inferno canto v -...

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1 1 Amos Nattini, Divina Commedia, Inferno, canto V, 1919-1939. l’Inferno è dunque un enorme imbuto sotter- raneo, sino al centro della terra, diviso in nove zone circolari, in cui son puniti peccati via via più gravi. Si noti che il poeta non si è fermato a determinare all’inizio l’architettura generale del suo oltremondo: essa ci si palesa man mano che il racconto procede. Al principio del canto, ancora il poeta non osa al- lontanarsi troppo dal modello virgiliano. Come già il traghettatore Caronte, così ora il giudice in- fernale, Minosse, era nell’Eneide, e ne conserva la maestà di giudice; ma, con gusto affine a quello di certe sculture romaniche, Dante ne fa un diavo- lo che indica grottescamente, con la coda, «qual loco d’inferno» egli crede appropriato all’anima che gli si è confessata. Di origine virgiliana sono altresì alcune delle più celebri comparazioni del canto: le gru in lunga riga, le colombe accorrenti in coppia (geminae, aveva detto Virgilio; ma tut- ta dantesca è la decisione nel volo, la ‘visività’ di esso: le «ali alzate e ferme»). Come nel canto pre- cedente, si ha al principio la menzione generale del tumulto di lamenti e del buio; il poeta proce- de ancora per categorie e paradigmi, ci dà un ca- talogo di uomini, qui peraltro quasi tutti accom- pagnati da elementi atti all’identificazione: e non manca di sottolineare che si tratta, appunto, di esempi («e più di mille / ombre mostrommi…»). Improvvisamente, si ha come un’impennata: il primo incontro di Dante con un’individualità ben precisata, la prima figura approfondita con rigorosa analisi psicologica, la prima vicenda ri- evocata nei suoi particolari essenziali. L’episodio di Francesca da Rimini: in una corte dell’ultimo Duecento, rappresentata con precisi particolari di costumi, l’amore colpevole di due cognati, uc- cisi insieme dal marito e fratello offeso; un fat- to clamoroso che aveva certo colpito il ventenne Dante. Conformemente al proposito, che più tardi enuncerà (Pd XVII 133 ss.), di ricordare di preferenza anime «di fama note» come quelle do- tate di più persuasiva esemplarità, Dante attinge, S iamo nel secondo cerchio dell’Inferno, primo dei quattro in cui sono puniti gli incontinenti, cioè coloro che non riusci- rono a frenare gli istinti, pur in sé non riprove- voli, a ‘contenerli’ entro i limiti della ragione. Qui espiano i lussuriosi, che appunto «la ragion sommettono al talento»: si lasciarono travolgere dal desiderio carnale e ora sono travolti, percos- si, sbattuti crudelmente da una perenne bufe- ra, senza poter scegliere la propria direzione. Il contrappasso è tanto chiaro, che Dante appena vista la pena intende, senza che gli sia spiegato, qual sia il peccato relativo. Il secondo cerchio – dice Dante – ha una circonferenza più picco- la del precedente e ospita un dolore maggiore: così sarà, come vedremo, per tutti gli altri cerchi: Inferno Canto V La lettura di Umberto Bosco

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Amos Nattini, Divina Commedia, Inferno, canto V, 1919-1939.

l’Inferno è dunque un enorme imbuto sotter-raneo, sino al centro della terra, diviso in nove zone circolari, in cui son puniti peccati via via più gravi. Si noti che il poeta non si è fermato a determinare all’inizio l’architettura generale del suo oltremondo: essa ci si palesa man mano che il racconto procede.Al principio del canto, ancora il poeta non osa al-lontanarsi troppo dal modello virgiliano. Come già il traghettatore Caronte, così ora il giudice in-fernale, Minosse, era nell’Eneide, e ne conserva la maestà di giudice; ma, con gusto affine a quello di certe sculture romaniche, Dante ne fa un diavo-lo che indica grottescamente, con la coda, «qual loco d’inferno» egli crede appropriato all’anima che gli si è confessata. Di origine virgiliana sono altresì alcune delle più celebri comparazioni del canto: le gru in lunga riga, le colombe accorrenti in coppia (geminae, aveva detto Virgilio; ma tut-ta dantesca è la decisione nel volo, la ‘visività’ di esso: le «ali alzate e ferme»). Come nel canto pre-cedente, si ha al principio la menzione generale del tumulto di lamenti e del buio; il poeta proce-de ancora per categorie e paradigmi, ci dà un ca-talogo di uomini, qui peraltro quasi tutti accom-pagnati da elementi atti all’identificazione: e non manca di sottolineare che si tratta, appunto, di esempi («e più di mille / ombre mostrommi…»). Improvvisamente, si ha come un’impennata: il primo incontro di Dante con un’individualità ben precisata, la prima figura approfondita con rigorosa analisi psicologica, la prima vicenda ri-evocata nei suoi particolari essenziali. L’episodio di Francesca da Rimini: in una corte dell’ultimo Duecento, rappresentata con precisi particolari di costumi, l’amore colpevole di due cognati, uc-cisi insieme dal marito e fratello offeso; un fat-to clamoroso che aveva certo colpito il ventenne Dante. Conformemente al proposito, che più tardi enuncerà (Pd XVII 133 ss.), di ricordare di preferenza anime «di fama note» come quelle do-tate di più persuasiva esemplarità, Dante attinge,

Siamo nel secondo cerchio dell’Inferno, primo dei quattro in cui sono puniti gli incontinenti, cioè coloro che non riusci-

rono a frenare gli istinti, pur in sé non riprove-voli, a ‘contenerli’ entro i limiti della ragione. Qui espiano i lussuriosi, che appunto «la ragion sommettono al talento»: si lasciarono travolgere dal desiderio carnale e ora sono travolti, percos-si, sbattuti crudelmente da una perenne bufe-ra, senza poter scegliere la propria direzione. Il contrappasso è tanto chiaro, che Dante appena vista la pena intende, senza che gli sia spiegato, qual sia il peccato relativo. Il secondo cerchio – dice Dante – ha una circonferenza più picco-la del precedente e ospita un dolore maggiore: così sarà, come vedremo, per tutti gli altri cerchi:

Inferno • Canto VLa lettura di Umberto Bosco

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anch’egli innamoratosi di Isotta, moglie di suo zio re Marco, fu da questo ucciso, e Isotta morì di dolore insieme a lui. Dante chiama «donne antiche» e «cavalieri» anche i personaggi classici, secondo l’uso dei romanzi medievali; ma forse anche perché la sua fantasia era piena, mentre scriveva, delle due vicende parallele, di Isotta e di Francesca, vicende ambedue direttamente o indirettamente appartenenti al mondo caval-leresco. Non per nulla la formula medievale «donne e cavalieri» è ripresa dai poemi cavalle-reschi, e Dante stesso la ripropone in un conte-sto (Pg XIV 109) in cui rievoca nostalgicamente quel mondo. Il punto di arrivo, per così dire, del poeta era questo: non solo il «vizio di lus-suria» di Semiramide e di Cleopatra, ma anche l’amore di Didone, cui nel suo poema Virgilio aveva tanto indulto, anche quello esaltato dai romanzi cavallereschi (Tristano e Isotta; e segui-rà presto la rievocazione anche della colpevole passione di Lancillotto per Ginevra), e persino l’amore stilnovistico, di cui Paolo e Francesca, come questa dirà, si erano nutriti, possono con-durre a perdizione terrena e ultraterrena.

La critica ottocentesca proiettò tutta la sua luce sul personaggio di Francesca, e penetrò ben ad-dentro nell’analisi psicologico-poetica di esso, anche se lo interpretò – e non poteva allora es-sere diversamente – non secondo la concezione dantesca, ma secondo che i romantici concepiva-no l’amore e l’uomo; questo in perenne lotta con la società. Ne venne fuori (e furono tra gli altri uomini come il Foscolo e il De Sanctis a essere affascinati da queste pagine di Dante) una Fran-cesca la cui colpa sarebbe «purificata dall’ardore della passione», o giustificata dall’irresistibilità dell’amore; di volta in volta, o creatura soave e pudica nel suo stesso peccato, o demone scatena-to di lussuria, o l’una e l’altra cosa insieme. E se fosse totalmente o parzialmente demoniaca, non si vede perché Dante dovrebbe averne pietà e vo-ler suscitare, come innegabilmente vuole, tale sentimento nel lettore. Dante, secondo i roman-tici, difenderebbe in Francesca i diritti naturali dell’individuo, di là da ogni legge; o addirittura esalterebbe l’umano contro il divino. Cose tutte che un uomo del Trecento, e in particolare un

come poi molte volte, alla storia e alla cronaca contemporanea (e ciò nella poesia impegnata, come osservò già il Foscolo, è fatto senza prece-denti e a lungo senza seguito). Egli è conscio che percuotere le cime più alte potrà costar caro a lui esule e bisognoso di aiuti; ma egli sa che, se sarà al vero «timido amico», non sopravviverà tra noi posteri. Quella di Paolo e Francesca è una vicen-da che nei versi di Dante assume, come vedremo, valori ben lontani dalla cronaca nera e mondana del Duecento. Tra l’altro è una confessione.Quel che precede prepara l’episodio, che eviden-temente occupava la fantasia del poeta sin dal principio del canto. Nella «schiera larga e piena» dei lussuriosi il poeta distingue una categoria speciale di essi che procedono invece, come gru, in «lunga riga». Tra i «mille» che Virgilio gli indi-ca e nomina, ci sono Didone, Achille, Tristano, suicidi o uccisi per amore; Cleopatra, tratta alla guerra e al suicidio dal suo amore per Antonio o dall’amore di Antonio per lei; Elena, ispiratrice di una passione che fece versare intorno a Troia tanto sangue, e forse, secondo una certa versio-ne del mito, alla fine fu uccisa anche lei da una greca che volle vendicare il marito ucciso a Troia; Paride perito in quella guerra che il suo amore per Elena aveva provocata; Semiramide, che al-cuni dicevano uccisa dal figlio da lei incestuo-samente amato, e che comunque era per Dante, secondo Orosio che egli segue da vicino, libidine ardens, sanguinem sitiens. Tutti, dunque, morti per causa diretta o indiretta di passione amoro-sa: «amor di nostra vita dipartille»; personaggi in cui amore si spegne nel sangue: «noi che ti-gnemmo il mondo di sanguigno», dirà presto Francesca, parlando non solo di sé e di Paolo, ma di tutti i componenti della loro schiera. Di-stinguendo questi dagli altri lussuriosi, il poeta si prefisse evidentemente uno scopo, e questo non può essere se non mostrare che l’amore car-nale, non dominato dalla ragione, prima che a dannazione, conduce a perdizione terrena.La schiera dei sanguinosi amanti è composta di personaggi della tradizione classica, tutti meno l’ultimo nominato: Tristano; il quale costituisce pertanto come un passaggio al prossimo rac-conto della vicenda di Francesca e Paolo, del-la quale è per così dire l’antecedente letterario:

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Già dichiarato o percepibile nei versi preceden-ti, quello della pietà è, a giudizio di tutti i com-mentatori, il motivo conduttore dell’episodio di Francesca. Si presenta, all’inizio, con la pietà affettuosa che Francesca e Paolo percepiscono nel grido con cui Dante li chiama e a cui ob-bediscono concordi; riappare nella meditazio-ne dolente del poeta dopo la prima confessio-ne della donna: le sue pene fanno piangere il visitatore per tristezza e pietà («a lagrimar mi fanno tristo e pio»); è posta a conclusione («di pietade / io venni men così com’io morisse»). Ma di quale pietà si tratta?La cosa nel passato sembrava ovvia, e tale è. Ma, nella guerra che oggi si è dichiarata alle interpre-tazioni cosiddette «romantiche», si nega che la pietà di Dante, verso questi e altri dannati, possa significare «compassione». Si pensa che ciò im-porterebbe indulgenza al peccato, la quale, se ci

Dante così rocciosamente fermo nelle sue con-vinzioni religiose, non poteva certo pensare. La sua riprovazione è totale e ferma; resta tuttavia che non condanna Francesca con la severità in-transigente e sprezzante con cui parla, poniamo, di Semiramide, e anzi pone al suo peccato scu-santi, sia pure sul piano solamente umano; ne fa una creatura gentile, che ispira, appunto, la pietà di Dante personaggio e quella (inscindibile) di Dante poeta; e insomma indulge alla sua creatu-ra, così come Virgilio aveva accarezzato con tene-ra e dolorosa fantasia la figura di Didone.Dopo che Francesca ha presentato sé stessa e Pao-lo, ha detto del loro amore e della loro fine, Dan-te resta a lungo a pensare a capo basso, finché la voce di Virgilio lo scuote. «al tempo d’i dolci so-spiri, / a che e come concedette amore / che cono-sceste i dubbiosi disiri?»: questo è ciò che Dante vuol sapere: e qui è il punto focale dell’episodio. Che cosa può far sì che un’attrazione innocente si tramuti in peccato? C’è qualcosa di preciso, di determinato, e quindi tale da poter essere evitato, almeno da chi sia vigile? Nulla di ciò, risponde Dante per bocca della sua Francesca. I due futuri amanti erano «sanza alcun sospetto», senza alcun presentimento di ciò che quel giorno stava per ac-cadere; credevano che il reciproco trasporto fosse quell’alto sentimento che i poeti di cui si erano nutriti ritenevano caratteristica delle anime genti-li, mezzo di elevazione di spiriti già alti; proprio la lettura di un romanzo d’amore cortese fa che gli occhi più volte si cerchino, i visi impallidiscano: un punto cruciale, quando Ginevra afferra Lancil-lotto per il mento e lo bacia «assai lungamente» (Dante però attribuisce l’iniziativa al cavaliere), è determinante: Paolo bacia Francesca «tutto tre-mante» di desiderio; gli argini sono travolti. Un punto, e l’amore, come Dante aveva detto in una sua canzone, è «fuor d’orto di ragione», è diventa-to «appetito di fera» (Rime, CVI 147, 143). Dan-te si pone in cospetto della fragilità non solo di Paolo e Francesca, ma della fragilità sua propria, e di tutti: china pensoso la testa. Un momento improvviso e inopinato, e il «talento», il deside-rio di dolcezza e di felicità ha il sopravvento e ci perde. Da qui la pietà: per Francesca, per sé stesso, per tutti. È la prima grande battaglia nella guerra della pietà preannunciata dalla protasi. Dante Gabriel Rossetti, Paolo e Francesca da Rimini, particolare, 1855.

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quio alla giustizia divina, è un grosso equivoco, nel quale stupisce siano caduti anche studiosi egregi. Un uomo può giudicare colpevole la con-dotta d’un altro, riconoscere giusta la sua con-danna, e insieme addolorarsene; o anche, tal-volta, conservare affetto e ammirazione per ciò che il colpevole fuor delle sue colpe ha potuto fare. D’altra parte, se Dante fosse solo un impas-sibile descrittore di pene, non solo perderebbe di umanità il personaggio principale del poema, cioè Dante stesso, ma si attenuerebbe il reali-smo della descrizione, sul quale invece il poeta conta proprio ai suoi fini edificanti. Al contrario, Dante aderisce spesso in persona propria alla pena, sia commiserando sia consentendo in pie-no (per es. le serpi che si avvolgono al collo di Vanni Fucci son dal poeta dette «amiche», If XXV 4-6 ecc.), o addirittura collaborando (per es. nel caso di Filippo Argenti, If VIII 31-42, o in quel-lo dei traditori, If XXXII ecc.). In qualche caso il giudizio severo che Dante fa di un personaggio anche sul piano puramente umano, per es. del conte Ugolino che Dante considera traditore e punisce come tale, non gli vieta di comprendere e commiserare la sua tragedia di padre.Come era erroneo vedere solo il dramma umano, prescindendo dal giudizio morale-religioso che il poeta ne fa, così è erronea la posizione opposta. La coesistenza di sentimenti diversi non solo non va annullata negando o l’uno o l’altro dei termi-ni, ma va sottolineata perché costituisce uno dei motivi più costanti del poema, annunciato (per quel che riguarda la pietà) sin dalla protasi. D’al-tronde, non si vede perché un’educazione religio-sa debba escludere la pietà, se Cristo ha insegnato (Ioann. VIII 7-11) che per condannare bisogna essere esenti da peccato; e nessuno lo è. Meno che mai può considerarsi in grado di lanciare la prima pietra Dante, che in Francesca si vede rifles-so, e non solo per la fragilità comune a tutti, ma anche, come ora vedremo, per una sua specifica condizione morale-culturale.

Già i primi lettori scorsero nell’episodio una condanna delle letture dei romanzi cortesi; ma essi si basavano sul fatto specifico che, secondo il racconto di Dante, i due cognati furono indot-ti al peccato dalla lettura di uno di quei roman-

fosse, sarebbe davvero inammissibile nel pensie-ro di Dante. Molto ha giovato a questa nuova ipotesi una chiosa del Boccaccio, il quale nel suo commento scrisse che Dante, parlando della sua pietà, vuole ammaestrarci «che noi non dobbia-mo con la meditazione semplicemente visitar le pene de’ dannati: ma… conoscendo noi di quelle medesime per le nostre colpe esser degni, non di loro… ma di noi medesimi dobbiamo aver pietà». Anche in altre situazioni analoghe il Boccaccio è su questa stessa posizione; e ha sen-za dubbio ragione, ma non nel senso che Dante non commiseri i due cognati, ma nel senso che non sono certo i casi personali di questi e la loro personale sorte ultraterrena a muovere la pietà del personaggio e del poeta; in essi Dante vede riflessi sé stesso e tutti. La fragilità di Francesca è quella di ogni essere umano: tanto ciò è vero che la pietà è suscitata in Dante prima che dal racconto di Francesca, dalla rassegna che egli fa con Virgilio della sorte delle «donne antiche» e dei «cavalieri» morti per causa d’amore: una pie-tà che lo fa quasi svenire («e fui quasi smarrito»): essa diventa più intensa dopo il colloquio con la signora di Polenta, e lo fa venir meno, e cade-re come corpo morto. Il Boccaccio ha ragione, ma solo perché ogni poesia trascende sempre il personaggio per rispecchiare un momento o un aspetto di umanità che quel personaggio incar-na, e nel quale ci specchiamo. Del resto, della compresenza di condanna e pietà i commenta-tori trecenteschi non si scandalizzavano come alcuni si scandalizzano oggi.Parecchi oggi credono che la pietà, o in altri casi l’ammirazione o comunque l’adesione di Dante a una determinata personalità incrinino il giu-dizio morale di lui; sicché si traduce «pietà» con «turbamento», «perplessità morale e intellettua-le» e simili: cosa che anche la lettera ci vieta di fare. Sono proprio i «martìri» di Francesca che «a lagrimar lo fanno tristo e pio» cioè «dolente e pietoso», come spiega il Boccaccio: e a turbar-lo non può essere il turbamento stesso. Sono le parole di lei e il silenzioso pianto di lui a deter-minare direttamente la pietà: «sì che di pietade / io venni men»: non si sviene per perplessità. Che sentimenti di comprensione o anche, poniamo, di gratitudine siano incompatibili con l’osse-

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re pone»; dunque Francesca si rivolge a Dante – come osservò il Contini – proprio in quanto stilnovista, per averne comprensione. La ottiene, ma insieme con la condanna dei principi da lei messi innanzi, almeno come essi erano comu-nemente interpretati. Non c’è bisogno di pensa-re – come pur autorevolmente è stato fatto – a uno sdoppiamento tra il personaggio Dante e il poeta: quello accetterebbe la poetica stilnovisti-ca, questo la condannerebbe. È invece un uomo e un poeta che, nell’atto stesso di assumersi la responsabilità delle sue antiche tesi, ne mostra a sé e agli altri i pericoli. Ora egli sa che l’amore che eleva, che è segno di anima nobile, è un al-tro amore: quello che non ha bisogno di alcuna «sensibile dilettazione», anzi addirittura di qual-siasi corresponsione; che, posto in essere dalla bellezza, è tuttavia soltanto sforzo interiore di migliorare; è insomma amore-virtù, non amo-re-passione: neppure una passione che si nutre, o s’illude di nutrirsi, di virtù. È l’amore che, se-condo Dante maturo, i poeti stilnovisti, anche senza rendersene conto, cantavano o avrebbero dovuto cantare; un amore che non solo non può produrre peccato, ma non può dare neppure do-lore, né in terra né nell’oltremondo. Attraverso questa sua nuova interpretazione, è possibile a Dante il recupero dello stilnovo un tempo in-termesso come espressione di troppo giovane età: un recupero che è alla base della Commedia, per il quale la bimba e poi la giovane fiorentina della Vita Nuova diventa la celeste Beatrice del-la Commedia, come del resto preannunciato alla fine del «libello» giovanile. Il processo di ripen-samento dello stilnovo culminerà negli ultimi canti del Purgatorio, ai quali rinviamo: preceduta dalla particolareggiata trattazione circa la natura d’amore (Pg XVII-XVIII) e dalla ribadita corre-zione esplicita contenuta nel canto XXII (10-12), secondo la quale l’amore è, sì, non evitabile, ma solo se «acceso di virtù», con quegli ultimi can-ti si avrà la celebre definizione innovatrice del-lo stilnovo («I’ mi son un…», Pg XXIV 52 ss.); i colori stilnovistici serviranno a figurare Matelda (Pg XXVIII), una «bella donna» che si scalda, sì, «a’ raggi d’amore», ma d’un ben diverso amore, sì che ella è figura di felicità terrena senza pec-cato. Lì, infine, Beatrice, per l’ultima volta sulla

zi. In verità la condanna di Dante va ben oltre: implica il ripensamento di quell’idealizzazione e giustificazione dell’amore che era propria di tutta la tradizione letteraria anteriore a lui, dai romanzi cortesi alla letteratura trovadorica sino alla stilnovistica, della quale Dante stesso era sta-to partecipe. Oggi comunemente e giustamente si vede nell’episodio una presa di posizione di Dante rispetto a quella tradizione e a sé stesso giovane. È una tesi che va approfondita, perché ci dà la chiave per la piena comprensione di altri canti, specie degli ultimi del Purgatorio.Si è parlato di «sconfessione» dello stilnovo. Come è possibile, se ancora nel canto II Beatri-ce è ritratta con linee ricavate dalla Vita Nuova? Dante a un certo punto della sua carriera poetica tralasciò, sì, le «dolci rime» di amore, ma non senza speranza di ritornare a esse (canzone III del Convivio, Le dolci rime, 1-4); scrive, sì, il dot-trinale Convivio, ma non perciò intende «in parte alcuna derogare» dalla Vita Nuova (Cv I i 16). Si tratta invece d’un ripensamento, che porta a una nuova interpretazione delle dottrine tradizionali sull’amore. È proprio vero – si domanda Dante – che l’amore sia attributo inseparabile di genti-lezza; che, anche in quanto tale, esso sia inevi-tabile; che porti sempre all’elevazione spiritua-le? Non può contenere un’insidia, costituire in definitiva persino un alibi fabbricato in buona fede per coonestare il nostro colpevole «talen-to»? Testi letterari alla mano, Francesca e Paolo non dubitavano della liceità dell’attrazione re-ciproca, anzi potevano sentirsene intimamente orgogliosi, come d’un effetto della loro stessa elevatezza e raffinatezza culturale e spirituale; eppure essa li condusse alla perdizione. Dan-te chiede appunto a Francesca, nella seconda parte del colloquio (vv. 112 ss.), quale sia sta-to il momento di crisi in cui un amore ritenuto alto diventa colpevole. A giustificare il primo, Francesca aveva allegato, oltre che la sentenza «Amor, ch’a nullo amato amar perdona» che risale al trattato fondamentale della dottrina di amore, quello di Andrea Cappellano, la canzo-ne del Guinizzelli, Al cor gentil rempaira sempre Amore, che Dante stesso aveva richiamato nel cap. XX della Vita Nuova: «Amore e ’l cor gentil sono una cosa, / sì come il saggio in suo ditta-

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rappresentata come volgare (Francesca è ingenti-lita anche rispetto alla sua antenata cavalleresca, Ginevra) è, concretamente, la «bella persona» di lei, il «piacer», cioè la bellezza, di lui che li legò l’uno all’altra e ancora li stringe (si veda in Pg XVIII 16 ss. quel che Dante teorizza sulla natura d’amore, messo in atto dalla bellezza); è la scena di Lancillotto che bacia – come Dante dice con potente concentrazione stilistica affettivo-visiva – il «disïato riso» di Ginevra, cioè una bocca a lungo desiderata, che non è labbra ma sorriso nell’aspettativa trepida del bacio; è il tremo-re di Paolo in tutta la persona («tutto treman-te»). La raffinatezza sociale-letteraria consiste in quell’interno, che il poeta ci suggerisce, di picco-la corte duecentesca; è il discorso di Francesca, formalmente elaborato in tre terzine («Amor… Amor… Amor»), dai termini rigorosamente bilanciati, intriso di squisite forme letterarie: la spiegazione delle origini “cortesi” dell’amo-re non è, si badi, solo personale, ma è propria di tutto un raffinato ambiente. La raffinatezza consiste nella stessa gentilezza femminile del-la protagonista (preannunciata dall’immagine delle colombe), che sa subito cogliere l’affetto pietoso dell’inaspettato visitatore e ricambiarlo, con un bisogno d’impossibile preghiera, tanto più notabile in quanto l’augurio verte su ciò che ella più di tutto desidererebbe, la pace, ella che è senza speranza travolta dalla bufera (e già que-sto desiderio era trapelato nelle sue prime paro-le, trasferito al Po e ai suoi affluenti che giungo-no dopo un lungo corso alla pace del mare). La durezza della pena è nel rimpianto eterno d’un momento di felicità, e che lo stesso stare insieme rinnova: peccarono insieme, morirono insieme, espiano insieme: un’unità indissolubile di felici-tà e di dolore; nella totalità della perdizione, che coinvolge coi due amanti anche il marito ucci-sore. Da tutto ciò, la meditazione sul contrasto tra dolcezza di vivere e dovere, tra necessità di giudicare i nostri compagni di vita e la pietà che la loro debolezza ci ispira; la consapevolezza che la loro è la nostra stessa fragilità; la possibilità di essere traviati anche da premesse apparente-mente di alta spiritualità: in tutto ciò, e in altro che se ne sprigiona, consiste il messaggio uma-no della storia di Francesca.

terra, riassumerà i lineamenti poetici della don-na d’un tempo, prima di slanciarsi col suo fedele verso Dio. In quei canti, Dante ribadisce l’accusa all’amore terreno, insidioso anche se puro o illu-so di esserlo: non sono per lui lussuriosi soltan-to Francesca col suo Paolo, ma anche, sia pure in Purgatorio, lo stesso Guinizzelli allegato da lei, e che tuttavia continua ad essere per Dante «il padre / mio e de li altri miei miglior che mai / rime d’amor usar dolci e leggiadre» (Pg XXVI 97-99); e Arnaldo Daniello, colui che nel De vul-gari eloquentia (II ii 9) Dante aveva indicato come massimo dei poeti provenzali d’amore, e di cui anche nel Purgatorio (XXVI 118-119) si dice che «Versi d’amore e prose di romanzi / soverchiò tutti». E si badi che nessun dato biografico, a quel che possiamo sapere, testimoniava una lus-suria di Guinizzelli o di Arnaldo: son potenzial-mente ‘lussuriosi’ solo in quanto poeti d’amore.

Tener presente questo sottofondo morale-cul-turale è certo indispensabile per la compren-sione dell’episodio; ma dovremo per questo tralasciare ogni indagine sul personaggio e sul dramma? Se Dante palesemente si è sforzato di penetrare nell’uno e nell’altro, non si vede per-ché dovrebbe esser considerato erroneo – come alcuni oggi vorrebbero – seguirlo in questo po-tente scavo d’anima. Si sostiene che seguendo il personaggio si perderebbe di vista la struttura etico-teologica dell’episodio nell’ordito generale del poema. E perché mai? Al contrario, la «per-sona poetica» (per servirci dell’espressione del massimo fra i critici romantici, il De Sanctis) è tanto più persuasiva anche nella sua esemplarità quanto più rivive nella nostra fantasia e quindi nella nostra coscienza; cioè quanto più noi pos-siamo specchiare nella sua la nostra umanità. La fragilità umana è quella donna, Francesca, che ancor oggi nell’Inferno non sa rinnegare il suo amore, pur non vantandosene come un’eroina romantica farebbe; che accorre col suo Paolo, perché invocata da Dante nel nome appunto di quell’amore, che pure la squassa, la «mena» nella bufera; è la rievocata dolcezza dei pensieri, dei sospiri, del desiderio ancora non giunto allo stato di coscienza («dubbiosi disiri»). L’ebbrezza sensuale dell’amore, condannata, certo, ma non