a P. Taddei da parte dell’Associazione Fellini e dell’Università Cattolica di Mila-no, Roma, 2000, ed. Edav

Alcune ricerche realizzate personalmente(diverse da quelle da lui dirette come nel caso

di tesi di laurea di suoi alunni)

• Rapporto tra gruppi di segni grafici, collocati in tre diversi contesti topologici, e 20 parole concrete e astratte, sotto il profilo della percezione semantica, (1969).

• Studio psicosemiologico sulle traduzioni in disegno di un gesto concettuale proposto dal docente a 23 alunni di una Va Elementare di Como, per conto di Edav (n. 62-63, 1978).

• Iniziative e attività nella comunicazione sociale nelle Case e negli Istituti della Compagnia di Gesù in Italia, per conto del Segretariato Nazionale S.J. per la Comunicazione Sociale, 1978/79.

• Indagine su L’omelia nei suoi aspetti di emittenza e di rece-zione nel contesto della mentalitá massmediale, per conto di «Servizio della Parola» (Ed. Queriniana) 1979.

• Ricerca A4 (Ministero P.I.), per il Magistero di Sassari: Perce-zione del valore semantico dei vari tipi di segno-immagine.

• Con contratto CNR: Il fumetto nella Scuola dell’obbligo (15.000 questionari raccolti in 300 scuole di tutta Italia).

Eutanasia

Premessa

di PAOLO FARINA*

In questo saggio, ci si prefigge di offrire una riflessione di carattere antropologico e, specificamente, di antropologia teologica sul diritto di ogni uomo ad una morte naturale. Si tratta, in realtà, di un diritto che torna ad essere non solo di attualità, ma radicalmente rimesso in discussione dal progresso delle tec-niche di rianimazione e di cura e che spinge il medico stesso ad interrogarsi sul come si debba interpretare ai giorni nostri una non derogabile fedeltà al giuramento di Ippocrate.

Una adeguata riflessione non può prescin-dere da una precisazione dell’idea di libera autodeterminazione che deve contraddistin-guere ogni persona umana, come pure da una dovuta puntualizzazione della ricorrente espressione dignità della persona e del suo morire. Si dovranno considerare tanto i “diritti del morente” quanto i “doveri del medico”, con particolare riferimento a quei casi in cui è possibile applicare sia una forma di eutanasia attiva che una di eutanasia passiva o indiretta. Non si ha la pretesa di fornire una risposta ad ogni domanda o di sciogliere qualsivoglia dub-bio, ma di presentare con chiarezza il punto di

* Docente stabile di Antropologia teologica - Istituto di Scienze Religiose San Nicola il Pellegrino - Trani.1 Da una lezione tenuta nel ciclo di seminari Vita, uomini e professioni, organizzato dalla “Fials Formazione” e avente

per destinatari gli operatori sanitari pugliesi; sede della Caserma dei Vigili del Fuoco, Bari, 28 giugno 2007.

vista del cristiano a fronte del mistero della vita e della morte. È altresì noto - ed il caso Welby in tal senso non ha fatto che richiamarvi l’at-tenzione in maniera eclatante - come i nodi da sciogliere, tanto da un punto di vista medico, quanto da quello bioetico, siano legati a quelle situazioni cariche di estrema sofferenza per il morente e che non lasciano aperta alcuna spe-ranza di recupero della salute. In situazioni di tal genere, cosa si può definire “sopportabile” e quando la decisione di “staccare la spina”, sia questa del medico o del morente o ancora dei suoi congiunti, può dirsi giusta?

Nel tentativo di definire, dunque, tale status quaestionis, la trattazione toccherà i seguenti aspetti:

• I diritti del morente• Eutanasia attiva e passiva• L’accanimento terapeutico• Coscienza e dubbio• I doveri del medico• Le cure palliative• Il compito del legislatore• Il diritto all’eubiosia

Il punto di vista della dottrina cristiana1

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Quando si dice morente, in un modello cul-turale come quello radicale, che oggi sembra prevalente, si pensa subito al “diritto di mori-re”, inteso come “diritto di darsi la morte” o ancora come “diritto di richiedere e farsi pro-curare la propria morte”. Non è questa l’ottica che ispira la cultura personalista e cristiana. Per essa, il morente è un essere vivente: un uomo può morire in quanto è vivo e perciò ha diritto a vivere la sua morte sino al proprio ultimo istante vitale, in dignità e consapevolezza, ma soprattutto in un abbraccio ispirato da pietà e amore.2

In altri termini, l’ammalato incurabile, che si avvia alla propria fine, ha diritto alla vita, il bene fondamentale su cui poggia ogni altro valore. Simone Weil, ancora nella fase in cui aderiva al marxismo rivoluzionario ed era ben lungi dallo scoprirsi raggiunta dal Cristo, già scriveva:

“Nulla ha valore, quando la vita umana non ne ha”.3

Dunque, se si perde il rispetto della sacralità della vita umana, smarriamo ogni riferimento a chi è soggetto di diritto. L’uomo vivente, infatti, è soggetto di diritto, e lo è in quanto è qualcuno, non qualcosa - una patologia, una situazione drammatica e insostenibile - di cui ci si vuol sbarazzare. L’autonomia relazionale di ogni persona è portatrice di senso nella misura in cui la si rispetta come un assoluto, un dono indisponibile, che non dipende dalle condizioni di salute, sempre contingenti e relative.

Peraltro, la persona malata ha sempre di-ritto alla cura. Orazio scriveva che noi siamo

pulvis et umbra, ovvero polvere ed ombra, e tuttavia aggiungeva che la cura è la compagna permanente dell’uomo4. Noi non “abbiamo” cura, noi “siamo” cura. La capacità di prendersi cura e di ricevere cura è il terreno ontologico su cui si muove l’interpretazione dell’essere umano. Senza cura noi non siamo più essere umani.5

Il diritto alla cura, inoltre, comporta il diritto all’informazione. Si badi però che, specie nella persona gravemente ammalata e/o che si avvia inesorabilmente alla morte, tale infor-mazione deve essere piena, ma graduale e correlata alla capacità ricettiva del morente, nonché all’utilità terapeutica. D’altronde, non può gravare unicamente sulle spalle del me-dico, ma deve coinvolgere i congiunti e, ove possibile e richiesta, la figura del cappellano o altra figura spirituale.

Questo perché il diritto all’informazione ha per fine non la deresponsabilizzazione del medico e l’ottenimento di una firma sul foglio del consenso informato, ma la tutela di un altro diritto, quello al rispetto della libertà dell’ammalato. Non comporta, dunque, un pilatesco “lavarsi le mani”, ma l’attenzione alle condizioni psicofisiche, culturali e sociali del morente. Viviamo in un contesto in cui l’antico adagio latino salus aegroti, suprema lex, sembra essere stato sostituito da quello secondo cui voluntas aegroti, suprema lex. Di là dalle possibili interpretazioni relativiste di tale principio, esso sottolinea un aspetto fondamentale: il diritto del morente a non soffrire inutilmente. Non è forse banale ri-cordare che il cristiano non cerca la sofferenza

1. I diritti del morente

2 Cfr. J. DE DIOS - V. CORREA - E. SGRECCIA (a cura di), The Dignity of the Dying Person, Proceedings of the Fifth As-sembly of the Pontifical Academy for Life (24-27 February 1999), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2000.

3 Citato in G. FIORI, Simone Weil. Biografia di un pensiero, Garzanti, Milano 1990, 154.4 Cfr. ORAZIO, Ode 7, Libro IV.5 Cfr. E. SGRECCIA E I. CARRASCO DE PAULA (a cura di), Qualità della vita ed etica della salute, Atti della XI Assemblea

della PAV (21 febbraio 2005), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006.

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in quanto tale, così come non cerca la morte! Gesù Cristo ha offerto un senso al dolore e una via per passare dal venerdì santo alla domenica di Pasqua, non per questo ha inteso legittimare visioni pseudo-pietistiche, sino al limite del masochismo, che intendono esaltare la ricerca della sofferenza come se essa fosse un fine e non un “passaggio”.6

Ora, l’interrogativo che assilla non pochi, anche tra i medici che si ispirano alla fede cristiana, è se tale diritto a non soffrire inu-tilmente non si configuri come un diritto a morire. La risposta ad un simile interrogativo comporta un necessario chiarimento sul confi-ne tra accanimento terapeutico ed eutanasia, sull’uso delle nuove tecnologie biomediche, sul ruolo del medico di fronte ad alcune richieste del paziente.

Hans Jonas ne il suo Il diritto di morire iscrive il diritto a morire, per lui da esercitare in determinate situazioni, nel più ampio diritto alla vita:

“Così è il concetto di vita, non quello di morte, che in definitiva governa la que-stione del diritto di morire”.7

Dunque, per Jonas, non si dà una risposta alla questione della morte a prescindere dalla domanda sul senso della vita, a prescindere dal valore di fondo che alla stessa si attribuisce… Anche se le conclusioni del filosofo ebreo non sono del tutto condivisibili (egli teme una sorte di tirannia del medico nei confronti del paziente, nel tentativo di mantenerlo in vita), appare chiaro il presupposto laico del suo ragionamento, condivisibile anche da un non credente: dimmi in che vita credi, ti dirò di che morte parli.

Tuttavia, per chi ha fede in Dio la vita è un dono, anche nella sofferenza; è un bene fondamentale (che sta prima degli altri beni) ed indisponibile; l’uomo può “consegnarsi” al sacrificio della sua vita solo per beni più grandi, quali l’amore di Dio e del prossimo (cfr. Gv.15,13). Il diritto alla vita porta a considerare

la propria esistenza e quella altrui - in tutte le sue fasi di crescita e di decrescita - come un bene da tutelare e da curare in ogni modo, anche quando la volontà dell’altro richiedesse di mettervi fine. La pietà nei confronti di questo altro che è il malato terminale, che è la persona in coma, si traduce in una riconoscimento del volto umano, di un altro “tu” che è davanti a noi e che non può essere abbandonato.

Il diritto di vivere richiama a ciascuno di noi il dovere di far vivere; il diritto di morire (che non è riconosciuto dalla Corte dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo) va specificato come diritto di morire dignitosamente, ma sareb-be contraddittorio interpretarlo come un corri-spettivo dovere di far morire, a prescindere da coloro - medici o familiari - su cui si vorrebbe far ricadere tale presunto dovere. D’altra parte, le scienze mediche esplorano nuove frontiere meritevoli di approfondimento, quali il ricor-so a cure palliative, a terapie del dolore, ma anche ad un adeguato e integrale sostegno psicologico al malato e alla sua famiglia, che permettano ad ogni uomo di esercitare il suo diritto alla vita fino alla fine.

Occorre ribadire che la pietà cristiana e l’amore del prossimo non possono disporre della vita dell’altro, perché riconoscono che il primo dovere e la prima carità da avere nei confronti dell’altro, è un rispetto totale per il suo mistero. Un rispetto totale per quell’im-magine e somiglianza con Dio che è impressa in ogni uomo, e che fa arretrare anche solo davanti all’idea di condannare un uomo a mor-te… si trattasse anche di Caino o di Hitler!

Infine, si osservi che per il cristiano la morte non rappresenta un enigma, né un evento ca-tastrofico e definitivo, da fuggire ad ogni costo e la cui ombra incombe irreparabilmente sul cammino dell’uomo. Per il cristiano la morte è compimento di un incontro dal quale è atteso e che per lui è stato pensato dal primo giorno della creazione. Si potrebbe così concludere che il diritto ultimo, che ad ogni uomo, non solo ad ogni cristiano, non può essere negato è il diritto alla speranza.

6 Cfr. E. PAVESI, La psichiatria e i movimenti anti-sette, in «Cristianità», XXV (243, marzo ‘97), pp. 7-21.7 Citato in C. FUSCHETTO, Assolutezza della vita come ontologia della morte, in www.oltreilchiostro.org/doc/

doc_20.pdf; cfr. H. JONAS, Il diritto di morire, Il Nuovo Melangolo, Genova 1991.

120 Note giugno 2008 - anno VIII

Seneca, nella sua Lettera 77 all’amico Luci-lio, sostiene che c’è un solo modo per entrare nella vita, ma che c’è ne sono diversi per uscir-ne.8 Altri ricordano l’usanza dei guerrieri Celti di uccidere i loro guerrieri feriti a morte, pur di alleviare le loro sofferenze.9 Al contrario, il giuramento di Ippocrate prende nettamente le distanze dall’eutanasia e perciò viene seguito e assimilato dal pensiero cristiano. Così il testo di Ippocrate:

“Regolerò il tenore di vita per il bene dei malati secondo le mie forze e il mio giu-dizio, mi asterrò dal recar danno e offesa. Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggeri-rò un tale consiglio; similmente a nessuna donna io darò un medicinale abortivo”.10

Prescindendo dal riferimento alla pratica dell’aborto, perché non è oggetto del presen-te studio, si noti che già Ippocrate escludeva categoricamente la possibilità di somministrare un farmaco mortale, anche ove espressamente richiesto dal paziente. Ebbene, l’eutanasia si pone proprio come un atto anticipatore del-l’evento naturale della morte,

“[…]un’azione o un’omissione che di natu-ra sua, o nelle intenzioni, procura la morte,

allo scopo di eliminare ogni dolore. L’eu-tanasia si situa al livello delle intenzioni e dei metodi usati”.11

Il medesimo documento magisteriale pre-cisa che non si verifica eutanasia nella cura analgesica del dolore, in malati gravi, anche se può provocare un’abbreviazione della vita. È il caso detto anche di eutanasia indiretta. In tale congiuntura, l’atto medico non è in-tenzionato dall’abbreviazione della vita, che si pone come una conseguenza prevista, ma non voluta. L’atto è altresì intenzionato dalla volontà di lenire il dolore al fine di umanizzare la malattia e la morte. Naturalmente, tale atto comporta il consenso esplicito o presunto del paziente. Non si dà eutanasia neppure nella rinuncia al prolungamento precario e penoso della vita, quando i mezzi risultano sproporzio-nati in rapporto ai prevedibili effetti, ipotesi in cui si determinerebbe un caso di accanimento terapeutico.12

A proposito dei mezzi terapeutici, il ma-gistero di Pio XI parlava di mezzi terapeutici “ordinari” e “straordinari”. La Congregazione precisa:

“Coloro che hanno in cura gli ammalati devono prestare la loro opera con dili-

2. Eutanasia e accanimento terapeutico

8 Il testo integrale delle Lettere a Lucilio, edito a cura di D. FUSARO, è consultabile in www.geocities.com/fyloso-fyco/lucilio.htm.

9 Cfr. I Guerrieri Celti, www.keltia.it/testi/celti/guerrier.htm.10 Cfr. Giuramento di Ippocrate, in www.scuolamedicasalernitana.it/medicina_oggi/giuramento_di_ippocrate.

htm. Ecco invece la versione moderna del medesimo giuramento: “Giuro di esercitare la medicina in libertà e indipendenza di giudizio e di comportamento, di perseguire come scopi esclusivi la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo della sofferenza, cui ispirerò con responsabilità e costante impegno scientifico, culturale e sociale, ogni mio atto professionale; di non compiere mai atti idonei a provocare deliberatamente la morte di un paziente; di attenermi nella mia attività ai principi etici della solidarietà umana, contro i quali, nel rispetto della vita e della persona non utilizzerò mai le mie conoscenze; di prestare la mia opera con diligenza, perizia e prudenza secondo scienza e coscienza ed osservando le norme deontologiche che regolano l’esercizio della medicina e quelle giuridiche che non risultino in contrasto con gli scopi della mia professione” (Ivi).

11 Cfr. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dichiarazione sulla Eutanasia, Roma, 5 maggio 1980, n° 2, consul-tabile in www.bioeticacristiana.it/testi/congreg/Eutanasia2.htm.

12 Cfr. Ivi, nn° 3 e 4.

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genza e somministrare quei rimedi che riterranno necessari o utili. Si dovrà però, in tutte le circostanze, ricorrere ad ogni mezzo possibile? Finora i moralisti rispon-devano che non si è mai obbligati all’uso dei mezzi ‘straordinari’. Oggi però tale ri-sposta, sempre valida in linea di principio, può forse sembrare meno chiara, sia per l’imprecisione del termine che per i rapidi progressi della terapia. Perciò alcuni pre-feriscono parlare di mezzi proporzionati e sproporzionati“.13

Per queste ragioni, nell’imminenza di una morte inevitabile:

“… è lecito in coscienza prendere la deci-sione di rinunciare ai trattamenti che pro-curerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute al-l’ammalato in simili casi. Perciò il medico non ha motivo di angustiarsi, quasi non avesse prestato assistenza ad una persona in pericolo”.14

Proviamo a fare qualche esempio, anche al fine di una maggiore precisazione dei ter-mini:• Coma reversibile: ogni cura è “proporzio-

nata”, perché tutti i mezzi possono rivelarsi utili per il prevedibile risultato, la guarigione del paziente.

• Coma irreversibile: si può rinunciare a cure particolarmente onerose e penose, ma mai sospendere quelle ordinarie (idratazione e nutrizione parenterale). Si badi che per “irreversibile” si intende il danno cerebrale subito, per cui, in caso di risveglio, la per-sona non potrà riacquisire il pieno delle sue funzioni organiche. È errato il comune uso del termine, quando si voglia dire che il paziente in coma non potrà più tornare allo stato di coscienza. Tale è il caso del coma depassè e non già di quello irreversibile.

• Coma depassé: si tratta di una diagnosi di

morte cerebrale certa, si devono sospendere tutte le cure (salvo surrogare artificialmente alcune funzioni organiche per il tempo necessario per eventuali espianti/trapianti d’organo). In caso contrario, si configura una pratica di accanimento terapeutico che, dal punto di vista morale, è altrettanto grave ed inaccettabile dell’eutanasia attiva.

In effetti, con l’espressione accanimento terapeutico si indicano un insieme di interventi che possono fondamentalmente riguardare due tipologie: a) i trattamenti straordinari che eccedono le

ordinarie capacità del paziente e che prolun-gano la sua vita senza però dargli possibilità di guarigione;

b) il prolungamento di funzioni vitali in via di cessazione, che viene fatto sugli stati vegetativi persistenti. È questo il caso in cui la corteccia cerebrale non funziona più, mentre è funzionante il tronco, dunque il soggetto in coma respira, deglutisce, ha alcune reazioni, anche se è in uno stato di assoluta incoscienza, detta anche coma apallico.15 In entrambi i casi somministrare delle te-

rapie significherebbe prolungare uno stato che sta andando già naturalmente verso la morte, anche se mai bisogna far mancare le cosiddette “cure normali”, che servono a so-stenere la vita e non a prolungarla agendo sulla malattia. In tal caso si dovrebbe applicare una “astensione terapeutica”, cioè non si devono somministrare farmaci che vadano ad incidere sul decorso della malattia (salvo che la persona o i suoi familiari non lo richiedano), ma è ille-cito omettere l’alimentazione, la idratazione, la ventilazione, che sono un semplice aiuto a vivere. Se venisse meno una di queste cure, è ad esempio nel caso dell’alimentazione, la persona morirebbe, ma non per la sua malattia,

13 Ivi, n°4.14 Ivi.15 Detta anche PVS (Persistent Vegetative State), la sindrome venne descritta nel 1940 da Ernst Kretschmer, e

per questo motivo la si é denominata sindrome di Kretschmer. (Das apallische Syndrom, in .Neurol.Psychiat, 169,576-579, 1940).

122 Note giugno 2008 - anno VIII

bensì per fame, perché non è stata alimentata. In tal caso avremmo un vero e proprio atto di eutanasia.

Si noti la differenza tra omissione della cura (fa morire) e astensione terapeutica (lascia mo-rire). In sintesi, si può parlare di un accanimento terapeutico o perlomeno di trattamenti futili:a- se la cura non incide sul naturale decorso

della malattia né su una migliore qualità della vita,

b- quando eccede le ordinarie capacità del paziente di usufruirne,

c- se risulta sostenere le funzioni vitali quando esse sono terminate. Quanto alla definizioni delle “cure normali”

da somministrare in ogni caso al paziente anco-ra in vita, la Carta operatori sanitari precisa:

“L’alimentazione e la idratazione, anche artificialmente amministrate, rientrano tra le cure normali dovute sempre all’am-malato, quando non risultino gravose per lui: la loro indebita sospensione può avere il significato di una vera e propria eutanasia”.16

3. La coscienza in dubbio: il caso Welby

La questione dell’accompagnamento del malato nella morte, senza interrompere le cure proporzionate e, dunque, necessarie, si fa rilevante e di estrema delicatezza nei casi in cui nasce un radicale dissenso tra morente e medico o tra congiunti e medico. Il compito del medico non è certo facilitato in un contesto di pluralismo etico o meglio ancora di relativismo etico. Ogni differente idea del bene, infatti, si traduce in un differente valore che si attribuisce al termine della vita ed alla morte. Senza conta-re che il cosiddetto testamento di vita, da taluni invocato, è redatto in condizioni psicofisiche ben diverse da quelle in cui si verifica l’ipotesi di malattia mortale.

Quali le risposte possibili, a partire dalla proposta dell’etica cattolica, a fronti di simili situazioni-limite? Anche su questo punto, è possibile rinvenire una risposta nel già citato Documento della Congregazione per la dottri-na della fede su L’eutanasia.

Ancora una volta, è riconosciutala priorità della volontà del malato. Il documento precisa

che, in mancanza di altri rimedi, è lecito ricorre-re, con il consenso del paziente, ai mezzi messi a disposizione dalla medicina più avanzata, anche se ancora allo stadio sperimentale e non esenti da qualche rischio. Inoltre, è lecito inter-rompere l’applicazione di tali mezzi, quando i risultati deludono le speranze riposte in essi. Ma nel prendere una decisione del genere, si dovrà tenere conto del giusto desiderio dell’ammalato e dei suoi familiari, nonché del parere di medici competenti. Infine, come già si è avuto modo di vedere:• è sempre lecito accontentarsi dei mezzi

normali che la medicina offre;• nell’imminenza della morte inevitabile no-

nostante i mezzi usati, è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trat-tamenti che procurerebbero un prolunga-mento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi.17

D’altro canto, c’è un diritto a morire con

16 PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA PASTORALE PER GLI OPERATORI SANITARI, Carta per gli Operatori Sanitari, Roma 1995, n°120, consultabile in www.academiavita.org/template.jsp?sez=DocumentiMagistero&pag=pontifici_consigli/cos/cos. Il testo è stato assunto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri - Comitato Nazionale per la Bioetica, nel documento L’alimentazione e l’idratazione di pazienti in stato vegetativo persistente, testo approvato nella seduta plenaria del 30 settembre 2005, si veda www.timeoutintensiva.it/tecne_data/PEG.pdf?PHPSESSID=fe092cc1c6141ce5b1dfd31c3b09c68f.

17 Cfr. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dichiarazione sulla Eutanasia, o.c., nn°3-4.

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dignità che è disatteso dall’accanimento te-rapeutico:

“È importante oggi proteggere, nel mo-mento della morte, la dignità della perso-na umana e la concezione cristiana della vita contro un tecnicismo che rischia di diventare abusivo. Di fatto, alcuni parlano di diritto alla morte, espressione che non designa il diritto di procurarsi o farsi procu-rare la morte come si vuole, ma il diritto di morire in tutta serenità, con dignità umana e cristiana”.18

È questo un punto divenuto quanto mai attuale e dibattuto a seguito delle drammatiche vicende che hanno accompagnato la malattia e la morte di Piergiorgio Welby. La richiesta di porre fine alla propria vita, avanzata da Pier-giorgio Welby e l’epilogo di questa vicenda, personale ma anche politica - perché resa tale coscientemente dallo stesso Welby - rischia di diventare il caso emblematico per affrontare alcune questioni etiche come l’accanimento te-rapeutico e la liceità dell’eutanasia. Il “rischio” da non correre, per non rimanere imprigionati da questa drammatica vicenda umana, è quello di cadere vittime dell’ambiguità con cui, anche in questo caso, sono stati impiegati termini e concetti scientifci, puntando più al coinvolgi-mento emotivo e all’effetto mediatico della notizia, che alla rappresentazione puntuale e adeguata delle questioni di bioetica che sono in gioco.

In una maniera a mio parere molto oppor-tuna, Francesco d’Agostino, già presidente del Comitato Nazionale di Bioetica, ha scritto che occorre coniugare pietà e chiarezza:

“Pietà verso la persona di Welby e verso tutti coloro che, insieme ai loro familiari, vivono il dramma di una malattia che por-ta inesorabilmente alla morte, ma anche

chiarezza per dare un giudizio etico che non porti a scelte politiche affrettate e mo-tivate da un’emozione mediatica. Che la pietà non si sia tradotta nella celebrazione dei funerali religiosi, può far discutere ed anche interrogarsi seriamente se il ruolo della Chiesa che è quello di essere ‘casa della misericordia’ non sia stato in qualche modo offuscato. Ma ciò non è sufficiente per parlare di una evidente contraddizio-ne: la fiducia nella misericordia di Dio e la preghiera per questa persona devono essere sincere, ma devono anche mettere al riparo la comunità cristiana dal facile fraintendimento che può insorgere in chi si chiede se la morte di Welby sia eutanasia voluta e perseguita lucidamente, oppure sia stata un semplice rifiuto dell’accani-mento terapeutico”.19

Dunque, non solo nel caso Welby non c’è stato accanimento terapeutico, ma è persino fuorviante porre la questione in questi termi-ni. Si osservi che tale giudizio non nasce da una precomprensione dettata dalla morale cristiana, ma da due precise ragioni di ordine medico: l’uso del respiratore non è una cura sproporzionata, secondo il Consiglio Superiore di Sanità (quale istituzione più autorevole di questa può formulare tale giudizio?). Inoltre, il malato, Piergiorgio Welby, non era in coma e tenuto in vita in uno stato vegetativo, ma era cosciente e capace persino di condurre una campagna di opinione.

Ne consegue che chi ha voluto parlare di accanimento terapeutico ha confuso idee e concetti che hanno dei margini di maggiore precisione. In realtà, il triste epilogo di Welby si configura con maggiore immediatezza come un esempio di eutanasia attiva e non è un caso se la Procura della Repubblica ha dovuto procedere d’ufficio - come previsto dal Codice Penale - nei confronti del medico responsabile della sua morte.20

18 Ivi.19 F. D’AGOSTINO, Pietà e chiarezza, in «L’Osservatore Romano», del 29 dicembre 2006.20 Si legge nel primo portale overAnta, Intrage: “In Italia, l’eutanasia è inclusa tra i reati di omicidio volontario,

articolo 575 del codice penale, e di omicidio del consenziente. Nel caso si riesca a dimostrare il consenso del malato, le pene, previste dall’articolo 579 del codice penale, vanno dai sei ai quindici anni di reclusione. An-che il suicidio assistito è considerato un reato, ai sensi dell’articolo 580 del codice penale”, in www.intrage.it/rubriche/salute/lasanitainitalia/consenso_informato/articolo308.shtml. Si veda anche la successiva nota 25.

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Si obietta: ma il malato, quel malato, non vuol vivere. La depressione, l’angoscia, la paura di soffrire e di non poter condurre una vita dignitosa sono situazioni nelle quali la risposta della morte “dolce” è la sola risposta possibile. Chiediamoci: si tratta forse di una risposta che attinge a tutte le risorse dell’umanità ed ad una

serie di situazioni che interpellano la nostra responsabilità o piuttosto di una fuga in una soluzione facile davanti ad un caso difficile?

Prima di provare a offrire una risposta a questo interrogativo, è forse opportuno sof-fermarsi a riflettere ulteriormente sul ruolo del medico.

4. Il ruolo del medico e le cure palliative

Tutti concordano nel ritenere che, in rappor-to alla necessità del paziente, il ruolo del me-dico è insostituibile. Verrebbe da aggiungere: tanto più oggi, a fronte della complessità di quanto sin qui esposto.

Ebbene, il medico ha il compito di curare o di eseguire le volontà del paziente? Una nuova etica professionale, nella quale il già citato giuramento di Ippocrate non ha più la stessa forza vincolante che aveva in passato, non può dimenticare che il medico - quando non può più somministrare una terapia - non può tuttavia smettere di curare, cioè di farsi carico della situazione del paziente, facendo in modo che sia il più possibile dignitosa.

Non a caso, la lingua inglese - in genere meno ricca e densa di sfumature della nostra - conosce la distinzione dei termini “care”, cura, e “cure”, terapia: la cura va al di là della terapia, e riguarda tutte le dimensioni della vita della persona, compresa quella psicologica. Il diritto del paziente nei confronti del medico è quello di essere curato, e - nonostante tutto - non si vede come, a fronte di tale diritto, la deontologia medica possa riconoscere in

alcuni casi il dovere di intervenire per dare la morte.21

Curare quando non si dà più la possibilità si somministrare terapie in grado di far guarire, significa anche sperimentare fino in fondo tutte le potenzialità delle cure palliative.22 Se-condo quanto affermato dalla Organizzazione Mondiale della Sanità, le cure palliative sono la continua, attiva, integrale cura del paziente e dei suoi cari ad opera di un team interdiscipli-nare. L’obiettivo primario delle cure palliative è la più elevata qualità di vita del paziente così come per i suoi cari. Il paziente viene curato da un partner responsabile, che estendendo i supporti alle esigenze spirituali della cura, deve accompagnare il paziente sino alla morte e se-guire la sua famiglia anche dopo la scomparsa del congiunto. Come confermano l’Istituto Superiore di Sanità ed il Centro di Documen-tazione OMS, le cure palliative:

“- Affermano la vita e considerano il morire come un evento naturale;

- non accelerano né ritardano la morte; - provvedono al sollievo dal dolore e dagli

altri disturbi; - integrano gli aspetti psicologici e spiri-

tuali dell’assistenza;

21 Cfr. AZIENDA PER I SERVIZI SANITARI/6, FRIULI OCCIDENTALE, Oltre il dolore. Le cure palliative ai malati terminali, Booksei 7, Pordenone 2003.

22 Non mancano coloro che sospettano che talune cure non siano praticate non già perché inefficaci, quanto perché meno costose e, dunque, meno apportatrici di benefici economici per le case farmaceutiche. Ad esem-pio, rimane ancora il dubbio che la “terapia Di Bella”, se non in grado di curare i malati terminali, rappresenti perlomeno una utilissima terapia del dolore; ne è prova il fatto che, pur senza l’approvazione del mondo scien-tifico gallonato, essa continua ad essere utilmente seguita da migliaia di pazienti. Cfr. G. DI BELLA, Il metodo Di Bella, relazione al convegno La scienza incontra lo spirito, Hotel Michelangelo, Milano, 26 ottobre 2006, in http://www.metododibella.org/upload/pdf/20071411512.pdf.

125Notegiugno 2008 - anno VIII

- aiutano i pazienti a vivere in maniera attiva fino alla morte;

- sostengono la famiglia durante la ma-lattia e durante il lutto”.23

Sono indicazioni fatte proprie anche dalla Evangelium Vitae, nella quale Giovanni Paolo II scriveva:

“Nella medicina moderna vanno acquisen-do rilievo particolare le cosiddette cure palliative destinate a rendere più soppor-

tabile la sofferenza nella fase finale della malattia, e ad assicurare al tempo stesso al paziente un adeguato accompagnamento umano.”24

Appare evidente che è questo un campo dove molti passi si sono compiuti, in particolare in ambito scientifico, ma molti di più ne restano da compiere, soprattutto nell’ambito delle scel-te economiche e politiche che condizionano la vita e la morte nella nostra società.

Da parte di molti si invoca una più chiara legislazione su temi eticamente rilevanti quali l’eutanasia, sia essa attiva o passiva, l’accani-mento terapeutico, il testamento biologico. Pur nel rispetto di differenti e legittime visioni antropologiche e culturali, va precisato che queste di per sé non consentono di sostene-re, come si fa da più parti, l’insistenza di un “vuoto legislativo”. Se la legislazione italiana non permette l’eutanasia, non vuol dire che ci

5. Il vuoto legislativo e il diritto all’eubiosia

sia un vuoto legislativo; anzi, c’è una pena per chi istiga al suicidio ed è contemplato anche il caso di chi uccide per pietà.25

Certamente sarà opportuno stabilire con chiarezza ulteriore cosa sia accanimento tera-peutico e cosa eutanasia e allo stesso tempo approvare eventuali e adeguate tipologie del cosiddetto “testamento biologico” o delle “di-chiarazioni anticipate di trattamento”, ma non si potrà parlare di vuoto legislativo se - come

23 ISS, Centro di Documentazione OMS, a cura di R. FERRARA, documento archiviato in www.epicentro.iss.it/archi-vio/3-7-2002/piano/Cap.%203%20-%20Parte%20Seconda.pdf

24 GIOVANNI PAOLO II, Lettera Enciclica Evangelium Vitae, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 25 marzo 1995, n° 65; vedi anche www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/encyclicals/documents/hf_jp-ii_enc_25031995_evangelium-vitae_it.html

25 Ecco il testo degli artt. 575, 579 e 589 del Codice di Procedura Penale: “Art. 575 Omicidio. Chiunque ca-giona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno. Art. 579 Omicidio del consenziente. Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui è punito con la reclusione da sei a quindici anni. Non si applicano le aggravanti indicate nell’articolo 61. Si applicano le disposizioni relative all’omicidio se il fatto è commesso: 1) contro una persona minore degli anni diciotto; 2) contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizione di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcoliche o stupefacenti; 3) contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno. Art. 580 Istigazione o aiuto al suicidio. Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio non avviene, è punito con la reclusione da uno a cinque anni, sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima. Le pene sono aumentate se la persona istigata o eccitata si trova in una delle condizioni indicate nei numeri 1 e 2 dell’articolo precedente. Nondimeno, se la persona suddetta è minore degli anni quattordici o comunque è priva della capacità d’intendere o di volere, si applicano le disposizioni relative all’omicidio”. Nel citato art. 61 del medesimo Codice, si legge: “Circostanze aggravanti comuni. Aggravano il reato, quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze aggravanti speciali, le circostanze seguenti: […] l’avere commesso il fatto con abuso dei poteri, o con violazione dei doveri inerenti a una le circostanze seguenti pubblica funzione o a un pubblico servizio, ovvero alla qualità di ministro di un culto”, in http://it.wikisource.org/wiki/Codice_Penale.

126 Note giugno 2008 - anno VIII

speriamo - non verrà ammessa alcuna forma di eutanasia.

Inoltre, a proposito del testamento biolo-gico, si deve ribadire che le condizioni fisiche, psicologiche e spirituali in cui esso sarebbe redatto, per forza di cose, sarebbero ben differenti da quelle di un malato terminale. Il dibattito sulla possibilità di legiferare su que-sto tema, dunque, deve anche contemplare il dovuto sostegno psicologico e spirituale affin-ché quella che potrebbe essere una semplice emozione del momento, sia essa del malato o anche dei suoi congiunti, non venga consi-derata come volontà inappellabile e non più modificabile.

Sono considerazioni di questo genere che autorizzano a porre un ultimo interrogativo: non sarà opportuno - anche in quei schiera-menti politici e movimenti ideologici in cui si parla di pietà per l’uomo e per il malato - riflettere sul senso non solo dell’eutanasia, ma dell’eubiosia?

Il diritto all’eubiosia è certamente uno dei più misconosciuti. Dispiace che le battaglie in nome dell’uomo, da più parti, le si faccia per dargli la morte o - solo per fare un altro esempio - per legalizzare l’uso delle droghe e non invece per consentirgli una “dolce vita” in

luogo di una “dolce morte”: una dolce vita fino all’ultimo istante di vita e prima della morte.

Il diritto all’eubiosia, infatti, difende il valore della vita, affinché sia vissuta con dignità anche nel suo stadio terminale. Esso mira a quell’insie-me di qualità che conferiscono dignità alla vita: sentirsi bene, sentirsi voluti bene, sentire che la proroga della vita ha un valore. La cura del ma-lato terminale potrà avvalersi sì di sedativi, ma non solo di essi: si prenderà cura del morente ed entrerà con lui in un atteggiamento empa-tico. L’eubiosìa persegue una “ars moriendi” non solo religiosa, ma laica e sanitaria; un’arte che ha bisogno oggi di progredire, così come progrediscono tutte le scienze. Sarà la risposta più autentica di una civiltà nella quale l’amore alla vita non è legato alla condizioni psicofische della persona, né alla sua autodeterminazione, ma è un bene condiviso, il bene più grande del bene comune, quello in cui si rispecchia il bene e il diritto dell’altro.

Ha scritto Cecily Saunders, del St. Cri-stopher’s Hospice di Londra:

“Molto spesso si può tradurre la domanda ‘fatemi morirÈ con ‘alleviate il mio dolore e ascoltatemi’. Se soddisfate questi due bisogni, la domanda in genere non sarà ripetuta”.26

26 Cfr. AA. VV., Né eutanasia, né accanimento. I quaderni di Scienza & Vita, in www.medicinaepersona.org/__C1256C23002924DE.nsf/wAll/IDCW6LKTUS/$file/quaderno%20S&V%20su%20eutanasia.pdf. Infermiera volontaria sin dal 1940, la Saunders osservò i metodi speciali che le suore avevano nella cura dei morenti, come la pratica di dare analgesici ad orari fissi piuttosto che aspettare che il paziente si lamentasse dal dolo-re. Dopo aver conseguito la laurea in Medicina, Cecily Saunders assunse il posto di ufficiale medico al Saint Joseph Hospice a Londra e, nel 1967, fondò il primo ospizio moderno (o “hospice”), il Saint Christopher’s, a Londra, il cui scopo era quello di unire la tradizione della compassione, che caratterizzava gli ospizi medioevali, con i progressi della medicina moderna, allo scopo di alleviare la sofferenza dei malati terminali e delle loro famiglie.

La famiglia, tra coscienza e responsabilità

di PAOLO FARINA*

Ne La solitudine del cittadino globale, il sociologo Zygmunt Bauman sostiene che il processo di globalizzazione, di per sé in grado di favorire una maggiore integrazione sociale e multiculturale, si traduce invece con più fa-cilità in fenomeni di esclusione, di isolamento, di individualismo.2 Se tale giudizio è vero, ne deriva che la globalizzazione, almeno sotto questo aspetto, anziché far riscoprire i legami comunitari li allenta, introducendo nuove frat-ture tra gli uomini.

Dal canto suo, S. E. Mons. Giampaolo Cre-paldi, Segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, afferma che, al fine di ricercare l’unità della comunità umana, uno dei principali nodi problematici risiede nel trovare una via che non perda né la tensione verso una vera e propria comunità mondiale né la valorizzazione delle comunità intermedie e di piccole dimensioni che stanno a molteplici livelli attorno alla persona. Egli aggiunge che tale tensione tra macro e micro-comunità si può ridurre al confronto tra la proposta comunita-rista e quella liberalista.

A suo giudizio, il liberalismo tende ad un universalismo fondato sulla razionalità con-

trattuale o dialogica, partendo dal presupposto di un individuo libero e razionale, capace di fare autonomamente le sue scelte. Molti rim-proverano a questo pensiero di garantire sì in questo modo la cittadinanza universale di tutti gli individui, indipendentemente dalle comunità e culture in cui sono inseriti, ma al prezzo di prescindere dai contenuti, dalle visioni del bene, finendo per intendere la convivenza in modo solo procedurale e seminando indifferenza. In altri termini, l’individuo libertario che fa razio-nalmente e autonomamente le sue scelte può sì raccordarsi con gli altri su procedure di convi-venza o di convergenza persino universale, ma recide i legami di senso con i suoi simili. Infatti, in quanto tali legami sono indipendenti dalla sua libertà, egli li considera come un ostacolo per la medesima. In sintesi, nella logica del mo-dello libertario, il prezzo da pagare per costruire una “comunità” universale, una cittadinanza planetaria, sarebbe la relegazione delle que-stioni etiche nel privato e quindi l’indifferenza etica delle comunità di appartenenza. In questo modo, però, la politica limiterebbe i propri temi alle problematiche tecniche, incapaci di mobili-tare i cittadini alla partecipazione democratica,

* Docente stabile di Antropologia teologica - Istituto Superiore di Scienze Religiose San Nicola il Pellegrino - Trani.

1 Il presente saggio è frutto di una rielaborazione dell’informazione tenuta nella tavola rotonda Crisi della famiglia: quale contributo dal Magistero della Chiesa?, organizzata dall’Associazione “Cristiani in dialogo” di Corato, presso la sede della Biblioteca Comunale, il 7 giugno 2007, con il patrocinio della Commissione diocesana “Famiglia e vita” e della Caritas cittadina di Corato.

2 Cfr. Z. BAUMANN, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2002, 11-15.

Una riflessione sulle sfide alla famiglia cristiananella società contemporanea1

128 Note giugno 2008 - anno VIII

con tutti i pericoli tecnocratici a ciò connessi.3 A tal riguardo osserva Guardini:

“Dal momento che gli uomini non si sentono più uniti dal di dentro, vengono organizzati dal di fuori”.4

D’altro canto, il comunitarismo ha avuto il merito, secondo molti osservatori, di cor-reggere tali pericoli, facendo riscoprire l’im-portanza della comunità per la formazione della propria identità e recuperando tematiche care al personalismo comunitario, mostrando come il noi preceda sempre l’io. Infatti, il noi fonda la comunità in quanto originaria, già data e costitutiva; l’identità del noi nasce da una narrazione e la narrazione è possibile solo quando c’è una comunità. Ora, l’identità di una comunità si costruisce attorno ad una idea di bene, e non solo in base a procedure, …ed è proprio a contatto con questo “idea” che si può stabilire un ordine assiologico, in ragione del quale l’identità del soggetto si costituisce in modo non banale. Scrive E. Mounier:

“Le altre persone non la limitano [la perso-na, ndr], anzi le permettono di essere e di svilupparsi; essa non esiste se non in quan-to diretta verso gli altri, non si conosce che attraverso gli altri, si ritrova soltanto negli altri. La prima esperienza della persona è l’esperienza della seconda persona; il tu, e quindi il noi, viene prima dell’io”.5

Secondo Taylor, per esempio, l’identità nasce davanti a questioni rilevanti di per sé e non perché noi - come sostengono invece i liberali - abbiamo deciso di riconoscerle come tali. Diversamente, nessuna questione sarebbe rilevante, compresa la libera autodeteminazio-ne del soggetto.6

È pur vero che la priorità del noi non può mai affermarsi a discapito della libertà della perso-

na, chiamata ad assumere in proprio i valori e gli ideali della comunità a cui appartiene… Il bene deve essere oggetto di una libera scelta! E la storia dimostra che i totalitarismi - quello “nero”, come quello “rosso”, ma anche come quello “bianco” - nascono dalla volontà di imporre una visione del bene.

Mi soffermo su queste elementari distinzioni in quanto mi sembrano abbastanza rappresen-tative delle diverse visioni del problema della comunità, ma anche perché sono del parere che la prospettiva cristiana e della Dottrina sociale della Chiesa possa aiutare a superare i limiti presenti in ambedue le posizioni. Essa potrebbe altresì valorizzarne gli aspetti positi-vi, che potremmo così sintetizzare: non si dà comunità umana a prescindere dalla libertà della persona, ma non si dà persona, libera e consapevole, al di fuori di una comunità.

Mantenendo, quindi, questa vasta proble-matica sullo sfondo, avviamoci ora a chiederci cosa la Rivelazione cristiana e il Magistero sociale della Chiesa ci dicono a questo riguar-do. Per restringere il campo, ma anche per far emergere al meglio talune sfumature della proposta cristiana, mi concentrerò non tanto sulla comunità umana universale, su quella che viene anche chiamata “l’unità del genere umano“, ma verrò direttamente a proporre alcune considerazioni sulla prima cellula della società, la famiglia, così come sono desumibili dalla Dottrina sociale della Chiesa.

La famiglia, con il suo ruolo e la sua centra-lità nella società, è resa oggetto di particolare attenzione nel Magistero e nella dottrina so-ciale della Chiesa Cattolica. La maggior parte dei principali documenti della dottrina sociale analizzano e mettono a fuoco il tema della famiglia con le sue problematiche e tutti i vari aspetti connessi. D’altro canto, l’attualità sto-rica, sotto il profilo sociale e culturale, mette

3 Cfr. G. CREPALDI, Prolusione al Convegno Nazionale di Studi ACLI, Verso la democrazia associativa: il cittadino globale tra solitudine e rinascita della comunità, Vallombrosa, 31 agosto 2001, in http://www.sedos.org/ita-liano/crepaldi.htm.

4 R. GUARDINI, La fine dell’epoca moderna, Morcelliana, Brescia 1993, 91-108.5 E. MOUNIER, Il Personalismo, Ave, Roma 1964, p. 60.6 C. TAYLOR, Il disagio della modernità, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 47.

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in primo piano le continue spinte dirette e indirette alla disgregazione della famiglia fondata sulla sacralità e naturalità del patto coniugale irrevocabile tra uomo e donna. I temi e le argomentazioni di questa attualità devono, dunque, spingere la coscienza cristia-na ad un rinnovato impegno sulla famiglia e per la famiglia alla luce del Magistero e della dottrina sociale.

Centrale in questo discorso è il rapporto tra persona umana, famiglia, società e vita. I ter-mini e le conseguenze fondamentali di questo rapporto sono: l’accoglienza, la cura, lo svilup-po e la promozione della persona umana nella sua integralità, la crescita della persona umana nella sua socialità e il “valore” della famiglia come santuario della vita. Da questi scaturisce il concetto della priorità della famiglia rispetto alla società e allo stato nell’ottica del principio di sussidiarietà.

Ogni modello sociale che intenda essere funzionale al bene dell’uomo, non può fare a meno della centralità e della responsabilità della famiglia e del suo ruolo per la vita. D’altro canto, con la forza dell’insegnamento morale e sociale della Chiesa, ogni famiglia cristiana e ciascun credente vengono chiamati, in forme e modi diversi, alla testimonianza e alla difesa del valore e del ruolo della famiglia nella vita e nella società per rispondere in maniera coerente alla propria vocazione.

Si possono così sintetizzare i tre carismi, che sono dono e compito, della vita cristiana: an-nuncio, celebrazione dei misteri e testimonian-za. Quanto ai primi due di questi tre carismi, si può sommariamente affermare, senza tema di smentita, che l’attenzione della comunità ecclesiale non è mai venuta meno. Non altret-tanto si può forse affermare quanto al munus della testimonianza, che non può essere solo orale o ridotta a talune pratiche di carità. Deve invece coinvolgere l’essere profondo di ogni cristiano, di ciascuna comunità cristiana e della Chiesa tutta intera. Questo significa vivere l’im-pegno esigente della carità a 360°…non solo all’interno, ma anche all’esterno delle nostre comunità. Attraverso la parola efficace dell’ero pellegrino e mi avete ospitato (Mt.25,43), Gesù

afferma di identificarsi con i poveri. La Chiesa, sua Sposa, quando cerca e ama il Signore, lo cerca e lo ama in loro. Come sposa deve condividere il suo stile, la sua mentalità, il suo modo di agire in mezzo agli uomini. Gesù ha un suo modo proprio di rapportarsi con ciascuno uomo e ciascuna donna. Egli si fa prossimo a ciascuno nel momento del dolore. Da buon samaritano, Gesù, solleva da terra l’uomo giacente e lo carica sul suo asino. Diventare samaritani significa quindi non solo incontrare l’uomo occasionalmente, nel momento duro delle percosse, ma farsi prossimo ed entrare in comunione con ogni “ferito”. Gesù si pre-senta all’umanità anche come “lo sposo della terra…lo sposo architetto”, promesso da Dio attraverso le parole del profeta Isaia (6,4-5). Lo sposo: cioè colui che è legato a te da un patto di alleanza, di solidarietà ad oltranza. Solidarietà dichiarata che dà all’altro dei diritti su di te; la tua vita diventa la sua vita. È una storia vissuta insieme e non semplicemente un insieme di singoli episodi assistenziali. Aprirsi alla solidarietà vuol dire fare storia con gli ul-timi. E fare storia con gli ultimi vuol dire fare cultura, creare una mentalità che fa del dialogo il suo tratto distintivo

Ora, la comunità ecclesiale, seguendo l’esempio del Maestro, è chiamata a piegarsi su ogni povertà, su ogni ferito, su tutti co-loro che, a qualsiasi titolo, siano considerati “ultimi” dalla società… C’è sicuramente da chiedersi come e quanto la comunità cristiana abbia accolto questo invito. La sensazione è che, molto attenta alla difesa dei valori della famiglia, prima cellula della società, come vuole il modello comunitarista, non sempre abbia dimostrato la medesima sensibilità nella difesa di coloro che non hanno avuto voce sufficiente per difendere i diritti della singola persona, come vorrebbe il modello liberalista.

È pur vero che spesso il metodo del dialo-go è seguito con grande difficoltà e che si è maturata una lunga serie di incomprensioni tra taluni filoni del pensiero moderno e il cristianesimo. Quando il pensiero moderno ritiene di fondare la comunità umana senza il riferimento trascendente a Dio Padre di tutti gli

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uomini, finisce di fatto per sottoporre la dignità della persona umana alla mentalità dominante di turno. D’altro canto, non va certo dimenti-cato che il pensiero moderno ha conosciuto e conosce anche forme alte di consapevolezza dell’unità del genere umano. Non è forse stato Kant a ricordarci che la violazione di un diritto avvenuto in un punto della terra è una ferita inferta ad ogni uomo?7

Si tratta, dunque, di continuare a ricercare un dialogo diretto a fondare l’unità della comu-nità umana nel modo più confacente al rispetto della dignità della persona. Sia consentito un riferimento letterario. George Orwell, nel suo famoso romanzo fantapolitico “1984”, ci dà un interessante spunto di riflessione. Si sta de-scrivendo la vita reale dei cittadini dell’ipotetico super-Stato di Oceania, frutto della fantasia orwelliana, e quanto ai rapporti con l’esterno si nota che:

“Se si eccettuano i prigionieri di guerra, la media dei cittadini dell’Oceania non ha mai veduto con i propri occhi un abitante dell’Eurasia o dell’Estasia, e la conoscenza delle lingue straniere gli è proibita. Se gli si permettesse d’aver contatti con essi, egli scoprirebbe che sono creature del tutto simili a lui e che la maggior parte delle cose che gli sono state dette su di essi sono bugie. Le barriere del mondo chiuso dove egli vive verrebbero infrante, e la paura, l’odio e la sicurezza di sé, da cui dipende la sua morale, verrebbero dissolte. È quindi sottinteso che le frontiere non debbono essere attraversate che dalle bombe”.8

L’osservazione è molto acuta. Normalmente si pensa che i regimi autoritari impediscano i

contatti internazionali per paura del diverso. In realtà è il contrario. Quando ci si apre alle altre culture non si trova solo la diversità, ma anche, e soprattutto, la comunione, e questo è un fattore veramente rivoluzionario e fortemente dirom-pente. È giusto mettere l’accento sulla ricchezza della diversità, ma prima ancora bisognerebbe cercare e valorizzare quanto accomuna.

Giovanni Paolo II, nel famoso discorso all’As-semblea Generale dell’ONU del 1995, sosteneva che le differenti culture sono delle vie per acce-dere alla comune natura umana. Precisava:

“Ci sono dei diritti universali, radicati nella natura della persona, nei quali si rispec-chiano le esigenze obiettive e imprescin-dibili di una legge morale universale. Non viviamo in un mondo irrazionale o privo di senso, ma vi è una logica morale che illu-mina l’esistenza umana e rende possibile il dialogo tra gli uomini e tra i popoli. Se vogliamo che un secolo di costrizione lasci spazio ad un secolo di persuasione, dob-biamo trovare la strada per discutere, con un linguaggio comprensibile e comune, circa il futuro dell’uomo e la legge morale universale iscritta nel cuore dell’uomo. È una sorta di grammatica che serve al mondo per affrontare la discussione circa il suo stesso futuro”.9

D’altra parte, come è emerso dal recente congresso mondiale sulla famiglia, tenutosi a Varsavia nel maggio 2007, occorre riconoscere che mai come oggi viene messo in discussione il medesimo status di diritto della famiglia.10 A maggior ragione, dunque, l’ordinamento giuridico non può non riconoscere e sostenere la famiglia come luogo privilegiato per lo svi-

7 Cfr. E. KANT, Per la pace perpetua, tr. it. UTET, Torino 1965, p. 305.8 G. ORWELL, 1984, traduzione di G. Baldini, Mondadori, Milano 1973, 319.9 GIOVANNI PAOLO II, Discorso all’Assemblea Generale dell’ONU, 1995. Il testo è consultabile al seguente indirizzo web

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/speeches/1995/october/documents/hf_jp-ii_spe_05101995_ address-to-uno_it.html

10 L’evento è stato organizzato a Varsavia dall’11 al 13 maggio 2007. Aveva per tema: La famiglia, primavera per l’Europa ed il Mondo. Si è trattato del IV Congresso mondiale, dopo quello di Praga (1997), Ginevra (1999), Città del Messico (2004). Si riportano di seguito alcuni dei titoli delle Sessioni di lavoro: Diritti umani, diritti della Famiglia e il futuro della Democrazia; La nuova crisi dei popoli; Famiglia: santuario di amore e vita; La famiglia: il centro dell’apprendimento e dell’educazione; Famiglia: la culla per un rinnovo delle nazioni; Pro-mozione di un sistema finanziario privilegiato a sostegno della famiglia; Attacco al Matrimonio e unione di uomo e donna; Risposte all’inverno demografico; Calo delle nascite: cause ed effetti; Dignità dell’infanzia fin dal concepimento: diritto a vita, casa e famiglia; Matrimonio e bene sociale: Perché il matrimonio?

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luppo personale dei suoi membri, specialmente dei più deboli. Oltrepassando impostazioni superate da questi ultimi decenni, occorre privilegiare e promuovere giuridicamente la famiglia come

“[…] il luogo nativo e lo strumento più efficace di umanizzazione e di persona-lizzazione della società”.11

La famiglia, infatti,

“[...] possiede e sprigiona ancora oggi energie formidabili capaci di strappare l’uomo all’anonimato, di mantenerlo cosciente della sua dignità personale, di arricchirlo di profonda umanità e di inserirlo attivamente con la sua unicità e irripetibilità nel tessuto della società”.12

Si rivela, perciò, compito della massima importanza quello di trasmettere alle genera-zioni future i valori della dignità della persona e della stabilità del matrimonio e della famiglia mediante un corpo di leggi che li protegga e li promuova. Si pone così il problema del ruolo della comunità politica e del sistema di valori che deve dettare le regole della convivenza civile.

Il Cardinale Martino nel presentare il Com-pendio della Dottrina Sociale ai parlamen-tari italiani ha ribadito che la DSC precisa il fondamento e il fine della comunità politica, individuandoli nel bene comune13. Del bene comune esso ha una visione dinamica, plura-listica e sussidiaria:a) dinamica in quanto esso non è un dato, è

un impegno, un processo da guidare etica-mente, un percorso da assumere consape-volmente, da volere, da costruire. Il bene comune politico, proprio per questo, non si

raggiunge automaticamente. Non sono in grado di realizzarlo né le leggi del mercato da sole, né le istituzioni politiche da sole, ma gli uomini guidati da una buona volontà.

b) pluralistica in quanto il bene comune non è uguale per tutti i contesti e per tutti i gruppi sociali. Esso è diversificato ed articolato, fondato su quanto accomuna ma anche sulla ricchezza delle differenze. Non esiste, in questo senso, un bene comune univer-sale unico, appiattente e uniformante tutte le forme di vita. Sarebbe un bene comune totalitario, ingombrante e soffocante. Esi-ste un bene comune nel senso indicato da Giovanni XXIII nella Pacem in terris, come il bene della famiglia umana, considerata però nella sapiente articolazione di popoli e gruppi intermedi, di comunità locali e di famiglie, tutti unici e irripetibili eppure tutti comunicanti dentro una stessa famiglia, nazionale o universale.

c) sussidiaria, infine, in quanto la comunità politica deve perseguire il bene comune favorendo partecipazione ed assunzione di responsabilità.14 È questo un tema di grande attualità. Affer-

ma il Compendio:

“Il principio di sussidiarietà protegge le persone dagli abusi delle istanze sociali superiori e sollecita queste ultime ad aiu-tare i singoli individui e i corpi intermedi a sviluppare i loro compiti. Questo principio si impone perché ogni persona, famiglia e corpo intermedio ha qualcosa di originale da offrire alla comunità. L’esperienza atte-sta che la negazione della sussidiarietà, o la sua limitazione in nome di una pretesa democratizzazione o uguaglianza di tutti nella società, limita e talvolta anche annul-la, lo spirito di libertà e di iniziativa”.15

11 GIOVANNI PAOLO II, Esortazione Apostolica Familiaris consortio, 22 novembre 1981, 43. 12 Ivi.13 Cfr. R. MARTINO, Comunità politica e democrazia, in w.cardinalrating.com/cardinal_61__article_2524.htm, Roma,

Sala del Cenacolo, venerdì 16 novembre 2005. Il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa è consultabile nella sua versione integrale al sito www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/justpeace/documents/rc_pc_justpeace_doc_20060526_compendio-dott-soc_it.html.

14 Cfr. Ivi.15 PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, Libreria Editrice

Vaticana, Città del Vaticano 2004, n.187.

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Si tratta di una serie di affermazioni foriere di molteplici conseguenze sul piano pratico e che risuonano quanto mai attuali alla luce del più recente dibattito, che ha investito l’opinione pubblica italiana, a proposito di iniziative volte a legiferare in materia di unioni di fatto e di coppie omosessuali.

Il Consegno Episcopale Permanente della CEI ha diffuso sull’argomento una Nota, di cui si riportano di seguito alcuni passaggi salienti:

“Ci sentiamo responsabili di illuminare la coscienza dei credenti, perché trovino il modo migliore di incarnare la visione cristiana dell’uomo e della società nell’im-pegno quotidiano, personale e sociale, e di offrire ragioni valide e condivisibili da tutti a vantaggio del bene comune (…). La presentazione di alcuni disegni di legge che intendono legalizzare le unioni di fatto ancora una volta è stata oggetto di riflessione nel corso dei nostri lavori, raccogliendo la voce di numerosi Vescovi che si sono già pubblicamente espressi in proposito (…). Non abbiamo interessi politici da affermare; solo sentiamo il dovere di dare il nostro contributo al bene comune, sollecitati oltretutto dalle richieste di tanti cittadini che si rivolgono a noi (…). Solo la famiglia aperta alla vita può essere considerata vera cellula della società perché garantisce la continuità e la cura delle generazioni (…). A partire da queste considerazioni, riteniamo la legaliz-zazione delle unioni di fatto inaccettabile sul piano di principio, pericolosa sul piano sociale ed educativo (…). Un problema ancor più grave sarebbe rappresentato dalla legalizzazione delle unioni di per-sone dello stesso sesso, perché, in questo caso, si negherebbe la differenza sessuale, che è insuperabile (…). Queste riflessioni non pregiudicano il riconoscimento della libertà della persona; a tutti confermiamo il nostro rispetto e la nostra sollecitudine pastorale. Vogliamo però ricordare che il diritto non esiste allo scopo di dare forma giuridica a qualsiasi tipo di convivenza o di fornire riconoscimenti idelogici (…). Ha in-vece il fine di garantire risposte pubbliche a esigenze sociali che vanno al di là della dimensione privata dell’esistenza. Siamo consapevoli che ci sono situazioni concrete nelle quali possono essere utili garanzie e

tutele giuridiche per la persona che convi-ve (…). A questa attenzione non siamo per principio contrari. Siamo però convinti che questo obiettivo sia perseguibile nell’am-bito dei diritti individuali, senza ipotizzare una nuova figura giuridica che sarebbe alternativa al matrimonio e alla famiglia e produrrebbe più guasti di quelli che vor-rebbe sanare (…). Una parola impegnativa ci sentiamo di rivolgere specialmente ai cattolici che operano nell’ambito politi-co. Comprendiamo la fatica e le tensioni sperimentate dai cattolici impegnati in politica in un contesto culturale come quello attuale… ma è anche per questo che i cristiani sono chiamati a impegnarsi in politica (…). Questa Nota rientra nella sollecitudine pastorale che l’intera comu-nità cristiana è chiamata quotidianamente ad esprimere verso le persone e le famiglie che nasce dall’amore di Cristo per tutti i nostri fratelli in umanità”.16

Indicazioni puntuali e apparse a non pochi eccessivamente rigorose, che hanno ulte-riormente infervorato il dibattito sui “Dico”. Per averne un’idea, si considerino i seguenti interventi di Massimo Introvigne e di Enzo Bianchi. Il primo, fondatore e direttore del Centro Studi sulle Nuove Religioni (CESNUR), scrive sul Giornale:

“Il […] testo ufficiale della nota dei vescovi italiani […] giudica la legge Bindi-Polla-strini sui Dico «inaccettabile sul piano di principio, pericolosa sul piano sociale ed educativo». Né bastano le proclamate buone intenzioni […]. Come è ovvio, è giudicato «un problema ancor più grave» quello «rappresentato dalla legalizzazione delle unioni di persone dello stesso sesso, perché, in questo caso, si negherebbe la differenza sessuale, che è insuperabile». Ma il «più» davanti a «grave» significa che restano gravi anche i Dico eteroses-suali. Eventuali problemi concreti e casi pietosi possono essere risolti «nell’ambito dei diritti individuali, senza ipotizzare una nuova figura giuridica che sarebbe alternativa al matrimonio e alla famiglia e produrrebbe più guasti di quelli che vorrebbe sanare». La battaglia decisiva che i «cattolici adulti» hanno combattuto sui media amici cercando qualche sponda fra i vescovi - soprattutto in pensione,

16 CONSIGLIO PERMANENTE DELLA CEI, Nota a riguardo della famiglia fondata sul matrimonio e di iniziative legislative in materia di unioni di fatto, Roma, 28 marzo 2007, in www.cesnur.org/2007/cei_03_28.htm.

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però - e permettendo a qualche giornale di riferire i fatti della Chiesa in due co-lonne, dove all’insegnamento del Papa si contrapponeva il «magistero parallelo» del cardinale Martini, di qualche professore di teologia e giù giù fino a Rosy Bindi, non riguardava però il giudizio della Con-ferenza Episcopale sui Dico. Dopo una raffica di interventi chiarissimi del Papa, nessuno poteva immaginare che i vescovi si pronunciassero diversamente […]. I «cattolici adulti» incassano la più sonora delle sconfitte. Certamente, spiega la nota, i cattolici impegnati in politica devono decidere secondo coscienza, ma questa dev’essere «rettamente formata». Diver-samente, l’appello alla coscienza potrebbe giustificare qualunque cosa”.17

Di diverso orientamento e di tono ben più pacato è la riflessione di Enzo Bianchi. Ne La stagione della responsabilità18, il priore della Comunità di Bose sottolinea:

“Va riconosciuto che la tanta attesa e temuta “Nota” del Consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana è essenzialmente pastorale, non prevede costrizioni né sanzioni e, quindi, non ap-pare come una «clava» calata sui cattolici impegnati in politica. Il cardinale Poletto ha voluto spiegarla e accompagnarla di-cendo che essa non è «contro» qualcuno, ma è stata stesa per sottolineare una fondamentale verità antropologica ed è affidata alla coscienza di tutti, affinché si proceda a un autentico discernimento in vista delle scelte che soprattutto i politici devono operare: un messaggio che non è politico ma che tende alla formazione, alla illuminazione delle coscienze. Appare così quella «pastoralità» che il cardinale Ber-tone, segretario di Stato, aveva indicato come urgente ed essenziale per il delicato servizio della CEI al suo presidente, l’arci-vescovo Bagnasco”.19

Bianchi aggiunge che viviamo in una stagio-ne e in una società la cui complessità richiede

da parte di tutti e di ciascuno un’assunzione consapevole di responsabilità. Arduo è il com-pito di far corrispondere la coerenza dei principi con gli interrogativi antichi e mai superati che la vita di ogni giorno e la vita della comunità civile impongono:

“E questo in un clima non sempre ideale per il dialogo e il confronto, perché turbato da considerazioni generali e generiche che non aiutano un sapiente discernimento di singole e articolate questioni. La cupa con-vinzione di quanti «nei tempi moderni non vedono che prevaricazione e rovina e van-no dicendo che la nostra età in confronto con quelle passate, è andata peggiorando» (Gv. XXIII) porta molti cristiani e porzioni di chiesa su posizioni difensive e arroccate, sempre più intrise di un’intransigenza che scorge solo vuoto, deserto e desolazione nell’odierna società non cristiana”.20

Bianchi non tace le delicate problematiche che, non solo in Italia, affliggono la famiglia fondata sul matrimonio. A suo avviso, è proprio in situazioni del genere che emerge l’esigenza di una assunzione di responsabilità che riguar-da tutti:

“[…] credenti e non credenti, semplici cit-tadini e amministratori pubblici, pastori e parlamentari, ciascuno nel proprio ambito e con le proprie capacità e competenze. Responsabilità che investono chi una fami-glia ha avuto e a sua volta ha saputo for-marla e chi invece ha sofferto la mancanza di quella cellula fondamentale della socie-tà, che investono i pastori e i legislatori, indipendentemente dalla proprie vicende personali. Come insegna una nota della Congregazione per la dottrina della fede (24/11/2002) nelle società democratiche tutte le proposte sono discusse e vaglia-te liberamente ed è dovere morale dei cristiani di essere coerenti con la propria coscienza: questa coerenza è la respon-sabilità grave che hanno i parlamentari

17 M. INTROVIGNE, Questa è la sconfitta dei cattolici «adulti», ne “Il Giornale”, 29 marzo 2007.18 Articolo pubblicato su “La Stampa”, (1 aprile 2007), consultabile in http://www.monasterodibose.it/index.

php/content/view/1096/26/1/0/lang,it/ onsultabile in 19 Ivi.20 Ivi. Le parole di Giovanni XXIII sono tratte dal discorso Gaudet Mater Ecclesia, pronunciato nella solenne

apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, l’11 ottobre 1962, oggi consultabile in www.totustuus.biz/users/magistero/g23gaude.htm.

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cattolici, cui l’intera compagine ecclesiale deve essere grata per la disponibilità ad assumerla anche nelle situazioni più com-plicate. Sta a loro valutare i mezzi politici e gli strumenti giuridici più adeguati per garantire il rispetto dei diritti e doveri di ogni cittadino, trovando le modalità per tradurre in proposte condivisibili dal-l’intera popolazione i convincimenti che nascono dalla loro coscienza rettamente illuminata. Sta a loro vagliare responsa-bilmente come coniugare i principi etici cui aderiscono con il bene comune - non astratto o ideale ma possibile e concreto - dell’insieme del paese, ricordando che i cristiani impegnati in politica non sono - come ha ricordato il card. Bertone - la longa manus della Santa Sede o della CEI. Ad essi sta, dunque, un compito arduo che può comportare scelte difficili, come quelle ventilate dalla Evangelium Vitae [n.73, ndr]: «Nel caso in cui non fosse possibile scongiurare o abrogare completamente una legge abortista già in vigore o messa al voto, un parlamentare, la cui personale assoluta opposizione all’aborto fosse chiara e nota a tutti, potrebbe lecitamente offrire il proprio sostegno a proposte mi-rate a limitare i danni di una tale legge e a diminuirne gli effetti negativi sul piano della cultura e della moralità pubblica» (Giovanni Paolo II)”.21

D’altronde è questa una responsabilità con-divisa non solo dai credenti, ma da ogni uomo di buona volontà che si sforza di rispondere e corrispondere istanze della propria etica laica e che tutti siamo chiamati ad assumerci, a prescindere dal contesto in cui viviamo: nella famiglia, nella scuola, nel mondo del lavoro, nella società. È una responsabilità che ci lega nei riguardi delle nuove generazioni che neces-sitano, come insegnava Paolo VI, di testimoni e non solo di maestri, ovvero di modelli credibili di comportamento, fondati sui principi dei di-ritti fondamentali di ogni essere umano.22

Conclude, in maniera convincente e condi-visibile, Enzo Bianchi:

“Benedetto XVI nella sua recente esorta-zione postsinodale ha richiamato l’urgenza e il dovere della coerenza tra ciò che si vive e ciò che si professa e qui va detto che ciò che più addolora e indigna molti cristiani è l’ipo-crisia presente nella discussione su questi temi: i grandi difensori di questi valori appaiono sovente coloro che li contraddi-cono in modo pubblico e conclamato con il proprio vissuto. Peraltro, c’è da augurarsi che la CEI si esprima di più e con parresia - sempre restando sul terreno profetico e pre-politico - su temi come quello della giu-stizia e della legalità o su quello della pace e della guerra che concerne la vita stessa di intere popolazioni. Solo così non si avrà l’impressione che l’attenzione pastorale si concentri solo su questioni di etica pri-vata, legate in particolare alla sessualità, evadendo le questioni cruciali della vita pubblica: i non cristiani comprenderebbero meglio la «differenza cristiana» e i cristiani non sarebbero contestati perché troppo rilevanti su alcuni temi e troppo sordi o assenti su altri”.23

Se si aderisce a questa lettura, si deve ag-giungere che la “crisi” della famiglia va com-misurata con una visione ben più articolata e complessa di quella attenenti problemi di mera morale sessuale o di pur delicatissime ed im-prescindibili questioni bioetiche. Va collocata in quell’ambito più grande, delimitato da una parte dal relativismo etico postmoderno, ma dall’altro dalla non sempre viva attenzione che la comunità ecclesiale, prima e più del Magi-stero, hanno saputo in concreto dedicare al valore e al ruolo della famiglia.

A tal proposito, un solo esempio: Francesco Grasselli, ne La crisi della famiglia, scrive:

“La crisi della famiglia denuncia anche una certa incapacità della Chiesa - di tutti noi cristiani! - a manifestare lungo i secoli e, specialmente in questi ultimi tempi, il disegno che Dio ha tracciato per essa e che si è compiuto in Gesù Cristo. È in Cristo che la famiglia manifesta la sua più profonda

21 Ivi.22 PAOLO VI, Esortazione Apostolica, Evangelii Nuntiandi, Roma, 8 dicembre 1975, n.41; consultabile al sito

http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/apost_exhortations/documents/hf_p-vi_exh_19751208_evangelii-nuntiandi_it.html

23 E. BIANCHI, La stagione della responsabilità, o.c.

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natura, che rivela il suo volto più proprio: “Questo mistero è grande. Lo dico in rife-rimento a Cristo e alla Chiesa” (Ef. 5,32). Lo avevano compreso le prime comunità cristiane e lo insegnavano gli antichi Padri, ma successivamente la cristianità nel suo complesso ha visto la famiglia non come parte di sè, ma come un istituto sociale che le sta davanti, come un instrumen-tum e non come un sacramentum Regni. Ha sempre difeso il matrimonio contro le deviazioni e le immoralità, ma non si è vista, essa stessa, come generata nella famiglia”.24

A giudizio di Grasselli, anche oggi, la lotta a tutto campo che la Chiesa cattolica conduce contro la visione secolarizzante o “laicista” della famiglia, contro il divorzio, l’aborto, i rapporti prematrimoniali, i metodi contraccettivi, i Pacs e le unioni omosessuali, l’inseminazione artifi-ciale omologa ed eterologa, la conservazione degli embrioni, la loro utilizzazione a scopo scientifico o terapeutico, ecc., non è accom-pagnata da un’adeguata valorizzazione della famiglia come soggetto sociale ed ecclesiale. Tale “lotta” appare quindi come una tendenza conservatrice, che va a discapito della missione evangelizzatrice della Chiesa. Occorre altresì ridare spazio alle famiglie cristiane, avendo anch’esse un dono profetico, sacerdotale e re-gale, perché, fondandosi sulla Parola, facciano sentire la loro voce, senza alcun cedimento secolarizzante e laicista, ma con una forza te-stimoniale che dia risalto soprattutto agli aspetti positivi del messaggio cristiano. Non è la difesa etico-giuridica il primo campo dell’impegno cristiano per la famiglia. Il primo campo è quello della “vita nuova” che dal matrimonio cristiano limpidamente discende.25 Spiega Corrado De

Benedittis, tra i fondatori del Forum “Cristiani in dialogo”, di Corato:

“Cerchiamo di promuovere il criterio secon-do cui il pensiero cristiano elabori un’idea progressista di società, che comporti cioè impegno per un mondo più giusto e soli-dale, dove l’uomo sia al centro delle cure di ogni cristiano. In questa ottica si inserisce il tema: non si può porre la questione in termini di «famiglia si, famiglia no».È necessario prendere coscienza delle nuove istanze culturali in cui essa va ricollocata, innestando la crisi che sta at-traversando nel tempo epocale che stiamo vivendo. Innanzi alle grandi sfide di oggi, dobbiamo poter sperare in una evoluzione in positivo.Ci chiediamo: quale è il ruolo della Chiesa in tale contesto? si tende alla «convivia-lità delle differenze»? siamo famiglie che riflettono? Ascoltano? Dialogano? Si sen-tono ascoltate?”.26

Le dichiarazioni di De Benedittis risalgono alla tavola rotonda tenutasi nella Biblioteca Comunale di Corato nel giugno 2007. Nella stessa occasione, don Luigi Renna, docente di Teologia Morale presso la Facoltà Teologica Pugliese, ha aggiunto:

“In una realtà liquida, con rapporti a breve termine, vulnerabili, incerti, instabili la Chiesa deve aiutare l’uomo a discernere la realtà, per illuminarla alla luce del Van-gelo, e riuscire ad andare oltre le frequenti contraddizioni legate alla nostra natura umana, facendo leva non tanto sulla no-stra origine “di terra”, quanto sulla dignità di ogni uomo che discende direttamente da Dio.”27

Le affermazioni di De Benedittis e di don Renna ben si sposano con quelle finali del già citato articolo di Grasselli:

24 F. GRASSELLI, La crisi della famiglia. Dal patto al contratto, in “Missione oggi”, marzo 2007, www.saveriani.bs.it/sito_vecchio/sito_saveriani_vecchio/missioneoggi/arretrati/2007_03/dossier/dossier2.html. Sposato e padre di un bambino, Grasselli ha studiato teologia e scienze dell’educazione. Anima da più di vent’anni l’Editrice Missionaria Italiana ed è segretario della rivista “Ad Gentes”. Ha promosso il Centro “Famiglie aperte sul mondo” (Ferrara) e collabora con varie riviste su tematiche missionarie.

25 Cfr. Ivi.26 Citato in M. LOTITO, Cristiani in dialogo: per una famiglia cristiana più attraente, in www.coratolive.it/news/news.

aspx?idnews=4060.27 Ivi.

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“Vorrei mettere in luce la debolezza della teologia e del magistero sulla famiglia. Non si sa vedere nella fonte della rivelazio-ne l’immensa ricchezza che essa contiene”. Don Umberto Neri, della ‘Piccola Famiglia dell’Annunziata’, deceduto nel 1996, diceva: «Io non credo che nel corso della tradizione cristiana e degli interventi del magistero si sia ancora riusciti ad esaurire la ricchezza del dato biblico. Il Magistero è ancora alle prime battute, per così dire, del discorso sulla famiglia ed è, a mio parere, ancora lontano dalla pienezza, dalla forza e dalla fecondità delle indicazioni bibliche”.28

Si legge in Ef 5,21-33:

“Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola. Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!Quindi anche voi, ciascuno da parte sua, ami la propria moglie come se stesso, e la donna sia rispettosa verso il marito”.

… Questo mistero è grande! Quanti “fer-venti” cattolici, pronti nel “virgam conpescere”, sarebbero in reale difficoltà, quando si tratta di “dare ragione della speranza” (cfr. 1Pt 3,14) contenuta in questo annuncio?

28 F. GRASSELLI, La crisi della famiglia, o.c.

“Siate sempre pronti a rispondere a chiun-que vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1 Pt. 3,15): le parole del primo Pontefice, che non a caso sono ricordate da Benedetto XVI in apertura della Spe Salvi, esattamente al n.2, rappresentano immediatamente la chiave di volta che sembra reggere l’intera costruzione dell’Enciclica.

In essa ci si rivolge ai cristiani e li si invita con forza non a puntare l’indice sulla corruzione dei tempi moderni un leitmotiv che secondo corsi e ricorsi storici ciclicamente ritorna in certa predicazione cristiana. Al contrario, il Papa ricorda che, perché “salvati nella speranza” (cfr. Rm. 8,24), i credenti in Cristo devono es-sere sempre pronti a “dare ragione” della loro speranza, in un continuum di significato tra termini quali “ragione”, “fede” e “speranza”, che troppo facilmente rischiano, anche nella visione ecclesiale, di essere letti come tra loro distinti e distanti.

Vale a dire: se un cristiano, anzi la Chiesa tutta, ha una visione del mondo tale da non lasciare luogo alla speranza, dovrebbe interrogarsi sul suo ruolo di testimone di Dio -ovvero della speranza -nel mondo. Non si può portare Dio, lasciando fuori della porta la speranza. Chi ritiene di dover

Speranza e modernitànell’Enciclica Spe Salvi di Benedetto XVI1

di PAOLO FARINA*

predicare Dio, uccidendo la speranza non è un salvato, non è un redento, non è un cristiano: senza speranza e senza Dio, il mondo lo era già, ma prima della venuta di Cristo (cfr. Ef. 2,12). A partire dal suo irrompere nella storia, deve esplodere, in atti e parole (cfr. DV 2) la “buona notizia” che ha sconvolto positivamente le nostre esistenze, facendone esistenze redente.

A scanso d’equivoci, Benedetto XVI incalza, facendo proprio il monito di Paolo ai Tessalo-nicesi:

“Voi non dovete affliggervi come gli altri che non hanno speranza (1 Ts. 4,13)” (SS 2).

E aggiunge:

“La porta oscura del tempo, del futuro, è stata spalancata. Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova” (SS 2).

Mi sembra chiaro che l’allusione del Pon-tefice al tempo vada intesa nel suo senso più ampio ed onnicomprensivo. Il tempo è quello in cui viviamo (il presente), quello che abbiamo ereditato (il passato), quello che ci attende (il futuro) e che tuttavia in qualche modo è fin d’ora presente, secondo la logica del “già e

* Docente stabile di Antropologia teologica - Istituto di Superiore Scienze Religiose San Nicola il Pellegrino - Trani.1 Relazione tenuta a Corato - Cenacolo “Vivere in” il 15 febbraio 2008.

138 Note giugno 2008 - anno VIII

non ancora” alla quale -come vedremo -anche la Spe Salvi rinvia.

Affermare, dunque, che la porta del tempo è stata dischiusa, anzi spalancata, significa sostenere che c’è stata donata una vita diversa, una vita nuova. Vuol dire che abbiamo ricevuto il dono ed il compito di vivere da liberi perché li-berati (cfr. Gal. 5,1), ma per questo anche chia-mati a trasmettere il dono della libertà ad ogni livello, da quello sociale, economico, politico e culturale a quello ecclesiale e spirituale.

È ancora Benedetto XVI che esorta a vivere la fede come anticipazione nel presente del dono della libertà futura. Egli scrive:

“La fede non è soltanto un personale pro-tendersi verso le cose che devono venire, ma sono ancora totalmente assenti; essa ci dà qualcosa. Ci dà già ora qualcosa della realtà attesa, e questa realtà presente co-stituisce per noi una prova delle cose che ancora non si vedono. Essa attira dentro il presente il futuro, così che quest’ultimo non è più il puro non ancora. Il fatto che questo futuro esista, cambia il presente; il presente viene toccato dalla realtà futura, e così le cose future si riversano in quelle presenti e le presenti in quelle future” (SS 7).

Il futuro può essere atteso perché già so-stanzia il presente. È infatti la hypostasis della fede a fondare la speranza della hypomoné. È la sostanza della fede a reggere e guidare l’attesa. Diversamente, si cerca la propria feli-cità nelle hyparchonta, in ciò che si possiede, e si fugge da tutto ciò che sembra attentare il nostro precario equilibrio (cfr. SS 9).

Il punto è che, al giorno d’oggi, molti uomini e donne rifiutano l’adesione di fede, perché non riconoscono nella vita eterna un bene desiderabile. Preferiscono la vita presente a quella futura e la seconda sembra piuttosto rappresentare un ostacolo per il pieno godi-mento della prima. Il Pontefice riconosce che

una possibile causa di tale hypostolè dalla fede stia anche nella presentazione “indivi-dualistica” della speranza cristiana (cfr. SS 10). Aggiunge:

“Di questa speranza si è accesa nel tempo moderno una critica sempre più dura: si tratterebbe di puro individualismo, che avrebbe abbandonato il mondo alla sua miseria e si sarebbe rifugiato in una salvez-za eterna soltanto privata” (SS 13).

Un eloquente esempio di tale privatizzazio-ne della visione salvifica è nelle parole raccolte nel celebre testo di uno dei padri precursori dell’ecclesiologia del Vaticano II, H. de Lubac: “Ho trovato la gioia? No … Ho trovato la mia gioia. E ciò è una cosa terribilmente diversa … La gioia di Gesù può essere individuale. Può appartenere ad una sola persona, ed essa è salva. È nella pace …, per ora e sempre, ma lei sola. Questa solitudine nella gioia non la turba. Al contrario: lei è, appunto, l’eletta! Nella sua beatitudine attraversa le battaglie con una rosa in mano”2.

È di tutta evidenza che una simile visione egoistica della salvezza riservata a pochi eletti ha alimentato la riprovazione morale di quanti per eccesso d’amore nei confronti dell’umanità -penso, ad esempio, a Nietzsche, oltre che all’Ivan Karamazov, di Dostoëvskji, citato in SS 44 -hanno lanciato il loro “j’accuse” a Dio o per meglio dire nei riguardi di certe erronee presentazioni di una lieta novella per pochi intimi, dove l’importante è che io l’abbia fatta franca, succeda quel che succeda al resto del mondo.

In realtà, la salvezza che Cristo è venuto a donare è un “ristabilimento dell’unità”. Se il peccato è distruzione dell’unità del genere umano, la redenzione non può che essere nella riedificazione della comunità: è questo a fondare il “carattere comunitario della spe-ranza” (SS 14). La speranza cristiana, chiarisce Benedetto XVI,

“[…] ha di mira, sì, qualcosa al di là del mondo presente, ma proprio così ha a

2 J. GIONO, Les vraies richesses, Paris 1936, Préface in: H. DE LUBAC, Catholicisme. Aspects sociaux du dogme, Paris 1983, VII.

139Notegiugno 2008 - anno VIII

che fare con l’edificazione del mondo” (SS 15).

Non è un caso se il Pontefice richiama l’inse-gnamento di san Bernardo di Chiaravalle, per il quale i monasteri non rappresentavano il luogo della fuga dal mondo, ma della speranza per il mondo, secondo il detto dello Pseudo-Rufino: “Il genere umano vive grazie a pochi; se non ci fossero quelli, il mondo perirebbe”.3

Il mondo umano vive grazie a pochi! … Viene in mente l’intercessione di Abramo per Sodoma (cfr. Gen. 18, 16-33). Sarebbero bastati dieci giusti per salvare una grande e corrotta città come Sodoma. Dieci giusti! Chiediamoci: quanti siamo stasera? Chiediamocelo, prima di predicare sulla corruzione della società in cui viviamo. Se tra noi, stasera, ci fossero almeno dieci giusti, Corato sarebbe salva, la diocesi sarebbe salva, la Chiesa, il mondo sarebbero salvi ...

Ma ritorniamo all’analisi del Pontefice sul rapporto fede/speranza nella modernità. Be-nedetto XVI, ai nn. 16 e 17 della Spe Salvi, richiama il Novum Organum di Francesco Baco-ne (Londra, 1561-1626), uno dei padri dell’era moderna, che si prefiggeva appunto di fornire un nuovo ed organico strumento di conoscenza applicata alla realtà. A suo giudizio, il tempo moderno celebra la “victoria cursus artis super naturam”, la vittoria del corso dell’arte sulla natura. Un’affermazione che celebra il dominio dell’uomo sulla creazione, dominio ricevuto da Dio al momento della creazione e poi smarrito col peccato originale. Dominio ristabilito, dun-que, proprio grazie al potere della scienza: un potere dell’uomo e dall’uomo, non ricevuto da Dio. Grazie alla scienza e dalla scienza, non già dalla fede, l’uomo moderno attende la propria redenzione. Di conseguenza, l’unico spazio ancora agibile per la fede evangelica è quello dell’ambito privato. Viceversa, la fede moderna ha pubblico riconoscimento e si qua-lifica come fede nel progresso.

Mi do licenza di aggiungere che accanto al ruolo determinante degli scritti di Bacone, mi

sarei atteso nell’analisi del Pontefice almeno altre due citazioni, una per Galileo (1564-1642) e l’altra per Cartesio (Le Haye 1596 -Stoccolma 1650). Infatti, il primo con la sue rivoluzionarie scoperte ha posto le basi per una critica scienti-fica dell’errato modo di leggere e interpretare le Scritture da parte della Chiesa del suo tempo, minandone definitivamente la credibilità agli occhi della società contemporanea -tanto più per essere stato costretto all’abiura. Il secondo, con la sua radicale separazione tra res cogitans e res extensa, ovvero tra pensiero e materia, tra mondo ideale e mondo pratico, tra campo filo-sofico/teologico e campo scientifico ha ultima-tivamente segnato la cesura tra fede e scienza, la prima relegata nell’ambito delle cose astratte e private, la seconda ammessa nel regno della sola conoscenza riconosciuta come tale dalla società moderna. In simile prospettiva, è solo grazie alla scienza se potrà emergere, sono ancora parole del Papa, “un mondo totalmente nuovo, il regno dell’uomo” (SS 17).

Un mondo in cui il binomio ragione/libertà dell’uomo moderno non riconosce più limiti né intrinseci, né estrinseci, a cominciare dalla rigida esclusione dell’indicazioni assiologiche della Chiesa o normative dello Stato. In que-st’ultima osservazione si può già ritrovare il seme della critica di fondo a cui tale visione non sembra potersi sottrarsi e che il Pontefice riprenderà successivamente (cfr. SS 24-31). In definitiva, essa è così riassumibile: il limite che la ragione moderna, la ragione scientifica, intende negare è eteronomo, per cui per superarlo basta negarne la fonte di au-torità, o autonomo, ovvero radicato nel cuore dell’uomo?

Nella risposta a questo interrogativo di fon-do sta la grandezza e la radicale insufficienza, il sogno e la disillusione di cui si fa latrice, per continuare a seguire l’excursus storico di Benedetto XVI, la Rivoluzione Francese. Essa, infatti, insegue un sogno, perché segna “[…] la vittoria del principio buono su quello cattivo

3 Sententiae III, 118: CCL 6/2, 215.

140 Note giugno 2008 - anno VIII

e la costituzione di un regno di Dio sulla terra”. Sono queste le parole che danno il titolo ad uno scritto di Kant del 1792, citato in SS 19, un Kant che profetizza “[…] il passaggio graduale dalla fede ecclesiastica al dominio esclusivo della pura fede religiosa” 4, al fine di rendere più vicino e attuale il regno di Dio in questo mondo, un mondo liberato grazie all’opera della fede nella ragione e non più costretto all’obbedienza dalla fede nella Chiesa. Ma, dicevamo, il sogno della Rivoluzione Francese è ben presto atteso dal risveglio e da una amara disillusione. È lo stesso Kant, appena due anni dopo, a scrivere:

“Se il cristianesimo un giorno dovesse arri-vare a non essere più degno di amore […] allora il pensiero dominante degli uomini dovrebbe diventare quello di un rifiuto e di un’opposizione contro di esso […]. In seguito, però, poiché il cristianesimo, pur essendo destinato ad essere religio-ne universale, di fatto non sarebbe stato aiutato dal destino a diventarlo, potrebbe verificarsi, sotto l’aspetto morale, la fine (perversa) di tutte le cose”5.

Benedetto XVI continua la sua presenta-zione del rapporto speranza/modernità con la riflessione sulla successione, nell’800, della rivoluzione proletaria alla settecentesca rivolu-zione borghese. Nel XIX secolo, la nascita del proletariato industriale e dell’analisi scientifica dei processi di produzione indurranno il marxi-smo a pubblicare il celebre Manifesto del 1848. Commenta il Papa:

“Il progresso verso il meglio, verso il mondo definitivamente buono, non viene

più semplicemente dalla scienza, ma dalla politica, da una politica pensata scientifi-camente” (SS 20).

Non è difficile riconoscersi nella osservazio-ne che Benedetto XVI puntualmente annota: Marx ci ha indicato come effettuare il “rove-sciamento” dello status quo, nulla ci ha detto di come la comunità umana avrebbe dovuto procedere in seguito alla rivoluzione proletaria (cfr. SS 21). Continua la Spe Salvi:

“Così, dopo la rivoluzione riuscita, Lenin dovette accorgersi che negli scritti del maestro non si trovava nessun’indicazione sul come procedere. Sì, egli aveva parlato della fase intermedia della dittatura del proletariato come di una necessità che, però, in un secondo tempo da sé si sa-rebbe dimostrata caduca. Questa «fase intermedia» la conosciamo benissimo e sappiamo anche come si sia sviluppata, non portando alla luce il mondo sano, ma lasciando dietro di sé una distruzione desolante. Marx non ha solo mancato di ideare gli ordinamenti necessari per il nuovo mondo -di questi, infatti, non do-veva esserci bisogno. Che egli di ciò non dica nulla, è logica conseguenza della sua impostazione. Il suo errore sta piuttosto in profondità. Egli ha dimenticato che l’uo-mo rimane sempre uomo. Ha dimenticato l’uomo e ha dimenticato la sua libertà. Ha dimenticato che la libertà rimane sempre libertà, anche per il male. Credeva che, una volta messa a posto l’economia, tutto sarebbe stato a posto. Il suo vero errore è il materialismo: l’uomo, infatti, non è solo il prodotto di condizioni economiche e non è possibile risanarlo solamente dal-l’esterno creando condizioni economiche favorevoli” (SS 21).

Un’analisi che ha il merito di mettere a nudo il nucleo concettuale della cultura moderna, nel bene e nel male, nella sua legittima e volenterosa aspirazione alla felicità e nella sua miope ed anche arrogante pretesa di bastare a se stessa, di riuscire -senz’altro riferimento e da sola -a garantire ogni risposta alle domande più profonde, insite nel cuore dell’uomo.

Ritengo che, mutatis mutandis, ovvero con gli opportuni adattamenti, tale analisi sia applicabile anche al materialismo capitalista che oggi vessa la nostra opulenta società

4 I. KANT, Der Sieg des guten Prinzips über das böse und die Gründung eines Reichs Gottes auf Erden (La vittoria del principio buono su quello cattivo e la costituzione di un regno di Dio sulla terra), in: Werke IV, a cura di W. Weischedel (1956), 777. Le pagine sulla Vittoria del principio buono compongono il capitolo terzo dello scritto Die Religion innerhalb der Grenzen der bloßen Vernunft (La religione entro i limiti della sola ragione), pubblicato da Kant nel 1793.

5 IDEM, Das Ende aller Dinge, in: Werke VI, a cura di W. Weischedel (1964), 190.

141Notegiugno 2008 - anno VIII

occidentale. Se, infatti, Marx prometteva una felicità frutto di un sistema economico fondato sulla condivisione dei processi di produzione e di ripartizione dei beni, il modello capitalista lusinga le nostre menti ed i nostri cuori con la prospettiva di realizzare la felicità attraverso il maggior consumo possibile. Credo proprio che la speranza del meccanismo di produzione e di-stribuzione dei beni nel modello capitalista sia, in definitiva, la speranza di poter consumare sempre di più ed illimitatamente. Non a caso, è sufficiente che ci siano voci sulla presunta o reale indisponibilità di questa o quella materia prima per alterare e spesso mettere in crisi i mercati ed i loro santuari, cioè le borse delle maggiori città di tutto il mondo.

Un’ulteriore osservazione mi sia concesso aggiungere. La Spe Salvi stranamente non cita in alcun modo un altro movimento culturale fondamentale nella storia delle idee dell’800. Mi riferisco alla dottrina del Positivismo, punto di arrivo di quella rivoluzione scientifica e filo-sofica che da Galileo, Bacone e Cartesio giunge sino al XX secolo e individua nella religione della scienza lo stadio più alto del progresso storico dell’umanità. Peraltro, senza l’anello del Posi-tivismo, non sarebbero neppure immaginabili le sue propaggini in età contemporanea, con l’avvento, in particolare, dell’era tecnocratica. È nel connubio tra sempre nuove ed inimma-ginabili scoperte scientifiche e la loro applica-zione tecnologica che prende corpo, ancora oggi, la promessa di soddisfare ogni bisogno dell’uomo, a condizione di poter disporre di una libertà assoluta nel campo della ricerca e delle sue applicazioni pratiche. A tal riguardo, pur non presentando una specifica analisi del Positivismo, Benedetto XVI ammonisce:

“Non è la scienza che redime l’uomo. L’uomo viene redento mediante l’amore” (SS 26).

Che cosa, dunque, possiamo sperare? È questa una domanda che accomuna credenti e non, cristiani e non cristiani, in un dialogo -come riconosce il Pontefice -in cui “l’autocritica dell’età moderna confluisca in un’autocritica

del cristianesimo moderno”, lodevole afferma-zione di principio che forse avrebbe meritato maggiore sviluppo nella medesima Enciclica. Ad ogni modo, citando Theodor W. Adorno, Benedetto XVI ricorda che il progresso visto da vicino assomiglia più al passaggio dalla fionda alla megabomba che non ad un reale innalza-mento del livello di civiltà; e prosegue:

“Questo è, di fatto, un lato del progresso che non si deve mascherare. Detto altri-menti: si rende evidente l’ambiguità del progresso. Senza dubbio, esso offre nuove possibilità per il bene, ma apre anche pos-sibilità abissali per il male -possibilità che prima non esistevano […]. Se al progresso tecnico non corrisponde un progresso nella formazione etica dell’uomo, nella crescita dell’uomo interiore (cfr. Ef. 3,16; 2 Cor. 4,16), allora esso non è un progresso, ma una minaccia per l’uomo e per il mondo” (SS 22).

Del resto, è sufficiente ricordare brevemente i gravi problemi che affliggono la comunità locale e mondiale -dal buco nell’ozono all’ef-fetto serra, dall’inquinamento dell’aria e delle acque all’emergenza rifiuti che tutti sempre più producono e sempre meno vogliono stoccare -per rendersi conto di quanti e quali mali abbia arrecato all’ecosistema un modello di sviluppo che non solo non è a misura d’uomo, ma contro l’uomo si ritorce. Ha ragione, dunque, il Pontefice quando si interroga e ci interroga: in quali termini la ragione, dono di Dio, è in grado di esercitare realmente il suo dominio? La sola ragione del potere e del fare è forse la ragione tutta intera (cfr. SS 23)?

In realtà, la ragione è fedele a se stessa solo quando è in grado di offrirsi come guida della volontà umana, vale a dire quando riconosce che il suo ruolo è quello di andare oltre se stessa, pena contribuire alla realizzazione di un mondo senza speranza, perché senza Dio (cfr. Ef. 2,12; SS 2.26). La conclusione di Benedetto XVI si impone:

“Non vi è dubbio che un «regno di Dio» realizzato senza Dio -un regno quindi del-l’uomo solo -si risolve inevitabilmente nel-la «fine perversa» di tutte le cose descritta

142 Note giugno 2008 - anno VIII

da Kant: l’abbiamo visto e lo vediamo sem-pre di nuovo. Ma non vi è neppure dubbio che Dio entra veramente nelle cose umane solo se non è soltanto da noi pensato, ma se Egli stesso ci viene incontro e ci parla. Per questo la ragione ha bisogno della fede per arrivare ad essere totalmente se stessa: ragione e fede hanno bisogno l’uno dell’altra per realizzare la loro vera natura e la loro missione” (SS 23).

Aggiungo: ed hanno bisogno della speranza per essere liberate dall’angoscia che attanaglia il cuore di ogni uomo, un uomo che ha i prati in fiore, le stelle del cielo, il mare, l’arcobaleno eppure troppo spesso è capace solo di vedere e far vedere il nero, … perché non attende più nulla e nulla ha più da sperare.

Che cosa, dunque, possiamo sperare? E che cosa non ci è concesso sperare? Abbiamo in primo luogo il compito di riconoscere che nessuna “struttura” umana è, di per sé, in grado di garantire “il retto stato delle cose umane”. In secondo luogo, non dobbiamo mai dimenticare che l’uomo è sempre libero e che la sua libertà è fragile, va sempre riconquistata, ragion per cui chi promette paradisi futuri e duraturi, sotto questo cielo, “fa una promessa vana” (cfr. SS 24).

Conseguentemente,

“[…] la sempre nuova faticosa ricerca di retti ordinamenti per le cose umane è compito di ogni generazione; non è mai compito semplicemente concluso. Ogni generazione, tuttavia, deve anche recare il proprio contributo per stabilire convin-centi ordinamenti di libertà e di bene, che aiutino la generazione successiva come orientamento per l’uso retto della libertà umana e diano così, sempre nei limiti uma-ni, una certa garanzia anche per il futuro. In altre parole: le buone strutture aiutano, ma da sole non bastano. L’uomo non può mai essere redento semplicemente dal-l’esterno” (SS 25).

Si torna così a quello che mi sembra lo sno-do centrale di tutta l’Enciclica. Da chi o da cosa, in definitiva, l’uomo può essere sal-vato? Da chi o da cosa può sperare senza il timore che la sua speranza vada delusa?

Non dalla scienza, non dalla politica scien-tificamente applicata, non dal progresso, non da un ordinamento per quanto retto: solo da un amore eterno e incondizionato l’uomo può attendere la propria redenzio-ne. Solo se veramente nulla potrà separar-ci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, e solo “[…] se esiste questo amore assoluto con la sua certezza assoluta, allora -soltanto al-lora -l’uomo è «redento», qualunque cosa gli accada nel caso particolare” (SS 26). È questo che l’Apostolo intende quando confessa: “Questa vita che vivo nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal. 2,20).

È legittimo a questo punto chiedersi: siamo tornati ad una visione individualistica della salvezza? Assolutamente no, perché la novità evangelica ci rivela che non c’è rapporto con Dio, senza comunione con Gesù:

“La relazione con Gesù, però, è una rela-zione con Colui che ha dato se stesso in riscatto per tutti noi (cfr. 1Tm. 2,6) […]. Dall’amore verso Dio consegue la parteci-pazione alla giustizia e alla bontà di Dio verso gli altri […]. Cristo è morto per tutti. Vivere per Lui significa lasciarsi coinvolge-re nel suo «essere per»” (SS 28).

Parole, quelle del Papa, che devono far riflet-tere la comunità ecclesiale e guidare quell’au-tocritica cui poco fa si accennava. Siamo tutti chiamati a chiederci quanto lo stile di vita della nostra comunità sia in grado di far tralucere la novità evangelica che ha liberato dalla morte le nostre esistenze e le ha rese esistenze nuove, redente. Benedetto XVI non manca di indicare un modello di paragone per l’azione dei Pastori e dei fedeli, quando richiama l’azione quoti-diana di S. Agostino:

“Correggere gli indisciplinati, confortare i pusillanimi, sostenere i deboli, confuta-re gli oppositori, guardarsi dai maligni, istruire gli ignoranti, stimolare i negligenti, frenare i litigiosi, moderare gli ambiziosi, incoraggiare gli sfiduciati, pacificare i con-tendenti, aiutare i bisognosi, liberare gli

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oppressi, mostrare approvazione ai buoni, tollerare i cattivi e [ahimé] amare tutti”6.

In sintesi, molte sono le speranze che alber-gano nel cuore dell’uomo, ma nessuna di esse “va oltre” per giungere là dove il suo cuore anela. Il tempo moderno ha coltivato la speran-za di un mondo perfetto, instaurato grazie al contributo della scienza e dell’azione politica, ma questa si è rivelata innanzitutto una spe-ranza “del dopodomani” e non “per me” e soprattutto si è dimostrata essere una speranza “contro la libertà” (cfr. SS 30). Inoltre:

“Noi abbiamo bisogno delle speranze -più piccole o più grandi -che, giorno per giorno, ci mantengono in cammino. Ma senza la grande speranza, che deve superare tutto il resto, esse non bastano. Questa grande speranza può essere solo Dio” (SS 31).

Giunge qui l’analisi del Pontefice sul rappor-to tra speranza e modernità, ma non termina qui l’Enciclica che poi si spinge ad indicare i “luoghi di apprendimento e di esercizio della speranza” -rispettivamente, la preghiera (cfr. SS 32-34), l’agire e il soffrire (cfr. SS 35-40), il Giudizio (SS 41-48). Non essendo essi oggetto di questo breve studio, mi fermo qui, ma non senza aver citato un’autrice a me cara, che sono persuaso abbia molto da insegnare a quei cristiani che ritengono di poter professare la propria fede in Dio a forza di proclamare il loro contemptus mundi. Scrive S. Weil:

“Si testimonia meno bene a favore di Dio parlando di Lui piuttosto che esprimendo, in atti o in parole, l’aspetto nuovo che la creazione assume quando l’anima è pas-

sata per il Creatore. In verità è solo così che si testimonia. Morire per Dio non è una testimonianza che si ha fede in Dio. Morire per un pregiudicato sconosciuto e ripugnante che subisce un’ingiustizia, questa è una testimonianza che si ha fede in Dio […].Quando nel modo di agire ver-so le cose e gli uomini, o semplicemente nel modo di considerarli, appaiono virtù soprannaturali, si sa che l’anima non è più vergine, che si è congiunta con Dio; fosse pure a sua insaputa, come una giovane violentata durante il sonno. Questo non ha importanza, importa solo il fatto”7.

Sono parole scritte sessantacinque anni fa, che a mio avviso ben si integrano con quelle di Benedetto XVI, il quale precisa:

“Il nostro agire non è indifferente davanti a Dio e quindi non è neppure indifferente per lo svolgimento della storia. Possiamo aprire noi stessi e il mondo all’ingresso di Dio: della verità, dell’amore, del bene. È quanto hanno fatto i santi che, come «collaboratori di Dio», hanno contribuito alla salvezza del mondo (cfr. 1 Cor. 3,9; 1 Ts. 3,2)” (SS 35).

La speranza del mondo è la nostra speranza. La nostra speranza, però, non ci appartiene. È un dono di Dio, che ci viene concesso gratuita-mente per la nostra salvezza e per la salvezza del mondo. Un mondo senza speranza è un mondo che non è stato fecondato dal seme dei cristiani. “Colpa di un terreno arido e non dissodato” -si dirà. Mi sia consentito suggerire: incominciamo ad interrogarci sulla non sterilità del seme e abbiamo cura di un terreno che è quanto mai assetato di Dio, la sola speranza in grado di illuminare la mia storia ed ogni storia.

6 Confessiones, X 43, 70: CSEL 33, 279; l’esclamazione tra parentesi quadra, si badi bene, è di Benedetto XVI, cfr. SS 29.

7 La connaissance surnaturelle, Gallimard, Paris 1950; edizione italiana: Quaderni, vol. IV, traduzione con saggio introduttivo di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1993, 181-3.

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Teologia e Diritto Penale

di PAOLO FARINA**

Ringrazio gli organizzatori per il gentile in-vito rivoltomi e per la possibilità che mi viene concessa di offrire un piccolo saggio su un tema di grande interesse. Viviamo nell’epoca della società liquida, come insegna Z. Bau-mann1, per cui assume un’importanza nuova e, in qualche misura, assoluta il valore del dialogo tra culture differenti o anche semplicemente tra punti di vista differenti, nonché tra distinti approcci metodologici e sistemici nei confronti di un medesimo argomento.

Va da sé che “differente” non significa di per sé “ostile”, così come “distinto” non vuol anche dire “distante”. Anzi, il presente contributo punta esattamente nella direzione opposta. Si propone, infatti, di sottolineare come alcune delle acquisizioni basilari del dirit-to penale affondino le loro antiche radici nella rivelazione biblica vetero e neotestamentaria e nella successiva riflessione teologica, come

Premessa

avrete modo di ascoltare anche dalla voce di don Luigi Renna - il cui intervento costituirà il secondo tempo della presente riflessione.

D’altro canto, la Bibbia, pur contenendo un numero altissimo di norme, anche di carattere penale, non è, beninteso un codice penale e le sanzioni anche durissime che in alcune pagine famigerate vengono comminate - si pensi solo a certi passi del libro dell’Esodo o del Levitico o ancora di quello dei Numeri - devono sem-pre essere ricondotte nell’alveo della storia di Israele, prima, e nella rivelazione di Gesù Cristo, poi, per non prestare il fianco ad interpretazioni ondivaghe ed arbitrarie.

La Bibbia, infatti, si legge con la Bibbia, ovvero grazie alla capacità di conoscere il sitz im leben in cui una certa parola è stata scrit-ta, il contesto storico in cui è nata, il genere letterario adottato, le intenzioni dell’autore, i destinatari del suo scritto, i passi paralleli del medesimo testo.

* Intervento tenuto presso l’Università degli Studi di Bari il 13 maggio 2008.

** Docente stabile di Antropologia teologica - Istituto Superiore di Scienze Religiose San Nicola il Pellegrino - Trani.1 Secondo il sociologo, ebreo di origini polacche, il nostro tempo si identifica con la fine delle “grandi narrazioni”

del Novecento, il che significa che si è esaurita l’epoca delle grandi ideologie. Conseguentemente, sarebbe anche stata superata la pretesa di scoprire verità assolute. La “liquidità” rimane il solo approdo possibile per una società che, in luogo di una sola verità, ne offre molteplici, ciascuna adeguata alla misura di chi intende servirla o servirsene (Cfr. Z. BAUMANN, Modernità liquida, trad. it. Laterza, Roma-Bari 2002).

Incontro Seminariale - Università degli Studi di Bari*

146 Note giugno 2008 - anno VIII

Solo mettendo insieme fattori così articolati si può essere ragionevolmente sicuri di non far dire alla Bibbia quello che la nostra personale sensibi-lità, sempre esposta ai condizionamenti culturali del tempo in cui si vive, vorrebbe farle dire.

Ciò detto, mi sia concessa un’ultima telegra-fica premessa. Il tempo a nostra disposizione è

troppo breve e, viceversa, l’argomento troppo vasto perché si possa pensare di esaurirlo in questa sede. In realtà, mi limiterò a sottoporvi solo alcuni “flash”, tratti dall’Antico e dal Nuo-vo Testamento, che ritengo sufficientemente eloquenti per avviare una significativa riflessio-ne sul rapporto tra teologia e diritto penale.

Il segno di Caino

Si legge nel libro della Genesi: “Il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpis-se chiunque l’avesse incontrato” (Gen. 4,15). È noto come questo versetto biblico abbia ispirato la nascita dell’associazione Nessuno tocchi Caino, una Onlus italiana, affiliata al Par-tito Radicale Transnazionale, che aveva come proprio principale obiettivo la concessione della moratoria universale della pena di morte.2 La stessa associazione precisa che Nessuno tocchi Caino vuol dire “giustizia senza vendetta”: Caino va sì toccato, ma punito in proporzione alle sue colpe, mai con la pena di morte. 3

Il “segno di Caino” non è, dunque, un mar-chio di infamia, ma un segnale che identifica Caino come colui che, pur punito da Dio, non deve essere privato della vita. La condanna a morte di Caino risulterebbe, infatti, una ven-detta e non un castigo adeguato alla sua colpa. Ora, è proprio nel concetto di “pena giusta” o “proporzionata”, per un delitto efferato quale quello di cui si è macchiato Caino, il primo significativo contributo della rivelazione biblica

al tema oggetto della nostra riflessione. A fron-te, di una apparentemente legittima richiesta di vendetta, a fronte di un apparentemente fondata invocazione della pena di morte per chi è così crudele da uccidere, per mera invidia, un fratello innocente, la risposta del libro della Genesi è di segno diverso e, oserei dire, rivo-luzionario: è il “segno” di JHWH a proteggere Caino da ogni ardore di vendetta! Chi alzerà la mano su Caino, si renderà colpevole di un delitto di gran lunga peggiore del suo, … per-chè avrà osato alzare la mano su Dio! Caino infatti è sotto la protezione di Dio: chi tocca Lui sfida la giustizia stessa di Dio.

Lo stretto connubio tra delitto e castigo, dunque, ha delle radici antiche, ma già nell’età per noi più remota si evince un interrogativo di fondo sul limite da assegnare alla sanzione, affinché questa sia giusta e si tenga distante tanto da un ingenuo “perdonismo” quanto dall’assenza di ogni misura nella repressione e punizione del delitto. Del resto, il dibattito su come individuare un adeguato confine tra pena

2 La campagna per la moratoria universale della pena di morte parte nel 1993. L’anno successivo, una prima risoluzione fu presentata all’Assemblea Generale dell’ONU dal governo Berlusconi. La risoluzione venne respinta per soli otto voti. Dal 1997, su iniziativa italiana, e dal 1999, su iniziativa europea, la Commissione dell’ONU per i Diritti Umani ha approvato ogni anno una risoluzione per una moratoria delle esecuzioni capitali, in vista della completa abolizione della pena di morte. Nel 2006, il Governo Prodi ha riproposto, questa volta con successo, la mozione per la moratoria. Il 15 novembre 2007 la Terza commissione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato con 99 voti favorevoli, 52 contrari e 33 astenuti la risoluzione per la moratoria universale sulla pena di morte. Il 18 dicembre 2007 l’Assemblea Generale delle Nazioni unite ha ratificato, 104 voti a favore, 54 contrari e 29 astenuti, la moratoria approvata dalla commissione (Cfr. M. VALSANIA, Pena di morte, sì alla moratoria, “Il Sole 24 ORE”, 16 novembre 2007; L’Onu approva la moratoria sulla pena di morte, “Wikinews”, 18 dicembre 2007).

3 Nessuno tocchi Caino è stata fondata a Bruxelles nel 1993, ad opera dei parlamentari Mariateresa Di Lascia e Sergio D’Elia (ex dirigente della formazione terroristica comunista Prima Linea): cfr. www.nessunotocchicaino.it/.

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giusta e condanna vendicativa, credo - ma vi prego di correggermi, se sbaglio - sia ancora del tutto aperto. Che cos’è veramente “equo”? Quale principio non viene mai meno, pur nella irrazionale e imprevedibile molteplicità di casi disparati? Quando si può essere certi di non macchiarsi, comminando una sanzione, di un delitto analogo, se non peggiore, di quello che si vuol punire?

Bene, a fronte di interrogativi del genere, una prima risposta è rintracciabile nel “segno di Caino”: nessuna pena può dirsi proporzio-nata, se priva della vita colui che si è macchiato anche del più inumano dei delitti. Caino dovrà sì fuggire “ramingo e fuggiasco sulla terra”, ma chiunque attenterà alla sua vita subirà “la vendetta sette volte” (Gen. 4,14). In altri termini, la giustizia divina, da un lato, non giustifica mai una pena senza ritorno, una pena che non corregge il criminale; dall’altro, non concede una impunità “a poco prezzo”, un indulto generico, poco rispettoso, anzi iniquo, nei confronti di chi quel delitto ha subito. Si tratta di due facce della medesima medaglia, prescindendo dalle quali, si rischia di mettere in atto un male maggiore del delitto che si intende sanzionare.

Bentham, che non era un credente e nep-pure un fautore del contratto sociale, asseriva che ogni punizione è in se stessa un male e che, dovendo ammetterla, la si può comminare solo al fine di evitare un male maggiore. La sua è una posizione che evidentemente si ispira ai principi dell’utilitarismo. Nondimeno, contiene un invito autorevole a riflettere su come si debba “retribuire” il male commesso.

Mi riferisco al fatto che, ancora oggi, non pochi sono convinti che nulla più della pena di morte garantisca la sicurezza sociale e liberi la società dai crimini più efferati. C’è forse un deterrente più forte del rischio di perdere la propria vita? C’è un modo più efficace che liberarsi definitivamente del reo impenitente? Crimini inenarrabili, come quello del genitore austriaco capace di segregare per 24 anni sua figlia in una cella, stuprandola e condannando ad un’esistenza disumana i figli frutto del suo incesto, non meritano forse la pena estrema?

Eppure - anche in questo caso vi prego di soccorrermi, se sono in errore - mi sembra che le statistiche siano inequivocabili: non si può in alcun modo dimostrare un nesso diretto tra le forme apicali di repressione e la riduzione del tasso di criminalità. Al contrario, i Paesi che continuano ad applicare la pena di morte sono sovente quelli afflitti da un più alto numero di omicidi…

In definitiva, chi invoca la pena di morte sembra farlo più per un atteggiamento ma-nicheo che per una reale efficacia della pena di morte. Al contrario, nessuno tocchi Caino significa che questo non è il “migliore dei mon-di possibili”, come voleva Leibniz, ma neanche il peggiore, come ribatteva Lessing. Non è un mondo puro e immacolato, in cui dunque si deve sopprimere chi ha osato contaminarne la perfezione, ma neppure è un mondo in cui il reo può godere della sua impunità. È un mondo dove il bene e il male si affrontano, ma non alla pari. Caino elimina Abele e, dunque, sembra prevalere, ma viene a sua volta inchiodato definitivamente alle sue responsabilità, che lo seguiranno per il resto dei suoi anni, e dunque di certo non è il vincitore.

È questa, in ultima analisi e secondo il dettato genesiaco, la via seguita dalla giu-stizia divina, per mantenersi in un punto di equidistanza tanto da coloro che invocano ad alta voce la pena di morte, quanto da coloro che ritengono che il perdono non comporti l’esercizio della giustizia.

D’altra parte, Ruskin scriveva che è ingenuo pensare di prevenire i delitti, se si pensa soltan-to a punirli una volta che sono stati commessi. Sarebbe, invece, necessario adoperarsi per delle condizioni sociali, economiche e culturali tali da mettere ciascuno in condizione di non diventare un delinquente. Da questo punto di vista, la pena di morte scopre tutta la sua inadeguatezza e si manifesta per quello che in realtà essa è: un voler agire sull’effetto, piuttosto che sulla causa che quell’effetto ha determinato.

Come se ciò non bastasse, ritengo che il “se-gno di Caino” provochi un’ultima riflessione sui limiti e l’imperfezione della giustizia umana,

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che, come tale, non deve mai presentarsi come irrevocabile e assoluta. Secondo una indagine dello Stanford Law Review, nel secolo che è ormai alle nostre spalle, non meno di 350 condannati a morte negli Stati Uniti, sono stati in seguito riconosciuti innocenti!4

Chiediamoci: si può forse correre a cuor leg-gero il rischio di punire l’innocente, quando la giustizia è sottoposta ai limiti propri dell’uomo: errori di valutazione, corruzione, falsificazione

delle prove, inesperienza e via dicendo? Per chiudere su questo punto, prendo a prestito le parole di Victor Hugo, che mi sembrano contengano il miglior commento al “segno di Caino”: “Vendicarsi è dell’individuo, punire è di Dio. La società è tra i due. Il castigo è al di sopra di essa, la vendetta è al di sotto. Niente di così grande o di così piccolo gli si attaglia. Essa non deve «punire per vendicarsi»; deve correggere per migliorare”.5

La legge del taglione e la novità evangelica

La legge del taglione è comunemente citata secondo la massima biblica “occhio per occhio,

4 Cfr. R. CATALDI, La giustizia imperfetta, Bologna, 1998; si veda anche IDEM, Il segno di Caino, in www.studioca-taldi.it/letture/caino.asp

5 Citato in R. CATALDI, Il segno di Caino, o. c.6 Come è noto, il Codice di Hammurabi è una fra le più antiche raccolte di leggi a noi pervenute. Venne redatto

sotto il regno del re babilonese Hammü-Rabi, da cui prende il nome, il quale regnò dal 1792 al 1750 avanti Cristo. La raccolta si compone di circa 300 leggi ed è scolpita su di una stele in diorite, alta poco più di due metri e rinvenuta a fine Ottocento nella città di Susa, in Iraq. Oggi è conservata al Louvre, Parigi: “Il corpus legale è suddiviso in capitoli che riguardano varie categorie sociali e di reati, e abbraccia in pratica tutte le possibili situazioni dell’umano convivere del tempo, dai rapporti familiari a quelli commerciali ed economici, dall’edilizia alle regole per l’amministrazione della cosa pubblica e della giustizia. Le leggi sono notevolmente dettagliate, e questo ha fornito un aiuto prezioso agli archeologi, consentendo loro di ricostruire importanti aspetti pratici della società mesopotamica. L’importanza del codice di Hammurabi risiede certo nel fatto che si tratta della prima raccolta organica di leggi a noi pervenuta, ma soprattutto nel suo essere pubblico, o per meglio dire pubblicamente consultabile, esplicitando il concetto giuridico della conoscibilità della legge e della presunzione di conoscenza della legge. Il cittadino babilonese aveva perciò la possibilità di verificare la propria condotta secondo le leggi del sovrano, e quindi di evitare determinati comportamenti, o di scegliere di attuarli a suo rischio e pericolo. Per la prima volta nella storia del diritto, i comportamenti sanzionabili e le eventuali pene vengono resi noti a tutto il popolo (o almeno a chi fosse in grado di leggere). Il codice fa un larghissimo uso della Legge del taglione, ben nota nel mondo giudaico-cristiano per essere anche alla base della legge del profeta biblico Mosè, che probabilmente deriva proprio dal Codice di Hammurabi. La pena per i vari reati è infatti spesso identica al torto o al danno provocato: occhio per occhio, dente per dente. Ad esempio la pena per l’omicidio è la morte: se la vittima però è il figlio di un altro uomo, all’omicida verrà ucciso il figlio; se è uno schiavo l’omicida pagherà un’ammenda, commisurata al “prezzo” dello schiavo ucciso. Il codice suddivide la popolazione in tre classi:• awîlum (lett. “uomo”), cioè il cittadino a pieno titolo, spesso nobili e paragonabili agli ateniesi della Grecia

classica;• muškenum, uomo “semilibero”, cioè libero ma non possidente, forse simile alla “plebe”, ma di difficile

collocazione sociale (in seguito la parola passò a definire un povero o mendicante, e pare che sia all’origine dell’attuale termine “meschino”, arabo maskîn);

• wardum (fem. amat), a tutti gli effetti schiavo di un padrone, ma con molte analogie con i servi della gleba medievali.

Le varie classi hanno diritti e doveri diversi, e diverse pene che possono essere corporali o pecuniarie. Queste ultime sono commisurate alle possibilità economiche del reo, nonché allo status sociale della vittima. Il Codice di Hammurabi sembra crudele alla nostra sensibilità e al nostro senso di giustizia, ma dobbiamo ricordare che rappresenta comunque un enorme passo avanti per l’umanità per uscire dalla sua originaria anarchia, sia verso

dente per dente”. In altri termini, potremmo dire: talis culpa, talis poena. Voi sapete bene

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che questo principio trova la sua formula-zione più antica, a noi nota, nel “codice di Hammurabi”6 e sapete che troverà una sua codificazione anche nel diritto romano arcaico, più precisamente, nella legge delle “Dodici tavole”7. Dunque, diversamente da quanto si pensa comunemente, questa legge esprime un principio di natura giuridica e non intende in alcun modo codificare l’espressione di una regola di vendetta, sul modello del “cantico di Lamech”, esempio estremo della violenza dilagante nella generazione nata da Caino e dominata dalle leggi della faida.8

Ciò posto, rimane il fatto che la legge del taglione è con ogni probabilità una delle nor-me bibliche più conosciute e misconosciute al contempo, nella misura in cui la si interpreta come una legittimazione della rappresaglia operata a titolo personale. Per degli esperti di diritto come voi, non sarà difficile individuare invece nella legge del taglione la salvaguardia di un principio basilare in diritto, secondo cui la ritorsione o la sanzione devono equivalere al danno o torto subìto, non superarlo. In questo senso va assunto il dettato, ad esempio, di Le-vitico 24:19-20: “Quando uno avrà fatto una lesione al suo prossimo, gli sarà fatto come egli ha fatto: frattura per frattura, occhio per occhio, dente per dente; gli si farà la stessa lesione che egli ha fatto all’altro”.

In realtà tale principio deve la sua per molti versi triste fama al rovesciamento dichiarato dalle parole di Gesù Cristo nel “discordo della montagna”: “Avete inteso che fu detto: Oc-chio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti

percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra” (Mt 5,38-39).

Il “ma io vi dico” di Gesù segna una tale radicale novità da sconvolgere ogni prece-dente rapporto tra torto subito e giusta pena, dando origine alla pessima considerazione che la legge del taglione ha avuto già presso i primi Padri della Chiesa. Non a caso, Isidoro di Siviglia la assimila in maniera inequivocabile alla vendetta: “Talio est similitudo vindictae, ut taliter quis patiatur, ut fecit”.9

Cerchiamo, tuttavia, di sondare in profondi-tà le ragioni che hanno spinto l’autore biblico a formulare il principio “occhio per occhio e dente per dente”, prima ancora di soffermarci sulla trasformazione che dello stesso ha ope-rato il Vangelo di Matteo.

Il contesto in cui, nel libro dell’Esodo, si cita la legge del taglione è quello che segue immediatamente la consegna del decalogo (Es. 20,1-17) e presenta il cosiddetto “codice dell’Alleanza”. In quest’ultimo, vengono espo-ste, nell’ordine, le leggi riguardanti l’altare (Es. 20,22-26), le leggi sugli schiavi (Es. 21,1-11), l’omicidio (Es. 21,12-17), i colpi e le ferite (Es. 21,18-36), i furti di animali (Es. 21,37 - 22,1-3), i delitti che esigono un indennizzo (Es. 22,4-14), la violenza ad una vergine (Es. 22,15-16), leggi morali e religiose (Es. 22,17-27), l’esercizio della giustizia e i doveri verso i nemici. Insomma, il contesto parla di un considerevole sforzo di normare la vita di un popolo che, da nomade e senza regole, viene a stabilirsi in una terra, la terra promessa, ed ha bisogno di norme che garantiscano l’equilibrio e la convivenza.

una primitiva democratizzazione della società, sia come testimonianza storica, che per il riconoscimento intrinseco delle disparità socio-economiche esistenti già all’epoca fra le varie classi. Lo stato di diritto inizia qui”. (http://it.wikipedia.org/wiki/Codice_di_Hammurabi).

7 Per chi avesse procurato lesioni fisiche ad un uomo libero le XII tavole prescrivevano: Si membrum rupsit, ni cum eo pacit, talio esto, ovvero: “Se una persona mutila un’altra e non raggiunge un accordo con essa, sia applicata la legge del taglione”.

8 Si legge in Gen. 4,23-24: “Lamech disse alle mogli: « Ada e Zilla, ascoltate la mia voce: mogli di Lamech, porgete l’orecchio al mio dire: Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette”.

9 SANT’ISIDORO DI SIVIGLIA, Etymologiarum sive originum libri XX.

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Pur nel rigore di taluni provvedimenti, che appaiono senza dubbio meno rigidi se colti non dal nostro attuale punto di vista, ma da quello dei contemporanei, l’orientamento ge-nerale di tali prescrizioni è senza dubbio quello di mitigare le pene e prevenire ogni forma di vendetta gratuita o di giustizia “fai da te”. Si arriva persino - ed in questo senso il dettato evangelico non è del tutto innovativo - a di-sporre per norma un’attenzione per il nemico che può sorprendere coloro che nell’AT sono abituati a cogliere solo i segni di un Dio burbero e crudele. Si legge in Esodo 22,4-5: “Quando incontrerai il bue del tuo nemico o il suo asino dispersi, glieli dovrai ricondurre. Quando vedrai l’asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a se stesso: mettiti con lui ad aiutarlo”.

Indubbiamente, tanta clemenza potrebbe avere fondamento anche in quella che oggi potremmo definire come una sorta di “ragion di Stato”. Un popolo non così numeroso come si vorrebbe far credere, ramingo nel deserto, attorniato da tanti nemici, sarebbe inesorabil-mente condannato all’estinzione, se lasciasse allignare al suo interno la mala pianta del rancore e della vendetta. Per questo, la legge mosaica pone un freno alle ostilità intestine e detta un principio secondo il quale “occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido” (Es 21,24-25; cfr. Lv 24,17-23).

Il ricorso alla legge del taglione faceva sì, peraltro, che la giustizia penale potesse esplicare una funzione educativa e di ammo-nimento. Ecco, per esempio, l’applicazione di tale regola nel caso di processi inquinati per falsa testimonianza:

“Quando un falso testimone si alzerà con-tro qualcuno per accusarlo di un delitto, i due uomini tra i quali ha luogo la conte-stazione compariranno davanti al Signore, davanti ai sacerdoti e ai giudici in carica in quei giorni. I giudici faranno una dili-

gente inchiesta; se quel testimone risulta un testimone bugiardo, che ha deposto il falso contro il suo prossimo, farete a lui quello che egli aveva intenzione di fare al suo prossimo. Così toglierai via il male di mezzo a te. Gli altri lo udranno, teme-ranno, e non si commetterà più in mezzo a te una simile malvagità. Il tuo occhio non avrà pietà: vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede” (Dt 19,16-21).

L’effetto della legge del taglione si estenderà lungo l’intero arco della storia dell’antico Israe-le. Non è un caso se il re Davide, in un’epoca in cui i vincitori non usavano fare prigionieri, decide di risparmiare la metà dei nemici da lui sconfitti: “Sconfisse pure i Moabiti: e, fattili stendere per terra, li misurò con una corda; ne misurò due corde per metterli a morte e una corda intera per lasciarli in vita” (2 Sam 8,2).

Da un punto di vista teologico, potremmo concludere che nell’Antico Testamento si testimonia lo sforzo pedagogico che ispira le pagine sacre. Sant’Agostino avverte: “Novus in Vetere latet, Vetus in Novo patet”10. In altri termini, la Legge mosaica, dal punto di vista del credente in Cristo, aveva il compito di istruire e preparare il popolo d’Israele a ricevere il lieto annunzio di Gesù di Nazaret. Gli Israeliti, figura dell’intera umanità, avevano bisogno di una praeparatio evangelica per accogliere la novità contenuta nella rivelazione cristiana la quale, senza negare il fondamento della precedente rivelazione veterotestamentaria, l’assume per portarla a compimento e svelarne fino in fondo la ricchezza. In questo senso, vanno colte le parole di Paolo: “Così la legge è stata come un precettore per condurci a Cristo” (Gal 3,24).

In effetti, per il Nuovo Testamento è Cristo la “vera luce” venuta nel mondo (Cfr. Gv 1,9; 3,19; 8,12; 9,5; 12,46), colui che ha “cancel-lato l’atto accusatore scritto in precetti” (Col 2,14) e ha abrogato il “comandamento prece-dente a motivo della sua debolezza e inutilità” (Eb 7,18). In sintesi, il Nuovo Testamento scopre nelle parole di Cristo Gesù il superamento della legge del taglione e la definitiva riaffermazione della “regola aurea”, che pure era presente già nella legge di Mosè: “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo,

10 SANT’AGOSINO DI IPPONA, Quæstiones in Heptateucum, 2,73: PL 34,623; cf. Conc. Œcum. Vat. II, Const. dogmatica de Divina Revelatione Dei Verbum, 16.

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ma amerai il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19,18; cfr. Lc 11,27).

In tale senso, più che di radicale novità, do-vremmo dunque parlare di naturale evoluzione di un pensiero insito nella tradizione ebraica, un pensiero che trova nella Legge la regola per educare alla moderazione e all’equità e che individua nell’amore il superamento di ogni regola:

“Non abbiate altro debito con nessuno, se non di amarvi gli uni gli altri; perché chi ama il prossimo ha adempiuto la legge. Infatti il ‘non commettere adulterio’, ‘non uccidere’, ‘non rubare’, ‘non concupire’, e qualsiasi altro comandamento si riassumo-no in questa parola: ‘Ama il tuo prossimo come te stesso’. L’amore non fa nessun male al prossimo; l’amore quindi è l’adem-pimento della legge” (Rm. 13,8-10).

La novità evangelica si spinge peraltro al paradosso e sembra superare di un sol colpo la necessità di individuare una sanzione di carat-tere penale: “Allora Pietro si avvicinò e gli disse: ‘Signore, quante volte perdonerò mio fratello se pecca contro di me? Fino a sette volte?’. E Gesù a lui: ‘Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette’” (Mt. 18,21-22).

Pietro pone il suo interrogativo a Gesù perché ha un problema molto concreto: quante volte deve perdonare? In fondo, la sua domanda è anche la nostra. Dobbiamo forse perdonare sempre? Occorre rinunciare non solo a farsi, ma anche ad aspettarsi giustizia per il torto ricevuto? Premesso che il contesto evangelico non intende certo riferirsi alla giu-stizia umana, la quale deve comunque fare il suo corso (…”Date a Cesare quel che è di Ce-sare e a Dio quel che è di Dio”, si legge in Mc. 12,17) e considerato che si parla del perdono di un’offesa personale, non già dell’indiffe-renza nei confronti di un’ingiustizia sociale o patita da un debole, la risposta di Gesù serve a rendere l’idea della distanza tra la giustizia di Dio, vale a dire dalla sua misericordia, e la giustizia degli uomini.

Pietro, in fondo, chiede una legittimazione - sia pure dopo aver sopportato un certo nu-mero di ingiustizie - per poter rendere “pan per focaccia”, ma la risposta di Gesù, che forse

mantiene una allusione al cantico di Lamech, rovesciandone infinitamente la prospettiva, non gli lascia tregua.

Ancora una volta dobbiamo sottolineare la novità nella continuità: “La prassi giudaica prevedeva il perdono tre volte per una mede-sima colpa. Pietro domanda a Gesù se sono sufficienti sette volte, un numero notevole che implica la perfezione. Pietro pensava così di adeguarsi alla nuova sensibilità messianica, presupposta dall’insegnamento di Gesù. Questi però corregge l’apostolo: bisogna perdonare settanta volte sette, un’espressione che indica un numero illimitato […]. Al calcolo giudaico quantitativo Gesù sostituisce un cambiamento radicale di mentalità, che comporta un perdono illimitato, quale espressione della misericordia infinita di Dio”.11

D’altro canto, il teologo riconosce che l’obiettivo di Gesù non può essere quello di schiacciare Pietro, e con lui ognuno di noi, sotto un’esigenza di irraggiungibile perfezione - chi di noi può essere “perfetto, come il Padre vo-stro che è nei cieli” (Mt. 5,48)? L’insegnamento evangelico mira piuttosto ad aprire le nostre menti e i nostri cuori, forse anche il nostro diritto, ad un orizzonte che schiuda i nostri passi ad un cammino che è sempre in divenire. Mentre la giustizia umana segue il suo corso, spesso troppo lento e imperfetto, il cammino del perdono avanza a tappe spesso conquistate a “caro prezzo”, per citare un’espressione di Bonhoeffer.12 L’invito a perdonare non sette volte, ma ben settanta volte sette segna una proposta che va oltre le possibilità dell’uomo, fosse anche il più degno e santo. Si tratta in-vece di uno spaccato sulla misura dell’amore grande di Dio. Rimante tuttavia una proposta, per quanto utopica, valida e dunque persegui-bile per ciascuno di noi.

Può una donna che ha subito uno stupro perdonare chi l’ha violentata? Possono i geni-tori del ragazzo vittima di un gruppo di tifosi

11 A. POPPI, Sinossi dei quattro vangeli. Introduzione e commento, Edizioni Messaggero, Padova 1990, p. 135.

12 Cfr. D. BONHOEFFER, Sequela, Queriniana, Brescia 1997.

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naziskin perdonare gli assassini del loro figlio? Possono il papà e la mamma di Graziella Mansi perdonare coloro che hanno loro rapito la fi-glioletta? Per il Vangelo non solo possono, ma “in un certo senso” devono. Questo non toglie, ovviamente, che i colpevoli siano colpiti da una sanzione proporzionata al loro crimine.

Si legge nel Vangelo di Matteo:

“Non pensiate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure uno iota o un segno della legge, senza che tutto sia compiuto” (Mt 5,17-18).

Lo iota, come è noto, è il segno più piccolo dell’alfabeto greco, grande quanto una nostra virgola. Bene, neppure una virgola della legge, a detta di Gesù, deve essere tralasciata. Tutto quello che la legge prevede deve essere posto in atto. Sapendo, tuttavia, che la legge per il cristiano non è il punto di arrivo, è il punto di

partenza. Per questa ragione, subito dopo aver affermato con forza che non intende abrogare la legge, Gesù, nel medesimo contesto, può aggiungere:

“Voi avete udito che fu detto: ‘Occhio per occhio e dente per dente’. Ma io vi dico: non contrastate il malvagio; anzi, se uno ti percuote sulla guancia destra, porgigli anche l’altra; e a chi vuol litigare con te e prenderti la tunica, lasciagli anche il mantello. [...] Voi avete udito che fu detto: ‘Ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico’. Ma io vi dico: amate i vostri nemici, be-nedite coloro che vi maledicono, fate del bene a quelli che vi odiano, e pregate per quelli che vi maltrattano e che vi persegui-tano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; poiché Egli fa levare il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Se infatti amate quelli che vi amano, che premio ne avete? Non fanno lo stesso anche i pubbli-cani? E se salutate soltanto i vostri fratelli, che fate di straordinario? Non fanno anche i pagani altrettanto? Voi dunque siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,38-40.43-48).

Il mio contributo alla vostra riflessione po-trebbe, in verità, fermarsi qui: mi sembra di aver abusato già troppo della vostra pazienza. Vi prego tuttavia di concedermi ancora qualche minuto per richiamare la vostra attenzione su una delle lettere paoline meno note e che, in realtà, è poco più di un biglietto di presentazio-ne. Si tratta della Lettera a Filèmone, un breve scritto con cui San Paolo rimanda al legittimo proprietario lo schiavo Onesimo, che era fug-gito dal suo padrone.

È una situazione che rivela per intero l’at-teggiamento dell’apostolo nei confronti del diritto del tempo. Egli non riporta le ragioni che hanno indotto Onesimo alla fuga. Per le leggi del tempo, uno schiavo che fosse fuggito dal suo legittimo proprietario poteva trovare asilo in un santuario o nascondersi in una grande città, nella speranza di non essere nuovamente catturato. Nel secondo caso, doveva essere im-mediatamente rispedito al padrone che aveva

La lettera a Filèmone

facoltà di punirlo come meglio credeva, anche con la morte, affinché questa valesse come pena esemplare per gli altri schiavi.

Onesimo cercò dunque scampo presso Paolo che dovette scegliere se nasconderlo o se scri-vere a Filèmone per ottenerne il riscatto. La scelta dell’apostolo rifugge dall’una e dall’altra opzione: non legittima la fuga dello schiavo e non costringe il proprietario a liberare colui che era fuggito.

Sembrerebbe, dunque, che Paolo sia in qualche modo succube di quanto prescritto dal diritto di proprietà del tempo e incapace di introdurre nella sua prassi la novità evangelica di cui pure è testimone. Ma le parole dell’apo-stolo fugano anche questa ipotesi e chiariscono a noi e a Filèmone:

“Pur avendo in Cristo piena libertà di comandarti ciò che devi fare, preferisco pregarti in nome della carità […]. Ti prego dunque per il mio figlio, che ho generato

153Notegiugno 2008 - anno VIII

in catene, Onesimo, quel che un giorno ti fu inutile, ma ora è utile a te e a me. Te l’ho rimandato, lui, il mio cuore. Avrei voluto trattenerlo presso di me perché mi servisse in vece tua nelle catene che porto per il vangelo. Ma non ho voluto far nulla senza il tuo parere, perché il bene che farai non sapesse di costrizione, ma fosse spontaneo. Forse per questo è stato separato da te per un momento perché tu lo riavessi per sempre; non più però come schiavo, ma molto di più che schiavo, come un fratello carissimo in primo luogo a me, ma quanto più a te, sia come uomo, sia come fratello nel Signore. Se dunque tu mi consideri come amico, accoglilo come me stesso. E se in qualche cosa ti ha offeso o ti è debitore, metti tutto sul mio conto. Lo scrivo di mio pugno, io, Paolo: pagherò io stesso” (Fil. 8-18).

Il superamento imposto dal dettato paolino è ardito quanto mirabile.

Paolo non contesta l’istituto della schiavi-tù. Non detta proclami rivoluzionari. Eppure, con la sua scelta, produce una rivoluzione più duratura ed efficace di ogni altra rivolta violenta. Sceglie di pregare Filèmone, gli chie-de “con-senso” ovvero la capacità di vedere con occhi nuovi Onesimo, riconoscendo un fratello in colui che considerava un oggetto di suo esclusivo utilizzo. Così facendo, pur non contestando formalmente la legge, la svuota dal di dentro e la supera in maniera definitiva e inequivocabile.

Non basta: perché Paolo è comunque ligio all’osservanza della legge, una legge che pur ritiene superata, scrive “di proprio pugno” che è disposto a pagare in prima persona per la libertà del suo amico. Non chiede a Filèmone di non avvalersi dei suoi diritti. Li riconosce,

li considera superati e tuttavia, in nome di un bene più grande, è disposto a rispettarli rimettendoci del proprio.

In ultima analisi, la Lettera a Filèmone co-stituisce un evidente esempio di superamento cristiano della legge, in questo caso di quella che legittimava il possesso di una persona, in nome di un principio più grande quale quello della carità cristiana.

Il tentativo paolino di cristianizzare i rapporti tra padroni e schiavi contribuirà in qualche maniera al superamento del rapporto mercifi-cato tra i due soggetti ed è stato accostato alle due lettere che Plinio il Giovane, nel 106-7 d. C., scrive all’amico Sabiniano. Questa volta, a fuggire è un liberto, giovane e maldestro. Plinio nella prima lettera prega l’amico di riaccoglierlo con indulgenza, nella seconda lo ringrazia per-ché, addivenendo alla sua richiesta, ha usato clemenza nei riguardi del fuggiasco.13

A dire il vero, il confronto può essere utile per evidenziare più ciò che contraddistingue l’originalità dell’approccio paolino che la sua affinità con la condotta di Plinio. Paolo rivendi-ca una uguaglianza morale ed una fratellanza reale, in Cristo, tra il padrone e lo schiavo. Plinio il Giovane, invece, invoca un perdono paternalistico, concesso per la magnanimità di un padre-padrone che non può essere neppure lontanamente immaginato sul medesimo piano morale del suo liberto. Quel che per Paolo è un fratello in Cristo, per Plinio il Giovane è solo un goffo servitore che, piuttosto che essere grato per essere stato affrancato dallo stato di schiavitù, è così ingenuo da mettersi contro colui che, comunque sia, rimane il suo padrone e datore di lavoro.

13 Ecco il testo della prima lettera: “Libertus tuus, cui suscensere te dixeras, venit ad me advolutusque pedibus meis tamquam tuis haesit. Flevit multum, multum rogavit, multum etiam tacuit, in summa fecit mihi fidem paenitentiae verae: credo emendatum quia deliquisse se sentit. Irasceris, scio, et irasceris merito, id quoque scio; sed tunc praecipua mansuetudinis laus, cum irae causa iustissima est. Amasti hominem et, spero, amabis: interim sufficit ut exorari te sinas. Licebit rursus irasci, si meruerit, quod exoratus excusatius facies. Remitte aliquid adulescentiae ipsius, remitte lacrimis, remitte indulgentiae tuae. Ne torseris illum, ne torseris etiam te; torqueris enim cum tam lenis irasceris. Vereor ne videar non rogare sed cogere, si precibus eius meas iunxero; iungam tamen tanto plenius et effusius, quanto ipsum acrius severiusque corripui, destricte minatus numquam me postea rogaturum. Hoc illi, quem terreri oportebat, tibi non idem; nam fortasse iterum rogabo, impetrabo iterum: sit modo tale, ut rogare me, ut praestare te deceat. Vale” (Plinii Caecilii Secundi Epistularum Liber Nonus, Ep. 21). Segue lo scritto della seconda lettera: “Bene fecisti quod libertum aliquando tibi carum

154 Note giugno 2008 - anno VIII

Bene, dovendo avviarmi alla fine di questo mio contributo, mi sembra di poter tracciare alcuni tratti distintivi del rapporto tra teologia e diritto penale o, se vogliamo tra cristianesimo e legge.

In primo luogo, il “segno di Caino” ci ha detto che non esiste crimine tanto grave da meritare la punizione estrema, ovvero la pena di morte. D’altro canto, ci dice anche che ogni crimine deve trovare una pena giusta e propor-zionata alla colpa che si intende punire.

In secondo luogo, l’evoluzione della rivela-zione ebraico-cristiana ha messo in luce da una parte la continuità di un pensiero per molti versi più avanti di quello dei popoli e delle culture del tempo. Già la legge mosaica prevedeva misura atte a prevenire il delitto e ancor più ad assicurare un esercizio equilibrato e adeguato della giustizia, un esercizio strappato all’arbitrio del singolo e tutelato dalle disposizioni della Legge. Quel che Mosè ha incominciato Gesù Cristo ha riconosciuto e superato, ponendo a legge suprema la legge dell’amore, la cui misura, come insegna Agostino è quella “di amare senza misura”14.

Il cristiano, perciò, non ha “la coscienza a posto” nel momento in cui ha osservato la legge. L’osservanza della legge è, infatti, una condizione minima e preliminare dell’essere

cristiano, chiamato in realtà, come il samarita-no (cfr. Lc. 10,29-37), a farsi prossimo di chi è debole e indifeso, dunque anche a contrastare e superare le ingiustizie sociali che ogni cultura ed ogni epoca si portano appresso.

Come già nel secondo secolo dopo Cristo testimoniava l’anonimo autore della Lettera a Diogneto:

“I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. La loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini multiformi, né essi aderiscono ad una corrente filosofica umana, come fanno gli altri. Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. Vivono nella loro patria, ma come fore-stieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera. Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. Mettono in comune la mensa, ma non il letto. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi”15.

reducentibus epistulis meis in domum in animum recepisti. Iuvabit hoc te; me certe iuvat, primum quod te tam tractabilem video, ut in ira regi possis, deinde quod tantum mihi tribuis, ut vel auctoritati meae pareas vel precibus indulgeas. Igitur et laudo et gratias ago; simul in posterum moneo, ut te erroribus tuorum, etsi non fuerit qui deprecetur, placabilem praestes. Vale” (Plinii Caecilii Secundi Epistularum Liber Nonus, Ep. 24).

14 SANT’AGOSTINO DI IPPONA, Sull’ amore di Dio e del prossimo, Discorso 90/A.15 ANONIMO, Lettera a Diogneto, testo tratto dal sito dei Domenicani, I classici del cristianesimo, in www.ora-et-

labora.net/diogneto.html. La sottolineatura, di tipo redazionale, è del sottoscritto.

La teologia e il diritto penale, i cristiani e la legge

La questione della trascendenza

di PAOLO FARINA*

La cosiddetta “questione della trascenden-za” sembra oggigiorno tornata di attualità.1 Parlare di trascendenza significa in primo luogo ammettere una relazione o almeno la possibilità di una qualche forma di relazione tra l’ordine naturale e quello soprannaturale. Come infatti discettare di trascendenza senza, implicitamente, ammettere che essa esiste, si lascia in qualche modo conoscere e, dunque, si pone in relazione con l’uomo? 2

Detto ciò, occorre subito aggiungere che ogni religione, ogni filosofia, persino ogni ateismo ha una sua idea di trascendenza. Per una ragione molto semplice: ogni affermazione sulla questione della trascendenza reca con sé due domande a cui ciascun modello di pensiero risponde in modo specifico e spesso differen-te. In altri termini, prima di pronunziarsi sulla

* Docente stabile di Antropologia teologica - Istituto di Scienze Religiose San Nicola il Pellegrino - Trani.1 Si veda ad esempio M. CORRADI, Ruini: la riscoperta della trascendenza, in «Avvenire», del 4 settembre 2005.2 Cfr. E. BACCARINI (a cura di), La passione dell’originario. Fenomenologia ed ermeneutica dell’esperienza religiosa,

Edizioni Studium, Roma 2000.3 Si legge nella Costituzione Dogmatica su La Divina Rivelazione: “Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza

rivelare Se stesso e manifestare il mistero della sua volontà (cfr. Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura (cfr. Ef 2,18; 2Pt 1,4). Con questa rivelazione Dio invisibile (cfr. Col 1,15; 1Tm 1,17) nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici (cfr. Es 33,11; Gv.15,14-15) e si intrattiene con essi (cfr. Bar 3,38), per invitarli ed ammetterli alla comunione con sé. Questa economia della rivelazione avviene con eventi e parole intima-mente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, e le parole proclamano le opere e chiariscono il mistero in esse contenuto. La profonda verità, poi, sia di Dio sia della salvezza degli uomini, per mezzo di questa rivelazione risplende a noi in Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta intera la rivelazione” (DV 2).

trascendenza, occorre precisare di quale Dio parliamo e, ancora, di quale uomo parliamo.

Ebbene, il Dio a cui questo saggio si riferisce è il “Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe” (Es 3,6; cfr. Lc 20,37-38), un Dio che prende l’iniziativa e si rivela nella storia e attraverso la storia. È il Dio di Gesù Cristo, rivelato at-traverso il mysterion: non un “mistero”, nel senso in cui oggi viene comunemente inteso, ma una “storia di una conoscenza progressi-va”, una storia che segna il passaggio dalla non conoscenza alla conoscenza, dalla non salvezza alla salvezza, attraverso l’intreccio di fatti e parole che, secondo la mirabile sintesi della Dei Verbum 2, realizzano l’intervento di Dio nella storia dell’umanità e nell’esistenza di ogni singolo uomo.3

Ed è appunto questo intervento che rivela

156 Note giugno 2008 - anno VIII

l’Essere Trascendente come un Dio di amore che genera, un Dio amore che si dona, un Dio amore che è il Dono: il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo. 4

Si potrebbe sinteticamente affermare che il “Dio di Gesù Cristo” è un Dio che prende l’ini-ziativa, che, se è il “totalmente Altro”5, tuttavia non intende restare nascosto, giacché si rivela come “Trinità in azione”: un Dio uno e Trino, che “dice e fa” e “fa quel che dice”; e che nella storia e nelle parole di Gesù raggiunge il culmine della sua manifestazione, fondamento e strumento della nostra salvezza. E l’uomo? È evidente che anche sull’uomo vi sono pareri di-scordanti e punti prospettici distinti, che in una sintesi veramente estrema potremmo indicare nelle differenti letture proposte dalla antropo-

logia filosofica6, dall’antropologia scientista7, dall’antropologia culturale8, dall’antropologia religiosa9. Ciascuno di questi modelli ermeneu-tici racchiude in sé numerosissimi tentativi di svelare il mistero dell’uomo, rileggendolo ora in chiave razionale, ora in chiave empirica, ora considerando i suoi legami sociali e storici, ora interrogando il suo legame con l’invisibile.

In questo breve saggio ci si prefigge di pre-sentare il punto di vista - che si ritiene sempre attuale - offerto dalla antropologia teologica e segnatamente dalla antropologia cristiana.10 C’è un testo che in qualche maniera rappre-senta la pietra miliare che il teologo odierno non può ignorare, se intende realizzare un approccio all’uomo, a partire dalla rivelazione di Cristo. Si tratta del testo della GS 22:

4 Cfr. AA. VV., Mistero di Cristo, mistero dell’uomo, Edizioni Paoline, Torino 2005.5 Come è noto a chiunque si avvicini allo studio della teologia, “totalmente Altro” è la famosa espressione

usata da Karl Barth, teologo svizzero (Basilea 1886-1968) e pastore calvinista, che insegnò nelle Università di Gottinga (1921), Münster (1925) e Bonn (1930), prima di perdere la cattedra, nel 1935, per aver opposto un netto rifiuto all’obbligo di prestare giuramento a Hitler, ragione per cui fu anche allontanato dalla Germania. Peraltro, nel 1934, era stato l’estensore principale della Dichiarazione teologica di Barmen (1934), che pre-sentava una sintesi della fede cristiana, al fine di asserirne una radicale inconciliabilità con l’ideologia nazista. Espulso dalla Germania, insegnò a Basilea fino al 1962. Il suo Commento alla Lettera ai Romani (1919, ed. rielaborata 1922), viene a giusta ragione ritenuto il manifesto della teologia dialettica, che segna una rove-sciamento di fondamentale novità nei confronti della teologia liberale protestante del sec. XIX. A una lettura della Bibbia che, servendosi della critica storica, ne relativizzava l’attualità, Barth contrappose una lettura basata sulla convinzione che il testo biblico è in grado di comunicare il suo messaggio in tutti i tempi. A una prospettiva teologica che sottolineava la continuità tra esperienza umana e conoscenza di Dio, Barth contrap-pose l’affermazione dell’alterità e della trascendenza di Dio. Prende così forma una teologia della Parola di Dio, pensata come realtà altra rispetto al mondo e come giudizio pronunciato da Dio sulla storia umana. Non c’è perciò nessuna via che l’uomo possa percorrere per giungere a Dio (a differenza di quanto vuole la teologia naturale), ma egli deve accogliere nella fede la Parola che Dio pronuncia in Gesù Cristo. Questa teologia è stata chiamata (non da Barth) “dialettica”. Che significa? Significa che Dio è “totalmente altro” dall’uomo ma, in Cristo, è diventato uomo e in lui, allo stesso tempo, si rivela e si nasconde, cioè rivela la sua divinità nascondendola nell’umanità di Gesù. Per questo l’uomo può parlare di Dio solo in modo “dialettico”, l’unico in grado di riflettere la dialettica interna alla Rivelazione stessa di Dio, che è, insieme, giusto o giustificante, lontano e vicino, santo e misericordioso. Al progetto barthiano hanno aderito anche altri teologi (E. Brunner, R. Bultmann , F. Gogarten sono i nomi più celebri), che pubblicarono i loro scritti nella rivista Zwischen den Zeiten (Tra i tempi). Cfr. A. MAFFEIS, Karl Barth, in www.sapere.it.

6 Cfr. M. T. PANSERA, Antropologia filosofica, Mondadori, Milano 2007.7 Cfr. G. SERMONTI, Il crepuscolo dello scientismo, introduzione di Paolo Aldo Rossi, Nova Scripta, Genova

2002.8 Cfr. C. T. ALTAN, Manuale di antropologia culturale: storia e metodo, Milano, Bompiani, 1979. 9 Cfr. A. DESTRO, Antropologia e religioni, Morcelliana, Brescia 2005.10 Cfr. I. SANNA, L‘antropologia cristiana tra modernità e post-modernità, Queriniana, Brescia 2004.

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“Solamente nel mistero del Verbo incarna-to trova luce il mistero dell‘uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era «figura di quello futuro» (Rom 5,14) e cioè il Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rive-lando il mistero del Padre e del Suo Amore svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione”.

A questo punto, è giusto soffermarsi per qualche doverosa considerazione. Per rispon-dere alla “questione della trascendenza”, siamo partiti da due domande: di quale Dio parliamo? Di quale uomo parliamo?

Rispondiamo. Quanto a Dio, secondo la DV 2, parliamo di un Dio che è Padre e prende l’iniziativa di “parlare agli uomini come ad amici” e a cui piace “intrattenersi con loro”. Parliamo di un Dio che è Figlio, Verbo che si fa carne, per manifestare il mistero del Padre, un mistero che “dice e fa” la nostra salvezza nella storia e oltre la storia. Parliamo di un Dio che è Spirito d’Amore che ha il compito di “renderci divini” per “darci accesso” al Padre.11 Quanto all’uomo, secondo la GS 22, parliamo di un essere che è mistero a se stesso, ma che, nel mistero/storia della divina rivelazione di Cristo, trova la chiave di accesso al segreto che racchiude in sé. Egli è così il destinatario e l’oggetto della rivelazione di Gesù. Il desti-natario: perché Gesù si fa uomo per parlare da uomo a uomo a ciascuno di noi. L’oggetto: perché nel dialogo tra Gesù e l’uomo si rivela l’impronta divina in ciascuno di noi, il disegno secondo cui ognuno di noi è pensato, voluto, amato e atteso da sempre dal Padre. Gesù, dunque, rivela l’uomo a se stesso, ma - nel momento stesso in cui toglie il velo sulla sete di infinito che alberga nel cuore di ogni persona - rivela anche il mistero di Dio ovvero la sua identità e operosità di amore.12

Si noti che Gesù è anche un uomo. Per questa ragione, egli è l’uomo che rivela Dio all’uomo ed è il Dio che rivela l’uomo all’uomo. Dunque, Gesù è il “trans-discendente”, il “totalmente Altro” fattosi “totalmente incarnato”, presente nella storia, vicino ad ogni uomo. È lui, per i cristiani, colui che, con la sua storia e con la sua vita, con la parola del Vangelo e con le azioni che il Vangelo narra, nel momento medesimo in cui ci fa conoscere se stesso, ci introduce nel cuore della nostra ragione d’essere e ci introduce nel cuore del Dio-Trinità.13

Guardando a Gesù, ogni uomo è messo in grado di sapere chi siamo e a cosa siamo chiamati. Gesù è davvero l’origine, il centro, il fine della divina rivelazione (cfr. DV 4). Gesù è, per noi cristiani, la soluzione in carne ed ossa alla “questione della trascendenza”. Di più: la questione della trascendenza, per i cre-denti in Cristo, non è una questione, è una persona. Non è un problema, è una solu-zione rivelata, ovvero regalata, donata in persona da un Dio Uno trino che muore - e l’affermazione non è solo metaforica - dalla voglia di farsi conoscere, di parlare con l’uomo, di stare con lui, di farci l’amore.14

Tutti conoscono il testo di At 1,11: “Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?”.

Ci si permetta di azzardare una risposta in linea con quanto sin qui affermato, ma anche con quanto questa domanda sembra sotten-dere. Ebbene, ad avviso di chi scrive, i cristiani non hanno bisogno di cercare Dio in cielo, non devono sforzarsi di salire, è sufficiente che ac-colgano Colui che è disceso e che ogni giorno “sta alla porta e bussa” (Ap 3,20).

11 Cfr. G. RAVASI, Mistero di Dio, EDB, Bologna 2001.12 Cfr. L. F. LADARIA, Introduzione alla Antropologia Teologica, Piemme, Casale Monferrato 1992, 9-14; IDEM,

Antropologia teologica, Piemme, Casale Monferrato 1995.13 Cfr. J. Ratzinger, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano 2007.14 Cfr.G. COLZANI, Antropologia cristiana. Il dono e la responsabilità, Piemme, Casale Monferrato, 1991.

158 Note giugno 2008 - anno VIII

D’altro canto, l’apostolo che Gesù amava ci ammonisce:

“L’amore è da Dio: chiunque ama è genera-to da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi […]. Egli ci ha fatto dono del suo Spirito. E noi stessi abbiamo veduto e attestiamo che il Padre ha mandato il suo Figlio come salvatore del mondo. Chiunque riconosce che Gesù è il Figlio di Dio, Dio dimora in lui ed egli in Dio. Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore: chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui […]. Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo. Se uno dicesse: «Io amo Dio», e odiasse il suo fratello, è un

mentitore. Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” ”(1Gv 4,7-20).

In conclusione, alla “questione” della tra-scendenza si può rispondere in molteplici modi. In queste pagine, si è tentato di mettere in luce l’originalità e la bellezza della risposta cristiana. A tal riguardo, Rahner diceva che il cristiano del XXI secolo o sarà un mistico o non sarà un cristiano15 e Frossard confessava di credere in Dio per averlo “incontrato”.16 Abbiamo già ricordato la risposta dell’evangelista Giovanni: “Dio è amore. Chi sta nell’amore, dimora in Dio” (1Gv 4,16).

Quale sarà la nostra risposta?

15 Cfr. K. RAHNER, Sollecitudine per la Chiesa, Paoline, Roma 1982, 191.16 Cfr. A. FROSSARD, Dio esiste e io l’ho incontrato, SEI, Torino 1989.

L’umano evangelico nell’IRC della scuola.La questione antropologica*

di PAOLO FARINA**

1. Il risveglio dell’antropologia

Non v’è dubbio che il “secolo breve”1, il XX secolo, pur con tutte le luci e le ombre che lo hanno segnato, ha visto concentrare un vero e proprio risveglio dell’attenzione delle scienze umane nei riguardi della questione antropo-logica. La “svolta antropologica”2 è, infatti, il comune denominatore che accompagna fenomeni pur tra loro distinti e distanti, quali, a mero titolo esemplificativo, la psicoanalisi di Freud, la fenomenologia di Husserl, il perso-nalismo di Mounier, lo strutturalismo di Levi-Strauss, l’esistenzialismo di Sartre.

Anche il progresso tecnico-scientifico, pur comportando un innegabile sbilanciamento

a favore di un “saper fare” spesso scisso dal “sapere” e dal “saper essere”, testimonia un rinnovato interesse per le affascinanti capacità dell’uomo di oltrepassare continuamente le colonne d’Ercole della conoscenza, alla ricerca di nuovi orizzonti.3

In ambito ecclesiale, basterebbe ricordare la costituzione conciliare Gaudium et Spes e la mole di documenti della dottrina sociale della Chiesa, dalla Rerum Novarum alla Centesimus Annus, per avere un’istantanea su quanto la questione dell’uomo sia tornata ad essere questione della Chiesa.4

Ora, se l’antropologia è lo studio della

* Intervento tenuto al Corso di aggiornamento per docenti di IRC. Monopoli 4 aprile 2008.

** Docente stabile di Antropologia teologica - Istituto di Scienze Religiose San Nicola il Pellegrino - Trani 1 Mutuo la ormai celebre formulazione dello storico Hobsbawm, che peraltro la impiega in un contesto diverso al

fine di esprimere un giudizio negativo sul XX secolo: “Per il poeta T.S. Eliot «il mondo finisce in questo modo: non con il rumore di un’esplosione, ma con un fastidioso piagnisteo». Il Secolo breve è finito in tutti e due i modi” (E. J. Hobsbawm, Il Secolo breve - 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi, Rizzoli, Milano 1999, p. 24).

2 Cfr. K. RAHNER, Uditori della Parola, Borla, 1977, IDEM, Corso fondamentale sulla fede, Edizioni Paoline, Alba 1977, pp. 45-69.

3 Cfr. L. ORNAGHI, Farsi carico delle domande decisive per il futuro del paese. Prospettiva culturale in Una speranza per l’Italia. Il Diario di Verona, supplemento ad «Avvenire» del 02/12/2006, p. 83.

4 Cfr. COMITATO SCIENTIFICO E ORGANIZZATORE DELLE SETTIMANE SOCIALI DEI CATTOLICI ITALIANI, Il bene comune oggi: un impegno che viene da lontano. Documento preparatorio, EDB, Bologna 2007, pp. 40-41; G. CREPALDI, Bene comune e dottrina sociale della Chiesa, in “Atti del primo seminario preparatorio del Centenario delle Settimane sociali”, EDB, Bologna 2007, pp. 11-13; C. RUINI, Verità di Dio e verità dell’uomo, Cantagalli, Siena 2007.

160 Note giugno 2008 - anno VIII

persona umana, considerata nel suo essere intrinseco, va subito chiarito che diversi sono i modelli di pensiero e, conseguentemente, gli approcci possibili per rispondere alla domanda: chi è l’uomo?5

Il primo di essi si impegna a considerare la persona umana come essere nel mondo e nella natura e dunque considera l’uomo ora come microcosmo, secondo l’antica definizio-ne di Posidonio, ora come animale, ora come macchina. La sintesi estrema di questo schema di pensiero è data da A. Gehlen, secondo il quale l’uomo è un animale imperfetto e pieno di difetti, organicamente specializzato e non differenziato negli istinti, sprovvisto persino di un suo ambiente naturale e di difese. Sarebbe questa la ragione per cui l’uomo è costretto incessantemente a vincere il proprio disagio, plasmando per se stesso una seconda natura, la cultura, potente strumento grazie al quale egli trasforma il mondo e lo adatta a difesa della propria esistenza.6

Un secondo modello di pensiero considera l’uomo come essere superiore non già per quanto lo lega al mondo, bensì per quanto lo distingue da esso, ovvero per quanto è capace di elaborare nello spazio intimo della sua coscienza. L’aforisma del tempio di Delfi suona in questo contesto ancora attuale, ma con un rovesciamento di significato. “Cono-sci te stesso”, inciso sul frontone del tempio, significava: “Non essere preda della hybris. Ricordati di essere solo un uomo e non dio”. Al contrario, dal De hominis dignitate di Pico della Mirandola, opera del 1486, al Sapere aude che, a detta di Kant7, esprime il concentrato della rivoluzione illuminista, al culto idolatrico

della libertà ai giorni nostri, il motto di Delfi è stato interpretato come un invito a sondare senza sosta le possibilità “illimitate”, in quanto tali intese come “divine”, della coscienza e, aggiungo, dell’incoscienza umana.

C’è infine un terzo modello che studia l’uo-mo nelle relazioni che lo legano a famiglie, stir-pi, popoli: è questo il modello dell’antropologia culturale, secondo la quale l’uomo, prima di essere creatore di cultura, è egli stesso un frutto della cultura cui appartiene e che bisogna stu-diare nella sua struttura, se si vuole rinvenire la chiave della questione antropologica.8

Ebbene, si tratta di tre modelli di pensiero che rivelano per intero i propri limiti nel mo-mento stesso in cui pretendono di rispondere in maniera esaustiva all’interrogativo di fondo che alberga nel cuore di ogni uomo.

L’uomo vive di natura e nella natura, è dotato di ragione e libertà, fa parte di una società, eppure non è mai riducibile ad uno o all’insieme di questi elementi. Heidegger dirà magistralmente che mai come al giorno d’oggi sono state accumulate cono-scenze sull’uomo e tuttavia mai come oggi si è lontani dal comprenderne il mistero.9 E Mounier avverte:

“Contro il mondo privo di sentimenti pro-fondi, come quello del razionalismo, la persona è la protesta del mistero. Che ci si guardi dal fraintendere! Il mistero non è il misterioso. Quella decorazione di cartone in cui si compiace una certa volgarità vani-tosa, composta di impotenza intellettuale, di un bisogno facile di singolarità e di un orrore sensuale della fermezza. Non è la complessità delle cose meccaniche. Non è ciò che è raro e confidenziale, o l’ignoranza

5 Cfr. G. COLZANI, Antropologia cristiana, Piemme, Casale Monferrato 1992, 11-21; A.J. HESCHEL, Chi è l’uomo? Rusconi, Milano 1971.

6 Cfr. A. GEHLEN, L’uomo: la sua natura e il suo posto nel mondo, Feltrinelli, Milano 1983; IDEM, Prospettive an-tropologiche, Il Mulino, Bologna 1987.

7 Cfr. I. KANT, Risposta alla domanda: che cosa è l’illuminismo?, in IDEM, La pace, la ragione e la storia, Il Mulino, Bologna 1985, pp. 35-42.

8 Cfr. C. LÉVI-STRAUSS, Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano 1968; B. GROETHUYSEN, Antropologia filosofica, Guida, Napoli 1969.

9 Cfr. M. HEIDEGGER, Kant e il problema della metafisica, Silva, Milano 1962, pp. 275-276.

161Notegiugno 2008 - anno VIII

2. La peculiarità dell’antropologia teologica

provvisoriamente consacrata. Il mistero significa la presenza stessa del reale”.10

In effetti, il più antico tentativo di compren-dere l’uomo è quello che lo vede in relazione con Colui che, al di là di come è rivelato o con-cepito nelle singole religioni, è sempre inteso come l’Altro e l’Oltre il sé umano. Se è vero, come vuole Leopardi11, che l’uomo nasce già abbastanza vecchio per morire, è altrettanto vero che l’uomo nasce come un essere religio-so, un essere che è appunto oggetto di studio da parte dell’antropologia religiosa.

È merito di R. Otto aver presentato l’espe-rienza del “Numinoso”, come esperienza di un “mysterium tremendum et fascinans”, un

mistero che spaventa e affascina nel medesimo tempo, che ci fa sentire tremendamente piccoli e sconfinatamente grandi.12 È la stessa esperienza che faceva dire a Pascal che l’uomo è fragile can-na, capace però di contenere in sé l’universo13, o che faceva gridare a Kant: “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale in me”14.

È questa un’esperienza che fa avvertire la nostalgia dell’infinito, un infinito che però è ancora avvertito come sconosciuto e sover-chiante e che denota il limite anche di questo approccio. In definitiva, l’antropologia religiosa pone dinanzi ad una Presenza di cui non si conosce il nome, una presenza che attrae e lascia sgomenti, di cui si sente l’insopprimibile bisogno e dalla quale, nondimeno, si fugge.

10 E. MOUNIER, Manifesto al servizio del personalismo comunitario, Ecumenica Editrice, Bari 1982, p. 129. Il carattere evidenziato è una mia aggiunta.

11 “Nasce l’uomo a fatica, ed è rischio di morte il nascimento. Prova pena e tormento per prima cosa; e in sul principio stesso la madre e il genitore il prende a consolar dell’esser nato”: G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, vv. 39-44.

12 Cfr. R. OTTO, Il sacro, Feltrinelli, Milano 1966: l’originale, in tedesco, è del 1917.13 “L’uomo non è che una canna, la più agile della natura, ma è una canna che pensa. Non occorre che l’universo

intero si armi per schiacciarlo, un vapore, una goccia d’acqua bastano a ucciderlo. Ma quand’anche l’universo lo schiacciasse, ancora l’uomo sarebbe più nobile di chi lo uccide, poiché sa che muore e conosce il vantaggio che l’universo ha su di lui. L’universo non ne sa nulla” (B. PASCAL, Pensieri, traduzione di B. Papasogli, Città Nuova, Roma 2003, fr. 347).

14 Si tratta del celebre epitaffio sulla tomba di Immanuel Kant, tratto dalla Critica della ragion pratica, 1788.15 K. RAHNER, Antropologie, theologische A., in “Lexikon für Theologie und Kirche I”, pp. 618-627.

Questa rapidissima e del tutto incompiuta presentazione di possibili e distinti modi di affrontare la domanda sull’uomo, ci consente di evidenziare immediatamente l’ambito speci-fico dell’antropologia teologica, una disciplina neonata, se ancora nel 1957 K. Rahner ne cercava uno statuto.

Così, infatti, egli scriveva in un articolo denonimato appunto Antropologia teologica: “La costruzione propriamente detta dell’antro-pologia (teologica) non è ancora avvenuta. La A. viene ancora ripartita nei differenti trattati senza un’elaborazione del fondamento siste-

matico della sua totalità. La A. nel senso qui indicato è ancora un compito non realizzato dalla teologia, naturalmente non nel senso che le affermazioni concrete e di contenuto di tale antropologia debbano essere ancora trovate per la prima volta - si tratta per supposto di affermazioni della rivelazione sull’uomo -, ma nel senso che la teologia cattolica ancora non ha sviluppato nessuna antropologia completa partendo da un punto di vista originario”.15

Non è questa la sede per approfondire le ragioni che spingevano il grande Rahner ad affermazioni simili. Piuttosto, mi preme sotto-

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lineare che il “punto di vista originario” che egli postula può essere rinvenuto esclusi-vamente nella coscienza che ogni singolo cristiano ha di sapersi interpellato da Dio in maniera libera e gratuita, in maniera del tutto personale.

L’esperienza per cui Dio sta alla porta del cuore di ogni uomo e bussa (cfr. Ap. 3,20) “[…] deve essere - come osserva Ladaria - un punto di partenza già teologico, e deve avere presente che l’uomo si trova sempre nell’«esistenziale sopran-naturale», cioè, non può prescindere dal fatto che nella sua autocoscienza, anche se in forma non necessariamente tematica, è presente la chiamata di Dio alla comunione con Lui e l’offerta della sua grazia (che per supposto in ogni caso concreto può essere accettata o rifiutata)”.16

Il dato sconvolgente e rivoluzionario su cui si fonda la riflessione teologica sull’uomo è che ogni cristiano può dire: “Dio esiste, io l’ho incontrato”.17 O, in misura ancora più scon-certante: “Cristo è disceso e mi ha presa”.18 La prerogativa dell’antropologia cristiana si fonda, dunque, nella pretesa non già e non solo di conoscere Dio - grazie all’imprevedibile e del tutto gratuita scelta divina di “parlare agli uomini come ad amici” (DV 2). La prerogativa dell’antropologia cristiana è di avere, in virtù della medesima iniziativa del Dio che si rivela, una conoscenza del tutto particolare sull’uo-mo, la sola creatura che Dio abbia voluto per se stesso (cfr. GS 24d).

Come ha riassunto magistralmente Gianni Colzani: “La sua [dell’antropologia cristiana, ndr] peculiarità sta nel fatto che non è tanto l’uomo ad andare in cerca del significato, ma, per dir così, è piuttosto il significato ad andare in cerca dell’uomo. Al centro dell’antropologia cristiana non stanno le concezioni che gli uomini han-no su Dio, ma, piuttosto, la relazione che Dio ha stabilito con l’uomo. Al centro della

rivelazione ebraico-cristiana sta l’interesse di Dio per l’uomo. Qui Dio non è la risposta agli interrogativi umani, non appartiene al mondo quasi ne fosse la forza interiore e vitale. Dio è colui che sta di fronte a noi”.19 È un Dio che prende l’iniziativa e parla agli uomini allo scopo di farsi conoscere. Un Dio che in Gesù Cristo, rivelando se stesso, ha anche rivelato “piena-mente l’uomo all’uomo”, rendendogli nota la sua “altissima vocazione” (cfr. GS 22).

Bene, l’antropologia cristiana si espri-me in diverse forme: nella testimonianza della vita cristiana, nella liturgia, nella preghiera personale. Una forma specifica dell’antropologia cristiana è l’antropolo-gia teologica. Quest’ultima è una funzione ecclesiale, per mezzo della quale la comunità ecclesiale partecipa alla missione di Cristo. L’antropologia teologica fa parte del munus profetico della Chiesa, che è chiamata ad presentare il kérygma in forme sempre nuove ed attuali. Più precisamente, l’antropologia teologica ha il compito di elaborare in modo critico e organico la presentazione della fede agli uomini e alle culture del nostro tempo. L’antropologia teologica, dunque, assume i contenuti della rivelazione cristiana e si studia di comprenderli in pienezza al fine di presentarli all’uomo contemporaneo, al credente e all’ateo, al vicino e al lontano, al cristiano o al fedele di una religione non cristiana.

In realtà, si dovrebbe parlare anche di differenti antropologie teologiche ovvero di differenti tentativi attraverso i quali l’esperien-za credente riflette su se stessa e si sforza di rendersi intelligibile dalla differenti sensibilità culturali. In questo contributo, tuttavia, si privi-legerà la visione unitaria, che ha appunto nella “svolta antropologica” il suo tratto privilegiato e accomunante e che, tra l’altro, ha il merito di sottolineare, nella relazione educativa propria

16 L. LADARIA, Introduzione alla Antropologia Teologica, Piemme, Casale Monferrato 1992, p. 24.17 Cfr. A. FROSSARD, Dio esiste e io l’ho incontrato, SEI, Torino 1989.18 S. WEIL, Attesa di Dio, a cura di J.-M. Perrin, traduzione di O. Nemi, Rusconi, Milano 1991 p. 42.19 G. COLZANI, Antropologia cristiana, o. c., p. 17.

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Sia la centralità della persona dello studente che la necessità che l’insegnante di religione (IdR) si svesta di un ruolo meramente formale, per investire in pieno la propria umanità nel-l’azione formativa ed informativa dell’insegna-mento, sono due fattori che delimitano con esattezza quello che intendiamo per orizzonte antropologico dell’IRC.

Nel suo intervento per il IV Convegno ec-clesiale italiano, a Verona, Benedetto XVI ha rimarcato la questione dell’educazione della persona come tema fondamentale e decisivo, come un perno attorno al quale far ruotare ogni sforzo. Educare una persona, invero, comporta il coraggio di schiuderne l’orizzonte, accompagnandola sino alla soglia delle scelte definitive, le sole in grado di orientare la svolta progettuale di un’intera esistenza.21

In effetti, si legge nelle indicazioni ministeria-li: “Lo studente è posto al centro dell’azione educativa in tutti i suoi aspetti: cognitivi, affettivi, relazionali, corporei, estetici, eti-ci, spirituali, religiosi”.22 Una affermazione meritevole di approfondita riflessione e di cui mi limito a sottolineare tre aspetti.

Il primo: la relativa marginalità data dal Ministero della Pubblica Istruzione agli aspet-ti cognitivi rispetto a quelli metacognitivi. Sappiamo tutti che nella realtà non sempre è così. Chiunque abbia insegnato, sa quanto nella scuola sia ossessiva la preoccupazione di “terminare il programma”, a prescindere dalla disciplina di insegnamento. Eppure, il fatto che

le indicazioni ministerali mettano sì al primo posto, nell’elenco or ora citato, gli aspetti co-gnitivi, ma poi si affrettino ad aggiungere una serie di esigenze di natura personale, morale e spirituale, resta una circostanza degna di nota e a cui non si darà mai rilievo a sufficienza. Si tratta, infatti, di una sorta di rivoluzione copernicana nel modo di concepire il sistema scolastico nazionale, una rivoluzione che pone al centro la persona dello studente, considerato non più o non solo nel suo ruolo sociale di frui-tore di un servizio pubblico, ma come portatore di una domanda di senso globale.

Ed è proprio questo il secondo aspetto che è mia intenzione sottolineare. Laddove si indi-cano i bisogni “affettivi, relazionali, corporei, estetici, etici, spirituali, religiosi” dello studen-te, si riconosce che le esigenze formative non sono riducibili ad una mera ed asettica trasmis-sione di nozioni, ma investono la persona a 360°. Di conseguenza, anche la preparazione e l’investimento di energie da parte del docente - oserei dire, tanto più se si tratta di un IdR - richiedono un impegno totalizzante e senza risparmio. Lo studente non è un numero, una casella sul registro dell’insegnante. È una per-sona che chiede affetto, esige una relazione autentica, attende una risposta ai suoi bisogni più profondi, siano essi espressi o, ancor più, inespressi. Non c’è dubbio, che in questa rivolu-zione antropocentrica e “alunnocentrica” della scuola italiana, il ruolo che può giocare l’IdR è non solo notevole, è basilare: a patto che egli

3. L’orizzonte antropologico nell’IRC

20 Cfr. Servizio Nazionale I.R.C. della C.E.I. (a cura di), Orientamenti per il contributo specifico dell’IRC alla elabora-zione dei piani di studio personalizzati nella scuola primaria, Roma, 1 luglio 2004, in http://www.chiesacattolica.it/cci_new/documenti_cei/2006-02/21-3/OrientNazPrimaria.doc

21 Cfr. BENEDETTO XVI, Rendete visibile il “sì” della fede. Discorso al Convegno, in Una speranza per l’Italia, Il Diario di Verona, supplemento ad «Avvenire» del 2 dicembre 2006, p. 19.

22 MINISTERO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE, Indicazioni per il curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo d’istru-zione, Roma 2007, p. 17.

dell’IRC, tanto la centralità della persona dello studente quanto l’inderogabile porsi in gioco

della propria umanità da parte dello stesso Insegnante di Religione.20

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sia un esperto in umanità, prima ancora che un esperto in teologia…

Dirò di più: la capacità di rispondere alle esigenze spirituali dell’alunno - il terzo aspetto delle indicazioni ministeriali che mi premeva sottolineare - sono a mio modesto avviso di-rettamente proporzionali alla capacità dell’IdR di investire in umanità: intendo nella propria umanità, prim’ancora che in quella del discen-te. Del resto, l’umano evangelico ci insegna appunto questo: “Ama il prossimo tuo come te stesso” (Mt. 22,39). Quel “come” istituisce una equazione in cui, come è noto, il valore del secondo membro è pari al primo. Dobbiamo concludere che chi non è capace di amore per se stesso, chi non si conosce e riconosce nella sua umanità, chi non si è liberato da ciò che gli impedisce di essere un uomo o una donna autentici, non può amare l’altro, non può impegnarsi nell’arte esigente dell’educazione. Educare significa, infatti, generare uomini libe-ri, un compito che può essere assolto solo da chi a sua volta è persona affrancata dai mille condizionamenti interni ed esterni ed è per questo capace di amare ed essere amata.

Sono convinto che non sia necessario in-sistere oltre per spiegare questo punto che dovrebbe essere, di per sé, lapalissiano. Come insegnava Cicerone, ciò che è evidente non deve essere spiegato: perspicuitas argumen-tatione elevatur.23 Si può forse trasmettere un insegnamento di natura etica che non si vive? Si può essere teologi, se non si prega?24 Si può essere maestri senza essere testimoni?25 … E si può essere IdR, se non si è adulti nella fede?

Interrogativi, io credo, resi tanto più ur-genti e attuali dalla temperie culturale in cui viviamo, connotata da un orizzonte valoria-

le frammentato, che nega e riformula in ma-niera sempre nuova la domanda di senso. Una domanda negata da una cultura nichilista e relativista, che giudica in termini di netto rifiuto, e persino di abiezione morale, tutto ciò che si vorrebbe presentare con i caratteri del vero, del giusto, del buono, del bello. Una domanda nondimeno sempre riformulata, anche al giorno d’oggi, perché proveniente dal cuore dell’uomo e, in quanto tale, insopprimibile, come insegna sant’Agostino: “Ci hai fatti per te, o Signore, ed il nostro cuore è inquieto, finché non riposi in te”.26 È noto il pensiero del sociologo Zygmunt Baumann, britannico, ma ebreo di origini polac-che, secondo il quale il tempo in cui viviamo è segnato dalla fine delle “grandi narrazioni” del Novecento ovvero dalla morte delle ideologie. Con esse si sarebbe a suo giudizio spenta anche la pretesa di verità assolute.

La “liquidità” del nostro tempo sarebbe dunque il naturale approdo rimasto ad una società che, in luogo di una sola morale, ne offre tante, per cosi dire, “tascabili”, ognuna “a misura d’uomo”, del singolo uomo, per il suo uso e consumo.27

Se questa è la ambiente spirituale che connota la nostra epoca, ben si comprende come l’IRC permanga nella scuola come una delle poche discipline in grado di far riflettere i discenti sul senso unitario della vita, aprendoli con fiducia al futuro. A tal proposito, C. Esposito ricorda la necessità di riscoprire le ragioni della fede, per essere in grado di elaborare un “[…] giudizio sulla realtà, da non identificare però con una mera analisi della situazione, ma con una dispo-nibilità della ragione e del cuore ad accogliere la sfida degli avvenimenti alla luce della presenza reale di Cristo nella storia”.28 Solo in questi

23 M. T. CICERONE, De natura Deorum, III, 4. 24 “Se sei teologo pregherai veramente, e se preghi veramente sei teologo” (EVAGRIO PONTICO, De Oratione, 60).25 “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri o se ascolta i maestri lo fa perché sono

dei testimoni” (PAOLO VI, Esortazione apostolica “Evangelii nuntiandi”, n.41).26 AGOSTINO DI IPPONA, Confessiones, I, 1, 1.27 Cfr. Z. BAUMANN, Modernità liquida, trad. it. Laterza, Roma-Bari 2002.28 C. ESPOSITO, Quella sorgente di vita che attraversa i secoli. Tradizione, in Una speranza per l’Italia. Il Diario di

Verona, Supplemento ad «Avvenire» del 02.12.2006, p. 149.

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4. Il contributo dell’antropologia teologica dell’IRC

termini la scuola può tornare ad essere «scuola dell’umano», un luogo, cioè, in cui educare si-gnifica anche riscoprire la presenza cristiana nelle diverse materie di studio e di confronto, al fine di valorizzare l’attesa ultima del cuore dell’uomo e il suo radicale bisogno di senso e di felicità. Un bisogno pienamente umano che trova in Cristo una risposta autentica e liberante.

Non si dimentichi che, in una fase delicata quale quella della maturazione personale, sia essa quella dell’infanzia, della preadolescenza o della piena adolescenza, la possibilità di guar-dare positivamente al futuro è un elemento determinante per poter aprirsi all’esistenza in termini di speranza progettuale. Per conseguire traguardi quali l’elaborazione della propria identità umana e spirituale, per imparare a ge-stire la complessità della vita, con il suo tessuto di emozioni e relazioni, per apprendere l’arte dell’interpretazione del mondo, con i suoi va-lori etici e spirituali, il bambino e l’adolescente necessitano di un aiuto costante e generoso attorno al quale si gioca per intero la proposta educativa dell’IRC.

Essa deve, dunque, esprimersi in una offerta che, diversificandosi a seconda delle rispettive

fasce di età, presenti alla nuove generazioni la proposta cristiana in ordine alle universali do-mande di senso: da dove vengo? Dove vado? Perché la vita, perché la morte? Cos’è la felicità e perché c’è il dolore? Cosa fare della mia per-sona? Cosa mi attende dopo la morte? Cosa può rendere questo mondo più giusto?

Don Milani era convinto che “[…] annuncia-re all’uomo la salvezza proposta da Gesù Cristo non ha significato se non c’è innanzitutto una ricostruzione delle condizioni antropologiche, in base alle quali quell’annuncio ha senso. Una verità accettata da una coscienza inerte non è più verità”.29

La professionalità docente dell’IdR dovrà quindi prevedere una formazione capace di accompagnare il processo edu-cativo dei discenti in relazione alla ricerca identitaria, alla vita relazionale, alle scelte valoriali, alla complessità del reale ed alle più radicali domande di senso.

Solo così l’IRC e l’IdR potranno rappre-sentare per ogni alunno una sorta di spec-chio dinanzi al quale misurare le proprie scelte, al fine di definire l’orientamento del proprio progetto esistenziale.

Dopo aver richiamato la vostra attenzione sul risveglio dell’antropologia nel secolo che è ormai alle nostre spalle e dopo aver provato a evidenziare la peculiarità dell’antropologia teologica e l’orizzonte antropologico dell’IRC, non rimane che evidenziare il contributo spe-cifico che l’antropologia teologica può offrire all’IRC.

Io credo che questo si possa sintetizzare in tre punti che vorrei così definire: l’uomo nuovo in Cristo, il linguaggio dell’uomo nuovo, l’uma-no evangelico nella funzione docente.

L’uomo nuovo in Cristo

L’espressione “uomo nuovo”, ricorrente sulle labbra di tanti predicatori cristiani, è

tratta dalla lettera di Paolo agli Efesini, ai quali l’Apostolo così si rivolge: “Vi scongiuro nel Signore: non comportatevi più come i pagani nella vanità della loro mente […]. Voi non così avete imparato a conoscere Cristo, se proprio gli avete dato ascolto e in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, per la quale dovete deporre l’uomo vecchio con la condot-ta di prima, l’uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici, e dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nel-la santità vera” (Ef 4,17-24; cfr. Col 3,9-10).

29 L. MILANI, Esperienze pastorali, Firenze, Libreria editrice Fiorentina, 1997 (1957).

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A fronte di simili dichiarazioni, è già pos-sibile tirare una prima conclusione: la santità cristiana non consiste in questa o quella virtù da esercitare fedelmente, ma in un “rivestirsi di Cristo”. È Cristo l’Uomo nuovo (cfr. GS 22; RH 8, 13-14). L’umano evangelico, la novità che Cristo è venuto ad annunciare, non con-siste innanzi tutto in una serie di pratiche da osservare, ma in una vita “nascosta” in Cristo (cfr. Col. 3,3). Conseguentemente, la grazia cristiana, che fa di noi persone nuove, non è una forza esterna a noi che si aggiunge alle nostre facoltà naturali: è una identità che si riceve in dono, è il dono di scoprire la propria identità alla luce dell’economia salvifica.

Scrive Colzani: “Il punto decisivo del no-stro tema è che il Dio di Gesù Cristo non è solo il donatore della grazia ma anche il contenuto del dono […]. Questa unità del donatore e del dono è importante: da una parte permette di capire come il dono, legato al donatore, mantiene intatto il suo carattere personale e libero e dall’altra lascia compren-dere come la realtà della persona si realizza totalmente solo nel rimando a qualcosa che è oltre se stessa”.30

Ciò detto, il punto di partenza per cogliere fino in fondo la novità della rivelazione cristia-na è nell’esperienza dell’Alleanza. Essa, nella misura in cui rivela il volto di Dio, fa conoscere anche il ruolo e la dignità dell’uomo nella storia della salvezza. Si tratta di un’esperienza che troverà il suo culmine nella “follia” dell’incar-nazione, morte e resurrezione di Cristo.31 Dio ci ha amato per primo (cfr. 1 Gv. 4,19). In Cristo ci ha donato il suo Spirito che, nel preciso istante in cui ci rende “uomini nuovi”, ci chiede anche di esprimere tale novità nel mondo in cui vivia-mo. La grazia che ci rende nuovi non legittima intimistiche chiusure pseudo-mistiche. Non tollera uno sterile crogiolarsi per il dono rice-

vuto. È dynamis, forza che plasma e performa la nostra esistenza, rendendola esplosiva.

Da questo punto di vista, le sfide che il no-stro tempo pone sono esse stesse una grazia. Costringono a fare i conti con “la speranza che è in noi” (cfr. 1 Pt. 3,15), a superare il “complesso dell’ostrica”, per “[…] rompere gli ormeggi, spiegare le vele, avventurarci sul mare aperto”.32

In ultima analisi, “rivestirsi dell’uomo nuovo” significa accogliere la novità che la Parola di Cristo e l’esperienza della grazia hanno introdotto nella nostra esistenza e testimoniarle nel mondo attraverso uno stile di vita assolutamente inedito. La metafora dell’uomo nuovo indica, dun-que, la radicale conversione della “mente” (cfr. Ef. 3,23), ma direi anche del “cuore” e delle “mani” dell’uomo che ha incontrato Cristo.

Il linguaggio dell’uomo nuovo

In coerenza con quanto sin qui esposto, occorre subito dire che il “linguaggio” dell’uo-mo nuovo è fatto in primo luogo di azioni. Il Concilio di Trento insegna che, col dono della grazia, vengono anche infuse le virtù della fede, della speranza e della carità.33 Una simi-le esposizione oggi non è esente da rischi di errata interpretazione.

Occorre, infatti, superare una visione che vorrebbe ridurre la novità evangelica ad un codice di atti da ripetere in conformità ad un dato modello di umanità. L’umano evangelico che esplode in chi si apre alla grazia non è appannaggio di persone pie e devote, di per-fezionisti della vita spirituale, che, più che da salvati, si comportano alla stregua di persone autosufficienti: la lezione di Lc. 18, 9-14 valga per tutti coloro che si ritengono “giusti”!

30 G. COLZANI, Antropologia cristiana, o. c., p. 23.31 Cfr. S. WEIL, La Grecia e le intuizioni precristiane, traduzione di M.H. Pieracci e C. Campo, Rusconi, Milano

1974, p. 236.32 Cfr. A. BELLO, Pentecoste, festa difficile. Il cammino come costume ci terrorizza, in IDEM, Alla finestra la speranza.

Lettere di un vescovo, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1988, pp. 113-114,33 Cfr. Enchiridion Symbolorum et Definitionum, 1530.

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In cosa, dunque, consiste l’agire dell’uomo che ha incontrato Cristo? Nella bellezza di una vita che esprime la gioia di chi ha trovato un tesoro per il quale vale la pena vendere tutto (cfr. Mt 13,44-46). Al di là dell’impegno etico che comporta il vivere da cristiani, si deve mettere l’accento sul fatto che esso consiste in primo luogo nell’irraggiamento della novità che ha afferrato la nostra esistenza.

Qui, tuttavia, occorre mettere in guardia da un secondo pericolo, quello di ridurre l’espe-rienza della novità cristiana ad una forma di sentimentalismo, ad una sorta di “copyright” dei buoni sentimenti. In realtà, il linguaggio dell’uomo nuovo si esprime in una qualifica-zione della volontà, in un progetto esistenziale che abbraccia ogni aspetto dell’agire, quello che appunto tentavo di indicare con la triade “mente, cuore, mani”, ovvero, per servirsi delle già citate parole del Ministero: dagli aspetti cognitivi a quelli emotivi, etici, spirituali, ma anche … pratici e concreti!

È un aprirsi alla storia che coinvolge e sconvolge coloro che incontriamo sul nostro cammino, così come l’incontro con Cristo ha coinvolto e sconvolto ognuno di noi. Grazie al dono della fede, il linguaggio dell’uomo nuovo parla di un desiderio di progredire in ciò che già si è e tuttavia non ancora in pienezza.34 Un progredire che è sempre dono. Un dono la cui messa a frutto è sempre lasciata alla nostra partecipazione responsabile.

In questa prospettiva, merita una particolare sottolineatura propria la “minore” delle tre virtù teologali ovvero la virtù della speranza. Compagna di viaggio dell’uomo, la speranza cristiana è anticipazione di una realtà, compi-mento di una promessa che trascende l’oriz-zonte umano. Lungi dal confondersi con un ingenuo ottimismo, distante anche da un rasse-gnato realismo - termine, quest’ultimo, dietro cui spesso si cela un atteggiamento fatalista e pessimista - la speranza cristiana trova la sua garanzia nell’esperienza della comunione con Dio. Un Dio che cammina con noi per aprirci al futuro, non per rigettarci nella schiavitù del passato. Un Dio che genera la novità con la fedeltà alla sua promessa e con la nostra col-

laborazione responsabile. La speranza è così sostanza della fede e anima della carità e, in quanto tale, rende possibile il rinnova-mento evangelico del mondo.

D’altra parte, se la fede nasce dall’in-contro con Dio che assume l’iniziativa di irrompere nella storia dell’uomo, se la spe-ranza si fonda sulla convinzione che Dio è fedele e non ci lascia soli nel cammino, la carità esprime la novità teologale di chi si è radicato in Cristo.

In ultima analisi, il linguaggio dell’uomo nuovo trova la sua espressione definitiva nella carità che ci rende prossimo di chi è nel biso-gno, che “[…] dirige tutti i mezzi di santifica-zione, dà loro forma e li conduce al loro fine” (LG 42). Solo nella carità l’esperienza di Dio è autentica. Solo nella carità l’uomo trova la sua dignità e libertà. Solo nella carità troviamo il lin-guaggio universale che ogni uomo, e dunque anche ogni discente, può intendere.

L’umano evangeliconella funzione docente

Ha scritto Nazim Hikmet, nella sua Ultima lettera al figlio: “Non vivere su questa terra come un estraneo o come un turista nella natura. Vivi in questo mondo come nella casa di tuo padre: credi al grano, alla terra, al mare, ma prima di tutto credi all’uomo. Ama le nuvole, le macchine, i libri, ma prima di tutto ama l’uomo. Senti la tristezza del ramo che si secca, dell’astro che si spegne, dell’animale ferito che rantola, ma prima di tutto senti la tristezza dell’uomo. Ti diano gioia tutti i beni della terra: l’ombra e la luce ti diano gioia, le quattro stagioni ti diano gioia, ma soprattutto, a piene mani, ti dia gioia l’uomo!”.

Se mi si chiedesse cosa c’entri la poesia di un autore turco, tra l’altro militante del partito comunista, con la funzione docente dell’IdR, confesso, non sarei sorpreso. Con la stessa sincerità, risponderei che essa contiene “in nuce”, a mio avviso, la sintesi di quanto

34 Cfr J. MOLTMANN, Teologia della speranza, Queriniana, Brescia 1973, p. 106.

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5. Il ruolo educativo dell’IRC: prospettive

mi sono sforzato sin qui di esprimere. Non a caso, l’altro titolo con cui di solito viene citata è Prima di tutto, l’uomo.

Se poi si provasse a rileggerla, sostituendo alla parola “uomo”, quella di alunno, o di discente, di studente, allora si troverebbe, io credo, un grande insegnamento su quanto concerne l’umano evangelico nella funzione docente dell’IdR.

Al di là della provocazione, non v’è dubbio che la funzione docente dell’IRC si fonda sulla riscoperta dell’umanità degli IdR e sull’orientamento della loro azione didat-tica alla stella polare di ogni loro pensiero: i bisogni cognitivi e, molto di più, meta-cognitivi degli alunni.

Quanto al primo aspetto valga quanto detto a proposito dell’uomo nuovo in Cristo. Un ottimo insegnante IdR non è un insegnante alla moda - in verità, nemmeno uno necessa-riamente fuori moda. Non è semplicemente colui che è iper-aggiornato sulle indicazioni ministeriali e sulle più avanzate scoperte in campo pedagogico, … il che, ovviamente, non guasta. È una persona che si è scoperta “afferrata da Cristo” (cfr. Fil. 3,12) e che ogni giorno è straordinaria non perché senza pec-che, né difetti, ma per l’azione dello Spirito Santo che la rende creatura nuova (cfr. 2 Cor. 5,17). Se tale novità ha conquistato l’esistenza dell’Insegnante di Religione, allora sarà molto più che un docente credibile: sarà fantastico, attraente, irresistibile… a prescindere dal fatto che i suoi studenti siano o no credenti. Dirò di più: eserciterà un magnetismo travolgente proprio nei confronti degli alunni che si dicono atei e anticlericali! La sua “novità”, in ultima analisi, non verrà “da fuori”, ma “da dentro”, non sarà frutto di artificio, ma di una parola autentica, perché vissuta in prima persona.

Quanto alla necessità di porre al centro la persona dell’alunno, valga quanto detto a proposito del linguaggio dell’uomo nuovo…La prima relazione che i nostri studenti percepi-scono non è quella delle parole, per quanto dotte e illuminate. La prima realtà che essi percepiscono è il nostro reale interesse per loro. Si accorgono se abbiamo attenzione per il registro, prima che per i loro cuori, per i libri, prima che per le loro menti. Desiderano qual-cuno che li guardi negli occhi e sia premuroso senza perdere in autorevolezza, sereno senza essere pigro, coerente perché testimone del lieto insegnamento di cui è portatore. Come ha sottolineato N. Galantino, sul piano pedago-gico “[…] identità della scuola e del docente si plasmano sinergicamente, a partire da un forte coinvolgimento emotivo che è al centro della storia professionale degli Idr”.35

Il giusto connubio tra passione e profes-sionalità è ciò che consente agli IdR, che in maniera encomiabile assolvono al loro compito, di vivere la propria appartenenza ecclesiale ed il servizio ai giovani alunni, operando un sano discernimento tra istanze culturali e pedagogiche e la necessità di adeguarsi alle più recenti indicazioni di riforma scolastica.

La “mappa culturale” dell’IdR è così segnata da una duplice fedeltà a Dio e all’uomo. L’IdR vive la fedeltà a Dio facendo ogni giorno esperienza della salvezza donata in Cristo ed approfondendo con lo studio e la preghiera l’inesauribile ricchezza del mes-saggio evangelico. Vive la fedeltà all’uomo impegnandosi in primo luogo ad essere egli stesso un uomo libero e capace di amare e poi riscoprendo ogni giorno il suo servizio ai discenti, secondo uno stile educativo che fa del primato della persona il valore indiscutibile di ogni sua parola ed azione.

35 Citato in AA. VV., Irc. Un servizio alla coscienza. La “mappa culturale” degli insegnanti, www.chiesadimilano.it

In conclusione, come si può facilmente rilevare, l’insegnamento della religione

a scuola può assumere ancora un ruolo educativo di fondamentale importanza. A

169Notegiugno 2008 - anno VIII

condizione, tuttavia, che gli insegnanti di religione vivano la loro “confessionalità” secondo un modello “non riduzionistico di laicità”, bensì come “offerta di un servizio nel quadro delle finalità della scuola”.36 Il che comporta la capacità di cogliere con chiarezza gli obiettivi del piano dell’offerta formativa del proprio Istituto oltre che quelli della propria disciplina.

È noto che il dibattito culturale, pedagogico ed anche politico circa gli obiettivi e i rispettivi compiti della scuola è sempre pendente tra due polarità distinte: c’è chi sostiene che la “mis-sion” della scuola debba mirare alla formazione globale della persona, aiutandola a rispondere alla domanda sul senso globale della vita - orizzonte che, a onore del vero, ispira anche questo saggio - e c’è chi ricorda che nessuna formazione è veramente tale a prescindere da conoscenze e competenze. La mediazione ricorrente è quella che individua gli obiettivi formativi in una triplice trasmissione di saperi: il sapere, il saper fare, il sapere essere.37

Ad ogni modo, la stessa presenza di un tale dibattito testimonia una volta di più che l’istanza educativa è ancora di grande attualità e non c’è libro bianco dell’Unione Europea che non insista “[…] sulle dimensioni morali e culturali dell’educazione, che consentano a ciascuna persona di comprendere l’individua-lità degli altri e di capire l’ineguale progredire del mondo verso una certa unità: ma un tale processo deve iniziare dalla comprensione di se stessi attraverso un viaggio interiore che ha le sue pietre miliari nella conoscenza, nella rifles-sione e nella pratica dell’autocritica”.38 Sono dichiarazioni tratte dal “rapporto Delors”, che peraltro insiste sul concetto di “educazione permanente”, un’educazione che, iniziata in

famiglia, si distenda in un continuum che dalla scuola giunga alla vita: “L’educazione nel corso della vita è un processo continuo attraverso il quale ciascun essere umano aumenta e adatta le proprie conoscenze e abilità, le proprie fa-coltà di giudizio e le proprie capacità d’azione. Essa deve consentire all’individuo di diventare consapevole di se stesso e del proprio ambien-te, e di svolgere un ruolo sociale nel lavoro e nella comunità in genere”.39

Il medesimo rapporto precisa quale debba essere il compito degli insegnanti: “Gli inse-gnanti svolgono un ruolo determinante [nel] creare le condizioni necessarie per il successo dell’educazione formale e dell’educazione per-manente. L’importanza del ruolo dell’insegnan-te in quanto promotore del cambiamento, della comprensione e della tolleranza reciproca, non é mai stata così evidente come oggi [...] La ne-cessità di cambiare, di passare da forme grette di nazionalismo all’universalismo, dal pregiudi-zio etnico e culturale alla tolleranza, alla com-prensione e al pluralismo, dall’autocrazia alla democrazia nelle sue varie manifestazioni [...] assegna enormi responsabilità agli insegnanti, che contribuiscono a forgiare i caratteri e gli spiriti delle nuove generazioni”.40

Indicazioni che, rivolte ad ogni docente, credo delineino con estrema chiarezza una prospettiva di grande interesse anche per il ruolo educativo degli IdR. Si tratta, infatti, di affermazioni che ripropongono in tutta la sua attualità il quadro delle “finalità della scuola”, che sinteticamente viene rappresen-tato in termini di formazione dell’uomo e del cittadino.41

Ebbene, educare lo studente italiano signi-fica, in primo luogo, aiutarlo a elaborare nel tempo un codice etico che riconosca i valori

36 Cfr. Ivi. 37 Cfr. M. DANON, Counseling, Red edizioni, Brescia 1999.38 Cfr. J. DELORS, Nell’educazione un tesoro, Rapporto Unesco della Commissione internazionale sull’educazione

per il ventunesimo secolo, Armando editore, Roma 1997, p. 16.39 Ivi, p. 94; cfr. Ivi, pp. 91-98.40 Cfr. Ivi, p. 133.41 Decreto del Presidente della Repubblica, n. 339 del 21 luglio 1987.

170 Note giugno 2008 - anno VIII

della Costituzione italiana. Valori quali pace, democrazia, lavoro, diritti universali dell’uo-mo, solidarietà, legalità, rispetto, tolleranza religiosa rappresentano significati profondi e condivisi. Attraverso la gratificante fatica di condurre i discenti alla scoperta di simili valori, l’IdR può esercitare fino in fondo il suo compito di educatore del cittadino e testimone della novità evangelica che è al fondo di ogni autentico valore umano.

Una prospettiva che forse potrebbe apparire riduttiva, ma che tale non è, perché offre la possibilità concreta di offrire un servizio qua-lificato, rivolto veramente ad ogni alunno - a prescindere dal suo credo religioso - senza per questo rinunciare ad attingere ai “principi del cattolicesimo che fanno parte del patrimonio storico del nostro paese”.42

La sfida che attende gli IdR è, dunque, impegnativa ed esaltante. Chiede loro una duplice “formazione permanente”: in quanto “christifideles” e in quanto profes-sionisti dell’educazione; ma li pone anche in condizione di cogliere e far cogliere come nessun valor autenticamente uma-no sia, in quanto tale, alieno alla novità evangelica.

Finché come comunità ecclesiale ed educante saremo in grado di cogliere que-sta sfida ci sarà futuro per l’IRC e ci sarà speranza per la Scuola italiana.

Occorre sostenere coloro che questa sfida devono affrontare in prima linea.

Per questa ragione, vorrei rivolgermi a tutti

gli IdR che talvolta stentano a leggere i “segni dei tempi”, e, nostalgici e sfiduciati, sono tentati di rivolgersi ad un passato che non c’è più e forse non c’è mai stato.

A loro e a tutti gli altri vorrei rivolgere un ulti-mo indirizzo di incoraggiamento, prendendolo a prestito da un “maestro di speranza”:

“Ci troviamo di fronte a un segno dei tempi fortissimo. Siamo invitati, come in Avvento, a «levare il capo», per guardare avanti e non indietro. Il mondo non è invecchiato. Non è la fine. Se sulla terra ci sono ancora dei tumulti, questi sono i tu-multi dell’adolescenza, e non i segni di un precoce marasma senile. L’arco del tempo non solo non è in declino, ma non ha an-cora raggiunto lo zenith. L’umanità non ha esaurito le scorte della Redenzione. Anzi, ne ha consumate pochissime, acquistan-dole, per così dire, sull’uscio di casa […]. Eccoci allora condotti a una domanda es-senziale: come comunità cristiana che cosa dobbiamo fare? La risposta è semplice: progettare. Non possiamo andare avanti con metodi scontati, con improvvisazioni pastorali, con ritmi di puro contenimento, con procedure di facile conservazione. È necessario mettersi in ascolto del futuro. Occorre leggere con prontezza le linee di tendenza presenti nella nostra società, per intuire quale tipo di servizio la Chiesa deve fornire. È urgente scandagliare quale sarà l’avvenire dei nostri giovani. Dove andrà la turba dei nostri ragazzi. Come si evolverà nei prossimi decenni la situa-zione dei lavoratori. Su quali spazi inediti si allargherà il mondo della cultura. Una volta che avremo disegnato la planimetria della «città» e avremo pronosticato quale sarà il suo piano di espansione, troveremo i modi giusti per gridare come Chiesa: «Gente, Gesù Cristo, morto e risorto, è il tuo Redentore!»”.43

42 Ivi. 43 A. BELLO, Far credito alla speranza, in IDEM, Alla finestra la speranza, o. c., pp. 38-39.

Un colloquio internazionale suPensamento de Simone Weil e o incontro Entre as culturas

Rio de Janeiro, 27-31 agosto 2007

di PAOLO FARINA*

Un seminario per alcuni tra i massimi studiosi del pensiero e della vita di S. Weil. Cinque giorni, sedici docenti universitari più un regista ed uno sceneggiatore, un programma intenso che prevedeva cinque relazioni al giorno, cia-scuna seguita dal dibattito, per meditare sul “Pensiero di Weil e l’incontro tra le culture”: è la formula pensata e realizzata dalla P.U.C., la Pontificia Università Cattolica di Rio de Ja-neiro, la città che ha ospitato l’evento. Anima del seminario è stata la prof.ssa Maria Clara Bingemer Lucchetti, decana della facoltà di Scienze Filosofiche e Teologiche della P.U.C.

Ha aperto i lavori la lezione di E. Gabellieri, decano della Università di Lione, autore di Etre et Don1, uno dei testi che ha indagato più a fondo il legame tra filosofia, mistica e teologia in S. Weil, arrivando a proporre una “ontoteologia delle mediazioni” o “metaxo-logia”. Metaxu è uno dei termini greci di uso

* Docente stabile di Antropologia teologia - Istituto di Scienze Religiose San Nicola il Pellegrino - Trani 1 Cfr. E. GABELLIERI, Etre et Don. Simone Weil et la phlosophie, Editions Peeters, Louvain-Paris-Dudley MA,

2003.2 La relazione di Gabellieri aveva per titolo: Enracinement et Incarnation. Dimensions du dialogue interculturel

et intereligieux chez S. Weil, Rio de Janeiro, 28 agosto 2007.3 Cfr. F.R. PUENTE, La mathématique comme metaxu entre la Grèce et le christianisme, Rio de Janeiro, 28 agosto

2007. Si veda anche IDEM, Simone Weil et la Grèce, L’Harmattan, Paris 2007. 4 Cfr. M. MARIANELLI, La metafora ritrovata. Miti e simboli nella filosofia di Simone Weil, Città Nuova, Roma 2004. 5 Cfr. IDEM, Unicità de la vérité et universalisme religieux weilien comme lieu de rencontre entre les cultures, Rio

de Janeiro, 28 agosto 2007.

frequente negli appunti weiliani. Esso sta ad indicare tutto ciò che funge da intermediario della rivelazione divina e ciò che realizza un “ponte” tra Dio e l’umanità2. Sull’importanza delle mediazioni che la Weil ha intravisto nella cultura greca - ed in particolare in quella della geometria greca - si è incentrato l’intervento di F. Puente, dell’Università Federal di Minas Gerais, a Belo Horizonte3.

Anche M. Marianelli, docente presso l’Uni-versità di Perugia, ha presentato uno spaccato della riflessione filosofica weiliana, offrendone una rilettura in chiave di preparatio evange-lica all’evento dell’Incarnazione di Cristo, la metafora reale4 che si pone come rivelazione delle rivelazioni. In tale prospettiva, l’evento cristologico si offre come il culmine di ogni altra precendente “incarnazione”, secondo una logica che non è distante da quella dei semina Verbi degli Stromati di san Clemente Alessandrino5. È seguita la relazione di Farina,

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avente per tema la ragionevole follia d’amo-re6 del Dio di S. Weil. L’intento era quello di scandagliare le interconnessioni tra “logica dell’assurdo” e “logica soprannaturale” in S. Weil, arrivando a postulare una Weil mistica e teologa della “debolezza di Dio”, un Dio, appunto, debole eppure onnipotente solo in virtù della sua incommensurabile ragione d’amore. La lettura di P. Farina è stata condivisa da M. C. Bingemer che nella sua informazione ha ribadito i legami tra mistica e teologia nel pensiero weiliano, oltre che il suo rifiuto della visione veterotestamentaria dell’onnipotente e nazionalista “Dio degli eserciti”7.

J. Leite, anch’egli della P.U.C di Rio de Janei-ro, ha offerto una riflessione sulla necessità di coniugare, in Simone Weil, pensiero e azione, riflessione filosofico-teologica e impegno so-cio-politico8. Significativo è stato l’intervento del prof. A. Bosi, dell’Università di San Paolo. La moglie, Ecléa Bosi, ha pubblicato il primo

testo su S. Weil in Brasile9. Proponendo una riflessione sulla cultura letteraria e le sue radici popolari, Alfredo Bosi ha illustrato un interes-sante parallelismo tra l’esistenza ed l’opera del nostro Gramsci e quelle di Simone Weil10.

A tal riguardo, Farina ha chiesto a Bosi cosa pensasse di un analogo possibile parallelismo tra il “cristiano senza Chiesa”11, I. Silone, e la “santa dei senza Chiesa”12, Simone Weil. Bosi si è detto colpito da questo accostamento e ha offerto la propria disponibilità ad un even-tuale successivo approfondimento di questo argomento. Forse il più originale dei contributi è stato quello offerto da G. Safra, psicanalista, anch’egli professore della USP, presso l’Istituto di psicologia di San Paolo del Brasile13. Egli ha infatti presentato una rilettura in chiave psi-chiatrica dei “bisogni dell’anima”, analizzati da Simone Weil nella prima parte de L’Enranci-ment14. Si tratta di un testo che nelle intenzioni dell’autrice era destinato ad essere una bozza

6 Cfr. P. FARINA, Simone Weil. La raisonnable folie de l’amour, Rio de Janeiro, 28 agosto 2007. Cfr. IDEM, Simone Weil. La ragionevole follia d’amore, Edigrafital, Teramo 2000; IDEM, Simone Weil. Dalla teologia della follia di Dio una antropologia del consenso, in «Quaderno di cultura e formazione», n°10/1999, ISR Trani, 133-148; IDEM, Simone Weil. Tra Grecia e Cristianesimo, in «Rivista diocesana andriese», n°3/1999, 105-117; IDEM, Dio e il male dopo Auschwitz. Tra teologia e filosofia, sulle orme di Hans Jonas, in «Salòs», n°1/2001, 9-18; IDEM, La ricerca di Dio nel cammino della Weil. Simone Weil, la via di Dio, in «Prospettiva Persona», nn°37-38/2001, 66-71 (prima parte); IDEM, La ricerca di Dio nel cammino della Weil. Simone Weil, la via di Dio, in «Prospettiva Persona», nn°39/2002, 48-52 (seconda parte).

7 Cfr. M.C. LUCCHETTI BINGEMER, Simone Weil: a pioneer of the inter-religious dialogue, Rio de Janeiro, 28 agosto 2007; IDEM, Simone Weil. La debolezza dell’amore nell’impero della forza, Zona Editrice, Civitella in Val di Chiana (Arezzo) 2007. Si veda anche M.C. BINGEMER - G. P. DI NICOLA, Azione e contemplazione. Atti del primo congresso weiliano di Rio (2003), Effatà editrice, Torino 2005.

8 Cfr. J. V. LEITE, Simone Weil: action-contemplatione, Rio de Janeiro, 29 agosto 2007; IDEM, Racionalização: outro nome da dominação de quem trabalha?, in http://www.rh.com.br/ler.php?cod=4729.

9 Cfr. E. BOSI, A condição Operária e outros estudos sobre a opressão. Antologia de Simone Weil, São Paulo: Paz e Terra, 1978.

10 Cfr. A. BOSI, Simone Weil et les “literate” culture dans à la mode grassroots, Rio de Janeiro, 29 agosto 2007.11 È la celebre definizione che lo stesso Silone diede di sè, quando si qualificò anche come un “socialista senza

partito”, in una intervista del 1961, rilasciata all’Express: cfr. M. PIERACCI HARWELL, Un cristiano senza chiesa e altri saggi, Studium, Roma 1991; G.P. DI NICOLA - A. DANESE, Silone, percorsi di una coscienza inquieta, Fondazione Ignazio Silone, L’Aquila 2006.

12 Cfr. H. OTTENSMEYER, Le theme de l’amour dans l’œuvre de Simone Weil, Lettres Modernes, Paris 1958, 8.13 Cfr. G. SAFRA, Attention to the needs of the soul: the contribution of Simone Weil to the clinical situation, Rio

de Janeiro, 29 agosto 2007; IDEM, La fragmentaciòn del Ethos en el mundo contemporàneo, in «Perspectivas Sistèmaticas. La nueva comunicacion», articulo “on line”, in www.redsistemica.com.ar/safra.htm.

14 Si tratta di quattordici “esigenze dell’anima” che costituiscono un “prélude à une dèclaration des devoirs

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della futura costituzione francese, una volta terminata la Seconda Guerra Mondiale. A Safra ha fatto seguito Emilia Mendonça de Morais, della Universidad Federal da Paraìba, di João Pessoa. La sua comunicazione si è incentrata sulla mediazione tra l’umano e divino, eviden-temente uno dei cardini del pensiero weiliano. La Mendonça ha così scandagliato una “sim-biosi paradossale e segreta dello strazio e del giubilo eterno” che consente il passaggio dal malheur alla misericordia15.

Autorevole anche l’intervento di E. Sprin-gsted, cofondatore e presidente sin dal 1981 della American Weil Society. Autore di testi basilari su S. Weil16, Springsted, docente del Princeton Theological Seminary del New Jersey, ha illustrato quella che egli stesso ha definito come una “teologia della cultura” in Simone Weil. In ultima analisi, tale teologia postulerebbe, ad avviso di Springsted, una cul-tura fondata, tanto dal punto di vista politico

quanto dal punto di vista sociale, su un “certo tipo di ordine” ovvero su un ordine non etero-imposto, ma che nasce nell’animo di quanti si nutrono di attenzione e di consenso17. Molto bello è stato il contributo di un’altra autrice statuniteste, J. Doering dell’Università Notre Dame. La Doering ha offerto una dettagliata analisi testuale del testo Luttons nous pour la justice18, uno dei testi ultimi redatti da S. Weil, il medesimo in cui lei eleva il suo “cantico della follia d’amore”, per usare una definizione già proposta dal sottoscritto19. T. Emerlich, spa-gnolo, uno dei cinque europei presenti - ma al momento docente del Boston college - ha offerto un’eccellente proposta di lettura del pensiero filosofico weiliano, nel tentativo di si-tuarlo all’interno del panorama della storia del-la filosofia20. Si è trattato di uno dei contributi più apprezzati e al contempo maggiormente dibattuti, proprio in virtù della scelta operata dall’autore di omettere ogni riferimento alla teologia di S. Weil, in ragione di una sua inter-

envers l’être humain”. La Weil così le elenca: l’ordine, la libertà, l’ubbidienza, la responsabilità, l’uguaglianza la gerarchia, l’onore, la punizione, la libertà di opinione, la sicurezza, il rischio, la proprietà privata, la proprietà collettiva, la verità. Sono altrettanti bisogni dell’uomo, che occorre rispettare, se si vuole combattere il suo sradicamento. In definitiva, essi rimandano alla “prima radice” di ogni persona e della società ovvero al loro fondamento soprannaturale. Scrive S. Weil, in conclusione de L’enracinement: “La scienza dell’anima e la scienza sociale sono ambedue impossibili se la nozione di soprannaturale non è rigorosamente definita ed introdotta nella scienza, come nozione scientifica, per esservi impiegata con precisione estrema […]. L’ordine del mondo è la bellezza del mondo. Muta solo il regime dell’attenzione, a seconda che si cerchi di concepire i rapporti necessari che lo compongono o di contemplarne lo splendore. È una sola ed identica cosa che rispetto a Dio è saggezza eterna, rispetto all’universo è ubbidienza perfetta, rispetto al nostro amore è bellezza, rispetto alla nostra intelligenza è equilibrio di rapporti necessari, rispetto alla nostra carne è forza bruta” (S. WEIL, La prima radice, Edizioni di Comunità, Milano 1980, 252; cfr. IVI, 7-40).

15 Cfr. E.M. MENDONÇA DE MORAIS, A via da mediação: elo entre o humano e o divino, Rio de Janeiro, 29 agosto 2007.

16 Cfr. E.O. SPRINGSTED, Christus mediator: platonic mediation in the thought of Simone Weil, Scholars Press, Chico 1983; IDEM, Simone Weil and the Suffering of Love, Cowley Pubblications, Cambridge 1986. D. Allen - E. O. Springsted, Spirit, Nature, and Community: Issues in the Thought of Simone Weil, State University of New York Press, Albany 1994; E. J. DOERING - E.O. SPRINGSTED, Christian Platonism of Simone Weil, University of Notre Dame Press, Chigago 2004.

17 Cfr. E.O. SPRINGSTED, Simone Weil’s theology of culture: inspiration and its outworking, Rio de Janeiro, 30 agosto 2007.

18 Cfr. E.J. DOERING, Justice: a supernatural virtue. The spirit oh justice: the supreme and perfect flower of the folly of love, Rio de Janeiro, 30 agosto 2007.

19 Cfr. P. FARINA, Simone Weil. La ragionevole follia d’amore, o. c., 153.20 Cfr. B. ESTELRICH BARCELÒ, Training for Death, Exercising for Life. Spiritual Exercises and Weilian Philosophy, Rio de

Janeiro, 30 agosto 2007; IDEM, Creación y decreación en la filosofía de Simone Weil, in «Pensamiento: Revista de investigación e Información filosófica», Vol. 63, nº 238/2007, 777-795.

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pretazione in chiave esclusivamente filosofica. Breve, ma incisiva, la relazione di M. Guimares, il terzo ed ultimo rappresentante della P.U.C., il quale ha esposto un convincente commen-to del Prologo weiliano, da un punto di vista poetico e mistico21. M. Malacchini, italiano, ma residente da diversi lustri a Santiago del Cile, dove coordina il “Centro personalista cileno”, ha offerto un approfondimento interculturale del pensiero weiliano, coniugando insieme svariate e molteplici prospettive22.

Hanno inviato un contributo scritto anche gli italiani A. Danese e G.P. Di Nicola, fondatori e direttori della rivista Prospettiva Persona23. Nella loro relazione, essi si sono soffermati sulla questione del battesimo di S. Weil, di recente nuovamente negata nella seconda edizione del testo di G. Fiori24. Nel dibattito successivo a tale comunicazione, si è dovuta registrare la sorpresa degli studiosi di lingua non italiana, i quali hanno manifestato il loro stupore per un dibattito che nei rispettivi Paesi è ormai abbondantemente archiviato. In particolare, E. Springsted ha parlato della sua amicizia con S. Deitz, colei che ha appunto battezzato Weil in ospedale, sul letto di morte e con acqua di rubinetto. Ha anche offerto la sua disponibilità a pubblicare sui Cahiers Simone Weil un estrat-to di una intervista in esclusiva con S. Deitz, nella quale ella confessa tutta la sua amarezza per la scarsa attenzione e la sfiducia con cui

21 Cfr. M.A. GUIMARAES, The host’s metaphor: poetry, mystic and philosophy in Simone Weil, Rio de Janeiro, 30 agosto 2007; IDEM, Quando il pensiero è vita, in M.C. BINGEMER - G. P. DI NICOLA, Simone Weil. Azione e con-templazione, o. c., 10-26.

22 Cfr. M. MALACCHINI, La Beauté d’une Vèrité Contradictoire. Simone Weil et l’experience de la Vérité, Rio de Janeiro, 30 agosto 2007.

23 Cfr. G.P. DI NICOLA - A. DANESE, Simone Weil. Abitare la contraddizione, Dehoniane, Roma 1991; IDEM, Abissi e vette. Percorsi spirituali e mistici in Simone Weil, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2002; si veda anche www.prospettivapersona.it.

24 Cfr. IDEM, L’università di Simone Weil nella questione del Battesimo, Rio de Janeiro, 30 agosto 2007.25 Sull’argomento si veda anche P. FARINA, A proposito del battesimo di Simone Weil. Biografia di un pensiero o

ideologia?, in «Prospettiva Persona», n°59/2007, 81-85.26 Cfr. V. LEONARDI - R. BARBIERI, Simone Weil. Projeto de filme-documentàrio sobre a atualidade do pensamento

de Simone Weil, Rio de Janeiro, 29 agosto 2007.27 L’indirizzo del newsgroup è: [email protected].

è stata accolta la sua rivelazione. Una sfiducia - ad avviso di tutti i presenti - dovuta più a pre-giudizi di natura ideologica che al rispetto del mistero di Simone, e fondata su una soggettiva interpretazione dei fatti, piuttosto che su una puntuale registrazione dell’accaduto25.

O pensamento de S. Weil ha anche ospitato uno sceneggiatore, Victor Leonardi, e un regi-sta, Renato Barbieri, entrambi brasiliani ma di origine italiana, specializzati nella produzione di documentari volti a illustrare la vita e il pen-siero di grandi uomini e donne della storia. I due sono al lavoro per preparare un documen-tario su S. Weil, che intendono lanciare sui cir-cuiti internazionali in occasione del centenario della nascita di Simone, nel 2009. Hanno perciò approfittato dell’occasione per illustrare il loro progetto e per registrare una intervista con ciascuno dei relatori del seminario26.

L’ultimo giorno è stato quello dedicato al briefing e ha partorito una vera miniera di idee. Si è così deciso di dare vita alla Associazione internazionale di studiosi weiliani, della quale il sottoscritto è stato nominato vicepresidente; è nato una newsgroup dedicato al pensiero weiliano27 e che anticipa la nascita di un sito web col medesimo oggetto. Da ultimo, ma non in ordine di importanza, la decisione di pubblicare gli atti del seminario in varie lingue - portoghese, inglese, francese, spagnolo e italiano.

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Un’esperienza ricca, dunque, quella vissuta a Rio.

Chi scrive, ha potuto viverla come un dono inatteso, dopo due decenni e più trascorsi con passione sulle pagine di Simone Weil. Sia dun-que concesso di manifestare pubblicamente la giusta riconoscenza a chi ha voluto che un rappresentante ISSR partecipasse al Convegno di Rio.

Un grazie sicuro a sua Ecc.za Mons. Pichierri

e al Direttore don Mimmo Marrone. Peraltro, sarà possibile raccogliere i frutti di quanto seminato tra due anni, in occasione del cente-nario della nascita di Simone, quando al nostro Istituto sarà offerta la possibilità di ospitare un analogo congresso internazionale allo scopo di diffondere sempre più la conoscenza di una donna straordinaria, una “teologa outsider”,28 che la nostra Chiesa conosce e ama in misura, io credo, non ancora sufficiente.

28 Cfr. P. VANZAN, Introduzione a AA. VV., Mysterium salutis, vol. XII, Lessico dei teologi del XX secolo, Queriniana, Brescia 1967-1978, XIII-XXVII. Sulla stessa linea di pensiero si colloca il giudizio di E. Vilanova, il quale scrive: “Simone Weil può essere collocata tra i carismatici della soglia, tra quei «teologi non computabili ecclesiastica-mente» che hanno ricevuto un dono simile a quello del Battista: indicare il Signore della Chiesa” (E. VILANOVA, Simone Weil, 1909-1943, in IDEM, Storia della teologia cristiana, vol. 3, Borla, Roma 1995, 478-486, 484). Considerazioni analoghe su Weil erano già presenti in C. MOELLER, Littérature du Xxe siécle et christianisme, Casterman, Tornai 1953. Per una introduzione sistematica alla teologia nel XX secolo, cfr. C. ROCCHETTA - R. FISICHELLA - G. POZZO, La teologia tra rivelazione e storia, EDB, Bologna 1985.

di DOMENICO MARRONE*

Don Tonino Belloe la questione meridionale

Occorre una buona dose di audacia nel-l’esaminare la figura di don Tonino Bello che non è stato sicuramente né un prete né un vescovo facile. Il tentativo nostro di questa sera di riflettere sul nostro Sud alla luce del suo magistero1 si rivela poi ancor più arduo in quanto il rischio della retorica può essere in agguato e difficilmente eludibile.

Ogni retorica è carica di equivoci e quella della questione meridionale forse lo è più di ogni altra. Quindi, per fare un minimo di chiarezza, conviene ricordare che la questio-ne meridionale non è la questione del Mez-zogiorno. Che quest’area, nella quale vive oltre un terzo della popolazione italiana, sia complessivamente sottosviluppata, è un dato inconfutabile che non viene messo in discus-sione da nessuno.

Nell’ultimo trentennio il tema della questio-ne meridionale era stato espunto dal dibattito politico. Anzi, nei primi anni ’90, l’emergere prorompente del leghismo piuttosto che far riflettere sulle nuove fratture territoriali ge-neratesi nel quindicennio precedente, aveva imposto come chiave interpretativa della storia recente d’Italia una presunta questione

* Docente stabile di Teologia Morale e Direttore Istituto Superiore di Scienze Religiose San Nicola il Pellegrino - Trani.

1 Cfr. A. BELLO, Sud a caro prezzo, La Meridiana, Molfetta 2003; A. PICICCO, A Sud l’orizzonte si è schiarito. Il vescovo Tonino Bello dentro e oltre la realtà meridionale, Ed Insieme, Terlizzi, 2003.

2 F. CASSANO, Postfazione, in A. BELLO, Sud a caro prezzo. Il cambiamento come sfida, La Meridiana, Molfetta 2007, 67.

settentrionale: una versione appena un po’ camuffata dell’antica visione del mezzogiorno come “palla al piede” (G. Vacca).

Per don Tonino quello del Meridione non è un problema dei meridionali, ma dell’intera nazione

“risolvibile solo con la forte presa di co-scienza di una solidarietà che lega alla stessa nave i cittadini di Milano e quelli di santa Maria di Leuca. Se si imbarca acqua a prua, chi sta a poppa non può dormire tranquillo”.

Don Tonino è stato molto attento ai proble-mi del Sud Italia.

“Nell’opera e nell’esperienza di don To-nino Bello il sud non è presente come un oggetto tra gli altri, da reperire scorrendo l’indice analitico dei suoi libri. Il sud, infat-ti, ha nel pensiero e nella testimonianza di don Tonino un ruolo cruciale, perché s’identifica con il fulcro stesso di quel pensiero e di quella testimonianza”, come afferma Cassano2.

Don Tonino, uomo del Sud, del Sud sposa le cause e patisce le sofferenze. Egli si

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sente “profondamente incarnato in una terra, la ama nelle viscere, se la porta nel sangue ma nel contempo soffre il peri-metro ristretto dei suoi limiti, avverte il disagio delle sue insufficienze”, come nota Minervini3.

Egli portava con sé i valori tipici della sua terra, il candore delle radici nutrito di vivo contatto col paese natio, la solarità e la cor-dialità di quella gente, la misura elementare ed essenziale degli oggetti, la semplicità di sentimenti intrisi spesso di sofferenza.

Portava con sé il ricordo dei contadini che avevano fatto tutt’uno con l’avarizia del suo-lo, di fronti perlate di sudore amaro che ne contrastavano l’aridità, di famiglie benedette dalla miseria, di esistenze fortificate nella lotta con la natura.

Non c’è dubbio che le nostre origini influen-zino - molto spesso determinino - la nostra personalità. Non v’è dubbio che nell’uomo-vescovo l’origine abbia segnato l’umanità e al tempo stesso la sua azione pastorale, eppure per nessuno di noi le origini segnano a tal punto da esaurire e condizionare fino in fondo personalità e azioni.

La persona di don Tonino era caratterizzata dall’esuberanza, dall’estro, dalla solarità e dalla cordialità tipica del Meridione, unita ad un desiderio di autenticità evangelica scevra da sovrastrutture e da aride forme rituali. È inevi-tabile cogliere il legame di don Tonino con la sua terra e i risvolti del suo animo meridionale nell’azione pastorale e magisteriale.

Ha vissuto il meridionalismo come forte attenzione alle cose reali.

“Ha misurato la fatica del cambiamento prima sui problemi concreti, strutturali,

quelli che si toccano. La casa, la disoccupa-zione, il disagio, la criminalità, lo sviluppo. La polvere e la strada. E poi le cose che non si toccano, la cultura, le relazioni. Lo scetticismo. Le coscienze”4,

come sottolinea Minervini.

A don Tonino non sono mancate occasioni per immergersi nelle strade del Sud, per veri-ficare i problemi e gli aneliti di resurrezione di questa terra, per metterne a frutto la genialità dell’indole, la vivacità della mente, la gene-rosità del cuore, l’esuberanza del carattere tipicamente meridionale.

Va sottolineata l’attenzione educativa di don Tonino nei confronti del popolo meridionale. Il vescovo molfettese, nell’autenticità del suo es-sere personale, è essenzialmente un educatore, maestro perché testimone di speranza, porta-tore di contenuti e di suggerimenti formativi vivificati dalla personale coerenza di vita e di azione, capace di fare della sua vita un “testo” di rilevante spessore pedagogico attraverso uno stile caratterizzato dalla semplicità dei modi, dal rifiuto naturale dei segni del potere, dal calore e dalla vicinanza umana, dall’imme-diatezza e dalla spontaneità del linguaggio.

L’amore per la sua terra lo porta a sostenere che da “icona della subalternità”, il Mezzogior-no d’Italia può diventare “icona del riscatto” dalle antiche schiavitù5, valida per tutti i Sud della terra; l’importante è fare emergere

“una coscienza nuova, non più disposta a recitare ruoli subalterni sullo scenario della civiltà”.

“Il cambiamento del meridione - per don Tonino - passa per la testa dei meridionali”.

3 MINERVINI G., Introduzione, in BELLO A., Sud a caro prezzo. Il cambiamento come sfida, La Meridiana, Molfetta 2007, 9.

4 MINERVINI G., Introduzione, in BELLO A., Sud a caro prezzo. Il cambiamento come sfida, La Meridiana, Molfetta 2007, 7.

5 Si pensi alla descrizione del Mezzogiorno fatta dai due romanzi italiani più conosciuti e tradotti nel mondo: il Gattopardo, di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Cristo si è fermato ad Eboli, di Carlo Levi.

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È necessario

“pensarsi in grado di generare futuro, di tracciare con le proprie gambe una strada inedita e originale. Rielaborare con auda-cia la propria storia e la propria identità senza dissimularle sotto altre spoglie”6.

Se è vero - come afferma don Tonino - che nel Mezzogiorno d’Italia permangono ancora segni dello stadio degli schiavi7, è in fermento lo stadio degli uomini liberi, ma si colgono anche i segni della comunità degli amici, quale luogo di convivialità, di pace e di ordine:

“C’è nel Sud, oggi più che mai, un’ansia profonda di solidarietà. Si avverte il bisogno di uscire dalle vecchie aree del-l’individualismo per aprirsi a orizzonti di comunione. C’è un’istintiva disponibilità all’accoglienza del diverso. Non per nulla il Mezzogiorno è divenuto crocevia privi-legiato delle culture mediterranee, vede moltiplicarsi al suo interno le esperienze di educazione alla pace, si riscopre come spazio di fermentazione per le logiche della nonviolenza attiva, avverte come contrastante con la sua vocazione na-turale i tentativi di militarizzazione del territorio, e vi si oppone con forte deter-minazione”8.

Una costante di don Tonino è stata quella di valorizzare la ricchezza dell’animo meridio-nale, dotato di fantasia creativa nel trovare soluzioni fattive, lontane dalla tentazione della rassegnazione e della passività. Don Tonino, forgiato dalla cultura meridionale e dal Concilio, scommise sul meridionalismo creativo e sull’azione educativa soprattutto verso i giovani per far maturare persone forti, appassionate, legate ad alti ideali, consapevoli delle loro potenzialità e dei contributi che erano chiamati ad offrire.

Nella recezione di Tonino Bello, il Sud è chiamato infatti “luogo di vita”, per le grandi risorse umane che favoriscono la cultura del-l’amicizia, della lealtà, valori da custodire, pro-muovere e accrescere considerando i fenomeni emergenti di individualismo e soggettivismo esasperato, o di egoismo.

Don Tonino ci fa intuire le caratteristiche del Mezzogiorno, in modo particolare della sua terra salentina e della sua gente, in una pre-ghiera scritta in occasione della sua partenza per Molfetta come vescovo:

“Dai a questi miei amici e fratelli la forza di osare di più. La capacità di inventarsi. La gioia di prendere il largo. Il fremito di speranze nuove. Il bisogno di sicurezze li ha inchiodati a un mondo vecchio, che si dissolve, così come hai inchiodato me su questo scoglio, stasera, col fardello pesan-te di tanti ricordi. Dai ad essi, Signore, la volontà decisa di rompere gli ormeggi. Per liberarsi da soggezioni antiche e nuove. La libertà è sempre una lacerazione! Non è dignitoso che, a furia di inchinarsi, si spezzino la schiena per chiedere un lavoro ‘sicuro’. Non è giusto attendersi dall’alto le ‘certezze’ del ventisette del mese. Stimola in tutti, nei giovani in particolare, una crea-tività più fresca, una fantasia più liberante, e la gioia turbinosa dell’iniziativa che li ponga al riparo da ogni prostituzione. Una seconda cosa ti chiedo, Signore. Fa provare a questa gente che lascio l’ebbrezza di camminare insieme. Donale una solida-rietà nuova, una comunione profonda, una ‘cospirazione’ tenace. Falle sentire che per crescere insieme non basta tirar dall’armadio del passato i ricordi splendidi e fastosi, di un tempo, ma occorre spalan-care la finestra del futuro progettando insieme, osando insieme, sacrificandosi insieme. Da soli non si cammina più. Con-cedile il bisogno di alimentare questa sua coscienza di popolo con l’ascolto della tua parola. Concedi, perciò, a questo popolo, la

6 MINERVINI G., Introduzione, in BELLO A., Sud a caro prezzo. Il cambiamento come sfida, La Meridiana, Molfetta 2007, 8.

7 Il riferimento è a Gioacchino da Fiore che parlava di stadi del genere umano. Per il celebre pensatore medievale il primo stadio è quello degli schiavi, poi vi è quello degli uomini liberi, e il terzo sarà quello degli amici.

8 BELLO A., La profezia oltre la mafia, in ID., Sud a caro prezzo. Il cambiamento come sfida, La Meridiana, Molfetta 2007, 60.

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letizia della domenica, il senso della festa, la gioia dell’incontro. Liberalo dalla noia del rito, dall’usura del cerimoniale, dalla stanchezza delle ripetizioni…”9.

Da questa preghiera non è difficile cogliere alcuni elementi negativi atavici che contrasse-gnano la terra d’origine di Bello, ma è altrettan-to facile cogliere la “vocazione” dell’essere me-ridionale, cioè l’espressività di gente imbevuta di solarità, erede di grande sapienza, capace di forti speculazioni, aperta all’accoglienza ed al dono, espressamente religiosa.

L’umore “meridionale” ha il pathos della contemplazione, una grande agilità mentale ed un’attitudine connaturale alla contempla-zione. È libero interiormente perché portatore di festività, cioè del gusto delle cose che sa “usare” e “trascendere”, non è inaridito dal-l’efficientismo. Ha l’esperienza del sacrificio, e quindi, il sapore delle cose.

Don Tonino avvertirà in maniera fremen-te nella sua carne - a motivo anche del suo carattere10 - l’indignazione per tutte quelle connotazioni negative che caratterizzano l’ethos meridionale e negli anni del ministero episcopale esploderanno in lui la passione per i poveri, per la giustizia, per la pace, per la libertà dell’uomo e la sua autentica promozione.

Ma con altrettanto vigore sottolineerà le qualità di un Sud fatto di un popolo di pen-satori capace di recuperare la propria identità verso un ethos umanizzante e liberante. Non

manca , però, di stigmatizzare il tradimento consumato dagli intellettuali:

“Vi siete staccati dal popolo, così che, per la vostra diserzione, stanno cedendo nel-l’organismo dei poveri anche quelle difese immunologiche che li hanno preservati finora dalle più tragiche epidemie morali. Vittime del privatismo, il male oscuro del secolo che voi per vocazione avreste dovuto debellare, avete abbandonato i laboratori della sintesi dove la poesia si mescola col giornale, il sogno con la realtà, la tensione assiologia con le fredde esigenze della tecnica, gli spartiti musicali della vita con gli arrangiamenti banali dei rumori quotidiani. E intanto la città muore. Col vostro nulla osta”11.

L’azione pedagogico-pastorale di don Tonino è stata sempre caratterizzata da una dimensione liberante e pasquale mirante al superamento del fatalismo, di cui il meridionale è impregnato, e ad aprire alla libertà autenti-ca, come dono dell’essere, in maniera da non subire la storia, bensì di comunicare con essa secondo la vocazione propria12.

Egli sosteneva che

“le nostre comunità cristiane devono pro-muovere una strategia nuova di coscien-tizzazione, di educazione alla giustizia e alla carità, di stimolo alla partecipazione, di rottura, con la mentalità individualisti-ca che inquadra tutti i problemi sempre nell’ottica degli interessi personali. Da noi l’associanismo è scarso, la cooperazione non raccoglie simpatie, il sindacato è spesso ridotto a patronato, le tentazioni

9 A. BELLO, La lampara, in ID., Sud a caro prezzo. Il cambiamento come sfida, La Meridiana, Molfetta 2007, 63. 10 In un suo diario, scritto su un quaderno scolastico, si legge al 2 aprile 1962: “Sono un impasto di mansuetu-

dine e di ira, di superbia e di modestia, di bontà e di durezza. Sono un intruglio di fervore e di frigidezza, di dissipazione e di raccoglimento, di slanci impetuosi e di apatica immobilità. Sono un polpettone di carne e di spirito, di passioni indomite e di mistiche elevazioni, di ardimenti coraggiosi e di depressioni senza conforto. Dio mio, purificami da queste scorie in cui naviga l’anima mia; fammi più coerente, più costante. Annulla queste misture nauseanti di cui sono composto, perché io ti piaccia in tutto, o mio Dio”: RAGAINI C., Don Tonino fratello vescovo. La biografia di un pastore che ha toccato il cuore della gente, Paoline, Milano 1994, 34.

11 A. BELLO, Trahison des clercs, in ID., Sud a caro prezzo. Il cambiamento come sfida, La Meridiana, Molfetta 2007, 25.

12 Cfr. P. GIUSTINIANI (a cura di), Quale teologia per il Mezzogiorno d’Italia?, PIEMME, Casale Monferrato 1994.

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clientelari stanno in agguato a ogni svolta d’angolo”13.

Pur nell’esame dei mali (disoccupazione, rac-comandazione, militarizzazione, clientelismo, corruzione, criminalità organizzata, carenza di infrastrutture, illegalità, fuga dei cervelli, emigrazione, immigrazione…) che affliggono il Meridione, mons. Bello concludeva con inviti alla speranza, ma in modo concreto.

Parlava di “organizzare la resistenza” tramite

“strategie nonviolente, e di clamorose obiezioni di coscienza al potere dei capi, alla giustizia sommaria, a tutte quelle espressioni egemoniche che sottraggono all’uomo perfino la dignità”.

Tonino Bello ha compiuto un’opera educa-tiva. Ha educato nella misura in cui ha cercato di costruire delle personalità, degli uomini che avessero un’identità forte ma proprio per que-sto non chiusa, perché in genere la chiusura è segno di paura, la paura non è mai segno di forza, ma piuttosto di debolezza.

Don Tonino Bello ha usato la politica dei gesti. Credo che il modo migliore per educare sia quello della testimonianza personale che da’ ricchezza alle parole che si formulano.

“Credo che non bastino cento libri di pe-dagogia o cinquanta libri di filosofia per creare delle persone adulte se insieme a questi, al fianco di questi non vengono posti in essere dei gesti, delle azioni-segno che traducono in ortoprassi ogni teoria educativa”.

Tutta la prassi ministeriale di don Tonino ha alle radici una spiritualità e nella sua meta un sogno: la società degli uomini liberati. Senza un sogno davanti e al sopra di loro non ci sono uomini che si mobilitano per la trasformazione, né una società capace di rinnovare le proprie fondamenta. È questa la ferma convinzione di don Tonino:

“Se le nostre comunità porteranno nel grembo una forte riserva utopica e alimen-teranno nel mondo quei sogni diurni che preludono ormai alla realtà, i poveri, dai

quali dobbiamo partire per rinnovare la terra, finalmente si libereranno”14.

Don Tonino contestava la figura del meri-dionale

“vittima fatale schiacciata dalla forza del destino e rassegnata di fronte alla inelut-tabilità delle ingiustizie strutturali”

per ribadire che, nonostante il Meridione abbia subito nella storia atroci ingiustizie e sfruttamento, non esiste accettazione passiva. Anzi, con un’espressione tutta sua don Tonino affermava che

“nel mezzogiorno d’Italia stanno avve-nendo degli smottamenti culturali che ci fanno pensare a un trapasso quasi da un’era antropologica all’altra”. Per don Tonino la situazione di squilibrio del

Mezzogiorno nasce sostanzialmente

“da una fonte ad altissimo inquinamento etico dovuto al considerare il mercato come realtà vincente sull’uomo e sulla solidarietà tra gli uomini”.

Ciò che don Tonino condannava della men-talità tipica del Sud era

“l’attitudine alla conservazione, così ac-centuata nel nostro costume meridionale, che frena l’intraprendenza, ci arrotola sul passato, e non ci fa camminare al passo con i tempi”.

“Noi - i pugliesi, affermava - siamo troppo legati allo scoglio, alle nostre sicurezze, alle lusinghe gratificanti del passato, ci piace la tana, ci attira l’intimità del nido, ci terrorizza l’idea di rompere gli ormeggi, di spiegare le vele, di avventurarci nel mare aperto. Se non la palude ci piace lo stagno, di qui la predilezione per la ripeti-tività, l’atrofia per l’avventura, il calo della fantasia. Lo Spirito Santo invece ci chiama alla novità, ci invita al cambio, ci stimola a ricrearci”.

13 A. BELLO, Insieme alla sequela…, in S1 215.14 A. BELLO, Insieme alla sequela…, in S1 217.

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L’attaccamento al nido, allo scoglio, alla tana può essere una tentazione perché dà sicurezza. Rimaniamo nel campo delle cose conosciute, delle abitudini usate, ma insieme ci chiudia-mo. Questa ricerca di sicurezza attraverso la chiusura può generare paure, può generare diffidenze, soprattutto verso quelli che sono o riteniamo estranei, può portare anche a senti-menti di opposizione, se non di violenza.

Per don Tonino

“Il nostro povero Sud da cui bisogna sra-dicare l’acquiescente passività con l’indi-spensabile contributo di ciascuno di noi”.

A questa tentazione si contrappone vicever-sa quello che in don Tonino Bello è frequente, cioè il richiamo alle radici. Le radici alimentano, le radici fanno crescere, danno sostanza alla propria esperienza e alla propria vita, ma non chiudono anzi aprono rispetto al mondo, con-sentono di guardare alla novità con l’atteggia-mento di chi non la esclude pregiudizialmente, ma con la disponibilità di chi cerca di coniugarla con ciò che dalle radici proviene e con quell’ali-mento che le radici trasmettono.

In un momento storico, qual è quello che viviamo, caratterizzato da un orizzonte uni-versale e dalla tendenza alla globalizzazione, in cui è forte la spinta nella direzione di una riappropriazione delle rispettive radici e di una rivendicazione delle appartenenze locali, si manifesta il problema di coniugare l’esigenza di abitare un mondo cosmopolita e la capacità di parlare un linguaggio universale, con quella di salvaguardare nel frattempo il patrimonio culturale e il suo lessico particolare.

Don Tonino Bello era ben consapevole che il richiamo alle radici è sempre un richiamo qualche volta molto facile, qualche volta anche molto ambiguo, sempre molto difficile nella realtà e nella sostanza, perché certamente la realtà della secolarizzazione, di un’omolo-gazione - che in qualche modo tende in un chiaroscuro, in un grigio, ad annullare tutte le differenze e tutti i colori - è un rischio che ov-viamente colpisce ogni regione e quindi anche

le regioni del Sud che alle tradizioni sono molto legate, colpisce le regioni del Nord e quelle terre in cui molti meridionali, molti pugliesi sono andati a vivere.

Ecco allora il pericolo che questa omologa-zione e questa secolarizzazione recida il lega-me con le radici in qualche modo snaturando un’esperienza e fingendo che si diventi co-smopoliti quando invece si perde ogni identità, lasciando sopravvivere questo rapporto con le origini in una maniera abbastanza epidermica e folcloristica.

Bisogna evitare lo scempio delle nostra ci-viltà contadina. Il tutto a condizione però che

“la tradizione non diventi fissità. O ripiega-mento romantico all’indietro. O feticismo del passato. O scomunica del presente. O paura di affrontare la novità, con quello spirito di adattamento e di realismo richie-sto dall’evolversi dei tempi”.

Don Tonino, giocando con le parole, parlava di amore per la tradizione inteso come tradizio-ne dell’amore, cioè, etimologicamente,

“consegna di quei valori umani, di quelle attitudini relazionali, e di quella passione per la vita, che hanno sempre caratteriz-zato il nostro Mezzogiorno”.

Egli riteneva che

“Convivialità delle differenze, solidarietà, giustizia sono i cardini di una nuova costi-tuzione reale, di una nuova progettualità politica che restituisca al Sud il ruolo cen-trale di protagonista della speranza”.

Per don Tonino era possibile uscire dall’inu-tile senso di sfiducia nelle istituzioni e iniziare a reclamare i propri diritti, reimpostando una cultura della vita attraverso una mobilitazione delle coscienze.

Per don Tonino Il Sud d’Italia simboleggia tutti i Sud della terra, luoghi di ingiustizia, di basi nucleari, di poligoni di tiro, di traffico di armi:

“È il Sud creato dai potenti ma sostenuto dagli indifferenti, dai delusi, dagli sconfitti

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o semplicemente dai rassegnati. Ma c’è anche un Sud che non molla, lotta, inventa nel quotidiano le strade dell’utopia. Un Sud che sblocca le centrali nucleari, mani-festa contro i poligoni, cambia la cultura, ricostruisce l’economia sulla morale e sui valori, vive in comunità con gli ultimi, tesse la tela del volontariato con cui avvolge di amore e di giustizia gli emarginati, difende e ricerca il legame con la terra, reinvesta la nonviolenza come arma dei poveri, ritorna alle radici e … vive”.

La speranza esiste al Sud, ma è una “speran-za a caro prezzo”, perché “qui non si enuncia, la si vive, la si testimonia, pagando”.

È della fine degli anni Ottanta il documento della CEI, Sviluppo e solidarietà chiesa italiana e Mezzogiorno (18 ottobre 1989). Il documen-to fu scritto per ricordare e riprendere i temi espressi quarant’anni prima da parecchi vescovi in una lettera collettiva datata 25 gennaio 1948, dal titolo I problemi del Mezzogiorno.

Dal nuovo documento emerge con imme-diatezza che i termini della “questione meri-dionale” sono da intendere come impegni e problemi di interesse nazionale, attendendosi, pertanto, per la loro soluzione l’apporto e lo sforzo solidale di tutte le componenti della società italiana. Sviluppo e solidarietà vengo-no indicati quali parametri di riferimento per l’esame della questione meridionale.

La lettura del documento suscitò immedia-tamente l’apprezzamento e l’entusiasmo di mons. Bello per il linguaggio lungimirante e decisamente trascinante. Non esitò a cogliere però alcune omissioni nel documento.

A titolo esemplificativo faceva notare che non vi sono richiami espliciti al ruolo del Meri-dione nei confronti dell’imminente integrazio-ne europea, all’inquadramento della questione meridionale nel contesto planetario Nord-Sud, all’autocritica della chiesa nei fenomeni perver-si denunciati. Coglieva altresì la mancanza di accenni al “protagonismo di pace” che il Me-ridione è chiamato ad esprimere in particolare sullo scenario del Mediterraneo.

Oggi, infatti, nel rimettere a fuoco il pro-blema italiano mi sembra molto importante

una geopolitica della questione meridionale, perché è finita l’epoca del vecchio centralismo (dei governi e dello Stato), quindi la geopolitica degli aggregati territoriali non coincide più con quella degli Stati nazionali; e sia perché, con il prepotente ingresso dell’Asia nei processi di glo-balizzazione, il Mediterraneo è tornato ad essere il crocevia degli scambi internazionali. Premono nella stessa direzione l’allargamento dell’Unione europea ai paesi dell’Europa centrale e orienta-le, quello futuro ai paesi dell’area balcanica e i programmi del partenariato euromediterraneo. Mutatis mutandis, torna una visione della “que-stione meridionale” che già si era affermata, soprattutto fra i meridionalisti di orientamento federalistico, negli anni precedenti l’avvento del fascismo; e torna utile rileggerli, a cominciare dal discorso di Don Sturzo, Il Mezzogiorno e la politica italiana del gennaio 192315.

È auspicabile, pertanto, che nei programmi di governo trovi posto una nuova visione della “questione meridionale”: se il problema princi-pale dell’Italia è la valorizzazione delle “risorse umane”, nel Mezzogiorno questo vuol dire innanzi tutto ricostruire le élites intellettuali. Dalla loro dispersione, dalla fuga dei cervelli, è stato favorito, storicamente, l’indebolimento delle classi dirigenti nazionali e in buona parte anche il declino della capacità di impostare in modo appropriato i problemi nodali della nazione italiana.

È altresì importante evitare il rischio di un’arbitraria contrapposizione tra l’emergente questione settentrionale e la storica questione meridionale.

“Si tratta di problemi diversi che vanno risolti insieme e in spirito di solidarietà. La Questione Settentrionale consiste essenzialmente nella giusta e pressante domanda di uno stato più moderno ed efficiente in grado di assecondare quelle straordinarie capacità di crescita che hanno fatto del Nord Italia una delle regioni più prospere d’Europa.

15 Il 18 Gennaio 1923 pronuncia a Napoli il discorso sulla questione meridionale, in cui si sostiene che il bacino del Mediterraneo è il naturale ambito di espansione dell’economia del Mezzogiorno.

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La Questione Meridionale invece è l’espres-sione di uno storico divario economico e sociale tra il Sud e il Nord del paese che, a distanza di oltre centoquaranta anni dell’unificazione nazionale, rischia oggi di ampliarsi. Basti con-siderare che l’emigrazione dal Sud al Nord è tornata ai livelli degli anni Sessanta. Con la differenza che ora non emigrano più braccianti e manovali, ma diplomati e laureati, privando il Mezzogiorno delle sue migliori risorse umane e delle sue residue speranze di sviluppo. Para-dossalmente, pur continuando l’oppressione dell’intreccio burocrazia-clientele-criminalità, ci si presenta oggi una inedita opportunità storica per sciogliere i nodi più tenaci della Questione Meridionale.

Infatti con l’emergere delle nuove potenze orientali come l’India e la Cina, il Mediterraneo riconquista una posizione privilegiata nel gioco delle grandi correnti di sviluppo, offrendo al nostro Mezzogiorno, naturale piattaforma mediterranea, la possibilità di intercettare flussi crescenti di risorse energetiche, merci varie, capitali e persone che attraversano il “piccolo mare delle grandi civiltà”. Ma la piattaforma va attrezzata e gestita con adeguate decisioni di politica economica e di politica estera, nel-l’interesse generale del paese.

In questa prospettiva il Nord in attesa di rilancio ed il Sud in attesa di riscatto possono legarsi, come non mai, completando anche sul piano economico e sociale l’opera del Risorgi-mento. Il Nord senza il Sud non riparte16.

Viceversa non si troverà mai alcuna via d’uscita alimentando la contrapposizione tra Nord e Sud. Sarebbe una contrapposizione sterile e falsa, che fornirebbe alibi a chi vuole

lasciare le cose come stanno rendendo impos-sibile ogni seria riforma politica e istituzionale. Il processo di rinnovamento deve essere vissuto in spirito di solidarietà nazionale e deve metter capo a un ordinamento fondato sulla fattiva collaborazione e solidarietà tra diverse regioni e aree del Paese.

È quanto è stato affermato nell’ultima Set-timana Sociale dal Prof. Alici:

“Non possiamo chiudere gli occhi dinanzi ad un Paese a due velocità, diviso da un solco sempre più profondo tra nord e sud, fra cittadini e classi dirigenti, fra società virtuale e società reale. A questo Paese, sedotto da messaggi e da modelli che ostentano senza pudore l’idolatria del benessere individuale e a buon mercato, che guarda con disaffezione crescente alla stanchezza e a volte all’impotenza della politica, dobbiamo rispondere con un impegno alto di elaborazione cultu-rale e di passione civile, ma anche con una straordinaria e tenace stagione di buona seminagione educativa, che è il modo migliore per investire il futuro, per il bene di tutti. Non si tratta di allungare la lista delle diverse forme di “educazione al dativo”, come corollari complementari, ma di aprire lo spettro della coscienza al volume totale della vita cristiana, che include la profondità della vita interiore, la larghezza della partecipazione civile, l’altezza della santità”.

Va altresì sottolineato che se la dimensione europea dell’economia e della politica fa di Bruxelles un centro decisivo per l’Italia, cruciale deve essere per ogni scelta nazionale anche il contesto Mediterraneo. L’Italia deve mettersi alla guida delle nuove iniziative per lo svilup-po euro-mediterraneo, facendo valere la sua posizione geopolitica, la sua esperienza storica e la peculiare vocazione mediterranea del suo

16 Riporto a tal proposito quanto scriveva don Sturzo su “Il Mattino”, il 12 maggio 1951: “Gli industriali del nord si debbono persuadere che senza un mezzogiorno industrializzato, sia pure gradualmente e con industrie adatte alle economie locali e ai mercati specifici, l’Italia non potrà risorgere e mettersi in sesto. I meridionalisti dall’altro lato, e tutti i meridionali coscienti debbono comprendere che è loro interesse organizzarsi, mettere fuori i capitali (tenuti al sicuro nelle banche e investiti nei buoni del tesoro), prendere iniziative e assumere le responsabilità. Deve essere di regola che il ricorso al governo va fatto per integrare e consolidare l’iniziativa privata, non per surrogarla e soppiantarla, come si fa oggi in certi settori”.

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Mezzogiorno. Anche oggi lo sviluppo è il nuovo nome della pace”17.

A questo punto mi piace riportare quanto detto da Savino Pezzotta alla Settimana Sociale dei cattolici, appena conclusa:

“Rilanciare il tema del Mezzogiorno è un’urgenza e una necessità del Paese, è ancora, come si è detto allora, una “que-stione nazionale” e “una questione etica” che implica la responsabilità di tutto il Paese.

Non è rinviabile l’urgenza di aprire una profonda riflessione socio-politica e storico-culturale su quella che è stata la questione meridionale, sul come sono state investite le risorse economiche che sono arrivate dall’Euro-pa e dallo Stato, senza che il divario economico e di capitale sociale rispetto al centro nord si sia granché modificato. Non si tratta di discutere se la finanziaria prevede o no risorse, esercizio a cui tutti ci siamo dedicati in questi anni, ma di valutare i mutamenti della situazione e indi-care le varie piste di intervento. È sempre più evidente che la globalizzazione dei mercati e della finanza sta profondamente modificando ogni vecchia visione del divario Nord-Sud, e non possono più reggere le analisi in termini di arretratezza o di modernizzazione di fronte ai processi di trasformazione che la globaliz-zazione sta introducendo (…).

Oggi bisogna iniziare a vedere il Mezzogior-no non come Sud d’Italia, ma come frontiera/cerniera con gli altri Paesi del mediterraneo.

Il Mediterraneo, oltre a costituire la culla delle più importanti civiltà e il luogo di nascita delle tre religioni monoteistiche, ha sempre rappresentato una zona ricca di forti conflitti e intense contraddizioni.

Oggi, nonostante il perdurare di tensioni politiche e militari, il Mediterraneo, alla luce della rivoluzione globale delle rotte commer-ciali, è diventato un importante snodo geo-strategico.

Purtroppo l’Italia è stata da troppo tem-po assente da quest’area che, sempre più, si presenta come un’opportunità vitale per lo sviluppo del Mezzogiorno e per i paesi rivieraschi. Occorre che l’intervento nell’area mediterranea diventi una priorità della nostra politica estera.

Il tema è dunque posto all’ordine del giorno e speriamo che si proceda anche perché buona parte dello sviluppo del nostro Mezzogiorno si gioca in questa prospettiva. L’Italia deve essere in prima fila nel promuovere l’integrazione euromediterranea, attraverso iniziative che rafforzino e concretizzino gli accordi di Barcel-lona del 1995 che prevedevano la creazione di un’area di libero scambio entro il 2010.

Oggi ci si deve domandare però se il parte-nariato previsto dalla Conferenza di Barcellona sia effettivamente in grado di raggiungere que-sti obiettivi e realizzare entro il 2010 la zona di libero scambio (anche se è molto probabile che questa scadenza non sarà rispettata).

Nell’ambito di una cooperazione su vasta scala devono quindi promuoversi delle condi-zioni per sviluppare e mantenere dei rapporti di ‘buon vicinato’, per contribuire a una mo-dernizzazione dei paesi del Mediterraneo che non si limiti solo all’adeguamento strutturale, ma che miri anche allo sviluppo dell’industria, della tecnologia, nonché all’adattamento degli strumenti istituzionali appropriati, attraverso l’uniformazione sia dei sistemi di indirizzo po-litico-economico e finanziario, sia delle norma-tive concernenti il commercio internazionale.

L’occasione è per il nostro Paese importante, anche perché l’export italiano nell’area è in aumento. In questo periodo il nostro Paese esporta verso i dodici Paesi del Sud del Medi-terraneo quattro volte rispetto a quanto esporti la Cina. Ecco allora emergere la necessità di affrontare la questione del sud in termini nuovi e collocarsi nella prospettiva di contribuire a

17 Per una buona politica. Testo elaborato dalla consulta cattolica di Liberal per la settimana sociale dei cattolici italiani).

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costruire una grande area di sviluppo euro mediterranea, aperta all’Africa e dentro una prospettiva di pace”.

Ecco allora che la particolarità si lega al-l’universalità. Si lega in quanto la profezia di cui don Tonino è portatore non è una profezia consegnata a quei decenni particolari di una questione meridionale, ma di una questione italiana. Don Tonino mostra una particolare attenzione per il tema dell’interdipendenza: cresce la interdipendenza fra comunità e fra popoli, l’interdipendenza di un sistema interna-zionale che di lì a pochissimo verrà finalmente inteso come sistema globale.

Del resto l’interdipendenza è presente in molti dei documenti della dottrina sociale, e sottolinea quest’universalità presente nella profezia di don Tonino Bello, soprattutto nel-l’evidenziare la solidarietà non come vocazione generale e talvolta ambigua, ma come virtù da praticare. La profezia di don Tonino supera le barriere geografiche di quel lembo di terra pugliese per proporre valori e insegnamenti meritevoli di attenzione e di sequela anche al di fuori della realtà meridionale per abbracciare il mondo intero.

Mi piace concludere con una parabola moderna raccontata da don Tonino appena tornato da una visita nelle zone terremotate dell’Irpinia. Nei due protagonisti della para-bola ravviso il rapporto ideale che dovrebbero tessere insieme il Nord e il Sud d’Italia e ogni Nord e Sud del mondo.

Don Tonino, visitando le zone terremotate dell’Irpinia, percorse a piedi un tratto di strada tra Teora e Pescopagano, due centri irpini, e di ritorno raccontò questa parabola che gli era stata raccontata.

Percorrendo a piedi questo tratto, nel cor-so di una marcia, era rimasto colpito da una chiesetta semi diroccata, costruita sull’argine di un torrente. Aveva chiesto il perché di quella

collocazione così strana e il suo interlocutore gli aveva detto:

“Guardi don Tonino, c’è una tutta una storia particolare su questa Chiesa che è sorta dove prima c’era un mulino, almeno così dicono gli anziani. La storia è questa: presso questo mulino lavoravano due fratelli i quali molivano il grano dalla mattina alla sera e al termine della giornata lavorativa, siccome la gen-te rendeva il dovuto in natura, avendo accumulato la farina se la distribuivano esattamente a metà e ognuno la portava al suo deposito alle due estremità del pae-se. Si dava il caso che uno di questi due fratelli non fosse sposato, l’altro invece aveva sette figli, per cui talvolta il fratello che viveva da solo, pensando che l’altro avesse più bisogno, perché appunto aveva sette figli da sfamare oltre che la moglie, di notte andava nel proprio deposito, si caricava un sacco di farina e senza dir nulla lo trasportava nel deposito dell’altro fra-tello. Però anche l’altro fratello faceva un ragionamento analogo seppur opposto: i figli sono quanto di più prezioso ci possa essere, la mia vecchiaia è assicurata, forse mio fratello che vive solo avrà più bisogno in futuro della mia solidarietà, però chissà se ci sarò, perciò di tanto in tanto di notte si caricava anche lui un sacco di farina e lo portava nel deposito del fratello senza figli. Una notte tutti e due hanno pensato allo stesso modo, si sono caricati il sacco di farina e nel bel mezzo di questo percorso si sono incontrati per la prima volta. Si sono riconosciuti, hanno lasciato andare il sacco di farina, si sono guardati nel volto, si sono abbracciati”.

A don Tonino è stato detto: questa Chiesa è sorta esattamente nel luogo dell’abbraccio. Io credo che questo messaggio possa essere im-portante per fotografare la figura, la personalità, l’intenzione di fondo di don Tonino Bello. Anche per lui la chiesa sorge nel luogo dell’abbraccio: il suo sogno, il suo grande sogno è di ricomporre l’umanità, di ricomporre la solidarietà di fondo che è alla base del genere umano, per cui le origini, le collocazioni provvisorie non contano, conta sostanzialmente quell’abbraccio.

187Notegiugno 2008 - anno VIII

1. La perizia

di FRANCESCO PAOLO PASQUALE*

Le relazioni peritali e la discrezionalitàdei giudici nella loro valutazione

La perizia, viene annoverata nel nostro Codice come uno dei mezzi legittimi di prova, a disposizione del giudice e da lui valutato, avente ad oggetto l’accertamento di un fatto o la natura del medesimo.

La prova periziale consiste nella valutazione tecnica di un fatto effettuata da persona com-petente, detta perito, il quale, avvalendosi tanto delle sue conoscenze specifiche quanto di ap-positi supporti di carattere scientifico, esprime i risultati scientifici della sua indagine redigendo un’apposita relazione detta votum.

Pertanto, la peculiare funzione del perito, risulta essere di carattere misto, in quanto da una parte, lo stesso giudica secondo i dettami della sua scienza e, dall’altra, rende testimonianza al giudice di quanto è stato da lui esaminato, quale percorso abbia seguito e come sia giunto alla formulazione delle sue conclusioni.

Nell’esercizio di tale compito, se da una parte, il perito mostra di avere una certa au-tonomia nel cercare di accertare i fatti di sua competenza, d’altra parte, lo stesso, in non pochi casi, non fa altro che accertare ed inter-pretare quanto sia già emerso da altre prove (si pensi ad es. ad una perizia sugli atti).

Di conseguenza, nonostante tale autono-mia, l’attività del perito, deve necessariamente

* Docente di Diritto Canonico - Istituto di Scienze Religiose San Nicola il Pellegrino - Trani.

svolgersi in stretta collaborazione con il giudice, dato che la perizia altro non rappresenta che uno dei mezzi di prova di cui il giudice può avvalersi al fine di giungere ad una decisione circa la verità dei fatti.

Alla luce di tali significative premesse, ben si intende quanto utile sia l’utilizzo della prova peritale in particolare nelle cause di nullità matrimoniale aventi ad oggetto l’impotenza o l’incapacità ai sensi del can. 1095.

Infatti, a riguardo, al can. 1680 è chiara-mente stabilito:

«In causis de impotentia vel de consensus defectu propter mentis morbum iudex unius periti vel plurium opera utatur, nisi ex adiun-ctis inutilis evidenter appareat; in ceteris causis servetur praescriptum can. 1574»

Dalla lettura di tale canone, sebbene si evin-ca la non obbligatorietà del ricorso al perito, tuttavia appare ovvio che tale scelta non è meramente arbitraria ma è in stretta connes-sione con le concrete e specifiche esigenze processuali.

Infatti, sebbene in alcuni casi, qualora vi sia una sovrabbondanza di prove testificali ed

188 Note giugno 2008 - anno VIII

anche una pregressa documentazione medica o psichiatrica-psicologica, il ricorso al perito potrebbe apparire superfluo e dispendioso, tuttavia, in linea generale, in tale tipo di pro-cessi, il loro ricorso deve considerarsi come imprescindibile.

In proposito, non solo la legge ma la stessa prassi dei Tribunali ecclesiastici evidenzia come l’ausilio di periti, sebbene non sia obbligato-rio, offra certamente un valido supporto per i giudici al fine della valutazione di eventuali impedimenti o vizi del consenso che possano inficiare la validità del matrimonio.

Basti pensare a riguardo non solo alla necessità di verificare lo stato di impotenza de nubente - come accennato in precedenza - ma anche e, sempre più frequentemente, alla necessità di accertare l’esistenza di disturbi ner-vosi, di disturbi della personalità (anche sotto l’aspetto sessuale), o lo stato di immaturità psico-affettiva del soggetto o, ancora, il difetto di libertà interna e così via.

Si tratta, in tali ipotesi, di verificare nei singoli casi specifici, e grazie all’ausilio di periti psico-logi o psichiatri, se la personalità dell’individuo sia talmente perturbata da cause di natura psichica da impedirgli di determinarsi libera-mente o di assumere le obbligazioni essenziali del matrimonio.

In altri termini, occorre in concreto cercare di capire se una malattia o un eventuale disturbo psichico intacchino la libertà del soggetto o invece non gli precludano la facoltà di potersi determinare autonomamente e responsabil-mente o di assumersi le relative obbligazioni.

In simili cause, sebbene il giudice non sia formalmente obbligato a chiedere l’intervento del perito (o dei periti), in realtà egli non può esimersi dal farlo a meno che - come stabili-sce il can. 1680 - l’intervento dello stesso “ex adiunctis inutilis evidenter appareat”.

Stabilita la necessità della perizia al fine di accertare l’incapacità del soggetto al matrimo-nio, il giudice potrà avvalersi tanto dell’opera di periti giudiziali che di quella dei periti extra-giudiziali. La differenza risiede nel fatto che, nel primo caso, il perito riceve specifico mandato dal giudice o, questi, su richiesta delle parti, approva il suo intervento o assume le perizie già effettuate, mentre nel secondo, il perito riceve il suo incarico direttamente dalla parte ed al di fuori del giudizio.

Per quanto attiene, in particolar modo, alla necessità dei periti ed all’oggetto della loro indagine il can. 1574 - così come richiamato dal can. 1680 - stabilisce:

«Peritorum opera utendum est quoties ex iuris vel iudicis praescripto eorum examen et votum, praeceptis artis vel scientiae innixum, requiruntur ad factum aliquod comprobandum vel ad veram alicuius rei naturam dignoscendam»

Pertanto, al di fuori dei casi previsti dal can. 1680, il Codice tiene a precisare che l’opera del perito risulta essere comunque utile qualora sia necessario scoprire un fatto o determinare la natura di una cosa tramite l’ausilio di un esperto (si pensi ad es. alla necessità di perizie calligrafiche).

2. Proposizione ed ammissione della perizia

Innanzitutto, secondo quanto prescritto dal can. 1527, va detto che la prova periziale - come qualsiasi altra prova - qualora risulti essere utile e lecita, è ammessa in qualsiasi genere di causa:

«§1 Probationes cuiuslibet generis, quae ad causam cognoscendam utiles videantur et sint licitae, adduci possunt. §2 Si pars instet ut probatio a iudice reiecta

admittatur, ipse iudex rem expeditissime definiat».

Secondo quanto disposto dal presente cano-ne, in riferimento al ruolo del giudice va detto che, ai fini della proposizione o dell’ammissione della perizia, lo stesso dovrà valutarne non solo l’utilità ma anche la liceità.

Ragion per cui, il giudice godrà di un certo margine di discrezionalità circa la proposizione

189Notegiugno 2008 - anno VIII

o l’ammissione della perizia, dovuto al fatto che, considerate le circostanze e ritenendo inutile la perizia nel caso di specie, non sarà obbligato alla proposizione della medesima.

Tale discrezionalità appare anche riguardo alle perizie extragiudiziali, infatti, spetterà comunque al giudice deciderne l’ammissione, sia in aggiunta che in sostituzione della perizia ufficiale. Per quanto attiene alle parti, invece, esse possono sempre chiedere la prova peri-tale sia nelle cause in cui essa è prescritta per

legge, sia in quelle in cui il ricorso al perito non è obbligatorio ma risulti utile secondo quanto stabilito dal can. 1574.

Le parti private, inoltre, possono anche no-minare propri periti e chiedere che il giudice li ammetta per assisterle durante la perizia uffi-ciale; tali periti, una volta approvati, potranno anche esaminare gli atti di causa (cf. can 1581) e, in ogni caso, potranno presentare al giudice una propria relazione peritale che il giudice può aggiungere o sostituire alla perizia ufficiale.

3. Oggetto della perizia

Una volta proposta la perizia, il giudice dovrà indicare mediante decreto i punti sui quali si chiede il parere del perito tenuto conto delle richieste delle parti (cf. can. 1577 §1), tuttavia, le domande da porre al perito riguarderanno l’ambito della sua competenza specifica e, di conseguenza, le risposte dello stesso non potranno avere carattere giuridico.

Tali domande, pertanto, devono tendere a verificare gli effetti della malattia sulla persona non sul piano giuridico ma su quello natu-ralistico, ovvero evidenziare gli effetti della patologia sui processi volitivi in relazione al consenso matrimoniale. Alla luce di ciò, non basta che il perito indichi che il soggetto sia affetto da qualche disturbo della personalità, che soffra di una qualche malattia psichica, sia schizofrenico o altro ma è necessario che indichi quali conseguenze tali stati psicologici abbiano prodotto sulla capacità del soggetto di intendere e di volere o sulla sua capacità di compiere qualcosa o di relazionarsi.

Per tali ragioni, ogni singola relazione peritale necessita delle motivazioni senza le quali il giudice non avrebbe la possibilità di valutarla. Il perito in essa deve indicare l’esi-stenza, l’origine, la natura, la gravità della malattia o dell’anomalia nonché l’eventuale influsso del disturbo psichico nel processo di deliberazione per cui il soggetto si decide per il matrimonio.

Egli, offrendo un quadro del soggetto sotto il profilo fisico, psicologico e psichico deve

fornire inoltre al giudice una valutazione og-gettiva circa l’attività psichica e relazionale del soggetto tanto nel momento in cui la perizia è fatta ma, soprattutto, nel momento della celebrazione del matrimonio.

Infatti, a riguardo la recente istruzione Digni-tas Connubii all’art. 209 tiene a precisare:

«§1. In causis incapacitatis, ad mentem can. 1095, iudex a perito quaerere ne omittat an alterutra vel utraque pars peculiari anomalia habituali vel transitoria tempore nuptiarum laboraverit; quaenam fuerit eiusdem gravitas; quando, qua de causa et quibus in adiunctis originem habuerit et sese manifestaverit.§2. Singillatim:1. in causis ob defectum usus rationis, quaerat utrum anomalia graviter tempore celebrationis matrimonii usum rationis perturbaverit; qua intensitate et quibus iudiciis sese revelaverit;2. In causis ob defectum discretionis iudicii, quaerat qualis fuerit anomaliae effectus in facultatem criticam et electivam ad decisiones graves eliciendas, peculiariter ad statum vitae eligendum;3. in causis denique ob incapacitatem assumendi obligationes matrimonii es-sentiales, quaerat quaenam sit natura et gravitas causae psychicae ob quam pars non tantum gravi difficultate sed etiam impossibilitate laboret ad sustinendas actiones matrimonii obligationibus inhae-rentes.§2. Peritus in suo voto singulis capitibus in decreto iudicis definitis iuxta propriae arti set scientiae praecepta rispondere debet; caveat autem ne limites sui muneris ultra-

190 Note giugno 2008 - anno VIII

grediens iudicia quae ad iudicem spectant emittat (cf. cann. 1577, §1; 1574)».

La natura scientifica di questa prova impone, inoltre, al perito di pronunciarsi sul grado di certezza raggiunto dalle sue conclusioni.

Diversamente, il perito privato, non è tenuto a rispondere a quesiti specifici, né a presentare alcuna relazione al giudice.

Non va dimenticato che se al perito spetta dare un parere, secondo la propria competen-za, circa la condizione psicologica-psichiatrica del soggetto, d’altra parte, spetterà esclusiva-mente al giudice la decisione circa la nullità del consenso prestato come anche la valutazione della perizia stessa, dato che il giudice non può ignorare né astenersi dal valutare le prove.

Tuttavia, al fine di una esatta valutazione della perizia, il giudice in primis dovrà prendere in considerazione il fondamento della stessa, vale a dire i fatti certi e provati, emersi dagli atti o dall’esame medico sul paziente, dai quali la perizia ha avuto origine. In secondo luogo il giudice dovrà cercare di trarre conseguenze giuridico-canoniche dalla relazione peritale,

Prima di iniziare la sua indagine il perito uf-ficiale deve essere fornito degli atti della causa affinché possa svolgere il suo incarico “rite et fideliter” (cf. can. 1577 §2).

Inoltre, il giudice, udito il perito, gli fisserà un termine entro il quale dovrà essere espletata la sua indagine e presentata la relazione (cf. can. 1577 §3).

4. Metodi di indagine

Per quanto attiene alla determinazione dei metodi con cui il perito deve condurre la sua indagine, sebbene essa sia di competenza esclusiva dello stesso perito, tuttavia, oltre all’esame del periziando condotto sulla base delle sue dichiarazioni, è necessario avvalersi di metodi di carattere scientifico (come esami fisiologici, endocrinologici, neurovegetativi, test mentali, test psicologici, test proiettivi, reattivi mentali, etc.) che siano in grado di dare al giudice chiare indicazioni sullo stato psichico del soggetto al momento della celebrazione del matrimonio e non solo sullo stato attuale.

Alla luce di tale ventaglio di possibilità di cui dispone il perito per la sua indagine, la Digni-

tas Connubii all’art. 210 §2 si sofferma sulla necessità che lo stesso illustri al giudice anche per quale via logica ed avvalendosi di quali ragionamenti ed argomenti abbia proceduto per fondare la sua opinione:

« … qua via ac ratione processerint in explendo munere sibi demandato, quibus potissimum argumentis nitantur et qua certitudine gaudeant conclusiones in re-latione propositae (cf. can. 1578 §2).

Inoltre, nella prassi, si avverte la opportu-nità che il perito indichi al giudice per quali ragioni abbia preferito un metodo piuttosto che un altro.

5. Valutazione delle perizie

tenuto conto della logicità e della coerenza in-terna nonché con l’intero apparato probatorio. Pertanto sarà compito del giudice confrontare la perizia con le altre prove e, soprattutto, con le altre perizie che eventualmente siano già state acquisite agli atti e, successivamente, in una va-lutazione complessiva di tutti gli atti della causa, estrapolare dalle opinioni dei periti le conclusio-ni e le applicazioni relative alla capacità psichica e relazionale del contraente in riferimento a quel determinato matrimonio. Alla luce di tali considerazioni, la prova peritale, nell’attuale Codice di Diritto Canonico, mostra di avere la funzione di illuminare il giudice per consolidare i mezzi di prova già acquisiti e di consentirgli di pervenire così alla certezza morale.

191Notegiugno 2008 - anno VIII

Pertanto, come tiene a precisare il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, ai fini della valu-tazione della perizia il giudice dovrà tenere in considerazione soltanto quegli aspetti di carattere meramente medico-scientifico e non quelle considerazioni di carattere giuridico eventualmente espresse dal perito:

«il giudice, quindi, non può e non deve pre-tendere dal perito un giudizio circa la nullità del matrimonio, e tanto meno deve sentirsi obbligato dal giudizio che in tal senso il perito avesse eventualmente espresso. La valutazione circa la nullità del matrimonio spetta unicamente al giudice. Il compito del perito è soltanto quello di prestare gli elementi riguardanti la sua specifica com-petenza, e cioè la natura ed il grado delle realtà psichiche o psichiatriche, a motivo delle quali è stata accusata la nullità del matrimonio» (IOANNES PAULUS II, Allocutio ad Rotae Romanae Auditores, diei 5 februarii 1987, AAS 79 [1987], p. 1457, n. 8).

Infatti, la prova peritale non è una prova piena vincolante per la decisione del giudice non essendo lo stesso tenuto ad uniformare ad essa il suo giudizio.

Il giudice, pertanto, a seguito della va-lutazione della perizia, pur non potendo rifiutare quanto sia scientificamente emerso e logicamente dimostrato, potrà comunque discostarsi o dissentire dalle conclusioni dei periti fornendo le opportune motivazioni di un simile dissenso.

Infatti, in tal senso dispone l’art. 212 della Dignitas Connubii:

«§1. Iudex non peritorum tantum conclu-siones, etsi concordes, sed cetera quoque causae adiuncta attente perpendat (can. 1579, §1)§2. Cum reddit rationes decidendi, esprimere debet quibus motus argumentis peritorum conclusiones aut admiserit aut reiecerit (can.1579, §2)».

6. La perizia ed il rispetto dei principi di antropologia cristiana

Sotto la notevole spinta del Concilio Vati-cano II e la sempre maggiore rilevanza ricono-sciuta all’individuo, pare non possa ignorarsi, al fine di verificare la capacità o meno del soggetto nelle cause matrimoniali, la crescente importanza delle scienze antropologiche, le quali hanno raggiunto un livello particolare di conoscenza dell’uomo, delle sue profonde motivazioni comportamentali tanto a livello individuale che sociale.

Alla luce di tali premesse, certamente, un ruolo fondamentale nel rapporto tra giudice e perito gioca il rispetto dei principi dell’an-tropologia cristiana.

In conseguenza di ciò, sebbene, molta importanza assumano le relazioni e le conclu-sioni dei periti, nello stesso tempo, spetta pur sempre al giudice valutare le perizie badando bene a non lasciarsi suggestionare da premesse antropologiche inaccettabili1.

Infatti, il rapporto tra giudice e perito risulta essere più o meno complesso a seconda che essi si muovano o meno entro lo stesso orizzon-

te antropologico, tenuto conto anche del fatto che se da una parte, alcune correnti antropo-logiche, restando ancorate ai dati immanenti, considerano l’uomo come artefice del proprio destino e della propria realizzazione o, in una visione pessimistica, come dominato dai suoi stessi impulsi, d’altra parte, la visione cristiana, riconoscendo all’uomo la capacità di amare non misconosce la presenza delle difficoltà e della sofferenza nell’esperienza umana.

Non si può pertanto negare il fatto che, pur essendo chiamato alla comunione con Dio, l’uomo non è esente da combattimenti spiri-tuali e materiali e che la concreta realizzazione del matrimonio comporta uno sforzo continuo che include anche rinunce e sacrifici.

Ciò considerato, il fallimento dell’unione coniugale non può essere valutato come prova di nullità, in quanto come avverte opportuna-mente il Santo Padre:

1 cf. IOANNES PAULUS II, Allocutio ad Rotae Romanae Auditores, diei 5 februarii 1987, AAS 79 [1987], p. 1458, n. 8.

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«per il canonista deve rimanere chiaro il principio che solo l’incapacità e non già la difficoltà a prestare il consenso e a realizzare una vera vita di comunione e di amore, rende nullo il matrimonio»2

Infine va sottolineato come il Sommo Pon-tefice tenga a chiarire e ad approfondire tale

Alla luce di quanto precedentemente esposto emerge chiaramente il delicato compito del giudice, il quale, nel valutare il minimo di condizioni essenziali per la validità del vincolo, sarà tenuto ad applicare criteri equilibrati e seri, evitando interpretazioni non corrette della visione del matrimonio o una concezione troppo idealizzata del rapporto tra i coniugi.

Tali interpretazioni, infatti, potrebbero in-durlo a considerare come incapacità le normali difficoltà della vita e, in modo particolare, le mere problematiche della vita matrimoniale.

Al fine di evitare siffatte conseguenze, si avverte sempre più la necessità di un concreto dialogo tra scienza giuridica, scienze psicologi-che e scienza antropologica, dialogo che richie-de una comprensione ed una comunicazione che possono aversi solo qualora il giudice ed il perito si pongano in reciproco atteggiamento di rispetto e di umiltà.

Di qui la sentita necessità che periti e cano-nisti, pur avendo diversità di metodo, interessi

distinzione sostenendo apertamente il principio secondo cui:

«una vera incapacità è ipotizzabile solo in presenza di una seria forma di anomalia che, comunque si voglia definire, deve intaccare sostanzialmente la capacità di intendere e di volere del contraente»3

Conclusioni

2 Ibidem, p. 1457, n. 7.3 Ibidem.

e finalità, si muovano all’interno del medesimo orizzonte antropologico.

Avendo appurato ciò, la discrezionalità di cui gode il giudice nella valutazione della prova peritale, diventa un punto delicato di equilibrio da ricercare e da attuare tra i limiti positivi del diritto ed il potere conferito al giudice nella valutazione di questo peculiare strumento di prova.

Infatti, soltanto attraverso lo sforzo da parte del giudice di ricercare tale punto di equilibrio sarà possibile il conseguimento di quella cer-tezza morale fondata non su principi metafisici dell’essere, né su leggi fisiche delle cose, ma su elementi oggettivi di prova.

Certezza che - si badi bene - proprio per tali ragioni, non avrà mai, né mai potrà avere risposte definitive ed univoche, ma che sarà sempre oggetto della ricerca teologica, dot-trinale e giurisprudenziale, nelle diverse sue specificazioni ed applicazioni come appunto quella discrezionalità del giudice nella valuta-zione della perizia.

193Notegiugno 2008 - anno VIII

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195

196 Note giugno 2008 - anno VIII

Percorsi di studio. Il titolo della nuova rubrica, iniziata lo scorso anno, è in riferimento all’attività di studio e di ricerca che l’Issr di Trani svolge in particolare con i lavori di tesi degli alunni nelle diverse discipline. La rubrica, in cui sono pubblicati alcuni di questi lavori sotto l’indicazione e la guida del docente di riferimento, va oltre la gratificazione per chi si è impegnato intendendo offrire un servizio ai lettori della rivista ed, in particolare alla Chiesa locale e agli stessi alunni dell’Issr che potranno avere fonti ed esempi dei lavori e dei percorsi di studio che altri hanno già sperimentato. Il termine percorso, inoltre, intende sottolineare il/i cammini di ricerca per le diverse discipline di cui nella rubrica il docente stesso può dar conto nelle eventuali brevi presentazioni dei lavori.

Media e Magistero:un lavoro su Pio XI e il cinema

di ANTONIO CIAULA*

Nel numero di Salos del 2007 fu dato avvio alla nuova rubrica Percorsi di studio.

Presentando i vari percorsi di ricerca all’in-terno delle discipline di Comunicazioni Sociali e Comunicazioni sociali: prospettive pastorali evidenziavo i due filoni principali di tutte le piste di lavoro: quello delle comunicazioni so-ciali e quello della comunicazione istituzionale. Il sottotitolo Percorsi di studio alla luce del Vaticano II precisava meglio i confini di tutte le ricerche e dei diversi percorsi.

Questi i percorsi di ricerca delineati per il filone comunicazioni sociali in senso stretto: educazione ai media e comunicazione religio-sa; aspetti teologico - pastorali e magisteriali ; evoluzione del concetto dei media nella Chiesa italiana; singoli media, anche in rapporto con il Magistero o la comunicazione religiosa; ipotesi di “produzione” di audiovisivi catechistici, pur rimanendo in ambito solo metodologico.

L’altro filone, come già detto, riguarda la comunicazione istituzionale della chiesa di cui nel numero della rivista furono pubblicati i tre lavori di tesi per il Diploma in Scienze Reli-giose di Lucia Pastanella (Chiesa italiana e “me-dia” tra comunicazione istituzionale e nuova evangelizzazione, 11 febbraio 2000); di Carla Adesso (Il Bollettino [Inter] Diocesano di Trani - Barletta - Bisceglie. Aspetti di comunicazione istituzionale, 20 marzo 2001) e di Giuseppina Annacondia (“In Comunione” - L’esperienza

* Docente stabile di Sociologia, Comunicazioni Sociali e Comunicazioni sociali: prospettive pastorali presso l’ISSR “S. Nicola il Pellegrino” - Trani

decennale del mensile di esperienze, studio, informazione dell’Arcidiocesi di Trani - Barletta - Bisceglie (1994-2004), 9 febbraio 2007).

La pubblicazione in questo numero degli atti riguardanti il Convivio 2006 sul cinema ha fatto apparire molto utile la pubblicazione di una ricerca su Pio XI e il cinema di Maria Bassi. Si tratta dei due capitoli (quelli riguardanti il cinema) del lavoro più articolato su “Pio XI, la radio, il cinema. Chiesa e media tra cassa di risonanza e formazione della mentalità”, tesi difesa da Maria Bassi l’ 11 febbraio 2005. Come è affermato nella presentazione del lavoro la ricerca

“resta nel campo della scienza della co-municazione pur facendo incursioni in questioni storiche che meriterebbero un particolare approfondimento. Si tratta di un primo studio sull’argomento durante il quale sono state affrontate difficoltà nel reperire documenti originali/ufficiali o approfondimenti specifici sull’argomento proprio riguardo a cinema, radio. Purtrop-po non si è potuto disporre di una serie di documenti che potessero meglio chiarire il clima degli anni Trenta specie per quanto riguarda le pressioni esercitate su Pio XI per una sua pronuncia sul cinema. Interes-santi sono, perciò, risultati alcuni articoli di Civiltà Cattolica tra il 1930 e il 1935 che, in-

198 Percorsi di studio giugno 2008 - anno VIII

sieme ai testi dei discorsi e delle encicliche di Pio XI, aiutano a delineare come nasce e comincia a svilupparsi l’atteggiamento della chiesa verso il cinema e la radio”.

Si riporta l’indice dell’intero lavoro di cui sono pubblicati i capitoli 2 e 4 e le conclusioni che riguardano l’intero lavoro originario.

Maria Bassi, Pio XI, la radio, il cinema. Chiesa e media tra cassa di risonanza e forma-zione della mentalità. Difesa l’11 febbraio 2005. Relatore prof. Antonio Ciaula.

Introduzione

Capitolo I - Chiesa, cinema e radio: dalla diffidenza all’uso pastorale

Cenni storici, aspetti metodologici, teologici e magisteriali

1. Società, chiesa, forme espressive e media. Cenni storici; 2. Il cinema e la radio. Cenni storici e aspetti metodologici; 2.1. Il cinema; 2.2. La radio. 2.3. L’immagine audiovisiva del cinema e quella sonora della radio; 3. I media nel processo di inculturazione tra cassa di risonanza e formazione della mentalità; 3.1. Inculturazione della fede: teologia e magistero.

Capitolo II - Pio XI, l’educazione della gioventù e il cinema. L’enciclica Divini illius ma-gistri

1. Achille Ratti, Pio XI; 2. Pio XI e le sue encicliche; 3. L’enciclica Divini illius magistri sull’edu-cazione della gioventù; 4. Il cinema nella Divini illius magistri; 5. Gli echi dell’enciclica Divini illius magistri.

Capitolo III - Pio XI e la radio: la nascita della Radio Vaticana

1. La Radio Vaticana. Cenni storici; 2. Aspetti istituzionali e organizzativi della Radio Vaticana; 3. La funzione della radio nel discorso di Pio XI all’inaugurazione della Radio Vaticana.

Capitolo IV - Pio XI e il cinema nella Vigilanti cura

1. Verso la prima enciclica sul cinema; 2. Opinioni e giudizi sul cinema in America prima del-l’enciclica Vigilanti cura; 2.1. L’autocensura dei produttori americani di cinematografia; 2.2. La Legion of Decency; 2.3. Il sostegno compiacente della stampa al cinema; 3. L’Azione Cattolica e il cinema in Italia prima dell’enciclica Vigilanti cura; 4. L’enciclica Vigilanti cura; 4.1. Gli aspetti dottrinali nella Vigilanti cura; 4.2. Conseguenze pratiche e proposte concrete.

Conclusioni

Pio XI e il cinemaTesi di diploma1

di MARIA BASSI *

1. Pio XI, l’educazione della gioventù e il cinema. L’enciclica Divini illius magistri.

1. Achille Ratti, Pio XI

Achille Ratti nacque a Desio il 31 maggio 1857;2 battezzato dopo ventiquattro ore, fu chiamato con i nomi di Ambrogio Damiano Achille”.3 Dalla famiglia ebbe un’educazione cristiana4 mentre suo primo maestro fu il sacer-dote milanese Giuseppe Volentieri.5 Suo zio don Damiano Ratti, a dieci anni, lo presentò a don Carlo Cassina, rettore del Seminario Milanese di San Pietro Martire.6 In seminario Achille Ratti fu classificato primus cum eminentia e tra gli altri riconoscimenti di studio, ebbe assegnata

* Diplomata presso l’Istituto di Scienze Religiose di Trani - Difesa l’11 febbraio 2005. Relatore prof. Antonio Ciaula.

1 Dalla tesi “Pio XI, la radio, il cinema. Chiesa e media tra cassa di risonanza e formazione della mentalità” sono qui pubblicati i capitoli 2 e 4 relativi a Pio XI e il cinema e le conclusioni riguardanti l’intero lavoro.

2 È stato notato che in quello stesso giorno l’Italia celebrava il settimo centenario della battaglia di Legnano che fu combattuta e vinta sotto gli auspici del pontificato romano e che introdusse l’Italia in un’era di più fervida attività e di progresso (cf. M. VINCENTI, Pio XI, ed. Pia Società San Paolo, Roma 1941, p. 1). L’autore sottolinea che sarà proprio quel bambino, divenuto poi papa Pio XI, a riconciliare l’Italia con Dio.

3 M. VINCENTI, Pio XI, cit., p. 2. 4 Cf. M. ANDRIANOPOLI, Pio XI, Imprimatur C.D. COCCOLO, Torino 1938, p. 13.5 Ivi, p. 4.6 Ivi.7 Uno dei suoi professori parla di lui come di “uno scolaro straordinario, di educazione e di stimolo a tutti[…]

Bastava ascoltarlo per capire che quanto metteva in vetrina era poco in confronto della scorta di magazzino”.Cf. M. VINCENTI, Pio XI, cit., p. 8 - 11.

la palma in ebraico.7 Durante il periodo della sua formazione maturavano avvenimenti di grande importanza come il Concilio Vaticano I che, convocato da Pio IX, intendeva arginare una serie di errori provocati dalle varie correnti filosofiche. Sono i tempi di movimenti anti-cristiani che sembrano minare i pilastri su cui poggiava l’ordine sociale e l’assetto religioso dei popoli mentre la guerra franco-prussiana e l’occupazione di Roma chiudevano un passato ed aprivano un’era nuova per gli Stati e per la stessa S. Sede. La presa di Porta Pia, i segni lasciati dalle artiglierie piemontesi e le intimida-

200 Percorsi di studio giugno 2008 - anno VIII

zioni ai sacerdoti che avevano paura di apparire in pubblico provocarono in lui un particolare attaccamento al papa e alla chiesa. La fonda-zione, da parte di Leone XIII dell’Accademia di San Tommaso in Roma, fece maturare in Achille Ratti, ordinato sacerdote il 20 dicembre 1879 in San Giovanni in Laterano, una particolare at-trazione verso la dottrina di Tommaso d’Aquino come “assetato di vero e di giusto”.8 Oltre a mettersi a servizio della scienza, don Ratti ebbe una serie di impegni in cui sviluppò le sue doti pastorali.9 Di lui i testimoni del tempo ricordano l’ardore unito all’azione, la spiritualità soda, il sovrano rispetto delle anime.10

Nel 1898 Milano vide giorni tristissimi; un lungo sciopero era degenerato in una generale sollevazione operaia; la città fu dichiarata in stato di assedio mentre le lotte cominciavano ad essere sanguinose. Nelle chiese si sospese l’ufficiatura e lo stesso arcivescovo dovette allontanarsi dalla sede. Don Ratti continuò nel suo ministero e nelle relazioni sociali, offrendo

talvolta la propria mediazione ed il suo consi-glio, in genere, sempre ascoltato.11

A Milano don Ratti fu anche professore di teologia dogmatica e di sacra eloquenza nel Seminario Maggiore. Singolare la sua scelta dei modelli di classica oratoria ove ricercava il primitivo pensiero religioso rispetto alle regole esteriori dell’arte della parola12. Achille Ratti mirò sempre alle vette e le raggiunse sia in una sorta di aristocrazia dello spirito che nella sua passione per la montagna.

Dal 1888 fu chiamato alla Biblioteca Ambro-siana13 ove ebbe modo di sviluppare le singolari attitudini alla ricerca, allo studio filologico, alla esposizione ordinata e serenamente critica, a sintesi lucide, derivate da analisi pazienti ed acute. Nel lavoro di biblioteca Don Ratti si im-pegnò a fondo e, per la fiducia illimitata che ebbe, poté dare all’Ambrosiana una fisionomia quasi nuova. Riordinò la Pinacoteca, aprì la Sala delle stampe, il Gabinetto Leonardesco con la mostra dei cimeli vinciani, la Sala delle armi e

8 M. ANDRIANOPOLI, Pio XI, cit. p. 22.9 Fu cappellano dell’Istituto delle Suore del Cenacolo facendo diventare in breve tempo tale istituzione un fervido

centro milanese di vita religiosa. Inaugurò corsi di catechismo per “preparare i fanciulli alla Prima Comunione, il Catechismo di perseveranza alle Signorine studenti e l’assistenza all’Associazione delle maestre cattoliche, da lui fondata”.M. VINCENTI, Pio XI, cit., p. 23.

10 Una lapide così sintetizza le sue attività pastorali di quel periodo: “Qui fra gli effluvi di una pietà luminosa, nell’incenso mistico d’un nuovo Cenacolo, mettendo a servizio di un’attività multiforme e costante i tesori di un’alta intelligenza e di un nobile cuore, Achille Ratti, ministro e dispensatore dei doni celesti, predicatore as-siduo della parola di Dio, edificando le anime con i suoi consigli ed esempi, si preparò, senza saperlo, al giorno 6 febbraio 1922 in cui, elevato alla Cattedra di Pietro, Egli divenne col nome di Pio XI, il Pastore Supremo della Chiesa e Maestro di verità ”. M. VINCENTI, Pio XI, cit. , p. 23.

11 Di lui si ricorda che riuscì a portare la buona parola, il conforto e il buon consiglio negli ambienti più disparati: “in mezzo agli studiosi da mattina a sera, egli non perdeva mai la sua serenità, la sua affabilità e la sua com-postezza. Il sacerdote era sempre lì presente nella semplicità e dignità del suo abito talare. Ma il sacerdote non pesò mai sulla giustezza di espressione o sulla realtà dell’argomento proprio dello studioso, né la sollecitudine e il fervore dello studioso diminuivano o scomponevano mai anche minimamente la dignità spirituale intima ed esteriore del sacerdote”. M. VINCENTI, Pio XI, cit. , p. 26.

12 Di lui il card. Lualdi, suo carissimo amico e compagno di studi, al momento dell’elezione a papa ricorda che “nacque per essere primus inter pares; così nella scuola, nell’insegnamento, negli studi severi, nella prelatura; sempre primo, ed ora non fra gli altri ma su tutti ”. M. VINCENTI, Pio XI, cit. , p. 30.

13 La Biblioteca Ambrosiana è “quell’illustre focolare della scienza che, con la Vaticana, la Nazionale di Parigi, il British Museum di Londra e la Biblioteca di Corte di Vienna, primeggia fra le più grandi raccolte del mondo. Vi è annesso un Collegio di Dottori ognuno dei quali ha il dovere di valorizzare i libri e i manoscritti, di approfondire una determinata materia e di fare in merito qualche pubblicazione. Veri tesori di arte e di cultura racchiude il grande palazzo fatto costruire appositamente dal Card. Borromeo in un angolo caratteristico della Vecchia Milano”. Cf. M. VINCENTI, Pio XI, cit., p. 37.

201Percorsi di studiogiugno 2008 - anno VIII

il Museo Settàla.14 Il card. Ferrari, al quale era stato richiesto nel 1911, gli permise di coa-diuvare l’allora prefetto Ehrle alla biblioteca Vaticana. Perciò, dal 20 febbraio 1912, mons. Ratti si stabilì a Roma come vice prefetto con diritto di successione della Biblioteca Vaticana. Qui egli rinnovò le opere che l’avevano distinto all’Ambrosiana; continuò l’ordinamento degli stampati, la pubblicazione dei cataloghi dei manoscritti e della collezione degli Studi e Testi. 15

Quando nel 1918, dopo la prima Guerra Mondiale, l’episcopato polacco chiese alla S. Sede un rappresentante pontificio in Polonia,16 Benedetto XV scelse mons. Ratti che, dopo aver cercato di esimersi, accettò di partire per la Polonia, portando con sé un immenso carico di cognizioni sulla situazione della Chiesa po-lacca e delle sue relazioni diplomatiche con la S. Sede. Secondo i vescovi polacchi, solo con la più stretta unione con Roma, la Chiesa di Polonia poteva perpetuare quella fede cattolica che era stata il vincolo infrangibile dello spirito nazionale. Mons. Ratti, visto come il rappre-sentante ufficiale della fede cattolica romana e un segno di predilezione da parte del S. Padre, operò per alleviare le sofferenze dei polacchi che la guerra aveva ridotti all’estrema miseria e operò per i prigionieri italiani distribuendo i soccorsi che Benedetto XV aveva inviato per loro. Nelle sue visite in diverse parti della Po-lonia fu accolto come vero missus dominicus recante la pace e la speranza di tempi più belli. Iniziò la sua missione dal celebre santuario di Jasna Gòra; passò a Kielce, poi ritornò a Varsavia e nel giugno1919 era a Kolbiel e poi

a Kalisz. La sua missione fu caratterizzata dal tatto squisito con cui assolse il suo mandato, chiedendo, interrogando e lasciando parlare chi aveva di fronte nelle chiese, nelle scuole, negli ospizi, negli ospedali, nei seminari e nelle caserme. Quando fu riconosciuta la nazione polacca il governo chiese al papa l’istituzione della nunziatura e la nomina di mons. Ratti a titolare di essa. Per la Polonia la nomina del nunzio fu un avvenimento nazionale e alla sua consacrazione, nella cattedrale di Varsa-via, assistettero il Presidente della Repubblica e gli altri membri del Governo, tutto il Corpo Diplomatico e le autorità di Varsavia. Inizia per mons. Ratti un’azione più vasta così descritta da lui stesso all’amico card. Lualdi;17

“la mia salute, grazie a Dio è buona: davve-ro non ho tempo di ammalarmi! Il da fare è molto, molte le difficoltà, ma molto più gli aiuti divini e anche le consolazioni […] Sono il primo che dopo un secolo vive qui quale inviato del Papa; è giusto che offra a tutti la massima facilità di vedermi e di parlarmi. Si deve lasciare ad ognuno la facoltà di aprire del tutto il proprio cuore, anche a costo di sentire molte cose futili o addirittura sciocche; per la persona che visita è sempre una grande consolazione trovare chi pazientemente ascolta ed è un compenso alle risposte negative che il dovere impone di dare spesso a richieste impossibili.”18

La morte del card. Ferrari nel 1921 lasciò un gran vuoto nell’arcidiocesi di Milano. Benedetto XV lo volle arcivescovo di Milano, diocesi che resse solo per pochi mesi. Dome-nica 22 gennaio 1922, infatti, moriva quasi

14 Vi è una serie di scritti che dimostrano il largo e sapiente sviluppo di quella mente operosa ed instancabile. Fra questi primeggiano gli Acta Ecclesiae Mediolanensis e la pubblicazione intorno al Missale Ambrosianum. Altri studi importanti furono da lui pubblicati nel Rendiconto dell’ Istituto Lombardo di scienze e lettere, nel Giornale storico della letteratura italiana, nell’ Archivio storico lombardo.

15 Ivi, pp. 37 - 54.16 Si ricordi che, solo dopo il crollo dei tre imperi di Russia, Austria e Germania, i Polacchi poterono far risorgere

uno Stato indipendente che dal 1772 (Trattato di Pietroburgo) era stato smembrato e ripartito tra le tre po-tenze.

17 Cf. M. VINCENTI, Pio XI, cit., p. 55 - 76. 18 Ivi, p. 68 - 69.

202 Percorsi di studio giugno 2008 - anno VIII

improvvisamente Benedetto XV e il 6 febbraio successivo il card. Achille Ratti fu eletto papa assumendo il nome di Pio.19 Il nuovo papa inizia il pontificato impartendo la benedizione urbi et orbi dalla loggia esterna di San Pietro, chiusa dal 1870 dolo l’annessione di Roma al Regno d’Italia e manifesta, così, il desiderio di togliere la Chiesa dal suo isolamento. Si giunge così al Concordato con l’Italia firmando nel 1929 i Patti Lateranensi. Nonostante il Concordato, però, rimangono molti contrasti col governo italiano. Il regime fascista, non sopportando le organizzazioni giovanili cattoliche svincolate dalla sua autorità, ne impone lo scioglimento. Ma Pio XI, il 29 giugno 1931, risponde con l’enciclica Non abbiamo bisogno e fa passare un anno per un accordo con Benito Mussolini. Dal 1922 al 1933 Pio XI ha un’attività partico-larmente intensa tesa a salvaguardare i diritti della Chiesa di fronte al potere degli Stati. Conclude, perciò, diversi concordati con molti paesi di regime politico diverso.20 Tutta questa attività e la sua linea politica gli attirarono mol-te critiche. Negli ultimi anni di vita, diventò più acuta l’opposizione ai regimi nazista e fascista anche se in concreto i sentimenti del Pontefice non poterono tradursi in azioni aperte.

Pio XI manifesta sempre una netta oppo-sizione contro la Russia sovietica e contro il comunismo ateo che condanna con l’enciclica

Divini Redemptoris e prende posizione contro il Messico e la Spagna repubblicana, dichiara-tamente antireligiosi.

Notevole l’impegno di papa Ratti nell’incre-mentare l’attività missionaria, cosa che gli fece attribuire l’appellativo di Papa delle missioni. In altre sue encicliche Pio XI precisa la dottrina della Chiesa e la posizione del suo pontificato su problemi diversi: dall’educazione dei giovani (Divini illius magistri, 1929) alla famiglia (Casti connubi, 1930), al lavoro e alla questione so-ciale (Quadragesimo anno, 1931), al clero (Ad Catholici sacerdotii, 1935). Di grande interesse storico è l’enciclica in lingua tedesca Mit bren-nender Sorge (Con viva ansia), del 14 marzo 1937 ove Pio XI denuncia l’incompatibilità tra i presupposti razzisti e pagani del nazismo e il cattolicesimo e lamenta le condizioni in cui è costretta la Chiesa tedesca. Interviene anche sulla situazione del Messico con l’enciclica Nos es muy conocida (È a noi ben nota) del 28 marzo 1937. Muore il 10 febbraio 1939.

2. Le encicliche di Pio XI

Durante il suo pontificato - durato dicias-sette anni (dal 6.febbraio 1922 al 10 febbraio 1939) - Pio XI scrive, come già accennato, diverse encicliche.21

19 Come dopo la morte di Pio X, al conclave che iniziò il 3 febbraio 1922, si trovarono di fronte due tendenze: coloro che desideravano un ritorno alla politica ecclesiastica rigida del tempo di papa Sarto (Pio X), e coloro che auspicavano invece il proseguimento della politica più aperta del pontificato precedente. I primi, votarono inizialmente Merry del Val, i secondi auspicavano la candidatura del vecchio segretario di Stato Gasparri. Ma, ben presto i voti del cardinale Ratti, passarono da quattro o cinque a quarantadue su cinquantaquattro. Fu eletto papa il 6 febbraio 1922 e dichiarò di prendere il nome di Pio in ricordo di Pio IX, sotto il cui pontificato era entrato nella vita ecclesiastica, e di Pio X che l’aveva chiamato a Roma. Queste le sue prime parole da papa: “Perché non appaia ricalcitrante alla divina Volontà, perché non sembri che mi sottragga all’onere che doveva pesare sulle mie spalle, perché non si possa dire che non ho apprezzato al giusto valore i voti dei miei colleghi, malgrado la mia indegnità, di cui ho il sentimento profondo, accetto [...] Sotto il Pontificato di Pio IX sono stato incorporato nella Chiesa Cattolica e ho fatto i miei primi passi nella carriera ecclesiastica. Pio X mi chiamò a Roma. Pio è un nome di pace. Desideroso di consacrare i miei sforzi all’opera di pacificazione mondiale, alla quale si è consacrato il mio predecessore Benedetto XV, scelgo il nome di Pio [...] Voglio ancora aggiungere una parola: protesto davanti ai membri del Sacro Collegio che ho a cuore di salvaguardare e di difendere tutti i diritti della Chiesa e tutte le prerogative della S. Sede, ma, detto ciò, voglio che la mia prima benedizione vada, come pegno della pace alla quale l’umanità aspira, non solamente a Roma e all’Italia, ma a tutta la Chiesa e al mondo intero. Io la darò dal balcone esterno di S. Pietro”. Ivi, p. 98 - 100.

20 Dal 1922 al 1933 vengono, infatti, firmati i concordati con la Lettonia (1922) la Polonia (1925), la Lituania (1927), la Cecoslovacchia e il Portogallo (1928), la Romania (1932), la Germania (1933).

21 http://www.vatican.va/holy_father/pius_xi/encyclicals/index_it.htm.

203Percorsi di studiogiugno 2008 - anno VIII

Eletto Papa il 6 febbraio 1922, Pio XI pubbli-ca il 23 dicembre dello stesso anno la prima en-ciclica Ubi arcano Dei consilio, in cui riassume gli insegnamenti di Benedetto XV sulle cause delle guerre e sulla vera pace. Allo stesso tem-po, traccia le linee di un insegnamento siste-matico che riprende e aggiorna, in una decina di encicliche sociali, il magistero di Leone XIII. Punto di partenza di Pio XI è la dottrina della regalità di Cristo. Ad essa papa Ratti dedica le encicliche Ubi arcano Dei consilio del 1922 e, soprattutto, quella del 1925 Quas primas con la quale istituisce ogni anno la festività di Cristo Re. Nelle altre encicliche Pio XI approfondisce tematiche più specifiche come la famiglia, la scuola, l’economia ed, infine, stigmatizzando i nuovi errori del nazional-socialismo e del co-munismo sovietico. La varietà e le linee del suo magistero si possono facilmente comprendere dal sintetico elenco che segue:• Ubi arcano Dei consilio (23 dicembre 1922),

sulla pace di Cristo Re universale;• Rerum omnium perturbationem (26

gennaio 1923), su san Francesco di Sales patrono degli scrittori cattolici ;

• Maximam gravissimamque (18 gennaio 1924), sulle associazioni diocesane france-si;

• Quas primas (11 dicembre 1925), sulla festività di Cristo Re;

• Rerum ecclesiae (28 febbraio 1926), sulle missioni cattoliche;

• Rite expiatis (30 aprile 1926), su san Fran-cesco d’Assisi;

• Iniquis afflictisque (18 novembre 1926), sul-la persecuzione della chiesa in Messico;

• Mortalium animos (6 gennaio 1928), sul-l’unità religiosa della vera chiesa;

• Miserentissimus Redemptor (8 maggio 1928), sulla riparazione al Sacro Cuore;

• Mens nostra (20 dicembre 1929), sulla promozione degli esercizi spirituali;

• Divini illius magistri (31 dicembre 1929), sull’educazione cristiana della gioventù;

• Casti connubii (31 dicembre 1930), sul matrimonio cristiano;

• Quadragesimo anno (15 maggio 1931), sul lavoro e la questione sociale, nel quarante-

simo della Rerum Novarum;• Non abbiamo bisogno (29 giugno 1931),

sull’Azione Cattolica Italiana;• Nova impendet (2 ottobre 1931), sulla crisi

economica;• Caritate Christi compulsi (3 maggio 1932),

sul Sacro Cuore;• Acerba animi (29 settembre 1932), sulla

persecuzione della chiesa in Messico;• Dilectissima nobis (3 giugno 1933), sull’op-

pressione della chiesa in Spagna;• Ad catholici sacerdotii (20 dicembre 1935),

sul sacerdozio cattolico;• Vigilanti cura (29 giugno 1936), sul cine-

ma;• Mit brennender sorge - Con viva ansia - (14

marzo 1937), sulla situazione della Chiesa nel Reich germanico;

• Divini Redemptoris (19 marzo 1937), sul comunismo ateo

• Ingravescentibus malis (29 settembre 1937), sul Rosario;

• Nos es muy conocida - È a noi ben nota - (28 marzo 1937), sulla situazione religiosa in Messico.

Questo elenco ben rappresenta la varietà de-gli interventi e delle problematiche affrontate da Pio XI durante il suo pontificato e aiuta a meglio collocare ed interpretare le due encicli-che che interessano il presente studio: la Divini illius magistri sull’educazione cristiana della gioventù (che contiene il primo riferimento al cinema in un’enciclica papale) e la Vigilanti cura sul cinema.

3. L’ENCICLICA DIVINI ILLIUS MAGISTRI SULL’EDUCAZIONE DELLA GIOVENTÙ

L’Enciclica sulla cristiana educazione della gioventù apparve in un momento cruciale per il problema scolastico e pedagogico. Essa infatti non è indirizzata ai fedeli di qualche paese in particolare, ma “a tutti i fedeli dell’orbe catto-lico”. Pio XI, da rappresentante di Cristo che disse “Lasciate che i pargoli vengano a me” (Mc 10, 14), avverte la necessità di dettare norme sicure circa un problema tanto delicato

3. L’enciclica Divini illius magistri sul-l’educazione della gioventù

204 Percorsi di studio giugno 2008 - anno VIII

quale quello dell’educazione della gioventù. Di-versi i motivi che lo spingono: il dovere del suo ministero apostolico, l’affetto verso la gioventù e la necessità dei tempi. L’importanza, l’essenza e l’eccellenza dell’educazione cristiana si de-ducono dal fatto che questa ha il compito di formare gli individui che dovranno costituire la famiglia e la società del domani.22 Per Pio XI l’educazione della gioventù appartiene nell’or-dine naturale alla famiglia e alla società civile; in quello soprannaturale alla Chiesa alla quale questo delicatissimo ufficio compete in primo luogo perché datole dal suo “Divin Fondatore” in forza del mandato: “Ogni potere è stato dato a me in cielo e in terra. Andate dunque, ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre e del Figliolo e dello Spirito Santo: insegnando loro ad osservare tutto quanto v’ho comandato. Ed ecco io sono con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo” (Mt 28, 18-20). Inoltre, afferma il papa, l’educazio-ne della gioventù compete alla chiesa in virtù della sua maternità divina che, come sposa immacolata di Cristo, genera, nutre ed educa le anime nella vita divina della grazia, con i Sacra-

menti e l’insegnamento.23 La Chiesa ha, quindi, il diritto di usare e giudicare tutto ciò che può risultare giovevole o contrario all’educazione cristiana24 e, pertanto, promuoverà le lettere, la scienza, le arti e la stessa educazione fisica, ed è pronta ad accordarsi ad ogni autorità civile. Tuttavia, l’educazione appartiene anche alla famiglia per diritto inalienabile, fondato cioè sulla natura, con lo stretto obbligo di esercitarlo ed è anteriore a qualsiasi diritto della società civile e dello Stato. Alla famiglia, infatti, Dio comunica immediatamente la fecondità, prin-cipio di vita e quindi principio di educazione alla vita. L’autorità civile che risiede nello Stato, ha, riguardo all’educazione, la doppia funzione di proteggere e promuovere ma non quella di assorbire la famiglia e l’individuo o sostituirsi ad essa.25 Spetta però allo Stato proteggere il medesimo diritto della prole, quando viene a mancare l’opera dei genitori, non sostituendosi ma supplendo al difetto e provvedendo, con i giusti mezzi sempre in conformità con i diritti naturali della prole e i diritti soprannaturali del-la Chiesa. Dopo aver sottolineato la necessità di una ordinata armonia26 tra Chiesa e Stato

22 Pio XI, ricorda a tal proposito le parole di S. Giovanni Crisostomo: “Che v’ha di più grande se non governare gli animi, se non formare i costumi dei giovanetti?” (Hom. 60, in c. 18 Matt.).

23 Il papa riprende le parole di Sant’Agostino. “Non avrà Dio per padre, chi avrà rifiutato di avere la Chiesa per madre”. (De Symb. ad catech., XIII).

24 Papa Ratti, quindi, ricorda Pio X: “Qualunque cosa faccia il cristiano, anche nell’ordine delle cose terrene, non gli è lecito trascurare i beni soprannaturali, cha anzi deve secondo gli insegnamenti della cristiana sapienza dirigere tutte quante le cose al bene supremo come ad ultimo fine; tutte le sue azioni inoltre, in quanto sono buone o cattive in ordine ai costumi, ossia in quanto convengono o meno con il diritto naturale e divino, sottostanno al giudizio e alla giurisdizione della Chiesa” (Enciclica Singolari quadam, 24 settembre 1912).

25 Contraddittoria è pertanto l’affermazione di quanti affermano che la prole, prima che alla famiglia, appartenga allo stato. Ciò che non viene considerato è il fatto che, prima di essere cittadino, l’uomo deve esistere, e l’esi-stenza non la riceve dallo Stato ma dai genitori. In Rerum Novarum (1891), Leone XIII affermava: “I figli sono qualche cosa del padre, e della persona paterna come un’estensione; e se vogliamo parlare con esattezza, non essi per se medesimi, ma attraverso la comunità domestica nella quale sono stati generati entrano a far parte della civile società”. Questo, però, non significa ammettere il diritto assoluto e dispotico dei genitori, in quanto esso resta inseparabilmente subordinato al fine ultimo e alla legge naturale e divina. Ancora una volta il riferimento è a Leone XIII che in Sapientiae Christianae (1890), così si esprimeva: “Da natura i genitori hanno il diritto della formazione dei figli, con questo dovere in più, che e l’educazione e l’istruzione del fanciullo s’accordino col fine, in grazia del quale, per beneficio di Dio, hanno avuto la prole”.

26 Tale “ordinata armonia” viene così descritta nell’enciclica Immortale Dei: “tutto ciò pertanto che v’ha nelle cose umane, in qualche modo, sacro, tutto ciò che si riferisce alla salute delle anime e al culto di Dio, sia esso tale per sua natura o tale si consideri in ragione del fine cui tende, tutto ciò sottostà al potere e alle disposizioni della Chiesa; il resto, che rimane nell’ordine civile e politico, è giusto che dipenda dalla civile autorità, avendo Gesù Cristo comandato di dare a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio” (…).

205Percorsi di studiogiugno 2008 - anno VIII

(la stessa per cui l’anima e il corpo nell’uomo si associano) Pio XI evidenzia lo scadimento dell’educazione del suo tempo, e lo fa con parole decise:

“Vogliamo però richiamare in modo specia-le la vostra attenzione, Venerabili Fratelli e figli diletti, sul lacrimevole scadimento odierno dell’educazione familiare. Agli uf-fici e alle professioni della vita temporale e terrena, certo di minore importanza, si premettono lunghi studi ed accurata pre-parazione, laddove all’ufficio e dovere fon-damentale dell’educazione dei figli sono oggi poco o punto preparati molti genitori, troppo immersi nelle cure temporali.”

Il Papa denuncia la tendenza ad allontana-re i fanciulli dalla famiglia sin da tenera età, sotto vari pretesti, quali economici, o politici. Sarà quindi la scuola, istituzione sussidiaria e complementare della famiglia e della Chiesa, ad accordarsi con queste costituendo un solo santuario, sacro all’educazione cristiana, afferma il papa. Pio XI rivolge particolare at-tenzione poi ai maestri, i quali, preparati ed istruiti nella propria disciplina, devono avere quelle qualità intellettuali e morali richieste dal loro ruolo e amore puro e divino per i giovani loro affidati.

Il Papa, inoltre, ritiene necessario dirigere e vigilare l’educazione dell’adolescente in qual-siasi altro ambiente in cui viene ad operare, ri-muovendo le cattive occasioni e procurandogli l’opportunità di quelle buone. È a questo punto che l’enciclica prosegue con le considerazioni circa il cinematografo ed i suoi effetti sull’edu-cazione della gioventù.

4. Il cinema nella Divini illius magistri

Nella terza parte dell’enciclica sull’educa-zione, Pio XI tratta del cinema affermando che esso va annoverato come uno dei “potentissimi strumenti di divulgazione”. È la prima volta che si parla di cinema in un’enciclica papale e questo probabilmente è dovuto ad un clima culturale che ha visto impegnati i cattolici in questo settore. È dell’anno precedente, infatti,

la celebrazione del Primo Congresso Cattolico del Cinema svoltosi a Parigi. Il Pontefice evi-denzia una necessaria, più estesa ed accurata vigilanza sull’educazione dei giovani per le accresciute occasioni di naufragio morale e religioso27 e indica negli spettacoli del cinema-tografo e in alcuni programmi radiofonici la causa della moltiplicazione delle “male passioni e dell’avidità del guadagno”. Loda, invece, tutte quelle opere educative

“le quali con spirito sinceramente cristiano di zelo per le anime dei giovani, atten-dono, con appositi libri e pubblicazioni periodiche, a far noti, segnatamente ai genitori e agli educatori, i pericoli morali e religiosi spesso subdolamente insinuati nei libri e negli spettacoli, e si adoperano a diffondere la buone letture e a promuove-re spettacoli veramente educativi, creando anche con grandi sacrifici, i teatri e cine-matografi, nei quali la virtù non solo non abbia nulla da perdere, ma bensì molto da guadagnare”. (DIM)

Il Papa, quindi, ricorda che l’educazione comprende tutto l’ambito della vita umana, sensibile, spirituale, intellettuale e morale, in-dividuale, domestica e sociale, per regolarla e perfezionala secondo gli esempi e la dottrina di Cristo. Il vero cristiano, perciò, non è chiamato a rinunciare alle opere della vita terrena o ri-durre le sue facoltà naturali ma deve svolgerle coordinandole alla vita soprannaturale in modo da nobilitare la vita naturale, darle giovamento e vigore non solo in ordine spirituale ed eterno, ma anche temporale e materiale.

Dopo il cenno sul cinema nell’enciclica, Pio XI, riprenderà presto il tema delle comunica-zioni sociali, in generale, e del cinematografo in particolare, attraverso udienze, lettere e comunicazioni fino al 1936 quando dedica uno specifico documento sull’attività di pre-venzione e di monito nei confronti del cattivo utilizzo degli strumenti comunicativi. L’enciclica Vigilanti Cura, infatti, sarà completamente de-dicata al problema morale del cinematografo per i cattolici. Il tema è in continuità con la Di-

27 Cf. D.E. VIGANÒ, Cinema e chiesa, Effatà Editrice, Cantalupa (TO) 2002, p. 41-42.

206 Percorsi di studio giugno 2008 - anno VIII

vini illius magistri. Nell’enciclica sull’educazione cristiana, infatti, si pone in guardia innanzitutto sulla necessità di

“dirigere e vigilare l’educazione dell’adole-scente, “molle come cera a piegarsi al vizio” (Horat., Ars poet., v. 163) in qualsiasi altro ambiente egli venga a trovarsi, rimovendo le cattive occasioni e procurandogli l’oppor-tunità delle buone nelle ricreazioni e nelle compagnie giacché “i discorsi cattivi cor-rompono i buoni costumi” (I Cor. V, 33)”.

Passando poi al cinema si rileva innanzitutto che

“ai nostri tempi, si fa necessaria più estesa ed accurata vigilanza, quanto più sono accresciute le occasioni di naufragio mo-rale e religioso per la gioventù inesperta, segnatamente nei libri empi o licenziosi, molti dei quali diabolicamente diffusi a vil prezzo, negli spettacoli del cinematografo, ed ora anche nelle audizioni radiofoniche, le quali moltiplicano e facilitano per così dire ogni sorta di letture, come il cinema-tografo ogni sorta di spettacoli.Questi potentissimi mezzi di divulgazione, che possono riuscire, se ben governati dai sani principi, di grande utilità all’istruzione ed educazione, vengono purtroppo spesso subordinati all’incentivo delle male passio-ni ed all’avidità del guadagno. Sant’Ago-stino gemeva della passione ond’erano trascinati anche dei cristiani del suo tempo agli spettacoli del circo, e racconta con vivezza drammatica il pervertimento, per buona ventura temporaneo, del suo alun-no e amico Alipio (Conf. VI, 8). Quanti tra-viamenti giovanili, a causa degli spettacoli odierni, oltre che delle malvagie letture, non debbono ora piangere i genitori e gli educatori!” (DIM)

Qui l’enciclica sottolinea l’importanza di promuovere le opere educative e successiva-mente conclude introducendo la categoria della vigilanza che sarà il tema della successiva enciclica del 1936 che inizierà, appunto, con le parole Vigilanti cura che daranno il nome alla prima enciclica dedicata al cinema:

“Da questa necessaria vigilanza non segue tuttavia che la gioventù debba essere se-gregata dalla società, nella quale pur deve vivere e salvare l’anima; ma oggi più che mai deve essere premunita e fortificata cri-

stianamente contro le seduzioni e gli errori del mondo, il quale, come ammonisce una parola divina, è tutto “concupiscenza degli occhi e superbia della vita” (I Ioan. 11, 16); per maniera che, come diceva Tertulliano dei primi cristiani, siano quali debbono essere i veri cristiani di tutti i tempi “com-possessori del mondo, non dell’errore” (De Idolatria, 14)” (DIM).

5. Gli echi dell’enciclica Divini illius magistri

L’Enciclica sulla cristiana educazione della gioventù apparve in un momento cruciale per il problema scolastico e pedagogico tanto che il Papa sente la necessità di dettare norme sicure circa un problema tanto delicato indirizzandole “a tutti i fedeli dell’orbe cattolico” più che a quelli di un particolare paese.

Agli echi sull’enciclica Divini illius magistri la rivista Civiltà cattolica dedica un lungo articolo28 definendola “ammirabile Enciclica sull’educazione cristiana della gioventù”. La rivista rileva innanzitutto che “il giornalismo profano, senza rendersi intero conto di tutto il significato del fatto” ha messo “al servizio della parola del Papa la rapidità e la copia dei mezzi più recenti di comunicazione” ed aggiunge

“I grandi giornali riferiscono che l’enciclica, subito tradotta in inglese, fu trasmessa per la telegrafia senza fili, dalla stazione di Coltano agli uffici del giornale The New York Times, il quale asserisce che fu quello il più lungo dispaccio, circa dodicimila parole, sinora trasmesso dall’Italia all’America. La trasmissione cominciò alle ore otto di sera del mercoledì, 15 gennaio, e terminò alle dieci e mezza della mattina seguente, du-rando per quattordici ore e mezza.” 29

In attesa che fossero pubblicate le traduzioni autorizzate, cominciarono i vari commenti della stampa di tutto il mondo.

Dei vari commenti, Civiltà cattolica cita il New York Times del 20 gennaio 1930 che,

28 Echi dell’enciclica sull’educazione, in Civiltà Catto-lica, quaderno 1914, 15 marzo 1930, p. 481-492.

29 Ivi, p. 481.

207Percorsi di studiogiugno 2008 - anno VIII

nell’articolo di fondo, affermava che “molti dei sentimenti espressi da Pio X1 su questo argomento (dell’educazione) sono ammirabili e sublimi, e saranno accettati da grande mol-titudine di persone cattoliche” ed evidenziava anche che “tutto intero il pensiero del Papa sull’educazione in quanto si riferisce allo stato, appare in contrasto con l’ideale e la pratica americana”.30

Viene sottolineato che “non vi è nessuna vera opposizione tra la dottrina dell’Enciclica e l’intimo fondamentale buon senso della santa tradizione americana” e che talune obiezioni dei protestanti hanno origine “nei pregiudizi antipapali radicati nel loro animo e per la mancanza di comprensione del senso e dello scopo dell’Enciclica”.31

La rivista evidenzia anche che nel New York Times del 27 gennaio 1930, viene riportata la “singolare” dichiarazione di Jacob Katz, rab-bino del quartiere Bronx di New York, il quale dichiarava che “prescindendo dalle differenze del credo,ogni educatore della gioventù, di qualsiasi razza e religione, è portato a consen-

tire con l’Enciclica del Papa”.32

Quanto al mondo anglosassone, il con-senso è più esplicito e “senza alcun cenno di dissentimento, neanche per quanto riguarda le dottrine cattoliche”. Si richiama l’articolo di fondo del Times di Londra che, nell’Educational Supplement del 18 gennaio 1930, afferma che “le decisioni del Papa si sono dimostrate spesso documenti di prima importanza nella storia dell’educazione […] e che “la recente Enciclica di Papa Pio XI merita più accurata attenzione che non l’abbia avuta dai giornali fascisti di Roma”.33 Civiltà cattolica rileva che parole di questo genere “starebbero benissimo in bocca dei cattolici di qualsiasi nazione” La panoramica sul mondo anglosassone continua con l’articolo di fondo del settimanale inglese cattolico The Universe che, nel numero del 24 gennaio 1930 inizia l’articolo con la seguente affermazione: “l’Enciclica del Santo Padre sull’educazione poteva quasi essere scritta proprio a bella posta per questo paese, tanto esattamente essa corrisponde alle condizioni nelle quali noi ci troviamo”.34

30 Echi dell’enciclica sull’educazione, in Civiltà Cattolica, quaderno 1914, 15 marzo 1930, p. 482.31 Si evidenzia anche che “in alcuni di essi è così profondamente inveterato l’odio verso quanto è cattolico, da

apparire moralmente impossibile l’entrata della verità nella loro mente”. Si conclude poi affermando che: “non potrà essere accettato in America se non nel caso che l’America cessi di essere quella che è stata sinora” rilevando in particolare che i più accaniti di tutti nel sostenere la scuola neutra di Stato, a volerla obbligatoria per tutti, ed a procurare l’istituzione di una sorta di monopolio centrale dell’educazione nazionale (National Department of Education) sono i frammassoni. The New Age, organo ufficiale del supremo consiglio dei 33, riporta la dichiarazione del 1921 del Supremo Consiglio, che proclama la scuola neutra nazionale, e nel 1930 biasima l’Enciclica come opposta al sistema della scuola pubblica americana, e la fraintende in molti punti, per avversione e pregiudizio anticattolico. Tale affermazione è confutata dalla stessa enciclica, là dove il Papa dice che il modo più ragionevole e più agevole di provvedere alla pubblica istruzione è quello di lasciare libera e favorire con giusti sussidi l’iniziativa e l’opera della Chiesa e delle famiglie e che l’istituzione sociale della scuola nacque dapprima per iniziativa della famiglia e della Chiesa.

E questo è confermato dalla storia, dell’America in particolare dove, al contrario di quello che asserisce il Times di New York, per molto tempo la pratica era proprio della scuola confessionale religiosa, istituita e sostenuta dal popolo, senza ingerenza dello Stato. Ivi.

32 Ivi, p. 483-484.33 Echi dell’enciclica sull’educazione, in Civiltà Cattolica, quaderno 1914, 15 marzo 1930, p. 484. L’articolo dopo

alcuni cenni sull’opera dei Papi sull’educazione, definisce, in breve, il contenuto dell’Enciclica molto elaborato e discute con logica rigorosa i nuovi sistemi di educazione sorti in larga parte del mondo, incluse le isole bri-tanniche, sin dai giorni di Pio VII. Simile è la dichiarazione di un altro rabbino di New York, Rabbi Israel Gold-stein: “L’Enciclica del Papa, benché diretta al mondo cattolico, costringe le persone intelligenti a considerare due importanti questioni: la tendenza naturalistica nella moderna educazione, condannata dall’Enciclica, e la funzione educativa responsabile della famiglia, della Chiesa e dello Stato” . Ivi.

34 Ivi, p. 487.

208 Percorsi di studio giugno 2008 - anno VIII

Se quelli illustrati finora sono i giudizi dei non cattolici,35 è importante anche soffermarsi sulle reazioni dei cattolici di diversi paesi.

In Spagna i vari articoli di fondo sull’Enci-clica sul giornale cattolico El Debate sono tesi ad evidenziare “la corrispondenza degli inse-gnamenti educativi del Papa con le condizioni particolari della Spagna”:36

“questa Enciclica è di grande opportunità per alcune nazioni; ma per poche, come per la Spagna e per l’Italia. In ambedue, le questioni sull’educazione sono ogget-to continuo di pubblica discussione, e in ambedue vi ha grande confusione di idee, talora anche presso alcuni cattolici i quali credono di attenersi alla dottrina cattoli-ca più pure e conforme allo spirito della Chiesa negando allo Stato ogni diritto educativo”37

Lo stesso riconoscimento è manifestato dai cattolici francesi. François Veuillot, nell’articolo di fondo de La Vie Catholique del 1 febbraio 1930, afferma che “Pio XI inserisce nel suo pontificato luminoso, costruttore e conquista-tore una vera Carta dell’Educazione cristiana” mentre Giovanni Guiraud nella Croix del 14 gennaio 1930 afferma che

“le nostre associazioni dei capi di famiglia saluteranno con entusiasmo questa Enci-clica, che deve essere la Carta dell’educa-zione, come l’Enciclica Rerum Novarum è quella dell’azione sociale”.38

Nei Paesi di lingua tedesca, la Koelnische Volkszeitung di Colonia (12,13,14 genn.1930) e la Reichpost di Vienna (16 genn.) ne pubblica-rono subito larghi sunti rilevandone l’altissima importanza, essendo l’enciclica un documento pedagogico, criticamente e metodicamente condotto, che rischiara con nuova luce la questione dell’educazione. Reichspost, in particolare, afferma che l’Enciclica è

“un trattato programmatico, che esaurisce il tema nei suoi principii fondamentali; un documento pedagogico, criticamente e metodicamente condotto, che li schiera con nuova luce la questione dell’edu-cazione; opera di un Papa peritissimo nelle dottrine pedagogiche e nel metodo scientifico”.39

L’unico caso, in Europa, di contraddizione aperta, fu quello verificatosi nella Jugoslavia da parte del giornale massonico di Zagabria, Novosti, il quale insinuava che l’Enciclica mirasse principalmente a sobillare i cattolici iugoslavi contro le recenti leggi scolastiche di quel Regno e contro l’unità dello Stato e la tranquillità della nazione.40 Civiltà Cattolica fa notare in particolare che

“l’Arcivescovo Metropolitano di Zagabria, Mons. Bauer, emise subito una dignitosa protesta, respingendo le inconsiderate insinuazioni contro la sacra persona del S. Padre e contro la Chiesa Cattolica in

35 Un’altra voce del mondo anglosassone protestante, la quale esprime intero consenso con l’enciclica dichiara: “Noi non apparteniamo alla Chiesa Cattolica ma dobbiamo riconoscere che questa Enciclica è quanto di più bello sia apparso intorno alla educazione […] Si dica quel che si vuole della Chiesa Cattolica Romana, ma quan-do si sentono idee, come queste dell’Enciclica, esposte dal Capo di quella Chiesa, se ne intende agevolmente tutta la ragionevolezza. Mentre i protestanti litigano fra di loro intorno allo statuto di una stolta proibizione e si affannano ad introdurre i loro credi nella legislazione civile, quelli che reggono la Chiesa Cattolica enunziano principi e regole di condotta che niuno può contrastare”.

36 Ivi.37 Ivi. “Questo magnifico documento - continua il Debate - è destinato ad avere nell’ordine pedagogico risonanza

non inferiore a quella che ebbe la Rerum Novarum nell’ordine sociale”, in quanto, così come Leone XIII volle trattare la questione sociale nel suo complesso, considerandola in tutti i suoi aspetti, così Pio XI non ha inteso solo difendere i diritti della Chiesa nell’educazione, ma ha voluto dare una trattazione complessiva, armonica, logica, e ordinata.

38 Echi dell’enciclica sull’educazione, in Civiltà Cattolica, quaderno 1914, 15 marzo 1930, p. 488.39 Ivi, p. 489.40 Cf. Echi dell’enciclica sull’educazione, in Civiltà Cattolica, quaderno 1914, 15 marzo 1930, p. 490.

209Percorsi di studiogiugno 2008 - anno VIII

generale, confutando la calunniose ac-cuse. L’Episcopato iugoslavo, con lettera collettiva, ha poi presentata e difesa l’Enciclica”.41

Dei commenti della stampa italiana si af-ferma:

“Quanto al mondo laico e profano in Italia, dopo il silenzio dei primi giorni, si manifestò, qua e là sui periodici, qualche consenso, (come in un articolo della Stam-pa di Torino, dove si metteva in rilievo che l’Enciclica riconosce allo stato l’educazione civica), ma più numerose erano le critiche, provenienti in generale, da ignoranze

e talora anche dall’incomprensione dei termini stessi dell’Enciclica, le quali è venuto confutando giorno per giorno l’Osservatore Romano per la briosa ed eloquente penna del suo Direttore. Tutto ciò passa e si dilegua come le polemiche giornalistiche”.42

Interessanti, infine, alcune osservazioni finali dell’articolo che si riportano integralmente in nota per la loro possibile rilevanza per l’inquadratura storica, in particolare per i rapporti tra Santa Sede e fascismo. La loro trattazione più completa, infatti, allontanerebbe il presente studio dal suo stesso oggetto di approfondimento.43

41 Ivi. 42 Echi dell’enciclica sull’educazione, in Civiltà Cattolica, quaderno 1914, 15 marzo 1930, p. 490. 43 “Crediamo piuttosto che siano da ritenere le manifestazioni più autorevoli, rilevate opportunamente dallo stesso

Osservatore Romano; tre principalmente. La prima, un discorso del dott. Arnaldo Mussolini, nel cui sunto pub-blicato dal Popolo d’Italia, si legge, tra l’altro, intorno all’educazione: “Sua Santità ne ha fatto oggetto di una lunga e importante Enciclica, che va seriamente meditata e nella quale si dice che l’educazione della gioventù è opera della Chiesa, della famiglia e dello Stato. Ma l’opera dello Stato è vista forse restrittivamente come opera di giustizia, oltre che di difesa della integrità territoriale. Noi pensiamo invece- come è detto nel foglio d’ordini- che lo Stato ha una somma di funzioni ideali, che tendono al potenziamento e, quindi, al benessere ed al progresso dei cittadini, funzioni alle quali non può abdicare, pur non intendendo, con questo, invadere il campo spirituale della Chiesa… Partiamo dal presupposto dell’alta importanza che ha il sentimento religioso nella educazione degli animi e della grandiosità di quella leva morale che è la religione: presupposto che io esprimo non per una considerazione di opportunità politica, ma perché io sono cattolico e credente. Riportato questo sunto, l’Osservatore Romano, vi fa un lungo e sereno commento, tutto inteso a chiarire che non vi può essere nessuna divergenza tra l’opera della Chiesa e dello Stato nell’educazione della gioventù, interpretando le parole di Mussolini nel senso che debbono avere dalla sua professione di “cattolico e credente”; onde lo Stato non è richiesto di abdicare per nulla a nessuna delle sue “funzioni ideali”, stantechè l’educazione civica, di cui parla l’Enciclica, “è talmente ampia e molteplice da comprendere quasi tutta l’opera dello Stato per il bene comune”. Aggiungiamo solamente - in attesa di altre occasioni per dichiarare più ampiamente questo punto- che dove l’Enciclica parla di tutto il complesso delle funzioni dello Stato, vi comprende già espressamente la funzione di promuovere non solo il benessere materiale, ma il “maggior benessere spirituale”in primo luogo, è che la funzione di promovimento di questo benessere non è restrittiva, ma amplissima, né solo opera di giustizia o giuridica, come forse si voleva dire, ma opera positiva di ogni genere, e quindi “potenziamento”, che perciò equivale a “promovimento”, e tale da estendersi all’”unione e coordinamento dell’opera di tutti “. Inoltre dove la Enciclica parla della difesa della pace, nota espressamente anche la “difesa interna “, la quale non riguarda l’integrità territoriale, ma molto di più, e cioè l’ordine, l’unione, la concordia dei cittadini, il sincero patriottismo e tutto quanto può conferire alla pace e al benessere della nazione. Se si considerano le singole parole del Santo Padre, si vedrà bene che Egli, come Maestro di Verità, non solo riconosce allo Stato tutto quello che gli spetta, ma lo colloca in altissima dignità, quale gli spetta per l’autorità suprema che gli viene da Dio stesso sulla convivenza civile. Ciò viene meglio compreso ed espresso nel secondo documento autorevole, che riportammo nel passato quaderno (Civiltà Cattolica 1° marzo, pag. 452), cioè il foglio d’Ordini dell’11 febbraio, singolarmente nelle parole: “Il Fascismo prende nota con soddisfazione delle parole con le quali l’Osservatore Romano, salutando ieri l’anniversario, definiva le funzioni dello Stato:” asceso a dominare, con tutti i suoi diritti inviolabili ed i suoi imprescrittibili doveri, i vertici della vita civile”, e riconosce alla Chiesa tutti i diritti che le derivano dalla sua missione divina”. Echi dell’enciclica sull’educazione, in Civiltà Cattolica, quaderno 1914, 15 marzo 1930, p. 492.

210 Percorsi di studio giugno 2008 - anno VIII

1. Verso la prima enciclica sul cinema

Erano ancora vivi gli echi sull’enciclica di Pio XI sull’educazione quando, in America a fine marzo 1930, gli industriali del cinematografo decisero di sottoscrivere un Codice morale relativo alla produzione e proiezione delle pellicole cinematografiche. Tra i due fatti non ci fu un nesso causale ma oggi non è possibile non notare una coincidenza e una successiva prosecuzione temporale. Peraltro si tratta di due cammini assolutamente diversi e, di fatto, indipendenti i cui percorsi si incrociano in alcuni pronunciamenti e discorsi del Papa come quello fatto durante l’udienza concessa da Pio XI ai rappresentanti della stampa internazionale del cinematografo ad agosto 1934 sul rapporto tra stampa e cinema e del loro intreccio col denaro e con gli interessi economici.44

Si può affermare, infatti, che il pronuncia-mento di Pio XI sul cinema attraverso l’enciclica Vigilanti cura rappresenta l’epilogo di una serie di iniziative che, partendo dal codice di autocensura che i produttori americani si erano imposti nel 1930 e poi dai vescovi e dai cattolici che avevano promosso la Legion of decency trovano in Italia una serie di iniziative da parte dell’Azione Cattolica Italiana. Come nota, infatti, un articolo di Civiltà Cattolica

“L’Azione Cattolica americana ha attuato un’opera di risanamento del cinema-tografo pubblico, in cooperazione alla Gerarchia, per mezzo della “Legione della

decenza”, la quale ha avuto ed ha splendi-do successo, appunto perché è organizza-ta45 secondo quelle due condizioni, come esponemmo già nel citato articolo. Ora, l’Azione Cattolica Italiana ha intrapreso un’opera, che riuscirà di pratica effica-cia, perché si fonda sulle due medesime condizioni, in modo corrispondente alle circostanze del nostro paese, che ha una popolazione interamente cattolica.46

Così le iniziative italiane e quelle americane - queste ultime anche rappresentate dall’epi-scopato americano nella visita quinquennale ad limina (così come afferma lo stesso Pio XI nell’enciclica) possono essere a buona ragione ritenute come una sorta di clima di pressione per un pronunciamento papale sul cinema.

2. Opinioni e giudizi sul cinema in Ame-rica prima dell’enciclica Vigilanti cura

Due iniziative sorte in America meritano di essere approfondite: il Codice morale di auto-censura che l’industria americana del cinema si impone nel 1930 e la Legione della decenza promossa dai cattolici americani a metà anni Trenta.

2.1 - L’autocensura dei produttori ame-ricani di cinematografia

Il 31 marzo 1930, i capi dell’industria del Cinematografo in America, accettarono e

2. Pio XI e il cinema nella Vigilanti cura

44 Cf. Cinematografo e stampa. “Legione della decenza”, in Civiltà Cattolica, quaderno 2029, 5 gennaio 1935, p. 3-16. In questo articolo, ad esempio, si riportano alcune espressioni di Pio XI durante l’udienza ai rappresen-tanti della stampa internazionale pubblicate sull’Osservatore Romano del 12 agosto 1934. Tra queste, l’affer-mazione di Pio XI che afferma di chiedersi spesso se “sono ben considerate, da chi di ragione, le gravissime, tremende responsabilità che gravano come peso formidabile su coloro che sono i promotori e i propagatori del cinematografo immorale. Rissovengono alla mente le parole di Nostro Signore, allorché nel Vangelo parla della mammona iniquitatis. Quante volte il desiderio di iniquo lucro porta alla demoralizzazione, alla morte morale di intere generazioni! È terribile pensarci e non solo dal punto di vista religioso, ma anche dal punto di vista semplicemente umano”.

45 Cinematografo ed Azione Cattolica, in Civiltà Cattolica, quaderno 2040, 15 giugno 1935, p. 600.46 Ivi, p. 601.

211Percorsi di studiogiugno 2008 - anno VIII

sottoscrissero un Codice morale teso a regolare “l’esecuzione delle pellicole”. A firmare tale Codice sono due grandi consorzi, l’Associa-tion of Motion Picture Producers, Inc. e il The motion Picture Producers and Distributors of America, Inc. che comprendono quasi tutti i più grandi produttori e distributori di pellicole (il 95 per cento della produzione americana e l’85 per cento della produzione mondiale).47 In effetti si tratta di un’autocensura stabilita dai produttori americani.

Commentando l’avvenimento Civiltà Catto-lica, ad agosto 1931,48 così si esprime:

“È questo un avvenimento di grande importanza, per il benefico influsso che esso potrà avere in tutto il mondo, giac-ché questo Codice morale non ha nulla che sia contrario ai principii della morale cristiana, ed è insieme così comprensivo e praticamente particolareggiato, che, se verrà seguito fedelmente, potrà condurre al risanamento del cinematografo, per la massima parte, non solo in America ma anche in tutto il mondo, dove sono così diffuse le pellicole americane”49.

L’articolo di Civiltà Cattolica illustra i conte-nuti del Codice morale evidenziando in parti-colare che il documento segue tre principali generali seguiti da dodici punti nei quali si parla delle “varie circostanze dei fatti svolti

nelle pellicole”. I principi generali sono così presentati:

“1° Non sarà prodotta nessuna pellicola che possa abbassare i principii morali negli spettatori. Perciò non dovrà mai attirare le simpatie per il delitto, il male o il peccato. 2° Dovranno essere presentati i retti prin-cipi morali della vita. 3° Non dovranno mai esser messe in ri-dicolo le leggi naturali e le leggi umane, né dovrà venir attirata la simpatia per la violazione di esse leggi.”50

Civiltà Cattolica, afferma che non è difficile essere d’accordo sui principi generali mentre nelle applicazioni particolari è “deficiente e purtroppo inefficace la censura ufficiale dello Stato”.51 La rivista afferma che il Codice morale dei produttori americani è così preciso e minuto “così che non è possibile o almeno non è facile eluderli sotto pretesto di mantenere i pretesi diritti dell’arte e della verità”.52

L’articolo esamina quindi il Codice passo passo evidenziando subito che in esso

“si dichiara che, pur essendo la cinemato-grafia, in sé, un divertimento, nondimeno è direttamente responsabile del progresso morale e spirituale e del retto modo di pensare degli individui e delle classi sociali. Consapevoli di tale responsabilità, essi

47 Cf. L’autocensura dei produttori di cinematografia in America, in Civiltà Cattolica, quaderno 1947, 11 agosto 1931, p. 209.

48 Cf. L’autocensura dei produttori di cinematografia in America, in Civiltà Cattolica, quaderno 1947, 11 agosto 1931, p. 209-217.

49 Cf. L’autocensura dei produttori di cinematografia in America, cit., p. 209. 50 L’autocensura dei produttori di cinematografia in America, cit., p. 209. Una Commissione di produzione delle

pellicole aveva il compito di esaminare preventivamente il copione o manoscritto della composizione cinema-tografica e suggerire le modificazioni conformi al Codice. Seguiva la revisione della Associazione dei Produttori, della Commissione dei direttori di produzione e infine dal Consiglio direttivo dei Produttori e Distributori. Dun-que, pur ammettendo la grande opportunità ed utilità speciale delle cinematografie specificamente religiose, educative ed istruttive, il cinematografo continuava ad essere un onesto divertimento. Pertanto, si afferma, il Codice non pretendeva proclamare alcun “puritanismo”, né tantomeno voleva che il cinema divenisse pul-pito di predicazione o una scuola d’insegnamento cattedratico. Ma se da una parte c’era chi sosteneva che i produttori assecondavano le richieste del pubblico, dall’altra si sosteneva che il pubblico subisse e tollerasse “quelle pellicole” perché ormai persuaso dell’inutilità e inefficacia delle sue proteste. Cf. Cinematografo ed Azione Cattolica, in: Civiltà Cattolica, quaderno. 2040, 15 giugno 1935, p. 595-603.

51 L’autocensura dei produttori di cinematografia in America, cit., p. 209.52 Ivi, p. 211.

212 Percorsi di studio giugno 2008 - anno VIII

chiedono al pubblico che voglia secondarli e cooperare con loro nel portare la cine-matografia ad una sfera ancor più alta di sano divertimento”.53

Il Codice al primo punto parla dei delitti e dei reati e della loro rappresentazione cinema-tografica e afferma che

“premesso il principio pratico che la loro presentazione non deve in nessun modo né suscitare simpatia verso di essi né in-segnare loro il modo di imitarli, vieta in particolare la descrizione tecnica e minuta dell’omicidio, furto, rapina, scassinamento, incendio, contrabbando, traffico illegale di narcotici,ecc. appunto per non indicare i modi di imitare tali delitti e qualsiasi altra violazione della legge”. 54

Al secondo punto, tratta della “relazione tra i due sessi” in modo particolareggiato prescrivendo innanzitutto di “tener sempre alto il rispetto alla santità del matrimonio e del focolare domestico” e che, trattando dell’adulterio,

“per la necessità dell’intreccio, esso non deve essere descritto esplicitamente, né giustificato o scusato, né presentato sotto forma attraente. Indi esclude scene passio-nali, seduzioni, perversioni, ecc.” 55

Seguono cinque punti che Civiltà Cattolica riassume come punti che “vietano ogni volga-rità e oscenità, ogni irriverenza di linguaggio, le nudità o abbigliamenti provocanti, i balli indecenti o procaci, ecc.”56 mentre all’ottavo punto si vietano le rappresentazioni ridicole “di cose e persone religiose” e al nono si prescrive

“la delicatezza e il buon gusto nel trattare scene di intimità nella casa” e al decimo “il rispetto per l’autorità, per la bandiera e le istituzioni nazionali, e l’equa rappresentazione di altre nazioni”. Gli ultimi due articoli, infine, “vietano titoli, così detti piccanti o indecenti, soggetti ripugnanti alla mitezza e al sentire bennato”.57

L’articolo continua con delle “approvazioni autorevoli” in cui si afferma che

“il Codice morale è dunque teoricamente e praticamente buono, degno di essere largamente conosciuto e lodato. Esso fa onore al senso morale degli industriali americani del cinematografo, oltre che al loro senso pratico e saggia discrezione nel saper conciliare con le esigenze della morale le attrattive e la varietà dell’arte cinematografica.” 58

Si fa notare che sul Codice il card. Hayes, arcivescovo di Chicago, ha avuto espressioni di approvazione e di lode affermando, in una dichiarazione pubblica, di aver esaminato accuratamente il Codice e di averlo trovato “ragionevolmente liberale e moralmente sano” in quanto “non esclude nulla che ogni onest’uomo può far vedere alla moglie, alla madre e anche ai suoi figli” e che, “seguendo le norme del Codice” si possono produrre “pel-licole artisticamente belle, di un’arte popolare, utile e salutare”.59

È curioso notare come, l’applicazione delle regole fa diventare il cinema “un’arte popolare, utile e salutare”. Infatti si precisa subito

“bisogna intenderci bene: ogni cosa a suo posto. Pur ammessa , a tempo e a luogo, la grande opportunità ed utilità speciale del-le cinematografie specificamente religiose, educative ed istruttive, il Cinematografo per tutti resta quello che principalmente è : un onesto divertimento. Perciò il Codice non è informato a nessun puritanismo,né si può ragionevolmente pretendere che esso faccia del Cinematografo un pulpito di predicazione né una scuola di insegna-mento cattedratico”.60

Quindi si precisa che il “punto arduo della questione dal quale dipende l’efficacia del

53 Ivi, p. 209.54 Ivi, p. 212.55 Ivi.56 Ivi.57 L’autocensura dei produttori di cinematografia in

America, cit., p. 212.58 Ivi. 59 Ivi, p. 213.60 Ivi.

213Percorsi di studiogiugno 2008 - anno VIII

Codice e l’effettivo risanamento della cinema-tografia” sta ne fatto che

“i produttori della cinematografia sono prontissimi ad eseguire fedelmente l’au-tocensura impostasi, ma bisogna che il pubblico non si contenti di una platonica approvazione e l’accetti realmente con favore, altrimenti essi andranno incontro a gravissime perdite finanziarie e natu-ralmente verranno ad essere indotti ad abbandonare il Codice.” 61

E si conclude affermando che è necessario “muovere ed attuare una larghissima propa-ganda nel pubblico mondiale in favore del Codice di autocensura dei produttori ameri-cani”.62

In realtà le cose andarono diversamente, in quanto i produttori non si mantennero sempre fede al Codice. Comunque, i princi-pali motivi che portarono i cattolici americani a sottoscrivere un codice morale contro il cinematografo -considerato malsano - vanno ritrovati in alcuni documenti dell’epoca e in particolare dai quaderni di Civiltà Cattolica dei primi anni Trenta. Tra chi afferma che la colpa è dei produttori e quanti addossano la colpa al pubblico affermando di essere costretti a soddisfare le sue richieste, emerge la necessità e l’urgenza di ricercare il modo più efficace per risanare il cinematografo in modo che esso non influenzasse negativamente i buoni costumi e la vita morale.63

2.2 - La Legion of Decency

Nonostante i buoni propositi dell’autocen-sura dei produttori, presto si videro le prime delusioni. Uno dei principali promotori del Codice morale pubblicò un opuscolo, da dif-fondere specialmente tra la gioventù nel quale scriveva parole roventi contro la violazione del Codice e delle stesse leggi di Dio:

“Io accuso l’industria cinematografica de-gli Stati Uniti del più enorme tradimento della pubblica fede che ricordi la storia del nostro paese. La accuso di aver messo il guadagno sopra ogni riguardo al pudore, sopra ogni rispetto alla legge, sopra ogni cura della salute e benessere della nazione. La accuso di tradire i più sacri interessi del nostro popolo, di corrompere la morale fondata sui dieci Comandamenti.”64

Le prove del tradimento sono documentate nelle 133 pellicole esibite nei cinematografi in cinque mesi per le quali si evidenziano gli intrecci, gli episodi immorali, indecenze e delitti.

Si suggerì allora (l’iniziativa partì da quat-tro vescovi)65 la formazione della Legion of Decency, (che in italiano si potrebbe meglio tradurre senza tradirne il significato Legione dell’onestà o del decoro, ma che fu, di fatto tradotta Legione della decenza) nelle singole diocesi, senza nessun obbligo di adunanza né di iscrizione, ma col solo impegno, per ciascuna persona, di astenersi da qualsiasi

61 Ivi, p. 214.62 Ivi. 63 Paolo Féval, celebre scrittore di romanzi avventurosi, che ha dato magnifici soggetti alla cinematografia del-

l’epoca, aveva detto in un discorso d’inaugurazione della Società pour l‘amelioration du Theatre en France: “Io chiamo un dramma onesto, semplicemente quello che non nuoce ai costumi…Non si chiede, no, un teatro-chiesa dove si predica, e neanche un teatro-scuola dove si disserta, ma un luogo di divertimento onesto. Ecco tutto”.

64 Cinematografo e stampa. “Legione della decenza”, in Civiltà Cattolica, quaderno 2029, 5 gennaio 1935, p. 10-11.

65 Tra il 15 e il 16 novembre 1933 a Washington fu approvato il deliberato della Commissione dei Vescovi per l’Azione Cattolica (National Catholic Welfare Conference) di istituire una speciale commissione di quattro Vescovi per provvedere i mezzi contro gli abusi e la corruzione del cinematografo e di guadagnare la cooperazione dei Vescovi dell’Europa nel combattere il crescente pericolo delle pellicole americane immorali.

214 Percorsi di studio giugno 2008 - anno VIII

frequenza o favoreggiamento delle pellicole offensive della decenza e della morale cristia-na. Questa l’intera formula del pledge, ossia l’impegno, approvata dalla Commissione dei quattro vescovi:

“Desidero far parte della Legione della Decenza, la quale condanna le cinemato-grafie disoneste e malsane. Mi unisco a tutti coloro che protestano contro di esse, come un grave pericolo per la gioventù, la famiglia, la patria e la religione.Condanno assolutamente tutte le cine-matografie disoneste e malsane, le quali, insieme con altre opere di depravamen-to, corrompono la pubblica moralità e promuovono la mania dell’impurità nel nostro paese.Mi adopererò, per quanto mi sarà possibi-le, a sollevare l’opinione pubblica contro la rappresentazione del vizio quale normale condizione di vita, e contro l’abuso di pre-sentare i delinquenti quali eroi ed eroine e la loro sconcia filosofia della vita come accettabile dalle persone oneste.Mi unisco a tutti coloro che condannano la pubblicità suggestiva e le compiacenti notizie e relazioni delle cinematografie immorali.Considerando questi mali, io mi impegno a tenermi lontano da tutte le cinematografie in qualsiasi modo offensive della decenza e della morale cristiana. Prometto inoltre di procurare il maggior numero possibile di ascritti alla Legione della Decenza. Io fo’ la presente protesta, per sentimento del mio proprio decoro e con la persuasio-ne che il pubblico americano non vuole sconce cinematografie, ma trattenimenti onesti e rappresentazioni educative”.66

Si può ipotizzare che molti aderirono in quanto l’articolo evidenzia un successo “gran-dioso” visto che i cinematografi cominciarono a soffrire una grave diminuzione di frequenze. Per effetto di tale diminuzione, l’Associazione dei “Produttori e Distributori d’America”, man-dò due cattolici di Hollywood quali intermediari per trattare con il Comitato dei quattro Vescovi,

dichiarandosi pronta ad osservare gli impegni del Codice di Autocensura, sottoscritto nel 1930.67

La Commissione dei Vescovi ricevette gli in-termediari manifestando il compiacimento per i rinnovati propositi e sforzi, ma rimase decisa nella sua campagna di astensione e protesta contro le pellicole immorali. Di fronte a tale situazione, l’episcopato teneva a dichiarare che nel sostenere questa campagna la gerar-chia cattolica non aveva affatto l’intenzione di “privare il pubblico di ogni legittima forma di ricreazione, né di costituirsi come un ufficio generale di censori”. Riconosceva, invece, “l’enorme efficacia ricreativa ed educativa del cinema”, ma evidenziava, al tempo che tale efficacia non può essere attuata senza che produttori e distribuzione cinematografica siano animati “da alti principi nella morale e nel buon gusto”.

Si costituì, perciò, in ciascuna diocesi un or-ganismo stabile, il Comitato della Legione della decenza, stabilendo anche che in tutte le par-rocchie sarebbe stata rinnovata pubblicamente la promessa (pledge), ridotta in forma breve, ogni anno in tutte le Messe della domenica fra l’ottava dell’Immacolata Concezione, festa patronale degli Stati Uniti.68

2.3 Il sostegno compiacente della stam-pa al cinema

Uno degli argomenti di quanti difendevano la moralità delle pellicole cinematografiche riguarda la “chiassosa pubblicità” che all’epoca (1935) invadeva “quasi ogni giorno” i fogli quotidiani anche - come si afferma - spesso, con “intera “pagina del cinema, con contratti di stelle e di divi e con figure di scene piccanti” fa chiedere a Civiltà Cattolica “Cui prodest? … A chi giova” ed aggiunge, senza alcun dubbio, che

66 Cinematografo e stampa. “Legione della decenza”, in Civiltà Cattolica, quaderno 2029, 5 gennaio 1935, p. 13, nota 1.

67 Cf. L’autocensura dei produttori di cinematografia in America, cit., 931, p. 14.68 Ivi, p. 15

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“la cinematografia è prima di tutto e so-prattutto un’industria, perciò ordinata al guadagno, al danaro. In questa industria sono impiegati due miliardi di dollari in America, ad un’altro mezzo miliardo nel re-sto del mondo: in tutto al cambio presente in lire italiane, circa trenta miliardi”69.

Al tempo stesso la rivista evidenzia che l’in-dustria dello schermo, per far fronte alla crisi economica che ha colpito anche lei, “corre ai ripari dando fiato alla tromba della réclame” che è definita “l’anima del commercio” e che per il cinema si sta spendendo “senza risparmio per salvare questo commercio!”70

Civiltà Cattolica mette in relazione la crociata levatasi in America contro la cinematografia immorale con “l’inondazione banditrice del cinema, quale la osserviamo nei giornali italia-ni”71 per i quali, in nota, si aggiunge:

“Non parliamo della colluvie di periodici, italiani (in una edicola di giornalai ne ab-biamo contato circa una dozzina, tra setti-manali e mensili) e stranieri, interamente dedicati al cinema, profusamente illustrati, con immagini a colori, di stelle, di nudità e di scene procaci, che pascono le malsane

passioni della gioventù, segnatamente delle ragazze del popolo, suscitando anche pericolose ambizioni e illusioni di innume-revoli ‘aspiranti all’artÈ!”.72

Secondo Civiltà Cattolica la crociata ame-ricana ha fatto diminuire di molto i proventi delle sale cinematografiche costringendo i produttori e i distributori americani “a sot-trarre al pubblico americano molte pellicole indesiderabili” definite “pellicole di scarto” che “vengono rovesciate sul mercato europeo e quindi anche in Italia, dove la stampa quo-tidiana ne fa la propaganda….”73 divenendo complice dell’industria degli affari dell’industria cinematografica.74

La rivista giudica “compiacente” la funzione della stampa verso il cinema e a sostegno di questa interpretazione cita le parole di Pio XI ai rappresentanti della stampa internazionale ad agosto 1934:

“Il cinematografo sarebbe quello che è, e farebbe tutto il male che fa,se la stampa non lo sostenesse e si ponesse invece ri-solutamente contro tanta immoralità? In

69 Cinematografo e stampa. “Legione della decenza”, in Civiltà Cattolica, quaderno 2029, 5 gennaio 1935, p. 3.70 Ivi. 71 Ivi.72 Cinematografo e stampa. “Legione della decenza”, cit., p. 3, nota 2.73 Cinematografo e stampa. “Legione della decenza”, cit., p. 3.74 In particolare l’articolo afferma che: “Secondo le ultime statistiche, che attingiamo dalle pubblicazioni america-

ne, la produzione di pellicole di quel paese rappresenta l’ottantaquattro per cento della produzione mondiale. Ivi si spendono ogni anno 300 milioni di dollari per la produzione, propaganda e distribuzione delle pellicole. I profitti annuali ammontano a 1.564.600.000 dollari (al cambio presente circa 18 miliardi di lire italiane), tenendosi conto dei 190 milioni di frequenze, ogni settimana alle pellicole americane in tutto il mondo. Il pro-fitto dipende dunque dalla frequenza, la frequenza dalla pubblicità è questa, in massima parte, dalla stampa quotidiana”. Cf. Cinematografo e stampa. “Legione della decenza”, cit., p. 4.

In nota Civiltà Cattolica fa anche il dettaglio del calcolo dei profitti evidenziando che “ogni settimana si hanno al presente, non ostante la depressione economica, 70 milioni di frequenze alle pellicole americane, per 19 centesimi di dollaro ciascuna in media, in America, e 120 milioni fuori America, per 14 centesimi ciascuna in media. Donde risulta ogni anno il profitto di 1.564.600.000 dollari, da ripartirsi tra produttori e distributori, al centro, e gli esibitori o proprietari di teatri e sale cinematografiche, alla periferia. Le frequenze al cinematografo in tutto il mondo si calcolano in 250 milioni ogni settimana”. Cf. Ivi, nota 1.

Quanto agli spettatori giovani (almeno americani e sulle conseguenze del cinema sulla loro vita) più avanti l’articolo rileva che “ventotto milioni di giovani, come ci informa il P. Lord, frequentano ogni settimana in America i cinematografi, nei quali essi vengono pasciuti di lussuria e passioni disordinate, di facili costumi e malsane emozioni, di omicidi, rapine ed altri delitti, di amorazzi e sensualità di ridotti, come delle più basse forme di vita animalesca, di taverne e case di mal affare”. Con quali risultati? Cf. Cinematografo e stampa. “Legione della decenza”, cit., p. 12.

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altri termini, il cinematografo non è forse, in gran parte, quale la stampa lo fa?”.75

Qui l’articolo cita Pio XI che, come innanzi ricordato, in un’udienza afferma di chiedersi spesso se sono ben considerate, le gravissi-me, tremende responsabilità dei promotori e propagatori del cinema immorale spinti da mammona inquitatis.76 Quanto poi alle spese delle case cinematografiche per la sola pro-paganda, Civiltà Cattolica afferma che ogni anno ammontano a “cento milioni di dollari, cioè circa un miliardo e 200 milioni di lire” e si chiede quanti di questi vengono spesi in Italia affermando:

“noi non diciamo con ciò che tutta la stam-pa quotidiana sia venale; ma è purtroppo un fatto, che fuori dei pochi giornali cattolici, essa non si dimostra abbastanza consapevole dei suoi gravi doveri nella pubblicità cinematografica, e quindi non va tanto per il sottile quando la pubblicità è ben pagata.” 77

Ancora riferendo il pensiero del Papa nello stesso incontro con la stampa internazionale, Civiltà Cattolica osserva che, pur non trattan-dosi sempre di “desiderio di iniquo lucro” c’è certamente “la inconsideratezza” che

“fa troppo compiacente anche la stampa quotidiana, che pretende di esser seria e di venire accolta nelle famiglie, quella stam-pa diciamo, la quale va ripetendo essere ormai superflui i giornali cattolici”.78

Ma l’articolo non tratta solo del rapporto tra stampa e cinematografo. Nelle pagine succes-sive, infatti, la rivista dei gesuiti condanna le rappresentazioni cinematografiche per la loro rappresentazione del male morale. Si riporta-no alcuni passi significativi che esprimono in

modo chiaro ed efficace il pensiero della rivista sull’argomento79:

“Sono anni ed anni che si denunziano le malefatte del cinematografo, che si fanno leggi per la censura, e si leva la voce contro l’invasione malsana di pellicole americane. Ma non si è concluso nulla, o ben poco. Tutti sanno ormai,che, non ostante la censura, il cinematografo è in gran parte una scuola di vizio, di delitti, di corruzione, di frivolezza e di false dottrine sul valore della vita. In quasi tutte le pellicole poi, c’è sempre qualche scena “piccante”, come dicono, e cioè sensuale, e negli stessi titoli e sottotitoli il richiamo, più o meno velato ed equivoco , a bassi istinti. Quello che gli americani dicono sex-appeal, anche se non entra per sé all’intreccio, non manca mai, sotto varie forme, specialmente nelle nu-dità e negli atteggiamenti, per solleticare le passioni, sempre allo scopo di attirare un gran numero di frequentatori e quindi il maggior guadagno ! Giacchè - qui sta la malizia diabolica - l’intreccio e il com-plesso della pellicola,onesto o passabile, talora anche sotto un titolo sacro, serve a tranquillare la coscienza della parte sana del pubblico e delle famiglie, le quali, per non privare di un onesto divertimento i figli e le figlie, si rassegnano a tollerare quegli episodi ed incidenti del sex-appeal, mentre questi servono di richiamo a quegli altri che lo vogliono di proposito. E così, in ogni pellicola, viene ad apprestarsi materia, artificiosamente preparata, per tutte le condizioni del pubblico, per tutti i gusti, sempre allo scopo della maggiore frequenza e del maggiore guadagno, ma altresì per occasione di peccato e di corru-zione a tutti. Per citare un esempio tipico: la pellicola americana Sotto il segno della Croce, rappresentata in Italia durante la Quaresima del 1934, passabile non ostante molte deficienze rispetto alle scene del Cristianesimo primitivo, conteneva scene lubriche, come il bagno di Poppea, danze pagane lascive ed atteggiamenti sensuali. In conclusione, il fatto chiaro, universale e continuato è, che sinora non si è riusciti

75 Cinematografo e stampa. “Legione della decenza”, cit., p. 4. Il discorso di Pio XI è pubblicato ne L’Osservatore Romano del 12 agosto 1934.

76 Cinematografo e stampa. “Legione della decenza”, cit., p. 4.77 Ivi, p. 4-5.78 Cinematografo e stampa. “Legione della decenza”, cit., p. 5.79 Sarebbe interessante confrontare tale passo con quanto successivamente sarà affermato da Pio XII sulla rappre-

sentazione del male morale così come da lui trattata nei due discorsi conosciuti come discorsi sul film ideale.

217Percorsi di studiogiugno 2008 - anno VIII

a risanare il cinematografo pubblico non ostante la severità delle leggi della censu-ra, non ostante le dissertazioni ed i con-gressi della moralità e del cinematografo educativo, non ostante le voci di protesta delle autorità religiose e civili, delle fami-glie e degli educatori.80

Sulla campagna in atto nell’America del Nord contro il cinema immorale e sulla “cor-ruzione cinematografica” si afferma (citando ancora Pio XI sempre nella stessa udienza) che “è sempre più facile fare le leggi che applicar-le”. Circa le preferenze degli stessi spettatori si afferma che

“non è vero che il popolo voglia le in-decenze che gli si ammanniscono nelle pellicole: le subisce e le tollera perché è ormai persuaso dalla inutilità delle sue proteste, e perché non gli si è dato il modo di rendere efficaci le sue proteste con un bene organizzato movimento. I degenera-ti, senza coscienza e senza pudore, sono eccezioni”.81

E si ritorna al tema principale dell’articolo che riguarda il sostegno che la stampa offre al cinema e al varietà affermando:

“per l’efficacia dell’organizzazione ci vuo-le anche l’aiuto della stampa, quale l’ha invocato il Santo Padre. Ma la stampa fa purtroppo da “galeotto“ e da mezzana reticente…. Da un padre di famiglia socio-logo, che si occupa con zelo della moralità pubblica, ci è stato mostrato il numero del 1° dicembre 1934 di un giornale che esce a Roma a mezzogiorno, dove si descriveva la soddisfazione del pubblico e le grandi attrattive di una pellicola sconveniente, la quale in realtà aveva sollevato le di-sapprovazioni, anche a suon di fischi, in varie sale cinematografiche. Lo stesso va notato per quell’altra fonte scandalosa di immoralità, che è il cosiddetto “varietà”, ormai divenuta ordinaria in quasi tutti i cinematografi pubblici, nella quale si esibi-scono svergognatamente delle disgraziate

di infimo ordine…Se ne lamentano molti, anzi tutti i padri di famiglia, i quali non sanno come comportarsi, non potendo permettere ai loro figli lo svago del cine-ma a cagione della varietà… E pure non si legge nella stampa nessuna eco di questi lamenti generali! Persone ragguardevoli, comitati di moralità si sono rivolti alle autorità, chiedendo che cessi tanto scan-dalo… Attendiamo. Intanto, se la stampa facesse il suo dovere!…”82

Civiltà cattolica afferma che i cattolici si sono, perciò, adoperati a promuovere qualche cosa di più pratico e determinato, e rivela che sono riusciti

“a persuadere gli stessi produttori, che è nel loro interesse stesso sottomettersi ad una propria censura. In tal modo, i produttori si indussero ad accettare e sot-toscrivere solennemente,il 31 marzo 1930, un ‘Codice morale per il Cinematografo’ […] Il Codice e l’atto di averlo sottoscritto ebbero le approvazioni e le lodi più auto-revoli dei cattolici. Le case produttrici, che lo sottoscrissero, ed il “Codice Hays”, come venne chiamato popolarmente dal nome del presidente dei produttori firmatari, Will H.Hays, sembravano promettere un effica-ce risanamento del cinema americano.83

La rivista rileva poi, come è stato già detto, che “è stata invece una delusione, anzi un tradimento”.84

3. L’Azione Cattolica e il cinema in Italia prima dell’enciclica Vigilanti cura

Su Cinematografo e Azione Cattolica un in-teressante articolo del 1935 di Civiltà Cattolica rileva che se scuola e stampa rappresentano due validi mezzi di diffusione delle idee e di educazione alla gioventù, il cinema tende a costituire un complesso di mezzi, certo sem-plici, estesi ed attraenti, di cui già nel 1935 si

80 Cinematografo e stampa. “Legione della decenza”, cit., p. 6- 7.81 Ivi, p. 8-9.82 Cinematografo e stampa. “Legione della decenza”, cit. , p. 9.83 Ivi, p. 10.84 Ivi.

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cominciavano a prevedere gravi conseguenze a livello pedagogico e di educazione cristiana. Così l’articolo:

“Tra le opere di diffusione delle idee e di educazione della gioventù, la più antica è la scuola; e rimane anche la più efficace, perché opera di amore, ma insieme la più ardua e la meno attraente, perché opera di sacrificio. La più estesa tra tutte è la stampa, meno ardua e più facile ed attraente della scuola. Sopra tutte, poi, la più attraente è il cinema; e questo, insieme con la radiofonia e la televisione, tende a costituire un insieme di mezzi, il più facile, esteso ed attraente, di cui sono prevedibili le più gravi e molteplici conse-guenze per la diffusione delle idee e per l’educazione”.85

Civiltà Cattolica evidenzia che l’Azione Cat-tolica denuncia le conseguenze educative del cinema che, avendo un carattere fortemente attrattivo, è una grande fonte di lucro e spesso questo ha “preso il sopravvento sugli scopi educativi”. 86

I documenti cattolici di quegli anni, eviden-ziano una forte preoccupazione per l’educa-zione cristiana della gioventù, resa ancora più complessa date le nuove forme di comunicazio-ne sociale. Lo stesso Pio XI nell’enciclica Divini Illius Magistri (1929) lamentava che

“questi potentissimi mezzi di divulgazione (come il cinema), che possono riuscire, se ben governati da sani principi, di grande utilità all’istruzione ed educazione, ven-gono purtroppo spesso subordinati all’ incentivo delle male passioni ed all’avidità del guadagno”.

Sarà lo stesso Pio XI ad elogiare la Legione della decenza dei cattolici americani e a pro-porre tale esempio a tutti i cattolici.87 Era fon-damentale che questa diffusione dei sani principi morali, dovesse attraversare l’Oceano, rendendo-si necessaria l’effettiva approvazione del pubblico

delle altre nazioni, specialmente dell’Europa e singolarmente delle nazioni cattoliche, e dell’Italia in modo particolare per la sua importanza come sede del centro della cattolicità.

Nella primavera del 1931 un insigne diret-tore di produzioni cinematografiche, venuto a Roma e ricevuto in udienza dal Papa, aveva dichiarato che i distributori e gli impresari ci-nematografici italiani sceglievano con pessimo gusto tra le pellicole americane, generalmente le più spinte che rasentavano la condanna della censura ufficiale, alcune delle quali, passate at-traverso la censura italiana, erano state escluse dalla censura del Giappone. Civiltà Cattolica riferisce anche che

“Il comm. Mario Meneghini, specialista in cose d’arte e di cinematografia, in un notabile articolo, “Il Cinema e il sogno ad occhi aperti”, nella “ Pagina del Ci-nematografo” dell’Osservatore Romano (3-4giugno 1935), così ne parla: ‘Oggi esistono delle macchine speciali per offrire la massima illusione nei così detti “trucchi” cinematografici… Queste scene terribili, allucinanti, molto, troppo, spesso si ripeto-no nella notte, generando sogni d’incubo e tormentando il sistema nervoso. L’en-tusiasmo quasi morboso per la pellicola “gialla”, l’inclinazione in parte giustificata nei giovani dalla curiosità tutta propria dell’età, e invece condannabile nei genito-ri, quando questi per seguire lo spettacolo di moda, accompagnano anche i figliuoli a lavori che raggiungono il parossismo della follia (Es. “L’uomo invisibile”). Se le pellicole a soggetto chimerico, falsante cioè la realtà della vita, intossicano la fantasia dei romantici, quelle allucinanti, inumane, scalfiscono la sensibilità dei de-boli e deteriorano il loro sistema nervoso. Infrangono, cioè la fragilità dei minori; in-taccano specialmente la impressionabilità femminile”. […] Quanto alla delinquenza, il cinematografo odierno è stato definito una “ scuola del delitto”. In America molti giovani imprigionati attribuiscono al cine-ma la prima spinta al desiderio di riuscita nelle imprese dei delitti. In Europa avviene lo stesso. Il periodico prevenzione della

85 Cinematografo ed Azione Cattolica, in Civiltà Cattolica, quaderno 2040, 15 giugno 1935, p. 595.86 Ivi.87 Cf. Cinematografo e stampa. “Legione della decenza”, in Civiltà Cattolica, quaderno 2029, 5 gennaio 1935,

p. 3-16.

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delinquenza minorile, riporta alcuni fatti di precoce delinquenza provocata dal cinema nei fanciulli”.88

Passando alle iniziative concrete, l’articolo afferma:

“I pastori hanno adempito al loro ufficio dottrinale direttivo; spetta ai fedeli coo-perare con l’Azione Cattolica, la quale è appunto la cooperazione con la Gerarchia nell’Apostolato per la salvezza delle ani-me. Si tratta, infatti, di salvare milioni e milioni di anime dai pericoli del cinema, mediante una doppia opera: risanare il cinematografo pubblico, quanto più sarà possibile, e procurare, segnatamente per la gioventù, buoni cinematografi e buone pellicole, nelle quali insieme con l’onesto divertimento si rechi vantaggio morale ed educativo. L’una e l’altra opera non potrà sortire pratica efficacia senza due condizioni, indispensabili e connesse reciprocamente. Prima condizione: tener conto che la cinematografia e soprattutto un’industria e un commercio fondato sul guadagno; bisogna pertanto incontrarla su questo campo per poterla risanare. Seconda condizione: organizzare ed uni-re le sale cinematografiche in un’azione comune, la quale regoli come in ogni in-dustria e commercio, la domanda. Quanto più estesa e concorde sarà la domanda di pellicole oneste e il rifiuto delle cattive, tanto più l’industria cinematografica sarà mossa, dal suo proprio interesse, a produr-re e distribuire buone pellicole. Il campo proprio della cinematografia odierna - è un fatto incontestabile - non è quello delle discussioni morali e pedagogiche, ma quello del guadagno. I produttori e distributori delle pellicole non vedono altro, purtroppo, che il guadagno. Sotto un certo aspetto hanno ragione, stante la spesa enorme che costa la produzione delle pellicole; il loro torto sta nell’errato procedimento per assicurarsi il guadagno. Per accrescere il guadagno - essi pensano - bisogna attrarre un maggior numero di frequenti; per questo, bisogna produrre pellicole attraenti. Se non che, a loro giu-dizio, le attrattive più forti, ed insieme più facili e meno costose, sarebbero quelle che si rivolgono alle basse passioni.89

Fu fondato quindi in Italia un Consorzio degli utenti cinematografi educativi (C.U.C.E.), con sede in Milano e ad opera di don Carlo Canzia-ni. Tra i cattolici italiani era fortissimo l’interesse verso il cinematografo e sul suo retto utilizzo. Anche l’Azione cattolica italiana intraprese un’opera indirizzata alla sensibilizzazione verso il cinematografo. E lo fece mandando dal suo Ufficio Centrale un’importante lettera circolare alle Giunte Diocesane e alle Presidenze centrali dell’Azione Cattolica Italiana. Questi i punti salienti della lettera circolare:

“In seguito ai voti espressi dalle Giunte Diocesane per una più organica ed efficace azione nel campo del cinematografo da parte dell’Azione Cattolica, l’Ufficio Cen-trale, dopo aver maturamente esaminato il grave argomento, ha deciso quanto appresso:1. sotto la direzione della Presidenza

Centrale della A.C.I. si è costituito il Segretariato Centrale per il Cinema con il compito di guidare tutta l’azione dei cattolici nel vasto campo del cinema-tografo e di ottenere una produzione cinematografica rispondente al carat-tere e ai bisogni delle nostre sale. Il Segretariato Centrale sarà diretto da una Commissione nominata dall’Ufficio Centrale dell’A.C.I;

2. tutte le sale di proiezioni dipendenti da Enti e Associazioni cattoliche faranno capo al Segretariato Centrale, Nelle diocesi, per iniziativa delle Giunte Dio-cesane, le Sale saranno raggruppate in Consorzio Diocesano.

Il consorzio sarà diretto da una Commis-sione formata da alcuni rappresentanti delle Sale e da un Delegato della Giunta Diocesana con funzioni di Presidente.”90

Principalmente si demandava al Segretariato Centrale per il Cinema il compito di guidare tutta l’azione dei cattolici nel campo del cine-matografo; sempre a questo avrebbero dovuto far capo tutte le sale di proiezione dipendenti da Enti e Associazioni cattoliche; inoltre, or-gano ufficiale del Segretariato Centrale era la Rivista del cinematografo. Tutti gli istituti di

88 Cinematografo ed Azione Cattolica, cit., p. 597.89 Cinematografo ed Azione Cattolica, in Civiltà Cattolica, quaderno 2040, 15 giugno 1935, p. 599-600.90 Ivi, p. 601.

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educazione, scuole e oratori che possedevano sale di proiezione, avevano quindi l’obbligo morale e religioso di non mancare a quest’ope-ra dell’Azione Cattolica.

Si auspicava così, un duplice vantaggio: da una parte un graduale e progressivo ri-sanamento del cinematografo, dall’altra una maggior facilità nel reperire buone cinemato-grafie, dovendo i distributori trattare non con le singole sale, ma con la Federazione.

4. L’enciclica Vigilanti cura

L’importanza dell’enciclica Vigilanti Cura del 29 giugno 1936 sta nel fatto che essa è il primo documento ufficiale di un pontefice interamente dedicato al cinema. L’enciclica è rivolta a tutto il mondo anche se indirizzata principalmente ai vescovi del Nord America che, nel 1934, nella loro visita quinquennale, avevano informato il Papa della grande cam-pagna contro il cinema immorale e, perciò, si comprende il riferimento alla Legion of Decen-cy dei cattolici americani nel citato discorso dell’11 agosto 1934 rivolto dal Santo Padre alla Fipresci, Federazione Internazionale della Stampa Cinematografica.

L’enciclica, nella parte dottrinale, sottolinea l’importanza del cinema come potente stru-mento d’influsso sul pubblico e la necessità che il cinema diventi strumento di bene; nella parte dispositiva, dedicata alla produzione e al consumo, indica le modalità per tutelare la

moralità degli spettacoli cinematografici. Tra le varie modalità, particolare rilevo viene dato alla “promessa cinematografica”, alla revisione dei film, alla organizzazione delle sale cattoliche.

In particolare l’enciclica già nelle prime righe esprime la riconoscenza “alla gerarchia degli Stati Uniti e ai fedeli suoi cooperatori per le importanti opere già compiute dalla “Legione della decenza” sotto la sua direzione e gui-da”. Il Papa evidenzia la sua viva riconoscenza perché - come egli stesso afferma - a lui giun-gevano “ogni giorno i tristi progressi - magni passus extra viam - dell’arte e dell’industria cinematografica nella rappresentazione del peccato e del vizio”.91

4.1 Gli aspetti dottrinali nella Vigilanti cura

Nella parte dichiaratamente dottrinale Pio XI si sofferma sull’importanza e il potere del cinema affermando che è indiscutibile che “fra i divertimenti moderni il cinema ha preso negli ultimi anni un posto d’importanza universale”. Pio XI sottolinea che

“non si dà oggi mezzo più potente del cinema ad esercitare influsso sulle mol-titudini, sia per la natura stessa delle immagini proiettate sullo schermo, sia per la popolarità dello spettacolo cine-matografico, infine per le circostanze che l’accompagnano”. (VC)

Pio XI coglie subito la radice semiologica del problema individuando nell’immagine

91 L’esperienza americana viene, perciò, giudicata positivamente da Pio XI. Il Papa, in particolare, sottolinea “i progressi dell’arte e industria cinematografica” ed videnzia anche che “continuandosi nel cinema l’esibizione del vizio e del delitto, sembrava ormai quasi preclusa la via dell’onesto svago mediante i film”. Per questo Pio XI riconosce ai “Venerabili Fratelli” dell’episcopato americano di essere stati “fra i primi a studiare come si po-tevano tutelare le anime di coloro che erano affidati alle vostre cure, e deste inizio alla “Legione della decenza”, come a una crociata per la pubblica moralità, intesa a ravvivare gli ideali dell’onestà naturale e cristiana”. Nota poi che le direttive dei vescovi “suscitarono la pronta e devota adesione dei vostri fedeli: e milioni di cattolici americani sottoscrissero l’impegno della “Legione della decenza”, obbligandosi a non assistere a nessun film che riuscisse di offesa alla morale cattolica e alla corretta norma di vita”. Pio XI appare anche informato di alcune circostanze quando afferma che “sebbene in alcuni circoli si fosse predetto che i pregi artistici del cinema sarebbero stati gravemente danneggiati dalle insistenze della Legione della decenza, pare tuttavia che avvenga proprio il contrario” e riconosce che “quando s’iniziò la vostra crociata, fu detto che gli sforzi di essa sarebbero stati poco durevoli, e gli effetti del tutto transitori, perché, diminuita a poco a poco la vigilanza dei vescovi e dei fedeli, i produttori sarebbero stati nuovamente liberi di ritornare ai metodi di prima”.

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audiovisiva la potenza del cinema. Si noti, in particolare - vista anche l’evoluzione che proprio in quegli anni si era avuta dal cinema muto al sonoro - come l’osservazione è anche sul “cinema parlato” che “rafforza questa potenza” e come “il fascino della musica si collega con lo spettacolo”:

“La potenza del cinema sta in ciò, che esso parla mediante immagini. Esse, con grande godimento e senza fatica, sono mostrate ai sensi anche di animi rozzi e primitivi, che non avrebbero la capacità o almeno la vo-lontà di compiere lo sforzo dell’astrazione e della deduzione, che accompagna il ra-gionamento. Anche il leggere, o l’ascolta-re, richiedono uno sforzo, che nella visione cinematografica è sostituito dal piacere continuato del succedersi delle immagini concrete e, per così dire,viventi. Nel cinema parlato si rafforza questa potenza, perché la comprensione dei fatti diviene ancora più facile e il fascino della musica si collega con lo spettacolo”. (VC)

Un particolare riferimento negativo, invece, viene fatto sulle modalità di rappresentazione evidenziando che “purtroppo i balli e i varietà, che talvolta s’introducono negli intermezzi, accrescono l’eccitamento delle passioni”. Il Papa lamenta le condizioni della società degli anni Trenta scorgendo in essa i presupposti per una de-moralizzazione degli animi umani. Ma, come già detto, Pio XI riconosce il cinema come uno degli strumenti più immediati e decisa-mente più popolare per il divertimento di tutte le classi sociali evidenziandone proprio il suo carattere immediato che, se da un lato è fonte di preoccupazioni per il pontefice, dall’altro ha la caratteristica positiva della popolarità che ha acquistato nel corso degli anni. Evidenziando pregi e difetti del cinema, il Papa afferma:

“Che se il cinema è veramente lezione di cose, che ammaestra in bene o in male, più efficacemente, per la maggiore parte degli uomini, dell’astratto ragionamento, occorre che essa sia elevata ai fini di una coscienza cristiana, e liberata degli effetti depravanti e demoralizzanti. Tutti sanno quanto danno producono i film cattivi nelle anime. Essi divengono occasioni di peccato; inducono i giovani nelle vie del male, perché sono la glorificazione delle

passioni; espongono sotto una falsa luce la vita; offuscano gli ideali; distruggono il puro amore, il rispetto per il matrimonio, l’affetto per la famiglia. Possono altresì creare facilmente pregiudizi fra gli indi-vidui e dissidi fra le nazioni, fra le classi sociali, fra le intere razze. D’altro canto, i buoni film possono invece esercitare un’in-fluenza profondamente moralizzatrice sugli spettatori. Oltre a ricreare, possono suscitare nobili ideali di vita, diffondere preziose nozioni, fornire maggiori cono-scenze della storia e delle bellezze del proprio e dell’altrui paese, presentare la verità e la virtù sotto una forma attraente, creare, o per lo meno favorire, una com-prensione fra le nazioni, le classi sociali e le stirpi, promuovere la causa della giustizia, ridestare il richiamo della virtù e contribui-re quale aiuto positivo al miglioramento morale e sociale del mondo”. (VC) Il pontefice riconosce la validità di questo

“nuovo” mezzo di comunicazione, che, se ben utilizzato, risulta di grande utilità per l’istruzio-ne e la crescita dell’individuo:

“Ora è certo, e da tutti riscontrato agevol-mente, che i progressi dell’arte e industria cinematografica, quanto più meravigliosi erano divenuti, tanto più perniciosi ed esiziali si mostravano alla moralità ed alla religione; anzi alla onestà stessa della convivenza civile”.

Perciò, se è vero che i film cattivi possono diventare occasioni di peccato, in quanto ad-durrebbero sulle vie del male, è pur vero che i buoni film possono esercitare un’influenza moralizzatrice, suscitando nobili ideali di vita e diffondendo

“preziose nozioni, fornire maggiori cono-scenze della storia e delle bellezze del pro-prio e dell’altrui paese, presentare la verità e la virtù sotto una forma attraente, creare, o per lo meno favorire, una comprensione fra le nazioni, le classi sociali e le stirpi”.La parte cosiddetta “dottrinale” dell’en-

ciclica si chiude sottolineando la necessità della cosiddetta vigilanza della Santa Sede. In particolare, si afferma che è

“una delle necessità supreme del nostro tempo vigilare e lavorare perché il cine-

222 Percorsi di studio giugno 2008 - anno VIII

ma non sia più scuola di corruzione, ma si trasformi anzi in prezioso strumento di educazione ed elevazione dell’umanità”.

Il riferimento esplicito e compiaciuto è a “qualche governo” che,

“impensierito dell’influenza del cinema nel campo morale ed educativo, ha crea-to, mediante persone probe ed oneste, e specialmente padri e madri di famiglia, ap-posite commissioni di censura, come pure ha costituito organismi di indirizzo della produzione cinematografica, cercando di ispirarla a opere nazionali di grandi poeti e scrittori”. (VC)

Il Papa chiede quindi ai vescovi americani di esercitare una speciale vigilanza sopra l’industria cinematografica americana “che è particolarmente progredita ed ha non poca influenza nelle altre parti del mondo” ed, al tempo spesso, evidenzia il dovere dei vescovi di tutto l’orbe cattolico

“di unirsi, per vigilare su questa univer-sale e potente forma di divertimento e insieme d’insegnamento, per far valere come motivo di proibizione l’offesa al sentimento morale e religioso e tutto ciò che è contrario allo spirito cristiano ed ai suoi principi morali, non stancandosi di combattere quanto contribuisce ad attenuare nel popolo il senso della virtù e dell’onore”. (VC)

Ed. infine, conclude evidenziando che

“tale obbligo spetta non solo ai vescovi, ma altresì ai fedeli ed a tutti gli uomini onesti, amanti del decoro e della santità della famiglia, della nazione, e in generale della società umana”. (VC)

Il pensiero di Pio XI corre subito ai giovani, ed in particolare agli adolescenti, e al fascino negativo che possono subire in particolar modo durante la loro giovane età. Qui il papa richiama la terribile condanna di Gesù contro i corruttori dei piccoli: “chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse get-

tato negli abissi del mare” (Mt. 18,6). Esorta quindi, tutti gli operatori ad esercitare un’at-tenta vigilanza sugli spettacoli cinematografici, in modo da far diventare il cinema un sano strumento educativo e comunicativo.

4.2 Conseguenze pratiche e proposte concrete

Il Papa passa quindi ad esaminare alcune conseguenze pratiche e, nel delineare le rette vie di condotta, si rivolge non solo ai vescovi di tutto il mondo, non solo a coloro che militano nelle file dell’Azione Cattolica, ma a chiunque operi nell’industria cinematografica:

“pensino essi (tutti gli operatori dell’in-dustria cinematografica) seriamente ai loro doveri ed alle responsabilità che hanno, come figli della Chiesa, di usare della loro ingerenza ed autorità perché i film, che essi producono, o aiutano a produrre, siano conformi ai principi di sana moralità. Il numero dei cattolici che sono esecutori, direttori, autori o attori nei film non è piccolo, e purtroppo la loro ingerenza nella produzione di essi non è stata sempre in accordo con la loro fede e con i loro ideali”.

Ma, ancor prima, Pio XI rivolge, un monito ai vescovi, esortandoli a ricordare agli opera-tori dello spettacolo che saranno loro stessi, nel loro ministero, a rispondere dinanzi a Dio della moralità del loro popolo, anche quando questo si diverte:

“il loro sacro ministero li obbliga a dire chiaro e aperto che un divertimento mal-sano e impuro distrugge le fibre morali di una nazione. Ricordino, altresì, all’in-dustria cinematografica che quanto essi chiedono non riguarda solo i cattolici, ma tutto il pubblico del cinema”.

Nelle indicazioni ancora più pratiche, il Papa indica a tutti i pastori di anime il loro dovere di esortare i fratelli in modo che, a somiglianza dei cattolici americani, facciano la promessa solenne di astenersi da tutti i film che offenda-no la verità e la morale cristiana rinnovandola ogni anno nelle chiese o nelle scuole con la cooperazione delle famiglie.

223Percorsi di studiogiugno 2008 - anno VIII

Collegata alla promessa è una particolare lista contenente gli elenchi dei film classificati, in modo da poterli presentare a tutti. Tale lista, secondo il Pontefice, potrebbe essere unica per tutto il mondo, ma rendendosi conto delle differenze di ciascuna nazione, ne auspica una per ciascuna di esse. Per questo è però ne-cessaria l’istituzione di un Ufficio Permanente Nazionale di Revisione, affidato agli organismi centrali dell’Azione Cattolica. Tuttavia, saranno i vescovi di ogni diocesi a poter fare uso di criteri più severi, censurando, ad esempio, film ammessi nella lista nazionale.

Le conseguenze pratiche indicate da Pio XI riguardano gli standard della produzione e gli

obblighi morali prima evidenziati. All’interno delle proposte concrete il Papa richiama la necessità di divulgare la “promessa” già speri-mentata in America. A queste, il Papa aggiunge la classificazione dei film e la nascita degli uffici nazionali, uno strumento ed un organismo che prendono avvio proprio con l’enciclica del 1936 sul cinema. Infine, prima di concludere l’enci-clica, il Papa invita una sorta di cooperazione internazionale, in modo da poter trasferire da un paese all’altro indicazioni, informazioni sui singoli film. Solo in questo modo, secondo il Papa, sarà possibile esercitare un’onesta vigi-lanza sul cinema al fine di tutelare la moralità dei popoli nelle ore di svago e di ricreazione.

Conclusioni

Lo studio intendeva esaminare come nasco-no e si sviluppano le prime linee di valutazione e/o accoglienza della chiesa circa la radio ed il cinema riferendosi al papato di Pio XI durante il cui periodo tali considerazioni prendevano forma tanto che lo stesso Papa interviene con propri discorsi e con encicliche.

Due tipi di considerazioni, abbastanza simili, riguardano innanzitutto l’atteggiamento che nei secoli la società e la chiesa hanno avuto verso le diverse forme di comunicazione. Sembra che tale atteggiamento e valutazione negativa si ripeta in particolare per il cinema esentando quasi la radio per la quale, invece, si colgono gli aspetti positivi di amplificazione e diffusione.

L’aver esaminato tali mezzi sotto il profilo metodologico - tenuto conto che ambedue hanno a base un particolare tipo di immagine (audiovisiva il cinema, sonora la radio) - fa meglio capire le ragioni di tali atteggiamenti di diffidenza e di accoglienza. In particolare il fatto che tutti i media sono cassa di risonanza e, al tempo stesso, formatori di mentalità fa capire come l’enfatizzare uno dei due aspetti - magari anche per la stessa natura del mezzo come è avvenuto per la radio - può generare

maggiore o minore accoglienza immediata e, comunque, come le diverse valutazioni trovano fondamento nella visione dei media proprio come cassa di risonanza e come formatori di mentalità.

Tale distinzione, basata su un approfondi-mento di tipo scientifico sull’immagine, aiuta anche nell’approfondimento teologico-magi-steriale. L’avere in debito conto che i media, come afferma Giovanni Paolo II nella Redemp-toris Missio, generano una nuova cultura, inter-pella anche la dottrina dell’inculturazione della fede che, nel mondo mediale contemporaneo non significa solo usare i media (concezione strumentale più legata alla visione dei media come cassa di risonanza) ma inculturare il vangelo nella nuova cultura dei media tenuto conto proprio di tale nuova cultura.

Per questo motivo durante lo studio si sono fatti riferimenti all’attualità odierna come le affermazioni del Direttorio delle Comunicazioni Sociali della Cei pubblicato nel 2004 o come il messaggio dell’arcivescovo di Trani dello stesso anno. Tanto, mentre il filo dello studio scorreva sulla personalità e sulla formazione di Achille Ratti poi diventato Pio XI e sul contesto storico

224 Percorsi di studio giugno 2008 - anno VIII

degli anni Venti e Trenta. Gli articoli di Civiltà Cattolica che illustrano il clima dei cattolici americani verso il cinema aiutano a capire quali siano state le pressioni su Pio XI per un pronunciamento ufficiale e specifico sul cinema al quale il Pontefice aveva dedicato un breve passo nell’enciclica Divini illius magistri nel 1929 riferendolo al contesto dell’educazione cristiana della gioventù.

Certo non si può affermare tout court che il primo pronunciamento ufficiale sul cinema da parte di un Papa sia stato la conseguenza di pressioni. Al tempo stesso, però, pur rima-nendo sempre l’enciclica di un Papa va anche tenuto presente, pur nel giusto conto, che l’essa - ed alcune esortazioni in particolare - si rivolge in prima battuta ai “Venerabili Fratelli” vescovi degli Stati Uniti per aver esercitato “una speciale vigilanza sopra l’industria ci-nematografica” americana “particolarmente progredita” e che ha “non poca influenza nelle

altre parti del mondo”. Poi l’invito si estende a tutti i “vescovi di tutto l’orbe cattolico” per richiamarli al dovere “di unirsi, per vigilare su questa universale e potente forma di diverti-mento e insieme d’insegnamento”.

Sono aspetti che vanno colti per capire meglio come si sono sviluppati alcuni atteg-giamenti e giudizi. Allo stesso modo è interes-sante vedere come l’accoglienza per il mezzo radiofonico trova più conferma nell’istituzione della Radio Vaticana che nello stesso discorso di inaugurazione elaborato nella forma di primo radiomessaggio in cui tale giudizio è implicito.

Sono tutti aspetti che si è inteso appro-fondire sotto il profilo della scienza della co-municazione augurandosi che nuove ricerche storiche e nuova documentazione finora non conosciuta possano ancor meglio far ricostruire la storia dei media inquadrata nella missione della Chiesa.

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Dissertazioni per il Diplomain Scienze Religiose

Giugno 2007 - Febbraio 2008

Antonella BOMBINI, La storia di Gesù nel cinema: quando la Passione diventa copione cinematografico, pp. 110. Relatore prof. Gioacchino Priscindaro, disciplina “Sacra Scrittura”. Difesa il 28 giugno 2007.

Introduzione

Capitolo I - Cinema e Chiesa

Capitolo II - La Passione

Capitolo III - Raccontare Gesù

Conclusione

Bibliografia

Raffaella CAFAGNA, La Parusia: Ritorno o presenza del Risorto? Lettura cristologia di Padre F.X. Durrwell, pp. 93. Relatore prof. sac. Matteo Martire, disciplina “Cristologia”. Difesa il 12 febbraio 2008.

Sigle e Abbreviazioni

Introduzione

Capitolo I - L’attesa della Parusìa

1.1 L’Attesa della Parusìa nella Teologia paolina; 1.2. L’Attesa della Parusìa nell’Apocalisse; 1.3. L’Attesa della Parusìa nei Sinottici; 1.4. L’Attesa della Parusìa nel quarto vangelo; 1.5. La Parusìa come compimento dell’evento Gesù Cristo; 1.6. La Parusìa come giudizio di Dio;

Capitolo II - L’escatologia negli interventi magisteriali

2.1 Gli insegnamenti del Concilio Vaticano II; 2.2. La lettera della Congregazione per la Dottrina della fede del 1979; 2.3. Il documento della Commissione Teologica Internazionale del 1992. Alcune questioni attuali riguardanti l’escatologia; 2.4. Il Catechismo della Chiesa Cattolica;

Capitolo III - L’Eucarestia, presenza del Risorto nella Teologia di Padre Durrwell

3.1 La presenza di Cristo nell’Eucarestia; 3.2. I fondamenti biblici dell’Eucarestia; 3.3. L’Euca-restia nella storia della Chiesa; 3.4. Lettera Enciclica Mysterium Fidei; 3.5. Presenza di Cristo nella celebrazione eucaristica; 3.6. Presenza vera reale sostanziale di Cristo.

Conclusione

Bibliografia

228 Dissertazioni per il diploma giugno 2008 - anno VIII

Maria CIVITA, Speranza cristiana e attività umana, pp. 101. Relatore prof. Paolo Farina, disciplina “Antropologica Teologica”. Difesa il 12 febbraio 2008.

Sigle e Abbreviazioni

Introduzione

Capitolo I - L’uomo nel progetto di Dio

1.1 L’uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio; 1.2. Gesù immagine perfetta di Dio; 1.3. La speranza cristiana.

Capitolo II - L’attività umana

2.1 Il valore del lavoro; 2.2. La fatica e la redenzione; 2.3. Il lavoro e la sua finalità; 2.4. Il cambiamento come sfida, nel magistero di don Tonino Bello.

Capitolo III - La testimonianza nel mondo

3.1 La dottrina sociale della Chiesa; 3.2. Panoramica degli interventi magisteriali; 3.3.1. Il primato della preghiera; 3.3.2. La preghiera, la vita terrena e le cose del Regno.

Conclusione

Bibliografia

Rosanna DI PINTO, Il Tribunale dell’inquisizione in epoca tardo medioevale, pp. 96. Relatore prof. sac. Giuseppe Lobascio, disciplina “Storia della Chiesa Medioevale”. Difesa il 18 settembre 2007.

INTRODUZIONE

Capitolo I - Cenni sulle origini storiche dell’inquisizione

1.1 Le premesse dell’inquisizione; 1.2. La nascita dell’inquisizione e le sue varie fasi; 1.2.1. L’Inquisizione vescovile; 1.2.2. L’Inquisizione legantina e papale monastica; 1.2.3. L’Inquisizione spagnola e portoghese; 1.2.4. L’Inquisizione romana o Sant’Uffizio.

Capitolo II - Il Tribunale dell’inquisizione e la procedura inquisitoriale

- Sezione prima: Il Tribunale dell’Inquisizione;

2.1. La nascita dei tribunali dell’Inquisizione ed i suoi compiti specifici; 2.2. Gli organi inquisito-riali; 2.2.1. L’Inquisitore; 2.2.2. Il notaio; 2.2.3. Le giurie popolari; 2.2.4. Gli avvocati difensori. 2.3. I manuali inquisitoriali.

- Sezione seconda: La procedura inquisitoriale;

2.4. Gli archivi dell’Inquisizione; 2.5. La procedura; 2.6. Le varie fasi della procedura inqui-sitoriale; 2.6.1. Prima fase: l’inchiesta; 2.6.2. Seconda fase: il processo; 2.6.3. Terza fase: la sentenza; 2.6.4. Le pene e le penitenze. 2.7. Gli strumenti dell’inquisizione: la tortura;

Capitolo III - L’inquisizione strumento del potere

3.1. L’Inquisizione strumento del potere;

- Sezione prima: La repressione antimagica e il problema degli ebrei;

3.2. La repressione antimagica; 3.2.1. La stregoneria come reato; 3.2.2. L’entità e le cause della persecuzione. 3.3. Il problema degli ebrei.

- Sezione seconda: L’Inquisizione in Puglia;

229Dissertazioni per il diplomagiugno 2008 - anno VIII

3.4. L’Inquisizione in Puglia da Carlo I a Roberto d’Angiò. 3.4.1. L’Inquisizione e gli italo-greci; 3.4.2. L’Inquisizione e gli Ebrei: un caso particolare; 3.4.3. L’Inquisizione e i Templari.

Osservazioni conclusive

Bibliografia

Gabriele DI SALVO, L’amore sponsale nel pensiero di Karol Wojtyla, pp. 119. Relatore prof. mons. Domenico Marrone, disciplina “Morale sessuale e familiare”. Difesa il 18 settembre 2007.

Introduzione

Capitolo I - Gli albori: poeta e drammaturgo

1.1 Premessa; 1.2 I giovani di San Floriano e lo Srodowisco; 1.3 L’amore per Wujek; 1.4 Il cammino filosofico ed ecclesiale; 1.5 La poesia, la vita coniugale come Dramatis personae; 1.6 Il pensiero antropologico di Karol Wojtyla e la legge del dono.

Capitolo II - La maturitá: filosofo e professore

2.1 Amore e responsabilità; 2.2 L’amore sponsale; 2.3 L’umiltà del corpo; 2.4 Una procreazione umana; 2.5 Il matrimonio con Dio.

Capitolo III - Il papato: maestro e pastore

3.1 Una risposta per il terzo millennio; 3.2 La communio degli sposi; 3.3 L’indissolubilità dell’amore sponsale; 3.4 La fecondità, segno della civiltà dell’amore; 3.5 La spiritualità spon-sale.

Conclusioni

Bibliografia

Addolorata MENNEA, L’insegnamento della Religione Cattolica nella Scuola della Rifor-ma Moratti (L. 53/03), pp. 117. Relatore prof.ssa Concetta Doronzo, disciplina “Didattica Irc”. Difesa il 18 settembre 2007.

Abbreviazioni

Introduzione

Capitolo I - La riforma della scuola

1. Lo scenario della riforma; 2. La dimensione educativa e formativa nella scuola della riforma; 3. La persona al centro del processo di educazione e formazione; 4. Il principio dell’autonomia (L. 59/97).

Capitolo II - Il nuovo sistema scolastico-formativo: la legge 28 marzo 2003, n. 53

1. Le ragioni della riforma Moratti (L. 53/03); 2. Territorio e sistema formativo integrato; 3. La legge 28 marzo 2003/53; a. Uno sgardo di sintesi; b. La nuova architettura scolastica; c. La personalizzazione e i Piani di studio personalizzati; d. Le categorie pedagogiche: loro signifi-cato e loro rapporto.

Capitolo III - Il nuovo profilo dell’insegnante di religione

230 Dissertazioni per il diploma giugno 2008 - anno VIII

1. La funzione docente: le competenze professionali; 2. La funzione dell’insegnate di religio-ne nella scuola; 3. La professionalità dell’insegnante di religione nel processo didattico; 4. Le competenze specifiche richieste all’insegnante di religione; 5. Il nuovo profilo dell’insegnante di religione nella Sperimentazione CEI.

Capitolo IV - L’insegnamento della religione cattolica nella normativa della riforma Moratti

1. L’Irc per una nuova scuola; 2. L’Irc nel quadro della riforma Moratti; 3. Gli OSA dell’Irc; a.Le conoscenze; b.Le abilità; c.Rapporto dell’Irc con gli OSA della Convivenza Civile; 4. Dagli Osa ai piani di studio personalizzati; 5. Quali prospettive?.

Conclusioni

Bibliografia

Maria Antonietta SETTE, La paternità di Dio nella Bibbia. Saggi di esegesi del Profeta Isaia, pp. 118. Relatore prof. Gioacchino Prisciandaro, disciplina “Sacra Scrittura”. Difesa il 12 febbraio 2008.

Introduzione

Capitolo I - Le ricorrenze tematiche della paternità e relativi contesti

1.1. Dio Padre nella rivelazione ebraica; 1.1.2. L’archetipo simbolico-teologico;

1.1.3. L’archetipo biologico-mitologico; 1.1.4. Aspetto etico e politico; 1.2. La radice della paternità divina nei confronti di Israele; 1.3. La paternità divina nei confronti d’Israele; 1.4. La paternità tradita; 1.5. La proclamazione della paternità divina nei profeti; 1.5.1. Dio «Padre» in Osea; 1.5.2. Dio «Padre» negli oracoli di Geremia; 1.5.3. Dio «Padre» in Isaia 40-66; 1.6. Gesù ci rivela il Padre; 1.6.1. Il termine della «Paternità» nel vangelo di Matteo; 1.6.2. Dio Padre nel vangelo di Marco; 1.6.3; Dio Padre - Amore nel Vangelo di Luca; 1.6.4. La Paternità rivelata da Gesù nel Vangelo di Giovanni; 1.6.5. Il termine «Padre» nell’epistolario paolino.

Capitolo II - La paternità di Dio nel profeta Isaia

2.1. Isaia 1,1-4: Rimprovero al popolo di Giuda; 2.1.1. Il Contesto; 2.1.2. Analisi semantica; 2.2. Isaia 43, 1-7: Liberazione d’Israele; 2.2.1. Il Contesto; 2.2.2. Analisi semantica. 2.3. Isaia 63, 15-16: Preghiera; 2.3.1. Il Contesto; 2.3.2. Analisi semantica.

Capitolo III - Coordinate teologiche

3.1. Annunciare Dio Padre: una sfida per la Teologia contemporanea; 3.1.1. Tra secolarismo e crisi della modernità; 3.1.2. Dio Padre e la nuova domanda di religiosità; 3.1.3. Un solo Dio e Padre di tutti; 3.2. La paternità di Dio e le odierne sfide della Teologia. Criteri di discernimen-to; 3.2.1. L’orizzonte universale; 3.2.2. L’orizzonte soteriologico. 3.3. Educarsi ed educare al senso della paternità di Dio; 3.3.1. Il cammino verso il Padre (con tanti fratelli e sorelle); 3.3.2. L’incontro interpersonale con il Padre; 3.3.3. Paternità di Dio, incarnazione e vita filiale; 3.4. I diversi volti di Dio Padre; 3.4.1. Dio Padre esigente; 3.4.2. L’amore di Dio Padre; 3.4.3. La realtà del peccato.

Conclusione

Bibliografia

231Dissertazioni per il diplomagiugno 2008 - anno VIII

Sabina SINISI, La preghiera sorgente della vita cristiana, pp. 132. Relatore prof. Paolo Farina, disciplina “Antropologia Teologica”. Difesa il 18 settembre 2007.

Introduzione

Capitolo I - La preghiera nell’Antico Testamento

1.1. Figure della preghiera nell’Antico Testamento; 1.2. La preghiera nei profeti; 1.3. La pre-ghiera nei Salmi.

Capitolo II - La preghiera nel Nuovo Testamento

2.1. La preghiera nel Vangelo di Matteo; 2.2. La preghiera nel Vangelo di Marco; 2.3. La preghiera nel Vangelo di Luca; 2.4. La preghiera nel Vangelo di Giovanni; 2.5. La preghiera di Gesù; 2.6. Il Padre Nostro come modello di preghiera e sintesi di impegno evangelico; 2.7. La preghiera di S. Paolo.

Capitolo III - La preghiera nella tradizione della Chiesa

3.1. La preghiera nella tradizione della Chiesa; 3.2. La preghiera nei padri della Chiesa; 3.2.1. Basilio il grande; 3.2.2. Origene; 3.2.3. S. Agostino; 3.3. La preghiera nei documenti concilia-ri; 3.3.1. La preghiera nella Lumen Gentium; 3.3.2. La preghiera nella Dei Verbum; 3.3.3. La preghiera nella Unitatis Redintegratio.

Conclusione

Bibliografia

Sitografia

Nunzia ZINFOLLINO, Maria donna e madre negli scritti giovannei, pp. 103. Relatore prof. Francesco Piazzolla, disciplina “Sacra Scrittura”. Difesa il 12 febbraio 2008.

Introduzione

Capitolo I - Le nozze di Cana

1.1. Le nozze di Cana - Un racconto simbolico; 1.2. Sinai - Cana - Pasqua; 1.3. Uno sposalizio: il luogo, i partecipanti, la peculiarità dell’evento; 1.4. Il vino di Cana e il suo simbolismo; 1.5. “Nel frattempo, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse «Non hanno più vino»”; 1.6. “E Gesù rispose «Che ho da fare con te, o donna?»”; 1.7. “Donna”; 1.8. “Non è ancora giunta la mia ora”; 1.9. “La mia ora”; 1.10. “Fate quello che vi dirà”; 1.11. I servi delle nozze; 1.12. L’evento; 1.13. Le nozze; 1.14. Il punto di vista mariologico.

Capitolo II - Maria presso la croce (Gv 19, 25-27)

2.1. L’interpretazione secondo l’odierno pensiero; 2.1.1. Il contesto messianico ed ecclesiolo-gico; 2.1.2. L’interpretazione; 2.1.3. Il versetto conclusivo; 2.2. Il volto mariano della Chiesa.

Capitolo III - Apocalisse di Giovanni (12 1-6)

3.1. Il primo livello simbolico: la donna di Ap 12; 3.2. Il secondo livello simbolico; 3.3. Il se-condo segno; 3.4. Il drago e la donna; 3.5. Un figlio maschio; 3.6. “La donna invece fuggì nel deserto”; 3.7. È legittimo vedere anche Maria nella donna “grande segno”?.

Conclusioni

Bibliografia

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Dissertazioni per il Magisteroin Scienze Religiose

Settembre 2007 - Febbraio 2008

Giuseppina ANNACONDIA, In Comunione - Mensile di esperienze, studio, informazione dell’Arcidiocesi di Trani - Barletta Bisceglie (1994-2006), pp. 132. Relatore prof. Antonio Ciaula, disciplina “Comunicazioni sociali: prospettive pastorali”. Difesa il 13 febbraio 2008.

Introduzione

Capitolo I - In Comunione, mensile di esperienze, studio, informazione dell’Arcidiocesi di Trani - Barletta - Bisceglie

1. Nascita del periodico, nel clima di preparazione al Convegno ecclesiale di Palermo; 2. Le origini del titolo In Comunione; 3. Informazione e stampa nel territorio: l’esperienza di In Comunione nel decennale di pubblicazione; 4. La metodologia utilizzata nella “lettura” ed esame del periodico; 5. Il primo numero di dicembre 1994: rubriche, contenuti, spazi; Tab. 1 - In Comunione - Primo numero - Dicembre 1994 - Spazio dedicato agli argomenti e alle rubriche.

- In Comunione - Scheda emerografica

Capitolo II - La stampa locale. I settimanali diocesani

1. Comunità, territorio, comunicazione; 2. Stampa locale e territorio; 3. I settimanali diocesani; 4. I contenuti dei settimanali cattolici: la presenza sociale periferica ma non marginale della stampa diocesana.

Capitolo III - Comunità ecclesiale, comunicazione e inculturazione: il pensiero del Magistero

1. Comunità ecclesiale e comunicazione: le comunicazioni sociali nella pastorale della Chiesa; 2. L’inculturazione; 3. Inculturazione e sistema comunicativo ecclesiale: la stampa periodica ecclesiale; 4. La funzione del periodico cattolico nella vita di una diocesi; 5. Il Progetto Culturale orientato in senso cristiano.

Capitolo IV - In Comunione: argomenti e rubriche dal 1995 al 1999 (Episcopato Cassati)

1. Rubriche e argomenti nell’anno 1995; Tab. 2 In Comunione - Anno 1995- Spazio dedicato agli argomenti e rubriche; 2. Rubriche e argomenti nell’anno 1996; Tab. 3 In Comunione - Anno 1996- Spazio dedicato agli argomenti e rubriche; 3. Rubriche e argomenti negli anni 1997-1999; Tab. 4 In Comunione - Anno 1997- Spazio dedicato agli argomenti e rubriche; Tab. 5 In Comu-nione - Anno 1998- Spazio dedicato agli argomenti e rubriche; Tab. 6 In Comunione - Anno 1999 - Spazio dedicato agli argomenti e rubriche; 4. Alcune prime considerazioni.

Capitolo V - In Comunione: argomenti e rubriche dal 2000 al 2006 (Episcopato Pichierri)

1. Rubriche e argomenti nell’anno 2000; Tab. 7 In Comunione - Anno 2000- Spazio dedicato agli argomenti e rubriche; 2. Rubriche e argomenti nell’anno 2001; Tab. 8 In Comunione - Anno 2001- Spazio dedicato agli argomenti e rubriche; 3. Rubriche e argomenti negli anni

236 Dissertazioni per il magistero giugno 2008 - anno VIII

2002-2004; Tab. 9 In Comunione - Anno 2002-Spazio dedicato agli argomenti e rubriche; Tab.10 In Comunione - Anno 2003-Spazio dedicato agli argomenti e rubriche; Tab.11 In Co-munione - Anno 2004-Spazio dedicato agli argomenti e rubriche; 4. Rubriche e argomenti negli anni 2005-2006; Tab.12 In Comunione - Anno 2005- Spazio dedicato agli argomenti e rubriche; Tab.13 In Comunione - Anno 2006- Spazio dedicato agli argomenti e rubriche; 5. In Comunione e i comunicati dell’Ufficio Diocesano Comunicazioni Sociali; 6. In Comunione - Gli inserti e i supplementi; Tab.14 Inserti; numero di pubblicazioni e loro numero di pagine; Tab. 15 - In Comunione - (1994- 2006)- Riepilogo numerico e percentuale delle pagine edite e dei relativi inserti; 7. Rubriche, argomenti e Aree Tematiche dal 1994 al 2006 - Riepilogo; Tab.16 In Comunione - Riepilogo spazio in pagine dedicato ad argomenti e rubriche (1994-2006); Tab.17 In Comunione - Suddivisione delle aree tematiche secondo lo spazio dedicato ad argomenti e rubriche (1994-2006); Tab.18 In Comunione - Aree tematiche 1994-2006. Spazi in numero di pagine e relative percentuali; Fig. 1 In Comunione - Numeri editi per anno (1994-2006); Fig. 2 In Comunione - Numero di pagine per anno (1994-2006); Fig. 3 In Comunione - Inserti allegati alla spedizione e loro numero di pagine (1994-2006).

Conclusioni

Bibliografia

Giovanna GADALETA, Amore e famiglia nel piano di Dio. Prospettiva etico - teologica, pp. 173. Relatore prof. mons. Domenico Marrone, disciplina “Morale familiare”. Difesa il 13 febbraio 2008.

Introduzione

Capitolo I - L’amore coniugale nel piano di Dio

1.1. Racconto sacerdotale; 1.2. Racconto Jahwista; 1.3. Come Cristo ha amato la Chiesa.

Capitolo II - Amore unitivo e procreativo nella tradizione della Chiesa e nel più recente insegnamento del Magistero

2.1. La tradizione della Chiesa; 2.1.1. Racconto Jahwista; 2.1.2. Il valore del corpo nel matri-monio secondo Metodio; 2.1.3. I “Tria bona” di Agostino; 2.1.4. Il fine primario e secondario di Tommaso. 2.2. Il Magistero pontificio; 2.2.1. Pio XI; 2.2.2. Pio XII; 2.2.3. La Gaudium et spes; 2.2.4. Paolo VI; 2.2.5. Giovanni Paolo II; 2.2.6. Benedetto XVI.

Capitolo III - L’amore coniugale

3.1. Le caratteristiche dell’amore coniugale; 3.1.1. Amore pienamente umano; 3.1.2. Amore totale; 3.1.3. Amore fedele; 3.1.4. Amore fecondo. 3.2. Matrimonio e sessualità; 3.2.1. Atti sessuali coniugali; 3.2.2. Valore unitivo e valore procreativo; 3.2.3. La procreazione respon-sabile.

Capitolo IV - La famiglia dono dell’amore di Dio all’umanità

4.1. Famiglia chiesa domestica; 4.2. La missione della famiglia; 4.3. I compiti della famiglia;

4.3.1. Essere una comunità di persone; 4.3.2. Il servizio alla vita; 4.3.2.1. L’educazione; 4.3.3. La partecipazione allo sviluppo della società; 4.3.4. La partecipazione alla vita e alla missione della Chiesa.

Conclusioni

Bibliografia

237Dissertazioni per il magisterogiugno 2008 - anno VIII

Francesco LEO, Tele Dehon (Andria): l’esperienza di una televisione cattolica locale nel rapido sviluppo del mezzo televisivo. Una sfida per l’annuncio, pp. 142. Relatore prof. Antonio Ciaula, disciplina “Comunicazioni sociali: prospettive pastorali”. Difesa il 13 febbraio 2008.

Introduzione

Capitolo I - Il primo congresso mondiale delle tv cattoliche e l’esortazione apostolica di Giovanni Paolo II Il Rapido sviluppo

1. A 40 anni dal Vaticano II; 2. La lettera apostolica nella conferenza stampa di presentazio-ne; 3. Il pensiero di Giovanni Paolo II nell’esortazione apostolica; 3.1 Un fecondo cammino sulla scia del decreto Inter mirifica; 3.2 Discernimento evangelico e impegno missionario; 3.3 Cambiamento di mentalità e rinnovamento pastorale; 3.4 I media, crocevia delle grandi questioni sociali; 3.5 Comunicare con la forza dello Spirito Santo. 4. Il Rapido Sviluppo, primo Congresso Mondiale delle Televisioni Cattoliche (Madrid 10 -12 ottobre 2006); 4.1 Le tema-tiche del Congresso; 4.2 Una griglia per identificare e definire una televisione cattolica, i suoi obiettivi, la sua qualità.

Capitolo II - Le tappe storiche del rapido sviluppo della televisione con riferimento al-l’Italia (1910 - 1990)

1. Dalle prime normative sulle comunicazioni senza filo alla definizione del termine televisio-ne (1910 - 1947/8); 2. Dalle prime radiocronache televisive all’inizio dei programmi regolari in Italia (1949-1954); 3. Dalla nascita dell’Eurovisione (1956) al Secondo canale tv (1961) e alle trasmissioni in Mondovisione (1967); 4. Dalla tv in fascia di tarda mattinata (1968) alla Federazione delle tv via cavo (1973), e all’inizio delle trasmissioni a colori della Rai (1977); 5. Dalla costituzione di Rete Italia (Berlusconi) e l’avvio della Terza Rete (1979), alla formulazione della Legge Mammì (1990).

Capitolo III - La televisione contemporanea e le sue tipologie

1. L’attività televisiva oggi; 2. La televisione generalista; 3. La tv tematica (specializzata) ed il palinsesto segmentato; 4. La televisione commerciale; 5. La televisione alternativa; Tab. 1 - Esempi di Web tv in Italia; Tab. 2 - Esempi di emittenti nazionali e locali e loro indirizzo web; 6. Rai educational.

Capitolo IV - Dalle radio alle tv cattoliche: una presenza variegata

1. Radio e televisioni cattoliche; 2. Sat 2000, “la tv satellitare dei cattolici italiani”; 3. Il Centro Televisivo Vaticano; 4. Al Congresso di Madrid, una tv cattolica non mediocre.

Capitolo V - Un’esperienza locale di tv cattolica: Tele Dehon ad Andria

1. Tele Dehon, una tv cattolica nella scia di p. Leone Gustavo Dehon; 2. I Dehoniani ad An-dria e Tele Dehon; 3. Il rapporto dell’emittente con il territorio; 4. I palinsesti di Tele Dehon nel decennio 1996-2006; 4.1 I palinsesti nel 1996; 4.2 I palinsesti nel 2000; 4.3 I palinsesti nel 2003; 4.4 I palinsesti nel primo semestre 2006. 5. Altre considerazioni sull’evoluzione dei palinsesti.

Capitolo VI - Comunicazione e servizio: finalità obiettivi e problematiche di Tele Dehon, tv cattolica

1. Comunicare a “Babele”: le finalità di Tele Dehon in riferimento alle fonti bibliche; 1.1 Comunicazione e proclamazione; 2. Gli aspetti materiali di una tv cattolica nel business della comunicazione; 2.1 Il mezzo tecnico e gli operatori; 2.2 In un mondo mediatico teso più a «vendere» che a comunicare; 3. L’esperienza in Tele Dehon; 4. Dalla comunicazione alla co-munione; 5. La sfida del servizio e le prospettive del futuro.

238 Dissertazioni per il magistero giugno 2008 - anno VIII

Conclusioni

Appendice Documentaria

Bibliografia

Maria Grazia MAFFIONE, La nuzialità dal IV Vangelo all’Apocalisse: un’evoluzione teologica, pp. 187. Relatore prof. sac. Francesco Piazzolla, disciplina “Sacra Scrittura”. Difesa il 13 febbraio 2008.

Introduzione

Capitolo I - Le nuove nozze del Messia

1.1. Cana e le sue evocazioni simboliche; 1.1.1. La coordinata temporale-spaziale; 1.1.2. Il tema del banchetto nuziale; 1.1.3. Il valore simbolico degli sposi, dei servi, dell’architriclino, della madre-donna. 1.2. Il tema nuziale nella storia della salvezza; 1.3. Cana o l’«ora» delle vere nozze (Gv 2,1-12) Struttura stilistica e processo di simbolizzazione; 1.3.1. Critica strutturale; 1.3.2. L’importanza simbolica delle giare per l’acqua. 1.4. Valenza ermeneutica di Gv 2,1-12; 1.5. Interpretazione secondo i Padri.

Capitolo II - Il detto di Giovanni il Battista in Gv 3,22-30

2.1. Spiegazione del «detto»; 2.2. Legame con la tematica delle nozze di Cana.

Capitolo III - Il significato simbolico di Gv 19,25-27

3.1. Gv 19,25-27 nel pensiero dei Padri; 3.2. Interpretazione nuziale del testo.

Capitolo IV - Il rapporto sponsale tra Cristo e le Chiese di Efeso, Tiatira, Filadelfia, Laodicea

4.1. La Chiesa di Efeso e l’esistenza del primo amore; 4.2. La Chiesa di Tiatira; 4.3. La Chiesa di Filadelfia; 4.4. La Chiesa di Laodicea.

Capitolo V - Dal fidanzamento alla nuzialità

5.1. Esegesi di Apocalisse 19,1-10; 5.2. Excursus sulla «veste» nel libro dell’Apocalisse, l’uso simbolico della veste; 5.3. Le ricorrenze dell’aggettivo lenkòj nell’Apocalisse con il relativo substrato veterotestamentario e giudaico; 5.4. Trasfigurazione e risurrezione; 5.5. I possibili modelli veterotestamentari; 5.6. Simbolo della risurrezione; 5.7. Le vesti lavate nel sangue; 5.8. Il sangue dell’Agnello: causa della salvezza; 5.9. Cristo - Agnello: possibili antecedenti e paralleli; 5.10. L’Agnello cosmico; 5.11. «Veste» come partecipazione alla realtà di Cristo; 5.12. Il dono della redenzione; 5.13. Camminare con Cristo in bianche vesti; 5.14. La sposa e il banchetto di nozze.

Capitolo VI - La nuzialità nell’Apocalisse

6.1. La Gerusalemme nuova, punto di arrivo di una trafila di amore; 6.2. La Gerusalemme la «fidanzata di Cristo - Agnello»; 6.3. La fidanzata - sposa; 6.4. La gloria di Dio luce di Cristo; 6.5. La misurazione della città sposa; 6.6. Il dono dell’oro e delle pietre preziose; 6.7. La con-giunzione dell’Agnello cosmico e la nuova Gerusalemme; 6.8. Considerazioni finali.

239Dissertazioni per il magisterogiugno 2008 - anno VIII

Giuseppe MALDERA, Il significato dell’amore coniugale. Analisi di alcuni documenti conciliari e postconciliari; pp. 210. Relatore prof. mons. Domenico Marrone, disciplina “Morale sessuale e familiare”. Difesa il 18 settembre 2007.

Ringraziamenti

Premessa

Introduzione

Capitolo I - Nuove prospettive per l’amore conuigale: sguardo d’insieme

Capitolo II - Amore coniugale e procreazione

1. La prospettiva della Gaudium et spes; 2. La prospettiva dell’Humanae Vitae; 3. A proposito del fine procreativo; 4. Momento deliberativo ed esecutivo; 5. La Familiaris Consortio.

Capitolo III - Amore coniugale e continenza periodica

1. Contraccezione e mentalità antivita; 2. Metodi naturali e valore della continenza periodi-ca.

Capitolo IV - Il significato dell’amore coniugale nell’Evangelium Vitae

1. Uno sguardo generale sull’enciclica; 2. La dignità della vita umana; 2.1. I fondamenti della dignità; 2.2. La negazione della dignità. 3. L’importanza dell’amore coniugale e della famiglia nella cultura della vita; 3.1. Famiglia e cultura della morte; 3.2. Educazione e cultura della vita; 3.3. La vita umana: lo scaturire dell’amore coniugale. 3.3.1. Trasmissione della vita, dono e re-sponsabilità degli sposi; 3.3.2. Famiglia, vita, e civiltà dell’amore. 4. Amore coniugale: a servizio e tutela della vita; 4.1. La forza dell’amore; 4.2. I coniugi custodi della vita; 4.3. Proteggere le sorgenti della vita; 5. L’amore coniugale, garanzia del servizio alla vita; 5.1. Amore e trasmissione della vita; 5.2. L’alleanza coniugale; 5.3. Partecipi dell’opera creatrice; 5.4. Obiettivo primario della cultura della morte; 5.5. Una donazione per la vita; 5.6. Il migliore ambito di servizio alla vita; 5.7. Oltre alla debolezza umana; 5.8. La grazia in aiuto della debolezza.

Capitolo V - La maternità: una particolare comunione col mistero della vita

Conclusione

Bibliografia

240 Dissertazioni per il magistero giugno 2008 - anno VIII

241

242

A quarant’anni dalla morte:Lorenzo Milani un educatore di “razza”

InaugurazioneRiflessione introduttiva dell’Anno Accademico 2007-2008

di DOMENICO MARRONE *

A quarant’anni dalla morte, sembrano ac-quistare particolare valore alcune intuizioni cui giunse don Milani, in un’appassionata, sofferta vicenda pastorale che lo portò a vivere sulla pelle quel rapporto Chiesa-cul-tura-scuola che troppo spesso noi viviamo in rarefatte considerazioni di carattere speculativo prive del mordente stimolo di esperienze dirette.

Personalità segnata dal peso di un’esperien-za pastorale particolarmente dura a motivo dell’ambiente e delle condizioni di solitudine umana in cui visse. Caratterizzato da un tem-peramento, difficile a definirsi, sottoposto ad uno sforzo in cui fedeltà e ribellione si conten-devano la vittoria. Si definiva il disubbidiente ubbidientissimo, perché appena arrivava l’or-dine ubbidiva subito, e questo perché aveva bisogno della Chiesa, dei perdono dei peccati, dei sacramenti, di ciò che nessun altro poteva dargli e che per lui valeva infinitamente di più di ogni sua posizione o idea.

Don Lorenzo è una di quelle figure talmente complesse, così proiettate nella ricerca conti-nua della verità che era, ed è, difficile afferrarlo una volta per tutte. Se la sinistra tende ad esaltarlo come “prete-contro”, fino a fare di lui addirittura un precursore del sessantotto, la

cultura laicista - non tutta per fortuna - tende a mettere in dubbio la validità della sua espe-rienza e darne giudizi drasticamente negativi, anche con falsificazione di dati. Anche se la cosa può sembrare scontata e banale, don Lorenzo Milani era un prete, un prete e basta, un prete che ha tentato di applicare il Vangelo senza compromessi ed alibi.

Per capire don Lorenzo, le sue scelte, le sue battaglie occorre partire dalla scelta fonda-mentale che fece improvvisamente, a 20 anni, di servire Cristo e i suoi poveri, attraverso il sacerdozio, per salvare e salvarsi l’anima. Fu costante in don Milani la meditazione della vita di Cristo, di cui è testimonianza quel laborio-so progetto di catechismo in forma di vita di Gesù, cui lavorò soprattutto nei primi anni. Il suo ministero si svolse in un costante impegno di conoscenza del suo popolo, soprattutto dei suoi giovani con i quali condivise bisogni spirituali e materiali.

È nella stretta connessione tra il suo compito educativo e la sua missione sacerdotale che si chiarisce la sua caratteristica profetica. Dalla figura del Priore di Barbiana traspare la coscien-za di un educatore che ha avuto il coraggio di scegliere gli ultimi, di scommettere sui non garantiti, poiché questo significava scommet-

* Direttore Istituto Superiore di Scienze Religiose San Nicola il Pellegrino - Trani e Docente stabile di Teologia Morale.

244 Documenti giugno 2008 - anno VIII

tere sull’uomo in nome di quel messaggio di salvezza destinato a tutti: Il vangelo.

Don Milani ha operato nell’arco di secolo che va dal 1947 al 1967, durante anni di grandi cambiamenti e resistenze, di slanci e di contrasti, di lotte e di vivacità ideologica. Egli ha saputo dar voce alle rivendicazioni degli strati sociali più emarginati dell’Italia del do-poguerra e del boom economico. Infatti, don Milani da subito dimostra la sua autonomia di pensiero e tutta la sua portata rivoluzionaria nel denunciare le contraddizioni e le ingiustizie della società italiana nel suo complesso.

Che cosa c’è nel messaggio milaniano di attuale per il nostro cammino di Chiesa dopo il Concilio Vaticano II e per una scuola a servi-zio dell’uomo nella sua integralità? Che cosa rimane ancora di attuale del suo pensiero?

Don Milani è convinto che non si può dare trasmissione di un messaggio senza il comune possesso di un codice, il quale aiuta a espri-mere e sviluppare le potenzialità di ciascuno. Il linguaggio, la padronanza del lessico, l’uso e la conoscenza, il primato della parola sono per don Milani la chiave di volta di un qualsiasi sistema educativo che voglia dirsi tale.

Don Milani è un uomo che ha afferrato in maniera vivissima il primato della parola, intesa nei suoi significati umano e biblico-teologico. Egli ha colto la parola nella sua pregnanza bibli-ca, nella sua potenza creativa, nella sua dignità vivificatrice, nella sua capacità di piegare, di trasformare, di costruire. C’è tutta la dottrina biblica sulla forza creativa e formativa della pa-rola: la parola che fa essere uomo. Nella misura in cui si insegna a parlare, si insegna tutto. Ma per insegnare a parlare ci vuole la scuola. E la scuola, come egli sottolinea spesso, è tutto un modo di essere. Il primato della parola è insomma la più profonda, la più costante, la più coerente intuizione della sua vita.

Condotto dalla stessa tradizione familiare a vedere nella cultura il mezzo indispensabile per

compiere scelte responsabili, don Milani rite-neva che solo l’istruzione avrebbe consentito di ricostituire quell’unità tra fede e vita che la cristianizzazione della società aveva spezzato. La scuola avrebbe dovuto tuttavia rivolgersi non solo ai figli dei sedicenti fedeli, ma a tutti, con preferenza per i i figli degli operai e dei diseredati che, più degli altri, scontavano le conseguenze della loro ignoranza.

Ecco, allora, lo scopo fondamentale del-l’azione pedagogica di don Milani: dare la parola ai poveri che non l’hanno, ossia ad edu-carli ad esprimersi, a capire, a documentarsi. Le finalità educative che nel più ampio orizzonte di promozione degli emarginati, egli attribuiva alla scuola, si possono ridurre schematicamente a due: lo sviluppo dell’autonomia personale di giudizio e al tempo stesso attivazione di un forte senso della solidarietà umana.

Egli diceva che durante i secoli a questi ra-gazzi era stata negata la cosa più grande dei mondo: la cultura. Per questo si arrabbiava e quindi i preti, i medici, tutte le persone, dove-vano mettersi in ginocchio davanti a questa povera gente della montagna che era stata trattata male per tanto tempo. II suo scopo era quello di difendere il povero, di difendere il debole, ma tutte queste cose le faceva in un modo che non si faceva intendere.

Questo il credo del Priore di Barbiana: dare, donare la parola ai poveri. È soprattutto nei poveri, secondo don Milani, che il nesso parola-verità potrà ricostituirsi nella sua realtà originaria. Questa è l’intuizione e l’esperienza pastorale di don Milani: liberare l’uomo dallo stato di passività qualunque sia l’istituzione in cui si trovi, la parrocchia o la casa del popolo. Emerge nell’opera educativa milaniana un nesso inscindibile tra istruzione e salvezza che è proprio della sua concezione della parola.

Don Milani ci ha insegnato e ci insegna che sperare per dare dignità all’impegno educativo non è altro dall’evangelizzazione, perché appassionare l’uomo alla ricerca della

245Documentigiugno 2008 - anno VIII

verità, offrirgli gli strumenti della conoscenza, educarlo al discernimento critico, far maturare il desiderio di una pienezza di senso, significa consegnarlo a Colui che è via, verità e vita: Cristo redentore dell’uomo.

Oggi più che mai avvertiamo tutti l’urgenza di sostenere con forza il primato della forma-zione e dell’educazione. Siamo consapevoli che tale obiettivo, ormai sempre più diffusamente percepito come una vera e propria emergenza personale e sociale, esiga un rilancio dell’idea stessa di educazione, della sua natura e delle sue finalità. La commemorazione di don Mi-

lani, educatore di “razza” sia per tutti stimolo a investire energie, intelligenza, creatività e passione per un rinnovato impegno a servizio della formazione dell’uomo, del cittadino e del cristiano.

Sono queste considerazioni che ci hanno spinto ad inaugurare il nostro nuovo anno accademico invitando lei, Signor cardinale, compagno di viaggio per alcuni anni di don Lorenzo e testimone autorevole della sua vicen-da umana e ministeriale. La ringraziamo per la sua presenza e ci disponiamo ad accogliere con intelligente ascolto la sua parola. Grazie.

246

Alcuni momentidella Prolusione2007/2008

Prolusione dell’anno accademico 2007 - 2008

di SILVANO PIOVANELLI *

La figura e l’opera di don Lorenzo Milani1

Devo prima di tutto dirvi la mia contentezza nell’ essere qui, insieme con voi, di fronte alla facciata della vostra bellissima cattedrale, di fronte a questo stupendo mare azzurro. Saluto l’arcivescovo, il direttore, il signor preside e tutti voi. Penso che don Lorenzo sia contento di tut-to questo. Qualche volta - diceva don Lorenzo - bisognerebbe che l’arcivescovo mi facesse far parlare seminario, che mi facesse insegnare in seminario per far vedere che veramente quello che io sto dicendo corrisponde alla verità ed è la via giusta.

Un proverbio cinese recita che bisogna se-dersi sulla riva del fiume e aspettare: prima o poi passeranno i cadaveri dei tuoi nemici. Don Lorenzo ora, seduto non sulla riva del fiume, ma sulla riva dell’ eternità, a quarant’anni dalla sua morte vede una cosa che sicuramente gli fa piacere, che si parli di lui proprio all’inau-gurazione dell’ anno accademico di un Istituto superiore di scienze religiose.

Io vorrei cominciare leggendovi una lettera di Mons. Loris Francesco Capovilla, indirizzata all’Istituto comprensivo di Palena e alla Comu-nità di Taranta Peligna (CH) che ha scritto il 3 maggio 2007, nell’ occasione del quarantesimo dalla morte di don Milani:

Lorenzo Milani è personaggio noto e vivo. Occupa un posto eminente nella Chiesa e

in Italia. Ha onorato la veste talare, tout court, senza incappare nel clericalismo. Ha accostato uomini di mondo senza mai adeguarsi ai parametri del mondo (Cfr Rm 12, 2). È stato tollerante, non accomodan-te. Battagliero, non avventuriero. Limpido come un fanciullo merita l’elogio biblico del giusto: “Integro e retto, timorato di Dio e alieno dal male” (Giobbe 1, 1).Il suo nome evoca un’avventura singolare, una vocazione misteriosa e una missione ardua. Egli trascende lo spazio temporale su cui noi dissertiamo, trovandoci volta a volta concordi o discordi. Egli è un segno di Dio, un segno dei tempi. La sua breve permanenza terrena non rimane costretta dentro l’arco biografico della nascita e del-la morte: 1923 - 1967; lo supera ed obbliga contemporanei e posteri a tutto rivedere e ben riconsiderare.Non è necessario farne una icona; tuttavia urge chiedersi cosa Dio abbia voluto dirci tramite le sue illuminazioni, le sue esu-beranze, le umiliazioni subite, il servizio reso agli operai, alla gente di montagna, ai giovani usciti dalle esperienze della guerra e immersi nella dura realtà del dopoguer-ra. Importa cogliere il proprium della sua fede, della sua cultura, del suo apparire ed essere “un ribelle per amore”, come è stato detto del partigiano Teresio Olivelli (1916-1945), ricordato da Benedetto XVI nella sua recente peregrinazione a Pavia.Nessuna difficoltà ad ammettere che Don Lorenzo è stato un uomo difficile, diciamo pure tormentato e tormentatore. Certi tratti della sua natura e del suo carattere

* Cardinale, arcivescovo emerito di Firenze.1 Prolusione per l’inaugurazione dell’anno accademico 2007-2008 dell’ISSR di Trani tenuta il 12 ottobre 2007.

248 Documenti giugno 2008 - anno VIII

Io fanno somigliante ai profeti dell’antico patto e ai riformatori dì tutti i tempi. La Provvidenza lo inchiodò drammaticamente ad una croce che mise a dura prova lui, la cerchia familiare e gli amici.Vide e soffrì nel suo cuore ciò che noi ignoravamo o cercavamo di scansare. Sentì dentro di sé quanto noi, stanchi e spaven-tati, non riuscivamo a discernere. Amo pensare che nei suoi soliloqui con Gesù, egli, da ricco divenuto povero, da intellettuale e artista fattosi maestro elementare, capace di prendere per mano adulti e fanciulli per riportarli addirittura alla scuola materna; prete tutto d’un pezzo, al punto che alcuni sconsiderati poterono definirlo integrista, ripetesse per sé e per i chiamati ad operare prodigi (Cfr Me 16, 15-18) l’accorata implorazio-ne di Giovanni Papini: “Ama i tuoi preti, Cristo, amali tutti e non solo i puri e gli ardenti, ma anche quelli che ti seguono a guisa di servitori rassegnati, anche quelli che dubbi e tentazioni consumano, anche quelli che ripetono le tue, parole di fuoco come lo scolaro stanco ripete la lezione tante volte imparata e mal ricordata” (Cristo e i santi. Seconda preghiera a Cri-sto, Mondadori 1962, p. 722). Una specie di invettiva, confìtta nelle proprie carni e lanciata provocatoriamente ai quattro venti: a preti e laici.Sono quarant’anni che Don Lorenzo ha reclinato il capo come Gesù in croce.L’ultimo suo scritto Lettera a una profes-soressa apparve nelle librerie un mese prima della sua morte straziante e provocò consensi e polemiche. Ora, a fari spenti, cancellati applausi e critiche, il libro rivela il grande cuore dell’autore e, si facciano pure correzioni e aggiunte, le sue azzec-cate e pungenti denunce al fine di meglio provvedere alla fame di amore e di sapere che tormenta l’uomo, tutti obbligano e condizionano.È risaputo che egli volle essere sepolto con gli scarponi da montagna ai piedi.È un simbolo ed è un invito a camminare, a mettere sul conto che le ardue frontiere della civiltà dell’amore non si varcano senza sudori, lacrime e sangue.Don Lorenzo invita a camminare, a progre-dire e a salvare; a testimoniare, in faccia alle nazioni e con personale disponibilità al sacrifìcio, che “dovere di ogni uomo, dove-re impellente del cristiano è di considerare il superfluo con la misura delle necessità altrui” (Discorsi, messaggi, colloqui di Giovanni XXIII, volume IV, p. 524).Chi sosta alcun poco nella disadorna casa canonica di Barbiana è invitato a leggere

l’esortazione biblica di un compagno di seminario del Priore, rivolta all’uomo che anela a scalare la montagna delle beatitudini: “Con l’augurio, la speranza, la preghiera che non soltanto rimangano le cose e il luogo della testimonianza di Don Lorenzo, ma che il suo messaggio sia raccolto e seguito, perché soprattutto gli ultimi siano promossi e aiutati a vivere pie-namente la loro dignità umana e cristiana (card. Silvano Piovanelli). Vedasi Il segreto di don Milani di Mario Lancisi, Piemme 2002, pag. 226. Per Don Milani, amico dei poveri e dei piccoli, precursore di nuovo ordine sociale “fondato sulla verità, costruito secondo giustizia, animato e integrato dall’amore e posto in atto nella libertà (Giovanni XXIII, Pacem in Terris) conviene ricordare ciò che venne detto ai funerali di Léon Bloy, il polemista francese al quale rassomigliava per molti tratti della spirituale fisionomia, per certe ribellioni e provocazioni brucian-ti: “Aveva numerosi amici, tra cui alcuni convertiti. Siamo in molti, grazie a lui, ad essere ritornati da lontano. Se ci fu qualche esagerazione e qualche violenza nel suo linguaggio, Dio terrà conto, a suo favore, di tutto il bene che ha voluto fare ed ha realmente compiuto” (Introduzione a Leon Bloy, Il sangue del povero, Ed. Paoline 1962, pp. 13-14). Siamo in molti ad essere ritornati da lon-tano! In un certo senso, anch’io, vecchio prete, mi sono sentito chiamato a tornare da lontano per avvicinarmi alla semplicità e parresìa del vangelo, alla rinuncia delle frange per specchiarmi sulla nuda croce; ed è per questo che oso invitare anziani, giovani e giovanissimi a non aver paura di perdere le cose al fine di custodire e trasmettere l’unica realtà che conta: la carità. Depongo questo fiore di campo sulla fossa che custodisce il corpo di Don Lorenzo, la cui anima splende come stella nei cieli altissimi.

“Siamo in molti ad essereritornati da lontano”

Siamo in molti ad essere ritornati da lontano. Io qui, dinanzi a voi, non mi sento chiamato a fare una conferenza, ma a dare una testimo-nianza. Anch’io mi sento chiamato a ritornare da lontano, accettando in maniera sempre più profonda le provocazioni che don Lorenzo Milani ha seminato, anche consapevolmente, nella sua breve esistenza terrena:

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- la determinata ricerca dell’Assoluto- la povertà vissuta “sine glossa”- l’obbedienza senza servilismo- la pastorale che va all’essenziale (l’educa-

zione / la scuola)- la consapevolezza del suo ministero sacer-

dotale.

La determinataricerca dell’Assoluto

Nell’ottobre del 1942 la famiglia che si era trasferita da Firenze a Milano dodici anni prima, ritorna a Firenze. Lorenzo era iscritto all’Accademia delle Belle Arti di Brera, si era appassionato allo studio della pittura come decorazione e, in particolare, della pittura che decora le chiese. Riflette sulle esigenze di carattere spirituale dell’arte sacra, e perciò sul rapporto di suggestione che deve esserci tra un affresco e i fedeli che pregano. Lo studio lo avvicina alla liturgia, ai motivi della liturgia e quindi ai contenuti della fede cristiana.

Per tale motivo vuole incontrarsi con un pre-te e va da don Raffaele Bensi che così racconta il primo incontro:

“È stato sotto un bombardamento che l’anima di don Milani mi si è spalancata per la prima volta. Era il luglio 1943. Stavo to-gliendomi i paramenti dopo aver celebrato la Messa; vidi che un giovane mi aveva seguito in sacrestia. Feci cenno al nuovo venuto di accomodarsi in confessionale. I ragazzi che mi venivano a cercare in ge-nere desideravano confessarsi.Ma lui mi disse: “Mi chiamo Lorenzo Mi-lani, ricorda? Ci siamo conosciuti l’anno scorso, davanti alla prefettura. Non voglio confessarmi. Non sono nemmeno cristia-no, anche se, come figlio di un’ebrea, ho ricevuto il Battesimo per salvarmi il corpo. Ora è l’anima che mi vorrei salvare. Desi-dero parlare con lei”.Allora gli risposi che non avevo molto tempo. Dovevo correre subito a S. Quirico di Marignolle, fuori città, dove un giovane prete, mio alunno, era morto lo stesso giorno. “Se permette - mi disse il giovane - l’accompagno”. Andammo così sotto il bombardamento, fino in campagna. La sua anima mi si spalancò tutta, Capii di aver davanti un uomo molto diverso da tutti quelli conosciuti fino allora. Quel ragazzo,

anche se stava ancora cercando la verità, era pieno di Spirito Santo. Poi quando fummo davanti al letto del giovane prete morto, don Dario Rossi a S. Quirico, egli mi disse, semplicemente: “Io prenderò il suo posto”…Da quel giorno fino all’autunno, si “ingoz-zò” letteralmente di Vangelo e di Cristo. Quel ragazzo partì subito per l’Assoluto, senza vie di mezzo, Voleva salvarsi e sal-vare ad ogni costo” (intervista di Nazareno Fabbretti, La Domenica del Corriere, 26 giugno 1971).

Il primo approccio col suo Cristo lo ebbe in un messale che trovò nella cappellina della sua fattoria a Gigliola nel territorio di Monte-spertoli, vicino a Firenze. Scrisse all’amico Del Buono:

“In una cappella di proprietà della fami-glia, ho trovato un messale. Ho letto la Messa.«Ma sai che è più interessante dei ‘Sei personaggi in cerca di autore?»”

Nel novembre 1943 entra nel Seminario Maggiore di Firenze per farsi prete.

Come spiegare questa contemporaneità di conversione e di vocazione sacerdotale?

Diceva sua madre: “Mio figlio era in cerca dell’Assoluto. Lo ha trovato nella religione e nella vocazione sacerdotale”.

Della sua vita di Seminario così parla sua madre:

“I primi tempi fu un ragazzo molto felice, felice come l’avevo visto poche volte. Solo in Seminario Lorenzo trovò subito ciò che istintivamente cercava con tutto se stesso: una ragione assoluta per vivere, una disci-plina costante. Dopo vennero i primi urti, le incomprensioni da parte dei superiori. Lui era docile, obbediente come del resto era sempre stato; ma la sua personalità, così singolare, così netta, unica nel suo genere, dovette trovare impreparati quelli che dovevano educarlo. Però non fu solo un conflitto di uomini: fu soprattutto uno scontro tra concezioni del tutto diverse: la laicità di mio figlio prima della “conversio-ne” era sempre stata rigorosa e coerente quanto fu la sua religiosità dopo: non poteva venire a patti col mondo, accettare compromessi, con nessuno, per nessun motivo” (Intervista di Nazareno Fabbretti, Il Resto del Carlino, 8 luglio 1970).

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La povertà vissuta “sine glossa”

In Seminario, in quegli anni, si conduceva una vita davvero povera - Lorenzo ebbe a defi-nire il Seminario “un ambiente proletario”, an-che se dopo si espresse con un giudizio taglien-te: “I seminaristi nati poveri sono tutti, quasi automaticamente, passati dall’altra sponda”. Lorenzo accentuò l’austerità del Seminario. Al posto del letto mise una branda. Non volle nemmeno lo scaffale per i libri, che sistemò con gusto su delle assi di legno. Sostituì le scarpe con un paio di sandali ricavati da un fascione di motocicletta e legati con lacci di cuoio.

Rimase molto colpito dalle parole di una donna, la quale, vedendolo mangiare sulla strada una bella fetta di pane bianco - il pane fornito durante la guerra era a tessera e molto scuro - gli gridò dalla finestra: “Non si mangia il pane dei ricchi nelle strade dei poveri”.

Una donna della parrocchia di San Dona-to a Calenzano, racconta: “Notammo che conduceva una vita molto modesta. Badava che il suo livello non fosse superiore a quello dei parrocchiani”. Ciò spinse don Lorenzo ad essere spietato sia con se stesso, sia nei con-fronti di quei comportamenti della Chiesa e dei confratelli sacerdoti che riteneva difformi dal Vangelo. Il prete non dovere avere in casa una “comodità”, come la chiamava, se anche una sola famiglia della parrocchia non la possedeva. Lo angustiava infatti l’idea che i parrocchiani potessero inserirlo nella classe di “quelli che hanno anche il superfluo”. Essere il più pove-ro di tutti gli abitanti di San Donato fu per il giovane cappellano un assillo costante di vita e un preciso impegno pastorale. Ciò per lui era condizione necessaria per “poter parlare sem-pre dalla cattedra ineccepibile della povertà”, come scriverà in Esperienze Pastorali.

Essere realmente povero e “mettersi dalla parte dei poveri”, “stare con i poveri”. Sempre il suo confessore, don Bensi, ci racconta:

“Straordinaria la sua capacità di annullarsi fra i poveri, fra i ragazzi e fra la gente senza nome e senza importanza. A lui è sempre bastato amare, sino alla fine, po-chi ragazzi; non ha mai preteso di amare

l’umanità, e lo ha scritto chiaramente tante volte. Ricordo un giorno che capitai a Barbiana, senza preavviso, verso sera, quand’era già attaccato dal cancro. Lo trovai, come al solito, nella stanza che serviva da scuola. Era steso nel buio su un pagliericcio. Accanto aveva una donna, la vecchia scema del paese, e i ragazzi meno intelligenti. Erano tutti lì in silenzio, con gli occhi fissi su di me, come se stessero assa-porando fino in fondo la loro sofferenza, la loro solitudine, la loro sconfitta umana. E lui era uno di loro, non diverso, non migliore: ed era già condannato a morte. Mi vennero i brividi. Capii allora, più che in ogni altro momento, il prezzo della sua vocazione, l’abisso del suo amore per quelli che aveva scelto e che lo avevano accettato. L’uomo che sapeva tante lingue, in grado di parlare di teologia, di filoso-fia, d’arte, di letteratura, d’astrologia, di matematica, di politica come pochi altri, lì, nel buio di quella stanza, accanto a quei “mostri”, fu per me, e rimane, l’immagine più eroica del cristiano e del sacerdote”.

Poco più di un anno prima di morire scriveva ad una giovane:

“Se vuoi trovare Dio e i poveri bisogna fermarsi in un posto … Quando avrai perso la testa, come l’ho persa io, dietro poche decine di creature, troverai Dio come premio … È inutile che ti bachi il cervello alla ricerca di Dio o non Dio … Ai poveri scuola subito, prima di essere pronta, prima di essere matura, prima di essere laureata, prima di essere fidanzata o sposata, prima di essere credente. Ti ritroverai credente senza nemmeno accorgertene”.

L’obbedienza senza sotterfugie senza servilismo

Don Lorenzo Milani scrive e pubblica la Lettera ai cappellani militari toscani che hanno sottoscritto il comunicato dell’11 feb-braio 1965, nel quale definivano l’obiezione di coscienza “estranea al comandamento dell’amore e espressione di vita”.

Per questa lettera viene rinviato a giudizio per apologia di reato. Il processo si svolge a Roma.

Non potendo essere presente, perché ormai gravemente ammalato, scrive una Lettera ai giudici.

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Il 15 febbraio 1966 il Tribunale lo assolve. Il pubblico ministero si appella e il 28 ottobre del 1968, quando ormai don Milani è già morto, la Corte di Appello, modificando la sentenza di primo grado, condanna la Lettera ai cappellani.

Risposta di don Lorenzo Milani ai cappellani militari e Lettera ai giudici saranno pubblicati in un volumetto come documenti del processo col titolo: “L’obbedienza non è più una virtù” (Libreria Editrice Fiorentina). Il titolo riporta una frase di don Milani, ma fuori contesto. Infatti egli scrive:

“A Norimberga e a Gerusalemme sono stati condannati uomini che avevano obbedito. L’umanità intera consente che essi non dovevano obbedire, perché c’è una legge che gli uomini non hanno forse ancora ben scritta nei loro codici, ma che è scritta nel loro cuore. Una gran parte dell’umanità la chiama legge di Dio, l’altra la chiama legge della Coscienza”.“C’è un solo modo per uscire da questo macabro gioco di parole: Avere il corag-gio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene fare scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto”.“La guerra difensiva non esiste più. Allora non esiste più una guerra giusta né per la Chiesa né per la Costituzione. A più riprese gli scienziati ci hanno avvertiti che è in gioco la sopravvivenza della specie umana. E noi stiamo qui a questionare se al soldato sia lecito o no distruggere la specie umana”.

Quando, nella parrocchia di S. Donato a Ca-lenzano, morì il vecchio prevosto, don Daniele Pugi (12 settembre 1954), don Lorenzo Milani sperava di prenderne il posto come parroco - oltretutto, anche perché così era successo nella parrocchia confinante, dove proprio quell’anno un nostro compagno di classe era succeduto al Parroco defunto -, ma non mosse foglia, anzi… Scriveva la mamma alla figlia il 29 settembre: “Lorenzo non viene neanche a vedermi perché non credano che va a brigare in Curia. Lascia che arrivino in Curia tutte le calunnie e catti-verie possibili e non fa niente”.

Don Lorenzo scriveva a sua madre:

“Bisogna che tu tenti di capire che un San Donato brigato, oggi non mi vuol dir nulla e domani non sarà che un continuo tormento interiore, e leticare esteriore coi preti”.

E il 14 novembre 1954 Don Lorenzo Mi-lani è nominato “Priore” di Sant’Andrea a Barbiana.

Barbiana: un gruppo di case sparse tra i bo-schi di Monte Giovi nel Mugello, a 7 chilometri da Vicchio di cui è frazione. Quando vi arriva (6 dicembre 1954), conta meno di cento anime. Senza luce elettrica, senza strada, senz’acqua, senza servizio postale. Il giorno dopo va a Vic-chio per comprarsi una tomba nel camposanto: la tomba “ lo avrebbe fatto sentire totalmente legato alla sua nuova gente nella vita e nella morte.”. E alla mamma che con altri suoi amici cercavano di rincuorarlo scrive:

“Non c’è motivo di considerarmi tarpato se sono quassù. La grandezza di una vita non si misura dalla grandezza del luogo in cui si è svolta, ma da tutt’altre cose. E neanche la possibilità di fra del bene si misurano sul numero dei parrocchiani”.

Il libro “Esperienze pastorali” uscì con tutte le carte in regola: il “nulla osta” della Curia fiorentina, l’ “imprimatur” del Card. Dalla Co-sta, la prefazione dell’arcivescovo di Camerino, Mons. Giuseppe D’Avack.

Tuttavia nel dicembre il Sant’Uffizio giudica Esperienze pastorali “inopportuno”; deve essere ritirato dal commercio.

Don Lorenzo accetta il verdetto con digni-tosa sottomissione.

Ecco alcune parole della lettera a P. Regi-naldo Santilli, il revisore di Esperienze pasto-rali, che aveva concesso il ”nulla osta” per la stampa:

Caro Padre, mi metto nei suoi panni e ca-pisco le sue preoccupazioni … In quanto a me le cose sono invece, se non erro, diverse … Se il libro fosse messo all’Indi-ce, chiederei al Cardinale il permesso di tenerne una copia per mio uso, per poterla rileggere quando sarò vecchio e sorridere bonariamente sui miei affetti giovanili … Scrupolo interiore d’aver fatto immenso male alle anime e alla Chiesa non riusciran-no ad infondermelo e non solo per le tante

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testimonianze contrarie che ho qui sott’oc-chio, ma soprattutto per un semplicissimo motivo che si legge anche nella Dottrina: quando accuso un peccato in confessione mi sento sempre domandare se l’ho fatto con piena coscienza e deliberata volontà. So che non è possibile far del male in questo mondo se non si sia adempiuto a queste due condizioni essenziali.Scrupolo canonico non ho. Sono perfet-tamente in regola: ho consegnato un manoscritto al mio Padre Spirituale ed egli me lo ha reso con l’imprimatur del mio Ve-scovo e con la prefazione impegnatissima di un altro Vescovo. Additarmi all’infamia non possono perché io mi piego subito a qualsiasi provvedimento e dunque infame non sono … Di farmi perdere l’affetto dei miei scolari non hanno potere. Dicono che la scuola sia il mio feticcio. Non è vero. Ma creda però che la gratitudine di questi ragazzi e delle loro famiglie è a prova di bomba … E allora mi colpiranno con un provvedimento? Se mi togliessero Barbiana mi toglierebbero poco … Se non sarò giudicato capace di fare il parroco di Barbiana vorrà dire che Dio mi chiama a lasciare l’apostolato e cercare una via di maggior raccoglimento. Questo è il patto che abbiamo fatto tra me e Lui … Mi la-sceranno a Barbiana e mi costringeranno a mutare mezzi di apostolato? Non lo credo. Sarà forse eresia dire che la scuola è mezzo migliore che non il flipper. Ma non sarà peccato stare, come sto, quassù sul Monte Giovi senza dar noia a nessuno a far scuola a sei poveri bambini … Mi scusi il tono scherzoso che forse stona con la sua preoccupazione, ma creda che non ho motivo di allarme per me, né velleità riformiste o ereticali. Sono ormai allenato a prender quello che mi danno senza far tragedie e piuttosto tentando di leggervi dentro quale sia il modo più semplice di sortirne in grazia di Dio e salvarsi l’ani-ma”… Insomma io spero di averla tranquil-lizzata. Comunque per scrupolo verso di lei, alla prossima occasione in cui capiterò a Firenze, vedrò don Bensi e sentirò da lui se è del parere di fare come lei dice oppure (come sempre mi ha detto) di seguitare a stare in pace” (10 ottobre 1958).

Su “Esperienze pastorali” è riportata una lettera a don Piero in cui, fra l’altro, dice:

“Quando quattro anni fa arrivò l’ordine di essere severi con i comunisti io l’ho ub-bidito. Per quel decreto mi sono lasciato odiare, abbandonare, disprezzare da tanti miei poveri figlioli. Non ho alzato un la-mento contro il Papa perché sapevo che ha ragione. Ma ora che sono stato quattr’anni

sulla breccia per lui, ora che con tanta sofferenza ho chiarito ai poveri l’assoluto rifiuto del marxismo da parte della Chiesa e mia, e ci ho rimesso tanti miei figlioli, sangue del mio sangue, ora non voglio sentirmi dare del demagogo solo perché vo in cerca delle pecorelle smarrite. Voglio essere trattato alla pari dei missionari. A loro si permette di varcare gli oceani e di addentrarsi nella giungla. Nessuno per questo li accusa di spirito di avventura”.

Tutte le incomprensioni tra don Milani e il suo Vescovo, tra don Milani e i confratelli preti, tra don Milani e certe fasce di laici militanti fu-rono sempre sul piano pastorale, mai sul piano dell’ortodossia e della disciplina. Nella lettera i Giudici egli dichiara di essere

“severamente ortodosso e disciplinato e nello stesso tempo appassionatamente attento al presente e al futuro. Nessuno può accusarmi di eresia e di indisciplina. Nessuno di aver fatto carriera. Ho 42 anni e sono parroco di 42 anime”.

Una pastoraleche va all’essenziale

Scartabellando tra i dati dei registri parroc-chiali e scolastici don Milani si accorse che le ore dedicate alla religione, in parrocchia e a scuola, rappresentavano addirittura un quinto dell’istruzione complessiva impartita ad un ragazzo. Se nonostante le tante ore di inse-gnamento la cultura religiosa dei parrocchiani di San Donato era “praticamente nulla”, il motivo andava ricercato, secondo il cappella-no, nell’assoluta mancanza di istruzione. “Da bestie si può diventare uomini e da uomini si può diventare santi, Ma da bestie santi d’un passo solo non si può diventare”, argomentò don Lorenzo. E diceva:

“Quando un giovane operaio o contadino ha raggiunto un sufficiente livello di istruzione civile, non occorre fargli lezione di religione per assicurargli l’istruzione religiosa. Il pro-blema si riduce a turbargli l’anima verso i problemi religiosi”.

“La povertà dei poveri non si misura a pane, a casa, a caldo, ma sul grado di cul-tura e sulla funzione sociale”.

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Diceva che la cultura ha una duplice fun-zione: sociale, perché il sapere consente al povero di elevarsi al rango del ricco; pastorale, in quanto l’istruzione aiuta la comprensione dell’insegnamento religioso. Le due funzioni sono rigidamente distinte. Diceva:

“Vi prometto davanti a Dio che questa scuola la faccio soltanto per darvi l’istru-zione e che vi dirò sempre la verità di ogni cosa, sia che faccia comodo alla mia ditta, sia che le faccia disonore”.

Non guardava né il partito, né la fede dei suoi ragazzi.

Anticipò di una diecina di anni la distinzione del Papa Giovanni XXIII tra l’errore e l’errante, tra il peccato e il peccatore. Scrisse a Pipetta, un giovane attivista comunista di Cadenzano, nel 1950:

“È un caso, sai, che tu mi trovi a lottare con te contro i signori … Ma un giorno che avremo sfondata insieme la cancellata di qualche parco, installata insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordate-ne, Pipetta, non ti fidar di me, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno io non resterò là con te. Io tornerò nella tua casuccia piovo-sa e puzzolente a pregare per te davanti al mio Signore crocifisso”.

Anche a Barbiana don Lorenzo decide di fare scuola. I motivi sono espressi con chiarezza in Esperienze pastorali:

“Un parroco che facesse dell’istruzione ai poveri la sua principale preoccupazione e attività non farebbe nulla di estraneo alla sua specifica missione…Come padre non può permettere che i suoi figlioli vivano a livelli umani così differenti e che la gran maggioranza viva anzi a un livello umano così inferiore al suo e addi-rittura non umano.Come evangelizzatore non può restare indifferente di fronte al muro che l’igno-ranza civile pone tra la sua predicazione e i poveri”.

Nello stesso tempo don Milani ha accostato il mondo della cultura dominante con la stessa intenzione evangelizzatrice, se è vero che il prendere coscienza della propria situazione di colpevolezza è essenziale all’annuncio evange-lico. In nessun modo egli blandisce gli intellet-

tuali, i politici, i potenti: Essi hanno “troppo e troppo male usato dell’intelletto”, oppure non si sono dati cura di “farne parte agli infelici”. Chi andava a trovarlo a Barbiana difficilmente non rimaneva graffiato nella coscienza.

Certamente, il suo modo di impostare l’azio-ne pastorale, i suoi metodi, la sua evangelica originalità sono causa di contrasti non solo con i confratelli preti, ma anche con la Curia fiorentina.

“Ieri sono stata da Lorenzo … - scrisse mamma Alice alla figlia Elena - né so capire se l’intransigenza, il raziocinio assoluto, la purezza assoluta di Lorenzo siano una cosa bellissima o una cosa inumana”.

Così, don Bensi gli scrisse:

“ho letto attentamente la lettera all’Arci-vescovo e ne sono rimasto commosso. Mi è sembrata rigurgitante di amore anche se espresso con un linguaggio fiero e senza diaframmi e non facilmente accettabile da persone non abituate … Mi sembra che certe tue dure espressioni andrebbero tradotte in linguaggio corrente”.

La consapevolezzadel suo ministero sacerdotale

Ecco delineata la consapevolezza che don Lorenzo aveva del suo ministero: - Il dire Messa- lo scopo della scuola (riempire la chiesa)- andare alla gente : perdonaci, Signore di

non essere là con loro …- la sicurezza delle sue scelte.

“Non ci sono rimpianti nella mia vita, né nostalgie. I miei superiori li amo; nessuno può dimostrarmi di essere stato punito o di non aver obbedito. Della verità non si deve aver paura; un sacerdote non ha nulla da perdere; ovunque vada troverà sempre qualcuno da amare, non a parole che sarebbe un mostruoso misfatto e una ignobile falsità, ma con i fatti. Amare non significa dare qualcosa; significa dare noi stessi, significa essere, e i poveri sono quel-li che Dio, oggi in particolare, ha gettato sul nostro cammino; essi sono il segno di contraddizione: di fronte a loro bisogna

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scegliere. Non ci sono vie di mezzo, né possibili compromessi. Non si può vivere senza innamorarsi. La soluzione che io ho trovato è una delle infinite”.

E vorrei proprio in conclusione, perché qual-cuno potrebbe anche immaginare che una vita vissuta così, sempre sul filo del rasoio, sempre in questa tensione, sia una vita che poi si mette in affanno, che ti turba dentro, che non ti da’ serenità. Voglio, invece, darvi la sua testimo-nianza proprio sulla gioia. Don Lorenzo scrive ad una sua zia Silvia molto malata, prossima alla morte, lui che era già gravemente malato, e poi sotto la cura che era molto dolorosa con molte ore da passare a letto. Scrive così:

“Passare tante ore a pensare, mi pare una bellissima cosa. Spero che non sian tutti pensieri tetri. Se la memoria è onesta, deve richiamare alla mente, in parti uguali, le cose liete e le cose tristi, e se la memoria è furba ricorda solo le cose liete; e questo vale per il passato, per il presente e per il futuro. Io, per esempio, me la godo; centinaia di figlioli carissimi si son persi malamente, ma non me ne ricordo mai. La memoria è tappezzata di finali generosi, buoni, o almeno figlioli perduti che sono tornati pentiti. E in quei tempi in cui certe critiche, anche amare, venivano fatte an-che nel presbiterio, come si dice... Vedo dei giovani preti e chierici, di sinistra, che han perso l’equilibrio dalla parte della amarezza. Leggono, ascoltano, raccontano dalla mattina alla sera di fatti, di episodi, di situazioni in cui la chiesa i cattolici si disonorano. I fatti spesso sono veri, anzi spesso non sono neanche il peggio vero, eppure questa loro dignità di fatti veri che pure è migliore di quella dei fatti, che ci offre certa stampa, è più chiara dall’essere stati scelti, dall’essere stati presenti e al pensiero; se la scoperta del male deve prendere tanto posto nella nostra vita, da non saper più guardare con un sorriso affettuoso te divertito, tutte le cose buone che pur esistono nel mondo e nella chiesa, allora meritava non scoprirlo. Rovistiamo, dunque, negli errori di casa nostra, solo quel tanto che basta per non ripeterli noi, quel tanto che basta per contribuire, anche noi, senza falsa umiltà, all’educazione e istruzione dei nostri confratelli e supe-riori, compresi vescovi e papa, che hanno bisogno come tutti e forse più di tutti, ma dopo aver ottenuto questi bei scopi, basta!

Non ne parliamo più, ci si può far sopra una risata divertita. Se prendiamo il vuoto tragico della catastrofe, vuol dire che non crediamo in Dio e nella Provvidenza, vuol dire che non siamo nella grazia di Dio. Combatti fino all’ultimo sangue e a costo di farti relegare in una parrocchia di novan-ta anime in montagna, e farti tirar via dal commercio, sì tutto, ma senza perdere il sorriso sulle labbra e nel cuore; e senza un attimo di disperazione e di malinconia o di scoramento o di amarezza. Prima di tutto c’è Dio, e poi c’è la Vita eterna” 2.

Conclusione

Possiamo concludere con le parole del sa-cerdote che l’ha amato di più, aiutato di più, stimato di più, don Raffaele Bensi:

“Don Lorenzo Milani era un illuminato, un profeta, un testimone unico nel suo genere. È un gran bene che ci sia stato. Sarebbe un disastro se ce ne fossero altri, voglio dire proprio come lui, e senza es-sere quello che lui era. Non so se riesco a farmi capire. Era un cristiano, ma anche un ebreo; un piede, a suo modo, nel Vecchio testamento l’ha sempre tenuto. Di qui il suo rigore, le sue collere, la sua spaventosa intransigenza.Chiedeva tutto, esigeva il massimo, la per-fezione; in questo, se si vuole, era anche un po’ disumano. Ma io so che pagava per primo, che non si concedeva indulgenze, e quel che chiedeva alla Chiesa, al Vescovo lo chiedeva per amore. La sua ostinazione, per esempio, nel chiedere al vescovo che restituisse a lui, prete colpito, calunniato, esiliato, l’ “onore” che gli spettava, non era per se stesso, ma per il sacerdozio, per il sacerdote, soprattutto per i suoi ragazzi.Ma queste son cose che si capiranno bene soltanto col tempo. Don Milani è più per domani che per oggi, di questo son sicuro”.

Questo “domani” ormai è arrivato. Lo dimostra anche la vostra iniziativa e la vostra presenza. numerosa e visibilmente partecipe. Grazie.

2 G. LENTINI, Vivere con gioia. Don Lorenzo Milani (Rogate, Roma 1982) 185.

Porgo un benvenuto a tutti. Rivolgo un deferente e cordiale saluto a nome dell’intera comunità scolastica a S. E. il Dr. Ben-Hur Oded, ambasciatore d’Israele presso la Santa Sede.

Siamo onorati della Sua presenza e ben lieti di ospitarLa in questo nostro Istituto, ubicato nella città di Trani, segnata da un’antica anima ebraica.

Con molta probabilità si ritiene che il primo nucleo di ebrei a Trani derivi da comunità in fuga dalla Spagna islamica a seguito dell’intol-leranza degli Almohadi (1148-1154).

Il loro numero si accrebbe certamente in ma-niera ulteriore quando la vicina Bari fu distrutta per ritorsione nel 1156 da Guglielmo I il Malo; probabilmente molti dei suoi abitanti ebrei fuggirono trasferendosi a Trani apportando in quella comunità il loro tradizionale amore per lo studio e la cultura.

Altro incremento si ebbe in questa città al tempo della espulsione degli ebrei dalla Francia voluta da re Filippo Augusto; come conseguen-za di tale evento alcuni di essi si sarebbero quindi stabiliti a Trani verso il 1182.

L’insediamento di una colonia ebraica a Trani e la sua considerevole espansione nel tempo va senza dubbio ricercata nelle vaste prospettive commerciali che il suo porto permetteva; infatti

Indirizzo di saluto del Direttore dell’Istituto

di DOMENICO MARRONE *

Incontro culturale con l’Ambasciatored’Israele presso la Santa Sede1

questo fu per alcuni secoli epicentro delle atti-vità economiche con le Repubbliche marinare e con l’Oriente. A questo proposito è neces-sario considerare che la giudecca, il quartiere ebraico di Trani, era strettamente collegata al porto ed occupava il nucleo principale della città antica all’interno della prima murazione longobardo-bizantina.

Nel XV secolo, a seguito dell’espansione economica delle loro attività, gli ebrei molto probabilmente incominciarono ad abitare anche in un rione, attualmente chiamato “Il casale”, ubicato fuori dell’antica giudecca a ridosso della seconda murazione di Trani, quella federiciana.

Il quartiere giudaico attualmente detto di S. Donato occupava buona parte del primitivo perimetro cittadino ed è tuttora ricordato nella toponomastica con antiche incisioni sui muri indicanti via La Giudea, via Sinagoga, via Della Giudecca, vico La Giudea, via Moisè da Trani ed altre ancora. Quindi, se si considera l’attuale via La Giudea e il largo Scolanova dove sorge tuttora l’omonima sinagoga, fino a giungere in prossimità della porta antica e a tutta la fitta rete di viuzze e vicoli che s’intersecano in

* Direttore Istituto Superiore di Scienze Religiose San Nicola il Pellegrino - Trani.

1 Incontro tenutosi presso il Museo Diocesano mer-coledì 5 novembre 2008.

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questa zona si può facilmente constatare che gran parte del primitivo nucleo cittadino era abitato da ebrei.

Nell’ambito urbano descritto sorgevano ben quattro sinagoghe poi trasformate in chiese e presero il nome di San Leonardo Abate, S. Pietro Martire, Ss. Quirico e Giovita e Santa Maria in Scolanova. Le prime due vennero in seguito demolite ma se ne conosce sicura-mente il luogo dove erano edificate, mentre sopravvivono quella dei SS. Quirico e Giovita (in seguito chiamata S. Anna) e quella di Santa Maria in Scolanova, verosimilmente la più an-tica in quanto è possibile sia stata edificata tra la fine del XII secolo e l’inizio del XIII da ebrei immigrati a Trani dalla Germania, mentre quella di S. Anna è di costruzione più recente, infatti venne completata nel 1247, data riportata su una lapide marmorea tuttora esistente.

È interessante ricordare che queste ultime sono le uniche sinagoghe, edificate nel Me-dioevo, che sopravvivono nel Mezzogiorno ita-liano. Inoltre gli ebrei possedevano un proprio cimitero situato fuori le mura della città oltre la chiesa della Trinità della Cava (ora chiamata S. Francesco), sul lato destro della strada ma-rittima che portava dall’abitato urbano alla penisola di Colonna.

A seguito dello sviluppo culturale che si ebbe nella comunità ebraica di Trani nei secoli XII e XIII, la cultura ebraica locale, frutto dell’antica tradizione biblico-talmudica, trovò la sua linfa nelle 200 famiglie ebraiche abitanti a Trani in-torno al 1160, alla cui testa erano rabbi Heliac, rabbi Natan l’Esegeta e rabbi Saqah.

Trani fu centro di notevole cultura ebraica proprio nel periodo della decadenza culturale della comunità di Bari, la cui dottrina si spense contemporaneamente all’intensificarsi di quella tranese. Trani divenne il faro dell’ebraismo in tutta la Puglia, ma anche nel mondo. Il più antico codice ebraico è nato a Trani da Isaia il Giovane e sono due i grandi maestri dell’ebrai-smo mondiale che vi hanno vissuto: Isaia da

Trani nel tredicesimo secolo e Mosè da Trani nel sedicesimo secolo.

A seguito di complesse e tormentate vicis-situdini storiche la comunità ebraica tranese andò via via scomparendo. Di recente, dopo 500 anni, si assiste a una rinascita dell’ebraismo a Trani e una delle più antiche sinagoghe, quel-la di Scolanova, è stata restituita alla comunità ebraica. E il mio pensiero in questo momento è rivolto a voi, gentilissimi rappresentanti della comunità ebraica oggi qui convenuti. Giunga a tutti voi l’attestazione più sincera di stima e gratitudine per la vostra presenza. Insieme, par-tecipi della medesima radice e della medesima linfa (cfr. Rom 11,17), possiamo perseverare nella fedeltà alla vocazione divina ad essere “luce delle nazioni” (Is 42,6; 49,6).

Certamente questo nostro incontro che impropriamente abbiamo chiamato incontro ebraico-cristiano, si situa invece nel contesto di quegli scambi culturali auspicati dall’articolo 7 dell’Accordo Fondamentale tra la Santa Sede e lo Stato d’Israele, siglato il 30 dicembre 1993, che così recita:

“La Santa Sede e lo Stato d’Israele rico-noscono di avere un comune interesse nel promuovere e incoraggiare gli scambi culturali tra gli istituti Cattolici in tutto il mondo e gli istituti di formazione, di cultura e di ricerca in Israele…”.

La storia ultramillenaria degli ebrei e dei cristiani ha reso non facile l’approdo a quel-l’Accordo del 1993. Le trattative cominciarono nell’estate del 1991. Subito si palesarono dei problemi: alcuni di stile, altri di sostanza. I primi incontri rivelarono la principale disputa tra i due: Israele mirava a raggiungere prima di tutto un accordo sulle relazioni diplomati-che tra i due Stati, e ad affrontare solo dopo questioni come la libertà di fede, la tassazione ecclesiastica, l’educazione, eccetera. La Santa Sede, invece, voleva affrontare subito le que-stioni pratiche e rimuovere dall’ “agenda”, almeno inizialmente, le relazioni diplomatiche. Si raggiunse un accordo sull’ “agenda” il 29 luglio 1992 e si decise di aprire i negoziati di due livelli: un “livello di esperti”, in cui si sarebbe discusso in generale su tutti i temi,

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ed un “livello della Plenaria”, dove si sarebbe discusso solo per comporre le dispute sorte al livello degli esperti. Quest’ultimo sarebbe stato il livello attraverso cui l’Accordo finale sarebbe stato approvato.

Per quanto riguardava Israele, gli obiettivi principali erano la guerra comune all’antisemi-tismo e il riconoscimento non equivoco dello Stato d’Israele. La Santa Sede aveva di mira i diritti e i doveri della Chiesa cattolica in Israele, la garanzia di libertà di rito per i cattolici, lo status giuridico dei sacerdoti, questioni di tas-se, proprietà, luoghi santi, accesso al sistema giudiziario del Paese, ecc.

Dal maggio ’92 - quando le delegazioni della Santa Sede e dello Stato di Israele progettano una Commissione permanente di lavoro - ad oggi, sono stati realizzati, nell’ordine:• l’Accordo fondamentale con Israele (30

dicembre ’93),• i pieni rapporti diplomatici (giugno ’94),• l’Accordo sul riconoscimento della persona-

lità giuridica degli enti ecclesiastici in Israele (10 novembre 1997);

• e l’11 marzo 1999 sono stati avviati i nego-ziati per l’Accordo economico sullo statuto fiscale degli enti ecclesiastici, la partecipa-zione economica statale alle opere sociali ed educative della Chiesa a favore della popolazione, e la restituzione di alcune proprietà ecclesiastiche. Sono stati anni di eccezionale fecondità nei

rapporti diplomatici. Molta strada è stata per-corsa e molti traguardi sono stati raggiunti.

Ritengo che il senso dell’incontro odierno si inserisca sulla scia di un intercambio culturale al fine di promuovere una sempre maggiore conoscenza reciproca che concorra a edifica-re ponti di comprensione e conoscenza e ad abbattere i muri dei pregiudizi e del distacco tra le religioni che spesso hanno dato vita alla demonizzazione l’uno dell’altro.

Per quanto ci riguarda, è necessario prende-re sempre più coscienza che l’identità cristiana è un’identità ricevuta da un altro, e questo altro è Israele, il quale a sua volta, si è cono-

sciuto in quanto ha ricevuto se stesso da Dio. La Chiesa non ha soppiantato il popolo eletto che rimane per sempre la sua linfa vitale; essa è stata accolta nella sua elezione. Il popolo eletto rimane nella storia il segno permanente dell’iniziativa amorosa di Dio verso gli uomini. Giova sottolineare che per favorire un sempre maggiore dialogo di pace, è altresì importante che i cristiani tornino a vivere in medio Oriente. Le comunità cristiane sono sempre state un fattore essenziale per la pace. Devono asso-lutamente tornare a far parte integrante del tessuto sociale di quelle aree. Le aspirazioni al dialogo interreligioso e interculturale possono avere buon esito solo se i cristiani potranno tornare a convivere consensualmente anche al fianco dei loro fratelli arabi musulmani.

È altresì necessario promuovere e favorire pellegrinaggi in Terra Santa e nei Paesi confi-nanti. La nostra Diocesi ne ha programmato uno dal 4 all’11 settembre prossimo venturo.

Sicuramente se con maggior frequenza e in maggior numero i cristiani visitassero la Terra Santa ogni anno, ciò potrebbe incidere maggiormente sul conflitto israelo-arabo, ca-povolgendo la situazione psicologica, attirando investimenti, favorendo una ripresa economica delle industrie turistiche a sostegno del popo-lo palestinese, delle comunità cattoliche e di Israele, Libano, Giordania, Egitto ecc..

Indubbiamente i pellegrini cristiani devono intraprendere il ruolo di “messaggeri di pace”. Si tratta di promuovere ogni iniziativa per la pace nella quale crediamo profondamente, consapevoli, come ha ricordato Papa Benedet-to XVI domenica all’Angelus, che “solo mo-strando un rispetto assoluto per la vita umana, fosse anche quella del nemico, si potrà sperare di dare un futuro di pace e di convivenza alle giovani generazioni di quei popoli che, entram-bi, hanno le loro radici nella Terra Santa”.

Non mi rimane che passare la parola a S. E. il Dr. Ben-Hur Oded, che mi piace salutare e accogliere a nome di tutti voi, come ambascia-tore di pace in mezzo a noi.

Discorso dell’Ambasciatore1

BEN-HUR ODED*

Incontro culturale con l’Ambasciatored’Israele presso la Santa Sede

Devo dire questo prima di cominciare: che io sono il quarto ambasciatore di Israele presso la Santa Sede. Non rappresento il mondo ebraico che, ovviamente, si trova in tutto il mondo. Rappresento lo Stato di Israele (cioè un ente po-litico dove la maggior parte sono ebrei) presso la Santa Sede che, tra l’altro, è anche un ente politico nel senso che è uno Stato che ha una gerarchia molto chiara con un capo di Stato, il Papa, il cardinale Segretario di Stato (che per così dire è il ministero degli affari esteri), altri ministeri. Una gerarchia molto chiara, dunque: ambasciatori, ovvero i nunzi in tutto il mondo, interessi mondiali e così via.

Circa i rapporti Israele-Santa Sede si possono notare tre canali di dialogo che esistono ormai da qualche anno. Il primo canale è costituito dai rapporti tra il mondo ebraico, le organiz-zazioni internazionali ebraiche e la Santa Sede, con il centro della chiesa cattolica nell’ufficio del cardinale Walter Kasper. Attraverso questo primo canale ci si occupa di tanti progetti nel mondo per promuovere la solidarietà, l’assi-stenza umana, la lotta contro l’analfabetismo, contro l’AIDS, per realizzare progetti che si occupano di acqua, tante cose che riguardano il bene per l’umanità.

Un secondo canale di dialogo è quello in-terreligioso che ha in testa i vari rabbini, cioè il rabbinato di Israele e i vari cardinali.

Il terzo canale si occupa di un dialogo molto interessante, che non è necessariamente un dialogo inter-religioso di per sé, cioè il livello teologico che è un po’ difficile da discutere. È un dialogo sulla cultura delle religioni. Per esempio è da sette, otto anni che rabbini e car-dinali discutono su temi morali di grandissima importanza quali l’inizio e la fine della vita, la fecondazione artificiale, l’aborto, l’eutanasia, la sacralità della vita, la famiglia, ecc. Si registra un grandissimo progresso ogni anno. Ci sono degli incontri semestrali. Il dialogo di questo terzo canale è attivo da ormai da 13 anni tra i due Stati, tra i due ministeri degli affari esteri, quello della Santa Sede e quello Israeliano che rappresento qui stasera.

La nostra storia comune di duemila anni ha dato nascita a rivalità, odii, sospetti, persecu-zioni, crociate, antisemitismo. Per molti secoli gli ebrei furono vittime, essendo una mino-ranza in Europa dopo l’espulsione dalla terra promessa vista come punizione. Il risultato è che il popolo ebraico che è stato il padrone di

* Ambasciatore di Israele presso la Santa Sede.1 Discorso tenuto in lingua italiana da S.E. il Dott. Ben-Hur Oded trascritto dal registratore e non rivisto dall’au-

tore. È conservato il tono discorsivo.

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casa per millenni, cominciando dall’inizio della Bibbia, passando da Abramo che è il patriarca, poi Mosè, con l’espulsione dalla terra promes-sa è diventato una minoranza nei paesi della diaspora, innanzitutto in Europa.

Poi è successa una cosa molto strana: grazie al movimento sionista (Sion è una delle mon-tagne a Gerusalemme) e allo stesso fondatore Theodor Herzl che ne ha promosso il rientro, il popolo ebraico è tornato in Palestina, nella terra di Abramo, la terra promessa. Quest’anno ricorre il 60° anniversario di questo evento e della costituzione dello stato d’Israele.

In quella siamo una maggioranza di ebrei, dove i cristiani stranamente sono diventati una piccolissima minoranza, meno del 2%. La maggior parte sono cristiani arabi. Non posso non fare notare che le comunità cattoliche in Israele, in questa zona sciagurata chiamata Medio-Oriente fondano, costituiscono ed edi-ficano ponti di pace, fanno parte del tessuto sociale della zona cercando sempre di contri-buire nell’ambito della pace, per la pace, Gesù principe della pace.

Noi chiamiamo voi cristiani cattolici nel mondo a fare i soldati per la pace, per questa guerra della pace (non è un ossimoro), ad arrivare in questa zona per portare la pace a Gerusalemme, una città che non ha ancora la pace ma sicuramente la vedrà. È un augurio di tutti noi.

Questa rivalità, questi duemila anni di odii, sospetti, discriminazioni, persecuzioni, hanno dato nascita ad altre cose brutte tipo guerre sante, ma non solo tra ebrei e cristiani, ma anche tra altri figli di Abramo, ovvero i mu-sulmani.

Ma possiamo dire che arrivati al 2008 i mali esistenti in questo mondo trovano radici in questa rivalità religiosa, ma io direi peggio an-cora, soprattutto in un nemico più feroce che si chiama abisso d’ignoranza. Quanti conoscono qualcosa sui pilastri principali dell’Islam? Cosa

vuol dire essere musulmano? O chi conosce veramente l’idea della Torah, l’idea del vecchio testamento?

Quello che è peggio è che evitiamo di voler sapere. Diciamo di star bene così, nelle nostre trincee politiche, teologiche, nelle case dove siamo cresciuti. C’è poca voglia di conoscere il prossimo, il diverso.

Ora, siccome questo è il nostro nemico, l’abisso di ignoranza, c’è una soluzione sola che ci può portare sul cammino della conver-sione, della conciliazione. Bisogna cambiare programma, bisogna capire per realizzare che c’è una nuova strada che ci sta chiamando, la strada del dialogo, quella strada che ci porterà alla pace. Pace non nel senso di assenza di guerra. Non è un concetto astratto, neutro. Non è tolleranza. Parlo di pace attiva, parlo di dialogo. L’unica strada, l’unico modo di camminare insieme su questa strada si trova in una parola molto carica, molto bella, molto piccola ma difficile da realizzare che si chiama: EDUCAZIONE.

Toccherei subito il tema del dialogo inter-re-ligioso, un tema molto “in”, molto “chic” per non dire molto sexy, cioè molto diffuso, molto popolare. Ci sono questi incontri interreligiosi in tutto il mondo, cominciando dall’Italia. Ma questa realtà lascia molto a desiderare perché io ritengo che in questi dialoghi inter-religiosi noi saltiamo subito alla seconda fase ignorando la prima. A che cosa mi riferisco?

Solitamente, in questi incontri si incontrano in una grande aula rappresentanti di tutte le religioni monoteiste ed altre religioni. Sul palco siedono un imam, un rabbino, un vescovo che hanno preparato bellissimi discorsi a casa sui valori principali necessari per questo dialogo della pace, dell’amore, della carità, il perdono, il rispetto reciproco. Il pubblico ascolta atten-tamente, applaude, va a casa ed io oserei dire che niente succede dopo questi incontri fino all’anno successivo, fino all’incontro successivo dove ancora non succede nulla perchè appun-

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to siamo dentro queste trincee ideologiche religiose, educative, abbiamo paura di uscire, di trovare l’altro, di fare strada, di stendere la mano per paura di poter contaminare qualcosa nostra, di perdere qualcosa della nostra fede e questo è motivato da un vuoto, da un abisso ignorante, noi non ci conosciamo.

Cosa bisogna fare? Bisogna tornare indietro alla prima fase. C’è un dovere fondamentale per ciascuno di noi di cercare di arricchirci personalmente, autonomamente, tramite internet, film, libri, convegni, gli amici per co-noscere un po’ di più l’altro. Possiamo vivere insieme questa curiosità stando a casa e non in questi convegni internazionali interreligiosi. Dobbiamo prepararci a casa. Solo così sarem-mo disposti ad uscire da quelle famose trincee, che io amo citare come case teologiche e reli-giose, e saremmo disposti a stendere la mano per veramente fare un dialogo.

Cosa vuol dire dialogo? Se voi aprite qual-siasi dizionario di qualsiasi lingua sotto la voce dialogo troverete la seguente spiegazione: è un mezzo, uno strumento, un canale. Il dia-logo non è un traguardo, non si fa il dialogo tanto per dialogare, questo non è lo scopo del dialogo. Dialogo, secondo me è un incontro di gente; gruppo A con gruppo B o C camminan-do insieme e dialogando, andando verso questo processo, arrivano a C, diversi, nel senso che qualcosa è cambiato, abbiamo accettato qual-cosa, abbiamo comprato qualcosa da una parte e venduto qualcosa dall’altra. Questo è l’inizio di una conversione nel senso più semplice della parola: cambiamento. Questo è che manca.

Se non facciamo questa iniziativa privata-mente, personalmente rischiamo che questi dialoghi inter-religiosi continuino a diventare scambi di monologo perchè noi stiamo mo-nologando, non stiamo dialogando, bisogna accettarlo perché la frustrazione della gente dopo aver applaudito da casa, niente succede fino all’anno successivo se guardiamo indietro a dieci, venti anni e ci chiediamo a che punto siamo, che strada abbiamo fatto, scopriamo

che la strada non è così lunga; si, c’è questo meccanismo di incontri, ma sono quasi vuoti. Mi dispiace ma la verità va detta tra di noi per poter veramente portare ad un cambiamento, questo è il vero dialogo inter-religioso che manca. E allora, siccome non è mio compito venire in Italia da ambasciatore di Israele presso la Santa Sede e parlare dell’incontro inter-re-ligioso, ritenevo, però, che questo tema non toccava molto a me, però sentivo il dovere di spiegare un po’ il mio parere sul tema.

Ormai da quasi cinque anni, da quando sono arrivato in Italia, ho cominciato subito a recarmi nelle varie diocesi d’Italia, che sono circa duecen-toventi. Ne ho visitato la metà cioè centotrenta vescovi. Ogni mese vado in due, tre diocesi, per edificare veri ponti di amicizie e di conoscenze, parlando di temi comuni, dei problemi.

Una delle cose di cui sono molto orgoglioso è un avvenimento accaduto recentemente. Sono riuscito per la prima volta a fondare storicamente la prima associazione chiamata “Cattolici amici d’Israele”. È un’associazione apolitica, che non ha niente a che vedere con la politica di Israele, composta da qualche de-cina, per il momento, di cattolici che vogliono dare una mano per fortificare, per intensificare i rapporti tra i cattolici e lo Stato d’Israele. Ab-biamo già un’agenda pienissima con un’attività culturale, accademica.

Non posso poi non parlare dell’importanza dei pellegrinaggi. Io ritengo che il pellegri-naggio sia una delle massime espressioni del dialogo perché come ho detto c’è un gruppo di A o B che fanno strada e incontrano C, un’altra persona, un’altra cultura. Questi viaggi - non solo in Israele o Terra Santa, ma ovunque - questi incontri tra le culture, tra la gente che va a comprare le cose, a vivere o pernottare in un’altra città, ad ascoltare la gente, discutere sono opportunità di vero dialogo culturale e religioso. Io ritengo che il ruolo della chiesa Cattolica nel promuovere pellegrinaggi può capovolgere il processo di pace nel medio Oriente. E come?

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Andare in Israele, o in tutta la zona, Terra Santa, Palestina, Giordania, Libano, da parte di voi cattolici significa portare un messaggio di pace, significa dire a questi popoli da parte di voi chiesa Cattolica: siamo con voi, con le soffe-renze di questo sciagurato conflitto, purtroppo non solo palestinese ma arabo-israeliano.

Comprendete come qualsiasi paese che è frequentato da turisti veicola il messaggio importante che in quel posto vale la pena di investire, vale la pena fare investimenti econo-mici. Se c’è un paese che fa paura, le persone non verranno. Ecco un altro motivo psicologico da non trascurare.

Poi non va ignorato il motivo economico molto chiaro, cioè che ciascun pellegrino por-tando con se una piccola cifra di euro, moltipli-cato dal numero dei visitatori, renderebbe un aiuto fantastico anzitutto ai palestinesi - perché la loro economia è distrutta già dopo 5 anni di intifada iniziata da Arafat - poi alle comunità cattoliche che, purtroppo, si trovano tra l’in-cudine e il martello in Terra Santa, ma anche allo stesso stato di Israele ma, ripeto, in Libano, Giordania, Egitto, cioè c’è una prosperità attesa moltissimo in questa zona.

E poi c’è un altro motivo: questa ondata di prosperità economica, può veramente confon-dere gli estremisti tra i palestinesi. I moderati potranno comprendere che non è il momento giusto di sabotare il processo di pace. Questo costituisce un motivo di speranza. All’indomani ci si potrà svegliare e sperare e cominciare a vedere la luce alla fine di questo tunnel. È un messaggio molto ottimista, molto positivo.

E allora il mio programma: sviluppare, far crescere quel processo che io chiamo una “maratona di educazione”. Il ruolo dei capi religiosi per realizzare questo progetto, è molto ambizioso ma indispensabile.

Vorrei scendere subito al tema che tocca la zona da dove vengo: Israele e i Palestinesi. Il conflitto che, con un’ottica molto limitata, si può

chiamare conflitto israelo-palestinese. Ma l’in-sieme del quadro parla del fatto che, purtroppo, 60-65 anni dopo Auschwitz, la maggior parte del mondo arabo non accetta ancora Israele, non accetta nessuno in questa zona. Sono tanti di loro che vorrebbero farci nuotare in Medio Oriente, non certo per motivi balneari…

Non tutti sono così, ringraziando Dio, ma il lavoro è ancora enorme. Abbiamo una lunga, lunghissima strada da fare. Uno dei nostri più famosi scrittori israeliani, ha paragonato una volta i rapporti tra israeliani e palestinesi a dei rapporti dentro una coppia: lui e lei. E ogni volta che chiedo chi è lui, chi è lei dentro questi rapporti, l’importante è sapere che noi: ebrei, israeliani, palestinesi non cerchiamo di arrivare ad una luna di miele dei nostri rapporti, non per adesso, ma quello che stiamo cercando di fare è arrivare ad un divorzio consensuale. Sarà difficile. Perché sarà difficile?

Perché è un caso particolare. Anzitutto, di solito, in ogni caso di divorzio o lei o lui lascia la casa. Invece nessuno di noi va via, e non ha l’intenzione di andare via. Siamo divorziati in casa. Perché sarà difficile? Perché in questo pezzettino di terreno, più piccolo della Sicilia, noi dovremmo dividere lo stesso terreno, la stessa acqua, lo stesso mercato di lavoro, ci sarà una interdipendenza tra di noi. Quindi non è il pezzettino di carta del trattato di pace che avrà un peso nel domani dell’accordo, ma è la vita quotidiana, i nostri rapporti natu-rali, reciproci, e il rispetto reciproco che man mano stiamo cercando di costruire con tanta fatica perché anni di inimicizia, anni di odio, anni di sospetto, anni di terrorismo, anni di sangue, di orrore e di violenza, non possono essere cancellati da un momento all’altro. È molto difficile farlo. E cerchiamo un modo di realizzarli perché sappiamo che questa è la soluzione. Forse la stragrande maggioranza dei popoli medio-orientali, è consapevole che la soluzione è solamente politica, che non c’è una soluzione militare a questo conflitto. Come si arriva a questa soluzione? Qui ci vuole una grande saggezza.

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Io vorrei a questo punto parlare un attimo di un grande Papa che ha avuto un grandissi-mo impatto sui rapporti tra il mondo ebraico e quello cristiano, tra lo stato di Israele e lo Stato Vaticano. Mi riferisco a Giovanni Paolo II. Questo grande Papa - per il quale abbiamo un grandissimo rispetto e ammirazione, sia il mondo ebraico che Israele - ha fatto almeno 4 tappe eccezionali nel suo lunghissimo papato di 26 anni e mezzo.

La prima tappa: 1979, pochi mesi dopo la sua elezione al papato, quando si recò ad Au-schwitz. Era il primo Papa dell’epoca moderna a visitare Auschwitz. E mentre è vero che ci sono quelli del mondo ebraico che criticano questo Papa perché ha chiesto perdono non di fronte agli ebrei, non agli ebrei, ma di fronte a Dio per la morte di 6 milioni di non ebrei, ma figli della Polonia. È vero che non siamo andati ai forni crematori come figli della Polonia ma come ebrei, ma è anche vero che se c’è un Papa in questo mondo che va ad Auschwitz, ha fatto una mossa coraggiosissima, chiede perdono e menziona la cifra “sei milioni”, questo è più che sufficiente.

Seconda tappa: 1986. La famosa visita del grande Papa Giovanni Paolo II alla sinagoga di Roma. Io quando presentai le credenziali, scrissi nel discorso che questo grande Papa, quando ha attraversato la breve distanza tra la Basilica di San Pietro e la grande sinagoga di Roma, è come se avesse portato con sé tutta la Chiesa Cattolica fino nella sinagoga di Cafarnao. Ha chiuso un cerchio storico dove pregavano Gesù e Pietro.

La terza tappa era la luce vera alla fine di questi negoziati verso il 1993 che ha dato il Papa all’allacciamento dei rapporti diplomatici tra Israele e la Santa Sede. La quarta tappa fu nell’anno 2000. Il famoso pellegrinaggio di Giovanni Paolo II in Israele e in Terra Santa perché è andato a visitare anche la chiesa della Natività in Betlemme, incontrandosi con Arafat. E io dico che oltre la famosa visita al muro del pianto e oltre alla visita al museo

dei martiri dell’olocausto, della Shoa, c’è da accennare a un punto molto interessante cioè alla sua visita al presidente dello stato di Israe-le. Facendo così, ha riconosciuto la sovranità politica dello stato di Israele in Israele. Questa è una cosa da sottolineare perché ha una portata di importanza storica. Che altro si può chiedere ad un Papa? E veniamo al Papa attuale. Con lui ho avuto il piacere e l’onore di incontrarmi almeno sette, otto volte prima di diventare Papa, da Cardinale nel 2003, 2004. Ho avuto sempre la sensazione che è un Papa che è im-pegnato all’approfondimento del dialogo con Israele, anche se alcune volte agli ebrei non sembra cosi perché hanno giudicato come un andare indietro per certe cose, per esempio la preghiera nel rito del Venerdì Santo. È un Papa che ha dimostrato un grandissimo coraggio nei confronti del mondo musulmano nella visita del 13 settembre 2006, nel famoso discorso a Ratisbona in cui ha detto che cosa devono fare i musulmani. Oltre al rispetto reciproco, che devono sviluppare ancora, non devono sostituire la ragione con la violenza. Emozione e violenza invece che fede e ragione. Ha pagato molto caro per questa verità. Però adesso c’è da aspettarsi che il dialogo interreligioso anche con i mussul-mani si riprenda. Le prospettive ci sono.

Adesso mi riferisco ad un punto di cui ho parlato prima. Secondo me il dialogo interreli-gioso è quasi condannato a fallire per quanto riguarda il livello e le riflessioni teologiche, spirituali e religiose. Mi spiego: parliamo della fede che è la sostanza, cioè la “cosa”. Sulla fede, sul mio credo, io non posso discutere, perché è una cosa personale, emotiva, inti-ma che nessuno può toccare. Cioè il modo di comunicare con il mio Creatore, la verità dimostrata a ciascuno dal nostro creatore, Questo non è un tema da discutere. Quindi non si pone il dialogo sulla “cosa”. Cioè se io credo in Gesù il messia e tu sei un ebreo che non lo crede, non c’è un modo di convincerti o di convincerci, altrimenti ti devi convertire. Per questo il dialogo è destinato a fallire.

Però che tipo di dialogo è possibile? E io ritengo che ci sia un ampio spazio per dialoga-

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re intorno a questa “cosa-sostanza”. Questo dialogo deve occuparsi del “quanto”, “come”, “dove” e non “cosa”. Per esempio: quanto è lecito, è permesso per un prete cattolico portare la croce a Riad, quanto è permesso per un vescovo cattolico costruire una chiesa in Iran? Questo “quanto”, “dove” e “come” si può tradurre in un’altra parola che si chiama “libertà religiosa”.

Non parliamo più della “cosa” ma quanto è permesso esercitare, praticare questa “cosa”. Qui manca la reciprocità, perché è una strada a senso unico, per esempio nei rapporti tra musulmani ed ebrei e cristiani. Basta vedere che non ci sono delle chiese nelle strade di Teheran, ed è difficile per un prete portare la croce a Riad, mentre a Roma c’è la più grande moschea di tutta Europa. Quindi per questo è un dialogo a senso unico. Questa situazione mondiale la-scia molto a desiderare e ci vuole questa parola magica chiamata “educazione”.

Poi qualche mese fa, a novembre, abbia-mo dato vita ad un nuovo processo, in un convegno in una città americana, sperando che facendo così, si possa trovare una nuova via di uscita, dando speranza a tutte le parti partecipanti del Medio Oriente.

Nel 2005, noi ci siamo ritirati dalla striscia di Gaza. Lo stesso premier Sharon si è ritirato unilateralmente. Non ci è rimasto neanche un soldato israeliano sulla striscia di Gaza. Novemila abitanti, cittadini, chiamati coloni, sono tornati in Israele, abbiamo smantellato gli insediamenti; per quale risultato? Per che cosa? Il risultato è arrivato subito e si chiama “Missing sounds”.

Dopo qualche settimana, dopo aver lasciato una grande speranza per l’indipendenza degli abitanti della striscia di Gaza di prendere atto di esercitare una libertà, un’autonomia, prima di diventare uno stato. Nel 2004 lo stesso Sha-ron era stato il primo a parlare della soluzione dei due stati per due popoli di fronte al suo partito della destra, rischiando il suo futuro

politico, perché praticamente voleva fondare un nuovo partito, però ha trovato un 75% del consenso pubblico di Israele dietro di lui per questa soluzione.

Ecco come hanno reagito loro, perché la maggior parte di loro sono ostaggi in mano a questi estremisti. Io sono convinto che fino ad oggi, la maggior parte dei cittadini di Gaza o vogliono la pace o vogliono essere lasciati in pace, che per loro è la stessa cosa.

Non dobbiamo diventare subito i migliori amici, però almeno non dobbiamo dividerci. Perché cari amici, noi abbiamo provato di tutto nel Medio Oriente, salvo una cosa: la pace. Forse è arrivato il tempo di provare anche questa. Però è con tanta difficoltà che vedo che qualsiasi governo e primo ministro di Israele possa permettere che ci sia un parlare quotidiano senza provocazione, senza niente. È una punizione collettiva vivere in città, inse-diamenti urbani sotto la minaccia quotidiana dei missili che cadono, di bambini terrorizzati, traumatizzati. Per non parlare dei morti e dei feriti che per miracolo non sono arrivati a centinaia ma non sono pochi. Non è questo il modo di misurare questa pace. L’intenzione è di bombardare delle città civili e ammazzare cittadini senza protezione.

Hanno copiato lo stesso stampo, lo stesso meccanismo dei loro amici che hanno lanciato questi missili in migliaia contro delle città israe-liane nascondendosi dietro lo scudo umano, mandando questi missili dai centri dei villaggi, dalle case civili. Quindi purtroppo non è Hamas che controlla la striscia di Gaza, non è che Hamas vuole qualcosa da Israele; loro vogliono vedere la distruzione dello stato di Israele senza dialogo, senza niente. Sono delle minoranze sia in Libano che nella striscia di Gaza però sono i più potenti, i più feroci, i più attivi.

Poi il problema di Israele non è Hamas, il problema non sono neanche quelli di Al Qae-da, che sono riusciti ad infiltrarsi nella striscia di Gaza. La più grande minaccia è lo Stato di

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Iran che si sta preparando al giorno del giudizio finale, preparandosi con questa capacità atomi-ca e missilistica per un motivo solo: l’annienta-mento dello stato sionista, imperialista e feroce di Israele. Lo stesso capo di stato iraniano non ha nessun problema con le religioni. Ha solo un piccolo problema con gli ebrei. È questo è un capo di uno stato che ha un intero regime attorno a lui che può liberamente lanciare queste minacce sullo stato di Israele. Quindi con Hamas possiamo organizzarci ma non questo Paese di settanta milioni di abitanti in cui la massima autorità religiosa ha fatto un appello al mondo musulmano che deve dare una mano per portare Israele in ginocchio e distruggere lo stato.

Permettetemi poi qualche parola sull’ ecu-menismo. In uno dei colloqui con il Cardinale Kasper che è il Presidente della commissione dei rapporti religiosi con l’ebraismo, abbiamo trattato sul tema dell’antisemitismo. Io ho detto: Eminenza voi ci chiamate fratelli mag-giori. Io dico fratelli maggiori o fratelli minori, per me la maggioranza o la minoranza non conta molto. Quello che conta è la fratellanza: siamo fratelli.

Fratellanza per me è più che sufficiente. Quando si pensa e si parla di fratellanza, subito vengono in mente due concetti: la reciprocità, la responsabilità reciproca e la sensibilità.

Il cardinale concordava con me. Gli ho detto: Eminenza in questo caso se per esempio noi siamo fratelli e ci diamo del tu - perché i fratelli si danno del tu - e qualcuno ti aggredisce e ti attacca, che devo fare da fratello? Devo venire in tuo soccorso. È ovvio perché sono chiamato Fratello! Quindi se noi siamo fratelli, siamo una unità, la stessa carne, lo stesso sangue, la stessa mamma, siamo una unità divisa in due. Ma siamo due. Anche questo posso accettare, ha detto il cardinale. Quindi se qualcuno ti attacca, devo venire in tuo soccorso, non perché mi chiamo fratello, ma perché devo sentirlo sulla mia pelle. Un attacco su di te, vuol dire un attacco su di me, perché siamo la stessa cosa.

Ovvero sia, se io vengo in tuo soccorso, caro fratello, faccio una autodifesa, sto difendendo me stesso. È qui che inizia il grosso problema. Dissi: Eminenza se lei è d’accordo con quello che ho detto adesso non ci accorgiamo di un grosso problema e cioè che la maggior parte degli attacchi in questi anni arrivano non fuori della famiglia, ma dentro la famiglia: cristiani che attaccano con atti di antisemitismo in tutta Europa. E conosco il detto che non sono buoni cristiani se lo fanno. Allora in questo caso abbiamo due possibilità: o rivolgerci, tutti e due: cristiani ed ebrei ai nostri genitori, cioè ad Abramo e Sara; oppure varare questa ma-ratona alla quale accennavo prima, maratona di educazione.

Io, malgrado tutto ciò che ho detto, sono ottimista almeno per due motivi: primo moti-vo perché sono nato così, sono nato figlio di due genitori ottimisti, con papà sopravvissuto all’olocausto ed è venuto nel 1944 in Israele, allora Palestina, e si è guardato attorno per verificare se c’erano i mezzi disponibili per edificare uno stato e hanno scoperto subito che oltre il sole scottante non c’era nient’altro. Allora si sono rimboccati le maniche e si sono messi a lavorare e oggi come oggi, ad appena 60 anni, malgrado tutte quelle condizioni infe-riori ci troviamo nella quarta fase di sviluppo.

La prima fase era gli anni 50 dove c’è stato un processo di meccanizzazione di mezzi di lavoro per coltivare i campi, anni 60 e 70 l’au-tomatizzazione degli stessi mezzi, anni 80 e 90 computerizzazione e negli ultimi anni siamo tra i pochi pionieri nel mondo che hanno svi-luppato la bio e nanotecnologia. Non so se vi dice molto, però per dire cosa si può fare con la bio e nanotecnologia, stiamo lavorando in un istituto tecnologico sullo sviluppo e sulla costruzione del più piccolo ospedale del mon-do. Infatti è così piccolo che non si vede con l’occhio. È un ospedale microscopico, però è un ospedale intero, molecolare. Questo ospedale che non si vede, va inserito nel nostro sistema del sangue, va a monitorare il nostro corpo senza creare nessun danno perché è così minu-scolo, così quasi inesistente, e proiettando fuori

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un quadro aggiornato su uno schermo esterno ciò che vede, in caso di necessità emette dei farmaci, delle sostanze chimiche. Tutto questo in una molecola. Questo è un esempio di quello che stiamo facendo e immaginate questo: noi lo facciamo con una mano sola, perché l’altra mano deve difendere, deve spendere decine di migliaia di dollari per inventare meccanismi di difesa per affrontare il terrorismo.

L’altro motivo per cui sono ottimista è la mancanza di scelta. Sono ottimista perché purtroppo la mia generazione nata con lo stato di Israele non può permettersi il lusso di diventare pessimista come lo può fare la Cina, la Russia; cioè chiudersi dentro; noi non pos-siamo chiuderci dentro buttando la chiave di Israele, lasciando fuori un cartellone dicendo se volete la pace con noi fate questo numero. Noi non lo possiamo fare. Dobbiamo stendere la mano per qualsiasi iniziativa di pace, anche se non sembra, anche se dai giornali e telegiornali sembra che Israele è l’aggressore, è Israele che invade, colpisce, Nessuno è interessato a far vedere quello che è successo cinque minuti prima, o cinque anni prima, anno dopo anno, notte dopo notte.

Dovete sapere che in Israele nel 2008, oggi come oggi, non troverete una mamma che manderà i due figli sullo stesso pullman, ma su pullman diversi. Almeno uno tornerà a casa sano e salvo. Questa è paura di attentati. E ringraziamo Dio che da qualche mese non ci sono attentati.

Queste sono le nostre paure, quindi quando si tratta di una organizzazione terroristica che ha sottomano come ostaggio una popola-zione intera di un milione e mezzo di poveri, veramente poveri palestinesi, non mi vengono le lacrime per partecipare a questa tristezza di quelle sofferenze che hanno portato, sa-pendo innanzitutto quale sarebbe il prezzo di colpire quotidianamente Israele. La colpa e la responsabilità si trova sulle spalle di quei maledetti, (non ho altre parole) cattivi, che si sono permessi la libertà di prendere in ostag-gio tutta una popolazione, metterla sotto la minaccia della ritorsione di Israele dopo questi attentati.

Non sentirete mai da parte mia che Israele ha ragione al cento per cento sempre. Noi sbagliamo spesso. Sbagliamo spesso, però a differenza di quelli che ci affrontano in questa guerra asimmetrica (è asimmetrica perché col-pire una popolazione civile e poi nascondersi dietro lo scudo umano, è la cosa più vergogno-sa e più vigliacca) siamo disposti a fare il mea culpa e capire e cambiare le cose. Loro non lo faranno mai.

Dovete vedere la gioia che si prova nei loro occhi quando muore qualcuno di Israele. Comprendete che il senso del valore della vita lascia molto a desiderare. Ringraziando Dio, spero che si tratti di una minoranza e spero che si trovi il coraggio dentro il popolo Palestinese, nella striscia di Gaza, di vomitare questa diri-genza, questa organizzazione terroristica, per veramente poter lavorare per la pace.

Noi non cerchiamo dei colpevoli tra i Palesti-nesi. Sapete che qualche giorno fa sono morti 119 Palestinesi ma a differenza di quello che sapete voi e sa la maggior parte del pubblico delle televisioni, 95 di loro erano militari, di cui tanti terroristi, gente militare che si veste come i civili, nascondendosi sotto questi vestiti. E sapete come mai siamo riusciti ad arrivare ad un tasso così alto di militari nelle vittime? È molto semplice: perché qualche ora, se non due giorni prima dell’operazione abbiamo diffuso delle informazioni alla popolazione civile di evacuare questa zona perché stavano per colpire quella zona. Voi non lo saprete mai, perché i mezzi di comunicazione non ve lo diranno mai. Allora la maggior parte della popolazione civile è sfuggita.

Ho promesso di chiudere citando le parole del primo premier Israeliano, David Ben Gurion. Siccome lui ha visto tutta questa guerra, la lotta per l’indipendenza dello stato di Israele negli anni ‘30 e ‘40, lui ha detto sempre che questa lotta era una lotta bagnata di sangue, sudore e lacrime. Lo stato d’Israele è un sogno realizzato grazie a questa lotta. E lui aveva sempre un detto che io amo sempre citare, diceva che a Gerusalemme chi non crede nei miracoli non è realista. Grazie.

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Tra le donne che nel XX secolo hanno vissuto e pensato tra le due Guerre, Simone Weil merita un posto di assoluto rilievo - ancorché non ancora del tutto riconosciuto nell’establishment della filosofia contemporanea. Dotata di capacità intellettive a dir poco notevoli e di un “cuore capace di battere attraverso l’universo” (Simone de Beauvoir), la Weil ha condotto la sua esistenza come un “itinerarium mentis et corporis in veritatem”, tanto per parafrasare la celebre espressione di san Bonaventura. Tutta la sua vita, infatti, è stata trascinata dalla sua sete di verità attraverso molteplici e spesso, almeno in apparenza, contrastanti esperienze: professoressa e contadina, intellettuale ed operaia, pacifista e militante della resistenza, bolscevica e, suo malgrado, credente sino al punto di essere condotta attraverso i sentieri della mistica. Per mutuare un appunto che troviamo nei suoi Cahiers, Simone Weil ha vissuto l’impegno di pensatrice come “cosa esclusi-vamente in atto e pratica” (Quaderni, voll.4, Milano, Adelphi 1982-1993, IV, p.396).

Non è dunque un caso, se il libro della Lucchetti Bingemer si apre con un’ampia introduzione biografica, indispensabile per chi si accosti per la prima volta al pensiero di Simone Weil. Nella filosofa francese, infatti, pensiero e azione, esperienza e riflessione si intersecano continuamente e sarebbe in errore chi ritenesse di poter conoscere un aspetto a prescindere dall’altro. La decana della PUC di Rio de Janeiro ben ci introduce nella parabola esistenziale weiliana, sottolineando la sua predilezione per gli ultimi - ovvero la sua “l’incarnazione nella vita dei poveri” (p.26) - e arrivando a presentarne “la morte come suggello della vita” (p.47).

Segue il capitolo dedicato ad un tema centrale nella speculazione weiliana, vale a dire la meditazione sulla questione della violenza e del male - e di conseguenza anche sul tema della non-violenza. Si tratta di una indagine assolutamente attuale, capace di coniugare il punto di vista etico con quello teologico, l’istanza veritativa e dell’ortoprassi con quella che sonda il mistero dell’essere di Dio a fronte dell’urgenza del male. Proprio il fatto che Simone Weil sia vissuta in un’epoca di grandi lacerazioni sociali e storiche, quale quella tra le due guerre, fa sì che sia quanto mai penetrante il suo interrogarsi sul lato hobbesiano che alberga nel cuore di ogni uomo. La Weil, convinta fautrice del pacifismo, giunse non solo alla militanza nella Resistenza francese, ma anche ad avvertire come una colpa le idee pacifiste da lei difese a cavallo tra gli anni ’20 e ’30. Ella sviluppò il convincimento che l’essere umano deve confrontarsi “con la decisione tra oppressione e guerra” (p.59). Decisione che lo vede “in ogni caso, perdente” (ivi). Lucchetti Bingemer osserva: “Delusa dai suoi ideali giovanili, Simone Weil nega che vi sia un’opposizione

LUCCHETTI BINGEMER, MARIA CLARA*

Simone Weil. La debolezza dell’amorenell’impero della forza

a cura di Paolo Farina Arezzo, Zona, 2007, pp. 208, 19,00 e, ISBN 978 88 89702 57 4.

* MARIA CLARA LUCCHETTI BINGEMER, brasiliana, teologa, decana dell’Università Cattolica di Rio de Janeiro, è tra le maggiori studiose di Simone Weil. Tra le sue pubblicazioni: Violência e religião. Judaismo, Cristianismo, Isla-mismo. Três religiões em confronto e diálogo (RJ/SP, PUC-Rio/Lodola, 2001), Deus Trindade: graça que abita em nós (Valencia/São Paulo, 2003). Direttrice del “Centro Lodola de fé e cultura”, attivissima in convegni e seminari in tutto il mondo, sono innumerevoli i suoi saggi pubblicati. In Italia ha già pubblicato, Simone Weil. Azione e contemplazione (Torino, Effatà 2005).

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tra fascismo e comunismo, nel senso che la vittoria dell’uno non può definirsi con lo sterminio dell’altro” (p.67). In effetti, Simone Weil mai abbandona la sua “speranza tipicamente pacifista” (ivi), convinta che non vi possa essere sempre la guerra e che per questo, in un tempo indefinito, possa finalmente regnare la pace. Pessimismo, realismo e utopia: sono coordinate apparentemente inconciliabili lungo le quali la riflessione weiliana si snoda per introdurci alla sua visione della “nozione di forza” (p.70) che vede dispiegarsi nell’ascesa del nazismo e nel trionfo della guerra. Come sottolinea ancora la Lucchetti Bingemer, la violenza cosifica chiunque tocchi, “tanto quelli che se ne servono tanto quelli che la patiscono, affratellando vittime e carnefici, vincitori e vinti nella stessa sventura e nella stessa sofferenza. Un uso moderato della forza, che avrebbe evitato quello stato di cose, avrebbe richiesto una virtù più umana, più rara della dignità costante nella debolezza” (p.80).

Ne L’enrecinement la Weil indica nell’obbligo il fondamento della pace (p.86) e non è un caso se quella che sarebbe dovuta essere una bozza della futura costituzione francese inizia con un lungo elenco di “bisogni dell’anima”. Nelle intenzioni di Simone Weil, esso rappresentava un altrettanto lungo elenco di “doveri” da rispettare perché la civiltà occidentale potesse ritrovare la “prima radice”.

È noto che le idee della Weil, compreso il suo progetto di infermiere volontarie di prima linea, trovarono una netta presa di distanza da parte di De Gaulle e dei vertici di France Livre. Fu davanti a tale rifiuto che Simone Weil percepì la frustrante sensazione di non poter essere utile col suo lavoro alla causa della pace e desiderò dunque una “morte per solidarietà” (p.93).

Si tratta dell’esito finale degli ultimi anni di vita della Weil, contraddistinti da quella che ad alcuni è apparsa una “deriva mistica” (Trabucco), ad altri il compimento di una vocazione (Di Nicola - Danese). Il teso della Lucchetti Bingemer affronta l’analisi del nesso che la riflessione weiliana ha scorto, pensando e soffrendo, tra religione e violenza. A partire dallo “sguardo cri-tico di Simone Weil sull’ebraismo” (p.111) e da una analogo “sguardo critico sul cristianesimo” (p.121), sino alla affermazione della “fede in un Dio essenzialmente non violento” (p.124), ma, come Cristo, come la stessa Weil, “tormentato dalla compassione” (p.125). Scrive Lucchetti Bingemer: “A partire dalla sua conversione, la centralità della croce nella vita di Simone passò ad essere incarnata e ad avere un nome: il nome di Gesù Cristo, divenuto per lei, a partire da un certo momento, Signore teneramente amato. Dal momento del suo incontro esplicito con la fede cristiana, tuttavia, questo Cristo si rivela a Simone nel suo aspetto crocifisso. Mai riuscì a dissociare la persona di Gesù Cristo dalla Sua passione. Non ci riusciva, poiché per lei il credere è per sempre legato alla passione salvifica del Figlio di Dio” (p.130).

È l’approdo, quanto mai singolare, dell’agnostica e anticlericale Simone Weil: dalla riflessione sull’impero della forza, all’affermazione che la debolezza dell’amore è più forte di ogni forza. Que-sta la tesi del saggio della Lucchetti Bingemer, puntualmente verificata dal frequente e pertinente ricorso ai testi della Weil e ai testi di autori che la Weil hanno meditato e studiato a lungo.

Gli ultimi capitoli di questo volume sono dedicati a sondare il dialogo tra la Weil e alcuni pensatori e pensatrici del suo tempo. Nel penultimo capitolo il confronto è tra Simone Weil ed Emanuel Levinas e René Girard, che pure a lungo hanno indagato il doloroso passo che separa il trionfo della pace dalla sua cruenta negazione. Nell’ultimo capitolo si indaga sulla affinità che accomuna la sua parabola esistenziale e filosofica a quella di Edith Stein ed Etty Hillesum, “don-ne che sperimentarono nella loro vita, nella loro mente, e soprattutto nel loro corpo e nel loro

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cuore il bisogno di guardare in faccia il mostro della violenza e di trovare risposte umanizzanti e spirituali in grado di rapportarsi a questa ardua e dolorosa questione” (p.161).

In conclusione, il nuovo studio di Maria Clara Lucchetti Bingemer sulla vita e sul pensiero di Simone Weil, assumendo la dialettica “debolezza dell’amore/impero della forza”, riesce a pro-porsi come una guida privilegiata per chi voglia accostarsi ad un pensiero della Croce in grado di crocifiggere il lettore attento e, nel contempo, di dispiegargli una nuova visione dell’io e della realtà, una visione trasfigurata dalla consapevolezza di chi, come la Weil, non ha distolto lo sguardo davanti al mistero del male, ma l’ha assunto nella carne, prima di provare a scandagliarlo con l’attività dello spirito.

Il rigore metodologico e il sapiente impiego delle fonti impreziosiscono ulteriormente questo saggio, rendendolo consigliabile tanto per la lettura per gli specialisti della materia quanto per lo studio di coloro che non hanno ancora avuto l’impegnativa avventura di accostarsi a Simone Weil.

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