indice -...

88
INDICE INTRODUZIONE 1 IL PUNTO DI VISTA LEGISLATIVO: UNA GENESI IMPURA 3 1.1 Le leggi degli anni ‘70 e ‘80 3 1.2 I “pentiti” di mafia e la legge n. 82 del 1991 5 1.3 Gli anni 2000. Nascono i testimoni 9 1.4 Le sfide normative di oggi. La nuova proposta di legge per un’identità legislativa dei testimoni di giustizia 15 2. L’AUTOPERCEZIONE: CHI SONO E COME SI RACCONTANO I TESTIMONI DI GIUSTIZIA 25 2.1 I racconti 25 2.2 L’identità persa, ritrovata e moltiplicata: la storia di Pino Masciari 45 3. UNO SGUARDO ALLA CORRUZIONE: TESTIMONE DI GIUSTIZIA E WHISTLEBLOWER 50 3.1 Lacune linguistiche e legislative 50 3.2 Identità complesse 57 3.3 Le differenze 64 4. LE LORO VOCI 67 4.1 Intervista a Gennaro Ciliberto 67 4.2 Intervista a Gianluca Maria Calì 70 4.3 Intervista a Tiberio Bentivoglio 74 CONCLUSIONI 76 BIBLIOGRAFIA 77

Upload: phamthu

Post on 25-Feb-2019

216 views

Category:

Documents


0 download

TRANSCRIPT

INDICE  INTRODUZIONE  1 

IL PUNTO DI VISTA LEGISLATIVO: UNA GENESI IMPURA 

1.1 Le leggi degli anni ‘70 e ‘80  3 

1.2 I “pentiti” di mafia e la legge n. 82 del 1991  5 

1.3 Gli anni 2000. Nascono i testimoni  9 

1.4 Le sfide normative di oggi. La nuova proposta di legge per un’identità legislativa dei testimoni di giustizia 

15 

2. L’AUTOPERCEZIONE: CHI SONO E COME SI RACCONTANO I TESTIMONI DI GIUSTIZIA 

25 

2.1 I racconti  25 

2.2 L’identità persa, ritrovata e moltiplicata: la storia di Pino Masciari  45 

3. UNO SGUARDO ALLA CORRUZIONE: TESTIMONE DI GIUSTIZIA E WHISTLEBLOWER 

50 

3.1 Lacune linguistiche e legislative  50 

3.2 Identità complesse  57 

3.3 Le differenze  64 

4. LE LORO VOCI  67 

4.1 Intervista a Gennaro Ciliberto  67 

4.2 Intervista a Gianluca Maria Calì  70 

4.3 Intervista a Tiberio Bentivoglio  74 

CONCLUSIONI  76 

BIBLIOGRAFIA  77 

   

INTRODUZIONE 

Le vicende dei testimoni di giustizia sono ancora poco conosciute e soggette a diversi                           

fraintendimenti. Si tratta, secondo le ultime stime, di circa 80 persone sottoposte a specifiche                           

misura di tutela in ragione del pericolo che corrono dopo aver rilasciato dichiarazioni riguardo a                             

un determinato fatto delittuoso di cui sono stati, appunto, testimoni. La maggior parte di loro                             

sono normali cittadini, inseriti nel tessuto economico e sociale del loro territorio, molto spesso                           

commercianti o imprenditori che si sono trovati a confrontarsi con le richieste estorsive della                           

criminalità organizzata di stampo mafioso. 

Analizzando le diverse storie dei testimoni si rileva subito come quella dell’identità sia una                           

questione chiave per comprendere a fondo l’argomento. Si tratta in particolare e da molti punti di                               

vista di un’identità mancata o messa in seria discussione, a partire da una definizione giuridica                             

manchevole che ancora non garantisce a pieno un regime di gestione specifico per i testimoni,                             

fino ad arrivare all’esperienza diretta delle più estreme misure di tutela, il programma speciale di                             

protezione, che costringe le persone protette a privarsi totalmente della propria identità,                       

cambiando nome e cognome, trasferendosi di nascosto in altre località del paese, smettendo di                           

lavorare, non potendo muoversi liberamente, curarsi o avere contatti con la vita precedente. 

Nella prima parte di questo lavoro la questione dell’identità viene affrontata da un punto di vista                               

normativo; la figura del testimone di giustizia ha infatti avuto una genesi legislativa “impura”                           

essendo per lungo tempo stata assimilata a quella del collaboratore, quel soggetto che, dopo aver                             

commesso dei crimini e spesso in ragione della possibilità di accedere a dei meccanismi premiali,                             

decide di autoaccusarsi e rivelare le informazioni di cui è in possesso riguardo all’organizzazione                           

criminale di cui ha fatto parte. Questa mancata definizione iniziale ha determinato una                         

contaminazione tra i due profili che ha sconfinato l’ambito normativo ed è arrivata a interessare                             

anche la percezione sociale di questi soggetti, ancora spesso confusi con i cosiddetti “pentiti”. A                             

questo si è aggiunto, come molti di loro hanno ripetutamente denunciato, l’assenza di un                           

trattamento adeguato e dignitoso e di quelle garanzie che spetterebbero a chi, senza far parte del                               

mondo della delinquenza, decide di denunciare. Ed è proprio a partire dai loro racconti,                           

interviste, libri e interventi di vario genere, analizzati nel secondo capitolo, che si riescono a                             

cogliere le più significative sfumature della percezione e della declinazione del tema dell’identità,                         

di come essa sia stata spesso persa, taciuta, riacquistata e quale nuovo valore abbia acquisito dopo                               

le denunce e l’ufficializzazione dello status di testimone. 

Nel terzo capitolo si affronta invece una riflessione comparativa tra la figura del testimone di                             

giustizia e il cosiddetto whistleblower, il segnalatore di atti illeciti sul luogo di lavoro, cercando di                               

analizzarne gli elementi di distanza e i punti di contatto. Partendo dalle analisi del profilo del                               

whistleblower e del suo atto di segnalazione, si riescono infatti a trarre spunti e linee di riflessione                                 

utili per delineare e chiarire anche la complessa identità del testimone di giustizia che, proprio in                               

ragione del suo atto di presa di parola e di difesa della verità, rivela molti aspetti sovrapponibili al                                   

“soffiatore di fischietto”. 

Il quarto capitolo raccoglie, infine, le interviste a un testimone di giustizia e a due imprenditori                               

vittime di mafia. 

    

1. IL PUNTO DI VISTA LEGISLATIVO: 

UNA GENESI IMPURA   

 

1.1 Le leggi degli anni ‘70 e ‘80 

L’incertezza che circonda il tema dell’identità quando si parla di testimoni di giustizia è                           

strettamente correlata al percorso delle leggi che hanno portato alla definizione giuridica del loro                           

status. Anche e soprattutto dal punto di vista legislativo, infatti, la figura del testimone di giustizia                               

non ha avuto definizione chiara fin da subito, ma è stata costruita a partire da una riflessione che                                   

riguardava l’adozione di nuovi approcci per contrastare specifici tipi di fenomeni criminali.  

La storia dei testimoni di giustizia dal punto di vista giuridico-normativo ha le sue primissime                             

origini tra la seconda metà degli anni ‘70 e i primi anni ‘80, quando, in un contesto socio-politico                                   

peculiare e unico nella storia dell’Italia repubblicana, vengono introdotti una serie di nuovi                         

provvedimenti legislativi. Il significativo e critico allarme sociale nato in tutto il paese dal                           

diffondersi del terrorismo, della lotta eversiva e del fenomeno dei sequestri di persona a scopo di                               

estorsione costituisce il principale input sull’onda del quale il legislatore ha provveduto alla                         

progressiva elaborazione di interventi normativi specificamente studiati per contrastare questi                   

nuovi tipi di criminalità che stavano mettendo a rischio l’incolumità istituzionale e dei cittadini. Si                             

rendeva così necessario un approccio alla persecuzione di questi reati di tipo nuovo, che fosse                             

modellato per contrastare una criminalità che sempre di più si allontanava dalla delinquenza                         

individuale, ma trovava invece nel sodalizio tra i suoi membri e nella sua dimensione                           

organizzativa e strategica i suoi elementi caratteristici e di forza. Le nuove norme, oltre a                             

introdurre organismi investigativi specializzati e forme di coordinamento tra gli uffici addetti alle                         

indagini, si concentrano sullo studio di specifiche misure per favorire la rottura del vincolo                           

associativo come mezzo fondamentale per disgregare dall’interno i gruppi criminali. Queste leggi,                       

infatti, agiscono principalmente su due fronti: da un lato l’aggravamento delle sanzioni a carico                           

degli autori dei reati e dall’altro la concessione di speciali attenuanti per chi si adoperasse per                               

evitare il verificarsene di ulteriori. 

Il decreto legge n. 625 del 15 dicembre 1979, convertito con modificazioni nella legge n. 15 del 6                                   

febbraio 1980 intitolata “Misure urgenti per la tutela dell’ordine democratico e della sicurezza                         

pubblica”, introduce nuove figure di reato (associazione con finalità di terrorismo e di eversione,                           

attentato con finalità di terrorismo o di eversione, sequestro di persona a scopo di terrorismo o                               

eversione) punite con pene più gravi rispetto a delitti analoghi ma non caratterizzati dalla finalità                             

terroristica o di eversione e prevede riduzioni di pena per chi, dopo aver commesso reati di                               

questo tipo in concorso con altri, se ne fosse dissociato, si fosse adoperato per evitare che                               

l’attività delittuosa fosse portata a conseguenze ulteriori o avesse aiutato concretamente le                       

autorità nella raccolta di prove decisive per l’individuazione o la cattura dei concorrenti. 

Due anni più tardi, le “Misure per la difesa dell'ordine costituzionale” previste dalla legge n. 304                               

del 28 maggio 1982, oltre a rendere ancora più favorevoli gli effetti dell’attenuante della                           

“collaborazione attiva”, introducono quella della cosiddetta “dissociazione” per coloro che prima                     

della condanna definitiva avessero reso piena confessione di tutti i reati commessi e si fossero                             

adoperati per eliminarne le conseguenze dannose e per impedirne di altri. La questione della                           

dissociazione viene poi ulteriormente specificata nella legge n. 34 del 18 febbraio 1987, “Misure a                             

favore di chi si dissocia dal terrorismo”, dove trova una nuova e più dettagliata definizione (art.                               

1):  

si considera condotta di dissociazione dal terrorismo il comportamento di chi, imputato o                         

condannato per reati aventi finalità di terrorismo o di eversione all’ordinamento costituzionale, ha                         

definitivamente abbandonato l’organizzazione o il movimento terroristico o eversivo cui ha                     

appartenuto, tenendo congiuntamente le seguenti condotte: ammissione delle attività                 

effettivamente svolte, comportamenti oggettivamente ed univocamente incompatibili con il                 

permanere del vincolo associativo, ripudio della violenza come metodo di lotta politica. 

Le leggi sul terrorismo rispondono, così, all’esigenza concreta e contingente di trovare nuovi                         

strumenti per contrastare forme di delitto nuove e particolarmente pericolose, facendo leva sulle                         

crisi ideologiche e di coscienza che stavano nascendo in molti giovani terroristi o loro                           

fiancheggiatori i quali stavano assistendo a un progressivo aumento del grado di violenza della                           

lotta armata dei loro gruppi di riferimento. Il profilo del dissociato era quindi quello di una                               

persona estremamente politicizzata che si trovava, con l’escalation di violenza a cui andava a                           

contribuire, a mettere in dubbio le modalità della propria rivendicazione. Si trattava quindi in                           

primo luogo di un rifiuto ideologico-politico di persone che non si riconoscevano più nelle                           

decisioni, per lo più operative, del proprio gruppo e che iniziavano ad ammettere il fallimento del                               

proprio progetto di lotta, che non aveva trovato quegli esiti e quel sostegno popolare che                             

avevano ipotizzato potesse avere. 

 

1.2 I “pentiti” di mafia e la legge n. 82 del 1991 

La figura del dissociato è in seguito servita come base legislativa per introdurre quella del                             

collaboratore di giustizia per i fatti di mafia. Sono stati molti i dubbi iniziali sull’applicabilità di                               

questo approccio ai membri delle associazioni mafiose. L’incertezza maggiore riguardava in                     

particolare l’effettiva validità del cosiddetto “pentimento”, che, se nei giovani terroristi nasceva                       

dalla volontà di allontanarsi da strategie eversive violente e da ideologie politiche in via di                             

fallimento, negli affiliati delle organizzazioni di tipo mafioso aveva molte più probabilità di essere                           

utilizzato opportunisticamente per accedere al meccanismo premiale, per avere sconti di pena, se                         

non addirittura per risolvere conflittualità interne all’organizzazione stessa. Un contributo                   

decisivo al dibattito arriva soprattutto grazie alle riflessioni di Giovanni Falcone che sosteneva,                         

come ben riassunto da Loris D’Ambrosio, che: 

a determinare una sorta di reazione di rigetto nei confronti delle collaborazioni “mafiose” erano                           

l’istintiva e tutto sommato comprensibile ripulsa verso i delatori, la non adeguata professionalità                         

con cui, talora, erano state vagliate le dichiarazioni dei pentiti e, infine, la tendenza ad affrontare il                                 

problema in maniera emozionale, sulla base di schemi mentali precostituiti e inidonei a consentire                           

soluzioni chiare e soddisfacenti. La reazione di rigetto poteva essere superata solo se si riusciva a                               

cogliere appieno l’aspetto storicamente più importante e positivo della intera “vicenda                     

collaborativa”: quello rappresentato dalla circostanza che, per la prima volta da molti anni,                         

autorevoli membri di organizzazioni criminali avevano ritenuto di abbandonare la tradizionale                     

omertà.  1

La portata storica del pentitismo e le ragioni di Falcone sono state concretamente e visibilmente                             

misurate nel corso del Maxiprocesso di Palermo della seconda metà degli anni ‘80, dove grazie                             

1 D’AMBROSIO Loris, Collaboratori e testimoni di giustizia, Cedam, Padova, 2002, p. 17. 

alle dichiarazioni, tra gli altri, dei “pentiti” Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno si è riusciti                             

per la prima volta, oltre che a condannarne i massimi vertici, ad avere una visione chiara della                                 

dimensione organizzativo-verticistica di Cosa Nostra e dei suoi meccanismi, allora ancora poco                       

conosciuti. L’istituzione della possibilità di collaborare con la giustizia nasce quindi da una                         

specifica filosofia di contrasto alla mafia che si basa sull’idea di una disarticolazione                         

dell’organizzazione dal suo interno e non può prescindere dalla consapevolezza che solo dalla                         

diretta testimonianza dei protagonisti dei fatti criminali si è in grado di venire a conoscenza di                               

determinati elementi altrimenti non acquisibili. Per questi motivi, sempre secondo Falcone, per                       

favorire la collaborazione bisognava spingersi verso scelte legislative particolarmente coraggiose,                   

che comprendessero norme premiali di portata consistente: l’imputato di mafia doveva, infatti,                       

trovarsi nelle condizioni di poter ponderare la scelta della giustizia, nonostante i rischi di vendette                             

e rappresaglie a cui sapeva di sottoporsi rompendo il vincolo al silenzio e all’omertà che aveva                               

sancito la sua entrata nell’organizzazione. I meccanismi premiali dovevano così essere                     

contestualmente accompagnati dall’introduzione di specifiche garanzie riguardo la protezione e                   

l’incolumità dei cosiddetti “pentiti”, che si trovavano, a causa delle loro denunce, in serio rischio                             

di vita. 

Ed è stato proprio sulla base di queste premesse che si è arrivati all’emanazione del decreto legge                                 

del 15 gennaio 1991, convertito il 15 marzo dello stesso anno nella legge n. 82, che istituisce le                                   

“Nuove norme in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione e per la protezione di                                 

coloro che collaborano con la giustizia”. La legge n. 82 è stata di fondamentale importanza per                               

dare cornice giuridica a uno strumento della lotta alle mafie, per rispondere alla necessità di tutela                               

di questi soggetti e per legittimarne la loro posizione processuale. In particolare, nella legge                           

vengono definite le disposizioni per l’utilizzo di speciali misure di protezione per assicurare                         

incolumità e, ove necessario, assistenza a chi, genericamente, “collabora con la giustizia”. In                         

questo modo però non è stata effettuata fin da subito la differenziazione che sta alla base di una                                   

delle più importanti rivendicazioni che tutt’oggi molti testimoni di giustizia cercano di portare                         

avanti, ovvero quella con i collaboratori. La legge nasce, infatti, per tutelare quei soggetti che                             

occupano una posizione all’interno dell’organizzazione o che hanno avuto contatti assidui e                       

profittevoli con esse e che, dopo un atto di pentimento e rifiuto del proprio passato o per                                 

accedere ai meccanismi premiali, si autodenunciano e raccontano ciò di cui sono a conoscenza.                           

Nella stessa legge sono stati inclusi, però, anche i testimoni, ovvero quei soggetti che non hanno                               

compiuto delitti o fatto parte di organizzazioni criminali, ma che anzi spesso fanno parte del                             

normale tessuto economico e sociale e si sono trovati ad essere a conoscenza o, come in molti                                 

casi, ad essere vittime di determinati reati di cui hanno deciso, per molteplici ragioni, di riferire                               

all’autorità e che, a causa di tali denunce, si trovano nel medesimo pericolo di rappresaglie da                               

parte di chi è stato oggetto delle loro dichiarazioni. La legge sancisce così la necessità della                               

garanzia della protezione e proprio in nome di questa necessità vengono assimilati e riuniti due                             

profili, aventi entrambi diritto alla tutela, ma biograficamente, sociologicamente e giuridicamente                     

distanti. 

L’inclusione e l’incardinamento del regime tutorio del testimone di giustizia in quello previsto per                           

i collaboratori ha quindi causato una pericolosa contaminazione, anche a livello di percezione                         

sociale, tra i diversi soggetti protetti e un conseguente trattamento indifferenziato, anche in                         

termini di rigidità e di diritti garantiti, tra individui imputati e testimoni estranei ai fatti. Sono                               

infatti molte le storie di testimoni di giustizia che hanno denunciato di essere stati trattati                             

ingiustamente, di essersi visti privati di diritti fondamentali, di essere stati destinati a vite solitarie                             

e di sofferenza per rallentamenti burocratici, indifferenze istituzionali e mancanze normative e                       

che a causa di tali trattamenti hanno portato avanti rivendicazioni o compiuto gesti eclatanti,                           

come l’incatenamento davanti al palazzo del Viminale, e estremamente sofferti, come i vari casi                           

di tentativi di suicidio. 

Nella codificazione del regime tutorio della legge n. 82 l’assimilazione delle due figure è avvenuta                             

sulla base di un effettivo punto di coincidenza delle condizioni in cui questi individui si vengono                               

a trovare dopo la loro scelta di denuncia. Sia i collaboratori che i testimoni, trovandosi in una                                 

situazione di grave pericolo, diventano, infatti, destinatari di misure di tutela specifiche per la loro                             

condizione, il cosiddetto programma speciale di protezione, in quanto rivelatesi inadeguate le                       

misure ordinarie di tutela adottabili dall’autorità di pubblica sicurezza. Il livello di pericolo è                           

misurato tenendo conto sia della qualità e rilevanza delle dichiarazioni rese sia delle capacità di                             

reazione o intimidazione che possono essere esercitate da parte del gruppo criminale al quale                           

appartengono le persone accusate.  

Nella normativa si stabilisce, inoltre, che le misure di protezione possano essere revocate o                           

modificate in relazione all’attualità del pericolo corso dall’individuo che vi è sottoposto, al suo                           

non rispetto degli impegni assunti (la commissione di reati indicativi del mutamento o della                           

cessazione del pericolo conseguente alla collaborazione, la rinuncia espressa alle misure, il rifiuto                         

di accettare l'offerta di adeguate opportunità di lavoro o di impresa, il ritorno non autorizzato nei                               

luoghi dai quali si è stati trasferiti, nonché ogni azione che comporti la rivelazione o la                               

divulgazione dell’identità assunta, del luogo di residenza e delle altre misure applicate) o alla                           

mutata idoneità delle misure stesse. Un particolare importante è che il tempo trascorso dall’inizio                           

della collaborazione e dall’inizio dei procedimenti penali nei quali sono state rese le dichiarazioni                           

assume valore indicativo ai fini della revoca o meno delle misure. 

Per le persone sottoposte a tutela vengono previste dalla legge anche misure di assistenza che                             

comprendono una sistemazione alloggiativa, le spese per i trasferimenti, le spese per esigenze                         

sanitarie quando non sia possibile avvalersi delle strutture pubbliche ordinarie, l'assistenza legale                       

e l'assegno di mantenimento nel caso di impossibilità a svolgere attività lavorativa. 

Nella legge n. 82 vengono inoltre definiti gli impegni che le persone nei cui confronti è stata                                 

avanzata proposta di ammissione alle misure di protezione sono tenute ad assumersi (art. 13).                           

Esse sono infatti obbligate a rilasciare all’autorità proponente completa e documentata                     

attestazione riguardante: il proprio stato civile, di famiglia, patrimoniale, gli obblighi a loro carico                           

derivanti dalla legge, da pronunce dell’autorità o da negozi giuridici, i procedimenti penali, civili e                             

amministrativi pendenti, i titoli di studio e professionali, le autorizzazioni, le licenze, le                         

concessioni e ogni altro titolo abilitativo di cui siano titolari. Gli interessati sono inoltre chiamati                             

a: osservare le norme di sicurezza, sottoporsi a interrogatori o altri atti di indagine, non rilasciare                               

ad altri soggetti dichiarazioni concernenti i fatti, non aver nessun tipo di contatto con persone                             

addette al crimine né altri collaboratori, specificare beni posseduti o controllati. Quest’ultimo                       

impegno, sin dalla legge n. 82, è specificamente richiesto esclusivamente ai collaboratori. Ai fini                           

del reinserimento sociale dei collaboratori e delle altre persone sottoposte a tutela è inoltre                           

garantita la conservazione del posto di lavoro o il trasferimento ad altra sede o ufficio e la                                 

possibilità di utilizzo di documenti di copertura. 

Nell’art. 9 viene specificato anche il carattere di attendibilità, novità e completezza che devono                           

avere le dichiarazioni del denunciante al fine dell’applicazione delle speciali misure di protezione.  

La legge n. 82 sancisce inoltre l’istituzione della Commissione centrale di protezione presso il                           

Ministero dell’Interno, l’organo amministrativo che adotta lo speciale programma di protezione                     

composto da un sottosegretario di Stato all'Interno che la presiede, da due magistrati e da cinque                               

funzionari e ufficiali. L’attuazione e la specificazione delle modalità esecutive delle misure di                         

protezione sono affidate invece al Servizio centrale di protezione, istituito nell’ambito del                       

Dipartimento di pubblica sicurezza con decreto del Ministro dell’Interno di concerto con il                         

Ministro del Tesoro. Il Servizio si articola in una struttura centralizzata con sede a Roma ed in                                 

altre strutture diffuse sul territorio: i nuclei operativi di protezione (NOP), ai quali è demandato il                               

compito di tenere fisicamente i rapporti con i collaboratori e i testimoni di giustizia. Spetta                             

proprio ai NOP, tenendo conto della variegata composizione della popolazione protetta,                     

affrontare le emergenze legate all’attuazione dello speciale programma di protezione siano esse                       

abitative, scolastiche, amministrative, sanitarie, lavorative, psicologiche. Per questo motivo si è                     

spesso sentita l’esigenza di un incremento numerico di questo gruppo di funzionari e di un                             

potenziamento delle loro competenze operative. 

 

1.3 Gli anni 2000. Nascono i testimoni 

La prima legge sui testimoni di giustizia ha avuto un iter parlamentare particolarmente travagliato                           

iniziato l’11 marzo 1997, data della sua presentazione, e terminato il 13 febbraio 2001, giorno in                               

cui è stata emanata. A partire dalla fine degli anni ‘90, infatti, le Relazioni semestrali del Ministero                                 

dell’Interno sui programmi di protezione avevano gradualmente sottolineato la necessità di                     

operare una distinzione normativa “tra la posizione di colui che rendeva la propria testimonianza                           

su fatti appresi in virtù di una pregressa appartenenza alla criminalità, organizzata e non, e quella                               

di chi, non provenendo dal mondo della delinquenza, assumeva la qualità di testimone”. Per                           2

questi individui, infatti, la “collaborazione” aveva quasi sempre significato l’allontanamento dalla                     

località di origine, spesso accompagnato dal cambio delle generalità, dai disagi e dalle crisi                           

personali e familiari ad esso connessi, dalla cessazione o compromissione dell’attività lavorativa. 

All’inizio del 2001 viene così approvata la legge n. 45 intitolata “Modifica della disciplina della                             

protezione e del trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia nonché                         

disposizioni a favore delle persone che prestano testimonianza”, grazie alla quale il testimone di                           

giustizia viene per la prima volta riconosciuto dal punto di vista normativo. La nuova legge                             

apporta specifiche integrazioni alla legge del ‘91 introducendo significativi cambiamenti dal punto                       

2 Relazione al parlamento sui programmi di protezione (1 gennaio - 10 giugno 1998), Nota integrativa, in D’AMBROSIO,                                  Collaboratori e testimoni di giustizia cit., p. 245. 

di vista della definizione giuridica del profilo del testimone e, conseguentemente, del suo                         

trattamento specifico. Il legislatore opta per la tecnica della cosiddetta interpolazione: interviene                       

sulla legge con integrazioni, modifiche e innesti, svelando così la volontà di aggiornare,                         

coordinare e risistemare le norme preesistenti, ma mancando l’opportunità di creare una                       

normativa ad hoc per i testimoni in grado di risolvere la confusione originaria che li accomunava                               

ai collaboratori.  

La prima grande novità è sicuramente la modifica del titolo stesso del decreto dove vengono                             

ufficialmente introdotti i testimoni di giustizia e che muta in “Nuove norme in materia di                             

sequestri di persona a scopo di estorsione e per la protezione dei testimoni di giustizia nonché                               

per la protezione e il trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia”.                           

Questo è un fatto particolarmente rilevante perché sin dal titolo del decreto viene prevista                           

l’esistenza di due figure nettamente distinte. La legge n. 45, però, è particolarmente significativa                           

anche perché dà la prima definizione normativa del profilo del testimone gettando le basi per la                               

costruzione di una sua identità giuridica definita ed esplicitamente separata da quella dei                         

collaboratori. Vengono infatti introdotti, con il CAPO II bis - Norme per la protezione dei testimoni di                                 

giustizia, due articoli (16-bis e 16-ter) riguardanti la definizione e la tutela esclusivamente di questi                             

soggetti. Il primo articolo qualifica i testimoni come: 

coloro che assumono rispetto al fatto o ai fatti delittuosi in ordine ai quali rendono le                               

dichiarazioni esclusivamente la qualità di persona offesa dal reato ovvero di persona informata sui                           

fatti o di testimone, purché nei loro confronti non sia stata disposta una misura di prevenzione,                               

ovvero non sia in corso un provvedimento di applicazione della stessa. 

Vengono quindi chiariti l’equivoco e la confusione nati con la legge n. 82, dando definizione del                               

testimone come vittima, persona informata o che ha assistito ai fatti, con la condizione che non                               

siano state disposte nei suoi confronti misure di prevenzione. Si prevede, inoltre, che le misure di                               

protezione previste per i collaboratori di giustizia vengano estese anche ai testimoni e a coloro                             

che “coabitano o convivono stabilmente (...) nonché (...) a chi risulti esposto a grave, attuale e                               

concreto pericolo a causa delle relazioni intrattenute con le medesime persone” (art. 2, comma                           

5). 

La nuova legge provvede anche ad alcune modifiche del regime tutorio prevedendo, in totale,                           

quattro possibili tipologie di misure: 

10 

1. le misure urgenti, adottate dall'autorità provinciale di pubblica sicurezza in situazioni                     

particolarmente gravi che non consentono di attendere la decisione della Commissione                     

centrale. 

2. il piano provvisorio di protezione, una misura contingente attuata nell’immediatezza                   

dell’inizio della collaborazione o della testimonianza nel caso di situazioni di particolare                       

gravità. Esso ha durata massima di centottanta giorni con possibilità di prolungamento                       

nel caso non siano ancora state definite le misure di tutela da adottare e può avere il                                 

contenuto e predisporsi nella modalità d’attuazione di ognuna della altre due forme di                         

tutela. 

3. le speciali misure di protezione, attuate dal prefetto nel luogo di residenza, prevedono la                           

permanenza del soggetto nel luogo d’origine e misure di vigilanza e tutela in loco. Il                             

contenuto di queste misure di tutela può essere rappresentato (art. 13, comma 4): 

oltre che dalla predisposizione di misure di tutela da eseguire a cura degli organi di polizia                               

territorialmente competenti, dalla predisposizione di accorgimenti tecnici di sicurezza,                 

dall’adozione delle misure necessarie per i trasferimenti in comuni diversi da quelli di                         

residenza, dalla previsione di interventi contingenti finalizzati ad agevolare il                   

reinserimento sociale nonché dal ricorso, nel rispetto delle norme dell’ordinamento                   

penitenziario, a modalità particolari di custodia in istituti ovvero di esecuzione di                       

traduzioni e piantonamenti. 

4. Se anche le speciali misure di protezione si rivelassero insufficienti, esse possono altresì                         

essere sostituite da un programma speciale di protezione, che può comprendere, oltre alle                         

disposizioni previste dalle speciali misure (art. 13, comma 5): 

il trasferimento delle persone non detenute in luoghi protetti, speciali modalità di tenuta                         

della documentazione e delle comunicazioni al servizio informatico, misure di assistenza                     

personale ed economica, cambiamento delle generalità, misure atte a favorire il                     

reinserimento sociale del collaboratore e delle altre persone sottoposte a protezione oltre                       

che misure straordinarie eventualmente necessarie. 

Questa codificazione porta con sé una fondamentale novità, ovvero l’ancoraggio della                     

graduazione delle misure di protezione alla oggettiva situazione di pericolo del soggetto. La scelta                           

tra misure speciali di protezione e programma speciale di protezione non dipende infatti dalla                           

11 

qualità o dalla rilevanza delle dichiarazioni rese, ma esclusivamente dell'oggettiva situazione di                       

pericolo a cui il soggetto è sottoposto e le misure previste devono essere mantenute fino alla                               

effettiva cessazione del rischio, indipendentemente dallo stato e dal grado in cui si trova il                             

procedimento penale in relazione al quale i soggetti destinatari delle misure hanno reso                         

dichiarazioni.  

La sostanziale novità specifica per quanto riguarda il regime tutorio dei testimoni di giustizia è                             

contenuta, invece, nell’articolo 16-ter (“Contenuto delle speciali misure di protezione”), che                     

disciplina la misura dello speciale programma di protezione e la differenzia, per gli aspetti                           

patrimoniali e di reinserimento sociale, da quella prevista dall’articolo 13 del medesimo decreto                         

legge per i collaboratori di giustizia. Il programma per i testimoni dà loro diritto a: 

1. misure di protezione per sé e per i familiari fino alla cessazione del pericolo; 

2. misure di assistenza volte a garantire un tenore di vita personale e familiare non inferiore                             

a quello precedente. Questo punto rappresenta una delle criticità ancora dibattute della                       

lettera della legge, che non specifica nel dettaglio su quali parametri basare la valutazione                           

del tenore di vita; 

3. la capitalizzazione del costo di assistenza, in alternativa alla stessa; 

4. il mantenimento del posto di lavoro in aspettativa retribuita, se dipendenti pubblici; 

5. la corresponsione di una somma a titolo di mancato guadagno, sempre che i testimoni                           

non abbiano ricevuto un risarcimento ai sensi della legge sull’usura (legge n. 44/1999); 

6. mutui agevolati. 

Inoltre, se lo speciale programma di protezione include il definitivo trasferimento in altra località,                           

il testimone di giustizia ha diritto ad ottenere l'acquisizione dei beni immobili dei quali è                             

proprietario al patrimonio dello Stato, dietro corresponsione dell'equivalente in denaro a prezzo                       

di mercato. 

Il trattamento dei testimoni acquista in questo modo un importante elemento discriminante                       

rispetto a quello dei collaboratori, ovvero la garanzia di un’assistenza economica calibrata per                         

poter riacquisire non solo l’indipendenza economica, ma lo stesso tenore di vita precedente alle                           

denunce. In questa misura, che ancora molto spesso trova difficile attuazione ed è legata                           

12 

esclusivamente al programma speciale di protezione, risiede il principio del riconoscimento del                       

debito che lo Stato ha nei confronti del testimone, a cui deve essere in grado di riconoscere e                                   

garantire i medesimi diritti e il medesimo livello di vita che aveva prima dell’acquisizione dello                             

status.  

Nella nuova legge non sono però state specificamente disciplinate per i testimoni le speciali                           

misure di protezione; non sono infatti previste forme di assistenza economica per le attività dei                             

testimoni che rimangono nei luoghi d’origine e che, posti spesso di fronte alla pervasività delle                             

associazioni criminali o a una scarsa e impaurita reazione da parte del territorio e della                             

cittadinanza, si trovano a subire gravi danni nelle loro attività imprenditoriali come perdite di                           

commesse, riduzione della clientela o interruzione di rapporti di fornitura. 

Riguardo alle dichiarazioni rese, la legge non prevede più il limite derivante dal riferimento all'art.                             

51 comma 3-bis c.p.p., dunque i testimoni possono essere ammessi alle speciali misure di                           

protezione indipendentemente dal reato in ordine al quale rilasciano dichiarazioni e non sono                         

richiesti i requisiti della completezza o novità delle dichiarazioni che si richiedono invece ai                           

soggetti già militanti in organizzazioni criminali. 

Il Servizio centrale, inoltre, viene ufficialmente diviso in due sezioni, ciascuna dotata di personale                           

e strutture autonomi, che hanno competenze l’una sui collaboratori e l’altra sui testimoni. Questo                           

significativo riconoscimento della necessità di una differenziazione di trattamento dei testimoni                     

rispetto ai collaboratori è il risultato di una prassi che, anche se non ancora normativamente                             

regolata, era già presente negli organi istituzionali che gestivano i testimoni. Già esisteva, infatti,                           

un’apposita sezione del Servizio centrale che si occupava del loro trattamento e che garantiva                           

loro la possibilità di ottenere un aumento del 50% dell’assegno di mantenimento, il rimborso                           

spese per prestazioni mediche private, il trasferimento in alloggi preventivamente controllati dai                       

funzionari e contributi straordinari per favorire iniziative imprenditoriali dopo l’uscita dal                     

programma. La pratica operativa riconosceva già due aspetti importanti: il trattamento                     

differenziato per le due figure e speciali misure economiche per l’assistenza e il reinserimento                           

sociale dei testimoni. L’attività normativa mostra quindi, oltre a una scarsa accuratezza di tipo                           

definitorio, anche un ritardo rispetto alla consuetudine pratica. 

La legislazione è stata in seguito completata dal decreto ministeriale n. 161 del 23 aprile 2004,                               

“Regolamento ministeriale concernente le speciali misure di protezione previste per i                     

13 

collaboratori di giustizia e i testimoni, ai sensi dell'articolo 17-bis del decreto-legge 15 gennaio                           

1991, n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 marzo 1991, n. 82, introdotto                           

dall'articolo 19 della legge 13 febbraio 2001, n. 45” che provvede alla codificazione del regime                             

tutorio di collaboratori e testimoni e stabilisce i criteri che la Commissione centrale deve                           

applicare nelle fasi di istruttoria, formulazione e attuazione delle misure di protezione. 

Il decreto ministeriale n. 138 del 13 maggio 2005, intitolato “Misure per il reinserimento sociale                             

dei collaboratori di giustizia e delle altre persone sottoposte a protezione, nonché dei minori                           

compresi nelle speciali misure di protezione” provvede invece a regolamentare un altro aspetto                         

fondamentale della vita del testimone, e quindi della sua identità, dopo l’acquisizione dello status,                           

ovvero la sua attività lavorativa e professionale. In particolare ai testimoni dipendenti pubblici                         

ammessi alle speciali misure, ma trasferiti in comuni diversi da quello di residenza, viene                           

assicurata la ricollocazione presso altre sedi dello stesso ente o presso altri enti; ai testimoni                             

dipendenti pubblici ma ammessi al programma speciale e quindi trasferiti in località protetta                         

viene garantita la collocazione in aspettativa retribuita; per i testimoni dipendenti privati ammessi                         

alle speciali misure che per ragioni di sicurezza si trovano impossibilitati a proseguire l’attività                           

lavorativa e per quelli ammessi al programma speciale è mantenuto il posto di lavoro con                             

sospensione degli oneri retributivi e previdenziali a carico del datore di lavoro e vengono                           

rimborsati eventuali contributi volontari versati. 

Un ulteriore apporto in questo senso è stato dato dal decreto legge 31 agosto 2013, n. 101,                                 

convertito dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125, che conferisce il diritto, per i testimoni sottoposti                               

a programma speciale o fuoriusciti dallo stesso, “ad accedere (...) ad un programma di assunzione                             

in una pubblica amministrazione con qualifica e funzioni corrispondenti al titolo di studio e alle                             

professionalità possedute, fatte salve quelle che richiedono il possesso di requisiti specifici” (art.                         

7). La legge, però, ha ad oggi trovato attuazione solamente in Sicilia, regione a statuto speciale                               

che ha potuto recepire più velocemente la legge attraverso la sua assemblea regionale.                         

Attualmente, infatti, tutti i testimoni di giustizia siciliani aventi diritto hanno trovato un posto                           

nella pubblica amministrazione. Purtroppo, però, in fase di applicazione della norma si sono                         

incontrate numerose difficoltà: i beneficiari siciliani, che per motivi di sicurezza non possono                         

restare nell’isola, sono stati assunti tutti nella medesima amministrazione, l’ufficio romano della                       

14 

Regione Sicilia, con conseguenti problemi di sicurezza, tutela, nonché di sovraffollamento di                       

personale e quindi di scarsa valorizzazione del lavoro.  

 

1.4 Le sfide normative di oggi. La nuova proposta di legge per                       un’identità legislativa dei testimoni di giustizia 

Dal 2001 ad oggi il dibattito sui testimoni di giustizia, pur avendo conosciuto alternate fasi di                               

discussione e di esposizione mediatica, non si è mai spento. Sempre più testimoni si sono                             

impegnati per far conoscere le loro storie e per portare avanti le loro rivendicazioni in sede                               

politica, confermando l’esigenza di un ripensamento, anche normativo, della questione. 

Nell’ottobre del 2014 Camera e Senato hanno approvato all’unanimità una Relazione redatta                       

dalla Commissione parlamentare antimafia a seguito di un’inchiesta sul sistema di protezione dei                         

testimoni di giustizia. La Relazione ripercorre la storia normativa dello status di testimone di                           

giustizia e riconosce la sua genesi “impura” nel decreto numero 8, trasformato poi in legge n.                               

82/1991, voluto e ideato per disporre misure extra ordinem per la lotta alle associazioni mafiose e                               

sottolinea come l’assenza di disposizioni specificamente dedicate ai testimoni di giustizia non sia                         

stato frutto di una dimenticanza. La Relazione, infatti, definisce chiaramente la testimonianza                       

come: 

l’estrinsecazione del diritto alla denuncia o dell’obbligo di riferire all’autorità giudiziaria che lo                         

richiede e, pertanto, attiene, secondo il codice di rito, al meccanismo ordinario di riaffermazione                           

della legalità e non a quello straordinario di lotta all’illegalità.   3

Si fa quindi una nettissima distinzione fra due figure che, oltre a essere spinte da motivazioni                               

differenti e a trovarsi in posizioni socialmente e giuridicamente distanti, sono riconosciute come                         

soggetti definitori di due diversi paradigmi. Da una parte esiste, infatti, un paradigma della legalità                             

e dell’ordinarietà rappresentato dal testimone, un normale cittadino che assolve con la                       

testimonianza il proprio dovere di solidarietà sociale, di verità e di giustizia, esercitando un diritto                             

(denuncia) e sottoponendosi ad un obbligo (riferire all’autorità) e trovandosi, a causa di queste                           

scelte “ordinarie”, in una situazione di pericolo per la propria vita. Dall’altra parte, invece,                           

3 Relazione sul sistema di protezione dei testimoni di giustizia, approvata dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sul                               fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere il 21 ottobre 2014, relatore: Davide                               Mattiello, p. 8. 

15 

troviamo un paradigma dell’illegalità, del “fuori dall’ordinario”: la situazione in cui lo Stato è                           

costretto a predisporre, trovandosi di fronte a una particolare tipologia di criminalità organizzata                         

che si regge sul potere di assoggettamento e sul vincolo al silenzio che lega i suoi membri, oltre                                   

che uno specifico meccanismo di tutela, anche delle consistenti misure premiali per chi decide di                             

rompere questi vincoli denunciando se stesso ed altri ed esponendo così l’organizzazione alla                         

possibilità di essere conosciuta, nonché colpita, nei suoi meccanismi organizzativi ed operativi.                       

La legge n. 45 del 2001 ha in seguito dato definizione normativa autonoma al testimone di                               

giustizia ridefinendo anche il rapporto tra questa figura e lo Stato “che non si fonda, né può                                 

fondarsi, sulla premialità o sull’assistenzialismo, bensì sul riconoscimento e la garanzia dei diritti                         

pregressi” . Il testimone quindi 4

essendo colui che adempie a un dovere civico, non può essere retribuito per le sue dichiarazioni                               

ma, al contrario, deve essere posto nella condizione di renderle in sicurezza e senza che la difesa                                 

statale possa per lui risolversi in un danno economico, lavorativo o sociale.  5

La Relazione sottolinea inoltre come, a causa delle mutazioni delle organizzazioni criminali,                       

anche inerenti alle loro scelte operative, che più raramente si risolvono in atti sanguinari eclatanti,                             

si sia verificato e si stia verificando un mutamento del concetto stesso di pericolo che necessita di                                 

essere ripensato non più nell’ottica emergenziale dei primi anni ‘90, ma di essere più strettamente                             

calibrato e rimodellato sui vari contesti di provenienza degli individui che prestano                       

testimonianza.  

Un’ulteriore analisi riguarda il malcontento sempre più evidente dei testimoni riguardo al                       

trattamento ricevuto e alle garanzie dovute e non rispettate, che ha portato a episodi sempre più                               

frequenti e sistematici di rimostranze, rivendicazioni, manifestazioni di dissenso e di delusione                       

per la mancanza del supporto istituzionale. Le problematiche che più di altre si sono messe in                               

evidenza durante le varie audizioni dei testimoni su cui è stata costruita l’inchiesta parlamentare                           

riguardano in particolare: un deficit informativo, per cui la maggior parte dei testimoni, al                           

momento della denuncia, non possiede le informazioni necessarie e complete per comprendere                       

che cosa, dal punto di vista pratico, comporterà la loro scelta; la non idoneità delle sistemazioni                               

logistiche, spesso alloggi isolati e da tempo abbandonati che versano in discutibili condizioni;                         

l’inadeguatezza del sistema di reinserimento socio-lavorativo, in particolare viene notata una non                       

4 Ibidem. 5 Ibidem. 

16 

attuazione della norma che prevede la garanzia del mantenimento di un tenore di vita uguale a                               

quello precedente alle denunce; una disparità di trattamento tra i diversi testimoni, nonché la                           

lentezza e la burocratizzazione delle procedure. Si evidenzia così un’esigenza molto sentita di                         

rimettere mano all’intero sistema di applicazione delle misure di tutela, in un’ottica che preservi e                             

rispetti la parità del rapporto tra Stato e testimone, a cui va riservato un trattamento dignitoso                               

che garantisca l’incolumità sua e della sua famiglia, la preservazione dei suoi diritti di uomo e                               

cittadino, la possibilità di non perdere l’attività economica e il lavoro e, nel caso, di avere tutti i                                   

mezzi necessari per un reinserimento completo in un nuovo tessuto sociale. 

La politica si trova così di fronte a diverse tipologie di problemi da affrontare nel dibattito sulla                                 

nuova normativa: 

1. in primo luogo la necessità sempre più sentita di risolvere l’iniziale equivoco definitorio                         

nato con la legge del 1991 e di identificare in maniera univoca la figura del testimone di                                 

giustizia, dedicandogli una legge separata e indipendente; 

2. stabilire con chiarezza le condizioni di accesso allo status di testimone, individuando                       

criteri oggettivi di valutazione delle tipologie di soggetti. 

3. provvedere al potenziamento del regime di protezione e al suo buon funzionamento. 

L’inchiesta, la relativa Relazione e due risoluzioni di Camera e Senato hanno costituito la base per                               

la proposta di legge n. 3500 che, sottoscritta da tutti i gruppi parlamentari, è stata presentata alla                                 

Camera per la prima lettura il 15 dicembre del 2015. La nuova normativa, pensata esclusivamente                             

per i testimoni, mirerebbe a raggiungere quella definizione legislativa che è stata per così tanti                             

anni mancante; prevedendo una legge indipendente, slegata da quella sui collaboratori di giustizia                         

e che contenga indicazioni specificamente dirette alla tutela dei testimoni, si risponderebbe                       

all’esigenza di dare indipendenza e riconoscimento giuridico a questi soggetti. 

Il progetto di proposta di legge è stato presentato anche in occasione del convegno “La Carta dei                                 

diritti e dei doveri per la protezione a favore dei testimoni e collaboratori di giustizia. Dalla                               

presentazione del Rapporto del Gruppo di lavoro alle proposte di riforma del sistema” tenutosi                           

all’Accademia dei Lincei, a Roma, il 26 ottobre del 2015 e coordinato dal viceministro                           

dell’Interno e presidente della Commissione centrale per la definizione e applicazione delle                       

speciali misure di protezione Filippo Bubbico. In occasione del convegno sono stati presentati i                           

17 

risultati del gruppo di lavoro alle proposte di riforma in attività dall’inizio del 2015 e formato da                                 

procuratori, professori di psicologia, economia, diritto, sociologia, rappresentanti dei ministeri                   

dell’Interno e dell’Istruzione, da prefetti e dall’ex direttore del Servizio centrale di protezione.                         

Durante la presentazione dei lavori il tema della determinazione di un profilo identificativo del                           

testimone è stato uno dei più ricorrenti, sintomo di una ancora viva necessità di capire innanzi                               

tutto chi siano i testimoni, chi abbia diritto ad acquisire questo status e quali siano diritti e i doveri                                     

che ne conseguono. Dal dibattito è in particolare risultato evidente che esiste a tutti gli effetti una                                 

definizione teorica “pura” e riconosciuta di testimone, individuato in quel cittadino estraneo ai                         

contesti di criminalità che si trova casualmente ad assistere ad un reato e per spirito civico, di                                 

legalità e verità consegna alle autorità la sua testimonianza riguardo a quello specifico fatto e                             

proprio per questo rischia di vedere stravolta la propria vita personale e familiare dal punto di                               

vista affettivo, sociale, economico e della propria incolumità fisica. Ancora più evidente, però, si                           

è resa la necessità di approfondire le situazioni specifiche dei testimoni reali, il cui profilo                             

aderisce solo in parte a questa definizione-modello. Molto spesso, infatti, i testimoni sono, da                           

una parte, vittime del reato che denunciano, in particolare si tratta per la maggior parte di                               

imprenditori vittime del racket delle estorsioni mafiose, e dall’altra familiari di individui inseriti                         

nelle organizzazioni criminali o ad esse tangenti, che decidono di spezzare un certo tipo di                             

cultura criminale familiare (si tratta in questo caso nella quasi totalità di famiglie mafiose o che                               

hanno rapporti di qualche tipo con la criminalità organizzata). In entrambi i casi si delineano,                             

inoltre, ulteriori separazioni e “gradazioni” di profili in base al livello della consapevolezza e                           

libertà della vittima e del familiare o affine, al grado di coinvolgimento nelle attività criminali che                               

ha riguardato quella persona e a quello di soggiogamento a cui era sottoposta. Si tratteggiano così                               

i contorni del cosiddetto testimone “borderline”, definito dalla Commissione antimafia come                     

“quell’individuo che instaura con l’attività criminale un rapporto ambiguo, in alcuni casi                       

prendendo l’iniziativa del rapporto con estorsori e usurai per ottenere benefici e che denuncia                           

solo quando si trova in difficoltà economica oppure quegli individui provenienti da nuclei                         

familiari composti da persone inserite nell’associazione o ad esse contigui che hanno tratto dei                           

benefici economici o sociali dall’appartenenza dei loro congiunti a gruppi criminali”. Si                       6

riconosce così l’esistenza di una figura non completamente “incontaminata”, che si è trovata in                           

6 Rosy Bindi durante l’incontro “La Carta dei diritti e dei doveri per la protezione a favore dei testimoni e                                       collaboratori di giustizia. Dalla presentazione del Rapporto del Gruppo di lavoro alle proposte di riforma del                               sistema”, Accademia dei Lincei, Roma, 26 ottobre 2015. 

18 

una situazione di tangenzialità, prossimità, se non di coinvolgimento più o meno passivo rispetto                           

alle organizzazioni criminali; una figura ibrida non estranea al contesto e alla cultura criminosi per                             

cui è necessario, secondo la proposta di legge, ridisegnare i confini legislativi prevedendo, se                           

necessario, la creazione di un tertium genus, una figura a metà strada tra il collaboratore e il                                 

testimone normativamente definita nelle sue specificità. Per poterlo fare la Commissione                     

antimafia denuncia il bisogno di integrare la figura stessa del testimone di giustizia attraverso                           

l’aggiunta del requisito della “terzietà” del dichiarante rispetto al contesto e ai fatti. L’art. 2 della                               

proposta dà infatti una modificata definizione dei testimoni di giustizia come: 

1. coloro che rendono nell’ambito di un procedimento penale dichiarazioni di fondata                     

attendibilità intrinseca rilevanti per le indagini o per il giudizio, anche indipendentemente                       

dal loro esito; 

2. assumono rispetto al fatto delittuoso oggetto delle loro dichiarazioni la qualità di persona                         

offesa dal reato ovvero di persona informata sui fatti o di testimone; 

3. sono terzi rispetto ai fatti dichiarati, in particolare non hanno riportato condanne per                         

delitti connessi a quelli per cui si procede e non hanno consapevolmente rivolto a                           

proprio profitto l’essere venuti in relazione con il contesto delittuoso di cui rendono                         

dichiarazione. Si specifica inoltre che non escludono la terzietà del dichiarante le                       

condotte realizzate in ragione dell’assoggettamento verso i singoli o le associazioni                     

criminali oggetto delle dichiarazioni né i meri rapporti di parentela, di affinità o di                           

coniugio con indagati o imputati per il delitto per cui si procede o per delitti ad esso                                 

connessi; 

4. non sia stata disposta nei loro confronti una misura di prevenzione ovvero non sia in                             

corso un procedimento di applicazione della stessa; 

5. si trovano in una situazione di grave, concreto e attuale pericolo, rispetto alla quale risulti                             

l’assoluta inadeguatezza delle ordinarie misure di tutela adottabili direttamente                 

dall’autorità di pubblica sicurezza, valutata tenendo conto di ogni utile elemento e in                         

particolare della rilevanza e qualità delle dichiarazioni rese, della natura del reato, dello                         

stato e del grado del procedimento, delle caratteristiche di reazione dei singoli e dei                           

gruppi criminali oggetto delle dichiarazioni. 

19 

In particolare, la proposta di legge va nella direzione di una personalizzazione del trattamento                           

tutorio eliminando la distinzione tra speciali misure in località d’origine e in altra località, ma                             

prevedendo una serie di misure di tutela, di assistenza economica e di risocializzazione tra le quali                               

optare tenendo conto, di volta in volta, della diversità di vicende e contesti e delle esigenze di                                 

ciascun testimone. Per quanto riguarda le speciali misure di protezione, esse sarebbero                       

individuate (art. 4): 

caso per caso, secondo la situazione di pericolo e la condizione personale, familiare, sociale ed                             

economica dei testimoni di giustizia e degli altri protetti e non possono comportare alcuna perdita                             

né compressione dei diritti goduti se non per situazioni temporanee ed eccezionali dettate dalla                           

necessità di salvaguardare l’incolumità personale. 

Nello stesso articolo viene specificata la preferenza che deve essere assicurata, nella scelta delle                           

misure di protezione, alla tutela in loco e la conseguente eccezionalità delle misure in località                             

protetta, da adottare esclusivamente “quando le altre forme di tutela risultano assolutamente                       

inadeguate rispetto alla gravità e all’attualità del pericolo, e devono comunque tendere a                         

riprodurre le precedenti condizioni di vita.” Particolarmente significativa è anche la                     

specificazione, sintomo di un’attuale carenza di attenzione nei confronti delle condizioni di vita                         

dei testimoni, che va a loro e agli altri protetti assicurata in ogni caso “un’esistenza dignitosa”                               

(art. 4, comma 3). L’art. 5 provvede a codificare le diverse misure di tutela che potrebbero                               

consistere in: 

a) misure di sorveglianza e accompagnamento; 

b) accorgimenti tecnici di sicurezza per le abitazioni, per gli immobili e per le aziende; 

c) misure necessarie per gli spostamenti; 

d) trasferimento in luoghi protetti; 

e) documenti di copertura; 

f) cambiamento delle generalità; 

g) ogni altro accorgimento necessario. 

Le misure di sostegno economico prevederebbero invece (art. 6): 

a) la corresponsione delle spese non continuative che il testimone sostiene in conseguenza                       

dell’applicazione delle speciali misure; 

20 

b) la corresponsione di un assegno periodico in caso di impossibilità a svolgere l’attività                         

lavorativa; 

c) la sistemazione alloggiativa, con la specificazione che essa debba essere idonea a garantire                         

la sicurezza e la dignità dei testimoni e che debba corrispondere alla categoria catastale                           

della dimora abituale precedente; 

d) le spese per esigenze sanitarie; 

e) l’assistenza legale; 

f) un indennizzo forfettario e onnicomprensivo a titolo di ristoro per il pregiudizio subìto a                           

causa dell’applicazione delle speciali misure di protezione; 

g) la corresponsione di una somma a titolo di mancato guadagno derivante dalla cessazione                         

dell’attività lavorativa del testimone; 

h) l’acquisizione al patrimonio dello Stato, dietro corresponsione dell’equivalente in denaro                   

secondo il valore di mercato, dei beni immobili di proprietà del testimone. 

Le misure di reinserimento sociale e lavorativo dovrebbero invece consistere in (art. 7): 

a) conservazione del posto di lavoro o trasferimento presso altre amministrazioni o sedi; 

b) individuazione e svolgimento, non oltre sei mesi dal trasferimento in località protetta, di                         

attività, anche lavorative non retribuite, volte allo sviluppo della persona umana e alla sua                           

partecipazione sociale; 

c) spese e misure necessarie per supportare le imprese dei testimoni di giustizia; 

d) mutui agevolati; 

e) reperimento di un posto di lavoro equivalente per posizione e mansione a quello                         

precedentemente svolto; 

f) capitalizzazione del costo dell’assegno periodico qualora i testimoni non abbiano                   

riacquistato l’autonomia lavorativa o il godimento di un reddito proprio. La                     

capitalizzazione dovrebbe essere corrisposta sulla base di un concreto progetto di                     

reinserimento lavorativo e con un’erogazione graduale commisurata alla progressiva                 

realizzazione del progetto. In questo modo la legge cercherebbe di evitare, come è più                           

volte accaduto, situazioni di dispersione del valore economico legate anche al lungo                       

periodo di assenza dal mondo del lavoro del soggetto coinvolto; 

g) accesso del testimone, in alternativa alla capitalizzazione e qualora non abbia riacquistato                       

l’autonomia economica, a un programma di assunzione nella pubblica amministrazione.                   

21 

Questo provvedimento considera l’assunzione nelle pubbliche amministrazioni come               

extrema ratio subordinata al fallimento delle alternative confacenti al singolo testimone,                     

nell’idea di perseguire, per quanto possibile, la reintegrazione dell’attività lavorativa                   

pregressa. 

Al fine di evitare, come spesso accaduto, estensioni senza termine delle misure di tutela, la nuova                               

legge prevederebbe anche una loro durata stabilita. Sarebbero infatti mantenute fino alla                       

cessazione del pericolo attuale, grave e concreto e, dove possibile, gradualmente affievolite. Nel                         

caso tale situazione di pericolo si protragga oltre il termine di sei anni, i testimoni in località                                 

protetta sarebbero trasferiti definitivamente e, se necessario, sottoposti al cambio delle generalità.                       

Le altre misure sarebbero invece mantenute fino a quando i testimoni non abbiano raggiunto                           

nuovamente l’autonomia economica. 

La proposta di modifica della legge prevederebbe, inoltre, l’istituzione della figura del cosiddetto                         

“referente” del testimone di giustizia. La creazione, all’interno del sistema tutorio, di un soggetto                           

di riferimento che assista e accompagni il testimone era già stata ipotizzata dalla Relazione sui                             

testimoni di giustizia, presentata da Angela Napoli e approvata dalla Commissione parlamentare                       

d'inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare il 19 febbraio 2008 che                           

proponeva, con l’obiettivo di una rimodellazione in un’ottica relazionale della gestione del                       

testimone di giustizia, la figura del cosiddetto “tutor” (punto d): 

una persona che si ponga come interlocutore - per conto del TdG - degli organi amministrativi e                                 

più in generale della pubblica amministrazione. Dotato di poteri adeguati allo scopo,                       

normativamente definiti, affianca il testimone nella risoluzione di tutte le problematiche che                       

sorgono dal momento della collocazione sul territorio. 

Sull’onda di questa riflessione, il referente, secondo l’art. 14 della nuova legge, sarebbe tenuto a: 

a) informare regolarmente il testimone di giustizia e gli altri protetti sulle misure speciali applicate,                           

sulle loro conseguenze, sulle loro possibili modifiche, sulla loro attuazione, nonché sui diritti,                         

patrimoniali e non patrimoniali, interessati dal programma di protezione e degli altri protetti; 

b) individuare e quantificare il patrimonio, attivo e passivo, e le obbligazioni del testimone di                           

giustizia e degli altri protetti; 

c) collaborare con la Commissione centrale e con il Servizio centrale di protezione esprimendo                         

pareri sui provvedimenti di proroga, modifica e revoca del programma di protezione, informando                         

22 

sull’andamento del programma medesimo, sulla necessità di adeguarlo alle sopravvenute esigenze                     

dell’interessato, nonché sulla condotta e sull’osservanza degli impegni assunti; 

d) gestire, o contribuire a gestire, con il consenso degli interessati, il patrimonio e i beni aziendali, le                                 

situazioni creditorie e debitorie e ogni altro interesse patrimoniale del testimone di giustizia e                           

degli altri protetti se questi non possono provvedervi a causa delle dichiarazioni rese o                           

dell’applicazione del programma di protezione; 

e) proporre i progetti di reinserimento sociale e lavorativo e verificare la loro concreta realizzazione; 

f) proporre i progetti di capitalizzazione, contribuire alla loro concreta realizzazione e rendicontare                       

periodicamente alla Commissione centrale l’utilizzazione delle somme attribuite ai sensi                   

dell’articolo 7, comma 1, lettera f); 

g) collaborare tempestivamente per assicurare l’esercizio di diritti che potrebbero subire limitazione                     

dall’applicazione delle speciali misure di protezione; 

h) mantenere il segreto su ciò che riguarda il testimone di giustizia e gli altri protetti e concordare                                 

con il Servizio centrale di protezione le modalità di incontro e di contatto con gli stessi, nonché di                                   

divulgazione dei dati concernenti i medesimi. 

L’assistenza del referente, inoltre, si protrarrebbe per la durata del programma di protezione e,                           

comunque, finché il testimone di giustizia e gli altri protetti non abbiano riacquistato la propria                             

autonomia economica. 

Nella concezione di una “dinamizzazione dell’assistenza” , la nuova legge cerca quindi di                       7

risolvere il deficit informativo denunciato da molti testimoni attraverso l’istituzione di una figura                         

di riferimento che si occupi anche della questione della gestione delle informazioni da trasmettere                           

alla Commissione centrale, nonché della richiesta, se così è stato indicato dal testimone, di un                             

sostegno di tipo psicologico. La Commissione risolve in questo modo un altro dei punti di                             

maggior dibattito. Se da molti era infatti stato sostenuto che fosse necessario prevedere per legge                             

un supporto psicologico ai testimoni, la Commissione antimafia propende invece per interpretare                       

l’assistenza psicologica come un servizio di cui il testimone può decidere di usufruire o meno,                             

sostenendo l’idea che non sia necessario optare per un approccio assistenzialista e sottoporre le                           

persone tutelate a servizi o trattamenti non esplicitamente richiesti. La Commissione, infatti,                       

sostiene che il sistema di gestione dei testimoni di giustizia, come inteso dalla proposta di legge,                               

7 Rosy Bindi durante l’incontro “La Carta dei diritti e dei doveri per la protezione a favore dei testimoni e                                       collaboratori di giustizia. Dalla presentazione del Rapporto del Gruppo di lavoro alle proposte di riforma del                               sistema” cit. 

23 

possa addirittura diventare pratica esemplificativa di “cosa dovrebbe essere il welfare” , ovvero                       8

una garanzia di uguali diritti per tutti, ma applicati in maniera differenziata a seconda del contesto                               

e delle condizioni di partenza di ciascuno.  

Sempre nell’ottica della creazione di un valido sistema informativo e di sostegno che accompagni                           

il testimone in tutti i momenti del processo di denuncia, la proposta di legge prevede la creazione                                 

di uno specifico sito internet del Ministero dell’Interno che contenga tutte le informazioni utili sui                             

programmi di protezione, sulle modalità e sui luoghi per la presentazione della denuncia e                           

sull’eventuale presenza nei territori di associazioni di sostegno. 

Per quanto riguarda, invece, i doveri del testimone essi sono stati definiti come quelli riguardanti                             

esclusivamente l’osservanza delle regole di sicurezza. 

Infine, sull’onda della vicenda di Lea Garofalo che, dopo essere stata estromessa e in seguito                             

riammessa al programma di protezione, poi volontariamente abbandonato per le ristrettezze a cui                         

destinava lei e la figlia, venne uccisa dal compagno ‘ndranghetista di cui aveva denunciato le                             

attività illegali, la proposta di legge prevederebbe la possibilità di accedere al cambiamento delle                           

generalità anche per soggetti non rientranti nello status di testimoni di giustizia, ma che si trovano                               

in una condizione di pericolo a causa della volontà di recidere il legame derivante da rapporti di                                 

parentela, affinità, coniugio o convivenza con indagati, imputati o condannati per gravi reati o da                             

rapporti con persone vittime di gravi delitti.  

La proposta di legge n. 3500 è ad oggi assegnata alla II Commissione Giustizia. 

    

8 Ibidem. 

24 

2. L’AUTOPERCEZIONE: CHI SONO E COME SI 

RACCONTANO I TESTIMONI DI GIUSTIZIA 

 

 

2.1 I racconti 

La questione dell’identità è innanzi tutto una questione di percezione di se stessi rispetto agli altri,                               

l’insieme di caratteristiche uniche che differenziano la singola persona dal resto degli individui,                         

ma anche quegli aspetti che la rendono affine a determinati gruppi sociali come la nazionalità,                             

l’etnia, la religione, la classe sociale, la professione. I testimoni di giustizia, dal momento della                             

denuncia prima ancora che in quello dell’acquisizione ufficiale del loro status, sono sottoposti a                           

un vero e proprio trauma rispetto a molti di questi aspetti fondativi dell’identità. I testimoni                             

“nascono” infatti quando chi denuncia si ritrova in una condizione di grave pericolo di vita,                             

quindi proprio quando la sopravvivenza dell’identità è messa in discussione. Le misure di                         

protezione, inoltre, limitano i soggetti tutelati in moltissime delle loro attività quotidiane, prime                         

fra tutte gli spostamenti, la frequentazione di luoghi affollati e la conseguente possibilità di                           

nutrire e mantenere le relazioni sociali e di svolgere attività di vario genere. Vengono quindi                             

messi in discussione una serie di pratiche che partecipano in maniera determinante alla                         

costruzione e all’esercizio dell’identità dell’individuo. Ciò avviene in modo ancora più drastico ed                         

evidente nel momento in cui i testimoni sono sottoposti al programma speciale di protezione,                           

che prevede che le persone tutelate siano trasferite in altra località, non abbiano contatti con                             

nessun familiare né altri conoscenti del luogo d’origine, usino documenti di copertura che,                         

sebbene teoricamente temporanei e volti alla mimetizzazione delle persone, non permettono di                       

esercitare alcuni diritti fondamentali come lavorare, votare, essere curati nella propria regione. In                         

termini di percezione della propria identità, inoltre, avere documenti di copertura significa                       

innanzi tutto rinunciare al proprio nome, l’elemento più rappresentativo dell’identità, la parola                       

con cui gli individui si sono sempre presentati al mondo e agli altri per distinguersi, per essere                                 

25 

riconoscibili. Avere dei documenti di copertura comporta anche l’obbligo di non raccontare di sé                           

a nessuno, essere costretti a inventarsi una falsa vita precedente, non avendo così modo di                             

esercitare la propria vera identità nei rapporti sociali. Quest’ultimo aspetto è particolarmente                       

sofferto nel caso siano presenti, sotto il programma di protezione, anche i figli dei testimoni, a                               

cui è necessario insegnare a presentarsi agli altri tassativamente con un nome diverso e a non                               

tradire la propria identità. 

Molte delle persone che hanno sperimentato queste condizioni di sofferenza sentono                     

conseguentemente il bisogno, anche proprio in un tentativo di riaffermazione della propria                       

identità, originaria e nuova, di cercare vie per esprimersi, parlare, farsi conoscere, rivendicare i                           

loro diritti, tentare di risvegliare le istituzioni e di far loro presente l’insostenibilità delle                           

condizioni di vita legate al loro status. L’atto di “far sentire la propria voce”, infatti, è prova della                                   

necessità di portare messaggi e informazioni su se stessi che si pensano ancora non conosciuti,                             

segno di rivendicazioni che spesso riguardano la necessità di fare luce sulla propria presenza, un                             

modo per dire “ci sono, ed esisto, anche io”. Esistono infatti diversi servizi giornalistici,                           

interviste e inchieste che raccontano le condizioni dei testimoni e realizzati con la loro                           

collaborazione, nonché loro interventi in televisione, in radio, nelle scuole e in convegni,                         

manifestazioni da loro promosse, siti e pagine web da loro gestite, associazioni fondate e libri                             

scritti.  

È interessante evidenziare come diversi testimoni di giustizia abbiano sentito la necessità di fare                           

conoscere la loro storia attraverso un prodotto editoriale complesso come il libro, che permette                           

un’articolazione più completa della narrazione di una vicenda, svelando l’esigenza di far                       

conoscere alla collettività, con un prodotto concreto e non volatile, le premesse e gli sviluppi                             

dettagliati della propria storia di vita. Hanno fatto questa scelta testimoni come Piera Aiello con il                               

suo Maledetta mafia. Io, donna, testimone di giustizia con Paolo Borsellino, Ignazio Cutrò, fondatore e                             

presidente dell’Associazione nazionale testimoni di giustizia, la cui storia è raccontata da Benny                         

Calasanzio Borsellino nel libro Abbiamo vinto noi. La vera storia di Ignazio Cutrò l’imprenditore che ha                               

detto no alla mafia, Gianfranco Franciosi con Gli orologi del diavolo, scritto per Rizzoli con la                               

collaborazione del giornalista Federico Ruffo, Pino Masciari che con sua moglie Marisa ha                         

pubblicato Organizzare il coraggio, Mario Nero che con Gabriele Ferraresi ha pubblicato Il testimone,                           

memoriale che ha ispirato anche un’omonima fiction televisiva, o Maria Stefanelli, vedova di un                           

26 

boss della ‘ndrangheta che ha scritto, insieme alla giornalista Manuela Mareso, la sua                         

autobiografia, Loro mi cercano ancora. 

Analizzando il dato testuale di questo materiale e degli altri svariati testi prodotti dai testimoni di                               

giustizia è possibile ricostruire e rintracciare elementi costanti di come i testimoni si                         

autopercepiscono, raccontano se stessi e la loro scelta, definiscono la loro condizione, le criticità                           

del sistema di protezione, l’assoggettamento del territorio alla criminalità organizzata, la reazione                       

delle autorità e della cittadinanza.  

Sono state, in particolare, analizzate le interviste, i siti e i libri dei seguenti testimoni: 

- Piera Aiello, originaria di Partanna, in provincia di Trapani, sposata a Nicola Atria, figlio                           

del mafioso Vito Atria, ucciso del 1985. Nel 1991 è testimone dell’omicidio del marito di                             

cui decide di denunciare gli assassini. È la prima testimone di giustizia donna italiana. Da                             

quel momento, affidandosi al giudice Paolo Borsellino, inizia la sua collaborazione con la                         

polizia e la magistratura e viene allontanata, insieme alla figlia piccola, dalla sua casa e dal                               

suo paese. Si unisce a lei in questa scelta anche la giovane cognata Rita Atria, che dopo la                                   

strage di via D’Amelio si suiciderà gettandosi dal balcone della sua casa. Piera Aiello,                           

dopo un periodo nel programma di protezione, si è rifatta una vita con una nuova                             

identità lontano da Partanna ed è oggi presidente dell’associazione Rita Atria. 

- Salvatore Barbagallo, titolare di un’impresa di trivellazioni. Sotto le minacce del clan                       

Mancuso gli vengono imposti lavori gratuiti, assunzioni, cessione di attrezzature. A                     

seguito delle sue denunce ha perso la sua attività e la sua casa è ora intestata, a causa di                                     

un’asta truccata, alle persone che aveva denunciato. Oggi vive con la moglie solo grazie                           

all’aiuto della Caritas.  

- Gaetano Caminiti, imprenditore del quartiere reggino di Pellaro, titolare di un punto                       

SNAI nella sua città. La cosca Latella gli chiede di vendere l’attività e il rifiuto                             

dell'imprenditore ottiene in risposta una lunga serie di minacce e atti vandalici che si                           

concretizza nel 2009 nell’incendio dell’attività, e poi, nel 2011, in un tentato omicidio ai                           

suoi danni. La sua testimonianza ha portato alla condanna degli imputati del processo                         

“Azzardo”. Nonostante la tutela, la ‘ndrangheta non ha mai smesso di minacciarlo. 

27 

- Mario Caniglia, imprenditore nel settore agricolo originario di Scordia, in provincia di                       

Catania. Dopo aver ricevuto richieste estorsive da parte della mafia della zona, avverte i                           

carabinieri. Armato di una microspia riesce a raggiungere i suoi estorsori che vengono                         

consegnati alla giustizia. Ha rinunciato al trasferimento in località protetta ed è rimasto in                           

Sicilia, dove vive sotto scorta.  

- Giuseppe Carini, studente di medicina che testimonia nel processo per l’omicidio di                       

Padre Pino Puglisi, che conosceva e frequentava e di cui denuncia i mandanti. Dopo le                             

sue dichiarazioni, nel 1995 viene inserito nel programma speciale di protezione. Vive                       

tutt’oggi in località protetta. 

- Gennaro Ciliberto, responsabile della sicurezza di un’azienda che dopo aver denunciato                     

infiltrazioni camorristiche nel sistema di costruzione delle autostrade, di cavalcavia e altre                       

opere pubbliche è stato costretto, per ritardi nella concessione della tutela, a vivere in                           

macchina e a cambiare continuamente località per più di tre anni. Ora è sottoposto al                             

programma speciale di protezione. 

- Luigi Coppola, titolare di un autosalone a Boscoreale, in provincia di Napoli. Dopo aver                           

denunciato i clan camorristici che lo taglieggiavano e aver fatto arrestare più di venti                           

persone, tra cui il boss Pesacane, è stato inserito nel programma speciale di protezione ed                             

è stato costretto a chiudere l’attività. Dopo dieci anni è tornato a Pompei dove ha                             

cercato, con moltissime difficoltà, di riavviare la sua impresa. È oggi portavoce dei                         

testimoni di giustizia campani e ha fondato il Movimento per la lotta alla criminalità                           

organizzata. 

- Ignazio Cutrò, imprenditore edile di Bivona, provincia di Agrigento. Presidente e                     

fondatore dell’Associazione nazionale testimoni di giustizia. Dopo aver denunciato per anni i                       

suoi estorsori, entra nel 2006 nel programma di protezione. Decide in seguito di fare                           

ritorno nella sua terra e grazie alla legge del 2013 è assunto nella pubblica                           

amministrazione. Cura un suo sito personale. 

- Pietro Di Costa, originario di Tropea, in provincia di Vibo Valentia, titolare di un istituto                             

di vigilanza. Ha denunciato i soprusi, le intimidazioni e i trattamenti usurai della cosca                           

28 

Mancuso ed è, dal 2011, testimone di giustizia. Dopo un periodo in località protetta è                             

tornato in Calabria. 

- Francesco Di Palo, titolare della Venere Srl di Matera, società che produceva vasche                         

idromassaggio, è stato testimone chiave di uno dei processi più importanti in Puglia                         

sull’intreccio tra criminalità, imprenditoria e politica nella città di Altamura. Ha chiesto di                         

essere escluso dal programma di protezione perché lo Stato non gli pagava l’affitto in                           

località protetta. 

- Gianfranco Franciosi, meccanico navale e produttore di barche da corsa. È diventato                       

ufficialmente infiltrato civile della Polizia italiana nei narcos spagnoli e colombiani e anche                         

grazie a lui è stato possibile portare a termine, nel 2009, l’operazione Albatros, il più                             

grande sequestro di cocaina da parte di polizie europee. Dopo un periodo nel programma                           

di protezione è tornato nel suo paese d’origine dove vive con la famiglia e dove cerca di                                 

riportare in piena attività la sua azienda. 

- Valeria Grasso, imprenditrice siciliana che ha deciso di investire in una palestra nel                         

quartiere San Lorenzo a Palermo, proprietà di alcuni membri del clan Madonia che                         

hanno cercato di estorcerle il pizzo. All’inizio del 2015, dopo le denunce e un lungo                             

periodo vissuto in località protetta con i suoi tre figli, ha deciso di ritornare a Palermo                               

dove ha fondato l’associazione Legalità e libertà. 

- Luigi Leonardi, imprenditore che a causa del racket della camorra ha perso le sue due                             

fabbriche di impianti di illuminazione e i relativi negozi, distribuiti tra Cardito, Nola,                         

Giugliano e Melito, in provincia di Napoli. Ha presentato, nell’arco di dodici anni,                         

diciotto denunce per le richieste estorsive ricevute, che hanno fatto parte di un processo                           

che ha portato alla condanna di più di sessanta persone, appartenenti a diversi clan                           

camorristici. Ha subito negli anni diversi atti di violenza, tra cui incendi ai negozi,                           

pestaggi e un sequestro. È in attesa di sapere quali saranno le misure di tutela a lui                                 

destinate. 

- Innocenzo Lo Sicco, imprenditore edile di Palermo che nel 1997 ha denunciato il racket                           

delle estorsioni della cosca dei fratelli Graviano di Brancaccio. Dalle denunce è nato un                           

processo che ha portato all’arresto di ventisette persone. Da quel momento non ha mai                           

29 

voluto cambiare generalità ed è riuscito, recuperando tramite processi civili il valore di ciò                           

che gli era stato estorto, a tornare a fare l’imprenditore. 

- Cosimo Maggiore, imprenditore di San Pancrazio Salentino vittima di estorsioni che nel                       

2006 denuncia i suoi aguzzini, facendo arrestare il capo della frangia torrese della Sacra                           

Corona Unita. Ha subito svariate minacce ed è stato vittima di un accoltellamento.  

- Rocco Mangiardi, imprenditore titolare della ditta di autoricambi Mangiardi di Lamezia                     

Terme che dal 2000 al 2007 subisce le richieste estorsive della cosca dei Giampà fino a                               

quando decide di denunciare. Ha scelto di rimanere in Calabria, dove vive sotto tutela. 

- Giuseppe Masciari, imprenditore calabrese nel settore dell’edilizia. Dopo aver denunciato                   

vari boss della ‘ndrangheta ed esponenti politici per le richieste estorsive che subiva sugli                           

appalti che si aggiudicava, viene inserito nel programma di protezione con la moglie e i                             

due figli. Oggi vive lontano dalla Calabria. 

- Pietro Ivano Nava, di Sesto San Giovanni, testimone involontario dell’omicidio del                     

giudice Rosario Livatino nel 1990. Dopo aver permesso la cattura dell’assassino                     

Domenico Pace è stato inserito in un programma di protezione. Ora vive all’estero. 

- Mario Nero, testimone oculare di un omicidio compiuto da membri della Sacra Corona                         

Unita, è stato costretto a fuggire dal suo paese d’origine e ad entrare nel programma                             

speciale di protezione insieme alla sua famiglia, che dopo un periodo ha deciso di tornare                             

a casa lasciandolo solo. 

- Luigi Orsino, proprietario di un negozio di arredamento e abbigliamento a Portici, in                         

provincia di Napoli. Subisce richieste di pizzo e gravi aggressioni da parte del clan                           

camorristico dei Vollaro, che denuncia alle autorità. È stato costretto a chiudere le attività                           

ed è stato sfrattato dalla sua casa. Si è trasferito in un’altra località dove vive con la                                 

moglie sostenuti solo dalla sua pensione di invalidità. 

- Francesco Paolo, originario di Cancello Arnone, in provincia di Caserta, è un                       

imprenditore nel settore lattiero-caseario. Ha denunciato e fatto arrestare il suo estorsore,                       

un membro del clan La Torre di Mondragone. Rimane sotto programma di protezione                         

30 

insieme a tutta la sua famiglia per un anno e mezzo. Ora è riuscito, con grandi difficoltà,                                 

a riavviare una piccola attività. 

- Carmelina Prisco, testimone oculare di un omicidio di camorra nell’agosto del 2003 a                         

Mondragone, viene sottoposta al programma speciale di protezione. Per le difficilissimi                     

condizioni in cui si trova arriva a tentare ripetutamente il suicidio, finché non decide di                             

uscire definitivamente dal programma. Oggi è tornata a vivere, in estreme difficoltà                       

economiche, in Campania. 

- Maria Mirella Rimedio, prima testimone di giustizia della Calabria. Anche grazie alle sue                         

testimonianze sono stati arrestate più di duecento persone, membri dei clan del                       

crotonese. È stata trasferita, insieme ai suoi tre figli, lontana dal suo paese e vive ancora                               

moltissime difficoltà riguardo al programma di protezione. Nonostante questo continua a                     

collaborare con la giustizia. 

- Nello Ruello proprietario di un negozio di ottica a Vibo Valentia. Paga per dieci anni il                               

pizzo fino a quando non decide di denunciare i suoi estorsori e usurai, nove membri del                               

clan Lo Bianco - Barba, che vengono tutti condannati. Vive a Vibo Valentia sottoposto a                             

misure di tutela. 

- Gaetano Saffioti, imprenditore di Palmi che opera nel settore edilizio da circa trent’anni.                         

Nel 2002, con le sue denunce, ha fatto scattare l'operazione “Tallone d'Achille” contro i                           

clan Bellocco e Piromalli. Da allora vive in regime di protezione da parte delle forze                             

dell’ordine. 

- Maria Stefanelli, originaria di Oppido Mamertina, in provincia di Reggio Calabria, si                       

trasferisce in Liguria dove sposa Francesco “Ciccio” Marando, boss narcotrafficante                   

nell’area di Torino, stabilendo così un’alleanza tra la sua famiglia, appartenente alla locale                         

di Varazze, e quella del marito. I Marando e gli Stefanelli, però, non riescono a spartirsi                               

gli affari e scoppia una faida che porta all’uccisione di vari membri dei clan, compreso                             

Ciccio. Maria, temendo per l’incolumità sua e della figlia inizia a fuggire e decide di                             

testimoniare. 

- Ulisse, nome di copertura di un testimone oculare di un omicidio di camorra avvenuto                           

nel 1990, che decide di denunciare immediatamente ai carabinieri. Solo nel 1994 viene                         

31 

inserito nel programma di protezione. È oggi presidente onorario dell’associazione Rita                     

Atria e vive in località protetta. 

- Benedetto Zoccola, vicesindaco di Mondragone e imprenditore. Per il suo rifiuto di                       

subire le estorsioni, è oggetto di diverse minacce e attentati, tra cui due bombe davanti                             

alla sua abitazione e allo studio del suo commercialista. Vive sotto scorta. 

La prima importante definizione che, nel raccontare le loro storie, i testimoni fanno di se stessi è                                 

spesso una definizione al negativo. Scontando ancora le conseguenze della contaminazione, a                       

livello legislativo come di percezione sociale, con la figura del collaboratore di giustizia, i                           

testimoni sono tuttora impegnati in una battaglia per una definizione linguistica adeguata e per                           

questo costretti a definirsi innanzi tutto “non collaboratori” e a prendere le distanze da questa                             

errata sovrapposizione. 

“Non sono né un bandito né un pentito.” - Pietro Di Costa 

“Mi arrabbio quando mi classificano, come è successo, come collaboratore di giustizia. Molti 

non sanno la differenza.” - Rocco Mangiardi 

“Io non sono un ʻpentitoʼ della mafia o della camorra. A volte ho la sensazione che, per la 

macchina dello Stato, non ci sia poi tanta differenza tra un ʻpentitoʼ e un testimone con 

un’immacolata fedina penale.” - Pietro Ivano Nava 

“La gente confonde le due figure, io stessa a volte sono stata trattata con la stessa diffidenza 

con cui si tratta un pentito. Ma i collaboratori con le mafie prima ci hanno fatto affari e poi si 

sono pentiti; noi testimoni, invece, le mafie le abbiamo prima subìte e poi denunciate.” - 

Carmelina Prisco 

“Io venivo additata come una pentita. Io, una testimone.” - Carmelina Prisco 

“Perché ci trattavano da pentiti?” - Ulisse 

 

Un altro dato interessante che si evince da questi racconti riguarda la narrazione del momento e                               

dell’atto della denuncia. La condizione di testimone di giustizia è solo relativamente volontaria.                         

Pochissimi, infatti, sapevano quali sarebbero state le loro condizioni di vita e i pericoli che                             

32 

avrebbero corso nel momento in cui hanno deciso di sporgere denuncia. In quasi tutti i casi                               

analizzati, infatti, la volontarietà dell’atto si ferma all’azione di denuncia e nessuno dei testimoni                           

dichiara di aver saputo che cosa significasse dal punto di vista concreto diventarlo. Nella totalità                             

dei racconti il momento della denuncia viene descritto come punto di totale svolta e la narrazione                               

della loro vita è quasi sempre divisa nelle due parti del prima e del dopo la denuncia e                                   

l’acquisizione dello status. 

“Essere divenuto testimone di giustizia mi ha devastato non solo fisicamente, ma anche sul 

profilo umano e sociale.” - Gennaro Ciliberto 

“Non mi aspettavo nulla in cambio, io volevo solo fare la cosa giusta e poi tornare alla mia 

vita.” - Gianfranco Franciosi 

“Pensavo che la mia storia finisse quando andavo a denunciare, in realtà lì è iniziata una nuova 

vita.” - Valeria Grasso 

“E poi sono diventata testimone di giustizia e da lì inizia tutta un’altra parte della mia vita.” - 

Valeria Grasso 

“Dal giorno delle denunce il sottoscritto è passato da una persona normale a status di 

testimone di giustizia. Questo passaggio è stato un punto molto importante.” - Gaetano 

Saffioti 

 

La denuncia è spesso il momento in cui una vita, fatta di determinati legami affettivi e sociali, di                                   

opportunità professionali e abitudini personali, giunge a una sorta di termine coatto. Incomincia                         

invece una vita all’insegna, in particolar modo, di due sensazioni predominanti: quella del                         

pericolo e quella della solitudine. 

“Mi sono ritrovato da solo. Io ho paura.” - Gaetano Caminiti 

“Siamo in mezzo all’oceano su una zattera.” - Gennaro Ciliberto 

“Mi sento stanco e vecchio.” - Gennaro Ciliberto 

“Quasi come un burrone dei castelli del Medioevo.” - Gennaro Ciliberto 

33 

“La mia non paura della morte è il mio vero incubo.” - Gennaro Ciliberto 

“Vivo sempre blindato con un giubbotto antiproiettile, non esco la sera, non frequento luoghi 

di aggregazione, non vado allo stadio, non prendo la metropolitana.” - Gennaro Ciliberto 

“Questa storia mi ha portato a perdere tutto.” - Luigi Coppola 

“Ero arrivato a un punto di vita vegetativo.” - Ignazio Cutrò 

“Io sono una persona isolata.” - Francesco Di Palo 

“Vivo questa situazione drammaticamente, in una realtà drammatica.” - Francesco Di Palo 

“Rinuncio alla mia vita, rinuncio alla mia vita.” - Francesco Di Palo 

“Siamo soli.” - Gianfranco Franciosi 

“Una cosa che è devastante è restare da soli, è la paura di parlare.” - Valeria Grasso 

“Non sono solo un uomo, sono un uomo solo.” - Cosimo Maggiore 

“Sono un apolide… un cittadino del mondo, non ho cittadinanza, non ho niente. Non posso 

esistere.” - Mario Nero 

“Chi prende questo status è come un missionario che va in Africa. È una vita piena di rinunce.” 

- Gaetano Saffioti 

“C’è stato l’isolamento totale.” - Gaetano Saffioti 

“In due anni di vita sotto protezione ero riuscita a perdere tutto.” - Maria Stefanelli 

I testimoni, pur non subito consapevoli delle condizioni di vita che si prestano ad affrontare, si                               

rivelano invece estremamente consapevoli del valore simbolico e sociale che il loro gesto fin                           

dall’inizio assume. Causato in principio da ragioni e condizioni personali, diventa subito un atto                           

di rottura con un determinato tipo di sistema e mentalità. Questo è valido ed è ancora più                                 

percepibile quando si tratta di testimoni di mafia, spesso vissuti a contatto con i membri delle                               

organizzazioni criminali e abituati, per questo, a un certo tipo di cultura del silenzio, dell’omertà,                             

dell’accondiscendenza, della violenza. 

34 

“Noi ci siamo messi contro un muro di cemento armato.” - Salvatore Barbagallo 

“A Reggio Calabria pagano tutti. A chi non paga succede quello che è successo a me.” - 

Gaetano Caminiti 

“In Italia c’è poca, poca, poca volontà di denunciare.” - Gennaro Ciliberto 

“Comprare le auto da Luigi Coppola significava fare un affronto alla camorra.” - Luigi 

Coppola 

“Sono stato la nota stonata in quella sinfonia mafiosa.” - Ignazio Cutrò 

“Io ho trotto un equilibrio, una pace, una tranquillità.” - Francesco Di Palo 

“La società civile di Altamura invece che isolare i delinquenti ha isolato me.” - Francesco Di 

Palo 

“Nel quartiere di San Lorenzo domina il silenzio, quindi non solo nessun ha detto niente in 

quel momento, ma nessuno continuare a dire niente tutt’oggi. L’unica che ha alzato la voce 

sono stata io.” - Valeria Grasso 

“L’ambiente che mi circondava era molto diffidente.” - Valeria Grasso 

“Quello che mi fa rabbia è che la mafia si vince ma non bisogna farlo sapere.” - Innocenzo Lo 

Sicco 

“Ho imparato che il nostro dito puntato è più forte delle loro pistole.” - Rocco Mangiardi 

“Essere testimone di giustizia vuol dire resistere.” - Rocco Mangiardi 

“Io non ero la normalità, erano loro la normalità, chi si piegava, chi si inchinava al cospetto di 

questi signori.” - Pino Masciari 

“La situazione in cui mi trovavo era quindi un vero accerchiamento, ogni giorno che passava 

mi accorgevo di essere dentro un sistema in cui dipendevo dalla volontà di qualcuno più forte 

di me.” - Pino Masciari 

35 

“Pur non essendo stato scritto sui giornali che ero io il testimone la voce girava e… quando 

tornai sotto casa mia… erano tutti a guardare. Più che odio mi sembrava che i loro sguardi 

dicessero ʻma perché non si è fatto i cazzi suoi?ʼ” - Mario Nero 

“Denunciare è tradire una cultura.” - Gateano Saffioti 

 

È inoltre interessante osservare gli artifici retorici in cui i testimoni descrivono la loro                           

condizione. La metafora, in particolare, rappresenta un espediente della lingua dal grande potere                         

evocativo capace di creare un rapporto di somiglianza tra due termini che possono essere anche                             

molto lontani dal punto di vista semantico. Per questo motivo è significativo analizzare quali                           

siano le metafore e le immagini più utilizzate dai testimoni di giustizia per raccontare la loro                               

situazione, in modo da intendere quali campi semantici e linguistici ritengano più aderenti a                           

descrivere le loro vicissitudini. In questo senso particolarmente presente e significativa è                       

l’immagine della guerra: 

“La mia battaglia non è solo contro i criminali, ma anche contro le istituzioni silenti.” - 

Gennaro Ciliberto 

“Quasi sempre un testimone di giustizia deve lottare per pretendere un suo diritto.” - Gennaro 

Ciliberto 

“Siamo in piena guerra.” - Ignazio Cutrò 

“Non abbassare mai la guardia, non ti fidare mai di nessuno, non dire mai dove vai, dove sei, 

ricordati che sei solo contro un nemico invisibile.” - Ignazio Cutrò 

“Lottare da solo.”- Ignazio Cutrò 

“Spesso ho avuto la voglia di rinunciare, ma se rinunci hanno vinto la guerra.” - Francesco Di 

Palo 

“Dove cazzo dobbiamo andare, in guerra?” - Mario Nero 

 

Molti dei testimoni si percepiscono, quindi, come individui in lotta contro l’organizzazione                       

36 

mafiosa o criminale che hanno denunciato, ma ancor più nei confronti dello Stato che                           

denunciano come inadempiente e assente nei loro confronti. Come personaggi in guerra si                         

sentono esposti alle conseguenze potenzialmente tragiche della battaglia, organizzano strategie di                     

difesa dagli attacchi che possono ricevere, scelgono le armi più appropriate, si fidano di                           

pochissime persone perché si sentono traditi proprio da chi doveva occuparsi della loro                         

incolumità e protezione. 

Parlando della propria condizione di vita, i testimoni scelgono spesso, per descriversi, anche la                           

figura del fantasma, denunciando la sensazione di un’identità perduta, ma soprattutto non più                         

“visibile” e percepita all’esterno. Molte volte, infatti, non si sentono considerati né dal proprio                           

ambiente d’origine, che inizia a isolarli, a sospettare di loro, ad avere paura, né dalle istituzioni                               

che dovrebbero proteggerli e garantire loro una vita dignitosa. 

“Non posso continuare a vivere come un fantasma.” - Piera Aiello 

“Io sono un fantasma, il mio quotidiano non esiste.” - Innocenzo Lo Sicco 

“(...) non potendo uscire, se non come fantasmi.” - Pino Masciari 

“Non incontro mai nessuno che mi saluta, nessuno mi conosce. Sono da sempre invisibile, 

trasparente.” - Mario Nero 

“(...) lunghissimo e difficile periodo di non vita.” - Mario Nero 

“Ora sono diventata un fantasma. Quella è la protezione, la privazione della libertà.” - 

Carmelina Prisco 

“Noi siamo dei fantasmi, siamo dei fantasmi su tutto.” - Maria Mirella Rimedio 

Un’altra metafora molto ricorrente è quella della malattia: lo status di testimone è vissuto come                             

una condizione in cui ci si trova spesso contro la propria volontà, ma soprattutto che spaventa la                                 

comunità che circonda l’individuo, che lo disconosce e non si avvicina per paura di una sorta di                                 

“contagio”. Essere testimoni di giustizia spesso significa sfidare un sistema corrotto e criminale                         

che ha radici profonde nel contesto dove si sviluppa e quindi equivale ad essere contagiosi di una                                 

malattia che la massa non vuole, di cui essa ha paura. L’identificazione di un problema, anche                               

sociale, con una malattia, proprio come avviene quando si paragonano le mafie a un cancro                             

sociale ed economico che fa ammalare il paese e che va estirpato con tutti i mezzi e a tutti i costi,                                         

37 

porta da una parte a una giustificabile condanna intransigente nei confronti di quel fenomeno,                           

ma allo stesso tempo a un sollevamento di responsabilità nei confronti di esso, di cui non si                                 

riconoscono quei presupposti, culturali, sociali, politici ed economici che sono invece “interni”.                       

Come un virus, la mafia sarebbe un agente patogeno esterno che colpisce improvvisamente un                           

corpo sano e estraneo ad esso. Questo tipo di parallelo svela un’inconsapevolezza o un rifiuto nel                               

riconoscere quei meccanismi e quei comportamenti già presenti nella società che costituiscono                       

terreno fertile al proliferare della “malattia mafiosa”. 

“Il testimone di giustizia viene additato come un appestato.” - Gennaro Ciliberto 

“Siamo considerati lebbrosi, carne da macello.” - Ignazio Cutrò 

“La gente diceva che ero un morto che camminava, si svuotavano i bar. Ero trattata come una 

lebbrosa.” - Carmelina Prisco 

 

Uno degli altri campi semantici più frequentati dalle narrazioni dei testimoni di giustizia è quello                             

della burocrazia. Molti di loro infatti lamentano la lentezza burocratica che oltre a provocare                           

sensibili disagi in termini di pratiche quotidiane, diventa una vera e propria violazione o non                             

garanzia di diritti. Una delle più frequenti è il prolungamento dei programmi provvisori di                           

protezione che in moltissimi casi si protraggono nel tempo senza che i testimoni ne conoscano la                               

data di termine. I testimoni lamentano anche l’assenza di coordinamento tra le varie agenzie dello                             

Stato, a causa della quale si ritrovano a subire enormi disagi (uno fra tutti il ritardo, denunciato da                                   

più di un testimone, per il rilascio dei documenti di copertura), spesso anche dal punto di vista                                 

economico (per esempio le cartelle esattoriali che continuano ad essere emesse per le attività                           

imprenditoriali forzatamente abbandonate, che lo Stato dovrebbe invece congelare dal punto di                       

vista fiscale e contributivo). Non a caso è tuttora molto alto il numero di contenziosi                             

amministrativi aperti tra i testimoni e il Ministero dell’Interno. Agli occhi dei testimoni, con i loro                               

ritardi e le loro mancate risposte, le istituzioni perdono di vista la dimensione innanzi tutto                             

umana delle loro vicende. 

“Non siamo lampadine che si accendono e poi si spengono.” - Piera Aiello 

“Lo stato impacchettava e mandava in località protetta.” - Mario Caniglia 

38 

“Succede quello che potrebbe succedere con una bolletta dell’Enel o con la pratica di un 

concorso. Sono una pratica.” - Gennaro Ciliberto 

“Dopo aver lottato con la criminalità, inizia una battaglia con una parte dello Stato che non 

solo non è vicina ai testimoni, ma non applica la legge.” - Gennaro Ciliberto 

“La burocrazia completa il tutto facendo diventare troppo spesso la protezione una tortura alla 

quale nessun uomo per bene può resistere.” - Gennaro Ciliberto 

“Noi testimoni di giustizia siamo come dei limoni che una volta tolto il succo vengono 

buttati.” - Gennaro Ciliberto 

“Fui costretto ad essere spostato come un pacco postale in giro per la penisola italiana.” - 

Luigi Coppola 

“Abbiamo avuto la dignità di combattere la mafia, ci siamo arresi quando ci siamo trovati 

davanti il muro della burocrazia dello Stato.” - Ignazio Cutrò 

“Burocrazia micidiale.” - Ignazio Cutrò 

“Non siamo pratiche, siamo cittadini per bene.” - Valeria Grasso 

“Come se fossimo dei pacchi postali.” - Valeria Grasso 

“Io per lo Stato ero solo il numero di matricola 1663.” - Pino Masciari 

“Avevo capito che quel verbale era l’esilio della famiglia Masciari.” - Pino Masciari  

“Saremmo stati schiavi per sempre del Ministero dell’Interno.” - Mario Nero 

“Siamo un peso.” - Francesco Paolo 

“Non basta spostarci come pacchi.” - Francesco Paolo 

“Siamo un costo.” - Gaetano Saffioti 

 

Tra i temi più ricorrenti nelle narrazioni e nelle dichiarazioni dei testimoni di giustizia ci sono                               

proprio quelli legati al loro rapporto con lo Stato. È in queste espressioni che possiamo notare,                               

39 

oltre alla distanza percepita dai testimoni nei confronti delle istituzioni, tutta la problematicità e                           

l’insoddisfazione che molti di questi soggetti lamentano riguardo al trattamento che ricevono.                       

Tra le più frequenti, infatti, se ne trovano alcune che denotano una vera e propria conflittualità                               

con le istituzioni che, descritte come estremamente manchevoli nei confronti dei testimoni, si                         

rendono responsabili di un ribaltamento di senso per cui i testimoni arrivano a sentirsi assimilati,                             

e quindi a descriversi, come i criminali che hanno aiutato a perseguire.  

“Ora mi ritrovo in una sorta di galera legalizzata.” - Piera Aiello 

“Io mi definisco un esiliato di Stato, un latitante incensurato di Stato.” - Gennaro Ciliberto 

“È iniziato il fine pena mai anche per me.” - Carmelina Prisco 

 

D’altra parte proprio lo Stato, a causa delle sue inadempienze e di ciò che, a causa di esse, arriva a                                       

togliere ai testimoni, viene identificato come il soggetto che più arreca danno alle loro vite e                               

descritto spesso alla stregua proprio delle associazioni criminali. 

“Ho la certezza che mi è stato tolto quasi tutto: sia dalla mafia sia dallo Stato.” - Piera Aiello 

“Falsa democrazia delle istituzioni.” - Giuseppe Carini 

“Quello che fa più male a un cittadino onesto è vedere l’indifferenza di questo grosso 

palazzo.” - Gennaro Ciliberto 

“Perchè lo Stato abbandona chi denuncia?” Gennaro Ciliberto 

“Lo Stato non può offendere, umiliandole, le persone.” - Pietro Di Costa 

“Siamo così preoccupati da quello che può arrivarci dai ʻbuoniʼ che ci siamo completamente 

dimenticati dei cattivi.” - Gianfranco Franciosi 

“A cosa serve essere chiamato testimone di giustizia, quale giustizia?” - Cosimo Maggiore 

“Non vogliono capire che la loro vita l’ha distrutta lo Stato e non io.” - Mario Nero 

40 

“I palazzi del potere, in questi posti che erano la causa di tutta la nostra sofferenza.” - Mario 

Nero 

“Ho ricevuto maggior danno dallo Stato di quanto ne abbia ricevuto dalla camorra.” - Luigi 

Orsino 

“Da un lato mi viene concessa la protezione da vittima della camorra dall’altro sono messo per 

strada.” - Luigi Orsino 

“Una volta fatto il nostro dovere veniamo trattati come le bestie. Ci vengono negati i diritti. 

Questa cosa mi fa capire che quella parte corrotta, brutta, sporca e mafiosa dello Stato vuole a 

tutti i costi eliminare la figura del testimone. Nessuno deve parlare.” - Carmelina Prisco 

“Se tu anche volessi fare qualcosa, c’è chi te la fa passare. (...) Se tu ricevi dalle istituzioni 

questo messaggio cosa fai? ti suicidi completamente. (...) Fai il ragionamento che non c’è via 

d’uscita.” - Gaetano Saffioti 

 

Un altro punto problematico del sistema di gestione dei testimoni riguarda la scelta della                           

tipologia di tutela da adottare. Molti testimoni infatti denunciano la preferenza aprioristica data al                           

programma speciale di protezione, che dovrebbe essere invece solo l’ultima soluzione da                       

applicare. Lo spostamento in località protetta, infatti, porta con sé un carico di conseguenze                           

drastiche e molto spesso definitive per la vita personale, familiare e professionale del testimone.                           

Si tratta di lasciare il paese e il territorio d’origine e di rompere i contatti con la vita precedente,                                     

con uno stravolgimento estremo della dimensione relazionale e sociale dell’individuo e dei                       

familiari che partono insieme a lui, nonché delle sue opportunità di realizzazione professionale.                         

Rimanere in loco, infatti, permetterebbe ai testimoni, spesso imprenditori o titolari di esercizi                         

commerciali, di mantenere la loro attività lavorativa che nell’opzione di una tutela in località                           

protetta rischierebbe di essere chiusa o di fallire. 

Rimanere sul territorio ha inoltre un’altra importante conseguenza sulla questione dell’identità:                     

permette infatti al testimone di giustizia di integrare il suo status con l’identità precedente in una                               

sorta di “surplus” di identità: da una parte, infatti, può scegliere di continuare ad essere “sonda”                               

civica sul territorio che conosce e che gli appartiene, dall’altra essere simbolo della possibilità                           

41 

stessa della testimonianza. Se i testimoni di giustizia rimangono sul territorio diventano infatti                         

segnali concreti che la scelta legale e di verità non corrisponde all’anormalità, all’allontanamento                         

sociale e fisico, ma all’ordinarietà, alla normalità, al proseguimento della propria routine di vita,                           

senza che essa venga sconvolta o messa in discussione.  

“Andare via è una sconfitta.” - Mario Caniglia 

“(...) sfidare lo Stato per rimanere nei luoghi d’origine.” - Mario Caniglia 

“Programma di protezione? Io lo chiamo programma sfascia-vite.” - Luigi Coppola 

“Io non voglio rimanere in Calabria, io rimango in Calabria. Perché la mafia si combatte in 

questa maniera: rimanendo sul territorio.” - Pietro Di Costa 

“L’unica cosa che non rifarei è andare via di qua.”- Gianfranco Franciosi 

“Il vero messaggio l’ho dato io. Io sono tornata a Palermo, sono tornata a casa mia.” - Valeria 

Grasso 

“Ho scelto l’auto blindata, perché andare via voleva darla vinta a loro. Che avevo denunciato a 

fare? Resto a Lamezia.” - Rocco Mangiardi 

“Sono convinto che dove vivi e lavori, là servi a qualcosa.” - Rocco Mangiardi 

“Non aveva senso andare altrove, l’avremmo data vinta a questi ‘ndranghetisti.” - Rocco 

Mangiardi 

“Si è testimoni di giustizia per sempre, non solo nel periodo di protezione.” - Francesco Paolo 

“La vita all’interno del programma di protezione è umanamente insopportabile e insostenibile, 

perché inaspettatamente ti ritrovi proiettato in una dimensione completamente sconosciuta a 

quello che potrebbe essere qualsiasi immaginario umano. Ci si ritrova privati nell’immediato 

dell’identità, ti vengono portati via i documenti, ti viene dato un nome fittizio, la carta di 

identità fittizia arriva dopo tempo improponibile (...), vieni cancellato dal sistema sanitario, 

diventa impossibile curare le malattie.” - Carmelina Prisco 

42 

“La mia scelta è stata quella di stare qua perché credo che più di quello che ho dato è quello 

che posso dare, perché è più importante il dopo-denuncia contrariamente a quanto si pensa.” - 

Gateano Saffioti 

“Restando nel territorio sei una sonda, sei il termometro degli umori, degli altri imprenditori, 

anche della società civile che è quella più sorda, ma anche dello Stato.” - Gaetano Saffioti 

“La risposta diversa si dà restando sul territorio.” - Gaetano Saffioti 

 

Nei discorsi dei testimoni è quindi ben presente l’idea che sul territorio la testimonianza possa                             

estendere il suo valore e possa arrivare ad assumere una nuova dimensione di “testimonianza                           

sociale”, una continuazione della testimonianza giudiziaria che ricorda al cittadino stesso e agli                         

altri il valore positivo di ciò che ha scelto di fare. 

Particolarmente significativa è anche la diffusa considerazione e descrizione di se stessi come                         

cittadini normali e uguali agli altri, individui che hanno compiuto una scelta di verità, coerenza e                               

giustizia che necessitano sia considerata innanzi tutto come ordinaria, per rivendicare il principio                         

secondo cui in una società funzionale chiunque si trovi nella loro situazione sia portato ad agire                               

esattamente nello stesso modo. Si evidenzia così in modo chiaro anche la volontà di esortare alla                               

denuncia chiunque sia nelle condizioni di farlo. 

“Ho denunciato per una questione di coscienza.” - Gennaro Ciliberto 

“La scelta che ho fatto è una scelta di vita.” - Gennaro Ciliberto 

“Non sono un eroe, sono un padre di famiglia.” - Ignazio Cutrò 

“Non è incoscienza?” “No, è dignità.” - Ignazio Cutrò 

“Il messaggio del testimone di giustizia deve essere quello di una persona normale.” - Valeria 

Grasso 

“Denunciare è una scelta che conviene, ma non perché in cambio hai qualcosa, conviene a noi 

stessi perché saremo liberi per sempre.” - Valeria Grasso 

43 

“Sono un cittadino come voi. Non mi pregio di essere un eroe.” - Luigi Leonardi 

“Essere testimone di giustizia è resistere e riprendersi la propria dignità e quindi libertà.” - 

Rocco Mangiardi 

“Io sono rimasto un cittadino normale.” - Rocco Mangiardi 

“Prima di essere testimoni di giustizia siamo dei cittadini.” - Rocco Mangiardi 

“Il testimone di giustizia (...) deve trasmettere la bellezza della denuncia.” - Rocco Mangiardi 

“Non mi sento un eroe, non mi sento una mosca bianca. Non sono né l’uno né l’altro.” - 

Pietro Ivano Nava 

“Tu per dire agli altri ʻcambiateʼ, devi essere il primo a cambiare.” - Gaetano Saffioti 

 

Anche da queste premesse deriva la convinzione, condivisa dalla maggior parte dei testimoni, di                           

aver fatto, nonostante sacrifici inattesi e spesso considerati ingiusti, la scelta corretta. Proprio in                           

ragione del loro coraggio, della verità delle loro dichiarazioni e della valenza sociale del loro                             

gesto, molti di loro dichiarano di non avere pentimenti e di essere pronti a fare la scelta                                 

nuovamente, se fossero, però, garantiti migliori trattamenti e il pieno rispetto delle disposizioni di                           

legge e dei diritti che da esse derivano. 

“Sì, lo rifarei. Ma a condizioni diverse.” - Gaetano Caminiti 

“Se tornassi indietro denuncerei tutto, solo che starei attento a chi denunciare chiedendo 

protezione nero su bianco.” - Gennaro Ciliberto 

“Tornassi indietro farei esattamente quello che ho fatto, forse di più.” - Gianfranco Franciosi 

“Lo rifarei, perché quella è l’unica strada che io conosco.” - Luigi Leonardi 

“Non ho nessun pentimento, pur essendo blindati, mi sento più libero di prima.” Innocenzo 

Lo Sicco 

44 

“È stata una scelta dura, dolorosa. Ma l’ho fatta in tutta coscienza e ne sono orgoglioso.” - 

Innocenzo Lo Sicco 

“Che avrei dovuto fare? Chiudere gli occhi? Tirare innanzi per la mia strada? No, non sono 

stato educato a questo modo. Mi sono comportato come mi hanno educato. E non rinnego 

nulla. Se potessi tornare indietro, lo rifarei. Alzerei ancora quel telefono.”- Pietro Ivano Nava 

“Lo rifarei ancora oggi.” - Nello Ruello 

“Penso che denunciare sia un dovere, non una scelta. Rifarei il mio dovere nuovamente e 

tranquillamente.” - Benedetto Zoccola 

 

 

2.2 L’identità persa, ritrovata e moltiplicata: la storia di Pino Masciari 

Il caso dell’imprenditore edile Giuseppe Masciari è particolarmente esemplificativo di come                     

l’identità di un testimone possa essere stravolta, messa in crisi e in seguito riacquistata e                             

rafforzata di nuovi significati. Giuseppe “Pino” Masciari è originario di Serra San Bruno, un                           

piccolo paese in provincia di Vibo Valentia e, dopo aver rilevato nel 1988 l’azienda di costruzioni                               

del padre, diventa uno dei maggior imprenditori della Calabria nel settore dell’edilizia. La Masciari                           

Costruzioni, altra azienda in suo possesso, inizia a occuparsi di edilizia pubblica e a partecipare a                               

importanti gare d’appalto per la realizzazione di lavori. Con la crescita delle aziende e dei cantieri,                               

iniziano però anche le prime intimidazioni da parte della ‘ndrangheta, che gli impone il pizzo,                             

rallenta i lavori, intercede con le banche; allo stesso tempo cominciano anche le richieste parallele                             

da parte di quel sistema politico-istituzionale-massonico che, spesso in accordo con le stesse                         

organizzazioni criminali, inizia a pretendere la sua percentuale sui lavori. Per poter proseguire                         

nella sua attività Masciari si trova quindi costretto alla corresponsione del 3% delle sue entrate ai                               

mafiosi e del 6% alla parte collusa della politica, nonché ad altri tipi di imposizioni come                               

assunzioni pilotate o la scelta forzata di alcuni fornitori di manodopera e materiali. Nei primi anni                               

‘90 l’imprenditore decide di ribellarsi a queste imposizioni e di rivolgersi ai Carabinieri per                           

denunciare tutto, iniziando così ad essere bersaglio di svariate rappresaglie della criminalità                       

organizzata come minacce, furti, incendi, danneggiamenti di mezzi e cantieri. L’attività ne subisce                         

velocemente il contraccolpo, Masciari affronta gravissime perdite economiche ed è costretto a                       

45 

licenziare tutti i suoi operai fino a quando nel 1996 la Masciari Costruzioni viene dichiarata                             

definitivamente fallita.  

Le denunce di Masciari portano all’arresto di 41 affiliati alle cosche mafiose, tra cui decine di capi                                 

di importanti famiglie ‘ndranghetiste come i Vallelunga di Serra San Bruno, i Sia di Soverato, gli                               

Arena di Isola Capo Rizzuto e i Mazzaferro di Marina di Gioiosa Jonica, nonché di un magistrato                                 

colluso. Il rischio di ritorsioni derivato dalle dichiarazioni rese determina la sua entrata, il 17                             

ottobre del 1997, nel programma speciale di protezione. Masciari, sua moglie Marisa e i loro due                               

figli vengono trasferiti prima in un casolare semiabbandonato nella provincia di Ravenna, poi in                           

un piccolo appartamento di Mestre e in seguito in varie altre destinazioni. Così Pino Masciari e                               

sua moglie descrivono il momento della partenza: 

Quando accesi il motore per partire mi accorsi che ci stavamo davvero lasciando alle spalle le                               

nostre vite e i nostri sogni, quello che avevamo costruito con impegno e sacrificio. Non stavamo                               

lasciando il certo per l’incerto, stavamo lasciando il certo per spiccare un salto nel vuoto.  9

Ho chiuso casa mia, ho chiuso quello che era un pezzo della mia vita fatta di cose spensierate, di                                     

sogni, di affetti, di quella che è una vita completa di una giovane donna accanto a un uomo, a una                                       

famiglia appena nata. Quella notte la porta di quella casa, la porta del mio cuore si è chiusa. Ed è                                       

stato il momento più duro.  10

Durante i difficili anni del programma di protezione, Masciari e la sua famiglia vivono momenti                             

di vera sofferenza in cui nessun aspetto della vita precedente, oltre la loro esistenza corporea e la                                 

loro unione familiare, sembra essere mantenuto. Nei loro racconti è molto forte il senso di                             

perdita dell’identità, prima sentita come ingombrante e rischiosa, come quell’elemento che li ha                         

messi in pericolo, e poi completamente persa nella mimetizzazione del programma e in tutte le                             

sue limitazioni. 

Avevo capito, dopo tanti anni… io ero orgoglioso di portare il mio cognome, Masciari, avevo                             

capito che era un cognome pesante da portare, avevo capito che non lo potevo più utilizzare.  11

Pensatevi chiusi in una casa che non è vostra, in un luogo che non conoscete, dove non                                 

conoscete nessuno e dove vi dovete nascondere perché non potete dire chi siete veramente,                           

9 MASCIARI Pino e MASCIARI Marisa, Organizzare il coraggio. La nostra vita contro la ‘ndrangheta, Add Editore, Torino,                                   2010, p. 83. 10 Marisa Masciari intervistata per il documentario Pino Masciari. Storia di un imprenditore calabrese di Alessandro                               Marinelli, 2014. 11 Pino Masciari intervistato per il documentario Pino Masciari. Storia di un imprenditore calabrese cit. 

46 

neanche al vicino di casa cui, semmai doveste fare amicizia, non potreste raccontare nulla di voi.                               

Vorrei che per un attimo vi diceste: “io da domani mattina sono in un altro posto (...), io da                                     

domani non posso più usare il mio nome, io da domani non sono più nessuno”.  12

In una simile situazione, angosciata perfino dall’impossibilità di svolgere un’attività lavorativa o                       

continuare quella interrotta e, per di più, soggetto a cambiamento di abitudini, luogo di vita,                             

relazioni sociali, generalità d’identificazione, il testimone di giustizia diventa uno nessuno e                       

centomila.  13

Durante la sua permanenza nel programma di protezione Pino Masciari ne sperimenta varie                         

inefficienze: viene accompagnato con veicoli non blindati o con la targa della località protetta,                           

viene fatto sedere in mezzo ai numerosi imputati denunciati, subisce intimidazioni, viene lasciato                         

senza scorta durante i processi in Calabria, registrato negli alberghi con il suo vero nome e senza                                 

documenti di copertura. Alla fine del 2004, però, la Commissione centrale del Ministero degli                           

Interni notifica all’imprenditore il termine del programma speciale di protezione. Tra le                       

motivazioni si indica che i processi sono terminati, anche se in realtà sono ancora in corso di                                 

trattazione. Dopo aver fatto ricorso al TAR, a febbraio 2005 Masciari viene ufficialmente escluso                           

dal programma e non gli viene più garantita la scorta neanche per recarsi in tribunale a                               

testimoniare. Nel gennaio 2009 il TAR emette la sentenza stabilendo il diritto di Masciari alla                             

sicurezza. Ad aprile dello stesso anno, non avendo ancora ricevuto alcuna risposta                       

sull’ottemperanza della sentenza da parte della Commissione centrale, Masciari inizia uno                     

sciopero della fame che termina a maggio, quando la Presidenza della Repubblica si assume                           

l’impegno della sua sicurezza assegnandogli scorta e tutela adeguate. 

Questa fase particolarmente sofferta del percorso conosce l’intervento e la partecipazione della                       

società civile che inizia a reagire e ad affiancarsi alle rivendicazioni di Masciari. Da alcune                             

associazioni antimafia e dai meetup di Beppe Grillo nasce infatti il gruppo degli “Amici di Pino                               

Masciari”, cittadini che si impegnano a fornire a Masciari, con la loro presenza, una “difesa                             

popolare non violenta”. Viene fondato anche un blog sul quale viene redatto quotidianamente il                           

diario degli spostamenti e degli appuntamenti dell’imprenditore, in modo da fare conoscere a più                           

persone possibile la sua storia e la sua quotidianità. Seguendo il diario del blog e la diretta streaming                                   

degli spostamenti di Masciari chiunque infatti è in grado di “guardargli le spalle” e di contribuire                               

12 MASCIARI Pino e MASCIARI Marisa, Organizzare il coraggio cit., p. 89. 13 Ivi, p. 241. 

47 

alla possibilità di fargli esercitare la sua cittadinanza e i suoi diritti, permettendogli di spostarsi,                             

partecipare a incontri, rivedere parenti e amici. In questo senso una visibilità che prima era                             

ridotta, se non inesistente, viene portata all’estremo, in una logica diametralmente opposta a                         

quella del programma di protezione, per cui a una minor visibilità e a una cittadinanza falsa o                                 

poco “praticata” corrisponde una maggior protezione e un minor rischio.  

Un’altra delle iniziative portate avanti dagli “Amici di Pino Masciari” è stata quella di presentarsi                             

in massa al Viminale per farsi aggiungere al proprio cognome anche quello dell’imprenditore;                         

un’iniziativa estremamente significativa dal punto di vista della riconquista e dell’“allargamento”                     

dell’identità. Il testimone di giustizia, costretto a rinunciare al proprio cognome e alla propria                           

identità, viene reinserito nella cittadinanza dalla cittadinanza stessa che riesce a creargli una nuova                           

identità “allargata”, collettiva e comprensiva. Il testimone ridiventa un cittadino tra i cittadini,                         

viene reinserito in un contesto “potenziato” in cui può riconoscersi non solo in se stesso ma                               

nell’intera comunità che porta il suo nome. E proprio questo effetto ha avuto la consegna                             

all’imprenditore di una maglietta che portava la significativa scritta “Io sono Pino Masciari e ho                             

un sacco di amici”: 

“Io sono Pino Masciari”: io da quel momento in poi mi sono riappropriato della mia vera                               

identità, fino ad allora non sapevo chi fossi.  14

Io che ero solo… ora erano tutti Masciari, migliaia e migliaia di persone si riconoscevano tali.  15

Tra le caratteristiche fondamentali di questa mobilitazione vi è quindi stata la volontà della                           

creazione di un’identità collettiva e allargata rispetto al testimone singolo che in questa, dai                           

confini più ampi, ha potuto ritrovare la sua. L’ampliamento della visibilità e il fatto di poter                               

condividere la propria storia personale hanno permesso a questo testimone di ritrovarsi nella                         

propria identità e nella propria vita. È proprio Pino Masciari, infatti, a sostenere che “ogni                             

persona che veniva a conoscenza della nostra storia ci allungava la vita di un giorno”.  16

In questo modo il denunciante ha “perso” in una maniera positiva la sua identità di singolo per                                 

riconoscersi in una unica e collettiva che gli ha permesso di appartenere attivamente al resto della                               

società, piuttosto che vedersi evidenziati i suoi attributi distintivi. Il testimone di giustizia, in                           

14 Pino Masciari intervistato per il documentario Pino Masciari. Storia di un imprenditore calabrese cit. 15 Ibidem. 16 MASCIARI Pino e MASCIARI Marisa, Organizzare il coraggio cit., p. 195. 

48 

questo caso particolare, è così ridiventato cittadino grazie a un gruppo eticamente orientato di                           

cittadini.  

 

Nel 2010 Masciari concorda, in sintonia con il Ministero dell’Interno, la conclusione dal                         

programma di protezione. Oggi vive con il suo vero nome in un’altra località con la famiglia,                               

accompagnato sempre da una scorta. 

   

49 

3. UNO SGUARDO ALLA CORRUZIONE: TESTIMONE 

DI GIUSTIZIA E WHISTLEBLOWER 

 

 

3.1 Lacune linguistiche e legislative 

Un atto eticamente orientato che si caratterizza nel denunciare condotte illecite di cui si viene a                               

conoscenza in ragione del rapporto di lavoro con l’obiettivo di prevenirle o contribuire ad                           

accertarne la responsabilità se già verificatesi.   17

Questa è una delle definizioni generalmente condivisa di whistleblowing, dall’inglese “soffiare il                       

fischietto”, l’atto di segnalare corruzione e altri atti illeciti sul luogo di lavoro. Come il testimone                               

di giustizia, la figura del whistleblower soffre, in particolare nel caso italiano, di un problema innanzi                               

tutto definitorio. Una della principali criticità riguardo alla valorizzazione di questa figura                       

riguarda proprio la traduzione italiana della parola inglese; non è infatti ancora stato trovato un                             

corrispondente univoco, immediato e completamente aderente al termine anglosassone. L’azione                   

del segnalatore di illeciti è in effetti ancora sottoposta a un processo di denotazione al negativo,                               

attraverso, per esempio, traduzioni come “spifferare” o “soffiata”, che spesso assimilano questo                       

soggetto alla “spia” o all’“infame”, qualcuno che è a conoscenza dell’irregolarità, ma è                         

implicitamente chiamato a non denunciarla per non tradire regole informali universalmente                     

riconosciute e rispettate o per non rischiare ritorsioni da parte di chi quelle regole le ha stabilite o                                   

ha deciso di rispettarle. Quello che idealmente dovrebbe essere un guardiano dell’interesse                       

pubblico è linguisticamente, e quindi culturalmente e socialmente, avvertito come un delatore e                         

un diffamatore. La percezione negativa del contesto rispetto a chi ne segnala delle irregolarità                           

mettendone in discussione la struttura e i processi abituali è uno dei tanti punti di contatto tra il                                   

testimone di giustizia, spesso “segnalatore” di mafia, e il whistleblower, spesso “segnalatore” di                         

corruzione. Entrambi i soggetti si trovano, infatti, in una condizione di debolezza e vulnerabilità                           

17 DI RIENZO Massimo, Il Whistleblowing e la democrazia vibrante, 2015, p. 2.

50 

nei confronti delle persone e dei contesti riguardo ai quali hanno reso le loro dichiarazioni. I                               

“soffiatori di fischietto” rischiano, a causa delle loro denunce, ripercussioni a livello innanzi tutto                           

professionale, come, per esempio, essere trasferiti in posizioni prive di prospettive, essere                       

demansionati, subire discriminazioni o trattamenti ingiusti, vedersi negate delle promozioni o                     

essere addirittura licenziati. Proprio in virtù di questi rischi si ritrovano, nel momento in cui                             

vengono a conoscenza dell’illecito, di fronte a un vero e proprio dilemma etico: segnalare,                           

permettendo all’organizzazione di isolare ed eliminare i comportamenti illeciti ma rischiando le                       

eventuali ripercussioni personali e professionali, o non segnalare, tutelandosi ma dando la                       

possibilità a tali comportamenti di perpetrarsi.  

I potenziali testimoni di giustizia, d’altra parte, si trovano in una simile situazione di conflitto. La                               

decisione della denuncia porta infatti con sé il rischio di serie ritorsioni da parte dei soggetti                               

criminali e il conseguente stravolgimento della propria routine di vita; mentre la decisione di non                             

denunciare, invece, equivale al possibile proseguimento e proliferare delle logiche e delle attività                         

criminali, dell’impunità, e, nel caso di testimoni-vittima, del danno subìto. Scontando ancora le                         

conseguenze di una definizione giuridica mancata, i testimoni sono inoltre spesso costretti a                         

confrontarsi con un’ostilità di tipo “ambientale” originata dalla loro scelta. Quando, come                       

talvolta ancora accade, vengono confusi con i collaboratori di giustizia sono considerati e                         

conseguentemente trattati alla stregua di chi ha commesso reati o dei membri delle                         

organizzazioni criminali. Ma anche quando sono correttamente identificati come testimoni, sono                     

spesso posti di fronte alla diffidenza e alla paura generate dal loro gesto di rottura.  

Proprio come il testimone di giustizia, inoltre, la figura del whistleblower non è ancora pienamente                             

valorizzata a livello normativo e non gode ancora di completa tutela. Prima della legge n. 190 del                                 

2012 “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella                         

pubblica amministrazione” che con l’articolo 51 introduce l’art. 54-bis nel decreto legislativo 30                         

marzo 2001, n. 165 (“Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle                       

amministrazioni pubbliche”) prevedendo la “Tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti”,                     

è mancata, infatti, una regolamentazione specifica della protezione del whistleblower.  

L’articolo 51 della legge n. 190 stabilisce invece che: 

il pubblico dipendente che denuncia all’autorità giudiziaria o alla Corte dei conti, ovvero riferisce                           

al proprio superiore gerarchico condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del                             

rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura                         

51 

discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati                         

direttamente o indirettamente alla denuncia. 

Le disposizioni della legge n. 190 delineano però una protezione che l’Autorità nazionale                         

anticorruzione (A.N.AC.) ha definito “generale e astratta” e che ha cercato di chiarificare con la                             

Determinazione n. 6 del 28 aprile 2015 (“Linee guida in materia di tutela del dipendente pubblico                               

che segnala illeciti (c.d. whistleblower)”) nella quale viene specificato che la tutela deve essere                           

fornita da parte di tutti i soggetti che ricevono le segnalazioni: in primo luogo da parte                               

dell’amministrazione di appartenenza del segnalante, in secondo luogo da parte delle altre                       

autorità che, attraverso la segnalazione, possono attivare i propri poteri di accertamento e                         

sanzione, ovvero la stessa Autorità nazionale anticorruzione, l’Autorità giudiziaria e la Corte dei                         

conti. La Disposizione presenta in seguito una serie di puntualizzazioni che sottolineano la                         

valenza del whistleblowing come strumento innanzi tutto preventivo nei confronti del fenomeno                       

corruttivo, facendo particolare riferimento a una misura specifica introdotta dalla legge n. 190, il                           

Piano triennale anticorruzione, che prevede espressamente la tutela del dipendente che segnala                       

condotte illecite tra le azioni finalizzate alla prevenzione della corruzione, in particolare fra quelle                           

obbligatorie disciplinate direttamente dalla legge che, quindi, le amministrazioni pubbliche sono                     

tenute a porre in essere ed attuare. È inoltre individuato nel Responsabile della prevenzione alla                             

corruzione la figura di riferimento per le segnalazioni. 

Per quanto riguarda le segnalazione anonime, esse non rientrano, per espressa volontà del                         

legislatore, nel campo di applicazione dell’art. 54-bis. La garanzia di riservatezza presuppone,                       

infatti, che il segnalante renda nota la propria identità. Non rientra, dunque, nella fattispecie                           

“dipendente pubblico che segnala illeciti”, il soggetto che, nell’inoltrare una segnalazione, non si                         

renda conoscibile. In sostanza, l’A.N.AC. sottolinea che la ratio della norma è quella di assicurare                             

la tutela del dipendente, mantenendo riservata la sua identità, solo nel caso di segnalazioni                           

provenienti da dipendenti pubblici individuabili e riconoscibili. Questa interpretazione risulta ad                     

oggi tra le più dibattute in quanto riconoscerebbe nel segnalante esclusivamente quel                       

dipendente/“guardiano” dell’interesse pubblico già obbligato dall’art. 311 del Codice Penale a                     

denunciare nel caso abbia notizia di un reato e, dall’art. 8 del Codice di Comportamento delle                               

Pubbliche Amministrazioni, ad aiutare il Responsabile per la prevenzione della corruzione                     

segnalando a un suo superiore gerarchico eventuali situazioni di illecito. Se da una parte ciò                             

rientrerebbe nell’ottica secondo la quale, nella sua veste di guardiano della cosa pubblica, il                           

52 

dipendente non possa celarsi sotto l’anonimato ma debba coerentemente “metterci la faccia”,                       

dall’altra non si terrebbe conto che l’anonimato costituisce un potente strumento di autotutela e                           

quindi di incentivo alla segnalazione, specialmente in quel clima culturalmente ostile in cui si                           

spesso trova ad agire il segnalante, che prima di essere visto come protettore dell’interesse                           

pubblico è additato come spia e soggetto quindi a rischio di ritorsioni di vario tipo sul luogo di                                   

lavoro. 

L’Autorità segnala, inoltre, la necessità di un intervento chiarificatore del legislatore per quanto                         

riguarda le condizioni di riservatezza riguardo l’identità del segnalante. L’individuazione dei                     

presupposti che fanno venir meno la riservatezza è infatti cruciale in quanto, da una parte, la                               

garanzia di riservatezza incoraggia il dipendente pubblico ad esporsi; dall’altra, consente alle                       

amministrazioni di dare corretta applicazione all’istituto. A tal fine il procedimento di gestione                         

della segnalazione deve garantire la riservatezza dell’identità del segnalante dalla ricezione della                       

segnalazione e in ogni fase successiva. Per questo motivo l’Autorità ritiene che spetti al                           

Responsabile dell’ufficio procedimenti disciplinari valutare se ricorra o meno la condizione di                       

indispensabilità della conoscenza del nominativo del segnalante ai fini della difesa. La questione                         

della tutela dell’identità del segnalante costituisce uno dei punti più critici della declinazione                         

italiana dell’istituto del whistleblowing; secondo la legge n. 190, infatti, in soli due casi sussiste                             

l’obbligo per il Responsabile anticorruzione di rivelare il nome del segnalante: nel caso il                           

segnalante stesso dia il suo consenso e nel caso la contestazione dell’addebito disciplinare sia in                             

tutto o in parte basata sulla segnalazione e la conoscenza dell’identità risulti indispensabile alla                           

difesa del segnalato. In questo modo, però, il potenziale segnalante, non avendo certezze, al                           

momento della segnalazione, sul fatto che la sua identità venga rivelata o meno, sarà meno                             

incentivato a esporsi, soprattutto in caso di dubbi o incertezze riguardo ai fatti rilevati. 

Un ulteriore punto critico riguarda la definizione delle cosiddette “condotte illecite”, indicazione                       

non ulteriormente specificata dalla norma entro la quale che l’A.N.AC. include non solo l’intera                           

gamma dei delitti contro la pubblica amministrazione, ma anche le situazioni in cui si riscontri                             

l’abuso di potere al fine di ottenere vantaggi privati, nonché fatti in cui si evidenzi un                               

malfunzionamento dell’amministrazione a causa dell’uso a fini privati delle funzioni attribuite,                     

compreso l’inquinamento dell’azione amministrativa dall’esterno (es. nepotismo, ripetuto               

53 

mancato rispetto dei tempi procedimentali, demansionamento, irregolarità contabili, false                 

dichiarazioni, etc.). 

La norma risulta essere lacunosa anche in merito all’individuazione del momento in cui cessa la                             

garanzia della tutela; l’Autorità anticorruzione ritiene in questo caso che solo in presenza di una                             

sentenza di primo grado sfavorevole al segnalante cessino le condizioni di tutela dello stesso. 

Come per i testimoni di giustizia, anche intorno alla figura whistleblower e alla sua valorizzazione e                               

tutela è in atto un dibattito politico per l’introduzione di norme più specifiche e di maggior                               

efficacia. Nel novembre 2015 è stato approvato in Commissione un nuovo disegno di legge (C.                             

3365) dal titolo “Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui                                 

siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato”, per cui (art.                               

1): 

Il pubblico dipendente che in buona fede denuncia al responsabile della prevenzione della                         

corruzione di cui all’articolo 1, comma 7, della legge 6 novembre 2012, n. 190, ovvero all’Autorità                               

nazionale anticorruzione (ANAC), all’autorità giudiziaria ordinaria o a quella contabile, condotte                     

illecite o di abuso di cui è venuto a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro non può                                     

essere sanzionato, licenziato o sottoposto a una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente                         

effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati, direttamente o indirettamente, alla                       

segnalazione. L’adozione di misure discriminatorie nei confronti del segnalante è comunicata in                       

ogni caso all’ANAC dall’interessato o dalle organizzazioni sindacali maggiormente                 

rappresentative nell’amministrazione nella quale le stesse sono state poste in essere. L’ANAC                       

informa il Dipartimento della funzione pubblica o gli altri organismi di garanzia o di disciplina per                               

le attività e gli eventuali provvedimenti di competenza. 

Per quanto riguarda il contenuto dell’espressione “condotte illecite o di abuso” la definizione                         

rimane ancora generica e poco chiara. Nell’art. 2 è specificata, però, la definizione di “buona                             

fede”: 

È in buona fede il dipendente pubblico che effettua una segnalazione circostanziata ritenendo                         

altamente probabile che la condotta illecita o di abuso si sia verificata. La buona fede è comunque                                 

esclusa qualora il segnalante abbia agito con colpa grave. 

Per quanto riguarda la tutela della riservatezza dell’identità del segnalante, l’art. 3 della proposta                           

di legge stabilisce che: 

54 

L’identità del segnalante non può essere rivelata. Nell’ambito del procedimento penale, l’identità                       

del segnalante è coperta dal segreto nei modi e nei limiti previsti dall’articolo 329 del Codice di                                 

procedura penale. Nell’ambito del procedimento dinanzi alla Corte dei conti, l’identità del                       

segnalante non può essere rivelata fino alla chiusura della fase istruttoria. Nell’ambito del                         

procedimento disciplinare l’identità del segnalante non può essere rivelata, senza il suo consenso,                         

sempre che la contestazione dell’addebito disciplinare sia fondata su accertamenti distinti e                       

ulteriori rispetto alla segnalazione. Qualora la contestazione sia fondata, in tutto o in parte, sulla                             

segnalazione, l’identità può essere rivelata ove la sua conoscenza sia assolutamente indispensabile                       

per la difesa dell’incolpato. 

In questo caso viene mantenuto il meccanismo precedente con le conseguenti criticità riguardo                         

alla restrizione degli incentivi a segnalare visto che il potenziale whistleblower non è in grado di                               

sapere, nel momento stesso della segnalazione, se la sua identità verrà rivelata o meno. 

È inoltre stabilito l’ammontare delle sanzioni amministrative pecuniarie nel caso vengano                     

accertati comportamenti discriminatori nei confronti dei segnalanti e sono previste forme di                       

premialità per gli stessi, qualora la segnalazione si riveli fondata, da definirsi però in sede                             

contrattuale. 

Sempre nell’art. 3 si stabilisce inoltre che: 

Qualora al termine del procedimento penale, civile o contabile ovvero all’esito dell’attività di                         

accertamento dell’A.N.AC. risulti l’infondatezza della segnalazione e che la stessa non è stata                         

effettuata in buona fede, il segnalante è sottoposto a procedimento disciplinare dall’Ente di                         

appartenenza, al termine del quale, sulla base di quanto stabilito dai contratti collettivi, può essere                             

irrogata la misura sanzionatoria anche del licenziamento senza preavviso. 

Il testo propone infine un allargamento dell’istituto del whistleblowing anche in ambito privato,                         

limitatamente però alle aziende che adottano volontariamente il modello organizzativo ex d.lgs.                       

n. 231/2001, che ha introdotto un nuovo regime di responsabilità denominata “da reato”,                         

derivante dalla commissione o tentata commissione di determinate fattispecie di reato                     

nell’interesse o a vantaggio degli enti stessi. 

55 

Il disegno di legge è stato approvato alla Camera nel gennaio del 2016 con alcune sostanziali                               

modifiche. Lo studioso Massimo Di Rienzo, esperto sui temi dell’integrità e della trasparenza per                           

la pubblica amministrazione, rileva, tra le più significative:  18

- l’aggiunta della parola “segnalazione” affiancata ma disgiunta dalla parola “denuncia”. In                     

quest’ottica viene valorizzata la dimensione preventiva dell’istituto. La segnalazione,                 

sottolinea Di Rienzo, è un atto mirato a sollevare una questione e a gettare luce sul                               

pericolo di un potenziale atto illecito, mentre la parola “denuncia” evidenzia la valenza                         

repressiva del whistleblowing focalizzando l’attenzione sull’irregolarità già commessa e                 

riconosciuta; 

- l’introduzione dell’elemento oggettivo oltre la buona fede del segnalante con                   

l’inserimento della “ragionevole convinzione fondata su elementi di fatto”. Questo                   

significa che, oltre la predisposizione d’animo (elemento soggettivo) con cui si effettua la                         

segnalazione, che non deve essere fatta per motivi di diffamazione o calunnia, si                         

evidenzia anche l’elemento oggettivo, cioè le ragioni che inducono il whistleblower a                       

segnalare. La segnalazione (anche nel caso si rivelasse poi infondata) si basa su elementi                           

di ragionevolezza nel momento in cui si presume che un altro soggetto, nelle medesime                           

condizioni, avrebbe rilevato la stessa sensazione di “illiceità” del comportamento; 

- la possibilità per il segnalante di avere l’ultima parola nei procedimenti disciplinari                       

riguardo l’uso della segnalazione. La modifica prevede infatti che anche nel caso la                         

contestazione sia fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione e la conoscenza                         

dell’identità del segnalante sia indispensabile per la difesa dell’incolpato, la segnalazione                     

sia utilizzabile solo in presenza di consenso del segnalante alla rivelazione della sua                         

identità. 

Molti esperti prendono come possibile modello legislativo di riferimento il cosiddetto PIDA, il                         

Public Interest Disclosure Act, legislazione del 1998 del Regno Unito in materia di whistleblowing che                             

prevede un’articolata disciplina delle condizioni di legittimità delle segnalazioni che garantisce la                       

protezione a chiunque riporti informazioni su delitti, illeciti civili, violazioni amministrative,                     

pericoli per la salute e la sicurezza o per l’ambiente. Lo stesso Di Rienzo sottolinea, in effetti,                                 

18 DI RIENZO, Note (meno critiche) sul DDL Whistleblowing, spazioetico.com, 25 gennaio 2016. 

56 

come siano ancora tanti i possibili ambiti di miglioramento della legislazione italiana e della sua                             

applicazione. In particolare, le carenze riguarderebbero i seguenti aspetti: 

- la codificazione dei vari canali di segnalazione. Non tutte le amministrazioni pubbliche                       

italiane hanno infatti istituito canali e procedure codificate di segnalazione e quelle che lo                           

hanno fatto hanno adottato modalità differenziate, spesso non chiare e di scarsa                       

accessibilità per i cittadini; 

- la legislazione in materia di tutela del whistleblower nell’ambito privato. La proposta di legge                           

in discussione in parlamento propone l’applicazione dell’istituto soltanto per certe                   

tipologie di aziende; 

- lo sviluppo di processi di accompagnamento prima, durante e dopo la segnalazione.                       

Sarebbero estremamente utili per far sì che i “dilemmi etici” dei potenziali segnalanti si                           

risolvessero con la scelta di segnalare e con la garanzia e l’applicazione di misure di tutela                               

appropriate; 

- l’introduzione di forme di premialità (presenti nel disegno di legge approvato a                       

novembre, ma in seguito eliminate) per chi segnala; 

- la necessità di favorire lo sviluppo di una vera a propria “cultura della segnalazione”                           

tramite iniziative di formazione e sensibilizzazione. In Italia si rileva un particolare                       

bisogno di sostituire la cultura del silenzio (il “mi faccio i fatti miei”) con una                             

valorizzazione dell’atto di denuncia e di segnalazione come azione compiuta nell’interesse                     

della collettività; 

- l’inclusione, come nel PIDA, anche delle condotte pericolose per la salute e la sicurezza                           

pubblica tra gli atti illeciti oggetto di possibile segnalazione. 

Il disegno di legge è ad oggi in attesa di essere discusso e approvato in Senato. 

 

3.2 Identità complesse 

Il problema linguistico e normativo che riguarda la figura del whistleblower si accompagna anche a                             

una carenza di riflessioni scientifiche sul profilo di questa figura. Al contrario dell’Italia, il Regno                             

57 

Unito ha tradizionalmente dimostrato una particolare sensibilità nei confronti del tema del                       

whistleblowing, producendo diverse analisi volte alla definizione di un profilo indicativo del                       

segnalante. In particolare, in uno studio del Public Concern at Work , un’autorità indipendente                         19

inglese che mira a garantire che le “preoccupazioni” (concern) circa il malcostume nei luoghi di                             

lavoro siano sollevate e affrontate, sono raccolte le esperienze di mille segnalanti, sui cui profili i                               

ricercatori hanno provato a tratteggiare un ritratto indicativo del whistleblower, che, facendo una                         

sintesi dei vari casi analizzati, risulta essere: 

un funzionario specializzato, spesso un professionista, che sta lavorando da meno di due anni nel                             

contesto in cui si verifica il comportamento illecito o pericoloso, che è preoccupato per un                             

determinato comportamento in corso, che colpisce la società in generale e che si verifica, in                             

media, per un periodo non inferiore ai sei mesi.  20

Da questo identikit emerge un ipotetico profilo del whistleblower inglese: un dipendente                       

specializzato, che si attiene a princìpi che vanno oltre il rispetto dell’assetto organizzativo                         

dell’azienda, ma che hanno a che fare anche con i valori della deontologia professionale; che                             

lavora da un tempo relativamente breve nell’organizzazione, cosa che gli permette di essere                         

sufficientemente estraneo ai determinati meccanismi per poterne prendere le distanze; che ha                       

osservato il fenomeno illecito per un periodo non inferiore ai sei mesi, a riprova del fatto che                                 

nella maggior parte dei casi esso non si esplicita in un singolo atto o episodio, ma in una serie di                                       

comportamenti più sistematici che durano nel tempo. 

Un’altra delle riflessioni più interessanti sulla questione della definizione di whistleblower è stata                         

portata avanti da Abraham Mansbach, studioso di filosofia politica e sociale, che in riferimento                           

alla definizione di questa figura ha chiamato in causa il concetto di pharresia, vocabolo di origine                               

greca che si riferisce all’atto pratico di “dire il vero” senza temerne le potenziali ripercussioni e                               

conseguenze negative. Il parresiasta dell’antica Grecia era colui che con coraggio e senza paura                           

affrontava il potere attraverso un discorso di verità. Rientravano in questa categoria figure come                           

il messaggero che a rischio della propria vita portava la notizia di una battaglia persa, il politico                                 

che evidenziava una verità scomoda a rischio di perdere il proprio consenso, i consiglieri dei re                               

ellenici che erano chiamati a ispirarsi a questo principio per moderarne il potere e guidarli nelle                               

19 Lo studio, dal titolo Whistleblowing: the inside story. A study of the experiences of 1000 whistleblowers, è del 2013 ed è stato                                             promosso da Public Concern at Work insieme all’Università di Greenwich. 20 DI RIENZO, L’identikit del Whistleblower, spazioetico.com, 12 settembre 2014. 

58 

decisioni. L’odierno “soffiatore di fischietto” ricoprirebbe quindi il ruolo di parresiasta                     

contemporaneo, riuscendo a mettere in discussione il sistema di potere verso cui quell’atto di                           

verità è rivolto, con l’obiettivo di svelarne le contraddizioni, le falsità, le irregolarità. Il filosofo                             

francese Michel Foucault ha trattato approfonditamente il tema in una serie di conferenze da lui                             

tenute all’Università di Berkeley nel 1983, definendo la pharresia come: 

attività verbale in cui chi parla ha una specifica relazione con la verità attraverso la franchezza,                               

una certa relazione con la sua vita attraverso il pericolo, una certa relazione con se stesso o le altre                                     

persone attraverso la critica e una specifica relazione con la legge morale attraverso la libertà e il                                 

dovere. È l’attività verbale nella quale chi parla esprime la sua personale relazione con la verità e                                 

rischia la sua vita perché riconosce il dire il vero come un dovere per migliorare o aiutare altre                                   

persone (anche se stesso).  21

La pratica del whistleblowing, definita da Mansbach anche come “fearless speech” (“discorso senza                         

paura”), sarebbe così in grado di rafforzare e contemporaneamente mettere in discussione i                         

princìpi fondanti della democrazia quali la libertà e l’uguaglianza tra gli individui che la                           

compongono. L’atto di verità portato avanti con la segnalazione rappresenta un’azione di                       

estrema libertà e affermazione della propria individualità, ma al contempo un comportamento                       

che mira a mantenere in buono stato la cosa pubblica, garantendo l’interesse dell’intera                         

collettività. In questo modo la sfera privata e la sfera pubblica sono messe in contatto in quella                                 

che Mansbach chiama “tensione produttiva” , che a sua volta favorisce la realizzazione della                         22

cosiddetta “democrazia vibrante” (o “democrazia radicale”, come definita da Ernesto Laclau e                       23

Chantal Mouffe ): quella democrazia che, nutrendosi della critica, riesce a mettere in discussione                         24

in modo continuo i capisaldi su cui si fonda, non permettendo la loro cristallizzazione e la                               

possibilità di una loro strumentalizzazione ideologica: 

Radical democracy presents a vision and political program that highlight the moral worth of                           

human beings and combine the liberal values of autonomy, freedom and pluralism with                         

fundamental social premises like equality and social justice. A central feature of the project is that                               

it does not invoke a final state or closure; it is an open-ended endeavor. (...) One of the ways to                                       

keep democracy vibrant is to continually critique these principles and values - politically, publicly,                           

21 LEWIS David e VANDEKERCKHOVE Wim, Whistleblowing and Democratic Values, International Whistleblowing                       Research Network, 2011, p. 13. Traduzione mia. 22 Ivi, p. 12. 23 Ivi, p. 17. 24 LACLAU Ernesto e MOUFFE Chantal, Hegemony and Socialist Strategy, 1985. 

59 

through the organs of civil society, and through internal regulatory or supervisory bodies. This                           

undertaking ensures that the values are implemented in material life, on the one hand, and that                               

they do not become mere elements of ideological manipulation, on the other. Radical democracy                           

is committed to the principle that liberal democratic societies must be held accountable for                           

professed ideals. The practice of fearless speech takes up the challenge.  25

L’atto della segnalazione costituirebbe quindi, parallelamente al voto, un atto individuale di                       

rafforzamento della democrazia; porterebbe infatti in contatto l’“io” singolo del whistleblower,                     

individuo che si espone e riafferma se stesso tramite l’atto di presa della parola, e il “noi”                                 

collettivo, il bene pubblico che la segnalazione ha l’obiettivo di proteggere da eventuali danni o la                               

stessa organizzazione che “liberata” da pratiche illecite può assolvere meglio e con meno spreco                           

di risorse alla sua missione. 

Questa riflessione potrebbe facilmente essere applicata anche al ruolo del testimone di giustizia                         

che allo stesso modo propone un atto estremo di verità a rischio della propria vita. Prendendo la                                 

parola e denunciando, il testimone riafferma se stesso, i suoi diritti e doveri di cittadino onesto.                               

Allo stesso tempo, però, mettendo in luce l’illegalità ed esponendosi al rischio, rende un servizio                             

alla collettività permettendo che un determinato reato venga perseguito e che il principio di                           

legalità venga riaffermato. Il testimone, quindi, una sorta di whistleblower del proprio contesto                         

sociale, “libera” potenzialmente l’intera società dalla pratica criminale. L’atto di parola del                       

testimone di mafia, in particolare, assume anche un’ulteriore valenza di tipo culturale rompendo i                           

presupposti di omertà, silenzio e “non detto” su cui le organizzazioni criminali di questo tipo                             

fondano la loro sopravvivenza.  

Le riflessioni di Mansbach presentano anche uno specifico focus sul tema dell’identità e sul suo                             

rapporto con la scelta di segnalazione del whistleblower. Secondo lo studioso, infatti, ci sarebbe                           

proprio il discorso sull’identità alla base della pratica della segnalazione. Il processo di risoluzione                           

del dilemma etico iniziale infatti è caratterizzato dallo stato di indecisione dell’individuo, che non                           

sa se parlare oppure no, e arriva a una riappropriazione finale del discorso, con la conseguente                               

affermazione di identità che l’atto di parola e di denuncia permettono. Decidere di denunciare le                             

pratiche irregolari della propria organizzazione rappresenta un’azione di dissenso e                   

“disidentificazione” rispetto ad essa. Il posto di lavoro rappresenta una fonte di identificazione                         

fondamentale per gli individui e chi lavora per un’organizzazione è portato a riconoscere nella                           

25 LEWIS e VANDEKERCKHOVE, Whistleblowing and Democratic Values cit., p. 17. 

60 

sua struttura e nei suoi meccanismi gerarchici delle fonti di beneficio per l’efficienza dell’azienda                           

stessa, quel processo che Mansbach chiama “subordinazione volontaria” . Quando però la                     26

subordinazione non è più volontaria, ma subìta, quando quindi non ci si riconosce più nei                             

meccanismi e nelle pratiche dell’organizzazione, l’ambiente di lavoro diventa sito di antagonismo                       

e di resistenza.  

D’altra parte, però, proprio da fonti esterne di identità il whistleblower può trarre il coraggio per la                                 

decisione della denuncia. La possibilità di riconoscersi in altri gruppi o contesti rispetto a quelli                             

legati alla dimensione lavorativa (che possono riferirsi a varie sfere, quali sport, politica, religione,                           

attività sociali di altro genere, etc.) costituisce per il segnalante una sorta di “serbatoio” di identità                               

dove trovare il coraggio di rischiare mettendo in discussione quella lavorativa. Questo approccio                         

è particolarmente interessante se si prendono in esame i testimoni di giustizia, che sono spesso                             

chiamati a mettere in discussione tutte le loro “fonti” di identità: inizialmente, infatti,                         

specialmente quando si parla di contesti dove la presenza di sistemi illeciti o criminali è più                               

pervasiva, la prima fonte d’identità che si perde è quella del proprio ambiente quotidiano: tramite                             

la denuncia infatti si compie un atto di misconoscimento di determinate dinamiche che sono                           

spesso non occasionali, ma anzi ben radicate nel contesto di vita di questi individui. Quello che                               

però succede ai testimoni è che il loro nuovo status, anche a causa di storiche mancanze legislative                                 

e carenze del sistema tutorio, non riesce a garantire loro le altre fonti di identità necessarie: il                                 

lavoro è spesso abbandonato, le imprese che hanno fondato e costruito falliscono, la famiglia è                             

divisa e i parenti abbandonati (oltre al fatto che spesso gli stessi parenti non riconoscono né                               

accettano la scelta di denuncia), le relazioni sociali sono interrotte. I testimoni si trovano così in                               

una situazione di sofferenza ancora più significativa, in quanto privi di contesti in cui riconoscersi                             

e fonti di identità su cui fare leva per portare avanti la scelta iniziale di segnalazione. Inoltre,                                 

proprio come accade ai whistleblower, la loro identità diventa il primo obiettivo di chi intende                             

vendicarsi. Anche il testimone, infatti, è spesso oggetto di discredito e di tentativi di                           

danneggiamento della reputazione da parte di chi è stato oggetto di denuncia, ma ancora più                             

significativamente da parte del contesto o sistema in cui essa è avvenuta e che si è                               

verosimilmente sentito messo in discussione.  

Un altro aspetto interessante della riflessione sul whistleblowing riguarda la necessità riferita da                         

molti esperti di ripensare a questo istituto in una dimensione più relazionale, che tenga in                             

26 Ivi, p. 19. 

61 

considerazione, cioè, il rapporto e le reciproche azioni e reazioni del segnalante e di chi accoglie                               

la segnalazione. Questo approccio evidenzia, in particolare, due esigenze: da una parte il bisogno                           

di riconoscere, non più nel segnalante, ma nel destinatario della segnalazione, il soggetto chiave                           

del sistema. Dipende infatti da questo individuo la destinazione della segnalazione stessa. Se la                           

persona accoglierà la segnalazione, la verificherà e le darà un seguito, essa potrà diventare quello                             

strumento di crescita e miglioramento dell’organizzazione che ha la potenzialità di essere. Se, al                           

contrario, chi riceve la segnalazione riconoscerà in essa una critica non costruttiva al proprio                           

lavoro, un rischio di danno d’immagine per l’organizzazione o un ostacolo al perpetuarsi di                           

pratiche illecite a cui anch’egli prende parte o che non è pronto a mettere in discussione, la                                 

denuncia non troverà riscontro e perderà il suo potenziale di beneficio per la collettività e il                               

segnalante andrà più facilmente incontro a ritorsioni. Dall’altra parte vi è la necessità di un                             

accompagnamento alla scelta della segnalazione/denuncia. La risoluzione del dilemma etico della                     

testimonianza, infatti, non è mai un processo breve o semplice e per questo chi vi si trova                                 

davanti ha bisogno di un corredo informativo adeguato per sapere che cosa la sua scelta                             

comporti e le opzioni che ha di fronte a sé. 

Anche questo particolare aspetto trova dei punti di connessione con la riflessione sui testimoni di                             

giustizia, che spesso lamentano una risposta debole, se non antagonista, da parte di chi raccoglie                             

le loro denunce e dà piena attivazione al loro status. Molti testimoni, inoltre, dichiarano di non                               

essere stati in possesso delle informazioni riguardo alle conseguenze che le loro dichiarazioni                         

avrebbero comportato nel momento in cui le hanno rese. Anche nel loro caso quindi si mette in                                 

luce la necessità di ripensare la testimonianza come processo relazionale e l’importanza, quindi,                         

della creazione di figure adeguatamente e culturalmente formate per accogliere e gestire le                         

denunce, nonché per accompagnare le persone prima, durante e dopo la scelta di “soffiare il                             

fischietto” o testimoniare. Oltre alla competenze necessarie per poter illustrare ai segnalanti le                         

loro opzioni e i possibili sviluppi della loro situazione professionale e personale, si rende                           

imprescindibile quindi anche un generale sviluppo della “cultura della segnalazione” che sappia                       

valorizzare l’atto della testimonianza in tutte le sue potenzialità di beneficio alla collettività,                         

perché chi denuncia possa, anche nelle risposte istituzionali o dell’organizzazione, ritrovare il                       

senso del proprio atto, in un ribaltamento dell’ottica per cui “chi sta zitto sta e fa meglio”. 

Per questi motivi l’azione portata avanti dalle due figure oggetto di analisi può essere ridefinita                             

anche in un’ottica di “resistenza”. In entrambe le situazioni, infatti, chi fa dichiarazioni riguardo                           

62 

illegalità o atti irregolari deve sostenerne le conseguenze nel tempo e resistere al contesto che li                               

ha prodotti. L’approccio al tema del whistleblowing elaborato da Latané e Darley negli anni ‘70,                             

chiamato “by-stander inertia” (letteralmente “dell’inerzia del testimone”) è particolarmente                 

interessante in questo senso. I due studiosi, infatti, hanno dimostrato empiricamente che                       

maggiore è il numero di testimoni di un atto (in questo caso illecito o meno, ma comunque da                                   

segnalare), meno probabile sarà la segnalazione. Più il gruppo è numeroso, infatti, più sarà grande                             

l’incertezza riguardo alle effettive responsabilità di segnalazione e la paura e la convinzione degli                           

individui di essere esposti al giudizio altrui. Questo discorso è particolarmente calzante se                         

vengono presi in considerazione i contesti mafiosi, dove il gruppo di potenziali testimoni                         

dell’illecito è spesso rappresentato da una collettività silenziosa e spaventata, sorretta nella sua                         

scelta di tacere da una sorta di “tradizione” di omertà che ha origini più o meno lontane nel                                   

tempo. Proprio per questo, la scelta del testimone di giustizia di denunciare l’illegalità, di cui                             

spesso è prima vittima, è talvolta anche un atto di estrema resistenza, se non di portata                               

rivoluzionaria, in un contesto di “testimoni inerti”. Paradossalmente una parte del senso                       

dell’azione di testimonianza viene così a risiedere proprio nella sua singolarità rispetto alle scelte                           

comuni degli altri individui. 

Tenendo in considerazione gli aspetti approfonditi, si può giungere così a una definizione                         

generale che possa comprendere tutti gli elementi di sovrapposizione tra le due figure analizzate.                           

Sia i testimoni di giustizia che i whistleblower possono essere infatti definiti come: 

- CITTADINI che SEGNALANO L’ILLECITO compiendo 

- un ATTO DI VERITÀ e coraggio 

- di tutela dell’INTERESSE COLLETTIVO attraverso  

- L’ATTO VERBALE DI UTILIZZO DELLA PROPRIA VOCE 

(DENUNCIA/SEGNALAZIONE) 

- denuncia che li pone in una CONDIZIONE DI DEBOLEZZA RISPETTO ALLE 

PERSONE E AL CONTESTO DENUNCIATI, che porta come conseguenza la 

- CONDIZIONE DI RISCHIO e PERICOLO che a sua volta determina la 

- NECESSITÀ DI TUTELA 

- l’atto di denuncia/segnalazione necessita di essere VALORIZZATO, anche dalle figure 

deputate ad accogliere le denunce/segnalazioni, perché possa esprimere il suo VALORE 

SOCIALE di rottura con determinate culture e sistemi di potere 

63 

- compiono una SCELTA ETICA e di RESISTENZA che comporta un 

- RISCHIO PER LA TENUTA DELLA LORO IDENTITÀ (di persona, di cittadino, di                       

lavoratore) e un 

- RAPPORTO DI DEBITO CON LO STATO che è chiamato, oltre che a tutelarli, a                           

garantire loro 

- un’adeguata RISPOSTA, i DIRITTI che rischiano di perdere e una maggior                     

DEFINIZIONE NORMATIVA. 

 

3.3 Le differenze 

La figura del testimone di giustizia e quella del whistleblower, però, presentano anche delle                           

sostanziali differenze. Una delle più rilevanti riguarda il ruolo del fattore pericolo. Il rischio per la                               

propria incolumità fisica è una delle caratteristiche intrinseche dell’essere testimoni di giustizia,                       

una delle sfide più consistenti e sofferte che essi si trovano ad affrontare in ragione delle proprie                                 

denunce, ma prima di tutto uno dei prerequisiti per accedere allo status stesso di testimone, che                               

per legge viene concesso a causa proprio di un pericolo talmente concreto ed elevato da non                               

poter essere affrontato con delle misure ordinarie di tutela. 

Il fattore rischio, che connota entrambe le figure, viene quindi a declinarsi in modi                           

sostanzialmente differenti. Se il whistleblower rischia ritorsioni che possono potenzialmente                   

arrivare anche a minacce per l’incolumità fisica, e ripercussioni nell’ambito del proprio contesto                         

lavorativo, lo status di testimone ha invece la sua stessa origine nella condizione di rischio della                               

vita e proprio dal livello di pericolo dipende la sua sussistenza nel tempo. 

Ed è proprio attraverso il fattore temporale che possono delinearsi altre sfumature di questi due                             

profili. Il testimone può diventare tale in maniera “istantanea”, decidendo di denunciare un fatto                           

singolo non appena questo si verifica. Si tratta per esempio di alcuni testimoni “terzi” o di quegli                                 

imprenditori che ricevono richieste estorsive o intimidazioni e si rivolgono immediatamente                     

all’autorità. D’altra parte esistono testimoni che denunciano solo dopo un determinato periodo di                         

tempo per ragioni di indecisione, di assoggettamento psicologico o di vessazione subìta                       

dall’organizzazione criminale, per desiderio di proteggere se stessi o altri da possibili rischi, per                           

essere sicuri di essere in possesso di tutte le informazioni necessarie a sostenere le proprie                             

64 

dichiarazioni. Per i whistleblower si può invece presupporre che, da un lato, saranno più portati a                               

denunciare più sarà alto il loro grado di estraneità al contesto e quindi, presumibilmente, più                             

breve sarà il periodo di tempo in cui sono stati inseriti in tale ambiente e in cui hanno avuto                                     

modo di accoglierne le abitudini illecite; dall’altro potrebbero trovare coraggio e sicurezza                       

proprio nell’aver appreso nel dettaglio, e quindi con il tempo, i meccanismi dell’organizzazione e                           

i possibili “varchi” di irregolarità. 

È però meno probabile che possa venirsi a configurare la tipologia del whistleblower “borderline”, un                             

individuo che abbia avuto qualche tipo di profitto dagli atti illeciti che poi decida di denunciare. Il                                 

reato di corruzione è tipicamente un reato a vittima diffusa, dove la percezione di singoli                             

individui di aver subito un danno è molto inferiore rispetto, per esempio, all’estorsione o                           

all’usura. La corruzione consiste, inoltre, in un patto paritario tra due parti disposte a scambiarsi                             

occultamente le loro risorse in modo che entrambe ne traggano del guadagno ed è per questo                               

molto difficile che a segnalare sia proprio una della due parti o qualcuno che dalla corruzione ha                                 

o ha avuto dei benefici e che per continuare ad averne sarà presumibilmente portato a perpetrare                               

nell’attività. Non per questo si devono escludere, però, rischi di utilizzo opportunistico dello                         

strumento della denuncia anche da parte dei whistleblower; in particolar modo nel caso di conflitti                             

nell’ambiente lavorativo dove esiste la concreta possibilità che qualcuno denunci un collega per                         

pura rivalsa personale, senza che ci sia effettiva infrazione di regole disciplinari o illegalità in                             

genere. Da questo punto di vista però, alla base di un uso scorretto o diversamente interpretabile                               

dell’istituto non c’è la contiguità con il contesto e il sistema illecito, ma una vera falsificazione del                                 

contenuto della segnalazione stessa, che non colloca l’individuo segnalante in un’altra potenziale                       

categoria giuridica o di altro genere, ma lo esclude totalmente da qualsiasi forma di                           

riconoscimento e tutela. 

Un’ulteriore riflessione riguarda la dimensione e le caratteristiche del contesto in cui la denuncia                           

viene effettuata; nella maggior parte dei casi sia i testimoni di giustizia che i whistleblower sono                               

individui che si trovano a mettere in discussione non un singolo individuo, ma un sistema                             

deviato o corrotto. È verosimile, però, che il testimone di giustizia, in particolare quello di mafia,                               

si trovi a confronto con un fenomeno molto più pervasivo e diffuso a livello sociale e territoriale.                                 

Le organizzazioni mafiose, infatti, perseguono i loro obiettivi di profitto e conquista del potere                           

tramite un serrato controllo del territorio, attuato spesso con le armi dell’intimidazione e                         

dell’assoggettamento ponendo i potenziali denuncianti nella condizione di confrontarsi con                   

65 

fenomeni criminali che con più facilità si espandono verso i contesti sani (es. tutti gli                             

imprenditori o commercianti che iniziano una nuova attività in un contesto con forte presenza di                             

racket mafioso). I fenomeni corruttivi segnalabili dal whistleblower, invece, oltre a interessare                       

specificamente l’ambito delle amministrazioni pubbliche o delle organizzazioni, riguardano                 

solitamente gruppi circoscritti, definiti e ristretti di persone che hanno creato varchi di illegalità in                             

ambienti potenzialmente completamente “sani” e dove l’espansione dell’attività illecita è più                     

legata all’abbattimento dei costi morali, quindi alle preferenze etiche relative alle opportunità di                         

corruzione dei nuovi soggetti da coinvolgere, che al loro assoggettamento tramite intimidazione. 

Non bisogna però dimenticare la significativa area di sovrapposizione delle pratiche corruttive e                         

delle attività della criminalità organizzata. Sempre più spesso si è infatti in presenza di strutture                             

criminali complesse dove alle pratiche illecite favorite o portate avanti da soggetti della pubblica                           

amministrazione e della politica si combinano logiche criminali di stampo mafioso, nella                       

costruzione di veri e propri sistemi illleciti sorretti da regole più o meno esplicite che ne                               

consentono la sopravvivenza nel tempo e dove whistleblower e testimone di giustizia potrebbero                         

teoricamente arrivare a coincidere. 

    

66 

4. LE LORO VOCI  

 

4.1 Intervista a Gennaro Ciliberto 

Gennaro Ciliberto è stato responsabile della sicurezza nei cantieri della Carpenfer Roma S.r.l.,                         

impresa realizzatrice della costruzione e della manutenzione di varie opere autostradali. Nel 2011                         

ha denunciato alla Dia di Milano episodi di corruzione nell’aggiudicazione di lavori, infiltrazioni                         

mafiose, in particolare il coinvolgimento della famiglia Vuolo di Castellamare di Stabia legata al                           

clan camorristico D’Alessandro, ed anomalie costruttive che hanno in seguito causato crolli in                         

ambito autostradale. Per anni ha subito, da parte della criminalità organizzata, gravissime minacce                         

di morte e atti intimidatori, tra cui un tentato omicidio. Non avendo ricevuto alcuna misura di                               

tutela è stato costretto ad abbandonare la famiglia e a nascondersi per tutto il territorio nazionale                               

senza protezione né sostentamento. Per denunciare questa situazione ha portato avanti uno                       

sciopero della fame davanti al Viminale dove ha sostato per venti giorni dormendo nella sua                             

macchina e le sue rivendicazioni sono state sostenute anche dalla società civile con una petizione                             

e la raccolta di quarantacinquemila firme. Il 4 dicembre 2013 ha avuto inizio il primo processo                               

presso il tribunale di Monza. Dopo vari controlli, la Direzione Distrettuale Antimafia della                         

Procura di Napoli gli ha riconosciuto lo status di testimone di giustizia, consentendone                         

l’inserimento nel programma di protezione. 

- Come è cambiata la sua vita da quando ha denunciato? 

Nel 2008 vengo assunto da una importante azienda nel campo della carpenteria metallica,                         

azienda che lavorava prevalentemente in appalti pubblici con committenze Anas, Autostrade per                       

l’Italia e Impregilo. Nel 2010, da dirigente, mi accorgo di anomali flussi di denaro, di anomalie                               

costruttive ed il verificarsi di cedimenti di strutture mi spinse a capirci di più. Sino a quando, nel                                   

febbraio del 2011, presso la Dia di Milano, denuncio portando prove e registrazioni di giri di                               

mazzette, infiltrazione della camorra e anomalie costruttive. 

- Qual è la sua definizione di testimone di giustizia? 

La definizione di testimone di giustizia, anche se regolamentata dalla legge 45/2001, trova oggi                           

diverse figure; per me essere testimone di giustizia vuol dire aver dato un contributo alla giustizia,                               

alla legalità ed essere un esempio di correttezza nella difesa dei valori e del bene comune a                                 

67 

contrasto di quella fetta di popolazione che volta la faccia dall’altra parte e che con tale                               

atteggiamento è collusa con la mafia. 

- Quali sono gli aspetti più critici della sua vita dopo le denunce e del sistema di                                 

protezione? 

Vivere in un sistema tutorio non è facile. Se poi sei a rischio imminente pericolo di vita tutto                                   

diventa un inferno, anche le situazioni semplici prendono una piega diversa; poi c’è l’isolamento,                           

la lontananza dalla tua terra e dai tuoi affetti, dalla vita quotidiana, un continuo mentire, una vita                                 

senza un’identità, ogni spostamento deve essere preventivamente autorizzato. Camminare                 

sempre scortato, poi, ti fa vivere lontano dalla quotidianità, l'auto blindata a volte diventa come                             

una gabbia dove sei prigioniero e gli unici con cui parli sono gli uomini della scorta. 

Il sistema di protezione è una macchina complessa che troppo spesso non tiene conto che i                               

testimoni di giustizia e la famiglia sono esseri umani e non pratiche e la burocrazia poi completa                                 

il tutto facendo diventare troppo spesso la protezione una tortura alla quale nessun uomo per                             

bene può resistere. 

- Come hanno agito le istituzioni riguardo alla sua vicenda? Come giudica il loro lavoro e                               

la loro presenza? 

In Italia troppo spesso la mano destra non sa cosa faccia la sinistra e nel mio caso, avendo                                   

denunciato a più di nove procure, nessuna ha interagito con l’altra; anzi posso affermare che c’è                               

stata anche competizione e che a volte il tutto abbia danneggiato le indagini. In più hanno messo                                 

a rischio la mia vita, poiché dal 2011 sino al 2014 sono dovuto scappare come un latitante a mie                                     

spese poiché nessuna procura aveva proposto il piano di protezione. La verità è che oggi il piano                                 

di protezione è divenuto una questione economica e quasi sempre un testimone di giustizia deve                             

lottare per pretendere un suo diritto. La mia storia è la prova che, se non fosse intervenuta                                 

l’opinione pubblica con quarantacinquemila firme ed una petizione, le istituzioni distratte                     

avrebbero continuato a tacere, con un rimbalzo di responsabilità. Ho dovuto iniziare uno                         

sciopero della fame durato quaranta giorni per poi essere ricevuto al Viminale del viceministro                           

dell’Interno. 

68 

- Pensa che il sistema di protezione e gli aspetti legati allo status di testimone abbiano                               

messo in discussione in qualche modo la sua identità (personale, di cittadino, rispetto                         

alla sua famiglia, al suo lavoro, etc.)? Se sì, come? 

Nel mio caso essere divenuto testimone di giustizia mi ha devastato non solo fisicamente, ma                             

anche sul profilo umano e sociale; non ho più una vita normale, le mie ambizioni e il mio futuro                                     

restano un sogno, la famiglia si è distrutta ed i figli resteranno segnati a vita dalla mia scelta                                   

perché la camorra non dimentica. 

- È in contatto con altri testimoni? Sente la loro solidarietà? Che cos’ha in comune con                               

loro e in che cosa si sente diverso? 

Sono in contatto con qualche testimone che mi ha aiutato tanto, poiché chi è già passato dal                                 

vivere in programma ha sperimentato sulla propria pelle il dolore e la sofferenza. Credo che                             

l’amplificazione mediatica a volte serve e a volte può danneggiare, ma non giudico, anzi                           

comprendo le motivazioni di chi si spinge a gesti estremi poiché le risposte da parte delle                               

istituzioni a volte non arrivano e quasi sempre, dopo aver lottato con la criminalità, inizia una                               

battaglia con una parte dello Stato che non solo non è vicina ai testimoni, ma non applica la                                   

legge.  

Io non sono superiore a nessun testimone di giustizia, ma il mio profilo è diverso da molti                                 

poiché io non sono stato estorto o vittima di usura, ma da dirigente ho denunciato crimini di cui                                   

la magistratura e le forze dell’ordine mai sarebbero venute a conoscenza. Ho salvato molte vite                             

umane evitando crolli di strutture, ho distrutto la “Camorra S.p.a.” del clan D’Alessandro che,                           

infiltrata su appalti pubblici, riciclava denaro sporco. 

- Come affronta il pericolo e la paura? 

Affronto la paura giorno dopo giorno. Mi hanno già sparato e so cosa vuol dire il sibilo di un                                     

proiettile ed il sangue che scorre sulla tua pelle. Vivo sempre blindato con un giubbotto                             

antiproiettile, non esco la sera, non frequento luoghi di aggregazione, non vado allo stadio, non                             

prendo la metropolitana. Sono sicuro che la camorra prima o poi si vendicherà, ma vivo nella                               

speranza che un giorno tutto possa aver fine. 

69 

Non cammino mai con il mio bambino e viaggiamo in auto separate e anche a piedi cammino a                                   

debita distanza da lui e mi guardo sempre intorno. 

- Tornasse indietro, rifarebbe le sue denunce? Che cosa pensa di chi sa e non denuncia? 

Se tornassi indietro denuncerei tutto, solo che starei attento a chi denunciare chiedendo                         

protezione nero su bianco, perché noi testimoni di giustizia siamo come dei limoni che una volta                               

tolto il succo vengono buttati. 

Le mie denunce sono state sempre spontanee e ritenute attendibili, ma la mia difesa e la mia                                 

protezione.. quelle non erano state messe in programma. 

- Chi deve combattere mafia e corruzione secondo lei? 

La mafia e la corruzione devono essere sconfitte da uno Stato forte e lontano dall’essere colluso.                               

Troppo spesso traditori e collusi infangano le istituzioni, il popolo onesto deve fare la propria                             

parte. La divulgazione scolastica della legalità, il rispetto delle buone regole, il vivere secondo le                             

buone maniere e il limitare fenomeni di corruzione sono la base e l’antidoto per un mondo                               

migliore, ma certo non bastano le parole, bisogna agire e la denuncia resta l’unica arma in nostro                                 

possesso. 

Oggi c’è anche una situazione di infiltrazione di personaggi poco limpidi nell’antimafia sociale e                           

questo è un danno amplificato poiché confonde i ragazzi e le nuove leve. 

- Che cosa spera per il suo futuro? 

Il mio futuro non è un futuro semplice e programmabile, lo si vive alla giornata. Ma anche io                                   

sogno e sogno una vita lontano dall’Italia, nel nord Europa, lontano. La mia non è una fuga, ma                                   

vorrei vivere ciò che mi resta nella pace e serenità senza sempre vivere nella paura. E abbracciare                                 

liberamente i miei figli. 

 

4.2 Intervista a Gianluca Maria Calì 

Gianluca Maria Calì è un imprenditore siciliano titolare di due concessionarie di automobili; una                           

ha sede a Milano, dove vive, l’altra ad Altavilla Milicia, in provincia di Palermo. Nella notte tra il                                   

3 e il 4 aprile del 2011, dopo aver ricevuto svariate minacce da parte della criminalità organizzata,                                 

70 

alcune vetture presenti nel suo salone siciliano vengono bruciate. Da quella data in avanti inizia a                               

subire una serie di richieste estorsive, che rifiuta e denuncia nel 2013 alle forze dell’ordine. Calì                               

decide di rivolgersi anche alla cittadinanza affiggendo un manifesto fuori dalla sua concessionaria,                         

un “Appello per non morire” attraverso il quale chiede di non essere lasciato solo e di segnalare                                 

qualsiasi attività sospetta all’autorità. Con le pressioni della criminalità Calì è costretto a licenziare                           

alcuni dei suoi dipendenti e a cambiare sede della concessionaria siciliana. Le indagini cominciate                           

in seguito alle sue denunce portano all'arresto di 21 affiliati al clan di Bagheria, ma con le                                 

denunce iniziano anche i primi episodi di minacce e intimidazioni che raggiungono Calì e la sua                               

famiglia anche a Milano. 

Calì partecipa, inoltre, all'asta per acquistare una villa sequestrata appartenente al padrino di                         

Bagheria, Michelangelo Aiello, e al “Papa” di Cosa Nostra, Michele Greco. Dopo aver ricevuto le                             

visite di sedicenti eredi dei vecchi proprietari che gli intimano di lasciar perdere, Calì si aggiudica                               

l’immobile. Poco tempo dopo, però, due ispettori della Forestale sequestrano la villa sostenendo,                         

nel verbale di sequestro, che la casa è in stato grezzo e in corso d’opera, quando in realtà la villa è                                         

presente in quel luogo dal 1965 e Calì si sta limitando a ristrutturarla. L’imprenditore decide                             

quindi di opporsi e riesce a tornare in possesso dell’abitazione. Dopo pochi giorni la Forestale                             

sequestra per la seconda volta l’immobile con le medesime motivazioni. Calì denuncia l’accaduto                         

alle autorità competenti e i due ispettori della Forestale di Bagheria, Luigi Matranga e Giovanni                             

Coffaro, insieme ad altri loro colleghi, vengono coinvolti in un’inchiesta della Procura di Palermo                           

con l’accusa di ricatto, minacce ed estorsione. Secondo gli inquirenti, inoltre, alcuni di loro sono                             

a servizio diretto del clan mafioso di Bagheria. Calì ricorre in Cassazione dopo il secondo                             

sequestro, ma la richiesta viene respinta. 

Il 19 ottobre 2015, a Milano, i figli di Gianluca Calì vengono avvicinati all’uscita dalla scuola da                                 

due uomini su un’auto con i vetri oscurati, che con accento siciliano chiedono alla baby sitter                               

conferma di chi siano. È il primo episodio che coinvolge in maniera diretta ed esplicita i due                                 

bambini. Calì fa immediatamente denuncia e comunica alla scuola l’accaduto per predisporre                       

misure di protezione e sicurezza per i figli. Alcuni genitori della scuola, però, impauriti dalla                             

situazione, scrivono una lettera in cui chiedono apertamente che i due bambini vengano fatti                           

uscire da un’uscita secondaria e in orario diverso rispetto a tutti gli altri alunni della scuola. Il 13                                   

71 

gennaio 2016 Calì organizza un incontro con i genitori della scuola per raccontare la sua                             

testimonianza e cercare di avere la loro solidarietà e collaborazione. 

Dalle prime denunce l’imprenditore non ha mai smesso di ricevere minacce da parte della                           

criminalità organizzata e vive, insieme alla moglie e ai figli, sottoposto a blande misure di                             

vigilanza. È ufficialmente riconosciuto vittima di mafia (legge n. 44/1999), ma non ne ha ancora                             

goduto i benefici. 

- Come è cambiata la sua vita da quando ha denunciato? 

Sono stato investito come un treno il 3/04/2011, data in cui ho subito il primo attentato, che poi                                   

è stato seguito da tante denunce e tante minacce. Da allora la mia vita è stata stravolta in peggio                                     

in tutto e per tutto. Ho fatto solo il mio dovere morale e civile. 

- Quali sono gli aspetti più critici della sua vita dopo le denunce e del sistema di                                 

protezione? 

È prevista la vigilanza discreta VGR (vigilanza generica radiocontrollata), che vede le forze                         

dell’ordine un paio di volte al giorno passare da casa e dall’ufficio dove lavoro. 

- Come hanno agito le istituzioni riguardo alla sua vicenda? Come giudica il loro lavoro e                               

la loro presenza? 

Alcune hanno fatto e fanno egregiamente il loro lavoro, altre purtroppo sono assenti, altre                           

ancora invece fanno il gioco della Mafia, non so se per cattiva fede o buona fede, ma di certo la                                       

Mafia di questo è felice. 

- Come ha reagito la cittadinanza riguardo alla sua vicenda? 

Molti si sono indignati e hanno reagito mostrando solidarietà più o meno concreta, ma molti altri                               

hanno alimentato e alimentano la grande delegittimazione che quotidianamente sono costretto a                       

subire, facendo anche qui gioco a favore dei mafiosi. 

- Pensa che il sistema di protezione e gli aspetti legati alla vita dopo le denunce abbiano                                 

messo in discussione in qualche modo la sua identità (personale, di cittadino, rispetto                         

alla sua famiglia, al suo lavoro, etc.)? Se sì, come? 

72 

Ho una vita-non vita che mio malgrado mi vede combattere ogni giorno con il dispendio di ogni                                 

forma di energia sia mia che della mia famiglia. 

- È in contatto con altre vittime o testimoni? Sente la loro solidarietà? 

Non ho altri contatti ma vorrei sicuramente unirmi a loro, perché sono sicuro che tutti possiamo                               

fare un buon gioco di squadra. 

- Come affronta il pericolo e la paura? 

Nel non farmi condizionare in nulla. 

- Tornasse indietro, rifarebbe le sue denunce? Che cosa pensa di chi sa e non denuncia? 

Rifarei tutto senza dubbio.  

Mi spiace che non capiscono che se tutti facessero il proprio dovere quando chiamati a farlo,                               

avremmo una terra meravigliosa, quella terra famosa al mondo per le Ferrari, per Leonardo Da                             

Vinci, Michelangelo, Raffaello, Galileo Galilei, per la moda etc. e invece siamo conosciuti per                           

pizza, mandolino e mafia. 

- Chi deve combattere mafia e corruzione secondo lei? 

Tutti coloro i quali si trovano quotidianamente a che fare con il malaffare, dobbiamo capire che                               

tutti dobbiamo fare il nostro. 

- Che cosa spera per il suo futuro? 

Che storie come la mia possano dimostrare a chi ancora oggi ha l’indecisione se denunciare o                               

meno che la denuncia è un dovere morale e civile, ma che sarà anche conveniente perché lo Stato                                   

è presente ed efficace. Purtroppo anche se sono stato riconosciuto vittima di mafia, ad oggi non                               

ho ricevuto i benefici della legge 44/99 e per questo da qui a qualche giorno sarò costretto a                                   

dichiarare fallimento e per questo sarò un Fallito e lo Stato avrà dato una mano ai mafiosi che mi                                     

volevano rovinato. 

 

73 

4.3 Intervista a Tiberio Bentivoglio 

Tiberio Bentivoglio è un imprenditore di Reggio Calabria, proprietario dell’azienda Sant’Elia che                       

opera nel settore degli articoli sanitari. In seguito a numerose intimidazioni e richieste di pizzo ha                               

deciso di denunciare. Bentivoglio non gode dello status di testimone di giustizia, ma di quello di                               

vittima di mafia normato dalla legge n. 44 del 1999. Ha subito un attentato da parte di alcuni                                   

membri della criminalità organizzata che hanno cercato di ucciderlo a colpi di arma da fuoco. La                               

sua azienda, inoltre, è stata ed è tutt’ora oggetto di svariati attentati incendiari. È fondatore                             

dell’associazione Reggio Libera Reggio, che raccoglie un gruppo di imprenditori che combattono il                         

racket. In collaborazione con l’associazione Libera e con la giornalista Daniela Pellicanò ha                         

pubblicato il libro libro Colpito. La vera storia di Tiberio Bentivoglio. 

- Quali sono gli aspetti più critici della sua vita dopo le denunce? 

Certamente il testimone di giustizia conduce una vita d’inferno, basta pensare a quali sacrifici e di                               

cosa si è dovuto privare, semplicemente per aver fatto il proprio dovere. Basta pensare che io,                               

come vittima riconosciuta, vivo scortato con due carabinieri a fianco su una macchina blindata;                           

non ci si abitua mai, la famiglia è quella che soffre di più, moglie e figli. Non essere più libero di                                         

organizzarti al momento, perché devi programmare ogni cosa un giorno prima e addirittura                         

quando devi uscire fuori regione devi comunicarlo otto giorni prima, devi dire dove vai, con chi                               

ti devi incontrare, orari e indirizzi, perché prima che tu arrivi in quel posto devono fare la                                 

cosiddetta bonifica e autorizzare un passaggio di forze dell’ordine. Insomma non è una vita                           

facile. Ma non ci sono alternative. 

- Come affronta il pericolo e la paura? 

Quando mi sono opposto alla criminalità, francamente non pensavo al tipo e alla quantità di                             

punizioni che dovevo ricevere dalla ‘ndrangheta, ma loro lo hanno fatto non solo perché chi si                               

ribella va castigato, ma anche per comunicare agli altri che non conviene opporsi. La paura? Sì                               

tanta. Non esistono gli eroi tra di noi. Siamo persone normalissime in carne e ossa, gli eroi                                 

esistono solo nei fumetti e nelle telenovelas. Ti confesso che quando mi hanno sparato, mi son                               

fatto addosso dalla paura. È normale. 

74 

Ma il problema non è la paura in sé, perché ormai sei convinto che nonostante la paura devi                                   

andare avanti. Io la penso così. È la mia scelta di vita, punto. 

Per spiegare questo ai ragazzi racconto sempre questa storiella: facciamo finta che un ragazzo che                             

era andato a cercare funghi nel bosco assieme al padre, ad un certo punto si smarrisce, perde                                 

l’orientamento. Bene, il ragazzo certamente si mette a urlare a piangere a tremare ad entrare in                               

panico, può correre a destra o a sinistra, ma il padre non lo trova e la notte sta per arrivare,                                       

continua a gridare più forte a disperarsi, ma non può fare altro, si deve rassegnare e fare passare                                   

la notte nella speranza che all’alba qualcuno lo soccorrerà. Ecco, io mi considero così. Anche la                               

mia notte deve passare e spero che l’alba arrivi per tutti. Abbiamo urgente bisogno del                             

cambiamento. Non è possibile più vivere assieme ai mafiosi e ai corrotti. 

- Tornasse indietro, rifarebbe le sue denunce? Che cosa pensa di chi sa e non denuncia?  

Certo, se tornassi indietro rifarei tutto ciò che ho fatto, anzi con l’esperienza di oggi sarei più                                 

determinato. Chi paga il pizzo (e lo si può fare in svariati modi) compie il gesto peggiore della                                   

propria vita, alimentare le mafie è un reato e a mio parere va punito. Chi si mette a disposizione                                     

dei criminali non può guardare in faccia i propri figli ed io i miei figli li voglio guardare fino alla                                       

fine dei miei giorni. 

- Chi deve combattere mafia e corruzione secondo lei? 

La mafia e la corruzione la dobbiamo combattere tutti NOI, non è un compito dei soli magistrati                                 

e forze dell’ordine. I mafiosi hanno solo paura di noi quando stiamo vicini e compatti, unire le                                 

forze significa vincere. Basta dire “questo è un fenomeno che non mi tocca”, basta girarsi dalla                               

parte opposta, basta omertà e silenzio. Se continuiamo a fare questo, diventeremo l’arma più                           

micidiale delle mafie, perché loro non temono neanche il carcere perché anche da lì comandano                             

e comandare per loro significa potere. 

- Che cosa spera per il suo futuro? 

Il futuro? Il futuro sarà bellissimo, perché le mafie saranno annientate da voi giovani. Io lo so,                                 

voi siete stanchi di vivere accanto ai corrotti e ai criminali, lo sento, presto vi ribellerete e andrete                                   

a Roma tutti quanti e democraticamente ma incazzati pretenderete uno Stato pulito. Io lo so,                             

vincerete. 

75 

CONCLUSIONI La questione dei testimoni di giustizia e il dibattito intorno alla loro gestione sono ancora in                               

divenire. Le mancanze legislative e di applicazione della norma hanno avuto in questi anni                           

sensibili conseguenze sulle vite di queste persone e si sente per questo sempre di più la necessità                                 

di riconsegnare a questi cittadini, che per spirito civico e di verità si sono trovati in serio pericolo                                   

di vita, i diritti che spettano loro e un sistema di gestione della loro tutela in grado di garantirli. 

Non bisogna dimenticare, inoltre, che esiste la necessità di risolvere anche un problema di                           

eredità, soprattutto umana, di un passato segnato dall’equivoco originario, rappresentato da una                       

serie di casi ormai chiusi e di individui fuoriusciti dal programma, ma che ancora scontano le                               

carenze del sistema. 

La popolazione protetta è, inoltre, estremamente differenziata per situazione economica e                     

familiare, per il tipo di rapporti intrattenuti con la criminalità prima della denuncia, per le                             

motivazioni che hanno portato alla testimonianza, per le condizioni di vita di partenza. Si rende                             

per questo imprescindibile uno studio attento dei singoli casi e un approccio alla loro protezione                             

che tenga conto delle differenti esigenze. In un’ottica generale, però, varie criticità ricorrono nelle                           

diverse storie di testimonianza, in particolare quelle che riguardano le limitazioni subite                       

nell’esercizio della propria identità e della propria cittadinanza. 

Approfondirne le sfumature potrebbe contribuire a tracciare un profilo di ciò che è e dovrebbe                             

essere il testimone di giustizia, in una “normalizzazione” e in un riconoscimento completo                         

dell’atto di denuncia, in modo che essa possa esprimere a pieno quel valore, anche sociale, che il                                 

gesto porta con sé. In questo modo si renderebbe più semplice creare un sistema di                             

“accompagnamento” e di costruzione collettiva della testimonianza nelle sue varie fasi, in modo                         

che non diventi più un atto di coraggio e di sfida a un sistema, ma l’azione normale di ogni                                     

cittadino responsabile. Inoltre, come per il whistleblower, un contesto culturale e sociale dove l’atto                           

di “non farsi i fatti propri” fosse visto come contributo essenziale alla crescita e al buon                               

andamento della comunità renderebbe più facile riconsegnare i denuncianti alla propria normalità                       

di cittadini e di persone. 

 

 

76 

BIBLIOGRAFIA 

 

Volumi: 

AA.VV, La giusta parte. Testimoni e storie dell’antimafia, Caracò, Napoli- Bologna, 2011. 

AIELLO Piera e LUCENTINI Umberto, Maledetta mafia. Io, donna, testimone di giustizia con Paolo                           

Borsellino, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2012. 

BETTINI Marco, Pentito. Una storia di mafia, EDIZIONI PIEMME, Casale Monferrato, 2008. 

BRUSCHI Alessandro, Metodologia della ricerca sociale, Editori Laterza, Bari-Roma, 2005. 

CALANDRA Francesca e GIORGI Antonino, Io non pago. La stra-ordinaria storia di Gianluca Maria                           

Calì, IPOC, Milano, 2015. 

CALASANZIO BORSELLINO Benny, Abbiamo vinto noi. La vera storia di Ignazio Cutrò                       

l’imprenditore che ha detto no alla mafia, Melampo Editore, Milano, 2014. 

D'AMBROSIO Loris, Collaboratori e testimoni di giustizia, Cedam, Padova, 2002. 

DEMARIA Marika, La scelta di Lea, Melampo Editore, Milano, 2013. 

DE CHIARA Paolo, Il coraggio di dire no. Lea Garofalo. La donna che sfidò la ‘ndrangheta, Falco                                 

Editore, Cosenza, 2012. 

DE CHIARA Paolo, Testimoni di giustizia. Uomini e donne che hanno sfidato le mafie, Giulio Perrone                               

Editore, Roma, 2014. 

DI RIENZO Massimo, Il Whistleblowing e la democrazia vibrante, 2015. 

FERRARESI Gabriele e NERO Mario, Il testimone, Aliberti Editore, Reggio Emilia, 2007. 

FRANCIOSI Gianfranco con RUFFO Federico, Gli orologi del diavolo. Infiltrato tra i narcos, tradito                           

dallo Stato, Rizzoli, Milano, 2015. 

GRECO Angelo, Tra l’incudine e il martello. La denuncia di chi ha denunciato (Inchiesta sul mondo dei                                 

testimoni di giustizia), Pellegrini, Cosenza, 2010. 

77 

LEWIS David e VANDEKERCKHOVE Wim, Whistleblowing and Democratic Values, International                   

Whistleblowing Research Network, 2011. 

LOSITO Gianni, L’intervista nella ricerca sociale, Editori Laterza, Bari-Roma, 2009. 

MANTOVANO Alfredo, Testimoni a perdere, Piero Manni, Lecce, 2000. 

MASCIARI Pino e MASCIARI Marisa, Organizzare il coraggio. La nostra vita contro la ‘ndrangheta,                           

Add Editore, Torino, 2010. 

MCGARRY Aidan e JASPER James M., The identity dilemma. Social movements and collective identity,                           

Temple University Press, Philadelphia-Roma-Tokyo, 2015. 

PELLICANÒ Daniela, Colpito. La vera storia di Tiberio Bentivoglio, Libera Reggio Calabria, Reggio                         

Calabria, 2012. 

STEFANELLI Maria, Loro mi cercano ancora, Mondadori, Milano, 2014. 

TURABIAN Kate L., A Manual for Writers of Research Papers, Theses and Dissertation, The University                             

of Chicago Press, Chicago-Londra, 2007. 

 

Documenti istituzionali: 

Discussione del documento sul testimone di giustizia Giuseppe Masciari, Commissione parlamentare                     

d’inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare, seduta del                     

15/04/2005. 

Relazione conclusiva di minoranza della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno delle                     

mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere comunicata alle Presidenze il 20                         

gennaio 2006. Relatore: Giuseppe Lumia. 

Relazione sui testimoni di giustizia, approvata dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul                     

fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare il 19 febbraio 2008. Relatrice:                       

Angela Napoli. 

78 

Relazione sul sistema di protezione dei testimoni di giustizia, approvata dalla Commissione parlamentare                         

d’inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere il 21                           

ottobre 2014. Relatore: Davide Mattiello. 

 

Tesi di laurea: 

LUCIANI Edoardo, Il sistema di protezione dei “pentiti”. Evoluzione storica e aspetti critici della normativa,                             

Tesi di laurea, Università di Pisa, Facoltà di Giurisprudenza, Corso di laurea in                         

Giurisprudenza, Anno Accademico 2013/2014. 

 

Sitografia: 

PARRINI Desy, Collaboratori e testimoni di giustizia. Aspetti giuridici e sociologici, altrodiritto.unifi.it, 

2007: www.altrodiritto.unifi.it/ricerche/law-ways/parrini/ 

Autorità Nazionale Anticorruzione (A.N.AC.): www.anticorruzione.it  

Associazione Nazionale Testimoni di giustizia: associazionetestimonidigiustizia.jimdo.com 

Testimoni di giustizia, DiECi e VENTiCiNQUE, numero 7 luglio 2012: 

www.diecieventicinque.it/2012/07/09/numero-7-luglio-2012/ 

Associazione I cittadini contro le mafie e la corruzione: www.icittadini.it 

Sito ufficiale di Ignazio Cutrò: www.ignaziocutro.com 

Inchiesta sui testimoni di giustizia, Repubblica.it, 6 maggio 2016: 

inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2016/05/06/news/le_vite_devastate_dei_testim

oni_di_giustizia-136070070/?ref=HREC1-5 

Libera - associazioni, nomi e numeri contro le mafie. Osservatorio testimoni di giustizia del 

coordinamento di La Spezia: 

www.liberalaspezia.it/index.php/osservatorio/testimoni-di-giustizia 

Blog Amici di Pino Masciari: www.pinomasciari.it 

79 

Radio Radicale - Audio integrale dell’incontro “La Carta dei diritti e dei doveri per la protezione a 

favore dei testimoni e collaboratori di giustizia. Dalla presentazione del Rapporto del 

Gruppo di lavoro alle proposte di riforma del sistema”, Accademia dei Lincei, Roma, 28 

ottobre 2015: 

www.radioradicale.it/scheda/457057/la-carta-dei-diritti-e-dei-doveri-per-la-protezione-a-fav

ore-dei-testimoni-e 

Associazione Rita Atria: www.ritaatria.it 

Blog Spazio etico di Massimo Di Rienzo: spazioetico.com 

Blog di Una casa della memoria per le vittime della mafia: 

www.vittimemafia.it/index.php?option=com_content&id=936%3Ai-testimoni-di-giustizia-s

toria-di-chi-ha-testimoniato-contro-le-mafie&limitstart=36 

Sito di Giorgio Fraschini, collaboratore di Transparency International Italia: www.whistleblowing.it 

 

Fonti video: 

La verità, puntata di Servizio Pubblico, 15/03/2012, www.serviziopubblico.it. 

Pino Masciari. Storia di un imprenditore calabrese, documentario di Alessandro Marinelli, 2014. 

Testimoni di giustizia, puntata di PresaDiretta, 20/01/2014, Rai3. 

Terra di nessuno, puntata de I dieci comandamenti, 30/10/2015, Rai3. 

The armored life (La storia di Pino Masciari), documentario di Massimo Sciacca, 2012. 

 

Interviste e racconti dei testimoni: 

Piera Aiello 

AIELLO Piera e LUCENTINI Umberto, Maledetta mafia. Io, donna, testimone di giustizia con 

Paolo Borsellino, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2012. 

80 

Intervista a Cristina Parodi Live del 10 novembre 2012, La7, 

www.youtube.com/watch?v=ztKACtt8Qak 

Testimonianza al Campo estivo di Libera a Castelvetrano del 21 giugno 2013, 

www.youtube.com/watch?v=eeuP6RjYnQw 

Salvatore Barbagallo 

Intervista a PresaDiretta del 20 gennaio 2014, Rai3, 

www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-8162a766-648d-4b83-baca-2

e0b870878b4.html 

Intervista a I dieci comandamenti del 30 ottobre 2015, Rai3, 

www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-3f06dfad-6155-4a39-b6e3-d

8e510f0a53b.html#p=0 

Gaetano Caminiti 

Intervista a ilfattoquotidiano.it del 29 settembre 2013, 

www.youtube.com/watch?v=EWzY-Z4KDd8&feature=youtu.be 

Mario Caniglia 

Intervista a Romanzo Familiare del 16 gennaio 2013, 

www.youtube.com/watch?v=g2wMyCohwcE 

Intervista a scordia.info del 28 maggio 2014, 

www.youtube.com/watch?v=NIKW3x7-SOU 

Giuseppe Carini 

Servizio di Agrigento tv del 22 marzo 2013, 

www.dailymotion.com/video/xynxaz_parla-a-volto-scoperto-il-testimone-di-giustizia

-giuseppe-carini-news-agtv_news 

Intervento al convegno Noi contro le mafie. Terza festa della legalità promossa dalla Provincia di 

Reggio Emilia, 13-18 maggio 2013, www.youtube.com/watch?v=g6SHbLV9Pts 

81 

Vincenzo Ceravolo 

Intervista a PresaDiretta del 20 gennaio 2014, Rai3, 

www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-8162a766-648d-4b83-baca-2

e0b870878b4.html 

Gennaro Ciliberto 

Servizio del fattoquotidiano.it del 15 dicembre 2013, 

www.youtube.com/watch?v=pWyPhTEQUqg 

Intervista a testimone di giustizia Gennaro Ciliberto, servizio di Lidia Mancini del 6 settembre 

2013, www.youtube.com/watch?v=Nau0t95MjAQ 

Gennaro Ciliberto, testimone di Giustizia, sempre in fuga, servizio di Antonio Ciano del 24 

novembre 2013, www.youtube.com/watch?v=zHfLhisZHQY 

Luigi Coppola 

DE CHIARA Paolo, Testimoni di giustizia. Uomini e donne che hanno sfidato le mafie, Giulio 

Perrone Editore, Roma, 2014. 

Intervista a Radio IES Overture del 29 febbraio 2012, 

www.youtube.com/watch?v=5nYP9B7YrEU 

Intervista a Fanpage.it del 3 settembre 2014,  

www.youtube.com/watch?v=TkSTjC7wWso 

Ignazio Cutrò 

CALASANZIO BORSELLINO Benny, Abbiamo vinto noi. La vera storia di Ignazio Cutrò 

l’imprenditore che ha detto no alla mafia, Melampo Editore, Milano, 2014. 

Sito personale, www.ignaziocutro.it 

 

Pietro Di Costa 

82 

Intervista a PresaDiretta del 20 gennaio 2014, Rai3, 

www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-8162a766-648d-4b83-baca-2

e0b870878b4.html 

Servizio Tgr Calabria del 6 febbraio 2012, www.youtube.com/watch?v=haLZqmKe32c 

Servizio del fattoquotidiano.it del 1 dicembre 2013, 

www.youtube.com/watch?v=62nHEsjfw3g 

Intervista a Radio IES Overture, del 7 marzo 2012, 

www.youtube.com/watch?v=ykLqkyB7vF0 

Francesco Di Palo 

Incontro organizzato dall’Italia dei Valori e dal Cantiere dei Valori a Monopoli il 6 settembre 

2012, www.youtube.com/watch?v=K24jUkHu95k 

Gianfranco Franciosi  

FRANCIOSI Gianfranco con RUFFO Federico, Gli orologi del diavolo. Infiltrato tra i narcos, 

tradito dallo Stato, Rizzoli, Milano, 2015. 

Intervista a PresaDiretta del 20 gennaio 2014, Rai3, 

www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-8162a766-648d-4b83-baca-2

e0b870878b4.html 

Valeria Grasso 

Intervista a Servizio pubblico del 15 marzo 2012, 

www.serviziopubblico.it/tutte_le_puntate/2012/03/15/news/la_verita.html 

Intervista a Bel tempo si spera del 26 febbraio 2015, tv2000, 

www.youtube.com/watch?v=4npz7orOn5I 

 

 

Luigi Leonardi 

83 

Intervento al Convegno dell’Associazione Caponnetto del 17 dicembre 2015, 

www.youtube.com/watch?v=3UFkKw7xr6w 

Intervista a Radio Siani del 12 febbraio 2016, 

www.youtube.com/watch?v=pSlK69LOHSc 

Incontro Testimone di vita, Associazione Dema, del 17 aprile 2016, 

www.youtube.com/watch?v=mFWrQ9YiWdE 

Servizio de Le Iene del 2 febbraio 2016, Italia1, 

www.iene.mediaset.it/puntate/2016/02/02/pecoraro-stritolato-dalla-camorra-abban

donato-dallo-stato_9917.shtml 

Innocenzo Lo Sicco 

Inchiesta sui testimoni di giustizia, Repubblica.it del 6 maggio 2016, 

inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2016/05/06/news/le_vite_devastate_de

i_testimoni_di_giustizia-136070070/?ref=HREC1-5 

Cosimo Maggiore 

DE CHIARA Paolo, Testimoni di giustizia. Uomini e donne che hanno sfidato le mafie, Giulio 

Perrone Editore, Roma, 2014. 

Intervista a h24notizie del 15 marzo 2015, 

www.h24notizie.com/video/cosimo-maggiore-testimone-di-giustizia-dimenticato/ 

Rocco Mangiardi 

DE CHIARA Paolo, Testimoni di giustizia. Uomini e donne che hanno sfidato le mafie, Giulio 

Perrone Editore, Roma, 2014. 

Intervento al Lamezia TRAME Festival del 29 giugno 2011, 

www.youtube.com/watch?v=5OoZWAZg2-w 

Intervista a Wrong del 18 marzo 2012, www.youtube.com/watch?v=Dow7G1adYkQ 

Giuseppe Masciari  

84 

MASCIARI Pino e MASCIARI Marisa, Organizzare il coraggio. La nostra vita contro la 

‘ndrangheta, Add Editore,Torino, 2010. 

Pino Masciari. Storia di un imprenditore calabrese, documentario di Alessandro Marinelli, 2014. 

The armored life (La storia di Pino Masciari), documentario di Massimo Sciacca, 2012. 

Blog Amici di Pino Masciari, www.pinomasciari.it 

Intervista a PresaDiretta del 20 gennaio 2014, Rai3, 

www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-8162a766-648d-4b83-baca-2

e0b870878b4.html 

Pietro Ivano Nava 

Intervista a Repubblica del 4 agosto 1992, 

ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1992/04/08/cosi-paga-chi-aiut

a-lo-stato.html 

Mario Nero 

FERRARESI Gabriele e NERO Mario, Il testimone, Aliberti Editore, Reggio Emilia, 2007. 

Luigi Orsino 

Inchiesta sui testimoni di giustizia, Repubblica.it, 6 maggio 2016, 

inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2016/05/06/news/le_vite_devastate_de

i_testimoni_di_giustizia-136070070/?ref=HREC1-5 

Francesco Paolo 

Intervista a restoalsud.it del 13 novembre 2015, 

www.restoalsud.it/2015/11/ho-denunciato-il-clan-e-ora-sono-costretto-a-combatter

e-anche-contro-lo-stato/ 

 

Carmelina Prisco 

85 

DE CHIARA Paolo, Testimoni di giustizia. Uomini e donne che hanno sfidato le mafie, Giulio 

Perrone Editore, Roma, 2014. 

Intervista a PresaDiretta del 20 gennaio 2014, Rai3, 

www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-8162a766-648d-4b83-baca-2

e0b870878b4.html 

Inchiesta sui testimoni di giustizia, Repubblica.it, 6 maggio 2016, 

inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2016/05/06/news/le_vite_devastate_de

i_testimoni_di_giustizia-136070070/?ref=HREC1-5 

Maria Mirella Rimedio 

Intervista a primocanale.it del 28 ottobre 2015, 

www.primocanale.it/video/mirella-testimone-di-giustizia-ho-fatto-arrestare-200-mafi

osi-e-oggi-mi-sento-abbandonata-dalle-istituzioni--76132.html 

Nello Ruello 

Intervista a PresaDiretta del 20 gennaio 2014, Rai3, 

www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-8162a766-648d-4b83-baca-2

e0b870878b4.html 

Servizio di ST Television del 9 aprile 2014, www.youtube.com/watch?v=2ciYYQqnzsk 

Gaetano Saffioti 

Incontro con i giovani dell’associazione Santuario Madonna di Briano e del comitato Don 

Peppino Diana del 18 marzo 2011, www.youtube.com/watch?v=OcsctuwQr2A. 

Maria Stefanelli 

STEFANELLI Maria, Loro mi cercano ancora, Mondadori, Milano, 2014. 

Intervista a ilfattoquotidiano.it del 2 luglio 2013, 

www.ilfattoquotidiano.it/2013/07/02/scarcerato-boss-ndrangheta-testimone-giustizi

a-terrorizzata/642254/ 

86 

Ulisse 

AA.VV, La giusta parte. Testimoni e storie dell’antimafia, Caracò, Napoli- Bologna, 2011. 

ORSATTI Pietro, Nome in codice Ulisse. Testimone di giustizia, 1 luglio 2008, 

https://orsattipietro.wordpress.com/2008/07/01/nome-in-codice-ulisse-2/ 

Benedetto Zoccola 

Intervista a Campania Notizie del 2 febbraio 2015, 

www.youtube.com/watch?v=5aq7qi4uyMo 

Intervista a corriere.it del 4 febbraio 2015, 

video.corriere.it/caserta-benedetto-zoccola-ha-fatto-arrestare-suoi-estorsori-ora-mia-

vita-non-sara-piu-stessa/b0913bb2-ac3d-11e4-88df-4d6b5785fffa 

87