inferno - zanichelli
TRANSCRIPT
Inferno
3
Inferno
IntroduzioneL’orrore e la pietà
L a discesa nell’abisso infernale costituisce il primo tratto del
viaggio di Dante nell’aldilà. Qui egli incontra le anime dan-
nate, che scontano per l’eternità le conseguenze non tanto dei
loro peccati, ma del non essersi voluti pentire dei loro peccati.
Infatti, anche in Purgatorio, e poi in Paradiso, Dante incontrerà
dei peccatori (e chi, fra noi uomini, può dirsi senza colpa?); ma
saranno peccatori che hanno fatto ricorso in tempo alla miseri-
cordia divina. Dal punto di vista fisico, l’Inferno è una sorta di vo-
ragine a forma di imbuto, sprofondata fino al centro della Terra.
Sulle sue pareti corrono, a spirale, dei gradoni (cerchi, o gironi,
li chiama Dante) dove trovano posto i peccatori, distribuiti se-
condo schiere che seguono le sofisticate e talvolta molto sottili
distinzioni della morale cattolica, filtrata e raffinata attraver-
so i dettami dell’aristotelismo antico e della filosofia scolastica,
specie di san Tommaso, che è per Dante il filosofo, teologo, e
moralista di riferimento. La mappa dei peccati infernali viene
analiticamente illustrata da Dante (o meglio da Virgilio a Dante)
nel canto XI; qui basti ricordare la divisione cruciale di questo
ordinamento, che taglia in due l’imbuto infernale: quella fra i
peccati di incontinenza, che coinvolgono soltanto i sensi, e che
costituiscono colpe d’ordine istintuale (lussuria, gola, ira, e così
via), e peccati di malizia, più gravi, che coinvolgono ciò che di
più proprio è della specie umana, ovvero il cervello, la ragione.
Ne risulta che il primo peccato incontrato da Dante – il più lieve
dunque, o almeno il meno grave – è quello di lussuria; mentre
l’ultimo, in fondo all’Inferno, è quello del tradimento dei propri
benefattori, inteso come la cosciente, calcolata risposta del di-
samore all’offerta gratuita d’amore che si è ricevuta. L’Inferno,
insomma, mette il lettore moderno di fronte a un universo mo-
rale e a una gerarchia di colpe che possono talvolta sconcertare
per la loro distanza rispetto alle percezioni e alle sensibilità del
nostro tempo.
Lo scopo di questa discesa di Dante nel regno del male è di-
dattico e conoscitivo. Dante deve rendersi conto dei criteri che
la giustizia divina adopera nel comminare le sue pene; deve per
prima cosa istruirsi anche lui sul sistema giudiziario e morale a
cui deve rispondere la vita di un cristiano. Tuttavia, non si tratta
evidentemente di un viaggio soltanto intellettuale, ma di una
esperienza altamente emotiva. Il Dante scrittore si oggettiva e
si proietta in un Dante personaggio che si comporta come un
vero carattere narrativo, romanzesco, all’interno del racconto, e
che non è soltanto il pretesto o portavoce di una lezione di ca-
techismo. Dante, nel testo, agisce pertanto con grande e anche
contraddittoria libertà: simpatizza, si irrita, si sdegna, compa-
tisce, sviene, impreca… Ma i due sentimenti e le due esperien-
ze morali su cui si fonda tutto l’impianto dell’Inferno dantesco
sono l’orrore e la pietà. Ambedue intendono avere una funzio-
ne didattica e pedagogica: il contatto col peccato e con la sua
punizione deve far scattare nel visitatore una repulsione edu-
cativa, che lo ammonisca a non commettere lui quelle colpe
che vede così orrendamente castigate. Il primo sentimento di
reazione è dunque, deve essere, l’orrore. Un orrore spesso anche
fisico, di fronte a un Inferno che si presenta come una stermi-
nata camera di tortura: dove i dannati sono sottoposti alle pene
fisiche più sanguinarie, talvolta, e ripugnanti (immersi nel san-
gue bollente, nello sterco, nella pece, mutilati di continuo da
un diavolo squartatore, infettati delle malattie più schifose…).
Ma l’orrore non basta. Connaturata – non occasionale, conna-
turata – all’esperienza dell’Inferno è la pietà. Talvolta questo
sentimento, che Dante anche qui si prende la libertà di provare
in modo vario a seconda dei peccati e dei peccatori, ma che è
sempre virtualmente presente, è sembrato contraddittorio con
l’intenzione e il senso dell’opera. Perché Dante sviene di fronte
a Paolo e Francesca? Perché esibisce tanta affettuosa solidarietà
nei confronti di Brunetto Latini? Perché gli viene da piangere da-
vanti alla pena degli indovini? Certo non perché egli sia in disac-
cordo con la giustizia divina che ha condannato quei peccatori a
quella punizione. Ma, molto più semplicemente, perché l’Inferno
è per Dante l’esperienza del male. E il male non fa solo paura e
orrore. Perché la lezione dell’Inferno possa essere efficace, bi-
sogna che Dante si identifichi – parzialmente, potenzialmente
– con i peccati che vede, con le condanne di cui è testimone.
Bisogna che egli si immedesimi, almeno un po’, con i dannati e il
loro destino; bisogna che egli li compatisca, che ne abbia com-
passione e pietà. Solo così quel male e quel peccato non saranno
solo un’esperienza aliena, incomprensibile, che non lo tocca: ma
un pericolo imminente, da cui guardarsi. Sarebbe facile respin-
gere lontano da noi il male come cosa che non ci appartiene e
che non ci riguarda. La pietà di Dante all’Inferno significa invece
che il male è vicino a ciascuno di noi, e nessuno può sentirsene
esente. Che in ciascuno di noi si annida, forse, un dannato. Che
le anime d’Inferno erano – e sono ancora, in fondo – come noi.
4
Inferno • Schema
II CERCHIO
ignavi
non battezzati
lussuriosi
golosi
avari e prodighi
iracondi e accidiosi
eretici
omicidi e predoni
suicidi e scialacquatori
bestemmiatori,
sodomiti, usurai
ruffiani e seduttori
adulatori
simoniaci
indovini
barattieri
ipocriti
ladri
consiglieri fraudolenti
seminatori di discordia
falsari
traditori dei parenti
traditori della patria
traditori degli ospiti
traditori dei benefattori
I, II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX, X, XI
XII
XIII
XVIII
XVIII
XIX
XX
XXI, XXII
XXIII
XXIV, XXV
XXVI, XXVII
XXVIII, XXIX
XXIX, XXX
XXXII
XXXII, XXXIII
XXXIII
XXXIV
XXXI
XIV, XV,
XVI, XVII
Canti Peccatori Luoghi
ANTINFERNO
I CERCHIO (LIMBO)
III CERCHIO
IV CERCHIO
V CERCHIO
VI CERCHIO
I girone
II girone
III girone
I zona – Caina
II zona – Antenora
III zona – Tolomea
IV zona – Giudecca
I bolgia
II bolgia
III bolgia
IV bolgia
V bolgia
VI bolgia
VII bolgia
VIII bolgia
IX bolgia
X bolgia
selva
città
di Dite
Flegetonte
Gerusalemme
Acheronte
cascata del Flegetonte
pozzo dei giganti
Lucifero
CENTRO
DELLA
TERRA
palude Stigia
porta
VII
CE
RC
HIO
INC
ON
TIN
EN
TI
FR
AU
DO
LE
NT
IT
RA
DIT
OR
I
VII
IC
ER
CH
IO(M
AL
EB
OL
GE
)IX
CE
RC
HIO
(CO
CIT
O)
VIO
LE
NT
I
Mappa interattivaInferno
5
Inferno
Canto ILuogo
selva oscura; pendio verso il colleFigure allegoriche
tre fiere: lonza, leone, lupa
I l primo canto della Commedia serve da prologo all’intero
poema, e non a caso può considerarsi “fuori numerazione”,
all’interno del sistema simbolico dell’opera. Essa infatti è com-
posta di ��� canti, così distribuiti: Inferno ��, Purgatorio ��, Pa-
radiso ��; ma i �� dell’Inferno vanno considerati, appunto, come
� più ��. Questo primo canto, dunque, complica la numerologia
dantesca, aggiungendo all’ossessione del “tre” e dei suoi multi-
pli, allusiva al mistero centrale della fede cristiana – quello della
Trinità –, la suggestione armonica dell’unità e dell’“uno” come
cifra perfettamente squadrata. Come la
divinità cristiana, la Commedia si presen-
ta subito, insomma, una e trina, specchio
umano e poetico della misteriosa perfe-
zione divina.
In questo canto proemiale Dante di-
spone schematicamente, ma con grande
efficacia, le pedine essenziali del suo rac-
conto. Fin dall’inizio capiamo che sarà
un racconto allegorico, in cui dietro
ogni cosa narrata potrà celarsi un senso
ulteriore, simbolico, segreto: la selva su
cui si apre il poema è sì una selva, ma
anche il simbolo di un fatale smarrimen-
to nel peccato, e così via. Fin dall’inizio
è chiaro che il protagonista è Dante, lo
scrittore stesso; siamo dunque di fronte
a un racconto autobiografico che l’au-
tore pretende che noi consideriamo vero, anche se le cose nar-
rate saranno davvero “dell’altro mondo”. Sarà il racconto della
conversione di Dante dal male al bene: dai vizi, simboleggiati
dalle tre bestie feroci che qui gli sbarrano la strada, alla ricon-
quista della grazia divina e alla visione stessa di Dio, in Paradiso.
Ma questo cammino di conversione non si consumerà nell’in-
teriorità dell’animo del Poeta: esso si svolgerà attraverso un
viaggio vero e proprio nei tre regni oltremondani dell’Inferno,
del Purgatorio e del Paradiso, in modo che Dante possa ritorna-
re sulla retta via a contatto con l’esperienza della dannazione,
della penitenza e della beatitudine paradisiaca. A contatto, in-
somma, con la vicenda drammatica dell’uomo e della sua sto-
ria, di peccato e di grandezza. Perché, infine, questo non sarà
solo il racconto della conversione di Dante, ma sarà insieme
anche la parabola esemplare di un itinerario morale, valida
per chiunque voglia passare dal buio del peccato allo splendore
della Grazia.
Che cosa accade in questo primo canto? Dante si trova
solo, di notte, smarrito in una selva paurosa, incapace di trovare
una via d’uscita. Non sa rendersi conto neanche lui di come e
quando vi sia capitato. Con le sue sole forze, vincendo i terrori
notturni, egli riesce comunque a districarsene: di fronte a lui,
oltre il margine di quella paurosa foresta, si erge un colle appena
baciato dai primi raggi del sole, e il suo cuore subito si rinfranca.
Ma per poco. La strada gli viene subito sbarrata da tre belve
feroci: una lonza (una sorta di leopardo), un leone e una lupa.
Specie quest’ultima appare così aggressiva che Dante comincia
a retrocedere. Ma ecco che qualcuno appare a soccorrerlo. È
Virgilio, il famoso poeta latino autore dell’Eneide, l’idolo lettera-
rio di Dante. Ma Virgilio non è qui come
poeta; o almeno, non solo come poeta.
Egli è qui per salvare Dante dalla ferocia
delle tre belve, e specie della lupa. È qui,
anche, come profeta, visto che egli pre-
dice la prossima sconfitta di tale bestia,
che sarà, egli assicura, ricacciata all’In-
ferno da un veltro, un levriero da caccia
provvisto di tutte le virtù contrarie ai vizi
della lupa. Soprattutto, però, Virgilio si
offre a Dante come guida. Per scon-
figgere la lupa e guadagnare la luce che
adesso invade il colle al di là della selva,
Dante dovrà affrontare un lungo pelle-
grinaggio attraverso l’Inferno, il Purga-
torio e il Paradiso: viaggio certo fuori
dell’ordinario, ma come rifiutare? Il canto
si chiude con Dante che si affida, senza
riserve, alla protezione di Virgilio.
Questi gli eventi, ovvero il racconto letterale di questo primo
canto. Il suo sovrasenso allegorico è, sotto vari aspetti partico-
lari, di ardua e controversa decifrazione (la profezia del veltro,
per esempio), ma il disegno generale è assai chiaro. Il canto pre-
senta lo smarrimento di un’anima nel buio del peccato (la selva
tenebrosa), il suo desiderio di cambiare vita e di ritornare alla
luce del vero e del giusto (l’uscita dalla selva, il colle solatìo), il
riemergere delle inveterate abitudini peccaminose (le tre fiere,
allegorie della lussuria, della superbia e della cupidigia), lo scora-
mento (il retrocedere verso la selva), l’intervento di un soccorso
esterno (Virgilio) e l’inizio di un lungo percorso di conoscenza e
di docile accettazione della grazia divina (il viaggio oltremon-
dano). Virgilio, in particolare, rappresenta in questo disegno le
risorse della ragione umana che, come qui viene subito preci-
sato, saranno capaci di accompagnare Dante fino alla soglia del
Paradiso, ma non oltre. Per penetrare nella beatitudine di Dio
occorrerà una guida più alta (Beatrice), ovvero, occorreranno
le risorse della fede, della speranza e della carità che Virgilio, in
quanto pagano, non ha potuto conoscere.
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
(vv. 1-3)
Introduzione:traccia �
Canto:traccia �
Audio e videosull’app GUARDA!
6
Inferno • Canto I
� Nel mezzo… di nostra vita: all’età ditrentacinque anni. Secondo la Bibbia,infatti, l’età tipica dell’uomo è di settantaanni (Salmo 90, 10: «dies annorumnostrorum sunt septuaginta anni», “Gli annidella nostra vita sono settanta”), e Danteaveva già affermato (Convivio IV, xxiii,6-10) che il «punto sommo di questo arco[dell’esistenza umana]» doveva ravvisarsi«tra il trentesimo e ’l quarantesimo anno»,e «nelli perfettamente naturati [cioè negliindividui di natura più perfetta] … neltrentacinquesimo anno». Dante era natonel 1265, quindi l’inizio della Commediaviene collocato dall’autore nel 1300; piùprecisamente, come si ricava da altri passidel poema, nella primavera di quell’anno,o la sera del Venerdì Santo (8 aprile) o piùprobabilmente del 25 marzo (che era ilCapodanno fiorentino, detto ab incarna-tione, nove mesi esatti prima del Natale).�-� selva oscura… diritta via: simboli,rispettivamente, del peccato e della via delbene.
� dura: ardua.� esta… forte: l’insistita allitterazione(eSta Selva Selvaggia e aSpra) vuole sot-tolineare la difficoltà e l’intrico della selva(selva selvaggia è anche figura etimologicae replicazione); forte: compatta, impossibilea penetrare.� nel pensier… paura: «solo aripensarci fa rinascere il terrore di quellaesperienza».� amara: tormentosa; poco… morte: lamorte è appena poco più angosciosa diquella selva.� ben: il ben che Dante troverà nella selvaoscura è Virgilio, e, attraverso lui, la viad’uscita dalla selva, verso la salvezza. Maprima dell’incontro con Virgilio, Dantedovrà dire delle altre cose (v. 9), ovverodegli ostacoli da lui scorti (visti, incontrati)in quella selva.��-�� tant’ era… verace via: il sonnosimboleggia lo stato di assenza e cecitàdella ragione, ottenebrata dal peccato;era: ero (comune nella lingua antica, fino
all’Ottocento); la verace via è, al solito, lavia del vero, del bene.�� compunto: punto in profondità,trafitto.��-�� vidi le sue spalle… calle: «vidi ipendii del colle illuminati dai raggi delsole, l’astro che guida l’uomo nella giustadirezione (dritto), qualunque via egliprenda». Il sole è detto pianeta perché nellacosmologia tolemaica è un corpo celesteche ruota anch’esso intorno alla Terra; quiè simbolo della luce di Dio, che illuminatutti sulla retta via.�� queta: acquietata.�� nel lago del cor: nel profondo delcuore. Il lago è, nella lingua antica, la cavitàinterna dove il sangue si raccoglie e da doveviene reimmesso in circolo.�� pieta: tormento, angoscia (dal latinopietas); nella lingua antica era comune-mente usato come alternativa a “pietà”,che, in genere, però, ha il significatomoderno di “compassione” (vedi anchescheda a p. 105).
el mezzo del cammin di nostra vita �mi ritrovai per una selva oscura,
3 ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa duraesta selva selvaggia e aspra e forte
6 che nel pensier rinova la paura!
Tant’ è amara che poco è più morte;ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
9 dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.
Io non so ben ridir com’ i’ v’intrai,tant’ era pien di sonno a quel punto
12 che la verace via abbandonai.
Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto, �là dove terminava quella valle
15 che m’avea di paura il cor compunto, � Le parole di Dante, p. 7
guardai in alto e vidi le sue spallevestite già de’ raggi del pianeta
18 che mena dritto altrui per ogne calle.
Allor fu la paura un poco queta,che nel lago del cor m’era durata
21 la notte ch’i’ passai con tanta pieta.
N La selva oscura, la paura,
la notte
Il colle, il sole, la speranza
7
Inferno • Canto I
La selva oscura, la paura, la notte
La Commedia comincia di botto, senza preamboli: «Verso i miei trentacinque anni, nell’età che
si considera metà della vita umana, mi trovai nel mezzo di una selva spaventosa, incapace di
trovare la via giusta per uscirne. Ancora adesso, a ripensarci, provo gli stessi brividi, se devo dire
quanto irta, impenetrabile e selvaggia era quella selva». Così inizia Dante, ed è un inizio pecu-
liare. Basta confrontarlo con l’inizio delle altre due cantiche (Purgatorio e Paradiso) dove Dante
si presenterà in veste di poeta, lieto di potersi lasciare alle spalle la crudele materia infernale
(Purgatorio) e ben consapevole della sfida espressiva che lo attende, al momento di ridire le
cose viste nel Regno celeste (Paradiso). Lì, sulla soglia delle altre due cantiche, Dante invocherà
in suo aiuto, come i poeti classici, le muse, Calliope in particolare, e Apollo stesso, padre di ogni
poesia. È ben vero che anche qui, nella prima cantica, Dante premette un proemio, ma nel
secondo canto: O muse, o alto ingegno, or m’aiutate; / o mente che scrivesti ciò ch’io vidi, / qui si
parrà la tua nobilitate (vv. �-�). Il che ribadisce che l’Inferno veramente ha una scansione pe-
culiare (� + ��) e che il suo primo canto va considerato d’introduzione a tutta l’opera, mentre
è il secondo che apre veramente la prima cantica. Tuttavia, l’effetto narrativo non cambia: il
racconto della Commedia parte amputato di ogni preambolo, di ogni dichiarazione poetica, di
ogni avviso al lettore. Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura. Sem-
bra che l’unica preoccupazione sia quella di cominciare, e alla svelta, trascinando noi lettori nel
cuore di una situazione narrativa angosciosa, carica di ansia e di spavento. D’altronde, che cosa
c’è di più elementare, per cominciare un racconto, di un protagonista smarrito in un bosco? È
l’archetipo delle fiabe ancestrali; è anche, per un poeta nutrito di cultura francese come Dante,
un archetipo dei racconti di cavalleria da lui tanto amati, dove lo smarrirsi del cavaliere nella
foresta è circostanza narrativa assai tipica. Tanto più che, lo capiremo subito, è notte: trovarsi
solo, di notte, in una foresta senza uscita…
Dante non spiega come è entrato in questa selva, anzi, dice che «ci si è ritrovato» e, più
precisamente ancora, che non saprebbe ridire come vi era entrato, tanto era pien di sonno
quando smarrì la giusta direzione. La Commedia dunque comincia con una specie di sopras-
salto: come se uno, uscito di strada senza accorgersene, come un sonnambulo, improvvisa-
mente si riscuotesse e si guardasse intorno realizzando, con terrore, di trovarsi in un luogo
sconosciuto e pericoloso.
Un inizio di racconto così impressionante (e, non a caso, rimasto così impresso nella me-
moria dei lettori di Dante) è anche, allo stesso tempo, una scena allegorica. Che cos’è un’al-
legoria per Dante e per gli uomini del suo tempo? In generale, tenendo presente l’etimologia
stessa del termine (che deriva dal greco allos, “altro”, e rein, “dire”), allegoria significa “parlare
d’altro”, ovvero che in un discorso, oltre al senso letterale immediatamente comprensibile,
ve ne sono altri (“sovrasensi”) nascosti, e di meno immediata comprensibilità. Dante stesso
� vv. �-��
LE PAROLE DI DANTE � v. 15
CompuntoDante usa questo a��ettivo sempre nel senso del latino
compunctus, da compungere, ovvero “pun�ere”, “punzecchiare”,
“trafi��ere”. È si�nificativo che lo usi soltanto nell’Inferno, in
relazione a emozioni di paura, come qui; di pena, come davanti
ai dannati per avarizia o prodi�alità: E io, ch’avea lo cor quasi
compunto, / dissi (Inf. VII, ��-��); di sensi di colpa: Allor, come
di mia colpa compunto, / dissi (Inf. X, ���-���); Di che ciascun di
colpa fu compunto, / ma quei più che cagion fu del difetto (Inf. XXII,
���-���), in questo ultimo caso in riferimento ai diavoli �uardiani
dei barattieri, che si pentono di aver accettato una specie di �ara
con un dannato più furbo di loro.
Il vocabolo ha fatto un lun�o via��io, dai tempi di Dante. Ancora
nel Rinascimento manteneva si�nificato e uso antico, per esempio
nella Gerusalemme liberata di Torquato Tasso: «Tosto ciascun, da
�ran desio compunto, / veste le membra de l’usate spo�lie, / e
tosto appar di tutte l’arme in punto».
Tuttavia ben presto compunto (come il sostantivo “compunzione”)
viene ad assumere un si�nificato riferito all’aspetto esteriore, più che
al sentimento del cuore: così nella Vita di Vittorio Alfieri hanno «viso
compunto e an�elico» i novizi che l’autore fanciullo vede in chiesa,
e che lo incantano con il loro aspetto devoto. Per questa strada il
termine assume via via una sfumatura ne�ativa, implicando osten-
tazione ipocrita di una contrizione interiore in realtà poco sentita,
o addirittura falsa. Così nei Promessi sposi di Alessandro Manzoni:
«Quel frate [Padre Cristoforo] in somma v’ha convertito … Convertito,
cu�ino; convertito, vi dico. Io per me, ne �odo. Sapete che sarà un
bello spettacolo vedervi tutto compunto e con �li occhi bassi!».
Si può concludere che o��i, sia in letteratura sia nell’uso comune,
compunto è vocabolo sospetto, riferito spesso a persone che
ostentano modestia, umiltà, scrupolosa reli�iosità, o anche sempli-
cemente dili�enti rispetto delle norme di buona educazione, senza
che a questo corrisponda sincerità d’animo.
8
Inferno • Canto I
che nascesse dall’accoppiamento di unleopardo e una leonessa; il termine lonza èun francesismo (da lonce). Simboleggia ilpeccato di lussuria, evidentemente il primoe più grave impedimento per il riscattospirituale di Dante.�� ch’i’ fui… vòlto: «mi volsi più d’unavolta indietro, per ritornare nella selva».��-�� e ’l sol montava… cose belle:«il sole stava sorgendo congiunto con lacostellazione dell’Ariete, come all’iniziodella creazione». Infatti si credeva che Dio(l’amor divino) avesse dato il primo motoagli astri (quelle cose belle) all’inizio dellaprimavera, che si inaugura appunto sotto ilsegno dell’Ariete.��-�� sì ch’a bene sperar… la dolcestagione: «sì che l’ora del giorno (l’alba) ela dolcezza del clima primaverile mi inco-raggiavano a sperar bene davanti al pericolodi quella fiera dal pelo screziato»; gaetta,
�� piaggia: il declivio intermedio fra lapianura e l’altura vera e propria; qui, fra laselva che giace in basso, al buio, e il collevisto di sopra, baciato dai raggi del primosole.�� sì che ’l piè… basso: «il piede più saldoera quello più basso, su cui si appoggiavail peso del corpo, mentre l’altro piedeprocedeva in avanti». Verso molto discusso,ma che sembra alludere semplicemente alfatto che Dante sta affrontando l’inizio dellasalita più ripida (il cominciar de l’erta, v. 31)forse con troppa ingenua baldanza, senzatenere conto della sua forte consuetudinead abbandonarsi ai peccati, simboleggiatidalle tre fiere che gli sbarrano subito ilpasso.�� una lonza… molto: la lonza, agile emolto svelta, è un felino simile al leopardo(più avanti si farà riferimento alla sua pellemaculata: pel macolato, v. 33); si credeva
��-�� E come quei… guata: «E comeun naufrago che ancora col fiato corto,scampato dalle onde e approdato sullaspiaggia, si volge verso il mare pericolosoe lo contempla intensamente». “Guatare”,nell’uso antico e dantesco, è più intenso delsemplice “guardare”.�� l’animo… fuggiva: vuole dire che ilcorpo si era fermato (a contemplare la selvada cui era appena uscito), ma l’animo avevaancora l’impressione di fuggire, a malapenacredeva di essere scampato al pericolo.��-�� lo passo… viva: è la selva stessa,da cui nessuno era uscito vivo. Vuolesignificare che, dallo stato di peccato incui si trova Dante a metà della sua vita,non è possibile tornare alla via del bene;almeno non da soli, come il resto del cantodimostrerà.�� Poi ch’èi posato: «Dopo che ebbiriposato».
E come quei che con lena affannata,uscito fuor del pelago a la riva,
24 si volge a l’acqua perigliosa e guata,
così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,si volse a retro a rimirar lo passo
27 che non lasciò già mai persona viva.
Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso,ripresi via per la piaggia diserta,
30 sì che ’l piè fermo sempre era ’l più basso.
Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta, �una lonza leggera e presta molto,
33 che di pel macolato era coverta;
e non mi si partia dinanzi al volto,anzi ’mpediva tanto il mio cammino,
36 ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto.
Temp’ era dal principio del mattino,e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle
39 ch’eran con lui quando l’amor divino
mosse di prima quelle cose belle;sì ch’a bene sperar m’era cagione
42 di quella fiera a la gaetta pelle
Primo ostacolo: la lonza
9
Inferno • Canto I
nel Convivio, a proposito della lettura delle Sacre Scritture, propone di applicare ai testi biblici
tre diversi livelli di senso: allegorico, morale e anagogico. In seguito, scrivendo a Cangrande
della Scala a proposito del suo Paradiso, egli semplifica il discorso, distinguendo fra l’allegoria
dei teologi, più sottilmente complicata, e quella dei poeti, che consiste semplicemente nel
rivestire di belle immagini messaggi morali più profondi. Per quanto riguarda l’inizio della
Commedia, e per tutto questo primo canto, il sovrasenso allegorico del testo è, nelle sue linee
generali, molto evidente, quasi schematico: la selva in cui Dante si smarrisce è allegoria della
vita di peccato, da cui è così arduo uscire; la diritta via è insieme un sentiero vero, concreto,
che non si riesce a ritrovare e, allegoricamente, la “via del bene” smarrita; solo il sorgere del
sole su un colle, oltre la selva, significherà per Dante la speranza di uscire dall’oscurità del
vizio verso la luce della virtù.
D’altronde, se si guarda un poco più a fondo in questa allegoria, si vedrà che essa non è
poi così schematica. Che cosa significa, infatti, esattamente, il soprassalto di paura su cui si
apre la Commedia? Che cosa vuol dire essere entrati nella selva senza neanche accorgersene?
E anche non riuscire a trovare la via d’uscita è poi un elemento così banale di questo raccon-
to? In realtà, qui Dante stringe in pochi versi una rappresentazione del peccato che noi mo-
derni, forse, potremmo definire “dipendenza” dal male. Dante sa bene (dalla lezione della sua
principale guida teologica, san Tommaso) che il peccato non consiste tanto in singole azioni
malvagie ma in un habitus, una pratica inveterata, radicata, del male. Di questo egli si accorge
nella selva oscura: di essere ormai in trappola, soffocato da una situazione di oscurità morale,
e di non sapere neanche bene, esattamente, come sia arrivato fino a quel punto. Accorgersi,
comunque, della propria crisi esistenziale è il punto di partenza; cercare disperatamente una
via d’uscita, la prima mossa verso la salvezza. Ma – come il seguito del canto ci insegnerà – la
forza inveterata delle abitudini cattive è troppo forte. Da soli non ce la facciamo. Occorrono
l’intervento di un aiutante esterno (Virgilio) e un lungo cammino di rigenerazione interiore per
approdare, finalmente, alla luce.
Il colle, il sole, la speranza
La notte sembra dileguata e Dante scorge, oltre il limite della selva, un colle baciato dai raggi
del primo sole. Basta questo per calmare un poco l’angoscia della spaventosa notte appena
trascorsa; nel profondo del cuore la paura si placa, la salvezza sembra a portata di mano; anzi,
Dante si può guardare indietro, verso il passo pericoloso appena superato, con il sollievo del
naufrago appena scampato sulla riva, che, sia pure ancora ansimante, si volge a contemplare
i marosi che stavano per inghiottirlo, anche se l’animo ancora quasi non crede di essere dav-
vero in salvo. E dopo un po’ di riposo, su per le prime alture del colle, a passo spedito, verso la
luce del mattino!
È un’illusione, naturalmente. Fosse così facile, uscire dalla selva del male… Bastasse soltan-
to rendersi conto della propria situazione di peccato, provarne terrore e decidere di liberarse-
ne… La volontà di salire all’erta del colle illuminato dal sole (facile allegoria della salvezza mo-
rale, della luce della Grazia, di Dio stesso) non basta. La vita passata, con i suoi vizi, interviene
a tagliare la strada all’ascesa baldanzosa del nostro protagonista.
Primo ostacolo: la lonza
Si parano improvvisamente di fronte a Dante tre fiere, o belve feroci: una lonza, un leone e
una lupa, che impediscono al Poeta l’ascesa a quel colle, allietato dai primi raggi del sole, che
sembra così vicino, a portata di mano, di fronte a lui. Le fiere sono allegorie di altrettanti vizi
che sbarrano la strada verso la luce della salvezza morale e della Grazia; ma, più ancora che
la loro identificazione con questo o quel peccato, ciò che conta qui è il meccanismo narrativo,
morale ed esistenziale di questo passo. Perché intervengono queste fiere? Che cosa significa
il loro intervento? Perché non hanno assalito Dante nella selva oscura ma lo hanno, invece,
aspettato in quel margine (piaggia diserta, erta) fra la selva e il colle? La risposta può essere
questa: le tre fiere non appartengono evidentemente al mondo del male vissuto come oscurità
della ragione, sonno della coscienza; esse si risvegliano quando Dante peccatore si indirizza al
bene, nel momento in cui egli comincia a prendere consapevolezza degli ostacoli che si frap-
pongono fra lui e una piena conversione morale. Sono creature non della notte ma, purtroppo,
della luce che comincia a rischiarare l’anima, e nel cui chiarore la natura dei propri peccati si
rivela vivida e distinta.
� vv. ��-��
� vv. ��-��
10
Inferno • Canto I
significherebbe? forse la lunga assenza dellaluce del sole?). Il passo rimane comunque didifficile interpretazione.�� nel gran diserto: diserto non nel sensopropriamente geografico (siamo nella piaggiaalle soglie della selva oscura), ma inteso come“luogo solitario”; forse ancora migliore ilsignificato che il termine ha nella tradizionedel romanzo arturiano: luogo deputato alleavventure e alle prove dei cavalieri.�� «Miserere di me»: «Abbi pietà di me».La schietta forma latina, resa familiare dallasua frequenza nella liturgia cristiana, erad’uso comune ai tempi di Dante.�� omo certo: uomo in carne e ossa.�� Non omo… fui: Virgilio dichiara cheegli non è più tra gli uomini viventi, ma cheegli lo fu, in un passato remoto.��-�� parenti: genitori, dal latino parentes(vedi anche scheda a p. 54); lombardi,mantoani: la patria tradizionale di Virgilioè Andes (odierna Pietole), piccolo villaggionei pressi di Mantova; terra lombarda nelsenso antico, quando per Lombardia siintendeva generalmente tutta l’Italia setten-trionale. Virgilio (Publius Vergilius Maro)vi nacque nel 70 a.C.; morì a Brindisi nel19 a.C., avendo appena terminato (ma nonperfezionato) il suo capolavoro, l’Eneide,qui ricordato anche da Dante.
che ispirava il suo aspetto, che perdetti lasperanza di poter salire sulla cima del colle».��-�� E qual è quei… s’attrista:«E come colui (un avaro o un giocatore)che si allieta delle sue vincite e, quandoviene invece il momento di perdereciò che ha guadagnato, si disperaprofondamente».�� sanza pace: che non dà requie,implacabile.�� tace: non si fa sentire, non penetra.Efficace traslato, a significare il buio dellaselva oscura.�� rovinava: «stavo precipitando».�� mi si fu offerto: nella lingua antica,il trapassato remoto è usato per indicarela fulmineità dell’azione, già successa, percosì dire, quando il soggetto senziente se neaccorge.�� chi… fioco: è Virgilio, come si diràsubito. Egli sembra fioco, senza voce, peressere stato a lungo senza parlare. Si puòintendere che Virgilio ha taciuto dai tempidell’antichità classica; Dante sembra riven-dicare qui il merito di ridargli la paroladopo tanto tempo. Si potrebbe intenderefioco anche come “scolorito”: in questo casol’espressione vorrebbe dire che l’apparizionedi Virgilio ha l’evanescenza di un fantasma(ma in questo caso il lungo silenzio che cosa
francesismo da gai, significa propria-mente “leggiadra”; insomma, la screziaturarendeva grazioso il pelo della lonza.�� un leone: la seconda fiera che si paradavanti a Dante simboleggia la superbia;altro vizio, evidentemente, inveterato nelpoeta peccatore.�� parea… tremesse: «sembrava cheanche l’aria intorno ne tremasse di paura».�� una lupa: la terza fiera simboleggial’avarizia o, più in generale, la cupidigia.È di gran lunga la fiera (e il vizio) piùtemibile, quella che rischia davvero difar precipitare di nuovo Dante nellaselva oscura (v. 60); Dante la definisce alsingolare (la bestia, v. 58) come quella chegli fa più spavento (vv. 88-90); l’unica a cuisembra riferirsi Virgilio (v. 94 e vv. ss.), econtro la quale egli scaglia la profezia delveltro (vv. 100-111).��-�� che di tutte brame… magrezza:«che sembrava portare, impressi nella suamagrezza, i segni di tutte le sue cupidigie,della sua insaziabile avidità».�� grame: afflitte.�� questa: riprende con effetto di enfasiil soggetto già espresso (Ed una lupa);mi porse… gravezza: «mi angosciòtalmente».��-�� con la paura… altezza: «col terrore
l’ora del tempo e la dolce stagione;ma non sì che paura non mi desse
45 la vista che m’apparve d’un leone. �Questi parea che contra me venisse
con la test’ alta e con rabbiosa fame,48 sì che parea che l’aere ne tremesse.
Ed una lupa, che di tutte brame �sembiava carca ne la sua magrezza,
51 e molte genti fé già viver grame,
questa mi porse tanto di gravezzacon la paura ch’uscia di sua vista,
54 ch’io perdei la speranza de l’altezza.
E qual è quei che volontieri acquista,e giugne ’l tempo che perder lo face,
57 che ’n tutti suoi pensier piange e s’attrista;
tal mi fece la bestia sanza pace,che, venendomi ’ncontro, a poco a poco
60 mi ripigneva là dove ’l sol tace.
Mentre ch’i’ rovinava in basso loco, �dinanzi a li occhi mi si fu offerto
63 chi per lungo silenzio parea fioco.
Quando vidi costui nel gran diserto, � Le parole di Dante, p. 12
«Miserere di me», gridai a lui,66 «qual che tu sii, od ombra od omo certo!».
Rispuosemi: «Non omo, omo già fui,e li parenti miei furon lombardi,
69 mantoani per patrïa ambedui.
Secondo ostacolo: il leone
Terzo ostacolo: la lupa
Comparsa di un aiutante:
Virgilio
11
Inferno • Canto I
Così, il primo ostacolo incontrato qui da Dante è la lonza, una sorta di leopardo maculato in
cui si riconosce, tradizionalmente, il peccato di lussuria: evidentemente, il primo vizio da supe-
rare, in questa sorta di allegorico esame di coscienza. Dante sentirebbe quasi di farcela: è vero
che la fiera non gli si leva dinanzi agli occhi e gli impedisce tanto ostinatamente il cammino,
che più d’una volta egli si sente riprecipitare all’indietro verso la selva, ma il sole sta sorgendo
nel cielo, la luce invade il paesaggio, e per di più è l’inizio della primavera, la stagione in cui
tutto l’universo fu creato dall’amore di Dio; la lussuria, forse, sarebbe un ostacolo superabile…
Secondo ostacolo: il leone
Se non fosse che, immediatamente dopo la lonza, ecco comparire un leone a testa alta, criniera
ritta, ferocemente affamato, che non si limita a impedire il passo a Dante, come l’agile lonza,
ma gli viene proprio addosso; sembra che anche l’aria, intorno, ne abbia paura. È il secondo
ostacolo, il secondo vizio, comunemente identificato con il peccato di superbia; un peccato di
cui Dante apertamente si accuserà in Purgatorio (canto XIII, vv. ���-���) e che quindi dob-
biamo considerare tristemente caratteristico della sua vita morale.
Terzo ostacolo: la lupa
Ma il colpo di grazia è la comparsa di una lupa, il terzo e ultimo ostacolo all’ascesa di Dante verso
la luce: magra, divorata dalla sua stessa avidità, abituata ad affliggere l’esistenza di tanta gente
e paurosa all’aspetto, essa sgomenta tanto il nostro peccatore da fargli perdere del tutto la spe-
ranza di raggiungere il sommo del colle. Ormai la troppo facile sicurezza di averla vinta sui suoi
spaventi notturni abbandona Dante, che si sente come un giocatore, o un avaro, che di colpo
abbia perso i suoi guadagni o i suoi averi; la lupa, bestia sanza pace, lo aggredisce apertamente,
e a poco a poco lo respinge inesorabilmente verso il buio, là dove non arriva più la luce del sole.
La lupa è allegoria della cupidigia: un vizio che rappresenta un salto di qualità decisivo, per
così dire, in questa analisi dantesca della propria corruzione morale. Infatti, la lonza e il leone,
ovvero la lussuria e la superbia, rappresentavano peccati individuali, più legati al personale vis-
suto del Poeta; la cupidigia, invece, fin dall’inizio si presenta come una sorta di sciagura collet-
tiva (molte genti fé già viver grame), come una specie di peste sociale. Per questo d’ora in avanti
lonza e leone praticamente spariscono dal canto e la bestia per antonomasia, nelle parole di
Dante e di Virgilio, sarà sempre la sola lupa; anzi, sembra proprio che la comparsa di Virgilio
sia resa necessaria dall’aggressività di questa fiera, più che da quella delle altre due. D’altron-
de, già san Paolo aveva bollato la cupidigia come radice di ogni altro peccato (Prima lettera a
Timoteo �, ��); Dante, dal canto suo, nel corso della Commedia riporterà proprio a questo vizio
non tanto la sua personale vita morale (che invece sembra esserne alquanto immune), ma la
corruzione del proprio tempo e delle sue principali istituzioni, specie della Chiesa.
Comparsa di un aiutante: Virgilio
Mentre Dante, sotto l’incalzare della lupa, sta rovinando verso il basso, verso la selva oscura,
ecco comparire in scena, finalmente, un soccorritore. All’inizio è delineato in modo enigmatico,
e comunque appare una figura sfumata: chi per lungo silenzio parea fioco. Che s’intenda fioco
in senso vocale (uno che a forza di tacere a lungo aveva perso la voce) o in senso visivo (uno
che appariva scolorito, come un fantasma, per la lunga assenza dalla luce del sole), si tratta
comunque di un personaggio sbiadito: come se Dante volesse presentarcelo, da principio, roco
ed evanescente, salvo fargli acquistare subito voce, riconoscibilità e importanza attraverso il
suo rapporto con lui. Il misterioso soccorritore, a cui Dante si rivolge subito con accenti di-
sperati («Che tu sia uomo in carne e ossa o fantasma, abbi pietà di me!») è niente meno che
Virgilio, il poeta dell’Eneide, come egli si presenta in una sorta di succinta scheda anagrafica:
«non più vivo, ma vissuto un tempo; figlio di genitori del Nord Italia, anzi, per la precisione,
mantovani; nato sotto Giulio Cesare, ma troppo tardi per acquistare fama sotto di lui; suddito
di Augusto; pagano, purtroppo; di professione poeta, e, anzi, autore dell’Eneide». E poi, quasi
che egli non fosse al corrente della situazione di Dante: «Ma tu perché torni indietro verso
l’angoscia della selva? Perché non ascendi il dilettoso monte che conduce al gioioso possesso
di Dio?». Strana domanda per uno che – come si vedrà – è stato appositamente inviato per
prendersi cura di Dante… In realtà, proprio perché si sa che Dante non ce la farebbe mai da
solo ad ascendere al dilettoso monte, la domanda, si può supporre, è provocatoria, fatta appo-
sta perché il Poeta riconosca a chiare note la propria impotenza e la necessità di un soccorso.
� vv. ��-��
� vv. ��-��
� vv. ��-��
12
Inferno • Canto I
Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto
72 nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.
Poeta fui, e cantai di quel giustofigliuol d’Anchise che venne di Troia,
75 poi che ’l superbo Ilïón fu combusto.
Ma tu perché ritorni a tanta noia?perché non sali il dilettoso monte
78 ch’è principio e cagion di tutta gioia?».
«Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte �che spandi di parlar sì largo fiume?»,
81 rispuos’ io lui con vergognosa fronte.
«O de li altri poeti onore e lume,vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore
84 che m’ha fatto cercar lo tuo volume.
Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore, � Le parole di Dante, p. 12
tu se’ solo colui da cu’ io tolsi87 lo bello stilo che m’ha fatto onore.
Dante si stupisce e chiede
aiuto
reverenza; quasi vergognoso, intimidito, neltrovarsi davanti al suo idolo letterario.�� vagliami: «mi sia di giovamento (pertrovare ascolto e aiuto presso di te)».�� che m’ha fatto… volume: «che mi haspinto a leggere e rileggere il tuo poema,l’Eneide».�� ’l mio autore: il mio auctor (dal latino),l’esempio da seguire.�� lo bello stilo… onore: Dante riconoscein Virgilio il modello di stile “alto” (bello,cioè eccellente sopra ogni altro) di cui egliha già dato prova e che gli ha già procuratoonore, fama di poeta. Dante qui si riferiscealle poesie d’amore e morali composte primadel 1300, data del viaggio della Commedia.
troppo presto per conoscere il cristiane-simo che condanna Virgilio (vv. 124-126) alprimo cerchio infernale, quello del Limbo.�� poi che… combusto: «dopo che l’eccelsapotenza di Troia fu distrutta dalle fiamme».�� noia: angoscia. Nella lingua antica, nonha mai il significato attuale di “tedio”, maindica sempre dolore, tormento.��-�� quella fonte… fiume: l’eloquenzadella poesia virgiliana è paragonata a unfiume sgorgante da una fonte, a significarel’abbondanza, la ricchezza e la naturalezzadelle risorse espressive del poeta latino.�� lui: a lui. Il dativo senza preposizioneera abbastanza comune nella lingua antica;con vergognosa fronte: con aspetto di
�� sub Iulio… tardi: «sotto Giulio Cesare,benché fosse tardi». A dire il vero nel 70 a.C.,data di nascita di Virgilio, Cesare aveva solotrent’anni e non aveva ancora preso il poterea Roma; per questo Virgilio aggiunge ancorche fosse tardi, volendo dire che egli era natotroppo tardi per farsi conoscere e apprezzareda Cesare, che infatti cadde assassinato nel44 a.C., quando Virgilio non si era ancoraaffermato come poeta.�� buono Augusto: buono nel senso di“prode”, “valoroso”. Augusto fu il veroprotettore di Virgilio, e a lui (e alla suastirpe) è infatti dedicata l’Eneide.�� nel tempo… bugiardi: cioè in pienopaganesimo. È proprio questo essere nato
LE PAROLE DI DANTE
Diserto � v. 64
Nella lin�ua di Dante si�nifica “luo�o solitario”, come nell’uso
odierno; in particolare lo troviamo nella Commedia riferito più
di�una volta al diserto in cui Giovanni Battista, secondo il Van�elo,
si ritirò prima di cominciare la sua predicazione pubblica:
Mele e locuste furon le vivande / che nodriro il Batista nel diserto
(Pur�.�XXII,����-���); in Paradiso, poi, si nomina il gran Giovanni, /
che sempre santo ’l diserto e ’l martiro / sofferse (Par.�XXXII, ��-��).
Anche nel Padre nostro recitato dalle anime dei superbi, in
Pur�atorio, si fa menzione di questo aspro diserto (Pur�. XI, ��),
riferito metaforicamente alla durezza della vita su questa Terra,
esposta alle tentazioni, ma anche al deserto in cui il popolo di
Israele, dopo la fu�a dall’E�itto, va�ò per quarant’anni. Diserto è
anche il paesa��io della monta�na pur�atoriale, quando non sono
in vista anime di penitenti: restammo in su un piano / solingo più
che strade per diserti (Pur�. X, ��-��).
Tuttavia va osservato che nella lin�ua antica diserto desi�nava
anche il luo�o specifico dell’avventura cavalleresca: non un
luo�o �eo�raficamente specifico, ma il luo�o in cui i cavalieri si
avventuravano, sicuri di incontrarvi prove de�ne del loro valore.
Così in una delle versioni italiane più antiche (ultimo quarto del
secolo XIII) delle le��ende di re Artù, il cosiddetto Tristano Riccar-
diano: «La quale terra si este de lo ree Arturi; e questo si èe lo più
bello diserto ke mai sia e quello là dove si truovano piue aventure
ke in nessuna parte ke ssia al mondo, né unqua non v’andoe
neuno cavaliere ke non vi trovasse aventura». È assai probabile
che in questo inizio della Commedia, con la menzione sia della selva
oscura, sia di questo diserto, a�isca nell’imma�inazione dantesca la
memoria della letteratura cavalleresca, da Dante ben conosciuta
e molto amata (vedi anche la scheda La cultura francese di Dante,
p.���). Cosicché si può dire che il via��io di Dante nell’aldilà
comincia come una vera e propria “avventura”.
Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore � v. 85
Detta da Dante a Vir�ilio, è frase divenuta proverbiale, non solo
nel senso di riconoscere il primato dell’intelli�enza o la funzione di
�uida di qualcuno, ma anche in senso lievemente ironico: «Tu sei
più bravo di me: mi arrendo».
13
Inferno • Canto I
Virgilio, per consenso comune dei critici, è nella Commedia l’allegoria della ragione umana.
Con i suoi limiti e la sua grandezza: la ragione, infatti, può condurre Dante alla riconquista
di una salute morale “naturale”, ma non lo può far penetrare nel mondo della grazia divina,
cioè della rivelazione cristiana. Per questo Virgilio accompagnerà Dante solo fino al Paradiso
Terrestre, collocato sulla cima della montagna purgatoriale; in Paradiso, guida di Dante non
sarà più Virgilio, ma Beatrice. Il poeta latino d’altronde non rappresenta solo la ragione indi-
viduale dell’uomo, che gli permette di superare il vizio e di attingere a una perfezione etica
pari a quella goduta prima del peccato originale dai nostri progenitori Adamo ed Eva. Virgilio,
il più grande poeta di Roma, è considerato da Dante anche come l’incarnazione della ragione
umana nell’Impero, nella cultura e nella storia di Roma. Tutto ciò che di bello e di buono l’u-
manità, anche in assenza della rivelazione divina e senza conoscere il messaggio cristiano, può
realizzare (e ha storicamente realizzato nella civiltà romana) è simboleggiato secondo Dante
da Virgilio. Infatti, ci si potrebbe chiedere: come mai proprio Virgilio? Non c’erano figure più
adatte a condurre Dante attraverso i regni oltremondani dell’Inferno e del Purgatorio? Non
sarebbe stato più adatto un santo, una figura biblica o un angelo cristiano? E invece Dante sce-
glie Virgilio come guida del suo viaggio, non nonostante egli sia pagano, ma proprio perché egli
è un pagano che non ha conosciuto Cristo. Così facendo, Dante vuole sottolineare l’autonomia
della ragione umana e le sue capacità di giungere da sola al bene; allo stesso tempo ne vuole
marcare, con assoluto rigore, i limiti. La perfezione puramente umana del Paradiso Terrestre
è ciò a cui Virgilio può pervenire; più su, egli – il più perfetto degli antichi – non può andare.
Anche in questo caso bisogna sottolineare con forza che Virgilio, però, non è una pura e
semplice allegoria. Dante fa di lui, e in modo sempre più vivido col procedere del racconto, un
personaggio vero; anzi, trasforma le contraddizioni della sua funzione simbolica in tratti carat-
teriali. Questo vuol dire, cioè, che la contraddizione fra i poteri e i limiti della ragione umana, di
cui Virgilio è allegoricamente portatore, si trasforma in una caratteristica del personaggio, via
via sempre più accentuata nel vario sviluppo del racconto. Infatti, se all’Inferno Virgilio appare
guida (quasi) sempre sicura di sé, e ostenta superiorità morale rispetto al mondo di vizio e di
dannazione che egli attraversa insieme a Dante, in Purgatorio la sua posizione si farà sempre
più scomoda e le sue emozioni più ambigue. Egli infatti si troverà di fronte ad anime destinate
a un futuro di salvezza che a lui, pagano, rimane negato. E negato solo per un accidente cro-
nologico: per avere avuto la sfortuna di nascere nel tempo de li dèi falsi e bugiardi, prima cioè
della venuta di Cristo.
Dante si stupisce e chiede aiuto
Di fronte alla rivelazione che la misteriosa figura apparsa dal nulla è Virgilio, Dante è sopraffat-
to dalla sorpresa e da un senso di vergogna: che emozione, trovarsi improvvisamente davanti
al suo idolo letterario! E infatti, le sue prime parole sembrano quasi dimenticare le drammati-
che circostanze in cui egli si trova, per riconoscere innanzitutto la grandezza del poeta antico:
fiume di eloquenza, onore e lume di ogni altro poeta e oggetto di idolatrica ammirazione da
parte di Dante, che si è rovinato gli occhi sulla sua Eneide; infine, maestro e modello di stile
per le rime già composte da Dante stesso, e che gli hanno già procurato onorata reputazione.
E qui occorrerà una precisazione. In che senso Virgilio può essere stato maestro di stile
per Dante? Non dimentichiamoci che siamo nell’anno ���� e che Dante, per ora, ha compo-
sto essenzialmente la Vita nuova e altre rime di carattere amoroso e morale. Si tratta di opere
quindi molto lontane da quelle di Virgilio che, oltre all’Eneide, resta famoso per il suo poema
agricolo, le Georgiche, e per le sue egloghe pastorali, le Bucoliche. Eppure Dante parla di un bello
stilo di cui il poeta latino gli è stato maestro. Bisogna allora intendere che Dante si riferisca non
al contenuto della poesia, né ai generi letterari praticati, ma al livello stilistico dell’espressione
poetica: evidentemente egli sente di dovere a Virgilio l’esempio di uno stile alto, nobile, adat-
to a sentimenti profondi e a tematiche comunque impegnative. Virgilio ha indicato a Dante,
insomma, l’altezza di stile a cui egli ha sempre aspirato a conformarsi.
Ma Virgilio non è solo un poeta. Una volta proclamata la sua eccellenza e riconosciutolo
come suo maestro e autore, come suo sommo modello di poesia, Dante lo invoca anche come
soccorritore: «Guarda la bestia che mi sta facendo tornare indietro; scampami da lei, famoso
saggio, che mi sta facendo tremare il sangue addosso». Famoso saggio: non più solo poeta. Qui
Dante si fa erede di una tradizione che aveva trasformato Virgilio, nel corso del Medioevo, in
sapiente, filosofo, profeta e perfino mago. Il punto di partenza era stata la sua egloga IV, nella
� vv. ��-��
14
Inferno • Canto I
Vedi la bestia per cu’ io mi volsi;aiutami da lei, famoso saggio,
90 ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi». � Le parole di Dante, p. 14
«A te convien tenere altro vïaggio», �rispuose, poi che lagrimar mi vide,
93 «se vuo’ campar d’esto loco selvaggio;
ché questa bestia, per la qual tu gride,non lascia altrui passar per la sua via,
96 ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide;
e ha natura sì malvagia e ria,che mai non empie la bramosa voglia,
99 e dopo ’l pasto ha più fame che pria.
Molti son li animali a cui s’ammoglia, �e più saranno ancora, infin che ’l veltro
102 verrà, che la farà morir con doglia.
Questi non ciberà terra né peltro,ma sapïenza, amore e virtute,
105 e sua nazion sarà tra feltro e feltro.
Di quella umile Italia fia saluteper cui morì la vergine Cammilla,
108 Eurialo e Turno e Niso di ferute.
Come Dante potrà
scampare
Profezia del veltro
��� e sua nazion… feltro: altro passooscuro. Il liberatore simboleggiato nelveltro nascerà tra feltro e feltro, cioè avvoltoin ruvidi panni. Sarà dunque un eroepovero, di umili origini? O forse, prove-niente da un ordine religioso che professi lapovertà (e quindi l’uso di vestiario ruvido)come i francescani? O si dovrà intenderequel feltro in senso geografico, cioè cheil veltro nascerà tra Feltre, nel Veneto, eMontefeltro, in Romagna?���-��� Di quella umile Italia… Nisodi ferute: il veltro sarà la salvezza di quellamisera Italia per la cui difesa morirono,colpiti a morte, tanti eroi dell’Eneide:Camilla, Turno, Eurialo e Niso. Ma umilericalca probabilmente un verso dell’Eneidestessa («humilemque videmus Italiam», III,vv. 522-523), dove però significa letteral-mente “piatta” e si riferisce alla penisolasalentina, la prima terra italiana avvistatada Enea. Da notare anche come Virgilio citicon affetto, quali difensori della penisola,quei personaggi del suo poema che sierano tuttavia opposti a Enea, e quindi almagnifico futuro di Roma e della gens Iulia.
corrotta dei tempi di Dante la cupidigia,ristabilendo quindi sulla Terra un regno digiustizia, di ordine e di pace. Arduo dire achi Dante pensasse, profetizzando l’avventodi questo veltro: a Cangrande della Scala, ilmunifico signore suo protettore? all’impe-ratore Arrigo VII, in cui Dante riponevale sue speranze di restaurazione dell’auto-rità imperiale? a una figura religiosa, comefarebbero forse pensare i vv. 103-104? Odobbiamo forse supporre che il veltro rap-presenti solo l’auspicio di una nuova età diredenzione? Ancora una volta ci troviamodi fronte a un passo molto controverso eaperto a molteplici interpretazioni.��� non ciberà… peltro: «non saràavido né di domini territoriali (terra) nédi ricchezze». (Il peltro è una lega usataspesso ai tempi di Dante per batteremoneta.)��� sapïenza… virtute: allusione alle trepersone della Trinità: il Padre (che è virtute,potenza creatrice), il Figlio (sapïenza) e loSpirito Santo (amore). Il veltro si ciberà solodi loro, ovvero sarà tutto dedito al serviziodi Dio.
�� la bestia… volsi: «la bestia che mispinse a tornare indietro, verso la selva».Dante e Virgilio, d’ora in avanti, si rife-riranno soltanto all’ultima delle tre fiereapparse al Poeta (la lupa).�� famoso saggio: non solo perché,secondo Dante, ogni poeta è anche unsapiente, ma perché Virgilio, special-mente, era stato trasformato dalla culturamedievale in una sorta di filosofo, profeta eperfino mago, dotato di poteri divinatori.�� polsi: arterie.�� A te convien: «ti è necessario». Nellalingua antica “convenire” ha spesso questovalore di obbligazione fatale, più raramentequello attuale di “opportunità”.�� gride: gridi, implori aiuto.�� altrui: nessun altro, nessuno.�� empie: soddisfa.��� Molti… s’ammoglia: la lupa(cupidigia) si accoppia con molti altrianimali (cioè con altrettanti vizi). Vuoldire che la cupidigia non agisce mai insolitudine, ma istiga la comparsa di semprenuove depravazioni: come scrive san Paolo,«radix omnium malorum cupiditas» (“laradice di ogni male è la cupidigia”; Primalettera a Timoteo 6, 10).��� veltro: è un cane da caccia benaddestrato; di norma si intende un levriero.Animale adatto, dunque, a cacciare la lupa(non stupisca che un cane possa dare lacaccia a un lupo: vedi il celebre sogno delconte Ugolino, in cui una muta di cagnecaccia e sbrana una famiglia di lupi; cantoXXXIII, 31-36). Allegoricamente, il veltrorappresenta l’utopia di un liberatore,o redentore, che scaccerà dalla società
LE PAROLE DI DANTE � v. 90
Tremar le vene e i polsiNon occorre trovarsi di fronte alla lupa,
o sul punto di iniziare una spaventosa
discesa all’Inferno, per usare questo modo
di dire. In �enere, infatti, l’espressione viene
impie�ata per si�nificare l’intensità della
propria emozione, e il timore di non farcela,
di fronte a una prova particolarmente
impe�nativa: «è un pro�etto da far tremar
le vene e i polsi»; «è un esame da far tremar
le vene e i polsi».
15
Inferno • Canto I
quale Virgilio aveva inteso celebrare l’imminente nascita del figlioletto di un amico, il console
Asinio Pollione, che egli si era augurato potesse dare inizio a una nuova età, di pace, di giu-
stizia e di cosmica armonia. Si trattava, in effetti, di una profezia perfettamente in linea con il
clima politico seguito a Roma alla riappacificazione tra Ottaviano Augusto e Marco Antonio,
che si sperava ponesse fine alle convulsioni sanguinose delle recenti guerre civili: infatti, alcuni
interpreti danteschi vedono nel puer (“fanciullo”) vaticinato da Virgilio la sperata prole dell’u-
nione fra Marco Antonio e Ottavia, sorella di Ottaviano, che aveva sancito tale riappacifica-
zione. Fin troppo facile fu, per la cultura cristiana, leggere l’egloga IV come un’anticipazione
della nascita non del figlio di Asinio Pollione (o di Ottavia e Marco Antonio), ma del Cristo, del
nuovo principe di pace che doveva portare nel mondo la luce di una nuova rivelazione. Dall’in-
terpretazione cristiana di questa egloga scaturì dunque la leggenda di un Virgilio che avrebbe
miracolosamente vaticinato la nascita di Gesù e che sarebbe quindi stato dotato di poteri ben
superiori a quelli della poesia. È un’appropriazione caratteristica della cultura medievale, che
fu una cultura tipicamente “attualizzante”, nel senso che essa, davanti a fenomeni estranei e
lontani (e specialmente di fronte al mondo dell’antichità pagana), non ebbe scrupolo a mani-
polare, inventare o fraintendere, pur di rendere quei fenomeni interessanti e utili ai propri fini
e alle proprie preoccupazioni intellettuali.
Così, anche il Virgilio di Dante è certamente il Virgilio “antico”, amato, studiato e imitato,
ma è anche un Virgilio “attualizzato”, che Dante trasporta nella propria vicenda di uomo del
suo tempo, mettendolo a parte di realtà filosofiche, morali, intellettuali o politiche, ovviamen-
te del tutto estranee al Virgilio storico. Come qui, quando Dante metterà in bocca al poeta
dell’Eneide la maledizione della lupa e la profezia del veltro.
Come Dante potrà scampare
Neanche Virgilio, però, può affrontare frontalmente la lupa. Dante gli aveva chiesto aiuto per
scampare da essa e si aspettava, evidentemente, che il nuovo e potente soccorritore scon-
figgesse le fiere e gli aprisse la strada al dilettoso monte. Invece, Virgilio gli annuncia che egli
dovrà fare altro vïaggio: la liberazione dal male dovrà svolgersi secondo un itinerario ben più
complesso rispetto al semplice salire l’erta che conduce al colle solatio davanti a lui. Troppo
forte è il potere della bestia: essa non lascia passare nessuno dalla sua strada, aggredisce al
punto di uccidere, ed è di natura così malvagia e iniqua, che non sazia mai le sue brame; anzi,
dopo avere sfogato la sua fame, è ancora più vorace di prima.
È il momento cruciale del canto, in cui la situazione iniziale (lo smarrimento nella selva, le
tre fiere, la strada impedita verso il colle della luce) viene accantonata e lasciata irrisolta per
volgere il racconto in una direzione completamente diversa. L’altro vïaggio che si prospetta ora
a Dante è, né più né meno, che l’intero svolgimento della Commedia.
Profezia del veltro
Virgilio non affronta direttamente la lupa, ma rimanda comunque a un futuro in cui la bestia
troverà il vendicatore che ne farà giustizia: un veltro, cioè un cane da caccia, che la farà morir
con doglia, dopo averla cacciata da ogni città e villaggio d’Italia. A dire la verità, qui c’è qualche
contraddizione: Virgilio profetizza la morte fra grandi sofferenze della lupa e poi profetizza che
il veltro la respingerà giù all’Inferno da dove è uscita, sospinta da Satana, invidioso come sem-
pre dell’umanità; insomma, il veltro ne farà strazio o si limiterà a risospingerla giù all’Inferno?
In ogni caso, il senso è chiaro: la cupidigia che affligge il mondo, e che è origine di ogni male
contemporaneo, sarà sconfitta da un antagonista qui simboleggiato dalla figura del veltro.
Su chi sia questo veltro, fiumi di inchiostro sono stati versati: egli è stato identificato con una
figura politica, con un riformatore religioso o, più vagamente, con l’utopia di un movimento
di redenzione dell’umanità, che sarebbe rimasto vago nella mente stessa di Dante mentre
scriveva questi versi. In verità, ciò che Dante dice qui del veltro sembra riferirsi a un personag-
gio preciso, specifico, il quale non sarà avido né di terra né di moneta (un pontefice di spirito
evangelico? un francescano? un signore laico nobilmente disinteressato?) e nascerà tra feltro e
feltro (tra le ruvide stoffe di un ordine religioso pauperista? oppure tra Feltre e Montefeltro?).
Impossibile dare una risposta sicura. Di sicuro c’è che Dante vede l’Italia contemporanea deva-
stata dalla cupidigia, che questa cupidigia sarà sradicata da un redentore, politico e/o religioso,
che restituirà all’Italia la sua salute e che inaugurerà, quindi, una nuova era di bene, individuale
e collettivo. Si inserisce così nella Commedia, fin da questo primo canto, una delle dimensioni
� vv. ��-��
� vv. ���-���
16
Inferno • Canto I
qualificarlo oggettivamente come “ribelle”,estraneo alla vera legge di Dio. Nota laforma impersonale per me si vegna, con perme usato come complemento d’agente (dalfrancese par): “da me”.��� In tutte parti… regge: Dio esercitail suo dominio dappertutto nel creato, ma,in particolare, regge, cioè governa diretta-mente, il Paradiso, come sua città (v. 128) esede del suo regno.��� cu’ ivi elegge: che Dio sceglie per quelluogo, come abitante della sua città.��� la porta di san Pietro: sarebbequella del Paradiso, ma Virgilio ha appenaprecisato che egli non potrà scortare Dantefin lassù. Dante intende, più genericamente,la meta finale del viaggio che sta per intra-prendere sotto la guida di Virgilio.��� color… mesti: i dannati, che Virgilioha rappresentato così dolenti (mesti) dellaloro condizione.
seconda morte come la morte dell’anima,dopo quella del corpo; in questo caso gridavorrebbe dire “lamenta gridando”.���-��� che son contenti nel foco: sonole anime del Purgatorio, condannate apene dolorose (qui indicate genericamentecon foco) ma contente, perché sanno cheattraverso quelle sofferenze si guadagne-ranno il Paradiso.��� A le quai: alle beate genti (v. 120) delParadiso.��� anima: Beatrice, che avrà il compitodi fare da guida a Dante in Paradiso, suben-trando a Virgilio.���-��� quello imperador… si vegna:«il Re del Cielo, Dio, non vuole che ioentri nella sua città, dato che non seguii lasua legge». Ovviamente, la “ribellione” diVirgilio alla rivelazione cristiana era statainvolontaria: egli era nato troppo presto perconoscere il Vangelo. Tanto basta, però, per
��� villa: città, dal francese ville (vedianche scheda a p. 203).��� là onde… dipartilla: «là da dove,all’Inferno, la ’nvidia prima, cioè Lucifero,incarnazione primaria e principale dell’in-vidia, la sprigionò». Si può intendere primaanche come avverbio: là da dove “per laprima volta”, “in origine”.��� per lo tuo me’: «per il tuo meglio, perla tua salvezza».��� per loco etterno: «facendoti attra-versare un luogo eterno, immutabile (cioèl’Inferno)».��� antichi: perché l’Inferno ospita fra idannati tutti i malvagi, fino dai primordidella storia umana.��� la seconda morte… grida: ognidannato invoca una seconda – e definitiva– morte, cioè implora di morire davvero,di sparire, per sottrarsi al dolore delladannazione. Si può anche intendere la
Questi la caccerà per ogne villa,fin che l’avrà rimessa ne lo ’nferno,
111 là onde ’nvidia prima dipartilla.
Ond’ io per lo tuo me’ penso e discerno �che tu mi segui, e io sarò tua guida,
114 e trarrotti di qui per loco etterno;
ove udirai le disperate strida,vedrai li antichi spiriti dolenti,
117 ch’a la seconda morte ciascun grida;
e vederai color che son contentinel foco, perché speran di venire
120 quando che sia a le beate genti.
A le quai poi se tu vorrai salire,anima fia a ciò più di me degna:
123 con lei ti lascerò nel mio partire;
ché quello imperador che là sù regna,perch’ i’ fu’ ribellante a la sua legge,
126 non vuol che ’n sua città per me si vegna.
In tutte parti impera e quivi regge;quivi è la sua città e l’alto seggio:
129 oh felice colui cu’ ivi elegge!».
E io a lui: «Poeta, io ti richeggio �per quello Dio che tu non conoscesti,
132 acciò ch’io fugga questo male e peggio,
che tu mi meni là dov’ or dicesti,sì ch’io veggia la porta di san Pietro
135 e color cui tu fai cotanto mesti».
136 Allor si mosse, e io li tenni dietro.Esercitati
su zte.zanichelli.it
Virgilio guida di Dante…
… che lo segue
prontamente
17
Inferno • Canto I
fondamentali del testo: ovvero il legame strettissimo tra morale e politica, fra salute dell’indi-
viduo (qui, il protagonista smarrito nella selva e ostacolato dalle tre fiere) e salute della collet-
tività (qui, l’Italia devastata dalla lupa). Dunque, non ci si salva da soli, attraverso un itinerario
di semplice conversione interiore: ci si salva tutti insieme, perché i vizi del singolo sono radicati
inevitabilmente nella corruzione della società che lo circonda.
Virgilio guida di Dante…
L’altro vïaggio prospettato da Virgilio è dunque una diversa maniera di aggirare la lupa, ovvero
di compiere un processo di conversione che sarà, però, riflessione non soltanto sul proprio
male individuale, ma sul male del mondo. Virgilio pertanto condurrà Dante attraverso la di-
sperazione dei dannati, che inutilmente si augurano di morire per sempre, maledicendo la loro
sorte, e attraverso le penitenze degli animi purganti, lieti pur nella sofferenza perché sanno
che essa li renderà degni del Paradiso; al quale Paradiso Dante è pure destinato ad ascendere,
ma con una guida più degna di Virgilio (la quale, come sappiamo, sarà Beatrice). A lei Virgilio
affiderà Dante congedandosi da lui perché Dio non permette al poeta pagano l’accesso al suo
regno, le cui leggi egli non poté seguire; beati quelli destinati, invece, a partecipare alla gloria
della Città di Dio!
Il viaggio di Dante svela qui un suo ulteriore carattere, pedagogico e conoscitivo. Per tor-
nare al bene (non solo proprio, ma del corrotto mondo contemporaneo) c’è bisogno di passare
attraverso l’esperienza dettagliata dei peccati che affliggono l’umanità (Inferno), del modo con
cui essi si possono combattere e superare (Purgatorio) e, infine, occorre affidarsi, in positivo,
alla spiegazione dei valori più alti delle virtù cristiane (Paradiso). Virgilio può essere guida di
Dante solo per i primi due segmenti di questo viaggio di istruzione: il Paradiso gli è precluso.
Eppure, pur nell’aperto riconoscimento della propria esclusione e del privilegio concesso, inve-
ce, agli eletti di Dio, Virgilio non sembra ancora toccato dai toni di malinconia che affioreranno
nel Purgatorio. Prevale, si direbbe, la baldanza dell’impresa, la coscienza di un compito co-
munque eccezionale, di una missione da compiere. Quella missione ha i suoi limiti, denunciati
subito fin da ora, ma essi sembrano messi in secondo piano, per ora superati dalla grandezza
del compito che, comunque, si dispiega di fronte a Virgilio e a Dante…
… che lo segue prontamente
Il quale non può che acconsentire prontamente all’invito. Pur di fuggire questo male e peggio,
Dante si affida senza troppo pensare alla sua guida, anzi, la prega, nel nome di quel Dio che
Virgilio non fece in tempo a conoscere, di condurlo pure a destinazione, fino alla soglia del
Paradiso e, per adesso, attraverso la tristezza del primo regno infernale. È un consenso senza
riserve, un gettarsi nell’ignoto di un’avventura della quale, sotto la pressione degli spaven-
ti di questo primo canto, Dante non sembra calcolare per
ora tutti i rischi e le incognite. È nel secondo canto, a
mente un poco più fredda, che cominceranno ad
affiorare le prime esitazioni…
� vv. ���-���
� vv. ���-���
18
Inferno • Canto IP
er
ap
pro
fon
dir
e
Lavorare sul testo
Comprendere e analizzare il testo
La selva oscura
1. argomentare�Spiega che cosa rappresenta il primo canto
dell’Inferno nell’intera Commedia. Perché si può dire che è
“fuori numerazione” rispetto alla numerologia dantesca
incentrata sul “tre”?
2. Qual è il senso allegorico delle terzine iniziali del poema
(vv. �-��)?
Il colle; gli ostacoli alla salita
3. argomentare Tre belve si oppongono improvvisa-
mente a Dante che intende iniziare la salita del colle:
spiega�il significato del loro intervento.
4. Quale valore simbolico ricoprono le fiere e quale eventuale
rapporto ha con la vita morale del Poeta?
5. Il canto presenta allegorie e similitudini: spiega la
differenza tra le due figure retoriche e individua le similitu-
dini facendo riferimento ai versi che le contengono.
Virgilio
6. Come appare Virgilio a Dante? Che cosa nota immediata-
mente il Poeta?
7. argomentare�Virgilio allegoria, Virgilio personaggio:
spiega il complesso ruolo del poeta latino nella Commedia,
Per approfondire
Virgilio medievalePerché Dante sceglie proprio Virgilio come guida per il suo
viaggio oltremondano? Su questa scelta influisce sicuramente
la fama che Virgilio si era acquistato nel Medioevo, non solo di
sommo poeta dell’antichità, ma anche di sapiente, mago e
stregone; non per caso Dante si rivolge a lui appellandolo fa-
moso saggio. E allora ci si può chiedere: come si era arrivati a un
simile stravolgimento della figura storica di Virgilio?
Certamente questo dipese da alcuni elementi già insiti
nella sua poesia: nelle Georgiche, una sensibilità cosmica che
lega l’uomo e le sue opere ai ritmi dell’Universo, ai movimenti
delle stelle, a una Natura intesa quasi in senso mistico e reli-
gioso; nell’Eneide, un afflato profetico che vede nella Roma di
Augusto l’inizio di una nuova era, di pace e di benessere, quasi
un ritorno provvidenziale dell’antica età dell’oro; una visione che
nella IV egloga delle Bucoliche diventa profezia vera e propria,
nell’enigmatica premonizione dell’avvento di un nuovo infante
che, insieme col ritorno di una mistica Vergine, rinnoverà la sto-
ria dell’uomo. Si capisce come quella Vergine – che in Virgilio è
Astrea, la dea della giustizia – e quell’infante – che nell’egloga è
il nuovo nato di un amico – potessero facilmente essere trasfor-
mati, nel Medioevo cristiano, nella Vergine Maria e nel Bambino
Gesù. Tuttavia questo non basta. Ben presto, infatti, si creò nella
tarda latinità un vero e proprio culto di Virgilio come deposita-
rio di ogni sapienza, e non solo come poeta. Già nei Saturnalia
di Macrobio (ca ���-���) tutte le più varie questioni di filosofia,
diritto, oratoria vengono ricondotte ad altrettanti passi delle
opere di Virgilio, che divengono così un vero tesoro di scienza, a
cui attingere come a una vera e propria enciclopedia del sapere.
Decisivi furono poi gli scritti di Fabio Planciade Fulgenzio
(vissuto fra il V e il VI secolo d.C.) che nella sua Expositio Virgi-
lianae continentiae immagina che Virgilio gli appaia per svelargli
il significato segreto dell’Eneide, che al di là del suo senso lette-
rale sarebbe un’immagine allegorica della vita umana. In questo
modo Fulgenzio applicava ai testi pagani l’interpretazione alle-
gorica che i Padri della Chiesa (Agostino, Girolamo) avevano ap-
plicato ai testi biblici. La strada è aperta perché la figura di Vir-
gilio venga svuotata del suo significato storico – e poetico – per
essere piegata a significazioni simboliche, alla ricerca di oscuri
messaggi cifrati che potessero essere letti come prefigurazioni
sia pure approssimative della nuova fede.
Ma il passo decisivo verso un Virgilio mago e negromante è
legato al suo rapporto con la città di Napoli. Secondo Domenico
Comparetti (Virgilio nel Medioevo, ����), tutto nasce quando un
erudito ecclesiastico inglese, Giovanni di Salisbury, testimonia
nel suo Polycraticus (ca ����) come nella città partenopea si rac-
conti che durante un’invasione di mosche Virgilio avesse liberato
la popolazione da quel flagello, costruendo una mosca magica
di bronzo. Più tardi, nel ����, Corrado di Querfurt, segretario di
Arrigo VI, sostiene che il suo signore aveva potuto conquistare
la città perché una sorta di modellino di Napoli in una boccia di
cristallo (opera di Virgilio, dotata di magici poteri di difesa) si era
crepato, perdendo il suo magico valore protettivo.
E via di questo passo: verso la fine del secolo XII Alexander
Neckam parla di talismani (fra cui una sanguisuga d’oro) fabbri-
cati da Virgilio per proteggere Napoli; negli Otia imperialia (ca
����) di Gervasio da Tilbury si favoleggia che Virgilio sia stato
sepolto con un libro di magia sotto la testa; infine, nella prima
metà del Trecento appare nella cerchia del re Roberto d’Angiò
la Cronaca di Partenope, d’ignoto autore, che mette in fila ben
diciassette benefici che Virgilio, in qualità di stregone, avrebbe
operato per la città in cui era stato sepolto: dalla fattura di un
pesce di pietra che, lanciato in acqua, aveva reso pescosissimo il
golfo napoletano, alla fondazione di un orto di erbe magiche sul
Monte Vergine, all’inserimento di un sigillo magico nelle strade
napoletane, capace di tenere lontani vermi e serpenti…
Superfluo osservare la distanza che separa questo Virgi-
lio dal famoso saggio di Dante. È ben vero però che nel canto IX
(vv. ��-��) Virgilio affermerà di essere stato evocato dalla maga
Eritone e di essere stato costretto a scendere nel fondo dell’In-
ferno (e per questo ne conosce la topografia così bene): un par-
ticolare misterioso, sin qui rimasto inspiegato dalla critica dan-
tesca, e che sembra alludere, anche nel Virgilio della Commedia,
a un lato esoterico della sua leggenda che Dante sembra aver
moderato ma, forse, non ignorato.
19
Inferno • Canto I
La
vo
rare
sul
test
o
così come appare già da questo canto. (Ti consigliamo di
leggere attentamente l’analisi del canto.)
8. argomentare Perché Dante sceglie proprio un pagano
come guida in questo viaggio verso la salvezza?
Il veltro
9. argomentare Nel canto incontriamo vari animali
con valenza fortemente allegorica: due in particolare
sembrano essere costruiti con caratteri peculiari che
identificano l’eterna antitesi “bene-male”. Sono la lupa
e il veltro.
Ricerca nei versi questi caratteri e spiega l’antitesi,
facendo attenzione in particolare ai vv. 97-99 e 103-105.
10. argomentare Che interpretazioni critiche sono state date
del veltro e del suo nascere tra feltro e feltro?
Riflettere sulla lingua
11. vv. 7-9: fai la parafrasi della terzina.
12. v. 11 tant’era: che valore ha?
a Finale b Causale c Modale d Consecutivo
13. vv. 22-27: indica i termini di paragone della similitudine.
14. v. 77: che significato assume il termine “dilettoso” nell’e-
spressione dilettoso monte? Trova un sinonimo.
15. v. 128 Oh felice colui cu’ ivi elegge: questa espressione è
a apostrofe b epifonema c ironia
Scrivere per analizzareESAME DI STATO – TIPOLOGIA A
Dopo aver letto i vv. 61-78 di questo canto, elabora un testo
sintetico rispondendo alle seguenti domande. Puoi rispondere
punto per punto oppure costruire un discorso coeso e coerente
che comprenda le risposte alle domande.
Comprensione e analisi del testo
▶ Riassumi brevemente l’apparizione di Virgilio e la sua
autobiografia.
▶ Perché Virgilio rimpiange di essere nato tardi?
▶ Quale rimprovero fa il poeta latino a Dante?
Interpretazione
Elabora una tua interpretazione del perché Dante sceglie
Virgilio come sua guida riflettendo su quanto da te letto nel
commento al canto.
Laboratorio
La foresta, locus horridus
Il tema della foresta, locus horridus, è caro alla letteratura:
lo si trova nelle fiabe, nei poemi cavallereschi, nei romanzi
di epoche diverse. Questo tema è caratterizzato da aspetti
realistici e valori simbolici.
Proponiamo come attività laboratoriale una ricerca da svolgere
a piccoli gruppi, in forma collaborativa, che analizzi il tema della
selva nei testi seguenti.
▶ Dante, Commedia, Inferno, canto XIII, vv. 1-30; 109-129
▶ Giovanni Boccaccio, Decameron, V, 8: la novella di Nastagio
degli Onesti
▶ Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, canto I, vv. 33-34
▶ Alessandro Manzoni, I promessi sposi, capitolo XVII
Ogni gruppo produrrà una sintetica relazione sul tema dato da
esporre ai compagni (anche utilizzando la LIM o un computer
on/offline).
Forum critico
Come va letta la Commedia?Il quesito fondamentale da cui partire prima di leggere il poema dantesco è quello che riguarda
l’interpretazione della sua struttura. Esistono veramente due diverse forme interpretative,
ovvero una differenza tra senso letterale e senso allegorico del poema? Il senso letterale è
fascinoso ma menzognero poiché solo l’allegoria nasconde la verità?
Secondo Benedetto Croce
La struttura dottrinale del poema è scissa dal significato letteralee figurale delle singole immaginiPer Benedetto Croce, che nel suo saggio prende in considerazione i vari metodi interpretativi
dell’opera dantesca dal Medioevo ai suoi tempi (interpretazione dottrinale, estetica, filosofica,
storica e politica), cercare di decifrare l’allegoria della Commedia, da lui definita «una sorta di
criptografia», può essere lecito anche se complesso; ma è illecito unire l’interpretazione allegorica
con quella estetica.
C’ è ragione alcuna per la quale la poesia di Dante debba esser letta egiudicata con metodo diverso da quello di ogni altra poesia?
Parrebbe di sì, a volger l’occhio al severo profilo tradizionale di Dante,poeta, filosofo, teologo, giudice, banditore di riforme e profeta, e a dareascolto ai motti che insistentemente si ripetono su lui, che è detto «gran-
A
Premessa:
la poesia di Dante
va letta in modo
diverso da quella
degli altri poeti
20
Inferno • Canto IF
oru
mc
riti
co
de al pari come uomo e poeta», «grande poeta perché uomo grande», «piùche poeta», e sulla sua Commedia, definita opera «singolare» e «unica» fraquante altre mai si conoscano.
[…] La differenza, che per questa parte è dato porre tra Dante e la ge-neralità degli altri poeti, non è […] logica, ma soltanto quantitativa, perché[…] l’interpretazione «allotria» prende, nei rispetti di lui, grandi dimensioni,assai maggiori che non per altri poeti, per molti dei quali essa è trascurabile etrascurata a segno che quasi pare (pare, ma non è) che non ce ne sia materia.
Cominciò questa interpretazione filosofica ed etica e religiosa fin daitempi di Dante, per opera di notai e frati e lettori d’università, e degli stessifigliuoli del poeta […].
Appartengono al giro di queste indagini – «allotrie», nel senso sopradetto– gli studi sulla filosofia di Dante e su quel tanto, se pur vi fu, che egli nel suogenerale tomismo immise di altre correnti speculative o pensò di proprio; sulsuo ideale politico, e le somiglianze e differenze che presenta verso altri idea-li allora proposti e vagheggiati, sulle vicende della sua vita pubblica e privata,e il variare dei suoi concetti e speranze, e sulla cronologia delle opere e dellesingole parti della Commedia in rapporto alle loro storiche occasioni; sull’e-redità letteraria, classica e medievale, che egli accolse; su quanto egli conobbedella storia passata e della contemporanea; e su quel che credeva reale nei fattia cui alluse, e su quel che stimava semplicemente probabile o addirittura im-maginò pei suoi intenti; sull’allegoria generale e quelle particolari e inciden-tali del poema, e se il fine del poema sia etico-religioso o politico o entrambiquesti fini combinati; e via enumerando e particolareggiando. […]
L’allegoria non è altro, per chi non ne perda di vista la vera e semplicenatura, se non una sorta di criptografia, e perciò un prodotto pratico, un attodi volontà, col quale si decreta che questo debba significare quello, e quelloquell’altro: per «cielo» (scrive Dante nel Convivio) «voglio» intendere «lascienza», e per «cieli» le «scienze», e per «occhi» le «dimostrazioni». E quan-do l’autore di quel prodotto non lascia un espresso documento per dichiara-re l’atto di volontà da lui compiuto, porgendo al lettore la «chiave» della suaallegoria, è vano ricercare e sperare di fissarne in modo sicuro il significato:la «vera sentenza non si può vedere», se l’autore «non la conta», come anchesi avverte nel Convivio. In mancanza della chiave della espressa dichiarazio-ne di chi ha formato l’allegoria, si può, fondandosi sopra altri luoghi dell’au-tore e dei libri che egli leggeva, giungere, nel miglior caso, a una probabilitàd’interpretazione, che per altro non si converte mai in certezza: per la cer-tezza ci vuole, a rigor di termini, l’ipse dixit. […]
Nondimeno, dopo questa doverosa protesta contro il troppo che è trop-po e contro il parziale difetto di metodo, rimane che l’interpretazione allotriadi Dante è non solo legittima, come per qualsiasi poeta, ma per lui ritieneanche un uso particolarmente appropriato.
E legittima altrettanto è l’interpretazione estetica o storico-estetica, il cuidiritto non potrebbe essere, e non è stato, revocato in dubbio se non da coloro,che, di proposito o involontariamente, non ammettono l’arte come una realtàe la trattano quasi parvenza illusoria, risolvendola in altre forme spirituali oaddirittura in concezioni materialistiche. Anch’essa ha la sua lunga storia, checomincia davvero questa volta con Dante, cioè con la teoria ond’egli spiegavae giudicava la poesia e con la definizione che dié di sé medesimo come di poetadella «rettitudine» o di poeta «sacro»; e nel suo processo confluisce con la sto-ria dell’estetica e della critica estetica dal medioevo sino al presente […].
Se questi due modi d’interpretazione [estetica e allegorica] sono ambe-due legittimi, illegittimo invece è il loro congiungimento, quantunque unamolto ripetuta formula di scuola – che qui recisamente si rifiuta – asseriscache condizione e fondamento dell’interpretazione estetica della Commedia
Espansione
del�discorso:
le diverse indagini
allotrie
I tesi:
l’allegoria è
una sorta di
criptografia: se
l’autore non ne
dà una chiave
interpretativa è
inutile cercare di
decifrarla
I argomentazione:
legittimità
dell’interpretazione
allegorica
II argomentazione:
legittimità
dell’interpretazione
estetica
III argomentazione:
le due forme
interpretative non
sono assimilabili
21
Inferno • Canto I
Fo
rum
cri
tic
o
sia la sua interpretazione filosofica, morale, politica e altresì allegorica. Que-sta formula prendeva un sembiante di verità a cagione della falsa identifica-zione che […] soleva farsi dell’interpretazione allotria con l’interpretazionestorica in genere, alla quale si metteva a sèguito quella estetica, concepitacome per sé non istorica e ritrovante nell’altra la sua premessa o la sua basestorica. Ma poiché l’una e l’altra sono, in realtà, a lor modo storiche, cioè ri-spondono a diverse e compiute storie o forme di storia, è chiaro che il con-giungimento richiesto manca del necessario addentellato. La storia della po-esia di Dante, e quella della sua filosofia o della sua politica, hanno radice allapari in tutta la storia che precesse quella creazione estetica, quell’accettazio-ne o riforma di dottrine, quell’azione pratica; ma ciascuna di esse compie, diquella materia storica, una sintesi sua propria […].
Finalmente, e per fermarci alquanto sopra un punto che suol dare luogoalle più tormentose difficoltà, tra le forme d’espressione, o meglio di comu-nicazione e di scrittura, usuali o predilette nel Medioevo, c’era, senza dubbio,l’allegoria, il fare a nascondino, il proporre e sciogliere indovinelli […].
Ma, checché pretendano e vantino gli investigatori e congetturisti delleallegorie dantesche, nella poesia e nella storia della poesia le spiegazioni delleallegorie sono affatto inutili e, in quanto inutili, dannose. […]
Anche se tutte le allegorie di tutte le liriche, e di tutti i luoghi della Com-
media, fossero spiegate e in modo certo, resterebbe poi sempre da interpre-tare quelle liriche e quei luoghi storicamente, prescindendo cioè dalle alle-gorie come inutili e dannose distrazioni, e ricercando il vero «sensospecifico».
E se io dovessi designare in qualche modo l’interpretazione storica che èpropria dell’interpretazione storico-estetica, ossia il momento analitico cheprecede quello sintetico, direi che è l’explanatio verborum, l’interpretazione,largamente intesa, del senso delle parole: senso che, come tutti sanno, si traenon dalla loro etimologia e dalla sequela dei concetti e dei sentimenti chehanno concorso a formarle e che stanno dietro a loro come una sorpassatapreistoria, ma dall’uso generale dei parlanti di un dato tempo, dall’ambientein cui sono adoperate, e si determina e individua poi in relazione alla nuovafrase che è composta di esse e insieme le compone e le crea. Proposizionifilosofiche, nomi di persone, accenni a casi storici, giudizi morali e politici evia dicendo, sono, in poesia, nient’altro che parole, identiche sostanzialmen-te a tutte le altre parole, e vanno interpretate in questi limiti. Nella interpre-tazione allotria non sono più, e non debbono essere, parole, ossia immagini,ma cose. Può darsi che non in tutti i casi si riesca a determinare, in quellaexplanatio verborum, il senso preciso di talune parole, il contenuto morale,filosofico, e, in genere, storico, che in esse vibra; ma lo stesso può accadereper ogni altra parola, perfino di quelle che si dicono di materia comune efamiliare.
E, quando non si riesce a determinarlo con esattezza, permane una mag-giore o minore oscurità; e della «oscurità» di Dante si è molto vociferato edè anzi passato, in proverbio, di essa stranamente esagerandosi l’importanzae l’estensione. L’oscurità di Dante è piuttosto una difficoltà, che viene dall’es-ser la lingua, che egli usò molto ricca e in alcune parti antiquata, e le riferen-ze storiche molteplici e non ovvie, e la terminologia filosofica appartenentea una cultura oltrepassata e nota solo a specialisti; e perciò quella oscurità sischiarisce con un po’ di buona informazione, senza dire che concerne di so-lito punti particolari e secondari. Qualche volta rimane oscurità, o perché ilpoeta sia stato poco attento a evitare equivoci, o perché mancano i docu-menti che la schiarirebbero; e allora l’interpretazione diventa meramentecongetturale, ammettente cioè parecchie possibilità, e non si potrebbe asse-rirla se non per arbitrio. […]
Espansione
del discorso:
l’allegoria nel
Medioevo
II tesi:
inutile e dannoso
decifrare
le allegorie
dantescheArgomentazione
della II tesi:
la necessità di una
interpretazione
storica
I precisazione:
occorre interpretare
il senso delle parole
nell’uso dei parlanti
dell’epoca
II precisazione:
l’oscurità
delle parole si
può chiarire o no
22
Inferno • Canto IF
oru
mc
riti
co
La distinzione e la profonda diversità tra le due interpretazioni, l’esteticae l’allotria, che abbiamo procurato di fermare in esatti termini logici, è sen-tita generalmente, sebbene pensata in modo confuso ed espressa con formu-le improprie. Da quella coscienza o semicoscienza proviene il fastidio che dicontinuo prorompe contro gli allegoristi, gli storicisti, gli aneddotisti, i con-getturisti, e in genere contro i filologi e i «commentatori»; e il proposito chesi forma e l’esortazione che si predica a leggere Dante, gettati via i commen-ti, «da solo a solo». Certo, non si può far di meno, e nessuno ha mai fatto dimeno, dell’aiuto dei commenti nel leggere Dante; ma il consiglio di gettarlivia è buono tutte le volte (e sono assai frequenti) che, invece di fornire i solidati giovevoli alla interpretazione storico-estetica, esibiscono cose inoppor-tune ed estranee: certo, nessuno può leggere Dante senza adeguata prepara-zione e cultura, senza la necessaria mediazione filologica, ma la mediazionedeve condurre al ritrovarsi con Dante da solo a solo, ossia a mettere in im-mediata relazione con la sua poesia. Questa è l’esigenza ragionevole che simanifesta in quel fastidio e in quei propositi, i quali, per altri rispetti, vannodi là dal ragionevole.
Benedetto Croce, La poesia di Dante,in Scritti di Storia letteraria e politica, vol. XVII, Laterza, Bari 1952
Secondo Michele Barbi
Struttura dottrinale e signi�cato letterale-�gurativonon�sono separabiliNon esiste una duplicità di significati nella Commedia: il viaggio nei tre mondi dell’oltretomba non è
menzogna, ma la figurazione fondamentale del poema; la selva, le fiere e Virgilio non nascondono
concetti astratti ma hanno un significato intrinseco, funzionale alla narrazione.
[…] quando, a proposito del I canto, si parla comunemente di allegoria fon-
damentale del poema (e meglio sarebbe chiamarla, semmai, figurazione ini-
ziale), si tira a significazione allegorica troppo di quella che è semplicemen-te espressione parabolica o tropologica, e che appartiene, come tale, al merosenso letterale.
Così, ad esempio, ciò che Dante dice della selva in cui si trovò smarrito èuna semplice maniera di dire figurata per significare il proprio traviamentomorale; e quando dalla figura noi passiamo a vedere, nell’immagine dellaselva, siffatto traviamento, non usciamo affatto dall’ambito del senso lette-rale per entrare in quello allegorico, dacché […] il senso letterale non è lafigura in sé, ma quel che è in essa figurato, vale a dire quello che essa signi-fica. E ciò è tanto vero che, per richiamare lo stesso fatto del traviamento, ilpoeta altrove ha potuto servirsi, senza incongruenza, di altre figure, quandoproprio non lo abbia espresso con la nudità di quello che i retori chiamanolinguaggio proprio […].
Anche altre più complesse figurazioni, le quali pur si collegano in unmodo o nell’altro al senso allegorico del poema, appartengono, in quanto siprendano a sé, al linguaggio parabolico, che Dante ha familiare in confor-mità col gusto del tempo e per la consuetudine con le Sacre Scritture e conle opere ascetiche; e rientrano quindi nel senso letterale. Valga ad esempiola figurazione delle tre fiere che impediscono l’andare su al «bel monte». Sitratta, certo, di impedimenti intrinseci, che si oppongono alla liberazionedell’anima dallo stato di smarrimento morale in cui si trova: e ben videro iprimi interpreti figurato in esse il peccato; ch’è, in fondo, il distacco dell’ani-ma dal Bene sommo a cagione della «concupiscentia carnis», della «concu-piscentia oculorum», e della «superbia vitae», nelle quali si riassume tuttociò che nel mondo ostacola all’uomo «la strada di Dio». […] Dal fatto che
Conclusione:
leggere Dante
«da solo a solo»
B
I tesi:
il canto I non può
essere definito
«allegoria
fondamentale
del poema»
I argomentazione:
molte figurazioni
collegate al senso
allegorico rientrano
nel senso letterale
del poema
23
Inferno • Canto I
Fo
rum
cri
tic
o
il poeta abbia ornato di simboli l’opera sua non ne consegue che essi sienoparti costitutive dell’allegoria fondamentale connaturata, per così dire, allastessa inspirazione del poema: possono, al più, alcuni apparirci come parti-colare illustrazione.
Quale sia il vero senso allegorico nascosto sotto la lettera Dante stesso celo insegna […] nell’ultimo capitolo della Monarchia. Il poeta ha inteso ritrar-re lo stato di smarrimento e di traviamento della società cristiana del suotempo (selva) e mostrarne la causa nella mancanza delle guide che la Prov-videnza assegnò al genere umano quando lo volle redento in Cristo. Ha in-teso proclamare la necessità del ritorno delle sue guide al proprio distintoufficio e che la società, sotto di esse e per opera loro distinta e concorde,riprenda il retto cammino che conduce alla felicità terrena e alla beatitudineceleste (raffigurate nel Paradiso terrestre e nel Paradiso celeste), secondo idue fini posti da Dio alla vita umana. Ha inteso annunziare che il ripristinodelle due distinte guide nella pienezza, ciascuna, dei propri e distinti uffici èprossima: per opera d’un uomo a ciò straordinariamente destinato dallaProvvidenza (raffigurato nel Veltro e nel Dux), il quale caccerà via dal mondola cupidigia (la lupa), corruttrice della vita familiare e civile e politica d’ogniceto sociale, e corruttrice della stessa Chiesa di Cristo, e anzi soprattutto diessa, ne’ suoi organi e ne’ suoi capi […].
Definita e considerata così, l’allegoria fa corpo con la poesia; e viene acostituire, per così dire, l’anima e il succo del poema.
Con che non si dice, e non si vuole intendere che Dante, nel corso del suolavoro, fosse ossessionato dal pensiero di porla presente ed operante in ognisingolo episodio o discorso né che, conseguentemente, al lettore incombal’obbligo di andarla appostando e scovando per ogni dove. E anche se qualchecomplessa figurazione simbolica c’invita a ricercare e a penetrare oltre lalettera, non dobbiamo, neppure in questi casi, abbandonarci alle nostre piùo meno sottili esercitazioni d’ingegno dimenticando quel ch’è sempre l’es-senziale, la poesia; e gioverà anzi contentarsi di arrivare a scoprire, se e inquanto esistano, i legami che congiungono siffatte figurazioni a quella chesola può dirsi l’allegoria fondamentale. D’altronde, neppure bisogna credereche, in un’opera così vasta, non possano esserci parti opache o perché trop-po strettamente legate a dottrine e pregiudizi ormai superati o perché la fan-tasia non è riuscita a far entrare nell’onda dell’ispirazione certi elementi cul-turali o morali.
[…] Al fondo della costruzione egli ha addirittura posto la storia del pro-prio personale smarrimento e dei vani tentativi da lui con le sole sue forzefatti per ritornare su la via retta, e degli impedimenti che si sono opposti, edella Grazia intervenuta a trarlo in salvo e farlo «puro e disposto a salire a lestelle» e degno, infine, della visione di Dio e della Incarnazione redentrice.Anche se rappresentata per via di figure (la selva, le tre fiere, Virgilio, Beatri-
ce, Paradiso terrestre, Paradiso celeste) questa storia fa parte, ripeto, del senso
letterale del poema, ed è errore considerarle come allegorie e, peggio, comel’allegoria fondamentale.
Nell’ambito dell’allegoria – e diciamola pure allegoria iniziale perché ci èdata dai primi due canti presso che tutta o almeno nelle sue linee essenziali– si entra solo in quanto il poeta ha voluto adombrare in se stesso la societàcristiana del suo tempo; e Virgilio e Beatrice assumono il significato dell’au-torità imperiale e dell’autorità pontificia dei quali, l’una con gli argomentidella scienza umana e l’altra con gli insegnamenti della verità rivelata, deb-bono guidare gli uomini per la strada «del mondo» e «di Dio» rispettivamen-te alla felicità temporale ed all’eterna.
Michele Barbi, Problemi fondamentali per un nuovo commento
della Divina Commedia, Sansoni, Firenze 1955
II argomentazione:
il vero senso
allegorico è
strettamente
collegato alla realtà
storica di Dante
II tesi:
allegoria e poesia
sono una sola cosaArgomentazione
della II tesi:
non occorre
comprendere ogni
allegoria
Precisazione:
alla base della
struttura c’è sempre
la storia ovvero il
senso letterale
Conclusione:
l’allegoria «iniziale»
(dei primi due canti)
allude alla società
cristiana del tempo
di Dante
24
Inferno • Canto IF
oru
mc
riti
co
Secondo Erich Auerbach
Le “�gure” della storia, della vita e della concezioneintellettuale�di Dante hanno anche un valoreuniversaleErich Auerbach colloca la Commedia nella concezione figurale, molto diffusa nel Medioevo, in base
alla quale la realtà storico-culturale dell’epoca, tradotta in “figure”, assume un valore più ampio,
potremmo dire di “figure-mito”.
L’ interpretazione figurale o, perché la definizione sia più completa, laconcezione figurale degli avvenimenti ebbe una larga diffusione e una
profonda influenza fino al Medioevo e oltre. La cosa non è sfuggita aglistudiosi; non soltanto opere teologiche che trattano della storia dell’erme-neutica, ma anche le ricerche di storia dell’arte e della letteratura si sonoimbattute in rappresentazioni figurali e le hanno discusse. Ciò vale soprat-tutto, naturalmente, per la storia dell’arte nel campo dell’iconografia me-dievale e per la storia della letteratura nel campo del dramma religiosomedievale.
Ma a quanto pare non si è colto il lato peculiare del problema; la struttu-ra figurale o tipologica o real-profetica non viene nettamente distinta da altreforme, allegoriche o simboliche, di rappresentazione. […] [Abbiamo una]mescolanza di senso della realtà e di spiritualità, per noi così difficilmenteaccessibile, che caratterizza il Medioevo europeo. […]
All’ingrosso si può affermare che in Europa il metodo figurale risale a in-flussi cristiani, quello allegorico a influssi antico-pagani, e anche che il primoè per lo più applicato a soggetti cristiani, l’altro preferibilmente a soggettiantichi. Non sarà neppure sbagliato dire che la concezione figurale è in pre-valenza cristiano-medievale, mentre quella allegorica, che prende per mo-delli autori pagani della tarda antichità o autori non intimamente cristianiz-zati, tende a manifestarsi allorché si rafforzano gli influssi antichi, pagani ofortemente mondani. Ma queste osservazioni sono troppo generali e impre-cise, perché la grande massa di fenomeni in cui per un millennio le civiltà sicompenetrano non ammette ripartizioni così semplici. Ben presto s’inter-pretano figuralmente anche temi profani e pagani […]. Nell’alto Medioevovengono ammessi nell’interpretazione figurale le Sibille, Virgilio e le figuredell’Eneide, e persino personaggi del ciclo bretone (per esempio Galahadnella Queste del Saint Graal), e sorgono i più svariati intrecci di forme figu-rali, allegoriche e simboliche. Tutte queste forme si trovano anche, riferite atemi antichi così come a quelli cristiani, nell’opera che conclude e riassumela civiltà medievale, nella Divina Commedia. Ma vorrei cercare di dimostra-re che in essa le forme figurali sono decisamente prevalenti e decisive pertutta la struttura del poema. […]
Virgilio è stato considerato da quasi tutti gli antichi commentatori comel’allegoria della ragione, della ragione umana e naturale che porta al giustoordine terreno ossia, secondo le idee di Dante, alla monarchia universale. Gliantichi commentatori non trovavano difficoltà in un’interpretazione mera-mente allegorica perché essi non sentivano, come noi, un contrasto fra alle-goria e poesia vera. Gli interpreti moderni si sono spesso opposti a questainterpretazione e hanno messo in luce l’aspetto poetico, umano, personaledella figura di Virgilio, senza tuttavia poterne negare il «significato» e met-terlo in perfetta concordanza con l’aspetto umano […] non c’è alcun aut-autfra senso storico e senso recondito: c’è l’uno e l’altro. È la struttura figuraleche conserva il fatto storico mentre lo interpreta rivelandolo, e che lo puòinterpretare soltanto se lo conserva.
C
Premessa
Tesi:
la struttura figurale
e la struttura
allegorica
nel Medioevo sono
inscindibili
I argomentazione:
l’origine del metodo
figurale e di quello
allegorico e il loro
intrecciarsi
II argomentazione:
allegoria e figuralità
in Virgilio
25
Inferno • Canto I
Fo
rum
cri
tic
o
Agli occhi di Dante il Virgilio storico è in pari tempo poeta e guida. È unaguida come poeta, perché nel suo poema, nel viaggio agli Inferi del giustoEnea, sono profetizzati e celebrati l’ordinamento politico che Dante consi-dera esemplare, la «terrena Jerusalem», e la pace universale sotto l’Imperoromano; perché nel suo poema è cantata la fondazione di Roma, sede pre-destinata del potere temporale e spirituale, in vista della futura missione.Soprattutto egli è una guida, come poeta, perché tutti i grandi poeti poste-riori furono infiammati e ispirati dalla sua opera; […] Virgilio è una guidacome poeta perché al di là della sua profezia temporale ha anche annunciato,nella quarta Egloga, l’ordine eterno e sovratemporale, la venuta di Cristo, chéera tutt’uno col rinnovamento del mondo temporale: sia pure senza sospet-tare il significato delle proprie parole, ma in modo tale che questa luce po-tesse infiammare i posteri. Inoltre egli era una guida come poeta perchéaveva descritto il regno dei morti e quindi era una guida per il regno deimorti, conoscendo la strada. Ma egli era destinato a fare da guida non sol-tanto come poeta, bensì anche come romano e come uomo; egli non possie-de solo la bella parola, non solo l’alta sapienza, ma proprio le qualità che lorendono capace di guidare e che distinguono il suo eroe Enea e Roma in ge-nerale: «iustitia» e «pietas». La piena perfezione terrena, che autorizza edelegge a guidare fino alle soglie della visione della perfezione divina ed eter-na, è impersonata per Dante già nel Virgilio storico, il quale è da lui conside-rato una «figura» per il personaggio, ora adempiuto nell’aldilà, del poe-ta-profeta che fa da guida. Il Virgilio storico è «adempiuto» dall’abitante delLimbo […] Come egli un tempo, da romano e da poeta, aveva fatto discen-dere Enea per consiglio divino nell’oltretomba, affinché egli conoscesse ildestino del mondo romano, come la sua opera era diventata una guida per iposteri, così ora egli è chiamato dalle potenze celesti a una funzione di guidanon meno importante perché non è dubbio che Dante vede se stesso in unamissione importante quanto quella di Enea: egli è chiamato ad annunciareal mondo dissestato l’ordinamento giusto, che gli viene rivelato nel suo cam-mino. E Virgilio è chiamato a mostrargli e a spiegargli il vero ordinamentoterreno, le cui leggi giungono ad esecuzione nell’aldilà, la cui sostanza èadempiuta nell’aldilà – anche nella direzione del loro fine, della comunitàceleste dei beati che egli ha presagito nel suo poema, – ma non fino nell’in-terno del regno di Dio, perché il senso del suo presentimento non gli è statorivelato durante la sua vita terrena e, senza questa illuminazione, egli è mortoda infedele […]
Virgilio non è dunque l’allegoria di una qualità, di una virtù, di una capa-cità o di una forza, e neppure di un’istituzione storica. Egli non è né la ragio-ne né la poesia né l’Impero. È Virgilio stesso. […] Nella Commedia Virgilio èbensì il Virgilio storico, ma d’altra parte non lo è più, perché quello storico èsoltanto «figura» della verità adempiuta che il poema rivela, e questo adem-pimento è qualche cosa di più, è più reale, più significativo della «figura».All’opposto che nei poeti moderni in Dante il personaggio è tanto più realequanto più è integralmente interpretato, quanto più esattamente è inseritonel piano della salute eterna. E all’opposto che negli antichi poeti dell’oltre-tomba, i quali mostravano come reale la vita terrena e come umbratile quel-la sotterranea, in lui l’oltretomba è la vera realtà, il mondo terreno è soltanto«umbra futurorum», tenendo conto però che l’«umbra» è la prefigurazionedella realtà ultraterrena e deve ritrovarsi completamente in essa. In effetticiò che qui si è detto per […] Virgilio vale per tutta la Commedia. Essa è fon-data in tutto e per tutto sulla concezione figurale.
Erich Auerbach, Figura, in Studi su Dante,tr. italiana di M.L. De Pieri Bonino, Feltrinelli, Milano 1963
Precisazione:
il Virgilio storico è per
Dante poeta e guida
Conclusione:
Virgilio nella
Commedia è solo
Virgilio. Tutta la
Commedia si basa
sulla concezione
figurale
26
Inferno • Canto IL’
imm
a�
ine
eil
test
o
L’immagine e il testo
Virgilio: filosofo medievale o poeta classico?Come dobbiamo immaginarci Virgilio? Giovane (il poeta in ef-
fetti morì all’età di �� anni)? Con la barba o senza? Ammantato
dalla toga o, come Vittorio Sermonti ha osato insinuare, nudo,
come tutte le altre anime dell’aldilà?
Nella tradizione figurativa del personaggio si possono notare a
questo proposito due fasi ben distinte. Nella prima, che com-
prende il Medioevo e arriva sino al Rinascimento, Virgilio è rap-
presentato con aspetto venerando (età matura, se non proprio
senile, lunga barba) e con abiti che spesso rimandano al costume
accademico medievale (da qui proviene per esempio il collare di
pelliccia presente in alcune di queste immagini); talvolta il co-
stume appare vagamente orientaleggiante, come di un “mago”
esoterico. Con la riscoperta di Dante alla fine del Settecento
e con il Romanticismo ottocentesco, invece, la raffigurazione
di Virgilio cambia in modo radicale: riportato alla sua realtà di
poeta classico, riacquista la toga romana, la corona d’alloro, e, in
genere, ringiovanisce.
▶ [�] Priamo della Quercia, Divina
Commedia, manoscritto per Alfonso V,
1442-1450. Londra, British Library.
▲ [�] Maestro delle Vitae Imperatorum,
Divina Commedia, manoscritto con
commento di Guiniforte Barzizza,
1438-1450. Pari�i, Bibliothèque
Nationale de France.
▶ [�] Gu�lielmo Giraldi, Divina
Commedia, manoscritto per
Federico da Montefeltro,
1477-1478. Biblioteca
Apostolica Vaticana.
27
Inferno • Canto I
L’im
ma
�in
ee
ilte
sto
Osservare e riflettere
1. Esamina le immagini qui presentate, seguendo
questa griglia di osservazioni: età presumibile;
presenza o meno della barba; costume (classico/
medievale); presenza o meno della corona
d’alloro.
2. Secondo te, quale Virgilio più si avvicina all’im-
magine che poteva averne Dante? Il Virgilio
di Dante ti sembra ancora il Virgilio-mago
del Medioevo (vedi anche la scheda Virgilio
medievale, p.���) o ti sembra che Dante ne
abbia già una percezione storica e filologica più
esatta, basata sulla lettura e sulla assimilazione
letterale dei testi virgiliani?
▶ [�] Sandro
Botticelli, La voragine
infernale, ca 1485.
Berlino,
Kupferstichkabinett.
▼ [�] Gustave Doré,
illustrazione per la
Divina Commedia, 1861.
▲ [�] Eu�ène Delacroix, La barca di
Dante, 1822. Pari�i, Musée du Louvre. ▼ [�] William-Adolphe Bou�uereau,
Dante e Virgilio (particolare), 1850.
Pari�i, Musée d’Orsay.
Purgatorio
397
Purgatorio
IntroduzioneLa clinica dell’anima
L’ esperienza del Purgatorio è, più dell’Inferno e del Paradiso,
un’invenzione dantesca. Anche dal punto di vista teologico,
l’esistenza, la configurazione, la finalità di un locus purgatorius,
ovvero di un luogo di purgazione e purificazione delle anime
dopo la morte, erano state a lungo oggetto di discussione, e
le soluzioni offerte erano, ancora all’epoca di Dante, piuttosto
nebulose. Si badi che solo nel 1254, pochi anni prima della Com-
media, c’era stato un pronunciamento teologico autorevole: una
lettera del pontefice Innocenzo IV, che aveva affermato l’esi-
stenza del Purgatorio richiamandosi a esili evidenze scritturali
e, più che altro, alla tradizione cristiana. Ma appunto, secondo
quella tradizione non era ben chiaro dove fosse, come fosse, e a
che cosa servisse il Purgatorio. In genere, era raffigurato come
un luogo sotterraneo, continguo all’Inferno, a esso assai simi-
le; si disputava se fosse guardato da angeli oppure da demoni;
spesso si pensava che servisse a purificare dai peccati veniali,
che fosse quindi un luogo di perfezionamento dalle minori in-
fermità dell’anima, prima di salire in Paradiso. Dante trasforma
radicalmente la tradizione purgatoriale e, oltre alla topografia
e alla configurazione morale del Purgatorio, inventa una vera e
propria esperienza psicologica, una dimensione interiore “pur-
gatoriale”, a cui conferisce spazio e importanza pari e simmetrici
rispetto alle altre due cantiche. Infatti, il Purgatorio di Dante
è una montagna librata verso il cielo, non un luogo sotterra-
neo; è anzi il calco perfetto dell’Inferno, di cui replica i peccati
in successione inversa (dai più gravi ai più lievi). Non è affatto,
dottrinalmente, una “zona grigia”, riservata ai peccati veniali: il
suo stesso rapporto speculare rispetto all’Inferno ci dice che qui
i peccati sono esattamente gli stessi, e che la sacra montagna
è abitata da peccatori non meno esperti del male di quelli in-
fernali. Orribil furon li peccati miei dice infatti Manfredi nel canto
III; e subito aggiunge: ma la bontà infinita ha sì gran braccia, / che
prende ciò che si rivolge a lei (vv. 121-123).
La differenza, semplice e radicale, è tutta qui. Gli abitanti
del Purgatorio non sono stati migliori di quelli dell’Inferno, ma
si sono pentiti. Ovvero, c’è stato nella loro esistenza, magari
anche soltanto in punto di morte, un momento in cui si sono
affidati al perdono di Dio. Bonconte da Montefeltro dice della
sua morte: nel nome di Maria fini’ (canto V, v. 101): basta il nome
della Vergine, sussurrato in fin di vita, a salvare un’anima. Tanto
che il diavolo venuto a prendere possesso dell’anima di Boncon-
te (il quale evidentemente non era ritenuto uno stinco di santo)
non può che constatare la propria sconfitta. Tu te ne porti di co-
stui l’etterno – egli protesta stizzito contro l’angelo che prende
con sé lo spirito del morto – per una lagrimetta che ’l mi toglie
(vv. 106-107). Una lagrimetta, appunto: tanto è sufficiente a di-
videre dannazione e salvezza, Inferno e Paradiso.
Ma pentirsi non è che l’inizio di un processo. Forse solo noi
contemporanei, così esperti delle vicissitudini e dei traumi della
psiche, possiamo apprezzare appieno la grandiosa moderni-
tà dell’intuizione dantesca. Dante inventa il Purgatorio come
un lungo, penoso e faticoso processo di terapia, di guarigione
spirituale e psicologica. Non basta pentirsi, ovvero decidere di
cambiare, di farla finita col proprio passato. Dante sembra avere
“indovinato” che esiste una durata della psiche, dove anche le
decisioni morali più drastiche e irreversibili hanno però bisogno
di essere coltivate, rafforzate, assunte come parte finalmente
accettata e tranquilla del proprio vissuto. Il Purgatorio è la di-
mensione in cui i peccatori ripensano il loro passato, vengono
a patti con un’identità che non riconoscono più come propria,
soffrono in se stessi le conseguenze di quel passato per disfarse-
ne una volta per tutte. L’Inferno è un ergastolo senza speranza,
in cui si vuole soltanto la punizione del colpevole; il Purgatorio
è una casa di correzione, dove si lavora per la sua riabilitazio-
ne morale. O meglio, è una casa di cura: una clinica dell’anima,
dove i pazienti sono sottoposti a un lento programma di rico-
stituzione dell’identità.
Il Purgatorio è quindi un luogo di passaggio, eminentemen-
te transeunte. Mentre noi abbiamo visto i peccatori infernali
inchiodati al luogo che la giustizia divina assegna loro per l’eter-
nità, tutte le anime del Purgatorio sono pellegrine, in viaggio, in
itinere. Infatti, anche se Dante le incontra nei gironi che meglio
le caratterizzano moralmente, è inteso che tutti i penitenti pas-
sano attraverso tutti i balzi della montagna e ne sperimentano
tutte le pene. Come Dante si muove in ascesa verso la vetta,
dunque, così anch’esse: e questo comune movimento rende
tutta la montagna – e non solo per Dante – un luogo di viaggio
e di trasformazione.
398
Purgatorio • Schema Mappa interattivaPurgatorio
Canti Peccatori Luoghi
lussuriosi
golosi
avari e prodighi
accidiosi
iracondi
invidiosi
superbi
principi negligenti
morti di morteviolenta
pentiti in puntodi morte
morti scomunicati
XXXIII
XXXII
XXXI
XXX
XXIX
XXVIII
XXVII
XXVI
XXV
XXIV
XXIII
XXII
XXI
XX
XIX
XIX
XVIII
XVII
XVII
XVI
XV
XIV
XIII
XII
XI
X
IX
VIII
VII
VI
V
IV
III
II
I
VII CORNICE
VI CORNICE
V CORNICE
IV CORNICE
III CORNICE
II CORNICE
I CORNICE
PORTA DEL PURGATORIO
valletta
II balzo
I balzo
PARADISO TERRESTRE
spiaggia
AN
TIP
UR
GA
TO
RIO
399
Purgatorio
Canto ILuogoAntipurgatorio, spiaggia dell’isola su cui sorge la montagna
CustodeCatone Uticense
A lla fine dell’Inferno, dopo avere faticosamente risalito il
cammino ascoso, ovvero la galleria sotterranea che collega
il centro della Terra all’isoletta del Purgatorio, Dante e Virgi-
lio avevano già intravisto, per un pertugio tondo, un firmamen-
to stellato: le cose belle / che porta ’l ciel. Sì che l’ultimo verso
dell’Inferno suonava così: E quindi uscimmo a riveder le stelle. Il
primo canto del Purgatorio ricomincia da qui, da questa aperta
contemplazione di un cielo stellato. È ben vero che prima di
riprendere il suo racconto Dante deve obbedire alle regole del
poema classico antico, e quindi presentare il suo argomento,
precisare le intenzioni e le ambizioni del suo canto e invocare
la divina protezione delle Muse. Tuttavia, la felice metafora che
egli usa subito, in apertura di canto, per significare l’aprirsi di
un nuovo repertorio poetico, e l’abbandono di quello inferna-
le, fa familiarizzare immediatamente il lettore con l’atmosfera
paesistica e poetica di questo nuovo canto. Per correr miglior
acque alza le vele / omai la navicella del mio ingegno… È una me-
tafora marina, che raffigura la sfida poetica rappresentata dalla
nuova cantica nei termini di una nuova navigazione, avventu-
rosa certo, ma finalmente all’aria aperta, sulla distesa infinita di
nuove acque serene. Questo clima di freschezza marina, questo
senso nuovo di libertà, questa sensazione quasi fisica di poter
respirare finalmente a pieni polmoni caratterizzano tutto que-
sto primo canto purgatoriale. L’Inferno è presto dimenticato,
col suo buio oppressivo, la sua aria soffocante e claustrofobica,
il suo puzzo, la sua colonna sonora dissonante, stridente e la-
mentosa. Adesso siamo in riva all’oceano, sotto un cielo d’alba
azzurro e trasparente come uno zaffiro orientale: in alto brillano
quattro stelle di una costellazione australe sconosciuta; Venere
splende velando col suo fulgore i Pesci, che la seguono da pres-
so. È, davvero, l’alba di un giorno nuovo, e di un nuovo mondo.
Il guardiano di questo nuovo mondo è Catone, che funge da
divino guardacoste dell’isoletta e da “portiere”, per così dire, della
montagna del Purgatorio. Chi è Catone? È, per l’esattez-
za, Marco Porcio Catone, il fiero difensore della
libertà repubblicana che nel 46 a.C., per non
sottoporsi alla tirannia di Cesare, si tolse la
vita a Utica (donde il suo soprannome di
“Uticense”). Dunque un pagano e un suicida a guardia del Pur-
gatorio? La scelta di Dante è audace, ma proprio per questo si-
gnificativa. Scegliendo di porre un personaggio come Catone a
guardia della montagna purgatoriale, Dante vuole concentrare
l’attenzione dei suoi lettori su un elemento, e uno solo, che de-
termina la salvezza dell’anima e costituisce quindi il prerequisito
essenziale del Purgatorio: questo elemento è la libertà, intesa
come valore che, unico, conferisce merito alla vita morale degli
individui. Senza libertà, cioè senza libero arbitrio, non c’è né
bene né male: non c’è etica. Per questo anche un pagano suici-
da, ma suicida per salvaguardare il valore supremo della libertà,
può diventare un modello: un modello esemplare perfino per la
morale cristiana.
Infine, va osservato come anche nel Purgatorio la poesia
di Dante mantiene la sua speciale qualità di poter essere letta
a diversi livelli di significato. In altre parole, anche qui il livello
letterale del racconto si accompagna con un livello allegorico.
Per esempio, le quattro stelle della nuova costellazione australe
significano anche le quattro virtù cardinali (prudenza, giustizia,
fortezza, temperanza), possedute dall’umanità ai suoi primordi,
prima del peccato originale, e poi perdute; Catone stesso è alle-
goria della libertà, il cui esercizio è preliminare per l’accesso al
Purgatorio e alla salvezza; il giunco con cui Virgilio intreccia il cin-
golo penitenziale di Dante è simbolo di umiltà e docile arrende-
volezza; il fatto stesso che Virgilio si rivolga a Catone in qualche
modo sbagliando tono, con un eccesso di cerimonie e di lusinghe,
ci rappresenta il nuovo disagio che la ragione umana (della quale
anche nel Purgatorio Virgilio è figura allegorica) incontra, e incon-
trerà sempre di più, addentrandosi nel mondo della Grazia; dove
non bastano più le risorse dell’intelligenza e della bontà naturale,
ma serve una luce dall’alto che Virgilio non ha potuto ricevere.
Tuttavia la complessità di significato del racconto non alte-
ra né compromette la fascinosa freschezza e l’incanto di questo
esordio. Siamo all’inizio di un itinerario di purificazione interiore,
ricco di profonde implicazioni teologiche e dottrinali; ma
siamo anche all’inizio del viaggio d’esplorazione di un
mondo nuovo, sotto un nuovo cielo, sotto
costellazioni sconosciute.
Lunga la barba e di pel bianco mista
portava, a’ suoi capelli simigliante,
de’ quai cadeva al petto doppia lista.
(vv. 34-36)
Introduzione:traccia 69
Canto:traccia 70
Audio e videosull’app GUARDA!
400
Purgatorio • Canto I
quanto musa della poesia epica, conside-rata la più sublime; anche se il Poeta quisottolinea la sua ambizione a sollevarsialquanto dalla materia infernale, e nondi più; lo stile più alto della Commediasarà infatti riservato alla terza cantica,al Paradiso.�� Dolce color… zaffiro: è soggettodi ricominciò diletto (v. 16); il delicato eprezioso azzurro del cielo (siamo viciniall’alba), simile nel colore e nella traspa-renza a uno zaffiro orientale, è come unristoro per gli occhi e lo spirito di Dante,che hanno dovuto sopportare così a lungola caligine dell’abisso infernale.��-�� che s’accoglieva… al primo giro:«(l’azzurro del cielo), che si diffondeva(s’accoglieva) nel sereno aspetto dell’atmo-sfera (del mezzo, “dell’aria”, che è il fluidomediante il quale la realtà è percepibile),pura fino all’orizzonte (ma c’è chi intendeprimo giro come il cielo della Luna)».
�-�� Ma qui la morta… perdono:«Ma adesso la mia poesia, che era comemorta nel racconto delle pene infernali(dovendo trattare della morte spiritualedei dannati) riprenda vita (resurga), o sacreMuse, dacché sono tutto vostro, e adessoCalliope, in particolare, mi aiuti a elevarealmeno un poco (alquanto) la mia ispi-razione, aiutandomi a continuare il miocanto con quella musica che inferse uncolpo tale alle Piche da farle disperare ditrovare scampo». Dante allude qui allasfida di canto, rivolta alle Muse dalle figliedel re di Tessaglia, Pierio (dette perciòPieridi): quando queste ultime sentirono ilcanto di Calliope, capirono subito non solodi aver perso la gara, ma che non ci sarebbestata indulgenza per la loro presunzione;infatti, esse furono trasformate da Calliopestessa in Piche, ovvero in “gazze” (non acaso, i più ciarlieri fra gli uccelli). Calliopeè esplicitamente menzionata da Dante in
�-� Per correr… sì crudele: Dante usala metafora della navigazione per esprimerein modo figurato il suo lavoro di poeta:la sua ispirazione è come una barchetta(la navicella del mio ingegno); l’iniziodella nuova cantica è un alzare le vele percominciare un nuovo viaggio; la materiapiù serena del Purgatorio è rappresentatada miglior (più chiare e tranquille) acquerispetto al mar sì crudele della navigazioneappena conclusa, cioè il racconto dell’e-sperienza infernale. Secondo i dettamidella retorica antica, che prescriveva lasequenza argomento/invocazione a iniziodi poema, Dante dedica le prime dueterzine (vv. 1-6) alla proposizione del tema,e le due successive (vv. 7-12) all’appello alleMuse, perché lo assistano nella sua nuovafatica. Il racconto vero e proprio riprendesolo al v. 13: Dolce color d’orïental zaffiro…� secondo regno: il Purgatorio, secondorispetto al primo, l’Inferno.
er correr miglior acque alza le vele ☛omai la navicella del mio ingegno,
3 che lascia dietro a sé mar sì crudele;
e canterò di quel secondo regnodove l’umano spirito si purga
6 e di salire al ciel diventa degno.
Ma qui la morta poesì resurga,o sante Muse, poi che vostro sono;
9 e qui Calïopè alquanto surga,
seguitando il mio canto con quel suonodi cui le Piche misere sentiro
12 lo colpo tal, che disperar perdono.
Dolce color d’orïental zaffiro, ☛che s’accoglieva nel sereno aspetto
15 del mezzo, puro infino al primo giro, ☛ Le parole di Dante, p. 400
P Esordio e invocazione
alle Muse
Un altro cielo, altre stelle
LE PAROLE DI DANTE ☛ v. 15
MezzoDante usa più di una volta mezzo, nella Commedia, nel senso di
“aria”, cioè di spazio attraverso cui si propaga la luce, o si rivelano
gli oggetti alla vista. Qui, nel primo canto del Purgatorio, mezzo è
l’atmosfera limpida dell’alba, sgombra di nubi; nella grande parata
allegorica che si svolgerà sulla cima della montagna purgatoriale,
mezzo è la grande distanza che si interpone tra la vista di Dante
e quelli che sembrano, da lontano, sette alberi d’oro – si tratta in
realtà di sette candelabri: Poco più oltre, sette alberi d’oro / falsava
nel parere il lungo tratto / del mezzo ch’era ancor tra noi e loro (Purg.
XXIX, 43-45), cioè “Poco più avanti, la lunga distanza, in linea
d’aria, fra noi e loro, ci faceva sembrare – ma erroneamente – che
stessero avanzando verso di noi sette alberi d’oro”.
In Paradiso, mezzo è l’etera, l’etere, ovvero l’aria attraverso cui
Dante segue l’ascesa verso l’Empireo delle anime trionfanti: Lo
viso mio seguiva i suoi sembianti, / e seguì fin che ’l mezzo, per
lo molto, / li tolse il trapassar del più avanti (Par. XXVII, 73-75),
ovvero “Il mio sguardo seguiva lo spettacolo di quelle apparenze
e lo seguì finché lo spazio interposto fra me e loro, divenuto
troppo, gli impedì di penetrare oltre”; mezzo è anche la profondità
dell’aria nel crepuscolo mattutino: quando ’l mezzo del cielo, a noi
profondo, / comincia a farsi tal, ch’alcuna stella / perde il parere
(Par. XXX, 4-6).
Particolarmente eloquente l’accezione in Par. XXXI, 77-78, quando
Dante spiega che Beatrice, tornata al posto che le spetta nella rosa
dei beati, lontanissima da Dante, non per questo diviene meno
nitidamente visibile all’occhio del suo fedele, visto che lì, nell’Em-
pireo, non v’è mezzo, ossia fluido aereo che s’interponga alla vista:
nulla mi facea, ché süa effige / non discendëa a me per mezzo mista,
cioè “quella distanza non mi era di nessun ostacolo, perché il suo
aspetto non mi arrivava sfocato attraverso lo spessore dell’aria”.
Come sostantivo riferito al fluido aereo interposto (“posto in
mezzo”) tra il nostro occhio e gli oggetti visibili, mezzo non è più
usato nella nostra lingua moderna. Accezioni simili si possono
però trovare quando definiamo l’aria il mezzo attraverso cui certi
fenomeni arrivano alla nostra visione; ma in questo caso mezzo
significa semplicemente “strumento intermediario”.
401
Purgatorio • Canto I
Esordio e invocazione alle MuseLe regole del poema classico prevedevano che il poeta non potesse cominciare a “cantare” senza
un preambolo, cioè dando subito inizio alla storia che voleva raccontare. Il poeta doveva prima e
preliminarmente presentare il suo argomento, magari ragionare un poco del suo stile e delle risorse
espressive di cui intendeva valersi; poi, di norma, doveva invocare un aiuto dall’alto: le Muse, Apollo,
Dio stesso o qualche altro celeste protettore e ispiratore. Nell’Inferno, Dante obbedisce a questa re-
gola non nel primo, ma nel secondo canto: il primo, come abbiamo visto, serviva di prologo a tutto
il poema nel suo insieme, il che permetteva a Dante di iniziare la Commedia con quell’esordio brusco
e folgorante nella sua immediatezza (Nel mezzo del cammin di nostra vita), senza mettere di mezzo
né muse né altro. Ma qui, all’inizio del Purgatorio, Dante si sente in obbligo di cominciare secondo
le regole. Abbiamo quindi, prima che il racconto ricominci, quattro terzine introduttive, nelle quali
Dante annuncia il contenuto della nuova cantica (il secondo regno dell’aldilà, dove gli spiriti si purifica-
no e diventano degni di salire in Cielo), e precisa con esattezza lo scarto stilistico rispetto all’Inferno
appena visitato e raccontato. Quella infernale, infatti, è stata una morta poesì: una poesia “morta”,
non solo perché trattava delle pene dei dannati, “morti” alla grazia di Dio, ma perché la materia, in
qualche modo, contagiava anche lo stile, che era stato uno stile di morte, tetro, orrendo, pauroso;
uno stile di tenebra anche nei suoi frequenti risvolti comici e grotteschi. Adesso quella morta poesì,
dice Dante, deve elevarsi alquanto; anzi, deve risorgere, come da una lunga incubazione tombale;
però, appunto alquanto, cioè soltanto in una certa misura; Dante sa bene che il Purgatorio rappre-
senta nel suo poema una tappa intermedia fra Inferno e Paradiso e che, stilisticamente, l’altezza più
sublime del suo dire poetico è riservata all’ultima cantica. Però già da ora il suo canto osa richiedere
un aiuto decisivo alle Muse, anzi a Calliope, che in quanto patrona dell’epica presiede al livello più
alto di poesia: il distacco dall’Inferno vuole dunque essere reciso. Né è casuale che Dante richieda una
particolare assistenza delle muse e di Calliope: egli aspira infatti, dice, a che le Muse gli prestino quel
suono, cioè quella musica con cui sconfissero le figlie del re Pierio, quando queste poverette cantatrici
osarono sfidarle a una gara di canto poetico, uscendone naturalmente distrutte. Dante leggeva di
questo mito in Ovidio (Metamorfosi V, v. 300 e vv. ss.).
Dunque, questa volta Dante esordisce secondo tutte le regole: presentazione dell’argomento,
messa a fuoco del livello di stile perseguito e invocazione alle Muse. Eppure, queste non sono terzine
scritte soltanto per dovere. La materia e lo stile della nuova cantica sono introdotti da Dante, infatti,
con un vero senso di infinita liberazione, di sconfinato sollievo. Non si tratta, per lui, di passare solo
da un argomento all’altro, da un livello di stile all’altro, bensì di lasciarsi davvero alle spalle l’orrore
dell’esperienza infernale, l’angoscia e l’affanno del peccato e del male, per respirare più liberamente, a
contatto con le prime dolci consolazioni della salvezza. A questo senso di liberazione contribuisce so-
prattutto la prima stupenda terzina del canto, tutta giocata sulla metafora della navigazione. Dante
vuole semplicemente dire che il suo ingegno si accinge ad affrontare un tema più sereno, lasciandosi
alle spalle la lugubre esperienza dell’Inferno: ma, per dirlo, usa la figura della navigazione marina, per
cui la sua ispirazione è una navicella, la nuova materia sono acque più tranquille, la scorsa materia
infernale un mar sì crudele; e l’inizio del poema diventa davvero uno spiegare le vele, all’aria aperta,
respirando a pieni polmoni, per una nuova esaltante avventura. È una splendida metafora, e insie-
me una sorta di messaggio subliminale. Tutto questo primo canto, infatti, si svolgerà sulla spiaggia
dell’isoletta del Purgatorio, alle falde della montagna dove gli spiriti patiscono la loro penitenza. Ma
per ora, Dante sembra evitare la vista dell’incombente scalata: in alto, egli vede solo, per il momento,
lo sconfinato azzurro di un cielo albeggiante.
Il suo sguardo indugerà piuttosto sull’orizzonte dell’oceano che circonda l’isoletta: tutto il primo
canto sarà pervaso dall’aria fresca di una trasparente alba sul mare. La fresca aria marina che i primi
versi, pur entro l’obbligo retorico dell’esordio, insinuavano già per via di metafora.
Un altro cielo, altre stelleL’inizio del racconto è un arpeggio di liquide: DoLce coLoR d’oRïentaL zaffiRo… Si capisce subito che la
musica della nuova cantica sarà altra cosa rispetto alle rime aspre e chiocce dell’Inferno appena abban-
donato. La dolcezza musicale di questi versi, d’altronde, è intonata alla nuova gamma di sentimenti e
di emozioni su cui Dante apre il racconto. Sollievo di essere finalmente uscito dall’aura morta infernale,
che lo aveva afflitto fisicamente (li occhi) e spiritualmente (’l petto, il cuore); commosso piacere (di-
letto) di fronte a un paesaggio che non aggredisce con la sua violenza, ma porge tacito lo spettacolo
della sua bellezza; e silenzio, finalmente, silenzio, dopo l’assordante e stridente cacofonia infernale. E
tuttavia, Dante non è semplicemente tornato sulla Terra, a contatto col cielo, con le acque, con la luce
☛ vv. 1-12
☛ vv. 13-27
402
Purgatorio • Canto I
a li occhi miei ricominciò diletto,tosto ch’io usci’ fuor de l’aura morta
18 che m’avea contristati li occhi e ’l petto.
Lo bel pianeto che d’amar conforta ☛ Le parole di Dante, p. 402
faceva tutto rider l’orïente,21 velando i Pesci ch’erano in sua scorta.
I’ mi volsi a man destra, e puosi mentea l’altro polo, e vidi quattro stelle
24 non viste mai fuor ch’a la prima gente.
Goder pareva ’l ciel di lor fiammelle:oh settentrïonal vedovo sito,
27 poi che privato se’ di mirar quelle!
Com’ io da loro sguardo fui partito, ☛un poco me volgendo a l’altro polo,
30 là onde ’l Carro già era sparito,
Catone a guardia
del Purgatorio
della possibilità di contemplare talecostellazione.�� da loro sguardo: dal guardare loro;sguardo ha valore verbale e loro è comple-mento oggetto.��-�� a l’altro polo… era sparito: versoil polo artico (cioè a sinistra), ossia versoquella zona celeste dove era già tramontatal’Orsa Maggiore.
peccato originale; altro saranno le tre stellevisibili più avanti, nella valletta dei principi –canto VIII, 89-93 – che simboleggiano invecele tre virtù teologali – fede, speranza e carità– pertinenti a una perfezione raggiungibilesoltanto attraverso l’aiuto della grazia divina).��-�� oh settentrïonal… quelle!:l’emisfero settentrionale, o boreale,è vedovo, cioè deserto, essendo privo
�� aura morta: è l’aria di mortedell’Inferno.�� li occhi e ’l petto: ovvero, la vista(i sensi) e l’anima.��-�� Lo bel pianeto… in sua scorta:«Venere, il bel pianeta che ispira l’amore,faceva sfolgorare tutta la parte orientaledel cielo, velando col suo splendore lacostellazione dei Pesci, che le era da presso(ch’erano in sua scorta)».��-�� e puosi mente… polo: «e rivolsila mia attenzione al polo antartico (altro,rispetto a quello artico, o delle terreemerse)». È quanto Virgilio ha spiegatoin Inf. XXXIV, 112-126. Dante dunque sirivolge a una parte del firmamento ignotaall’umanità, come subito non manca di sot-tolineare; quattro stelle… prima gente:Dante vede una costellazione non mai vistada alcuno, tranne che da Adamo ed Eva(la prima gente), innanzi che essi fosseroscacciati dal Paradiso Terrestre. Si trattadi una costellazione allegorica, simboleg-giante le quattro virtù cardinali (prudenza,giustizia, fortezza, temperanza), di deri-vazione platonica ma incorporate nellamorale cristiana (e dunque emblema diuna perfezione umana, sia pure perduta col
LE PAROLE DI DANTE ☛ v. 19
ConfortaQui significa “incoraggiare”, “istigare”, “sollecitare”, ma Dante usa il
verbo in una vasta estensione di senso: “consolare”: nulla speranza
li conforta mai, / non che di posa, ma di minor pena (Inf. V, 44-45);
“rianimare”: Ma qui m’attendi, e lo spirito lasso / conforta e ciba di
speranza buona (Inf. VIII, 106-107); “risollevare”, “riscattare”: E se di
voi alcun nel mondo riede, / conforti la memoria mia (Inf. XIII, 76-77);
“rinfrancare”, e specialmente “riscaldare”: come ’l sol conforta / le
fredde membra che la notte aggrava (Purg. XIX, 10-11). Si tratta
comunque pressoché di sinonimi, tutti derivanti dal latino ecclesia-
stico confortare, una voce semidotta che valeva “render forte”, da
fortis, “forte”.
L’uso antico è coerente con quello dantesco, e il significato
più specifico di “incoraggiare”, “istigare”, “sollecitare” è pure
ampiamente diffuso. Così Petrarca nel Canzoniere (XXXVII): «tal
ch’io non penso udir cosa già mai / che mi conforte ad altro che
a trar guai», “che mi solleciti ad altro che a lamentarmi pietosa-
mente”; Poliziano nel suo Orfeo: «Conforto e’ maritati (“i mariti”)
a far divorzio, / e ciascun fugga el feminil consorzio»; Tasso nella
Gerusalemme liberata (IX, 16): «Qui fe’ cibar le genti, e poscia d’alto
/ parlando confortolle (“le incitò”) al crudo assalto».
Oggi, tuttavia, di quella antica gamma di significati rimane nell’uso,
sostanzialmente, quello di “consolare”; più raro, ma non obsoleto,
quello di “incoraggiare” (per esempio: «Le tue parole mi confortano
a continuare nella mia battaglia», e simili).
403
Purgatorio • Canto I
delle stelle. Dante si trova adesso, non dimentichiamolo, agli antipodi di Gerusalemme, cioè in posizio-
ne esattamente rovesciata rispetto alla nostra, di abitanti dell’emisfero boreale: l’emisfero “orientato”
secondo la direzione di Satana, come si è visto nell’ultimo canto dell’Inferno. Adesso Dante è, invece,
orientato nella direzione giusta, quella verso Dio, quella originariamente pensata e voluta dal Creatore
per il genere umano. Lo spettacolo naturale intorno a Dante non è dunque, semplicemente, bellissimo:
la trasparenza dell’aria azzurrina, pura, senza una nuvola, sino all’orizzonte; lo sfolgorio di Venere che
sta per tramontare, ma ancora così brillante da velare la luce della costellazione dei Pesci, che la segue
da vicino nel firmamento (e anche qui, che arpeggio: Lo beL pianeto che d’amaR confoRta / faceva tutto
RideR L’oRïente, / veLando i Pesci); la nuova, splendida costellazione australe, che al confronto fa sem-
brare così sguarnito il nostro cielo di settentrione… Queste non sono bellezze semplicemente naturali,
contemplate dall’occhio di un viaggiatore appena scampato da un viaggio terribile, e grato e felice di
essere tornato a casa, in salvo. Dante non è a casa. Questo non è il suo emisfero, e quello non è il suo
firmamento; la nuova costellazione australe, col suo fascino sconosciuto, è il simbolo più evidente che
Dante è approdato in un paesaggio seducente, ma “altro”; veramente, in un mondo nuovo. E infatti,
le quattro nuove stelle australi non sono state viste mai fuor ch’a la prima gente: ovvero, nessuno ha
mai visto questo paesaggio dalle origini della creazione, da Adamo ed Eva in poi. Insomma, Dante
sta contemplando il paesaggio della Genesi, dei primi giorni dell’umanità, prima del peccato che ci
ha relegato, con Satana, nell’emisfero “sbagliato”. La straordinaria freschezza della visione, la purezza
dell’aria, la meraviglia di Dante di fronte alle nuove stelle, la sua commozione di fronte al brillare tacito
degli astri non sono dunque da leggersi come semplici notazioni o emozioni paesistiche. In esse c’è,
invece, una profonda risonanza teologica e religiosa. In questa tappa del suo viaggio, è come se Dante
avesse compiuto uno straordinario viaggio nel tempo; come se la Provvidenza gli concedesse, questa
volta, l’immenso privilegio di sentirsi come un nuovo Adamo, che contempla stupito le meraviglie di un
creato appena uscito, innocente e incontaminato, dalle mani del suo creatore.
Ma purtroppo, il ritorno all’innocenza primitiva non è così semplice. La storia dell’umanità si ri-
presenta subito, col suo carico problematico e inquieto, attraverso l’ingresso in scena di Catone, il
primo personaggio del Purgatorio.
Catone a guardia del PurgatorioDistogliendosi dalla contemplazione delle nuove stelle, e girandosi un poco verso l’altro polo, a sini-
stra, là dove la familiare costellazione dell’Orsa Maggiore era già tramontata, Dante si accorge della
presenza, vicino a lui, di un veglio solo: un vegliardo solitario, d’aspetto venerabile. La barba fluente, i
lunghi capelli che cadono sul petto in doppia lista, il loro colore misto di bianco gli danno un aspet-
to solenne, sacrale: potrebbe essere un sacerdote, un mago o un antico saggio. Lo splendore delle
quattro stelle australi illumina in pieno il suo volto, rischiarandolo non meno di quanto farebbe la
luce stessa del sole.
E qui conviene, ancora una volta, soffermarsi sulla compresenza, nel testo di Dante, di significati e
di piani di lettura diversi. Infatti, le quattro stelle della sconosciuta costellazione australe, che l’umanità
caduta nel peccato non ha mai visto, sono non soltanto un elemento del paesaggio, ma significano,
allegoricamente, le quattro virtù cardinali (prudenza, giustizia, fortezza e temperanza), che la teologia
cristiana aveva ereditato dalla filosofia di Platone, e incorporato, come caratteristiche di una moralità
puramente umana, preparatoria alla perfezione della Grazia. Di conseguenza, il fatto che il veglio solo
sia così vividamente illuminato dal loro splendore, viene a dire che egli era in possesso di quelle virtù in
sommo grado: che, insomma, egli era un esemplare rappresentante del livello di moralità che l’uomo
può attingere da solo, autonomamente, senza il soccorso divino. Allo stesso tempo, il fatto che le quat-
tro stelle australi risplendano come ’l sol ci dice che in questo vegliardo solitario la perfezione umana
era arrivata a un tale ammirevole grado da toccare, quasi, la perfezione infusa dalla grazia divina (sim-
boleggiata, fin dal primo canto dell’Inferno, dalla luce del sole). Il seguito del testo ci dirà chi è questo
vecchio misterioso e ci spiegherà la sua altezza morale. Ma fin d’ora si ripresentano anche in Purgatorio
la speciale densità del testo dantesco e la possibilità di leggerlo a vari livelli di significato. Soprattutto,
anche qui va osservato che l’allegoria non predetermina il testo, non condiziona schematicamente il
racconto ma, semmai, lo arricchisce in profondità. Così quelle quattro stelle saranno anche il simbolo di
prudenza, giustizia, fortezza e temperanza, ma mantengono intatto il loro fulgore e la loro seduzione
visiva. Anzi, in questo caso l’allegoria sembra non tanto “aggiungersi” alla realtà della narrazione, ma
incrementare quella realtà: perché – come sappiamo noi oggi – una costellazione di quattro stelle c’è
davvero, nel firmamento australe, ed è la Croce del Sud: una realtà cosmologica che Dante stavolta ha
addirittura indovinato, sulla scorta delle sue intenzioni simboliche e allegoriche.
☛ vv. 28-48
404
Purgatorio • Canto I
vidi presso di me un veglio solo,degno di tanta reverenza in vista,
33 che più non dee a padre alcun figliuolo.
Lunga la barba e di pel bianco mistaportava, a’ suoi capelli simigliante,
36 de’ quai cadeva al petto doppia lista.
Li raggi de le quattro luci santefregiavan sì la sua faccia di lume,
39 ch’i’ ’l vedea come ’l sol fosse davante.
«Chi siete voi che contro al cieco fiumefuggita avete la pregione etterna?»,
42 diss’ el, movendo quelle oneste piume.
«Chi v’ha guidati, o che vi fu lucerna,uscendo fuor de la profonda notte
45 che sempre nera fa la valle inferna?
Son le leggi d’abisso così rotte?o è mutato in ciel novo consiglio,
48 che, dannati, venite a le mie grotte?».
al vegliardo. Va ricordato che secondoLucano (Farsaglia II, vv. 373-374) Catone,dall’inizio della guerra civile, si era lasciatocrescere capelli e barba, come si faceva aRoma in periodo di lutto.��-�� Li raggi… davante: lo splendoredella costellazione appena scoperta daDante investe in pieno il volto di Catone,come se fosse il sole a illuminarlo. Allego-ricamente, significa che Catone possiedepienamente le virtù cardinali (simboleg-giate dalle quattro stelle della costellazioneaustrale), tanto che esse, pur appartenentialla perfezione puramente umana dei nostriprogenitori, gli conferiscono una luce dimoralità simile a quella irradiata dal soledella grazia divina. Insomma, pur pagano,Catone era moralmente perfetto, come losarebbe stato se fosse stato cristiano.�� contro al cieco fiume: risalendo ilruscelletto sotterraneo che, in effetti, haguidato Dante e Virgilio dalla burellainfernale (Inf. XXXIV, 127-132) al tondopertugio attraverso cui sono emersi sullaspiaggia del Purgatorio.�� la pregione etterna: l’Inferno.�� movendo quelle oneste piume:nell’atto del parlare, la venerabile barba(oneste piume) di Catone si muove,seguendo le espressioni del volto.�� che vi fu lucerna: «che cosa vi fecelume, vi guidò».��-�� Son le leggi… grotte?: Catone,rigido guardiano delle leggi purgatoriali,registra subito l’irregolarità della situazione:«Forse le norme infernali (le leggi d’abisso)non valgono più (cioè: non si giudica e sicondanna più, all’Inferno, come d’uso)?O forse in Cielo si è cambiata idea, tanto dapermettere che dei dannati salgano su allegrotte, alle rocce della sacra montagna (mie,dice Catone, perché affidate complessiva-mente alla sua giurisdizione)?».
decise e prese, doveva di necessità morirepiuttosto che sopravvivere per vedere ilvolto del tiranno”). Anche nelle altre operedi Dante Catone è ricordato per la sua infles-sibilità morale: nel De monarchia (II, v, 15)il suo suicidio è definito «illud inenarrabilesacrifitium severissimi vere libertatis tutorisMarci Catonis» (“quel famoso inenarra-bile sacrificio di quel veramente rigorosis-simo paladino di libertà, Marco Catone”),e si collega esplicitamente il gesto estremodi Catone al suo amore per la libertà:«quanti libertas esset ostendit dum e vitaliber decedere maluit quam sine libertateremanere in illa» (“quanto valesse la libertàlo mostrò preferendo uscire di vita da uomolibero, piuttosto che rimanervi senza libertà);nel Convivio il suo volontario sacrificio vieneaddirittura visto come analogo a quello diCristo, anch’egli vittima volontaria per ilriscatto e la libertà morale dell’umanità:«quale uomo terreno più degno fu di signi-ficare Dio che Catone?» (IV, xxviii, 15). Èchiaro che Dante vede in Catone l’emblemadella libertà morale e della difesa del liberoarbitrio, due aspetti indispensabili per poterparlare di una vita eticamente impostata;non a caso tutti questi primi canti insistonosul motivo della salvezza come scelta liberadell’individuo, magari anche solo in puntodi morte. Comunque l’opzione di affidarea un pagano, e per di più suicida, la guardiadell’intero Purgatorio rimane altamenteanticonformista.��-�� degno… alcun figliuolo: ilvegliardo sembrava all’aspetto (in vista)degno di tanta reverenza, che nessun figlione deve di più a suo padre.�� a’ suoi capelli simigliante: dunqueanche i capelli, come la barba, erano mistidi pel bianco, brizzolati.�� de’ quai… doppia lista: due lungheciocche di capelli scendevano sul petto
�� un veglio: un vegliardo. È MarcoPorcio Catone, il fiero oppositore di Cesarein nome delle tradizioni repubblicane diRoma; vista perduta la sua causa, si suicidòa Utica, in Africa, nel 46 a.C., all’età diquarantotto anni (quindi non era proprioun veglio, ma Dante lo presenta tale peraccentuare la sua venerabile autorevolezza).Catone compariva nell’Eneide, sullo scudodi Enea, sul quale si vedevano «secretos…pios, his dantem iura Catonem»: “i giustiappartati per conto loro, e Catone che davaloro le leggi” (Eneide VIII, v. 670). Tutte lefonti classiche conosciute da Dante eranounanimi nel sottolineare l’eccezionalitàmorale del personaggio: nella FarsagliaLucano lo apostrofa «parens verus patriae,dignissimus aris, / Roma, tuis» (“vero padredella patria, degnissimo, o Roma, dei tuoialtari”; IX, vv. 601-602) e celebra in luil’eroismo della sconfitta («victrix causadeis placuit, sed victa Catoni»: “la causadei vincitori piacque agli dèi, ma la causadei vinti a Catone”, I, v. 128); Cicerone (Deofficiis I, 112) proclama la sua superioritàmorale, che rende il suo suicidio un atto nondi rinuncia e di viltà, ma di finale, estremacoerenza: «ceteris forsan vitio datum essetsi se interemissent, propterea quod levioreorum vita et mores fuerunt faciliores;Catoni vero cum incredibilem naturatribuisset gravitatem, eamque perpetuaconstantia roborasset, semperque inproposito susceptoque consilio permansisset,moriendum ei potius quam tyranni vultusadspiciendus fuit» (“ad altri forse il fatto diessersi tolti la vita sarebbe stato attribuito amancanza, poiché la loro vita fu più frivola ei costumi più corrivi; ma Catone, avendoglila natura donato un’incredibile gravità dicarattere, e avendola egli rafforzata conperpetua determinazione, ed essendorimasto fermo nelle sue posizioni, una volta
405
Purgatorio • Canto I
Il veglio si rivela subito personaggio rigido, legalista, turbato custode delle regole. Non dice chi è,
non chiede chi sono i due che si guardano intorno, evidentemente sperduti, sulla spiaggia del Pur-
gatorio. Sua unica preoccupazione, il rispetto della legge: avendo scambiato Dante e Virgilio per due
anime dannate, emerse dall’abisso (come vedremo, le anime purganti giungono sulla spiaggia per
tutt’altra strada), egli chiede come siano evasi dalla pregione etterna dell’Inferno; come hanno fatto
a risalire il cieco fiume (ovvero, il fiumicello sotterraneo che effettivamente Dante e Virgilio hanno
seguito, dalle viscere della terra sino all’aria aperta); chi li ha guidati fuori dal buio infernale. E poi:
che cosa vuol dire che due dannati approdano sulla spiaggia del Purgatorio? Forse che le leggi d’abisso
non funzionano più? Forse che in Cielo si è deciso di abolire l’assoluta incomunicabilità tra Inferno
e Purgatorio? Così che dei dannati, dice il veglio, possano accedere a le mie grotte, cioè alla rocciosa
montagna che cade sotto la mia giurisdizione?
Il vecchio che parla non è né un sacerdote né un mago. È, invece, un guerriero e un uomo politico
di Roma antica: Marco Porcio Catone, l’irremovibile avversario di Cesare, il paladino irriducibile della
causa repubblicana, suicida a Utica nel 46 a.C., quando si rese conto che ormai la vittoria del suo av-
versario era inevitabile, che Roma sarebbe caduta sotto un tiranno e avrebbe dovuto rinunciare alla
sua libertà. Dante ne fa, qui, il guardiano della spiaggia purgatoriale e, quindi, di tutto il Purgatorio;
una sorta di divino guardacoste, incaricato della prima accoglienza delle anime purganti e del loro
primo sommario smistamento.
Alla prima, può stupire che Dante abbia scelto un simile personaggio per un simile incarico. Le
controindicazioni sono parecchie: Catone era un pagano, vissuto prima di Cristo (non dovrebbe
starsene con gli altri spiriti magni nel Limbo?); Catone era nemico di Cesare, quindi del fondatore
dell’Impero romano, che Dante crede provvidenziale e voluto da Dio stesso per la propagazione della
fede cristiana (non dovrebbe Catone essere condannato per questo? non lo sono, per questo, Bruto
e Cassio? E d’accordo che essi sono puniti in quanto traditori di un benefattore, mentre Catone e
Cesare erano aperti nemici: ma avere accanitamente contrastato la nascita dell’Impero, attraverso
l’avversione somma per l’uomo della Provvidenza, non è mancanza o peccato o cecità da prendere
in considerazione?). Infine, Catone muore suicida: non dovrebbe stare nella selva dell’Inferno in com-
pagnia di Pier delle Vigne (canto XIII)?
Dante poteva contare su solidi appoggi teologici, per giustificare la sua scelta. Sia sant’Agostino che
san Tommaso, infatti, non solo ammettevano in casi eccezionali la liceità del suicidio, ma lo considera-
vano un atto moralmente meritevole (Agostino, in particolare, arrivava ad ammirarlo come exemplum
fortitudinis, “esempio di fortezza morale”, e di sovrano disprezzo della morte). Ma qui Dante porge
ascolto soprattutto alle sue fonti classiche (principalmente Lucano e Cicerone, ma anche Virgilio), le
quali gli consegnavano, con unanimi espressioni di lode, un Catone campione di gravità, di profondità
e serietà morale, di rigida devozione ai suoi principi morali; un Catone eroe della morale stoica, quella
che, nella civiltà antica, più si era avvicinata alla morale cristiana, e che Dante stesso, nel Convivio (IV, vi)
presenta con reverente ammirazione: «Furono filosofi molto antichi […] che videro e credettero questo
fine della vita umana essere solamente la rigida onestade; cioè rigidamente, sanza respetto alcuno
la verità e la giustizia seguire, di nulla mostrare dolore, di nulla mostrare allegrezza, di nulla passione
avere sentore. E diffinirono così questo onesto: “quello che, sanza utilitade e sanza frutto, per sé di ra-
gione è da laudare”. E costoro e la loro setta chiamati furono Stoici, e fu di loro quello glorioso Catone».
L’eroismo di Catone, che rinuncia alla vita in nome della libertà e della fedeltà ai propri principi, la vince
dunque su tutto e trasforma il suicidio da atto peccaminoso a gesto esemplare di intransigenza morale.
In questo senso, in quanto paladino irriducibile di libertà, egli è ben adatto a guardare l’approdo costie-
ro del Purgatorio. Il Catone storico, infatti, si era tolto la vita per sottrarsi alla schiavitù della tirannide di
Cesare: il suo era stato soprattutto un gesto politico. Dante però vi legge un significato più alto, cioè la
difesa della libertà come libero arbitrio, come dominio dell’uomo sulla propria esistenza e sul corso della
propria vita morale. Catone guardiano del Purgatorio, in definitiva, incarna la linea di demarcazione
che divide la dannazione dalla salvezza: la quale si acquista solo attraverso una libera scelta del bene.
Detto questo, non si può non confessare, tuttavia, un qualche stupore per la decisione dantesca di
affidare a un personaggio come Catone un compito così esemplare, proprio sulla soglia del Purgatorio,
cioè dell’itinerario di salvezza delle anime. Né si può pensare che Dante non abbia calcolato questo ef-
fetto di stupore, e lo sconcerto iniziale dei suoi lettori. Ma evidentemente proprio questo egli persegue:
lo stupore, lo sconcerto, l’apparenza paradossale della sua scelta. Attraverso il suo anticonformismo,
qui Dante intende sottolineare proprio la potenza radicale del suo messaggio: non si va in Purgatorio,
e poi in Paradiso, se non si è esercitata la propria libertà; magari in grado anche eroico, magari fino a
disprezzare, stoicamente, non la vita (come i suicidi del canto XIII dell’Inferno), ma la morte.
406
Purgatorio • Canto I
Lo duca mio allor mi diè di piglio, ☛e con parole e con mani e con cenni
51 reverenti mi fé le gambe e ’l ciglio.
Poscia rispuose lui: «Da me non venni:donna scese del ciel, per li cui prieghi
54 de la mia compagnia costui sovvenni.
Ma da ch’è tuo voler che più si spieghidi nostra condizion com’ ell’ è vera,
57 esser non puote il mio che a te si nieghi.
Questi non vide mai l’ultima sera;ma per la sua follia le fu sì presso,
60 che molto poco tempo a volger era.
Sì com’ io dissi, fui mandato ad essoper lui campare; e non lì era altra via
63 che questa per la quale i’ mi son messo.
Mostrata ho lui tutta la gente ria;e ora intendo mostrar quelli spirti
66 che purgan sé sotto la tua balìa.
Com’ io l’ho tratto, saria lungo a dirti;de l’alto scende virtù che m’aiuta
69 conducerlo a vederti e a udirti.
Or ti piaccia gradir la sua venuta:libertà va cercando, ch’è sì cara,
72 come sa chi per lei vita rifiuta.
Tu ’l sai, ché non ti fu per lei amarain Utica la morte, ove lasciasti
75 la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara.
Non son li editti etterni per noi guasti,ché questi vive e Minòs me non lega;
78 ma son del cerchio ove son li occhi casti
Virgilio introduce Dante:
libertà va cercando…
viaggio di Dante, che è veramente un viaggiodi affrancamento dalla schiavitù del vizio edel peccato, verso il bene, scelto e accolto inpiena libertà e responsabilità.��-�� ove lasciasti… sì chiara: «doveti spogliasti della veste del tuo corpo,quel corpo che nel giorno del Giudizio(al gran dì), una volta risorto, sarà cosìluminoso».�� per noi guasti: guastati, compromessida (per d’agente, come par francese) noi;Virgilio spiega che il viaggio di Dante noninfrange le leggi dell’aldilà, come Catonesembrava temere: tra Inferno e Purgatorioc’è ancora totale incomunicabilità, perchéquesti vive e Minòs me non lega (v. 77),ovvero Dante è vivo, quindi non sottopostoalla disciplina degli spiriti dell’oltretomba,e Virgilio proviene dal Limbo, un cerchio,come si è visto (Inf. IV), che è sì il primodell’Inferno, ma precede il giudizio diMinosse e comprende propriamente nondannati, ma color che son sospesi (Inf. II, 52).��-�� ma son del cerchio… ti piega:Virgilio fa appello all’amore di Catoneper la moglie, Marzia, la quale si trovaanch’essa nel Limbo. In particolare, egli
poco tempo a volger, cioè a precipitarlonella perdizione.�� lui: a lui, dativo; la gente ria: i malvagi,i dannati dell’Inferno.�� che purgan… balìa: «che si purificanosotto il tuo governo». Virgilio enfatizza unpoco, per cortesia, le funzioni di Catone,promuovendolo a “capo” di tutto ilPurgatorio.�� l’ho tratto: «l’ho condotto fin qui».��-�� de l’alto scende… a udirti: Virgilioriconosce umilmente che, senza l’aiuto diun potere (virtù) che discende dal Cielo, eglinon sarebbe in grado di guidare Dante nelsuo viaggio; d’altra parte, continua a enfa-tizzare l’importanza di Catone, presentandoil pellegrinaggio di Dante come avente perscopo di arrivare a vederlo e udirlo.��-�� libertà va cercando… rifiuta:Virgilio continua a ingraziarsi Catone,richiamando il suo suicidio come esempiodi amore per la libertà; quella libertà sì cara,così preziosa, che Dante sta cercando diconseguire (vedi anche scheda a p. 412).Ma al di là della volontà di accattivarsi lasimpatia del rigido custode del Purgatorio,Virgilio coglie con esattezza il senso del
�� reverenti… e ’l ciglio: Virgilio induceil suo discepolo ad abbassare in segno direverenza le gambe, inginocchiandosi, e losguardo.�� lui: a lui (comune nella lingua antica,per il dativo); Da me non venni: Da mestesso non vegno, aveva detto Dante difronte a Cavalcante (Inf. X, 61); in tutt’edue i casi si sottolinea che Virgilio e Dantedevono il privilegio dell’eccezionale viaggioalla grazia divina, non a iniziative personali.�� donna: Beatrice.�� de la mia compagnia… sovvenni:«portai a costui il soccorso della miacompagnia».��-�� Ma da ch’è… si nieghi: «Ma vistoche è tuo desiderio che sia spiegata piùprecisamente la nostra condizione, comeessa è veramente, non può essere che il miodesiderio, a sua volta, si neghi a te».�� Questi non vide… sera: Dante non èmorto, e quindi la sua presenza, per quantoeccezionale, non infrange le leggi d’abisso.Ma nei versi successivi la morte corporalesi muta in morte spirituale, alla quale Dantefu così vicino per la sua follia, cioè per lasua cecità morale, che ci sarebbe voluto
407
Purgatorio • Canto I
Virgilio introduce Dante: libertà va cercando…Di fronte al piglio severo di Catone, Virgilio adotta, e fa adottare a Dante, un atteggiamento parti-
colarmente docile e remissivo. Fa inginocchiare Dante; gli fa abbassare lo sguardo in segno di reve-
renza; quindi si sofferma a spiegare, con dovizia di particolari, la specialissima situazione sua e del
suo protetto.
Si ha l’impressione, a dirla schietta, che Virgilio non abbia letto bene le sue fonti, ovvero, che
non conosca, o non abbia studiato come si deve, il personaggio di Catone come era stato presen-
tato negli autori latini sopra rammentati. Virgilio sembra non ricordarsi che Catone è un carattere
rigido, tutto d’un pezzo; uno stoico, il cui ideale era la devozione alla virtù e il controllo severo –
fino alla soppressione, almeno apparente – delle passioni. Invece, Virgilio gioca tutto il suo discorso
sull’affettività, sui sentimenti; si abbandona a un tono lusinghiero, quasi mellifluo, che non a caso,
come si vedrà subito, suscita una replica assai tagliente da parte di Catone. Insomma, Virgilio, al suo
esordio in Purgatorio, sbaglia clamorosamente registro. «Non sono venuto qui di mia iniziativa; una
donna del Paradiso scese dal cielo per affidarmi la guida di questo che io sto accompagnando. Ma
visto che tu desideri spiegazioni ulteriori, figuriamoci se mi posso sottrarre a quest’obbligo. Questi
che è con me non è ancora morto; morto, ma spiritualmente, lo era quasi, se non si interveniva in
tempo. Io sono stato inviato da lui per salvarlo, e davvero non c’era altro modo. Gli ho fatto vedere
tutti i dannati; adesso vorrei mostrargli quegli spiriti che si purificano, qui in Purgatorio, sotto il tuo
governo. Come ho fatto per garantirgli questo viaggio sarebbe lungo da spiegare, ti basti sapere
che un potere dall’alto mi ha aiutato a portartelo davanti, per vederti e udirti. Spero che il suo arrivo
incontri il tuo gradimento: è in cerca della libertà, che è così preziosa, come sa chi per lei è disposto
a rinunciare anche alla vita. Tu lo sai bene quant’è preziosa la libertà, tu che non temesti di affron-
tare per lei la morte in Utica, dove lasciasti le tue spoglie mortali, destinate, nel giorno del Giudizio,
a risplendere di tutta la loro santità. Non abbiamo infranto alcun editto divino: costui è vivo, e io
non cado sotto la giurisdizione di Minosse; io appartengo al cerchio (il Limbo) dove si trova anche
tua moglie, la casta Marzia, che sembra ancora pregarti che tu la riprenda con te come legittima
sposa; per amor suo accondiscendi ai nostri desideri. Lasciaci andare per le sette cornici di questa
montagna; se acconsenti, ringrazierò Marzia del favore che ci fai, se ti degni che il tuo nome ri-
suoni nel Limbo, che è pur sempre un cerchio di là giù, del mondo infero». Discorso troppo lungo e
troppo cerimonioso. Virgilio ripete due volte, con effetto di ridondanza, le informazioni essenziali:
che il suo viaggio è garantito dall’alto (vv. 52-54 e 67-69) e che le leggi dell’aldilà non sono state
infrante, perché né lui né Dante sono, tecnicamente, anime dannate (vv. 58-60 e 76-77). Inoltre,
sembra quasi intimidito dalla severità di Catone e desideroso di ingraziarselo, come se il consenso
alla salita del Purgatorio potesse dipendere davvero da lui: nelle parole di Virgilio, gli spiriti della
sacra montagna purgan sé sotto la… balìa dell’Uticense (come se egli fosse il governatore di tutto il
Purgatorio); lo scopo del viaggio di Dante è quello di vederti e… udirti (in realtà no, anche se Catone,
incarnando il libero arbitrio, è certo esperienza cruciale della conversione dantesca); sembra che il
viaggio di Dante sia sottoposto al gradimento di Catone (Or ti piaccia gradir la sua venuta, v. 70); il
suo suicidio a Utica è rievocato come un atto splendidamente meritorio, che farà rifulgere debita-
mente anche il corpo di Catone risorto, dopo il Giudizio; infine, Virgilio incappa in una vera e propria
gaffe, appellandosi a Catone in nome di Marzia, la moglie, che egli conosce bene, essendo anche
☛ vv. 49-84
408
Purgatorio • Canto I
di Marzia tua, che ’n vista ancor ti priega,o santo petto, che per tua la tegni:
81 per lo suo amore adunque a noi ti piega.
Lasciane andar per li tuoi sette regni;grazie riporterò di te a lei,
84 se d’esser mentovato là giù degni».
«Marzïa piacque tanto a li occhi miei ☛mentre ch’i’ fu’ di là», diss’ elli allora,
87 «che quante grazie volse da me, fei.
Or che di là dal mal fiume dimora,più muover non mi può, per quella legge
90 che fatta fu quando me n’usci’ fora.
Ma se donna del ciel ti move e regge,come tu di’, non c’è mestier lusinghe:
93 bastisi ben che per lei mi richegge.
Va dunque, e fa che tu costui ricinghed’un giunco schietto e che li lavi ’l viso,
96 sì ch’ogne sucidume quindi stinghe;
ché non si converria, l’occhio sorprisod’alcuna nebbia, andar dinanzi al primo
99 ministro, ch’è di quei di paradiso.
Questa isoletta intorno ad imo ad imo,là giù colà dove la batte l’onda,
102 porta di giunchi sovra ’l molle limo:
null’ altra pianta che facesse frondao indurasse, vi puote aver vita,
105 però ch’a le percosse non seconda.
Poscia non sia di qua vostra reddita;lo sol vi mosterrà, che surge omai,
108 prendere il monte a più lieve salita».
Prescrizioni di Catone
Dante deve lavarsi la faccia, perché nonstarebbe bene (non si converria) presentarsidi fronte al primo guardiano del Purgatorio,che è un angelo (di quei di paradiso), con lecispe agli occhi (l’occhio sorpriso d’alcunanebbia).��� ad imo ad imo: «nelle sue rive piùbasse».��� porta di giunchi… limo: «produce deigiunchi che crescono sulla spiaggia molle(molle limo, “fango”, propriamente)».���-��� null’ altra pianta… seconda:«nessuna altra pianta che ramificasse oproducesse radici consistenti (indurasse) vipotrebbe avere vita, perché non assecon-derebbe, come invece i giunchi, lo sbatteredelle onde (percosse)».��� Poscia… reddita: poi, dopo che Dantesi sarà lavato in riva al mare, non dovràfare ritorno (reddita) dalla parte dove lui eVirgilio si trovano adesso.��� mosterrà: mostrerà.��� prendere… salita: «come e doveaffrontare la montagna, dalla parte dove sisale più agevolmente».
tutti i favori, cioè esaurii tutti i desideri cheMarzia volle soddisfatti da me».�� mal fiume: l’Acheronte, che divideinesorabilmente il destino degli spiritiinfernali e di quelli destinati alla gloria eterna.��-�� per quella legge… fora: Marzianon può esercitare più alcun potere suCatone in grazia della legge che entrò invigore al momento in cui Catone stessouscì dal Limbo; cioè al momento delladiscesa di Cristo agli inferi, quando i giustivissuti prima di Gesù vennero strappatia Satana. Dopo di che, coloro che eranorimasti nel Limbo non poterono più averealcun contatto, o influenza, su chi ne erastato invece liberato.�� non c’è mestier lusinghe: «non c’èbisogno di lusingare, di ingraziarsi ilprossimo con tante smancerie».�� per lei: in suo nome.��-�� ricinghe d’un giunco schietto:Virgilio deve ricingere Dante di un giuncoliscio (schietto), simbolo di docilità e umiltà.�� stinghe: stinga, pulisca via.��-�� ché non si converria… paradiso:
riprende qui un passo della Farsaglia diLucano (II, v. 341 e vv. ss.) in cui Marzia,prima sposa di Catone, poi divorziatae passata a Ortensio e infine, dopo lamorte di quest’ultimo, di nuovo tornataal primo marito, prega appunto Catone diriprenderla con sé. Dante aveva interpre-tato allegoricamente tutta questa vicendanel Convivio (IV, xxviii), leggendo nelritorno di Marzia al primo sposo il ritornodell’anima a Dio nell’ultima età della vita;queste le parole che egli attribuiva a Marzia,perché Catone la riprendesse con sé:«Dammi li patti delli antichi letti, dammi lonome solo del maritaggio … Dammi, signormio, omai lo riposo di te; dammi almeno cheio in questa tanta vita (nel tanto di vita chemi resta) sia chiamata tua».�� Lasciane: lasciaci; sette regni: le settecornici del Purgatorio.�� grazie riporterò… lei: «provvederò aringraziare lei, Marzia, del favore che tu cifai».�� mentovato: rammentato per nome.�� che quante grazie… fei: «che io feci
409
Purgatorio • Canto I
lei collocata fra le anime del Limbo. Insomma, il nostro Virgilio cerca di far leva sull’amor proprio di
Catone (persino sulla sua vanità, si direbbe) e sul suo supposto amore coniugale, ovvero sulla su-
perstite suggestione degli occhi casti di Marzia.
Non è casuale che qui Virgilio sbagli tono. Infatti la sua situazione, in Purgatorio, è e sarà sempre
scomoda, e il suo atteggiamento più esitante di quanto abbiamo visto all’Inferno. Innanzitutto, il
mondo dei dannati Virgilio lo conosceva bene, anche topograficamente, a causa della famosa disce-
sa nel basso Inferno a cui era stato costretto dalla maga Erittòne, più e più volte rammentata nella
prima cantica: quante volte lo abbiamo visto rassicurare Dante, e asserire la sua piena padronanza
del luogo! Naturalmente, ciò era necessario perché il viaggio era carico di angoscia, di terrori, a volte
persino di pericoli: basterà ricordare i momenti cruciali della città di Dite e della bolgia dei barattieri,
in cui la sicurezza e la fermezza d’animo dello stesso Virgilio erano state messe a dura prova. Il Pur-
gatorio, invece, è un luogo che Virgilio non conosce, che non ha mai visitato: qui, da questo punto
di vista, egli è sullo stesso piano del suo pupillo. È ben vero che il Purgatorio non è e non sarà luogo
di orrore e di spaventi come l’Inferno, ma ciò significa soltanto che di Virgilio qui c’è meno bisogno,
e che Dante non dovrà essere continuamente rassicurato, rinfrancato, aiutato e anche fisicamente
difeso come nella prima cantica. Da guida vera e propria, insomma, Virgilio si sta trasformando in
accompagnatore, e questa mutazione rappresenta – è bene avvertirlo fin d’ora – uno dei fili narrativi
più delicati e psicologicamente raffinati di questa seconda cantica.
Disorientato al pari di Dante nel nuovo e incognito paesaggio, Virgilio sembra meno sicuro di sé,
meno assertivo e determinato, anche in senso morale, e perfino nei suoi minuti comportamenti. Il
tono eccessivamente cerimonioso del suo appello a Catone è una prima lampante manifestazione
di questo suo sottile disagio. Virgilio doveva sapere, o indovinare, che per un temperamento severo
come Catone non servivano tante belle e lusinghiere parole: sarebbe bastato appellarsi al volere
dell’autorità superiore e il divino guardacoste, uomo d’ordine, non avrebbe battuto ciglio. Così, inve-
ce, a Virgilio tocca una replica alquanto dura, che suona quasi come un rimprovero.
Prescrizioni di Catone
«Che cosa c’entra Marzia? Marzia mi piacque tanto, finché fui in vita, che io cercai di compiacerla in
ogni modo; ma ora che ci divide l’Acheronte e che lei è rimasta di là nel Limbo dei dannati, e che io
invece sono stato trasferito di qua, tra coloro che sono destinati al Paradiso, fra di noi è tutto finito,
e i suoi desideri e i suoi piaceri non mi commuovono più. Però, se non Marzia, ma una donna del
Paradiso è la tua mandataria, non c’è bisogno di tanti complimenti; basta che tu mi rivolga le tue
richieste in nome suo». La prima parte della replica di Catone è particolarmente dura. In sostanza,
Catone osserva che: la menzione di Marzia è fuori luogo; gli affetti terreni non toccano più gli spiriti
dell’oltretomba, almeno questi del Purgatorio, che vivono nella luce di ben altro amore; che tra lui e i
limbicoli c’è di mezzo il mal fiume, l’Acheronte, che ne divide inesorabilmente le sorti; che nelle parole
di Virgilio c’erano troppe lusinghe (insomma, c’era un sentore di ruffianesimo inopportuno). Pove-
ro Virgilio! Rassicurando Catone che le leggi d’abisso non erano state infrante, egli si era in qualche
modo tirato fuori dall’Inferno dei dannati, rimarcando che Minòs me non lega; adesso il suo inflessibile
interlocutore rimette i puntini sulle “i”, rimarcando a sua volta che non il tribunale di Minosse ma
l’Acheronte divide dannati e salvati; e che, in poche parole, i limbicoli possono anche essere gratificati
di un regime speciale, ma fanno comunque parte degli inferi. E quanto alle lusinghe, chissà se Virgilio
si è ricordato, e con che cuore, della bolgia di Taide, in cui erano puniti, appunto, i lusingatori (o nelle
parole più brutali di Dante: ruffian, baratti e simile lordura (Inf. XI, 60)
Rimesse le cose a posto, Catone passa a prescrivere i riti di purificazione preliminari per accedere
al sacro monte: un lavacro che deterga dal volto di Dante il sudiciume infernale e lo renda presenta-
bile agli angeli che presiedono a ciascuna cornice, e la raccolta di un giunco con cui Virgilio intreccerà
una cintura per il suo pupillo. Per via di queste indicazioni, il paesaggio dell’isoletta si dilata ancora
intorno ai due nuovi pellegrini: Catone evoca la spiaggia, il respiro del mare tutto intorno alla riva, il
molle limo in cui crescono, docili al battito delle onde, i giunchi rivieraschi… Ancora una volta, tutto è
realtà, ma tutto è anche, con naturalezza, allegoria. Questi giunchi che costituiscono l’unica vege-
tazione possibile in riva al mare – ogni altra pianta più robusta, o bisognosa di radici più consistenti,
non resisterebbe – sono sì chiaro simbolo dell’attitudine spirituale richiesta per accedere alla sacra
montagna (docilità interiore, appunto, sottomissione all’urto delle penitenze, “flessibilità” d’animo),
ma schiudono anche ai nostri occhi lo scenario di una splendida e consolante alba sul mare, in cui
gli elementi della nostra vita sul pianeta – l’aria, l’acqua, la terra e la verzura – vengono di nuovo
incontro a Dante in tutta la loro commovente, ritrovata freschezza.
☛ vv. 85-111
410
Purgatorio • Canto I
ritorno. Ovvia allusione a Ulisse, chesecondo il racconto dantesco era sì riuscitoad avvistare la montagna del Purgatorio,ma, inabissatosi sotto la violenza del turboinviato da Dio, non era potuto tornareindietro.��� Quivi… com’ altrui piacque: Virgiliocinge alla vita Dante col giunco diveltodalla spiaggia, in segno di docile umiltà.Da notare com’ altrui piacque: la stessaespressione che era stata usata da Ulisseper indicare la volontà di Dio di mandarloin perdizione, lui e i suoi compagni. Quiinvece essa viene usata per sancire lanecessità e la sacralità dei riti preliminarid’ingresso al Purgatorio. La contrappo-sizione fra il viaggio di Ulisse, frutto diuna hybris di conoscenza, e il viaggio diDante, comandato e garantito da Dio, nonpotrebbe essere più chiara.���-��� qual elli scelse… l’avelse:«come Virgilio colse (scelse) un giunco(per cingerne Dante), così subito nespuntò un altro in sostituzione, proprionel punto in cui egli l’aveva strappato(avelse)».
la retta attitudine spirituale, per predi-sporsi docilmente a un nuovo cammino dipenitenza.���-��� là ’ve la rugiada… sole: «là dovela rugiada resiste ancora al calore dei primiraggi del sole»; ad orezza, come dice subito,cioè “al rezzo”, in un luogo riparato,ombroso, dove essa rugiada si dirada, cioè“evapora”, più lentamente.��� di sua arte: «del suo accorgimento».Dante intuisce che Virgilio, raccogliendoa mani tese la fresca rugiada del mattino,intende poi lavargli la faccia.��� lagrimose: rigate dalle tante lacrimeversate da Dante all’Inferno, in tanteoccasioni. Ma adesso quelle rigature sulvolto sporco e annerito di Dante apparten-gono decisamente al passato.���-��� mi fece… mi nascose: riscoprì,fece riaffiorare il colore naturale dellacarnagione di Dante, che l’Inferno avevaoffuscato.���-��� che mai non vide… esperto: lerive del Purgatorio non hanno mai vistonessuno navigare le loro acque; o meglio,nessuno, che poi abbia sperimentato il
��� sù mi levai: ricordiamo che Dantesi era inginocchiato di fronte a Catone(vv. 49-51).��� mi ritrassi: mi accostai.��� volgianci: voltiamoci.��� a’ suoi termini bassi: «verso ilsuo confine più basso», ovvero la riva delmare.��� l’ora mattutina: l’ora del mattutino,l’ultima delle ore canoniche, ovvero,secondo le preghiere della liturgia cristiana,l’ultima ora della notte. L’alba vince ilmattutino, nel senso che la prima ora delnuovo giorno subentra all’ultima del giornoprecedente.��� conobbi… marina: «riconobbi ladistesa marina, dal tremolare in superficiedei primi raggi del sole».���-��� com’ om… in vano: «come uno(om impersonale, come on in francese)che torni sulla strada smarrita, che finchénon la ritrova gli sembra di perdere isuoi passi». Qui si svela esplicitamente ilsovrasenso allegorico sotteso a tutta questasequenza: i riti di purificazione di Dantesignificano infatti la necessità di assumere
Così sparì; e io sù mi levaisanza parlare, e tutto mi ritrassi
111 al duca mio, e li occhi a lui drizzai.
El cominciò: «Figliuol, segui i miei passi: ☛volgianci in dietro, ché di qua dichina
114 questa pianura a’ suoi termini bassi».
L’alba vinceva l’ora mattutinache fuggia innanzi, sì che di lontano
117 conobbi il tremolar de la marina.
Noi andavam per lo solingo pianocom’ om che torna a la perduta strada,
120 che ’nfino ad essa li pare ire in vano.
Quando noi fummo là ’ve la rugiadapugna col sole, per essere in parte
123 dove, ad orezza, poco si dirada,
ambo le mani in su l’erbetta spartesoavemente ’l mio maestro pose:
126 ond’ io, che fui accorto di sua arte, ☛ Le parole di Dante, p. 411
porsi ver’ lui le guance lagrimose;ivi mi fece tutto discoverto
129 quel color che l’inferno mi nascose.
Venimmo poi in sul lito diserto,che mai non vide navicar sue acque
132 omo, che di tornar sia poscia esperto.
Quivi mi cinse sì com’ altrui piacque:oh maraviglia! ché qual elli scelse
135 l’umile pianta, cotal si rinacque
136 subitamente là onde l’avelse.Esercitatisu zte.zanichelli.it
L’acqua, il giunco:
riti di purificazione
411
Purgatorio • Canto I
L’acqua, il giunco: riti di purificazioneCatone sparisce. Virgilio e Dante rimangono soli; Dante, senza parlare, guarda il suo maestro. Non c’è
bisogno di commenti; anche l’eventuale puntura di rimorso di Virgilio, per il suo discorso non proprio
felicissimo, viene sottaciuta. Niente disturba il silenzio e il raccoglimento di quest’ora. Virgilio si limita a
ripetere le indicazioni di Catone, avviando il discepolo verso la riva del mare. L’alba ha ormai schiarito
l’orizzonte: sì che di lontano – dice Dante – conobbi il tremolar de la marina. D’Annunzio, nei Pastori, non
si lascerà sfuggire questo verso stupendo («O voce di colui che primamente / conosce il tremolar della
marina!», vv. 14-15), che riprendendo l’arpeggio dell’esordio narrativo di questo canto ne prolunga,
come in una sorta di motivo conduttore, l’incanto musicale. I riti che seguono riecheggiano certa-
mente modi e cerimonie della liturgia cristiana: il lavacro del volto annerito di Dante è come un nuovo
battesimo; la cintura di giunco è come un cilicio penitenziale. Ma l’acqua che Virgilio usa non è acqua
benedetta: è la rugiada notturna che, nelle zone ancora non toccate dal sole mattutino, non è ancora
evaporata e indugia in su l’erbetta. Il giunco di cui Virgilio cinge Dante non è un cordone di frate o di
flagellante: è una pianta appena divelta dalla spiaggia. Il rito riacquista così una naturalità spontanea, e
la liturgia ritrova la semplicità evidente di gesti elementari. Perché la natura del Purgatorio non è quella
che conosciamo noi, contaminata dal peccato: è la natura originaria, in cui tutto è, di per sé, sacro.
Quivi mi cinse sì com’ altrui piacque… Che fatale, eloquente ripetizione. Ricordate: Tre volte il
fé girar con tutte l’acque; / a la quarta levar la poppa in suso / e la prora ire in giù, com’ altrui piacque
(Inf. XXVI, 139-141). Di fronte allo stesso mare che aveva inghiottito Ulisse, Dante, ripetendo le stes-
se parole, si sottomette docile alla sua iniziazione purgatoriale. Niente potrebbe marcare in modo
più radicale, attraverso non un commento esplicito, ma attraverso le risorse della forma poetica,
la distanza che intercorre fra i due viaggi e i due destini: dell’eroe antico e del pellegrino moderno.
☛ vv. 112-136
LE PAROLE DI DANTE ☛ v. 126
ArteNell’ambito di un’estensione semantica del termine molto vasta,
è da notare che qui il termine arte viene impiegato nel senso di
“accorgimento”: uso minoritario, ma che si ritrova anche, sempre
nel Purgatorio, quando Virgilio avverte che bisognerà un po’
destreggiarsi per salire il sentiero a zigzag che porta alla prima
cornice dei superbi: Qui si conviene usare un poco d’arte / … in
accostarsi / or quinci, or quindi al lato che si parte (Purg. X, 10-12).
Per il resto, arte – come il latino ars – denota ogni attività che
sia capace di tradurre in prodotto reale, tangibile, un’intenzione
o progetto mentale. Non a caso nella Commedia si trova arte
in accostamento o contrapposizione con termini quali natura,
esperienza, ingegno: perché arte implica nell’uomo sempre un’appli-
cazione concreta dell’intelligenza, diversa quindi dai doni di natura,
diversa da ciò che può insegnare la semplice pratica del mondo, e
diversa anche dalle pure risorse astratte della mente.
Così Beatrice rivendica di fronte a Dante il primato della sua
bellezza terrena, superiore a qualsiasi bellezza naturale o creata
dall’uomo: Mai non t’appresentò natura o arte / piacer, quanto le
belle membra in ch’io / rinchiusa fui (Purg. XXXI 49-51); così, usando
come paragone il fenomeno fisico del raggio rifratto, Dante
commenta come mostra esperïenza e arte, “come dimostrano sia
l’osservazione empirica, sia la riprova scientifica” (Purg. XV, 21);
così la gente accosta gli scuri di una finestra per difendersi dal sole
con ingegno e arte (Par. XIV, 117), cioè escogitando qualche artificio
e poi mettendolo in pratica. In questo senso di “artificio”, “abilità”,
arte rimbalza nel celebre scambio di battute fra Dante e Farinata:
S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogne parte…; / ma i vostri non appreser
ben quell’arte… / S’elli han quell’ arte… male appresa, / ciò mi tormenta
più che questo letto (Inf. X, 49-51, 77-78).
In senso assai specifico, Dante usa arte per designare l’attività
creatrice di Dio: Virgilio afferma che natura lo suo corso prende / dal
divino ’ntelletto e da sua arte (Inf. XI, 99-100), e più d’una volta nella
Commedia si designa come arte divina l’ingegnoso meccanismo
del contrappasso: così riguardo al sabbione infocato dei violenti:
Indi venimmo al fine ove si parte / lo secondo giron dal terzo, e dove
/ si vede di giustizia orribil arte (Inf. XIV, 4-6); ai fori in cui sono
conficcati i simoniaci nella terza bolgia: O somma sapïenza, quanta
è l’arte / che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo (Inf. XIX, 10-11);
al misterioso bollire della pece nella bolgia dei barattieri: non per
foco ma per divin’ arte, / bollia là giuso una pegola spessa, / che
’nviscava la ripa d’ogne parte (Inf. XXI, 16-18).
Infine, Dante usa arte nel senso, comune ai tempi suoi, di “mestiere”
(“Arti” erano dette le corporazioni fiorentine): arte è quella del
fabbro (Inf. IX, 120; Par. II, 128, in cui si parla di arte del martello) o
quella dei cosmografi (Purg. IV, 80); arte è la miniatura di Oderisi
da Gubbio (Purg. XI, 80). Arte, in particolare, è quella dei poeti: di
Virgilio, che onora scïenzïa e arte (Inf. IV, 73), ma soprattutto di
Dante stesso, che più di una volta si descrive alle prese con le risorse
del suo mestiere poetico. Entrando nel vero e proprio Purgatorio,
Dante avverte che dovrà innalzare il tono della sua poesia: Lettor,
tu vedi ben com’ io innalzo / la mia matera, e però con più arte / non
ti maravigliar s’io la rincalzo (Purg. IX, 70-72); alla fine della seconda
cantica, invoca il fren de l’arte che gli impedisce di andare oltre perché
piene son tutte le carte / ordite a questa cantica seconda (Purg. XXXIII,
139-141); in Paradiso, entrando nel cielo del Sole, Dante si arrende
all’insufficienza dei suoi mezzi espressivi: Perch’ io lo ’ngegno e l’arte
e l’uso chiami, / sì nol direi che mai s’imaginasse, cioè “Per quanto
io chiami in mio soccorso le risorse della mia intelligenza, del mio
mestiere, della mia esperienza, non potrei mai narrare ciò che vidi in
modo che lo si possa immaginare” (Par. X, 43-44).
Di fronte a questa magnifica gamma di significati, la lingua
corrente è ridotta essenzialmente all’uso di arte nel senso di
“mestiere artistico”. Tuttavia l’antico significato di “mestiere” si
conserva nel popolare modo di dire “Senza arte né parte”.
412
Purgatorio • Canto IP
er
ap
pro
fon
dir
e
Per approfondire
Libertà di, libertà daLibertà va cercando, ch’è sì cara, / come sa chi per lei vita rifiuta.
Così Virgilio introduce Dante a Catone, sulla spiaggia del primo
canto del Purgatorio. Sono versi così noti da essere diventati pro-
verbio. Ma siamo sicuri che noi moderni siamo in grado di com-
prendere il senso della libertà nel pensiero e nell’opera di Dante?
Prima di tutto, questo passo del Purgatorio è meno piano di
quanto possa sembrare. Può sembrare singolare, infatti, o al-
meno non così ovvio, che Virgilio indichi proprio la libertà come
supremo valore cercato dal suo discepolo. Non sarebbe stato più
appropriato dire che Dante stava cercando Dio, il sommo bene,
Beatrice, la salvezza…?
Viene il sospetto che la citazione della libertà come fine ultimo
del viaggio dantesco sia strumentale: un modo per ingraziarsi il
severo custode della montagna, il veglio già citato nel De monarchia
(II, 15) come «severissimo fautore della vera libertà», che aveva
preferito «morire da libero che privo di libertà restare in vita». E,
infatti, il richiamo alla sete di libertà di Dante trapassa subito, nelle
parole di Virgilio, in aperto omaggio al gesto suicida di Catone: Tu
’l sai, ché non ti fu per lei amara / in Utica la morte, ove lasciasti / la
vesta ch’al gran dì sarà sì chiara. Ma non si tratta soltanto di lusin-
ghe, come ribatte un po’ ruvidamente Catone, cioè di complimenti
fuori posto: la libertà è veramente il valore che fa da spartiacque
tra la dannazione e la salvezza, ma è una libertà probabilmente
molto diversa da quella che noi moderni intendiamo come tale.
Erede della liberté rivoluzionaria, della freedom from fear dei
coloni americani, delle utopie di liberazione del Novecento, la
nostra è una libertà di voto, libertà di coscienza, libertà di opinio-
ne. Ma la libertà di Dante non è una libertà di; è una libertà da. La
libertà di Dante è la metà di un dittico concettuale e morale, di
cui i moderni hanno offuscato l’altra faccia. La libertà di Dante è
il rovescio di una servitù; e conserva in sé la potenza semanti-
ca di un contrario, di un’opposizione, di un rovesciamento.
Come dice Dante esiliato nell’Epistola VI, rivolta ai suoi
«scelleratissimi» concittadini, ostinati nel respingere l’autorità
dell’imperatore Arrigo VII: «Non vi accorgete … che è la cupidigia
che vi domina, … che vi tiene costretti con minacce fallaci e vi
imprigiona nella legge del peccato e vi proibisce di ubbidire alle
santissime leggi … l’osservanza delle quali … non solo è dimo-
strato che non è servitù, ma anzi, a chi guardi con perspicacia,
appare chiaro che è la stessa suprema libertà».
“Dominare”, “costringere”, “imprigionare”, “proibire”: i verbi di
coazione delimitano con esattezza il campo semantico opposto
a quello della libertà; non a caso Dante stesso va cercando la
libertà in un processo di faticosa uscita da una condizione di
schiavitù. E d’altronde, che cosa cantano le anime dei beati, sul
vascello che li guida alle prode del Purgatorio? In exitu Isräel de
Aegypto: il salmo che celebra la vittoria degli Ebrei sul faraone,
la traversata del Mar Rosso, la fuga spettacolare dalla servitù,
l’inizio di un itinerario defatigante in cerca della Terra Promessa.
E la sua Terra Promessa Dante la raggiunge sulla cima della
montagna del Purgatorio, dove egli colloca il suo congedo da
Virgilio, che lo incorona padrone di se stesso, e sancisce la rag-
giunta maturità del suo pupillo: Non aspettar mio dir più né mio
cenno; / libero, dritto e sano è tuo arbitrio, / e fallo fora non fare
a suo senno: / per ch’io te sovra te corono e mitrio (Purg. XXVII,
139-142). E in Paradiso, congedandosi da Beatrice, Dante dirà:
Tu m’hai di servo tratto a libertate/ per tutte quelle vie, per tutt’ i
modi / che di ciò fare avei la potestate (Par. XXXI, 85-87).
La Commedia va letta tutta, dunque, come un progressivo,
faticoso processo di affrancamento, di uscita da una condi-
zione di schiavitù. Per Dante, solo dopo che si è conquistata una
“libertà da” può cominciare una “libertà di”, cioè l’esercizio in po-
sitivo di una volontà, a quel punto, umanamente infallibile.
Adattato da Riccardo Bruscagli,
La libertà, in Leggere Dante. Voci per il poeta,
rassegna a cura della Società Dantesca Italiana, 2007
Riflettere e discutere
La legge a garanzia delle libertà individuali
Quali sono le libertà individuali garantite dalla nostra Costi-
tuzione e dal nostro sistema giuridico? Nella Costituzione,
la parola “libertà” (o l’aggettivo “libero”) ricorre in rapporto,
per esempio, alla libertà religiosa (art. 8: «Tutte le confessioni
religiose sono egualmente libere davanti alla legge»), alla
libertà personale (art. 13: «La libertà personale è inviolabile»),
alla libertà di insegnamento (art. 33: «L’arte e la scienza sono
libere e libero ne è l’insegnamento»), alla libertà di associazione
(art. 18: «I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente,
senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli
dalla legge penale»), di sindacato (art. 39: «L’organizzazione
sindacale è libera»), di iniziativa economica (art. 41: «L’iniziativa
economica privata è libera»).
Naturalmente, garanzie di libertà si possono riconoscere in
molte altre norme non costituzionali, e sono state la conse-
guenza di aspre lotte in favore dei cosiddetti diritti civili: per
esempio la libertà di divorzio (legge 1o dicembre 1970, n. 898,
Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), la libertà di
interruzione della gravidanza (legge 22 maggio 1978, n. 194,
Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione
volontaria della gravidanza), la libertà di unione fra persone dello
stesso sesso eccetera.
Esistono anche movimenti – i cosiddetti libertarians negli Stati
Uniti, per esempio – che combattono contro ogni forma di
norma regolatrice del comportamento dei singoli.
▶ Secondo te, qual è il limite delle
libertà che possono essere
consentite dagli ordinamenti
giuridici di un paese?
e canterò di quel secondo regno
dove l’umano spirito si purga
e di salire al ciel diventa degno.
(vv. 4-6)
413
Purgatorio • Canto I
La
vo
rare
sult
est
o
Lavorare sul testo
Comprendere e analizzare il testoEsordio
1. Con quale metafora si apre il canto I del Purgatorio?
Spiegane il significato.
2. argomentare Spiega qual è il significato allegorico della
nuova costellazione che appare al Poeta.
Catone
3. Che descrizione offre Dante di Catone?
4. Chi era storicamente il personaggio in questione? Che
valore ha per Dante il suo gesto estremo? (Ti consigliamo
di leggere il commento al canto.)
5. Catone fa riferimento alle leggi dell’Inferno: perché?
Che cosa dice?
Virgilio introduce Dante
6. argomentare Spiega la reazione di Virgilio alle parole
di Catone e la sua risposta. (Ti consigliamo di rileggere
l’analisi del canto.)
7. argomentare Per quale motivo Virgilio dice a Catone
libertà va cercando, ch’è sì cara, / come sa chi per lei
vita rifiuta? (Ti consigliamo di leggere anche la scheda
Libertà di, libertà da a p. 412.)
8. argomentare Qual è il valore etico della “libertà”? (Ti con-
sigliamo di rileggere le note introduttive al canto.)
Prescrizioni di Catone
9. argomentare Chiarisci perché il ricordo di Marzia non
può più incidere sulle azioni di Catone.
10. Descrivi il rito di purificazione prescritto da Catone.
11. In quale momento del giorno si trovano Dante e Virgilio?
Che valore allegorico ha questo tempo?
Riflettere sulla lingua12. v. 7 morta poesì: che figura retorica è?
13. v. 18 gli occhi e ’l petto: questa espressione è una
a metonimia
b sineddoche
c metafora
14. vv. 26-27: che tipo di periodo noti in questi versi?
15. vv. 34-36: fai la parafrasi ricostruendo l’ordine logico delle
proposizioni.
16. vv. 51 reverenti mi fé le gambe e ’l ciglio: anche questa è una
figura retorica: quale?
17. vv. 55 da ch’è tuo voler: è un periodo
a finale
b causale
c temporale
d consecutivo
18. vv. 55-63: individua le frasi consecutive presenti nelle
terzine date.
19. v. 66 balìa: cerca sul vocabolario il significato del termine.
In che modo è usato nel verso dantesco?
20. v. 80 o santo petto: che cosa significa? Che tipo di figura
retorica è?
21. v. 97 l’occhio sorpriso: che cosa significa sorpriso?
Scrivere per analizzareESAME DI STATO – TIPOLOGIA A
Dopo aver letto i vv. 28-111, elabora un testo sintetico rispon-
dendo alle seguenti domande. Puoi rispondere punto per punto
oppure costruire un discorso coeso e coerente che comprenda
le risposte alle domande.
Comprensione e analisi del testo
▶ Riassumi il contenuto dei versi.
▶ A quale personaggio si riferisce la descrizione in questi
versi?
▶ Che caratterizzazione fisica e morale ne viene data?
▶ Come ti sembrano le parole che rivolge a Dante? Contra-
stano col fatto che sono dette da oneste piume?
Interpretazione e approfondimenti
Contestualizza il personaggio in chiave storica indicando
brevemente l’epoca in cui visse, il ruolo che ricoprì e le sue
azioni principali. Rifletti quindi sul tema della libertà da ogni
forma di tirannia o oppressione alla luce delle tue letture,
conoscenze ed eventuali esperienze personali.
Scrivere per riflettereESAME DI STATO – TIPOLOGIA C
Un mondo di migranti, 70 milioni di persone in fuga
da guerre, violenze e persecuzioni
Dal cielo cadono nuove bombe. Mentre il presidente
turco Recep Tayyip Erdogan ha dato il via all’oc-
cupazione del nord della Siria, un’Europa disunita,
davanti all’intervento militare, teme ora che l’accordo
sui migranti concluso con Ankara nel 2016 non le si
ritorca contro. Sono quasi quattro milioni i profughi
“bloccati” alle porte dell’Europa. […] Prima ancora
che iniziassero i primi bombardamenti, secondo le orga-
nizzazioni umanitarie, circa un milione di persone erano
pronte a lasciare il Paese. Secondo l’Alto Commissariato
per i Rifugiati (Unhcr), nel 2019 il numero dei profughi
siriani, il più alto al mondo, ha superato i 12 milioni. […]
A gennaio 2019, sempre l’Unhcr ha stimato oltre 70
milioni di persone in fuga da persecuzioni etniche e
religiose, violenze – quali conseguenza di una siste-
matica violazione dei diritti umani – conflitti civili e
guerre. […]
Sia che i flussi migratori provengano dal Mar Medi-
terraneo – per lo più dalla Libia “zona calda” del nord
Africa – o dalla rotta balcanica, dove il muro di filo
spinato eretto da Vicktor Orban è riuscito a porre un
argine ai migranti, sia che l’Europa guardi a Oriente,
414
Purgatorio • Canto IL
av
ora
resu
lte
sto
Forum critico
Il nuovo stile del Purgatorio: diminuzione di tensioneo diversa forma di tensione?Parlando del Purgatorio si tende spesso a evidenziare il suo tono lirico, idilliaco, profondamente
diverso dalla drammaticità dei versi dell’Inferno. Ma questa è veramente una cantica priva di
tensione oppure vi troviamo uno stile nuovo proprio per le diverse forme di tensione che esprime?
Secondo Mario Sansone
La tensione del canto è tutta nell’attesa del divinoMario Sansone rileva la distensione del canto, «l’esilità e la placidezza narrativa» in cui «i simboli
non fanno stacco e peso come altrove»: in esso è notata una ricchezza «di echi umani e paesistici
di straordinaria purezza melodica». La sostanza lirica è la trepidante attesa del divino.
L a sostanza lirica propria di questo canto mi pare che sia l’attesa e il pre-sagio del divino: un senso d’attesa colmo di trepida fiducia e mantenuto
in un’arcana sospensione, in opposizione alle terribili visioni ed esperienzedell’Inferno. Una sospensione da cui non nasce angoscia o timore, ma unaparticolarissima ansia e tensione, fatta insieme di silenzio, di stupore, di con-fidente umiltà e mite sommissione. Personaggi, vicenda, paesaggi, tempo,cadenze ritmiche e accenti, tutto va visto e collocato entro questo generalesfondo lirico: e vi resta con una proporzione, una euritmia ed una delicatez-za che fanno di questo canto una delle parti più belle di tutto il poema.
La stessa proposizione ha un accento riposato e fidente, piuttosto chesquillante: né inganni la lieve impennata, piuttosto verbale ed apparente chereale, dell’«alzar le vele», giacché essa sta come espressione asseverativa enon ortativa o iussiva […] [vv. 1-6].
Non dice: tu, o ingegno, alza le vele, ma semplicemente: la navicella (ildiminutivo dà già luogo a quell’addolcimento di ogni particolare che saràproprio di questo canto) del mio ingegno alza le vele per correre ora acquepiù pacate e tranquille, quella «navicella», che lascia dietro di sé il mare cru-dele dell’Inferno. Era «mare», ed ora son solo «acque», era vasto pelago, edora è navigazione per acque più chiuse e quiete. Tuttavia, anche il ricordo
A
Tesi:
lo stile lirico
del canto, una
particolare forma
di tensione fatta di
stupore e umiltà
I argomentazione:
l’incipit è
asseverativo
e non ortativo
alla guerra civile siriana, continua a prevalere l’idea che
le persone in fuga si riversino in misura maggiore verso
il Vecchio Continente. Nel 2019, 41,3 milioni di persone
sono state costrette a lasciare la propria casa, il proprio
villaggio o la propria città per cercare rifugio nello Stato
di origine, meno della metà, 29,4 milioni, si sono dirette
verso altri Paesi.
Chiara Colangelo, linkiesta.it, 16 ottobre 2019
▶ Purgatorio, canto I, vv. 49-75
Catone fugge con la morte dalla tirannia di Cesare. Oggi i
migranti che cercano scampo sulle nostre coste sfidando la
morte in mare fuggono da altre tirannie, guerre, violenze.
A partire dall’articolo e dai versi danteschi dati, traendo spunto
dalle tue conoscenze, letture o esperienze, rifletti sul tema
dato. Puoi articolare il tuo elaborato in paragrafi opportuna-
mente titolati e presentarlo con un titolo complessivo che ne
esprima sinteticamente il contenuto.
LaboratorioLa rappresentazione del tempo
Nel Purgatorio assistiamo al passare del tempo con immagini
realistiche del suo trascorrere nei diversi momenti del giorno
e della notte. Particolarmente significativa è la sua rappresen-
tazione nei primi otto canti, in cui si narra il viaggio di Dante
nell’Antipurgatorio, viaggio che inizia la mattina di Pasqua.
Proponiamo come attività laboratoriale una ricerca da svolgere
a piccoli gruppi, in forma collaborativa, che analizzi i modi in
cui Dante rappresenta i diversi momenti della giornata nei
seguenti canti.
▶ Alba (Purgatorio, canto I, vv. 13-30; canto II, vv. 1-15)
▶ Piena mattina (Purgatorio, canto III, vv. 16-18)
▶ Tramonto (Purgatorio, canto VIII, vv. 1-18; 85-93)
▶ Notte (Purgatorio, canto XXVII, vv. 61-90)
Ogni gruppo produrrà una sintetica relazione sul tema dato da
esporre ai compagni (anche utilizzando la LIM o un computer
on/offline).
Paradiso
771
Paradiso • Introduzione
Paradiso
IntroduzioneUn teatro virtuale della beatitudine
I l Paradiso, come Dante lo vede – e lo racconta –, non esi-
ste. L’Inferno è un luogo reale, destinato a permanere, nella
forma in cui Dante lo visita, oltre il giudizio finale. La montagna
del Purgatorio è pure un luogo tangibile, sia pure destinato a
sparire, come luogo di purgazione, al momento in cui l’ultima
anima avrà spiccato il volo verso il cielo, alla fine dei tempi. Ma
il Paradiso è soltanto uno spettacolo, una sorta di straordina-
rio show allestito da Dio stesso per un solo spettatore: Dante.
Anche qui c’è una topografia particolare, costituita dai cieli
così come li rappresenta la cosmologia tolemaica; e anche qui
Dante viaggia, di cielo in cielo, pur se l’unico segnale di sposta-
mento è costituito dal progressivo intensificarsi dell’abbaglian-
te luce che emana dagli occhi di Beatrice; Dante non sente fisi-
camente il volo, ma ne percepisce le conseguenze. Ma tutto ciò
che appare a Dante di cielo in cielo non esiste veramente lì, in
quella forma: le anime dei beati scendono dal loro luogo, l’Em-
pireo, il vero Paradiso, per consentire al divino pellegrino di im-
parare via via i misteri della fede cristiana e di penetrare come
egli può, per gradi successivi, nel mistero di Dio. Questo muta
radicalmente anche le modalità di comunicazione fra Dante e
le anime che egli incontra. All’Inferno e in Purgatorio Dante
era un visitatore, a volte un intruso male accolto, e talvolta,
anche in Purgatorio, liquidato con impazienza: egli entrava in
situazioni preesistenti, e che avrebbero continuato a svolgersi
nello stesso modo dopo il suo passaggio. Di conseguenza, il suo
dialogo con le anime aveva tutti i caratteri dell’accidentalità e
dell’improvvisazione; doveva ritagliarsi il suo spazio nella vita
di interlocutori ben altrimenti affaccendati. Qui invece, in Pa-
radiso, i santi scendono dall’Empireo apposta per parlare con
Dante: il dialogato paradisiaco diventa una specie di copione
celeste dettato dalla carità. Per di più, un copione per metà inu-
tile. Le anime, infatti, sanno sempre in anticipo ciò che Dante
pensa o vorrebbe dire, perché tutto leggono già riflesso nella
mente di Dio. La comunicazione, in Paradiso, perde dunque la
sua urgenza informativa, e diviene più “espressiva”; un atto non
funzionale, ma di espansione verbale e fisica dell’affettività.
Il fatto è che di per sé l’esperienza del Paradiso è inesprimibile.
Come si potrebbe infatti descrivere l’esperienza della visione di
Dio, faccia a faccia, oltre il tempo e lo spazio? Come si potrebbe
raccontare, entro le costrizioni necessarie del linguaggio umano,
il contatto con l’eternità? È ovvio, di conseguenza, che il Paradiso
rappresenta per Dante una sfida perduta in partenza. Già quello
che egli ha veduto è una sorta di approssimazione puramente
didattica rispetto alla vera e propria esperienza del Paradiso; ma
anche quella approssimazione è infinitamente superiore a ciò che
il Poeta può esprimere adesso, tornato sulla Terra.
Di qui la qualità “lirica” del Paradiso dantesco: nel senso che la
narrazione si sposta dalla rappresentazione di una realtà ester-
na alla descrizione delle impressioni soggettive che quella real-
tà ha lasciato nell’animo del Poeta, e, via via, alle insormontabili
difficoltà espressive che quella descrizione suscita, avvicinandosi
sempre di più, in un crescendo spasmodico, alla visione finale di
Dio. La quale, beninteso, non viene descritta mai: la Commedia
si chiude proprio nel momento in cui Dante, folgorato un’ulti-
ma volta dalla grazia divina, penetra nell’indicibile mistero della
divinità. Così, tutta la terza cantica si presenta anche come una
continua tensione del desiderio verso l’oggetto ultimo dell’amo-
re: ma questo oggetto rimarrà impossibile a descriversi.
L’esperienza del Paradiso è dunque, per Dante, un’esperien-
za di approssimazioni successive; di apparizioni, luci, musiche,
che non sono il vero Paradiso, ma una sorta di sua rappresen-
tazione teatrale, virtuale; già così mirabile, tuttavia, da rendere
spesso il Poeta pellegrino incapace di rappresentare la bellezza
contemplata e la beatitudine sentita. Donde il continuo effetto
di immaginazione indotto nel lettore: se tutto questo non è che
un’“ombra” di ciò che Dante ha visto, come sarà stata la visione?
E se la visione non era a sua volta che una “rappresentazione” del
Paradiso, come potrà mai essere il Paradiso vero?
772
Paradiso • Schema
Canti Beati LuoghiVisioni
IX CIELO - Primo mobile o Cristallino
VIII CIELO delle stelle fisseVII CIELO di SaturnoVI CIELO di GioveV CIELO di MarteIV CIELO del SoleIII CIELO di VenereII CIELO di Mercurio
I CIELO della Lunasfera del fuoco
EMPIREO
XXII-XXVII
XXI, XXII
XVIII-XX
XIV-XVIII
X-XIV
VIII, IX
V-VII
II-V
I
XXVII-XXIX
XXX-XXXIII
cori angelici
beati dell’Antico
e del Nuovo Testamento
spiriti trionfanti
spiriti contemplativi
spiriti giusti
spiriti militanti
spiriti sapienti
spiriti amanti
spiriti attivi
spiriti mancanti ai voti
candida rosa
Dio
Mappa interattivaParadiso
773
Paradiso
Canto ILuogo
Paradiso Terrestre, sfera del fuoco
I l primo canto del Paradiso comincia con un proemio che pro-
spetta la materia della nuova cantica e invoca l’aiuto del dio
della poesia, Apollo. È una variazione, e un evidente supera-
mento, dei proemi delle altre due cantiche. Dante stesso preci-
sa che fino a quel momento gli era bastata la protezione e l’i-
spirazione delle Muse (invocate infatti all’inizio dell’Inferno e, più
enfaticamente, del Purgatorio): ma adesso gli occorre il patroci-
nio del dio stesso della poesia – e capo
delle Muse –, Apollo in persona. Non è,
questo ricorso ad Apollo, un semplice
ornamento retorico: esso è funzionale,
invece, allo stacco radicale che questa
nuova cantica e questa nuova materia
rappresentano rispetto alle due canti-
che precedenti. Dante infatti definisce
subito l’argomento della terza parte del
suo poema citando l’approdo finale del
suo viaggio: l’Empireo, il cielo sovran-
naturale e immateriale, tutto luce, in
cui si compirà la sua ultima visione. In
quel cielo infatti la luce di Dio, presen-
te a manifestare la sua gloria in tutto
l’universo, ma variamente distribuita
in una parte più e meno altrove, risplen-
de del suo massimo fulgore: un fulgore
così intenso da superare ogni possibili-
tà di essere non solo espresso a paro-
le, ma anche soltanto ricordato. Infatti,
non saranno soltanto le risorse di Dante
poeta a essere inferiori al racconto del
Paradiso; è la sua stessa memoria di
viaggiatore che, viene chiarito subito,
non sarà in grado di riattingere la visio-
ne svanita. Essa è stata resa possibile, infatti, da una grazia spe-
ciale, che Dante, tornato sulla Terra, nel momento in cui scrive il
poema, non possiede più.
La terza cantica si apre dunque su una preliminare con-
fessione di inadeguatezza: quest’ultima parte del viaggio non
sarà narrata se non approssimativamente, inseguendo la labile
traccia che un’esperienza di per sé al di fuori dell’umano – la
visione di Dio – ha lasciato nell’umana memoria del Poeta. Pre-
messa scoraggiante? In realtà essa si risolve nella sfida a una
“missione impossibile”, che vedrà impegnate allo stremo, lo si
capisce, tutte le risorse della poesia dantesca.
Il racconto del viaggio paradisiaco può adesso cominciare.
Beatrice volge gli occhi nel sole; Dante la imita e fissa lo sguar-
do nel sole lui stesso. La luce dilaga e sembra che il sole abbia
raddoppiato il suo splendore; Dante cerca, istintivamente, lo
sguardo della donna amata, che è ancora rapito verso l’alto;
fissato lo sguardo nello sguardo di lei, il Poeta si sente cambia-
re tutto dentro: Trasumanar, per usare il suo splendido neolo-
gismo, ovvero, si sente trascinare oltre i confini dell’umano.
Tanto da chiedersi se egli sia ancora lì col corpo o con l’anima
solamente, tanto oltre la comune percezione sensibile è quello
che sta provando. Musica e luce, ancora luce: intorno a Dante
risuona l’armonia delle sfere celesti, e
intanto lo splendore del sole si fa anco-
ra più abbacinante, quasi un’alluvione
luminosa che invade tutto il cielo.
Il fatto è, come spiega Beatrice,
che Dante non è più sulla Terra, ma sta
schizzando verso l’alto, verso le sfere
celesti, a una velocità fulminea; anzi,
assai superiore alla velocità di qualsiasi
folgore.
Compresa l’autentica realtà della
fantasmagoria che lo circonda, Dante
però non può fare a meno di chieder-
sene la ragione: come può essere che
egli voli più in su dell’atmosfera terre-
stre, più in su della sfera del fuoco?
Beatrice risponde e spiega: una rispo-
sta e spiegazione non fisica, ma me-
tafisica; non corporea, ma spirituale.
La prende alla larga: ogni cosa crea-
ta tende al suo fine, e non soltanto le
cose inanimate, ma anche le creatu-
re dotate di ragione. Tutto si muove,
nell’universo, orientato a una propria
destinazione specifica, seguendo un
istinto che si incarna in una legge na-
turale. Come il fuoco, per natura, si slancia verso l’alto; come la
Terra, per legge di gravità, si condensa compatta intorno al suo
centro; così anche l’uomo ha un suo fine, segue un movimento
che lo guida alla sua meta. Questa meta è l’Empireo, cioè Dio
stesso: ed è proprio lì che Dante sta andando, salendo, senza
accorgersene, verso il primo cielo, quello della Luna.
Risposta metafisica a un quesito fisico, si è detto, e tipica
della mentalità medievale, che non separa il visibile dall’invisibi-
le, l’anima dal corpo, la fisica, appunto, dalla metafisica. Dante
vuole sapere come fa a volare; Beatrice gli risponde che ciò è
adesso la sua condizione naturale perché, purificato da ogni
impulso indegno e da ogni passione terrena, egli non può non
ricongiungersi al suo fine, cioè a Dio. “Ritornare a Dio” non è
dunque solo un moto morale, una metafora: diventa esperienza
fisica, cammino, volo, avventura, viaggio e racconto.
Introduzione:traccia 135
Canto:traccia 136
Audio e videosull’app GUARDA!
La gloria di colui che tutto move
per l’universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove.
(vv. 1-3)
774
Paradiso • Canto I
1 colui che tutto move: Dio, “motore” diogni palpito di vita nel cosmo. Dante quipensa certo alla definizione di Dio secondoAristotele (poi ripresa dalla filosofia disan Tommaso): “motore immobile”. Dio,secondo tale concezione, è principio eorigine di ogni movimento, ma immobileegli stesso, dato che la mobilità dell’universodipende dalla tensione di tutte le cose versoil loro fine, ovvero verso il compimento eperfezionamento della loro natura; mentreDio, perfetto in sé, non tende a nulla e nonnecessita di alcuna alterazione del suo essere.2-3 per l’universo… altrove: Dante stesso,commentando questi versi in un’epistolaa Cangrande della Scala, spiega «penetrat,quantum ad essentiam; resplendet, quantumad esse» (XIII, 64): la gloria di Dio penetranell’universo, cioè si diffonde, determinandol’essenza, la specificità individuale di ognisingola cosa; allo stesso tempo, risplende,cioè si manifesta, nel suo «esse», nel suoesistere, perché ogni creatura è vivo riflesso, equasi celebrazione, dell’esistenza di Dio.4-6 Nel ciel… fu’ io: l’Empireo, il cielopiù vicino a Dio, e quindi quello che piùabbondantemente riceve la luce divina.Dante si riferisce alla conclusione della suaascesa paradisiaca, che lo porterà, di cieloin cielo, sino alla visione finale; vidi cose…discende: comincia qui il motivo dell’indi-cibilità delle cose viste nell’Empireo o, piùin generale, in Paradiso.7-9 perché… non può ire: «perché il nostrointelletto, cercando di avvicinarsi il piùpossibile all’oggetto del suo desiderio (suodisire), cioè a Dio stesso, affonda tanto nell’a-bisso dell’infinità divina, che la memoria nonpuò andargli dietro». Dante vuol dire che èimpossibile ripetere nella memoria l’espe-rienza della visione di Dio: l’intelligenzacerca di riavvicinarsi il più possibile a quell’o-biettivo, ma non c’è memoria umana capace
di registrare, e poter esprimere adeguata-mente, quello sforzo supremo.10-12 Veramente: «Comunque, contutto ciò»; ovvero, tenendo conto dellapremessa limitativa appena enunciata: checomunque sarà impossibile essere all’al-tezza del compito; quant’ io… del miocanto: «sarà materia della mia poesiaquel tanto del Paradiso che io ho potutoaccumulare, come un tesoro prezioso, nellamia memoria (mente)».13 O buono Appollo: Dante invoca il diostesso della poesia (buono, “eccellente”,insuperabile nella sua arte) perché lo assistain questa sua ultima fatica.14-15 fammi… l’amato alloro: il Poetasi augura di divenire come un vaso, unrecipiente o contenitore in cui si riversi lavirtù poetica (valor) di Apollo; insomma, diessere ricolmato della sua eccellenza, nella
misura richiesta (come) dal dio per concedereai suoi seguaci la corona d’alloro (amato,perché in alloro fu trasformata Dafne, laninfa inutilmente vagheggiata da Apollo).16-18 Infino a qui… aringo rimaso: peraffrontare l’ultima gara che gli è rimasta(aringo rimaso) – cioè, dopo l’Inferno eil Purgatorio, la sfida “impossibile” delParadiso – Dante sa di avere bisognodell’assistenza non soltanto delle Muse(che, secondo la tradizione, abitavanouna delle due cime, o gioghi, di Parnaso,detta Nisa), ma anche di Apollo stesso(che invece aveva residenza sull’altracima, Cirra). Va ricordato che sia all’iniziodell’Inferno (II, 7) sia del Purgatorio (I, 8),Dante aveva invocato le Muse: ora la loroprotezione non gli basta più, ed egli devericorrere a quella del dio stesso della poesia,Apollo, guida delle Muse.
a gloria di colui che tutto move ☛per l’universo penetra, e risplende
3 in una parte più e meno altrove.
Nel ciel che più de la sua luce prendefu’ io, e vidi cose che ridire
6 né sa né può chi di là sù discende;
perché appressando sé al suo disire,nostro intelletto si profonda tanto,
9 che dietro la memoria non può ire.
Veramente quant’ io del regno santone la mia mente potei far tesoro,
12 sarà ora materia del mio canto.
O buono Appollo, a l’ultimo lavoro ☛fammi del tuo valor sì fatto vaso,
15 come dimandi a dar l’amato alloro.
Infino a qui l’un giogo di Parnasoassai mi fu; ma or con amendue
18 m’è uopo intrar ne l’aringo rimaso.
L Proemio: memoria
e poesia del Paradiso
Invocazione ad Apollo
775
Paradiso • Canto I
Proemio: memoria e poesia del Paradiso
Il Paradiso inizia, di colpo, con una drammatica contrapposizione: da una parte, lo sfolgorio abbacinante
della luce di Dio; dall’altra, i poveri mezzi che Dante avrà a disposizione per tentare di ridire, di raccontare lo
sfolgorio di quella luce. Si imposta così, fino dai primi versi, il presupposto basilare del racconto paradisiaco,
che condiziona tutta la poesia di questa terza cantica, e che la rende così diversa dalle prime due. Dante è
stato nel cielo, l’Empireo, che è il luogo del cosmo invaso in più alto grado dalla luce gloriosa di Dio. Lì ha
visto cose che non possono essere ripetute da nessuno che abbia avuto il privilegio di tornare sulla Terra
dopo quella visione: perché l’intelletto si è inabissato così profondamente nel mistero divino, che la me-
moria non può stargli dietro; essendo la memoria cosa del corpo e dei sensi, mentre l’intelletto appartiene
all’anima razionale, che può spingersi, con la grazia di Dio, fino all’altezza della mente divina. Dante inizia
la nuova cantica, dunque, mettendo subito le mani avanti: la sua è una “missione impossibile”, frustrata
in partenza dalla sproporzione irreparabile fra l’altezza suprema dei contenuti e le risorse della memoria
umana. Della memoria, si badi. Infatti, che un poeta si dichiari impari al proprio compito, schiacciato dalla
nobiltà del proprio soggetto, inferiore insomma al contenuto della propria poesia, non è certo una novità:
anzi, è una sorta di scusa tradizionale, invocata proprio per esaltare, a contrasto, la propria bravura e il
proprio coraggio. Ma Dante qui non dice, per l’esattezza, che le sue risorse espressive siano scarse rispetto
all’argomento del suo canto (lo ha già detto all’Inferno, del resto, e lo dirà spesso anche qui, nel seguito del
Paradiso). Dante qui dice che la sua memoria non sarà all’altezza di ciò che ha visto. Ci attende quindi il reso-
conto di un viaggio in cui il narratore si troverà a combattere non soltanto con la propria lingua e il proprio
stile, impotenti a rappresentare il Paradiso, ma con la propria memoria, che non riuscirà a serbare se non
una minima parte della visione. Essa è avvenuta, infatti, in condizioni speciali e ormai non più riproducibili:
l’intervento della grazia divina che gli ha consentito l’accesso ai misteri di Dio non è più attivo, e il Paradiso
ha lasciato soltanto una labile traccia nella mente del Poeta. Superfluo sottolineare come siamo distanti
dai presupposti narrativi delle altre due cantiche. La discesa all’Inferno e l’ascesa al Purgatorio erano state
certo esperienze fuori dall’ordinario: ma sia l’Inferno che il Purgatorio erano stati viaggi affrontati con i
sensi (udito, tatto, olfatto, vista…), percepiti e vissuti facendo ricorso alle normali risorse della nostra vita
fisica, del nostro corpo. Non così il Paradiso. Vissuto travalicando i limiti dei sensi umani, il Paradiso non può
essere né raccontato né, prima ancora, ricordato da chi sia poi rientrato nella normalità dell’esistenza. Ci
si prospetta dunque un resoconto non più che approssimativo dell’esperienza vissuta. Il Paradiso di Dante
si apre su una professione di umiltà che suona quasi, fin da ora, come una fitta lancinante di nostalgia.
Va anche osservato che queste prime terzine impostano uno dei motivi figurativi, poetici e teologici
più importanti del Paradiso: quello della luce. Già quel primo vocabolo che, quasi con un clamoroso colpo
di gong, dà inizio al poema (La gloria di colui che tutto move…) va inteso come una sorta di sinonimo della
luce divina. Di quella gloria si dice infatti che penetra e risplende, diffondendosi e manifestandosi per tutto
l’universo, e subito dopo si specifica che Dante è stato proprio nel cielo che, all’interno della creazione, riceve
di più di quella gloria-luce: di quella gloria che si esprime attraverso la luce (potenza vitale per eccellenza)
e di quella luce che manifesta la gloria (ovvero, la potenza creatrice) di Dio. Il tema della luce come ema-
nazione e manifestazione della divinità deriva dalla filosofia platonica e neoplatonica: la quale pensava che
la creazione, partendo da Dio – luce assoluta –, non potesse che perdere a poco a poco splendore, dando
vita a forme di esistenza via via meno nobili e sempre più lontane dalla divinità. Tale concezione era stata
incorporata nella teologia cristiana, e viene qui riecheggiata da Dante, anche se in senso gioioso e positivo:
la luce, e quindi la presenza di Dio, è dappertutto nell’universo, anche se variamente distribuita in una parte
più e meno altrove. Il picco di luce divina si registra nel ciel che più de la sua luce prende: l’Empireo, destina-
zione ultima del viaggio paradisiaco di Dante, qui anticipato come la tappa finale, quella che lo ha portato
più vicino a Dio (e che costituisce fin da ora, infatti, l’esperienza più ardua, anzi impossibile, da ricordare).
In effetti, l’Empireo, a cui pure Dante si riferisce come loco e ampio loco (Inf. II, 71 e 84), è un luogo assai
peculiare. È un “decimo cielo”, che include in sé il Primo mobile (nono cielo), il cielo delle stelle fisse (ottavo
cielo) e i sette cieli, o sfere, dei vari pianeti: dunque l’intero universo fisico. Ma l’Empireo è pura luce: un
luogo immateriale, del tutto soprannaturale; è lo stato di beatitudine celeste goduto dalle anime, al di là
dei cieli materiali. Quando Dante ci entrerà, vedremo di capirlo un po’ meglio, sempre che sia possibile…
Ma nonostante tutto, quel poco che Dante riuscirà a ricordare sarà comunque materia del suo
canto. Certo, gli occorreranno protezioni e aiuti veramente d’eccezione.
Invocazione ad Apollo
Nel canto II dell’Inferno (il primo della cantica, in effetti: il canto I serviva a prologo di tutta l’opera),
Dante aveva invocato, piuttosto fuggevolmente, le muse. Nel canto I del Purgatorio aveva fatto appello
ancora alle sante Muse e, in particolare, alla più nobile di esse, Calliope, e aveva rammentato la sfida delle
☛ vv. 1-12
☛ vv. 13-36
776
Paradiso • Canto I
luce agli uomini da diversi punti dell’oriz-zonte (foci) a seconda delle stagioni; ma daquel punto dove si incrociano quattro cerchi,congiungendosi con tre croci, il sole vienefuori con corso più felice e in congiunzionecon una costellazione più fausta (quelladell’Ariete, a cui il sole è congiunto all’iniziodella primavera); e quando sorge da quelpunto dell’orizzonte il sole plasma (tempera)e imprime il suo suggello sulla realtà delmondo, quasi fosse malleabile cera». Iquattro cerchi sono l’equatore, l’eclittica, ilcoluro equinoziale (cioè il meridiano chepassa dal punto in cui sorge il sole all’equino-zio) e l’orizzonte; incrociandosi, essi formanotre croci. Il quattro e il tre hanno valoresimbolico, rappresentando rispettivamentele quattro virtù cardinali già simboleggiatedalla nuova costellazione australe comparsanel cielo del Purgatorio (I, 22-24) e le tre virtùteologali (a loro volta simboleggiate dalle trestelle della valletta dei principi (Purg. VIII,88-93).43-45 Fatto avea… nera: il sole, sorgendoda tal foce, cioè dal punto dell’orizzonteappena descritto, aveva fatto mattina(mane) di là, nell’emisfero australe dove sitrovavano Dante e Beatrice, e sera di qua,nell’emisfero boreale, dove si trova adesso ilPoeta; bianco: interamente luminoso.
cogliere del tuo alloro per adornare iltrionfo di un capitano vittorioso o di unpoeta – per colpa delle basse aspirazionidegli uomini d’oggi, i quali non ambisconopiù a tali onori, e se ne dovrebberovergognare – che la fronda dell’alberoin cui fu trasformata Dafne, la figlia diPeneo, quando invoglia qualcuno al suopossesso (di sé asseta), dovrebbe averel’effetto di generare letizia nella già lietadivinità di Delfi» (Apollo stesso, che a Delfiaveva il suo più celebre tempio e oracolo).Insomma, Apollo dovrebbe essere bencontento se qualcuno (ormai, purtroppo,sempre più raramente) aspira alla coronad’alloro dell’eccellenza poetica.34 Poca favilla… seconda: «Talvoltabasta anche solo una favilla per suscitareun grande incendio».35 di retro a me: «dopo di me»;con miglior voci: «con voci più dotate»;cioè, di poeti più bravi di me.36 Cirra: come si è visto, era la cima delParnaso dove risiedeva Apollo.37-42 Surge ai mortali… suggella: è ilmezzogiorno dell’equinozio di primavera: inquesto momento particolarmente propiziodel giorno e dell’anno Dante inizia la suaascesa ai cieli del Paradiso. «Il sole (lalucerna del mondo) sorge portando la sua
19 spira tue: «ispirami tu, canta tustesso al mio posto»; tue: tu, con l’epitesifiorentina, qui anche per ragioni di rima.20-21 sì come quando… membra sue:il satiro Marsia aveva osato sfidare Apolloa una gara di canto; vinta la gara, il diosi era vendicato estraendolo dalla guaina(vagina) delle sue membra, ovvero della suapelle, cioè scorticandolo. Nel Purgatorio,invocando le muse, Dante aveva ricordatola loro gara di canto con le Piche, le quali,sconfitte, erano state trasformate in gazze;qui, a proposito di Apollo, ricorda la com-petizione con Marsia: nell’uno e nell’altrocaso al fine di esaltare l’eccellenza inegua-gliabile delle sue protezioni.22-27 O divina virtù… mi farai degno:«O virtù divina, se ti concedi a me (ovvero,se mi assisterai con la tua potenza) tanto cheio sia in grado di esprimere anche soltantola pallida immagine (ombra) del Paradisoche è rimasta impressa nella mia memoria,vedrai che io potrò accostarmi degnamenteall’albero che tu hai tanto caro (diletto legno:l’alloro) ed essere meritatamente coronatodi quelle foglie di cui mi faranno degnol’altezza della materia e tu stesso, la tuaassistenza e ispirazione poetica».28-33 Sì rade volte… asseta: «O padreApollo, così di rado si dà l’occasione di
Entra nel petto mio, e spira tuesì come quando Marsïa traesti
21 de la vagina de le membra sue.
O divina virtù, se mi ti prestitanto che l’ombra del beato regno
24 segnata nel mio capo io manifesti,
vedra’mi al piè del tuo diletto legnovenire, e coronarmi de le foglie
27 che la materia e tu mi farai degno.
Sì rade volte, padre, se ne coglieper trïunfare o cesare o poeta,
30 colpa e vergogna de l’umane voglie,
che parturir letizia in su la lietadelfica deïtà dovria la fronda
33 peneia, quando alcun di sé asseta.
Poca favilla gran fiamma seconda:forse di retro a me con miglior voci
36 si pregherà perché Cirra risponda.
Surge ai mortali per diverse foci ☛la lucerna del mondo; ma da quella
39 che quattro cerchi giugne con tre croci,
con miglior corso e con migliore stellaesce congiunta, e la mondana cera
42 più a suo modo tempera e suggella. ☛ Le parole di Dante, p. 777
Fatto avea di là mane e di qua seratal foce, e quasi tutto era là bianco
45 quello emisperio, e l’altra parte nera,
Mezzogiorno: lo sguardo
di Beatrice…
777
Paradiso • Canto I
nove sorelle con le Piche: le quali, sconfitte, erano state punite con la trasformazione in gazze. Adesso,
sulla soglia del Paradiso, Dante mette in chiaro che invocare le muse non gli basta più. Seguendo alcune
fonti antiche, egli crede che il Parnaso, il monte della poesia, si presenti con due cime, Nisa e Cirra: la
prima abitata dalle muse, la seconda da Apollo stesso, il dio della poesia. Finora, egli dichiara, gli è ba-
stata una sola di queste cime; adesso dovrà fare ricorso a tutt’e due, per affrontare la sua ultima fatica.
Questa invocazione è evidentemente concepita come un esplicito superamento di quelle delle due can-
tiche precedenti: se nel Purgatorio si era ricordata la sfida delle muse con le Piche, adesso si cita quella di
Apollo con Marsia, finita anch’essa con la sconfitta dello sfidante e con una punizione ancora più atroce
(Marsia viene scorticato vivo dal dio). Lo scatto dalla protezione delle muse a quella di Apollo ha anche
la funzione di introdurre in questo proemio il motivo, nuovo nella Commedia, dell’alloro poetico. Per la
prima volta Dante manifesta l’ambizione di accostarsi all’albero sacro del dio per coglierne le fronde e
farsene corona, come gli imperatori o i poeti antichi: un motivo classicistico che avrà grande fortuna
nell’imminente Umanesimo, e che si pone qui come un fregio prestigioso, sulle soglie di una nuova età.
Ma Dante, più avanti nel poema, rivelerà il sogno di essere incoronato poeta nel suo bel San Giovanni
(Inf. XIX, 17), cioè nel Battistero di Firenze (non in Campidoglio a Roma, come accadrà a Petrarca…).
Il suo sogno classicista è radicato nella realtà comunale della sua città, e la sua corona d’alloro, pur di
flagrante derivazione “romana”, egli spera di conseguirla con un grande poema in volgare, scritto nella
lingua del suo popolo. È la prima volta che la corona d’alloro di Apollo è orgogliosamente ambita da un
poeta che non scrive più nella lingua di Roma, ma nell’idioma di una nuova moderna civiltà.
Mezzogiorno: lo sguardo di Beatrice…
Il vero e proprio racconto del viaggio inizia con una precisazione oraria: il tempo del giorno e dell’an-
no in cui tale inizio ha luogo, indicato attraverso (al solito) una complessa quanto enigmatica rete di
riferimenti cosmologico-astronomici. Se ne ricava (con qualche fatica e qualche incertezza di lettura)
che siamo al mezzogiorno dell’equinozio di primavera, quando le coordinate costituite dall’orizzonte,
dall’eclittica, dal meridiano equinoziale e dall’equatore si congiungono nel punto in cui sorge il sole,
dando luogo a tre croci, anche se alquanto imperfette, ovvero non proprio ad angolo retto. Quattro
cerchi, come le virtù cardinali; tre croci, come le virtù teologali; quattro più tre uguale sette, numero
sacro, il numero dei sacramenti, nonché dei peccati capitali (e quindi dei gironi dell’Inferno, delle ter-
razze del Purgatorio, dei pianeti e delle sfere celesti del Paradiso). Come sempre in Dante, l’esistenza
dell’individuo è al centro di una vicenda cosmica, segnata da indizi e da coordinate spazio-temporali di
alto valore simbolico: tanto più qui nella Commedia, dove Dante rappresenta l’intera umanità, purificata
e redenta, pronta a conoscere Dio faccia a faccia. La complicazione solenne e astrusa della precisazione
astronomica non è quindi fine a se stessa, non è uno sfoggio di dottrina o un indovinello: nel suo valore
simbolico, essa accompagna la ripresa del racconto conferendole un tono di sospeso, arcano mistero.
☛ vv. 37-48
LE PAROLE DI DANTE ☛ v. 42
TemperaQui nel senso di “plasmare”, “modellare”, “improntare di sé”. È un
significato che Dante attribuisce a questo verbo soprattutto quando
è, come qui, relativo a realtà o fenomeni cosmico-astronomici, o
anche semplicemente di natura: così ’l sole i crin sotto l’Acqua-
rio tempra, cioè il sole modera il suo calore in congiunzione con la
costellazione dell’Acquario (Inf. XXIV, 2); nel giardino dell’Eden la
divina foresta spessa e viva /…temperava il novo giorno, cioè filtrava la
luce del sole nascente (Purg. XXVIII, 2-3); Giove è definito temprata
stella per via del suo temperato calore, a metà fra la vampa affocata
di Marte e il gelido cristallo di Saturno (Par. XVIII, 68); parimenti
si parla del temperar di Giove (Par. XXII, 145); la stessa bellezza di
Beatrice, che accresce il suo splendore di cielo in cielo, in armonia con
quello dei vari pianeti, nel passaggio a Saturno dovrà essere “tempe-
rata”, quasi come quella di un astro: la bellezza mia… / se non si tem-
perasse, splende così tanto, afferma Beatrice stessa, che fulminerebbe
Dante (Par. XXI, 7-10). È un’accezione caratteristicamente dantesca,
non così comune nella lingua antica. Altrimenti temperare anche
nella Commedia significa normalmente “moderare”: è temperato il viso
con cui Pisistrato risponde alla moglie sdegnata (Purg. XV, 103), e
temperate, ma in senso sarcastico, sono definite all’Inferno le spese
dello Stricca, celebre scialacquatore senese (Inf. XXIX, 126).
Nella lingua moderna rimangono attivi soprattutto i significati
di “moderare”, “attenuare”, “bilanciare”: si pensi alle espressioni
geografiche “clima temperato”, “zona temperata”, e simili. Nei
testi letterari, un esempio per tutti, dai Promessi sposi di Manzoni
(cap. XVII): «Raccolse poi [Renzo] tutta la paglia che rimaneva
all’intorno, e se l’accomodò addosso, facendosene, alla meglio, una
specie di coperta, per temperare il freddo, che anche là dentro si
faceva sentire molto bene».
Superfluo sottolineare, infine, l’uso comunissimo di temperare nel
senso di “appuntire” o “aguzzare” una penna o una matita: uso, si
badi, ben antico, visto che si temperavano anche le penne d’oca di
una volta. Così per esempio nelle lettere di Giovanni Della Casa:
«La penna che io temperai ha renduto assai cattivamente, come
l’opera fa testimonianza», detto evidentemente di una penna che
aveva reso poco leggibile la grafia dello scrivente.
778
Paradiso • Canto I
65-66 e io in lei… rimote: «e io fissai leluci in lei, in Beatrice, dopo averle distolte(rimote) di là, dal sole».67-69 Nel suo aspetto… li altri dèi: nelfissare lo sguardo (aspetto) in Beatrice,Dante si sente trasformare dentro di sécome si sentì trasformare Glauco, quandoassaggiò l’erba che lo rese un dio marino,compagno delle altre divinità acquatiche.Racconta infatti Ovidio (Metamorfosi XIII,vv. 898-968) che Glauco, povero pescatoredella Beozia, aveva osservato come i pescida lui pescati, a contatto con una certa erbadel litorale, tornavano vivi e guizzanti, esaltavano di nuovo nell’acqua; assaggiatala,egli si trovò metamorfosato all’istante in undio del mare. Il mito antico è usato cometermine di paragone per il trasumanar (v. 70)di Dante.
l’alto. Ma secondo molti interpreti pelegrinpotrebbe essere anche un vero e propriopellegrino, ansioso di tornare in patriadopo aver compiuto il suo pellegrinaggio;in questo caso, tuttavia, il parallelismo coldoppio movimento del raggio, incidentee riflesso, verrebbe a cadere. L’imagine è,tecnicamente, la funzione immaginativa, ofantasia, in cui si accolgono le percezionifornite dai nostri sensi.55 là: nel Paradiso Terrestre, dove ancorasi trova Dante; lece: è lecito, possibile.56-57 a le nostre virtù: alle nostre facoltàumane; alle capacità dei nostri sensi;mercé… spece: «in grazia della natura diquel luogo (il Paradiso Terrestre) che fucreato apposta come dimora originariadell’uomo, prima del peccato originale».Dante dunque torna, per grazia divina, asperimentare le facoltà originarie dell’uma-nità: tra cui la straordinaria potenza dellavisione, che lo rende capace di fissare il solesenza esserne abbagliato.58-60 Io nol soffersi… del foco: Dantenon riesce a tollerare lo splendore del soletroppo a lungo, ma neanche così poco, danon discernere chiaramente la sua forma,contornata di faville, come un ferro arro-ventato che esce incandescente dal fuoco.61-63 di sùbito… addorno: sembra chela luce del giorno si sia raddoppiata, comese l’Onnipotente (quei che puote) avesseadornato il cielo di un secondo sole.64 ne l’etterne rote: «nelle sfere celesti».
46 in sul sinistro fianco: è mezzogiorno,e per guardare nel sole, Beatrice (orientataverso levante, come tutta la proces-sione appena vista negli ultimi canti delPurgatorio) si deve voltare verso sinistra;al contrario di quanto succede nel nostroemisfero, dove se qualcuno è girato versooriente, si trova il sole di mezzogiorno adestra.48 aguglia… unquanco: «mai aquilaaffisse il suo sguardo tanto intensamentenella luce del sole». Dante raccogliel’opinione comune secondo cui l’aquila,unico fra gli animali, potesse fissare il solesostenendone lo splendore; e che anzivi avvezzasse i suoi piccoli (così Lucano,Farsaglia IX, vv. 902-905).49-54 E sì come… nostr’ uso: «E cosìcome un secondo raggio suole generarsiper rifrazione dal primo (che abbia colpitouna superficie riflettente) e ritornare insu, proprio come un falcone pellegrinoche vuole tornare in alto (dopo essersiavventato sulla preda), così dall’atto diBeatrice, percepito attraverso gli occhi nellamia immaginazione, si generò il mio, e fuicapace di fissare il mio sguardo nel sole aldi là di quanto noi uomini siamo abituatia fare». Dante vuol dire che egli ripete ilgesto che vede fare a Beatrice, usando duesimilitudini: la riflessione di un raggio diluce; il movimento di un falcone da caccia,che dall’alto scende sulla preda e (presumi-bilmente, dopo averla mancata) risale verso
quando Beatrice in sul sinistro fiancovidi rivolta e riguardar nel sole:
48 aguglia sì non li s’affisse unquanco.
E sì come secondo raggio suole ☛uscir del primo e risalire in suso,
51 pur come pelegrin che tornar vuole,
così de l’atto suo, per li occhi infusone l’imagine mia, il mio si fece,
54 e fissi li occhi al sole oltre nostr’ uso.
Molto è licito là, che qui non lecea le nostre virtù, mercé del loco
57 fatto per proprio de l’umana spece.
Io nol soffersi molto, né sì poco,ch’io nol vedessi sfavillar dintorno,
60 com’ ferro che bogliente esce del foco;
e di sùbito parve giorno a giornoessere aggiunto, come quei che puote
63 avesse il ciel d’un altro sole addorno.
Beatrice tutta ne l’etterne rotefissa con li occhi stava; e io in lei
66 le luci fissi, di là sù rimote.
Nel suo aspetto tal dentro mi fei, ☛qual si fé Glauco nel gustar de l’erba
69 che ’l fé consorto in mar de li altri dèi.
… e di Dante
Dante «trasumanato»:
una nuova armonia,
un nuovo lume
779
Paradiso • Canto I
L’effetto narrativo è tanto più spiccato se pensiamo per contrasto a come cominciavano l’Inferno e il
Purgatorio. L’Inferno, nel buio di mezzanotte di una selva oscura; il Purgatorio, all’albeggiare trasparente
di un nuovo giorno; qui, il Paradiso, nel fulgore meridiano della più bella stagione dell’anno, la primavera,
stagione di rinascita e di nuovo rampollare della vita della natura. E in questo scenario invaso di luce,
così diverso rispetto a quello delle altre due cantiche, ora che l’emisfero boreale, il nostro, è inghiottito
dal nero della notte e l’altro, l’australe dove si trova Dante, è tutto… bianco, quasi calcinato dal fulgore
del mezzogiorno, Beatrice compie il primo gesto del poema: si gira sul fianco, a sinistra, e guarda alto
nel sole. È già, questo, un gesto che forza oltre i suoi limiti le risorse dell’umano: nessuno può fissare gli
occhi nel sole, normalmente, senza rimanerne abbagliato. Tant’è vero che Dante deve ricorrere alle di-
scutibili credenze del suo tempo, ereditate peraltro dal mondo classico, secondo cui solo l’aquila, fra tutti
i viventi, poteva guardare diritto nel sole: e Beatrice, infatti, contempla il disco solare con un’intensità
che mai aquila, afferma Dante, ne dimostrò l’eguale. Questa Beatrice-aquila ci dice dunque che siamo
alle soglie di un mondo, e di un’esperienza, dove nulla ormai funzionerà più come siamo abituati noi a
vedere sulla Terra; e come, più o meno, siamo stati abituati a vedere anche all’Inferno e in Purgatorio.
… e di Dante
La mossa di Beatrice, nel suo misterioso silenzio, viene percepita da Dante come un tacito invito a imitarla.
Ed ecco che anche il Poeta osa fissare gli occhi nel sole, oltre nostr’ uso: al di là (e d’ora in avanti non ci sarà
bisogno di sottolinearlo ogni volta) delle normali consuetudini umane. Così un raggio di luce, rimbalzando
su una superficie riflettente, ne genera un altro, rifratto; così un falcone pellegrino, durante una battuta di
caccia, dopo essersi avventato giù, in picchiata, torna verso l’alto: come se questo suo secondo volo nasces-
se “per rifrazione” dal primo (questa almeno ci sembra l’interpretazione più giusta di questa similitudine,
l’unica che si presti a una perfetta simmetria con quella del raggio di luce). L’ardire di Dante viene premiato:
egli constata che effettivamente è in grado di sostenere l’abbacinante luce solare; non molto a lungo, ma
neanche così poco, che non faccia in tempo a distinguerne nettamente la sagoma, con la sua corona di
fiamme sfavillanti: come quando si vede uscire un ferro incandescente dalla fornace. Ma i sensi del Poeta
vanno adesso incontro a un’altra sorpresa: adesso sembra che il sole in cielo si sia raddoppiato… Al che
Dante distoglie lo sguardo da quel cielo dove la luce sta dilagando, e lo fissa negli occhi stessi di Beatrice, la
quale, intanto, non ha cessato di contemplare intensamente verso l’alto, ne l’etterne rote, cioè verso le sfere
celesti dei pianeti, oltre i confini della Terra. Perché in effetti ciò che sta avvenendo non è ciò che Dante
vede o crede di vedere. Questa prima azione del Paradiso, questi primi gesti di Beatrice e di Dante non sono
quello che sembrano. Dante descrive il puro fenomeno: quello che vede, quello che gli appare, quello che
sente. Ma in realtà non è in grado di decifrare il vero significato delle sue percezioni. Tanto che i vv. 55-66
potrebbero essere letti anche come un vero errore – o almeno un equivoco – da parte di Dante. Infatti,
per spiegare il suo accresciuto potere visivo (adesso, come si è visto, egli è capace di fissare gli occhi nella
luce solare) Dante spiega che là, nel loco / fatto per proprio de l’umana spece, cioè nel Paradiso Terrestre, le
facoltà umane sono ben superiori a quelle che possiamo esercitare noi nel nostro mondo. Ora, è ben vero
che all’inizio del Paradiso è ragionevole supporre che Dante e Beatrice siano ancora dove li abbiamo lasciati,
sulla sommità della sacra montagna del Purgatorio; e si può pensare che Dante abbia ragione: cioè che,
quando egli imita il gesto di Beatrice che guarda nel sole, egli sia ancora sulla Terra. Ma dal seguito del rac-
conto si può capire che, invece, il suo volo verso la luna è già cominciato: solo che Dante non se ne accorge.
Dante trasumanato: una nuova armonia, un nuovo lume
Dunque Dante ha distolto gli occhi dal cielo e li ha fissati in quelli di Beatrice. Se già guardando verso
il sole si era accorto che il suo potere visivo si era accresciuto, adesso prova la travolgente sensazione
che, dentro di lui, si stia effettuando una vera e propria metamorfosi: qualcosa di simile a ciò che i miti
antichi raccontavano a proposito di Glauco, il pescatore che, assaggiata per curiosità un’erba marina,
si era trovato trasformato in dio del mare, passando così dalla natura umana a quella divina. Questo
passaggio, questa metamorfosi che Dante sente misteriosamente compiersi in sé, nelle sue capacità
di percezione e di sensazione, in tutto il suo essere, egli lo definisce con un vocabolo di sua invenzione:
Trasumanar, ovvero, “andare al di là dei confini dell’umano”. È questo soltanto il primo dei neologismi
che Dante s’inventa nel Paradiso, arricchendo il suo toscano di tante parole che prima non esistevano, e
che egli conia attingendo, spesso, al latino (come qui) o piegando e sforzando la lingua comune. Il fatto
è che, per descrivere un’esperienza così oltre l’umano, oltre la normalità, come quella del Paradiso, la
lingua umana, la lingua normale, non basta più. I neologismi danteschi sono il segno linguisticamente
più vistoso della tensione a cui sono sottoposte le risorse espressive di Dante, nello sforzo impari di es-
sere all’altezza dei contenuti di quest’ultima cantica.
☛ vv. 49-66
☛ vv. 67-84
780
Paradiso • Canto I
lago tanto ampio». Salendo verso il cielodella Luna, e quindi avvicinandosi allesfere celesti, Dante ne ascolta per la primavolta l’armonia; allo stesso tempo, vede cheil cielo si “allaga” di luce: o perché il solestesso (che secondo il sistema tolemaicogira anch’esso, in quarta posizione, intornoalla Terra) si fa più vicino; o perché Dantediventa qui capace di “vedere” la straor-dinaria luminosità delle sfere celesti,composte di materia lucidissima e traspa-rente; o perché – secondo altri interpreti,ed è forse la lettura più giusta – egli staattraversando la sfera del fuoco, che gliantichi immaginavano si interponesse frail mondo sublunare e la prima sfera dellaluna.84 di cotanto acume: «così acuto»;riferito al disio del v. 83.
sottolineare soltanto il fatto che Dante nonsi accorge, in questo momento, dei confinifra il corpo e lo spirito; in particolare, nonha la percezione di stare volando in altoverso il cielo della Luna. È Beatrice, infatti,che gli dovrà spiegare ciò che sta accadendo(vv. 91-93).76-81 Quando la rota… tanto disteso:«Quando il moto rotante delle sferecelesti, che tu rendi eterno (sempiterni)proprio attraverso il desiderio di te (ovvero,infondendo in esse l’impulso a ricongiun-gersi con te: donde il loro movimento), miattirò (fece atteso) con quella musica chetu stesso accordi (temperi) e dirigi nota pernota (discerni), mi parve allora che tantaparte del cielo si accendesse della fiammasolare, che mai alluvione, per eccesso dipioggia o straripare di fiumi, formò un
70-71 Trasumanar… non si poria: «l’e-sperienza di superare i confini dell’umanonon si potrebbe (poria) esprimere aparole». Trasumanar è neologismodantesco: il primo dei tanti che il Poetainventerà in questa cantica, sollecitatodall’esigenza di forzare i limiti della lingua“normale”, per descrivere un’esperienzaassolutamente fuori della normalità,come l’ascesa al Paradiso; però: perciò;l’essemplo: il mito antico di Glauco, usatoqui come “esempio”, come termine diparagone.72 a cui… serba: «per coloro ai quali lagrazia di Dio tiene in serbo l’esperienzavera e concreta del trasumanar». Coloro, inaltre parole, che per grazia di Dio andrannoin Paradiso, potranno sperimentare per-sonalmente ciò che significa oltrepassare iconfini dell’umano; per il momento, però, sidevono accontentare del paragone istituitoda Dante col mito antico, onde avereun’idea di quello che li aspetta.73-75 S’i’ era… mi levasti: Dante sirivolge a Dio (apostrofato amor che ’lciel governi) dicendo che solo lui sa se ilPoeta, nel momento in cui iniziò l’ascesa alParadiso, fosse solo anima o anche corpo;lui, che lo sollevò al cielo per forza dellasua luce, riflessa in Dante dallo sguardodi Beatrice. L’anima è qui espressa dallaperifrasi di me quel che creasti novella-mente: «quello che di me, della mia persona,era stato creato novellamente, da ultimo».(Si credeva infatti che l’anima razionale nonvenisse infusa al momento del concepi-mento, ma durante la gravidanza, quandol’organismo era già sviluppato.) L’incertezzadi Dante riecheggia quella di san Paolo,quando descrive il suo rapimento al terzocielo: «sive in corpore nescio, sive extracorpus nescio, Deus scit» (“se col corponon lo so, se fuori dal corpo pure non loso: Dio lo sa”, Seconda lettera ai Corinzi12, 3). Tuttavia, non c’è dubbio che Dantecompia questo suo ultimo tratto di viaggioanche col corpo; l’incertezza vuole qui
Trasumanar significar per verba ☛ Le parole di Dante, p. 780
non si poria; però l’essemplo basti72 a cui esperïenza grazia serba.
S’i’ era sol di me quel che creastinovellamente, amor che ’l ciel governi,
75 tu ’l sai, che col tuo lume mi levasti.
Quando la rota che tu sempiternidesiderato, a sé mi fece atteso
78 con l’armonia che temperi e discerni,
parvemi tanto allor del cielo accesode la fiamma del sol, che pioggia o fiume
81 lago non fece alcun tanto disteso.
La novità del suono e ’l grande lumedi lor cagion m’accesero un disio
84 mai non sentito di cotanto acume. ☛ Le parole di Dante, p. 781
LE PAROLE DI DANTE ☛ v. 70
TrasumanarBellissimo neologismo dantesco, formato
con la preposizione “tra” – nel senso di
trans latino, cioè “oltre” – e un verbo deno-
minativo da “umano”. Significa, come visto
nel commento, “andare oltre la dimensione
umana’”: una condizione indicibile
(Trasumanar significar per verba / non si
poria, scrive Dante) e che quindi richiede
una parola inaudita.
È notevole che il verbo trasumanar sia
stato adottato modernamente da Pier
Paolo Pasolini nel titolo della sua ultima
raccolta di versi: Trasumanar e organizzar
(1971). La passione per l’opera di Dante
attraversa tutta la carriera di Pasolini, che
in Divina Mimesis (1975) raccolse i tentativi,
più volte affrontati, di una riscrittura con-
temporanea della Commedia dantesca.
Trasumanar e organizzar è titolo che
conferma in modo volutamente esibito il
“dantismo” dell’autore: un dantismo però
trasformato in un termine di contrasto,
dal momento che i due verbi sono addi-
rittura ossimorici. “Trasumanar” è parola
dell’alto stile paradisiaco; “organizzar” (in
forma tronca, a ironica imitazione dello
stile aulico tradizionale, e per di più in
rima) è termine burocratico, ammini-
strativo, politico. Con questo ossimoro
Pasolini afferma, nello stesso tempo, il suo
legame con la tradizione e la sua volontà
di immergersi nel banale della contem-
poraneità; la sua doppia faccia di poeta e
di ideologo militante, che non arretra di
fronte alle problematiche di una modernità
non bella, ma nella quale sente la necessità
di intervenire, di prendere posizione, even-
tualmente di proporre soluzioni.
781
Paradiso • Canto I
La metamorfosi interiore è così sconvolgente, che in Dante affiora un dubbio: ma egli è salito in
cielo col corpo o con l’anima solamente? Non sarà che questa metamorfosi è l’esperienza di una vita
puramente spirituale, liberata dalla prigionia della carne e dai limiti dei sensi? «Tu solo lo sai», si risponde
Dante, rivolgendosi a Dio (e ripetendo le parole con cui san Paolo, rapito al terzo cielo, si era chiesto se
ciò era avvenuto «sive in corpore … sive extra corpus»). Ma in realtà, per noi lettori della Commedia, e del
seguito del Paradiso, non sussistono dubbi. Dante compie anche l’ultimo tratto del suo pellegrinaggio
nell’interezza della sua persona, anima e corpo; certo, con un corpo divinamente manipolato, e reso
capace, di cielo in cielo, di vedere, di sentire, di capire cose che al corpo puramente terrestre non sa-
rebbero consentite.
Così interiormente mutato, Dante va incontro ad altre due esperienze
per lui sconosciute, e che lo lasciano sbalordito: una acustica,
e l’altra visiva. La prima è la percezione di un’armonia
divina: è la musica delle sfere celesti, accordata
e regolata da quel supremo direttore d’or-
chestra che è Dio stesso. La seconda
è la sensazione che il sole dilaghi
improvvisamente per tutta
l’estensione del cielo, come
LE PAROLE DI DANTE ☛ v. 84
AcumeDal latino acumen, “punta”, è vocabolo che, significativa-
mente, si trova solo nel Paradiso, a significare vari aspetti
dell’esperienza finale, estrema, del viaggio dantesco.
Qui si accompagna a disio ed esprime l’acutezza del
desiderio; nello stesso senso astratto designa, in Par.
XXXII, 75, l’intervento originario della grazia divina, il
primiero acume. In altri due luoghi, invece, acume si
riferisce all’acutezza della luce paradisiaca, una “punta”
che ogni volta sbaraglia le capacità visive di Dante: così
in Par. XXVIII, 16-18: un punto vidi che raggiava lume /
acuto sì, che ’l viso ch’elli affoca / chiuder conviensi per lo
forte acume; e, ormai in prossimità dell’ultima visione: Io
credo, per l’acume ch’io soffersi / del vivo raggio, ch’i’ sarei
smarrito, / se li occhi miei da lui fossero aversi (Par. XXXIII,
76-78). Questi significati sono piuttosto caratteristici
della Commedia e in particolare, come già detto, del
Paradiso; nella lingua antica acume vale piuttosto, gene-
ricamente, “cima”, “vetta”, e simili.
Però già nell’antichità si trova il significato che è passato
nell’italiano moderno, ovvero acume come “perspica-
cia”, “capacità di penetrazione dell’intelligenza”. Scrive
Boccaccio, nel Decameron (I, 1): «non potendo l’acume
dell’occhio mortale nel segreto della divina mente
trapassare in alcun modo, avvien forse talvolta che,
da oppinione ingannati, tale dinanzi alla sua maestà
facciamo procuratore che da quella con eterno essilio
è iscacciato»; Boccaccio fa riferimento a ser Ciappel-
letto, uomo di infame vita, venerato tuttavia come
santo, dal momento che i fedeli non posseggono vista
tanto sottile, o acuta, da poter sapere chi sia in Paradiso
o chi no. Ma, più vicina a noi, si legga nei Promessi
sposi la preghiera di Renzo nel lazzaretto (cap. XXXVI):
«quivi fece a Dio una preghiera, o, per dir meglio un
viluppo di parole scompigliate, di frasi interrotte, di
esclamazioni, d’istanze, di querele, di promesse: uno di
quei discorsi che non si fanno agli uomini, perché non
hanno abbastanza acume per intenderli, né sofferenza
[“pazienza”] per ascoltarli». Così nell’edizione del 1827;
in quella definitiva del 1840, acume, forse sentito di stile
troppo elevato, viene sostituito col più piano «penetra-
zione».
Oggi acume è d’uso diffuso anche nella lingua parlata
e giornalistica: «politico di grande acume», «discorso di
sottile acume», e così via.
782
Paradiso • Canto I
principio informatore che rende l’universosimile a Dio, creatore e ordinatore delcosmo».106-108 Qui veggion… la toccata norma:«Qui, in questa ordinata forma del cosmo,le creature più nobili (l’alte creature, quelledotate di intelletto: gli angeli e gli uomini)riconoscono l’orma della potenza di Dio,che è il fine per il quale è stata creata quellanorma, cioè l’ordine armonioso sopra citato».109 accline: inclinate.111 più… men vicine: «tutte le creature,secondo la loro diversa natura, sono più omeno vicine al principio loro, a Dio».112-114 onde si muovono… la porti: «levarie creature si muovono verso differentidestinazioni, attraverso il grande maredell’esistenza, ciascuna guidata da unistinto che le è stato infuso in modo daguidarla al suo compimento».115-117 Questi ne porta… aduna: ilpronome questi è singolare, e si riferisce
parole di Beatrice sono accompagnate daun sorriso. Da notare l’uso eccezionaledi “sorridere” come passivo (e dunquetransitivo): una nuova licenza linguistica,qui efficacemente sintetica.97-99 «Già contento… questi corpilevi»: «Già sono rimasto quieto (requïevi,pretto latinismo) e soddisfatto per quantoriguarda la mia grande meraviglia diprima (ammirazion, causata dall’armo-nia delle sfere e dal dilagare della luce); maora mi meraviglio di come io possa salireattraverso questi corpi levi (l’atmosferaterrestre e la sfera del fuoco)».100 appresso… sospiro: «dopo averesospirato pietosamente».101-102 con quel sembiante… deliro:«con l’atteggiamento di una madre chesi china sopra un figliolo delirante per lafebbre», con affetto e apprensione insieme.104-105 questo… simigliante: «questoordine armonioso delle cose è la forma, il
85 ella… com’ io: Beatrice vede nell’in-timo di Dante come Dante stesso si vede esi rende subito conto del desiderio che loagita.86 commosso: eccitato e agitato dallanovità di ciò che vede e ode, e dalla vogliadi conoscerne le ragioni.88-89 ti fai grosso… imaginar: «ti rendiottuso con le tue false supposizioni».90 se l’avessi scosso: riferito al falsoimaginar: se Dante avesse rimosso dalsuo animo il falso presupposto della suameraviglia (ovvero, la convinzione di essereancora sulla Terra), tutto gli sarebbe chiaro.92-93 ma folgore… ch’ad esso riedi:nessun fulmine, scaricandosi sulla terra,e quindi allontanandosi dalla sua dimoranaturale, che è la sfera del fuoco, corse maitanto veloce come Dante in questo momentoin cui sta tornando al suo proprio sito, il cielo,meta ultima del destino dell’uomo.95 sorrise parolette brevi: le brevi
Ond’ ella, che vedea me sì com’ io, ☛a quïetarmi l’animo commosso,
87 pria ch’io a dimandar, la bocca aprio
e cominciò: «Tu stesso ti fai grosso ☛ Le parole di Dante, p. 783
col falso imaginar, sì che non vedi90 ciò che vedresti se l’avessi scosso.
Tu non se’ in terra, sì come tu credi;ma folgore, fuggendo il proprio sito,
93 non corse come tu ch’ad esso riedi».
S’io fui del primo dubbio disvestitoper le sorrise parolette brevi,
96 dentro ad un nuovo più fu’ inretito
e dissi: «Già contento requïevidi grande ammirazion; ma ora ammiro
99 com’ io trascenda questi corpi levi».
Ond’ ella, appresso d’un pïo sospiro, ☛li occhi drizzò ver’ me con quel sembiante
102 che madre fa sovra figlio deliro,
e cominciò: «Le cose tutte quantehanno ordine tra loro, e questo è forma
105 che l’universo a Dio fa simigliante.
Qui veggion l’alte creature l’ormade l’etterno valore, il qual è fine
108 al quale è fatta la toccata norma.
Ne l’ordine ch’io dico sono acclinetutte nature, per diverse sorti,
111 più al principio loro e men vicine;
onde si muovono a diversi portiper lo gran mar de l’essere, e ciascuna
114 con istinto a lei dato che la porti.
Questi ne porta il foco inver’ la luna;questi ne’ cor mortali è permotore;
117 questi la terra in sé stringe e aduna;
Beatrice spiega: stanno
volando verso la luna
Le ragioni del volo:
l’ordine dell’universo…
783
Paradiso • Canto I
un’alluvione di luce. Ancora una volta, Dante non è capace di decifrare ciò che sta in effetti accadendo;
agitato da un’acuta curiosità, si rivolge a Beatrice per spiegazioni.
Beatrice spiega: stanno volando verso la luna
E Beatrice spiega. Povero Dante: basterebbe che egli non facesse torto a se stesso col falso imaginar,
cioè con troppo ingenue supposizioni, e il vero lo vedrebbe facilmente da sé. Il fatto è che, anche se
non sembra, Dante e Beatrice non sono più sulla Terra, ma stanno schizzando verso l’alto, verso il cielo,
alla velocità di una folgore; anzi, nessun fulmine si abbatté mai sulla Terra con la velocità con cui essi
si stanno avvicinando alle sfere celesti. La musica che Dante sente significa che essi sono ormai fuori
dal mondo sublunare, entro il quale la musica delle sfere non è udibile; il fiume di luce che allaga il cielo
è la sfera del fuoco, che essi stanno attraversando. Il movimento ormai non è più percepibile come
sulla Terra, e nel corso del Paradiso non lo sarà mai, come tale. D’ora in avanti, Dante si accorgerà di
“muoversi” – cioè, di volare di cielo in cielo – solo attraverso il mutamento dell’intensità della luce e
della qualità della musica.
Dante rimane soddisfatto della spiegazione di Beatrice, ma a questo punto sorge un nuovo dubbio: se
è vero che egli – anche se non se ne accorge – sta salendo verso i cieli, com’è possibile che, col suo pesante
corpo umano, possa superare questi corpi levi, ovvero le sfere dell’aria e del fuoco che circondano la Terra?
Le ragioni del volo: l’ordine dell’universo…
E Beatrice rispiega. Bisognerà abituarsi a questo ritmo un po’ scolastico (l’allievo chiede, la professo-
ressa risponde). Anche se Dante cercherà sempre di variare i toni e le inflessioni delle domande e delle
risposte, la modalità si presenta inevitabilmente ripetitiva: qui, le due spiegazioni di Beatrice cominciano
proprio nello stesso modo: Ond’ ella, che vedea me sì com’ io / Ond’ ella, appresso d’un pïo sospiro…
Comincia qui la prima lezione teologica di Beatrice: ce ne saranno parecchie, nel corso del Paradiso.
Non sono le occasioni che godono di maggiore favore presso i lettori, e spesso si tratta, in effetti, di
passi di ardua spiegazione. Né, d’altra parte, sono passi che si possono ignorare o mentalmente tagliare
via dal testo. Primo, perché non si può amputare Dante della sua cultura e della sua dottrina; secondo,
perché Dante possiede il dono di rappresentare anche le verità filosofiche e teologiche più ostiche per
visioni, immagini, metafore, riuscendo a trasmetterle per via di raffigurazione fantastica; terzo, perché il
rapporto fra Dante e Beatrice, sostituendosi a quello fra Dante e Virgilio, mette in scena un nuovo dialo-
go pedagogico, e drammatizza un rapporto discepolo-maestro non privo di fascino e di pathos affettivo.
La lezione di Beatrice si può riassumere come segue. «Il cosmo è ordinato secondo leggi armoniche,
che rispecchiano la perfetta armonia del suo creatore. Anzi, è proprio qui, in quest’ordine universale, che
è dato alle creature provviste d’intelletto, gli angeli e gli uomini, di riconoscere l’orma de l’etterno valore,
ovvero l’impronta stessa della potenza divina. Entro questo ordine cosmico, ogni cosa creata è orientata
a una sua specifica finalità, che costituisce il compimento della sua natura: ognuna attraversa lo gran
☛ vv. 85-99
☛ vv. 100-126
LE PAROLE DI DANTE ☛ v. 88
GrossoQui fa riferimento a una caratteristica della mente, e sta a signi-
ficare “ottuso”, “grossolano”. Tipico questo uso: anche più avanti,
in Par. XIX, 85: Oh terreni animali! oh menti grosse!; ma anche in
Inferno si parla di gente grossa (Inf. XXXIV, 92), a proposito degli
ignorantoni che in quel punto del testo non si saranno resi conto
di come Dante, aggrappandosi al corpo di Lucifero, abbia oltrepas-
sato il centro della Terra.
È un uso ben attestato nella lingua antica: si veda per esempio
Boccaccio, che nel Decameron (III, 1) scrive: «sono ancora di quegli
assai che credono troppo bene che la zappa e la vanga … rendan
loro [i lavoratori della terra] d’intelletto e d’avvedimento gros-
sissimi», e Leonardo da Vinci, nel Trattato della pittura: «non è sì
grosso ingegno che, voltatosi ad una cosa sola e quella sempre
messa in opera, non la faccia bene».
Per il resto, Dante usa grosso nel senso di “spesso”, “fitto”,
insomma come il nostro grosso del linguaggio italiano corrente:
grossa è la pioggia del cerchio dei golosi (Inf. VI, 10), grossi sono gli
argini del girone dei sodomiti (Inf. XV, 11), grosso e scuro è l’aere
attraverso cui nuota Gerione (Inf. XVI, 130), grosse sono le cappe di
piombo dorato degli ipocriti (Inf. XXIII, 101), e così via.
Infine, grosso viene usato nella Commedia anche come sostantivo,
nel senso della zona centrale, più robusta e consistente, di un corpo,
intorno ai lombi: così i simoniaci stanno conficcati nelle loro buche
tonde infino al grosso (Inf. XIX, 24), e la discesa lungo il corpo di
Lucifero, già menzionata, vede Virgilio catapultarsi, con fatica e con
angoscia, proprio in sul grosso de l’anche del diavolo (Inf. XXXIV, 77).
La lingua moderna, invece, non ha ereditato, in genere, il senso
antico di grosso come “mentalmente ottuso”, anche se talvolta
riaffiora, quasi come un arcaismo. Lo usano per esempio Antonio
Baldini, in Beato fra le donne: «il ragazzo … composto di materia
così grossa che lontano dalla madre non saprebbe campar quattro
giorni»; e Riccardo Bacchelli, nei Tre schiavi di Giulio Cesare: «Il
portinaio era di ingegno grosso ma di prestante e pomposa
presenza».
784
Paradiso • Canto I
concessivo; si tratta dell’uomo, che uniconel creato possiede il libero arbitrio), deviada questo corso».133-135 sì come veder… da falso piacere:«l’impulso originario (impeto primo)dell’uomo può abbattersi verso terra,pervertito dall’attrazione di falsi piaceri(invece di alzarsi al cielo, seguendo la suapiù vera natura), come anche il fuoco puòcadere verso il basso (a dispetto della suainclinazione naturale), quando il fulmine siscarica dalle nubi».136-138 Non dei… giuso ad imo: «Nondevi meravigliarti della tua ascesa verso icieli, se giudico bene, se non come ti mera-viglieresti di un corso d’acqua, se scendegiù a valle dall’alto di un monte». Ovvero,non c’è niente da meravigliarsi, nell’unoe nell’altro caso: si tratta di fenomeniugualmente naturali.139-141 Maraviglia… in foco vivo: cisarebbe da meravigliarsi se Dante fosserimasto giù… assiso, cioè fermo sulla Terra,adesso che è libero da ogni impedimento,allo stesso modo che ci sarebbe da meravi-gliarsi se, sulla Terra, una fiamma viva stesseferma, senza slanciarsi verso l’alto, secondola sua natura. La raggiunta perfezionemorale di Dante si traduce in liberazionefisica dai pesi della condizione umana.142 il viso: la vista, lo sguardo.
l’impulso al movimento, che poi trasmettealle sfere sottostanti, dove stanno le stellee i pianeti.124-126 e ora lì… in segno lieto: «e inquesto momento là, verso l’Empireo, comea luogo stabilito (decreto), ci sta portandola potenza di quella corda che indirizzaa un bersaglio felice (segno lieto) ciò chefa scoccare dall’arco». Dante sta dunqueascendendo verso la finale destinazione delsuo viaggio, obbedendo alla legge universaleche, come abbiamo visto, guida ognicreatura verso il fine a cui è ordinata, all’in-terno dell’armonia cosmica regolata dallaprovvidenza divina. La metafora della cordae dello scoccare continua quella dell’arco,già usata ai vv. 118-119.127-132 Vero è… in altra parte: Beatricespiega che l’orientamento di ogni creaturaverso il proprio fine non è deterministico.In particolare, l’uomo conserva il potere diindirizzarsi altrove, contraddicendo talvoltail suo destino attraverso un uso perversodel libero arbitrio: «È vero che però, comela forma di un’opera d’arte molte voltenon si accorda con l’intenzione dell’arti-sta, perché la materia è sorda a rispondere,cioè oppone resistenza agli sforzi espressividi chi cerca di plasmarla; così talvolta lacreatura che ha il potere di piegare in altredirezioni, pur così indirizzata (così pinta:
all’istinto (v. 114), che «porta il fuoco asalire verso l’alto, per ricongiungersi allasua sfera, presso il cielo della Luna; muove(è permotore) i sentimenti e le emozioni nelcuore degli uomini; sotto la forma di forzadi gravità, tiene stretta in un corpo solo laTerra».118-120 né pur… intelletto e amore:«questa norma universale determina l’esi-stenza non soltanto delle creature irrazio-nali, ma anche di quelle capaci d’intelletto edi amore (gli angeli e gli uomini)». La forzadi questa norma universale è qui espressadalla metafora della saetta che colpisce,scoccando dall’arco, ogni creatura dell’uni-verso, animata e inanimata, dotata o menodi ragione.121 che cotanto assetta: «che provvede aquesto grandioso ordine universale».122-123 del suo lume… maggior fretta:«la provvidenza divina acquieta, con lapienezza della sua luce, il cielo (l’Empireo)entro il quale si muove la più veloce dellesfere celesti (il Primo mobile)». In altreparole, l’Empireo è un cielo spirituale, nonfisico: sede della luce divina: per questo èquieto, perché non aspira, come il restodel cosmo, a muoversi verso Dio, che lìha la sua dimora. Invece l’ultima dellesfere celesti, il Primo mobile, che giraa contatto dell’Empireo, da esso riceve
né pur le creature che son fored’intelligenza quest’ arco saetta,
120 ma quelle c’hanno intelletto e amore.
La provedenza, che cotanto assetta,del suo lume fa ’l ciel sempre quïeto
123 nel qual si volge quel c’ha maggior fretta;
e ora lì, come a sito decreto,cen porta la virtù di quella corda
126 che ciò che scocca drizza in segno lieto.
Vero è che, come forma non s’accorda ☛molte f ïate a l’intenzion de l’arte,
129 perch’ a risponder la materia è sorda,
così da questo corso si dipartetalor la creatura, c’ha podere
132 di piegar, così pinta, in altra parte;
e sì come veder si può caderefoco di nube, sì l’impeto primo
135 l’atterra torto da falso piacere.
Non dei più ammirar, se bene stimo,lo tuo salir, se non come d’un rivo
138 se d’alto monte scende giuso ad imo.
Maraviglia sarebbe in te se, privod’impedimento, giù ti fossi assiso,
141 com’ a terra quïete in foco vivo».
142 Quinci rivolse inver’ lo cielo il viso.Esercitati
su zte.zanichelli.it
… e la libertà dell’uomo
785
Paradiso • Canto I
mar de l’essere guidata da un istinto, da una forza interna che la guida verso il suo porto, la sua debita
destinazione. Questa spinta interna di ogni cosa fa sì che la fiamma, per esempio, si slanci verso l’alto,
verso la sfera del fuoco; che gli animali sprovvisti di ragione seguano l’impulso delle loro funzioni vitali;
che la Terra se ne stia stretta e compatta, obbedendo alla legge di gravità; né gli esseri razionali, dotati
di intelletto e di amore, vanno esenti da questa legge universale. È la provvidenza divina, che ordina e
governa questo assetto del cosmo; in particolare, essa riempie di sé e della sua luce l’Empireo, tanto
che questo cielo, a differenza del resto del creato, non si muove: ogni movimento è sintomo infatti di
una tensione, di un bisogno, e l’Empireo è così pieno di Dio da non desiderare di più (si muove invece,
alla massima velocità, il cielo detto Primo mobile, a contatto dell’Empireo, trasmettendo il suo moto ai
cieli inferiori). E lì, verso l’Empireo, come a sito decreto, cioè alla destinazione fatale del nostro viaggio,
stiamo salendo in questo momento; spinti dal potere intrinseco che porta ogni cosa verso la sua meta
naturale.»
La lezione di Beatrice ci presenta una concezione del mondo certo molto lontana dalla nostra cul-
tura e dalle nostre conoscenze scientifiche. Tuttavia, ciò che rende più remota la lezione di Beatrice non
sono i singoli elementi, ovviamente obsoleti, di una visione antica del cosmo. È, più di ogni altra cosa, la
relazione qui interposta tra fisica e metafisica, tra natura e teologia. Il cosmo che Beatrice ci presenta,
infatti, funziona secondo un regime misto, per così dire, di leggi fisiche, empiricamente verificate, e di
presupposti ideologici. La legge di gravità, o la tendenza del fuoco a salire verso l’alto, può corrisponde-
re, infatti, a un’osservazione sperimentale; il moto stesso degli astri, anche per un uomo del Medioevo,
poteva essere osservato, misurato ed espresso da formule matematiche. Nello stesso tempo, però,
Beatrice trova normale, anzi naturale, che il corpo di Dante, liberato dal peso del peccato, schizzi verso
la sfera lunare, superando alla velocità del fulmine l’atmosfera terrestre: una condizione morale si tra-
duce automaticamente in moto fisico. È la stessa mentalità per cui gli antichi leggevano il cielo in modo
anche genialmente sperimentale, ma allo stesso tempo facendo discendere alcune leggi e fenomeni da
presupposti metafisici: per esempio, il fatto che dovesse esistere un Primo mobile, non osservabile, che
doveva fare da tramite fra l’immobilità dell’Empireo (tale per ragione teologica, essendo invaso dalla
luce di Dio) e il movimento delle sfere e dei loro pianeti. Questa interferenza delle credenze filosofiche,
teologiche, metafisiche, nel mondo fisico e nelle sue leggi ci rende sicuramente il mondo di Dante dif-
ficile da capire. Ma per leggere il Paradiso bisognerà accettare di entrare proprio in questa mentalità.
… e la libertà dell’uomo
Naturalmente, la legge universale che orienta ogni cosa verso il suo fine non è una legge assolutamen-
te deterministica. Bisogna fare i conti con la creatura che, così pinta, cioè pur sottoposta anch’essa alla
forza di quella legge, ha podere / di piegar… in altra parte: ovvero con l’uomo che, dotato di libero arbitrio,
può anche scegliere di sottrarsi al suo stesso impulso naturale, che lo spingerebbe verso il bene, verso
il cielo, verso Dio. Insomma, il resto del cosmo non ha scelta: deve muoversi verso la sua destinazione.
L’uomo no: come il risultato finale di un’opera d’arte talvolta non corrisponde alle intenzioni dell’artista,
così talvolta l’uomo, usufruendo malamente della sua libertà, viene fuori diverso da quello che dovrebbe
essere; si allontana da quello che sarebbe il suo corso naturale. Ciò avviene quando l’uomo, refrattario
all’intenzione divina come una materia refrattaria al genio dell’artista, invece di volgersi verso l’alto,
verso il cielo, si abbatte verso terra, attratto e deviato da falsi piaceri mondani. Un po’ come succede
quando il fulmine si scarica in basso, mentre la sua natura lo porterebbe, come ogni fuoco, verso l’alto,
verso la sua sfera. Di conseguenza – conclude Beatrice – nessuna meraviglia che Dante stia adesso
ascendendo verso le sfere celesti: ora che egli è privo / d’impedimento, è questo il suo moto naturale;
esattamente come è naturale il moto di un corso d’acqua, che dall’alto di un monte scenda a valle. Ci
sarebbe da meravigliarsi, invece, se Dante fosse rimasto sulla Terra: come, tanto per continuare con i
paragoni naturali, ci sarebbe da meravigliarsi se una fiamma se ne stesse acquattata rasoterra, invece
di slanciarsi verso l’alto.
Questa chiosa finale di Beatrice conferma dunque il rapporto particolare che lega, nel mondo di
Dante, fisica e metafisica, corpo e anima. La destinazione di Dante, come di ogni creatura umana, è
l’Empireo, ovvero Dio stesso? Allora il fatto che ora Dante sia in ascesa verso quella destinazione non è
né strano né eccezionale. Egli sta eseguendo il programma, per così dire, intrinseco alla sua natura; sta
navigando verso il suo “porto”. Semmai “innaturale” è stata la sua vita di prima: quando i falsi piaceri lo
piegavano a terra, contro la sua più vera vocazione.
Dopo di che, conclusa la sua lezione, chiarito ciò che sta avvenendo, e perché, la donna della salvez-
za torna a rivolgere il viso – e lo sguardo – verso il cielo. E dato che quello sguardo è la forza motrice di
Dante, per tutto questo Paradiso, si può credere che anche il Poeta faccia lo stesso.
☛ vv. 127-142
786
Paradiso • Canto IP
er
ap
pro
fon
dir
e
Per approfondire
La musica delle sfere celestiMentre Dante, in questo primo canto, ascende dal Paradiso Ter-
restre verso il primo cielo, quello della Luna, non solo la sua vi-
sione viene invasa de la fiamma del sol, che sembra quasi allagare
il suo campo visivo, ma anche il suo udito viene catturato da un
suono mai prima ascoltato, sì che luce e suono eccitano all’e-
stremo il suo desiderio di sapere (vv. 82-84):
La novità del suono e ’l grande lume
di lor cagion m’accesero un disio
mai non sentito di cotanto acume.
Beatrice risponde spiegando che Dante non si sta rendendo
conto di volare verso le sfere celesti, ma in realtà non spiega che
cosa siano né il suono né il lume; e se quest’ultimo va con tutta
probabilità riferito all’attraversamento della sfera del fuoco, in-
terposta fra la Terra e la luna, il suono è senz’altro la musica cre-
ata dal movimento delle sfere celesti.
Che l’universo “canti”, cioè produca nei suoi moti astrali una
musica che noi sulla Terra non possiamo udire, è un vero e pro-
prio pilastro della cosmografia e filosofia antica. La spiegazione
più famosa si legge nel Somnium Scipionis, un passo del De re
publica di Cicerone, in cui Scipione Emiliano sogna di vedere il
suo antenato, Scipione Africano, che, oltre a predirgli ciò che lo
aspetta nella sua vita futura, gli mostra le meraviglie del creato;
un creato molto simile, dal punto di vista cosmologico, a quello
che Dante attraversa nel suo Paradiso. Come Dante, anche Sci-
pione non può fare a meno di notare la musica che si sprigiona
dalle sfere celesti:
E stupefatto a guardare tali meraviglie, appena mi ripresi
‘Che cosa è’, dissi, ‘questo suono così profondo e dolce che
riempie le mie orecchie?’ ‘È, rispose, ‘quel suono che legato
a intervalli di durata diversa, ma tuttavia distinti in propor-
zione secondo un principio razionale, è prodotto dalla spinta
e dal movimento delle orbite stesse, e che, temperando le
note acute con le gravi, genera melodie armoniosamente
varie; e d’altra parte movimenti così grandi non potrebbero
prodursi tanto velocemente in silenzio, e la natura comporta
che le sfere situate alle estremità producano da una parte
suoni gravi dall’altra invece suoni acuti. Perciò il supremo
giro che porta le stelle fisse, la cui rivoluzione è più rapida,
si muove con un suono acuto ed elevato, invece quello della
Luna, che è il più basso, con il suono più grave […].
La domanda che sorge spontanea, a questo punto, è perché tale
musica non sia udibile qui sulla Terra. La risposta è semplice:
perché l’udito degli uomini, che ascoltano quella musica da sem-
pre, ne è rimasto assordato:
Le orecchie degli uomini riempite di questo suono divennero
sorde; e non esiste in voi alcun senso più debole, come il
popolo che abita in quella località che si chiama Catadupa,
dove il Nilo precipita da monti altissimi, è rimasta priva
del senso dell’udito a causa dell’intensità del rimbombo.
Ma è così potente il suono per il rapidissimo movimento di
rotazione di tutto l’universo, che le orecchie degli uomini
non sono in grado di percepirlo, come non potete tenere lo
sguardo fisso al sole […].
Cicerone, La Repubblica, a cura di Francesca Nenci,
BUR, Milano 2008
La musica delle sfere ci riporta ai rapporti che nella cultura
antica legano suono e numero. È una concezione che risale ad-
dirittura a Pitagora, al quale si attribuiva l’osservazione che l’al-
tezza di una nota musicale è proporzionale alla lunghezza della
corda che la produce. Il cristianesimo cristallizzò questo legame
tra la musica e i moti celesti, matematicamente misurati, as-
segnando a ogni sfera planetaria una gerarchia di angeli – e di
angeli musicanti, incaricati essi stessi di regolare il suono della
sfera loro assegnata. Questo spiega fra l’altro perché l’angelo
è spesso raffigurato con uno strumento musicale fra le mani:
esso non va inteso come un menestrello qualunque, ma come
un “agente” della musica universale.
Il legame intrinseco tra musica e numeri trova conferma
nell’ordinamento disciplinare che dalla tarda antichità si conso-
lidò nel Medioevo, fino all’epoca di Dante, fondato sullo studio
delle sette arti liberali, all’interno delle quali si distinguevano
quelle del Trivio e del Quadrivio. Le arti, o discipline, del Trivio
erano la grammatica, la retorica e la dialettica; quelle del Qua-
drivio erano l’aritmetica, la geometria, la musica, l’astronomia.
Come si vede, si tratta di un paradigma intellettuale molto
diverso dal nostro: noi oggi associamo la musica alle materie
cosiddette “umanistiche”, ma per secoli, invece, essa rimase a
far parte integrante di quelle che oggi chiameremmo discipline
“scientifiche”. D’altronde, ciò è confermato dall’interesse che
matematici e astronomi, anche in tempi moderni, riservaro-
no alla questione della musica celeste: lo stesso Keplero, che
nel suo Harmonices Mundi (“Le armonie del mondo”, 1619) di-
mostra la cosiddetta “terza legge” sui moti dei pianeti, dedica
seria attenzione al problema, fondendo il concetto metafisico
di armonia delle sfere con le leggi dei moti planetari. Nella
sua trattazione, in particolare, Keplero supera il modello statico
delle sfere di concezione tolemaica (e dantesca), attribuendo a
ogni pianeta non un singolo suono ma un intervallo di suoni, nel
quale la nota più grave corrisponde alla velocità minima che il
pianeta ha durante la rivoluzione e quella più acuta alla velocità
massima.
Oggi si può dire perduta questa antica sensibilità, legata
a un modello cosmologico ormai lontano dal nostro. Tutta-
via, chiunque si occupi di musica sa perfettamente quanto essa
sia legata ai numeri e al concetto di misura del tempo. Anche
senza credere più al suono dell’universo nel senso antico del ter-
mine, la musica rimane una disciplina matematica più di quan-
to comunemente si tenda a credere.
787
Paradiso • Canto I
La
vo
rare
sul
test
o
Lavorare sul testo
Comprendere e analizzare il testo
Proemio
1. argomentare Spiega in che senso il proemio del Paradiso
“supera” i proemi delle precedenti due cantiche.
2. argomentare Perché si può dire che il Paradiso «si apre
su una professione di umiltà»? Spiega la tua tesi dopo aver
letto il commento al canto.
3. Che cosa chiede Dante ad Apollo? E perché è certo che il
dio accoglierà la sua richiesta? Racconta.
4. Descrivi lo scenario con cui si apre la terza cantica e le
sensazioni che prova il Poeta.
Mezzogiorno…
5. argomentare Spiega in che modo Dante delinea la
cronologia della sua ascesa al Paradiso.
6. argomentare In che luogo si trovano, forse, Dante e
Beatrice all’inizio di questa terza cantica? (Ti consigliamo
di leggere il commento al canto.)
7. argomentare Spiega il neologismo dantesco trasumanar.
(Ti consigliamo di leggere anche la scheda a p. 780.)
Beatrice spiega
8. Che cosa dice Beatrice al Poeta riguardo alla luce e alla
musica dei cieli? (Ti consigliamo di leggere anche la scheda
La musica delle sfere celesti a p. 786.)
9. Parla del secondo dubbio di Dante.
10. argomentare Analizza il nuovo ruolo di Beatrice in
Paradiso, in confronto alla figura di Beatrice nella Vita
nuova.
L’ordine dell’universo e la libertà dell’uomo
11. argomentare Spiega qual è la legge che regola tutto
l’universo.
12. Elenca gli esempi dell’ordine del cosmo che porta Beatrice.
13. argomentare Spiega il rapporto che intercorre tra la
“teoria dell’istinto” e quella del “libero arbitrio”.
Riflettere sulla lingua
14. vv. 1-9: Sin dai primi versi (1-9) della cantica, Dante
esplicita le difficoltà retoriche che lo attendono. In che
modo? Che cosa si contrappone drammaticamente alla
luce della gloria di colui che tutto move?
15. vv. 22-25: individua e spiega le figure retoriche presenti in
questi versi.
16. v. 29 per trïunfare o cesare o poeta: fai l’analisi logica del
verso.
17. v. 48: aguglia: aiutandoti con il vocabolario, stabilisci se
questo termine è:
a arcaico
b traslato
c dantesco
d metaforico
18. vv. 73-75: ricostruisci l’ordine logico-sintattico di questi
versi.
19. v. 78: che figura retorica noti?
20. v. 84 mai non sentito: che valore ha il mai?
a Rafforzativo
b Negativo
c Tautologico
21. v. 111 principio loro: che figura retorica è? Che cosa
significa?
22. v. 139: il se introduce
a la protasi di un periodo ipotetico
b una subordinata eccettuativa
c l’apodosi di un periodo ipotetico
d la proposizione reggente.
Scrivere per argomentareESAME DI STATO – TIPOLOGIA B
Fai riferimento al testo di Giovanni Getto, a p. 790, e alle
attività che lo accompagnano.
Laboratorio
La poesia dell’“ineffabile”
Nel Paradiso Dante si trova davanti a una sfida linguistica ecce-
zionale, descrivere ciò che razionalmente non è descrivibile,
ed è sopraffatto dall’altezza del contenuto che si accinge a
narrare, difficile anche da tenere a mente.
Dal primo all’ultimo canto della terza cantica troviamo versi
che evidenziano questa impossibilità, questa consapevolezza
di inadeguatezza espressiva. Ecco i più significativi.
▶ canto I, vv. 1-12; 70-71
▶ canto X, vv. 74-75
▶ canto XXIII, v. 49 e ss.
▶ canto XXX, vv. 22-24; 31-33
▶ canto XXXI, vv. 136-138
▶ canto XXXIII, vv. 106-108; 121-123
Proponiamo come attività laboratoriale una ricerca da svolgere
a piccoli gruppi, in forma collaborativa, che analizzi il tema
dell’ineffabilità in questi versi.
Ogni gruppo produrrà una sintetica relazione sul tema dato da
esporre ai compagni (anche utilizzando la LIM o un computer
on/offline).
788
Paradiso • Canto IF
oru
mc
riti
co
Forum critico
Perché la poesia del Paradiso risulta di così difficilecomprensione?Approdare alla lettura della terza cantica, dopo la lettura dell’Inferno e del Purgatorio, porta
spesso a sentirsi inadeguati davanti a un linguaggio e a un contenuto tesi a mostrare l’ultima
fase del cammino dell’uomo verso la sua meta eterna. Ci si stacca sempre più da ciò che è terreno,
tangibile, razionalmente conoscibile, per inoltrarsi nell’Empireo, cosmo a noi sconosciuto.
La difficoltà del lettore a “entrare” nei diversi canti da che cosa deriva? Inadeguatezza culturale,
scarsa competenza teologica e mistica?
Secondo Giovanni Fallani
La poesia del Paradiso è poesia teologaleLa difficoltà che incontra il lettore nella comprensione del Paradiso nasce dal fatto che Dante, nella
terza cantica, è tutto teso al fine ultimo di intuire il mistero della Trinità di Dio e sente la necessità di
una poesia all’altezza del contenuto. La poesia si nutre pertanto di teologia mistica.
A l fine di avere una indicazione concreta della poesia teologale di Dantesarà utile tentar di determinare in che cosa consiste, sotto l’aspetto for-
male e nella sua essenza, il carattere di tale poesia. Confluiscono in essa varimotivi di origine diversa, che si trasformano in motivi tipicamente cristianiper essere stati assunti a nuova funzione. […]
È noto come si trasfiguri la storia in una lezione di teologia della storia,allor che Dante ascolta da Giustiniano imperatore le vicende dell’Aquila ro-mana, le cui imprese sono lo svolgimento di un disegno di Dio per giungereal tempo dell’Incarnazione. La storia di Roma diviene storia sacra, assuntaad altri significati. Il poeta teologo cerca l’essenza cristiana dell’avvenimento.[…]
Un altro carattere della poesia teologale è l’accoglienza dei modi dellapredicazione, che Dante usa secondo le finalità del poema. Posto al verticedell’impegno umano con Dio, il voto investe la responsabilità morale del cre-dente, obbliga, prima di emetterlo, consiglio e ponderazione:
«Siate cristiani a muovervi più gravi:non siate come penna ad ogni vento,e non crediate ch’ogni acqua vi lavi».
Di queste apostrofi religiose d’ispirazione liturgica e biblica, con fondamentoanche nella letteratura classica, è cosparso il Paradiso. […]
La celebrazione della teologia stessa comprende, in particolare, la terzacantica. Alcuni hanno voluto spiegarla come tessuto connettivo tra le figurerappresentative della santità, altri come momenti d’indugio e di riposo allosforzo poetico, altri ancora come zone morte e opache, con le quali Dante hapagato il tributo al suo tempo, mentre invece la struttura dei trattati teologi-ci, a nostro avviso, sostanzia ed equilibra i rapporti tra la cultura, la religione,la storia, la poesia. […]
L’apertura più vasta della poesia teologale la ritroviamo nelle due grandilinee della provvidenza divina e della sete di giustizia. La presenza divina èoperante negli ambienti, ove si concepisce l’azione, e nei personaggi che par-lano e agiscono in conformità al volere di Dio. Dante ha saputo stare al temae nei gradi dell’ascesa ha collocato, secondo l’ordine gerarchico dei meriti, leanime dei beati. C’è da chiedersi piuttosto, dove non sia Dio in questo edifi-
A
Premessa:
definizione di
poesia teologale
I argomentazione
della I tesi:
esempi di poesia
teologale
nella Commedia
(teologia della storia,
predicazione)
I tesi:
il Paradiso come
celebrazione della
teologia
II argomentazione
della I tesi:
la provvidenza
divina e la sete
di giustizia sono
aspetti centrali della
poesia teologale nel
Paradiso
789
Paradiso • Canto I
Fo
rum
cri
tic
o
cio del Paradiso, che ha le sue fondazioni nella Bibbia, nella dottrina agosti-niana, nella Summa theologica di S. Tommaso, nella liturgia e nel rito, nellatradizione della Chiesa e nell’iconografia cristiana. La giustizia, ch’è la virtùpiù conculcata, arma di sdegno l’Alighieri, che affretta il tempo della letturadel libro divino, dove si potranno leggere «i dispregi» e il disonore dei prin-cipi cristiani, che nel giorno del giudizio sederanno più lontani degli stessiinfedeli:
«e tai Cristiani dannerà l’Etiopequando si partiranno i due collegi,l’uno in eterno ricco, e l’altro inope». […]
La lingua di Dante ha nel Paradiso una giustificazione religiosa, sottol’influenza del latino cristiano. I neologismi, le forme sintattiche, le costru-zioni verbali, denunciano tale influsso e sono espressioni vive di un pensieroche prende forma da una tradizione di cultura, che ha le sue origini nellaBibbia, nella liturgia, nei Padri, nella Scolastica. La «gravitas romana», nota-ta nella terza cantica, si avverte nella capacità di assimilazione dello spiritodella lingua di Roma; il lessico volgare, memore della terminologia classica,accoglie le accezioni nuove del messaggio evangelico: Salute per salvezzaspirituale (Parad., XII, 63; XXXII, 77); prefazio (umbriferi prefazi, Parad.,XXX, 78, immagini in anticipo sulla realtà); magnificenza, per proclamaregrande (Parad., XXXIII, 20). […]
Il poeta, specialmente nel Paradiso, sentì l’alta responsabilità che la sualingua assumeva, trattando l’argomento sacro per eccellenza e i misteri dellafede. Il vocabolario cristiano, con il ricco fondo semita, si era formato sullaScrittura, giunta al nostro occidente con idee e parole di evidente influssogreco: la terminologia classica portò con sé e individuò nuovi significati. […]
Nell’uso della terminologia latina in Dante poeta si rivela il gusto dell’e-lezione della parola, la clausola o cadenza in cui essa è posta, la tecnicadi uno stile che alla sapienza della retorica classica unisce un colorito cheproviene dal vernacolo e dalla situazione toscana. Alcuni vocaboli nasceva-no allora dal campo speculativo e teorico, altri erano nel gusto e nei modidella scuola ecclesiastica, altri provenivano dalle raccolte elaborate dai les-sicografi, […].
Tutto questo mirava a porre la poesia del Paradiso e il lettore in rapportointimo con un fatto nuovo: la vita contemplativa; un potere, questo, confor-me all’impegno morale del cristiano che, in quanto battezzato, ha il doverenon solo di uniformare la volontà a quella divina e di amare Dio sopra ognicosa, ma di disporsi alla sua unione, per opera della Grazia. Questa forma dicontemplazione, detta contemplazione attiva, prepara l’anima alla contem-plazione mistica, o infusa: per mezzo dei doni dello Spirito Santo, Dio ledona di sperimentare e percepire la gioia del suo possesso. Questo riposo inDio, questa unione misteriosa che avviene nella preghiera mistica illumina atratti il Paradiso dantesco, di una luce continuativa più intensa gli ultimicanti, in cui le immagini astrali prevalgono, e la luce acquista il senso piùpuro della trascendente bellezza della grazia, e l’azione con il frequente ri-cordo dell’inesprimibile tende all’estasi, fino all’Empireo, splendore dell’ideadivina.
[…] La poesia può essere un avvio alla preghiera, e può anche fondersicon essa pur essendone distinta, per la sua essenziale forza di intuire nell’og-getto e nella realtà ciò che trascende i sensi e le emozioni, e per l’amore in-tuitivo alla perfezione delle cose, sommerse in un ordine infinito, specchiodella divinità. Dante, per giungere all’esperienza mistica, ha seguito la viapossibile all’uomo; con il retto uso della ragione vede nell’universo la presen-
III argomentazione
della I tesi:
la lingua del
Paradiso e la sua
giustificazione
cristiana
II tesi:
tensione morale
verso la vita
contemplativa
che si attua nella
preghiera
I argomentazione
della II tesi:
rapporto tra poesia
e preghiera
790
Paradiso • Canto IF
oru
mc
riti
co
za del Creatore, con lo studio della teologia intende l’immensità dei problemie del mistero, con l’ardore della mistica approda alla salvezza. […]
Il Paradiso offre spesso l’esperienza concreta di una poesia formatasi alcentro del misticismo della visione. Chi s’inoltra nella rischiosa via di sepa-rare in determinati casi poesia e mistica distrugge l’unità del poema, essendoviva nella coscienza del poeta sia l’una che l’altra componente del grandiosolavoro.
La rappresentazione del Paradiso non è, dunque, astratta, solo è di piùdifficile comprensione, giacché la ricerca del particolare nei momenti più altisi traduce in un clima poetico nuovo, che aspira a superare lo sforzo dialet-tico per i valori universali della rivelazione. […] Si potenzia in Dante il fasci-no unico dell’animazione lirico-religiosa, che, dopo aver toccato l’estremolimite dell’intuizione del divino nella città empirea, vien meno avanti all’inef-fabile, conforme al canone e all’esperienza mistica. Questa poesia teologalediviene il dramma della mente, che si comunica al sentimento del poeta: lateologia offre il tema, la fantasia dell’artista elabora situazioni, crea immagi-ni, genera il canto.
Giovanni Fallani, Poesia e teologia nella Divina Commedia,vol. III, Marzorati, Milano 1959
Secondo Giovanni Getto
Nel Paradiso il dramma della vita della GraziaLa poesia del Paradiso «si manifesta in un sentimento», «in un clima affettivo» unitario e non
va cercata in immagini isolate: Dante intuisce una vita dell’anima tutta tesa a raggiungere Dio.
I motivi teologici, di una teologia della Grazia, sono alla base di questa umanissima poesia.
S e si volesse racchiudere in una formula provvisoria, didascalicamenteorientativa, il contenuto poetico del Paradiso, si dovrebbe parlare, con
una certa approssimazione, di epos della vita interiore, di dramma della vitadella grazia, di poesia dell’esperienza mistica, e forse anche di lirica dell’ado-razione. Un enunciato suscettibile di controllo e di ulteriore approfondimen-to, ma che subito si può avanzare con la precisa convinzione di non dire nulladi astratto e di remoto dal sentimento umano, o comunque di troppo vago egenerico.
Si tratta certo di un incontro molto complesso, come è tutta complessala poesia di Dante, che si nutre di un’immensa cultura e di una potenzialitàdi vita sentimentale davvero senza limiti. Ma non per questo riuscirà im-possibile tracciare alcune linee di orientamento critico, tali da permetteredi storicizzare quel tema teologico che crediamo costituisca il nucleo dell’i-spirazione dell’intera cantica. Un soccorso di estrema importanza, per ilnostro caso, ci viene intanto offerto dalla notizia facilmente documentabileche sullo spirito del poeta opera il fascino di un’imponente tradizione teo-logica, che va dalla Scrittura e dai Padri alla scolastica e alla mistica. […]Come ogni teologo, pur aderendo alla dottrina dogmaticamente definita epur accettando nel suo insieme tutto il complesso di articoli di fede che laChiesa propone, si presenta sempre con una personale teologia, nel sensoche egli sarà tratto spontaneamente ad insistere nella sua meditazione suun dogma piuttosto che su di un altro e ad istituire fra di essi nuovi rappor-ti e a dedurre da essi conseguenze prima lasciate in ombra, così, a maggiorragione, per il più libero e incontrollato intervento di una partecipazionesentimentale, ogni anima religiosa è destinata a fondare la sua prassi (sce-gliendo nell’ampia zona del credo ufficialmente proposto e globalmente ac-cettato) su questo o quel motivo teologico, che finisce perciò coll’ottenere
II argomentazione
della II tesi:
legame inscindibile
tra poesia e mistica
Conclusione:
la difficoltà del
Paradiso sta nella
tensione lirico-
religiosa verso
l’intuizione del
divino
B
Tesi:
la poesia del
Paradiso come épos
della vita interiore
I argomentazione:
complessità poetica
per una cultura
teologica vissuta
in prospettiva
personale
791
Paradiso • Canto I
Fo
rum
cri
tic
o
di necessità un essenziale rilievo e un valore esponenziale nel suo interiorepaesaggio. Allo stesso modo, un identico tema dogmatico dovrà pur sempreessere suscettibile di intuizioni diverse, a seconda del clima di personalitàin cui si inserisce. […]
Comunque, si tratta di una teologia che in certo modo si storicizza, e cheè in facoltà dell’uomo di intuire in forma quasi sperimentale. Se altri motiviteologici, invero, rimangono in una zona di assoluta trascendenza rispettoall’uomo (come gli enunciati relativi alla natura divina), questa realtà teolo-gica, al contrario, impegna come suo soggetto l’uomo, e lo coinvolge nel suoessere ed operare.
Così, mentre il dogma trinitario è destinato evidentemente a rimanere,rispetto all’esperienza umana, un complesso di proposizioni teologiche, uncontenuto essenzialmente intellettuale, la teoria della grazia potrà invece ri-flettersi in un insieme di relazioni psicologiche e sentimentali. […] Questosentimento della grazia come gioia profonda che fa trasalire l’anima, comeinteriore pace che inonda il cuore, fatto ricco di un improvviso dono e diun’ignota ricchezza, è per l’appunto il sentimento teologico, e nello stessotempo umanissimo, su cui Dante imposta la sua massima espressione poe-tica. Affetto umanissimo, possiamo tranquillamente affermare. […]
L’ansia e il sospiro della mente alla verità, e la delizia del vero che si fa innoi e lo smarrimento di fronte a quel che trascende il pensiero (e poi ancora,in una zona meno alta, il gusto dell’insegnare e dell’imparare, e l’amore el’ammirazione per il maestro e per chi sa, e la memoria dei primi entusiasmidell’intelligenza) ripetono in qualche maniera i modi dell’anima nel percorsodel mistico itinerario cristiano. E, ancora, ma con più remota analogia, l’e-sultare e l’aumentare del nostro spirito di fronte alla cosmica vastità dei pae-saggi celesti e la vertigine che lo sorprende davanti alla perduta distesa dilontani orizzonti, richiamano l’eterna condizione dell’anima che si inoltra esi smarrisce nei cieli senza confine della vita della grazia. […]
A tener presente questo, cadranno facilmente i dubbi sulla astrattezza delParadiso, sulla sua assurdità poetica in quanto rappresentazione del trascen-dente, di quello cioè di cui l’uomo non può avere, nella sua umana condizio-ne, esperienza. E si eviterà di cercare la redenzione del Paradiso, in quantopoesia, in quella curiosa soluzione proposta dal De Sanctis, che vedeva nelleimmagini e nei sentimenti terreni (di una particolare terrestrità, tutta laicae romantica) che penetrano nel Paradiso, l’unica autentica poesia della terzacantica, la quale si affermerebbe, dunque, nonostante e contro ogni elemen-to di carattere teologico. […]
La poesia del Paradiso è sì terrena, ma dei vertici della terrestrità, di queimomenti in cui l’anima trema ed esulta nella parentela nuova che con Dioistituisce. Sulla scorta delle indicazioni che abbiamo suggerito, del resto, sipotrà evitare anche l’altro opposto pericolo, di riporre in un astratto motivoteologico la sorgente di questa umanissima poesia. Tutta la terza cantica ri-sulta pervasa da un sentimento unico, da un clima affettivo uguale e preciso.Ed è cotesta lirica della vita interiore come ebbrezza e pace dell’anima eleva-ta verso le cime vertiginose della partecipazione al Dio della gloria e dell’e-terno, il motivo musicale che stringe in unità tutti gli episodi, colorando disé e dando una risonanza speciale alle stesse pagine che sembrano nascereda un’ispirazione diversa. Poiché il Paradiso è fondamentalmente un tonosentimentale, un tema sinfonico. […] la poesia della divinità, come tutta lapoesia della cantica, si manifesta in un sentimento e non in una visione, inun clima affettivo piuttosto che in un concluso profilo di immagini.
Giovanni Getto, Poesia e teologia nel Paradiso di Dante,in Aspetti della poesia di Dante, Sansoni, Firenze 1966
II argomentazione:
al centro di questa
teologia l’uomo e il
suo operare
III argomentazione:
la teoria della
Grazia nelle reazioni
psicologiche delle
anime
Espansione
del discorso:
il mistico itinerario
della mente che
anela alla verità
Antitesi
e confutazioni:
nessuna «assurdità
poetica» nel voler
rappresentare
il trascendente;
non solo immagini
terrene
Conclusione:
poesia
«umanissima»:
lirica della vita
interiore tesa a Dio
792
Paradiso • Canto IF
oru
mc
riti
co
Scrivere per argomentareESAME DI STATO – TIPOLOGIA B
1. Comprensione e analisi
— Quale definizione dà Giovanni Getto della poesia del Paradiso?
— Quali sono le principali fonti di ispirazione culturale, per Dante?
— Si tratta di fonti seguite in modo puntuale?
— A che cosa tende la mente di Dante, nel suo complesso itinerario mistico?
2. Produzione
Condividi con Giovanni Getto l’idea che la mente di Dante segua un percorso unitario nella sua
tensione mistica? Pensi che gli uomini oggi abbiano una vita interiore che tende a un “Qualcosa”
di superiore al contingente, che anelino alla Verità?
Esprimi la tua idea al riguardo basandoti sulle tue conoscenze, letture o esperienze personali.
Argomenta le tue affermazioni in un testo coeso in cui tesi e argomentazioni siano organizzate
in modo coerente.
Secondo Carlo Ossola
La poesia del Paradiso è poesia del desiderio misticoinsoddisfattoIl critico sottolinea come Dante affermi i limiti della parola a esprimere il percorso della mente a
Dio, «itinerarium mentis in Deum». Ciò non vuol però dire che se viene meno la parola viene meno la
possibilità di conoscenza in quanto la «grazia divina illuminante», discendendo, completa l’aporia
umana. Siamo davanti a una parte dell’esperienza mistica che si definisce “teopatia”, “accogliere e
patire di Dio”. A Dante mancano la memoria e i segni vocali per esprimere questa conoscenza e il
Poeta soffre di questa inadeguatezza.
N el ciel che più de la sua luce prendefu’ io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là sù discende.
Questo inizio del Paradiso pone immediatamente il problema della possi-bilità di una lettura in chiave di esperienza mistica o di accesso alla teologiamistica rispetto alla terza Cantica […].
Diversi canti del Paradiso hanno l’involucro, il duro guscio di un esame.Bisogna ritornare a questa voce potente, il Paradiso è un testo duro, ma untesto teologicamente serrato, che si serra intorno al bisogno autoritativo diverità. Autoritativo e pieno di verità nel senso in cui Dante dice «luce intel-lettüal, piena d’amore».
Non è assolutamente da pensare, né può essere letto in nessuna parte,come un’esperienza mistica soggettiva, è sempre l’«adaequatio rei et intel-lectus»; l’intelletto di Dante tiene fermo fino alla fine, ma è una luce intellet-tuale che è stata riempita d’amore, ma non cessa per questo di essere luceintellettuale, come dice la dossologia, che vige dai primi tempi fino ad oggie vigeva ancor più al tempo di Dante, che il finale di tutta la storia giovanneadella lettura degli Evangeli è che ci consegna un corpo «plenum gratiae etveritatis»; «luce intellettüal, piena d’amore» è lo stesso che dire «plenumgratiae et veritatis». La grazia a cosa serve se non autorizza la verità? Non c’èin Dante niente di esperienzialmente romantico, nessuna parte è data al sog-getto per godere, ma per mostrare un «intellectum plenum gratiae et verita-tis». […]
A me sembra, […] che il poema di Dante è un poema di intercessionedel desiderio e non di appagamento della plenitudine, perché qui «è defet-tivo», citando sempre Dante, «ciò ch’è lì perfetto». Se noi non partiamo daquesto verso capitale della Commedia, perché «è defettivo ciò ch’è lì perfet-to», non credo che possiamo arrivare a comprendere la straordinaria inte-
C
Premessa:
il problema della
teologia mistica del
Paradiso
I argomentazione
della I tesi:
necessità
di un costante
fondamento
di verità
I tesi:
al centro di tutto
la luce intellettüal,
piena d’amore e non
l’esperienza mistica
soggettiva
II tesi:
la Commedia come
poema del desiderio
di ciò che è perfetto;
consapevolezza
del limite umano
793
Paradiso • Canto I
Fo
rum
cri
tic
o
laiatura senza appagamento della Commedia, perché l’appagamento sareb-be così piccolo in un soggetto limitato, sarebbe ridurre l’infinita grandezzadel Paradiso, come hanno osservato i più fini teologi commentando la partefinale del Paradiso. Dio tace; non c’è una parola di Dio in tutta la parte fi-nale del Paradiso. E il «veder voleva come si convenne / l’imago al cerchioe come vi s’indova», è un problema del «disiro» di Dante, ma anche qui nonc’è nessun “gustate”, anzi è la rappresentazione meno gustativa di tutta lapossibilità di lettura del Paradiso, precisamente perché qui «è defettivo ciòch’è lì perfetto».
E subito dopo:
Ormai sarà più corta mia favella,pur a quel ch’io ricordo, che d’un fanteche bagni ancor la lingua a la mammella.
Ecco che l’ultimo occorrere di quella immagine ripetuta, dalla fine del Pur-
gatorio, dall’andarsene di Virgilio, sino alla visione di Dio nel Canto finaledel Paradiso, è sotto il segno di una immedicabile difettività della esperien-za terrena.
Dovendo salvare o la propria esperienza, o l’irraggiungibilità di Dio,Dante compie questo salto radicale che nessun mistico ha mai fatto, quellodi dannare la propria esperienza lasciandola sotto il segno della radicale di-fettività pur di salvare la sigillata melodia del divino. […]
In questo senso allora a me pare che l’ultima visione del Paradiso, l’ultimaimmagine, quella celeberrima della nave d’Argo,
Un punto solo m’è maggior letargoche venticinque secoli a la ’mpresache fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo,
debba essere prima che richiamata da altre colte immagini, intertestualmen-te riportata a un’altra vista dal fondo degli abissi, che è quella con cui Danterappresenta la disparizione di Beatrice:
Da quella regïon che più sù tonaocchio mortale alcun tanto non dista,qualunque in mare più giù s’abbandona,quanto lì da Beatrice la mia vista.
La vista di Dante rispetto a Beatrice è come quella di colui che più s’abban-dona al fondo del mare e riguardi in alto l’altezza del cielo. Questa insop-primibile distanza da cui Dante vede ormai allontanarsi Beatrice, come dalfondo del mare, e l’immagine della nave d’Argo sono assolutamente sullostesso paradigma.
È questa insopprimibile distanza, come una visione dal fondo del mare– qui agostiniana, «abyssus abyssum invoca» –, è proprio la lettura lettera-le di quel salmo agostiniano, della lacuna d’abisso, che impedisce a Dante difare del poema un poema mistico. Esso rimane un poema di infinito desi-derio […]; l’esperienza stessa di Dante è “in futurum”, è consegnata per que-sta radicale difettività a una perfezione a venire, ma che non sarà mai pos-sibile esprimere […]. A me sembra che l’intera esperienza del Paradiso
debba essere letta così, in questa specie di rinvio ad unico poiché nessunafigura, né vocale né impronta stigmatica, men che mai esperienza, può ri-condurre.
Allora, avendo tutto bruciato, di Dante forse, dell’esperienza mistica inDante, rimane soltanto quel primo impulso, e cioè la impossibilità di soddi-sfare il desiderio e il rinvio a quell’unico poi.
Carlo Ossola, La poesia mistica della terza Cantica,in Dante poeta cristiano, Polistampa, Firenze 2001
I argomentazione
della II tesi:
limiti dell’esperienza
terrena,
impossibilitata
a esprimere la
perfezione divina
II argomentazione
della II tesi:
il poema di Dante
non è un poema
mistico ma un
poema del desiderio
Conclusione:
in Dante il
misticismo è
solo nell’impulso
insoddisfatto del
desiderio di ciò che
è perfetto
794
Paradiso • Canto IL’
imm
ag
ine
eil
test
o
L’immagine e il testo
Beatrice in ParadisoAbbiamo lasciato Beatrice in Purgatorio, vestita di rosso (sim-
boleggiante la Carità), velata di bianco (la Fede), ammantata di
verde (la Speranza). Come dobbiamo immaginarcela in Paradi-
so? Dante non dà alcuna indicazione in proposito: attraversando
le sfere celesti, la «gentilissima» è sempre più bella, i suoi occhi
sempre più splendenti, ma non ci viene fornita alcuna indica-
zione più precisa sul suo aspetto. Gli artisti che qui presentiamo
hanno lavorato, di conseguenza, di fantasia, restituendoci della
guida celeste di Dante interpretazioni figurative diversamente
orientate.
Il miniatore della figura 1 ci mostra Beatrice ancora sul prato
fiorito del Paradiso Terrestre, mentre addita a Dante la strada
verso le sfere celesti. È una Beatrice bionda, tratto convenziona-
le della bellezza dell’epoca che non trova però conferma nei testi
danteschi; indossa un abito di foggia medievale, con una vistosa
croce-gioiello a dichiarare la sua funzione religiosa.
Le altre due figure ci mostrano la progressiva “angeliz-
zazione” della figura di Beatrice nell’arte dell’Ottocento. Ary
Scheffer ci mostra una Beatrice ancora vestita come in Purga-
torio, anche se l’abito è diventato più rosa che rosso, sfumando
l’acceso cromatismo originale – si noti tuttavia come si intra-
vedano ancora il manto verde, il velo bianco, la corona d’ulivo.
È una Beatrice che non guarda Dante, ma volge misticamente
gli occhi in alto; tipicamente, Dante è in basso rispetto a lei, il
che rispecchia la gerarchia fra il Poeta e la sua guida in tutto il
Paradiso.
Questo processo di spiritualizzazione culmina nell’illustra-
zione di Gustave Doré: qui Dante è ancora più in basso rispetto a
Beatrice, in atteggiamento adorante della donna-guida. Beatri-
ce, distaccata da lui, guarda in alto: i lunghi capelli sciolti, la veste
come una tunica senza tempo, l’aureola, la qualificano come una
santa, non molto diversa dagli angeli che le fanno corona.
▲ [1] Divina Commedia, miniatura, sec. XIV.
Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.
▲ [2] Ary Scheffer, Dante e Beatrice,
1851. Boston Museum of Fine Arts.
▲ [3] Gustave Doré, illustrazione
per la Divina Commedia, 1861.
Osservare e riflettere
1. Quale ti sembra la rappresentazione di Beatrice più
coerente col testo della Commedia? Argomenta prendendo
in esame tutt’e tre le illustrazioni.
2. Rispetto al testo dantesco, in quale di queste illustrazioni il
rapporto Dante-Beatrice ti sembra meglio rappresentato?
3. A quale idea di Paradiso corrispondono gli elementi inseriti
da Doré nella rappresentazione? Secondo te, perché
l’artista li ha aggiunti?