inserto "merce di scambio" - maggio 2011
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Mensile d'informazione politica e cultura dell'Associazione comunista "Luciana Fittaioli" con sede a Foligno (PG)TRANSCRIPT
supplemento al numero 5 - Anno III - maggio 2011 di Piazza del Grano - www.piazzadelgrano.org
I
23 giugno 1946 viene fir-mato a Roma dal gover-no De Gasperi lo storicoaccordo Italia-Belgio poidenominato “Uomo/Car-bone”. A quell’epoca ilBelgio aveva urgente bi-sogno di manodoperaper estrarre il carbonedalle miniere, la cui pro-duzione era in netto ca-lo. I belgi rifiutano discendere in miniera,consapevoli della perico-losità del lavoro e delbasso salario percepitoin cambio. Il Governodecide allora l’importa-zione di manodoperastraniera e intraprese latrattative con il Governoitaliano guidato da Alci-de De Gasperi, dettandocondizioni durissime:l'Italia organizzava l'emi-grazione di 50 mila lavo-ratori, in cambio il Belgiosi impegnava a vendereall’Italia un minimo di2500 tonnellate di carbo-ne ogni 1000 operai in-viati. L’Italia si assicura
così entrate in valutastraniera e la possibilitàdi dotarsi di carbone, in-dispensabile per la ripre-sa economica del Paese. Ibei manifesti rosa, affis-si in tutti i comuni d’Ita-lia, parlavano di un lavo-ro sotterraneo nelle mi-niere belghe. Natural-mente non fornivano al-cun dettaglio su questolavoro, soffermandosi in-vece sui vantaggi dei sa-lari, delle vacanze e degliassegni familiari. La real-tà che trovarono i lavora-tori italiani in Belgio fu,invece, ben altra cosa: unlavoro durissimo e peri-colosissimo da affronta-re senza alcuna prepara-zione specifica. I candi-dati minatori venivanoconcetrati a Milano doveusufruivano dei tre pianisotto la stazione. Dopoaver superato le visitemediche e dopo un viag-gio che poteva durare an-che 52 ore, gli italiani so-no scaricati non nelle sta-
zioni riservate ai passeg-geri ma nelle zone desti-nate alle merci. Qui veni-vano allineati secondo ilpozzo nel quale dovran-no andare a lavorare. Do-po il viaggio massacrantevenivano trasferiti negli"alloggi" che consisteva-no nelle baracche di le-gno utilizzate dai prigio-nieri russi durante l’oc-cupazione nazista. Que-sto popolo di lavoratoriera tenuto lontano dallecittà nascosto in campisconosciuti alla maggio-ranza dei belgi: era unpopolo invisibile. Li chia-mavano anche "musi ne-ri" per il particolare tipodi lavoro che svolgevano.Le condizioni dei minato-ri erano scandalose manessuno volle vederlo fi-no all’8 Agosto 1956. 275uomini scendono nelleminiere Bois du Cazier diMarcinelle. Le gabbie de-gli ascensori avevano di-stribuito le squadre neivari piani, a quota 765 e
La Conferenza che hariunito a Roma i delega-ti del Governo italiano edel Governo belga pertrattare del trasferi-mento di 50.000 lavora-tori nelle miniere bel-ghe, è giunta alle se-guenti conclusioni: 1) IlGoverno italiano, nellaconvinzione che il buonesito dell'operazionepossa stabilire rapportisempre più cordiali colGoverno belga e dare ladimostrazione al mon-do della volontà dell'Italia di contribuire allaripresa economica del-l'Europa, farà tutto ilpossibile per la riuscitadel piano in progetto.Esso provvederà a chesi effettui sollecitamen-te e nelle migliori condi-zioni l'avviamento deilavoratori fino alla lo-calità da stabilirsi di co-mune accordo in prossi-mità della frontieraitalo svizzera, dove asua cura saranno isti-tuiti gli uffici incaricatidi effettuare le opera-zioni definitive di ar-ruolamento. 2) Il Gover-no belga mantiene inte-gralmente i terminidell'«accordo minatori-carbone» firmato pre-cedentemente. Esso af-fretterà, per quanto èpossibile, l'invio in Ita-lia delle quantità di car-bone previste dall'ac-cordo ... 5) Il Governoitaliano si adoprerà a
che gli aspiranti al-l'espatrio in qualità diminatori siano, nel mi-glior modo, edotti diquanto li concerne, atti-rando, in particolar mo-do, la loro attenzionesul fatto che essi saran-no destinati ad un lavo-ro di profondità nelleminiere, pel quale sononecessarie un'età relati-vamente ancor giovane(35 al massimo) e unbuono stato di salute ...11) Il Governo italianofarà tutto il possibileper inviare in Belgio2.000 lavoratori la set-timana 12) I convoglisaranno formati nelluogo designato di co-mune accordo fra leAutorità italiane e bel-ghe. Per verun motivodetto luogo potrà esseremodificato senza provioaccordo dei due Gover-ni. Nella stazione dipartenza saranno ap-prestati locali ai fini diun'accurata visita me-dica di ciascun operaio,della firma del suo con-tratto di lavoro e delcontrollo della poliziabelga. Un servizio d'or-dine organizzato nellastazione avrà il compitodi impedire l'accesso altreno ad ogni personache non abbia adempiu-to a tutte le formalitàsopra indicate..
Roma, il 23 giugno1946.
"Scortati dalla polizia fino alla nuova residenza belga, partivano dalla stazione diMilano tutti stretti in piccoli convogli che sembravano non fermarsi mai. Alle spal-le, centinaia di chilometri prima, le delusioni e le miserie di una terra arida di pro-messe. Ma infine, quando il treno ferma, ci si ritrova tra italiani nei campi per pri-gionieri e la casa, naturalmente in condivisione con altre famiglie, non è altro cheuna vecchia baracca lasciata libera dai carcerati tedeschi circondata perfino, inalcuni casi, dal filo spinato. Non c'è neanche tempo di rendersi conto del postonuovo perché subito, il giorno dopo l'arrivo, inizia il lavoro in un mondo sotter-raneo assolutamente sconosciuto. Con addosso tutto il peso del mondo. Acco-vacciati in un trabiccolo che fa le veci di uno strano ascensore incomincia così ladiscesa nel cuore della terra. Poi il lavoro è sempre quello, sempre identico. Conla pistola pneumatica si apre un varco e dopo ci si aiuta con le pale, con le mani,con tutto quello che si può. Si forma un cunicolo e lo si puntella, pronti a prose-guire"
Merce di scambioMerce di scambio
1.035. Un carrello escedalle guide e va a sbatte-re contro un fascio di ca-vi elettrici ad alta tensio-ne senza rete di prote-zione. Subito divampal’incendio e le fiamme sipropagano immediata-mente. Solo 13 lavorato-ri sopravviveranno. Levittime sono 262 di cui136 italiani, il più giova-ne di 14 anni e il più an-ziano di 53 anni. Il pro-cesso che seguì si conclu-se con l’assoluzione deidirigenti della società mi-neraria e la responsabili-tà fu attribuita all’addet-to alla manovra del car-rello, un italiano an-ch’egli morto nel disa-stro. La tragedia colpì lacomunità italiana e fececonoscere a tutti le con-dizioni proibitive del la-voro nelle miniere. Il go-verno italiano, incalzatodalle opposizioni, fu co-stretto a bloccare le vieufficiali dell’emigrazioneverso il Belgio.
Protocollo Italo-Belga per il trasferimento di 50.000minatori italiani in Belgio
II III
Un popolo migranteUn popolo migrante
“Fra il 1880 e il 1915 ap-
prodano negli Stati Uniti
quattro milioni di italiani,
su 9 milioni circa di emi-
granti che scelsero di attra-
versare l'Oceano verso le
Americhe. Le cifre non ten-
gono conto del gran nume-
ro di persone che rientrò in
Italia: una quota considere-
vole ( 50/60%) nel periodo
1900-1914. Circa il settan-
ta per cento proveniva dal
Meridione, anche se fra il
1876 ed il 1900 la maggior
parte degli emigrati era del
Nord Italia con il quaranta-
cinque per cento composto
solo da Veneto, Friuli Vene-
zia Giulia e Piemonte. Le
motivazioni che spinsero
masse di milioni di Meri-
dionali ad emigrare furono
molteplici. Durante l'inva-
sione Piemontese, operata
senza dichiarazione di
guerra, del Regno delle due
Sicilie, i macchinari delle
fabbriche, non dimenti-
chiamo che Napoli era allo-
ra una città all'avanguardia
in campo industriale, furo-
no portati al Nord dove in
seguito sorsero le industrie
del Piemonte, della Lom-
bardia e della Liguria.
Le popolazioni del Meri-
dione, devastato dalle guer-
ra con circa un milione di
morti, da cataclismi natura-
li (il terremoto del 1908
con l'onda di marea nello
Stretto di Messina uccise
più di 100,000 persone nel-
la sola città di Messina) de-
predato dall'esercito, dis-
sanguato dal potere ancora
di stampo feudale, non eb-
bero altra alternativa che
migrare in massa. Il siste-
ma feudale, ancora perfet-
tamente efficiente, permet-
teva che la proprietà terrie-
ra ereditaria determinasse
il potere politico ed econo-
mico, lo status sociale, di
ogni individuo. In questo
modo, le classi povere non
ebbero praticamente alcu-
na possibilità di migliorare
la propria condizione. Da
aggiungere ai motivi del-
l'esodo la crisi agraria dal
1880 in poi, successiva-
mente l'aggravarsi delle im-
poste nelle campagne meri-
dionali dopo l'unificazione
del paese, il declino dei vec-
chi mestieri artigiani, delle
industrie domestiche, la
crisi della piccola proprie-
tà e delle aziende montane,
delle manifatture rurali. Gli
Stati Uniti dal 1880 apriro-
no le porte all'immigrazio-
ne nel pieno dell'avvio del
loro sviluppo capitalistico;
le navi portavano merci in
Europa e ritornavano cari-
che di emigranti. I costi del-
le navi per l'America erano
inferiori a quelli dei treni
per il Nord Europa, per
questo milioni di persone
scelsero di attraversare
l'Oceano. L'arrivo in Ameri-
ca era caratterizzato dal
trauma dei controlli medi-
ci e amministrativi durissi-
mi, specialmente ad Ellis Is-
land, l'Isola delle Lacrime.
Nel Museo dell'Emigrazio-
ne a New York ci sono an-
cora le valigie piene di sup-
pellettili e di povero abbi-
gliamento delle persone
che reimbarcate per l'Italia,
nella disperazione si butta-
vano nelle acque gelide del-
la baia andando quasi sem-
pre incontro alla morte.”
(da “Remembering Ellis Is-land on Columbus Day”, diRo Pucci)
Ellis Island“Isola delle lacrime”
(tratto da Angela Molteni,www.antoniogramsci.com)
Fino al 1850 circa non esiste-
vano procedure ufficiali per
l’immigrazione a New York.
In questa data l’impennata
del numero di immigrati eu-
ropei che fuggivano dalle
grandi carestie del 1846 e
dalle rivoluzioni fallite del
1848 spinse le autorità ad
aprire un centro di immigra-
zione a Castle Clinton in Bat-
tery Park, sulla punta meri-
dionale dell’isola di Manhat-
tan. Verso il 1880 le privazio-
ni che si soffrivano nell’Euro-
pa orientale e meridionale e
la forte depressione econo-
mica nell’Italia meridionale
spinsero migliaia di persone
ad abbandonare il Vecchio
Continente. Al contempo in
America stava prendendo il
via la rivoluzione industria-
le, con un crescente proces-
so di urbanizzazione. Ellis Is-
land fu aperta nel 1894,
quando l’America superò un
periodo di depressione eco-
nomica e cominciò a impor-
si come potenza mondiale.
In tutta Europa si diffusero
le voci sulle opportunità of-
ferte dal Nuovo Mondo e mi-
gliaia di persone decisero di
lasciare la loro patria. Quan-
do le navi a vapore entrava-
no nel porto di New York, i
più ricchi passeggeri di pri-
ma e seconda classe veniva-
no ispezionati a loro como-
do nelle loro cabine e scorta-
ti a terra da ufficiali dell’im-
migrazione. I passeggeri di
terza classe venivano porta-
ti a Ellis Island per l’ispezio-
ne, che era più dura. Ogni
immigrante in arrivo portava
con sé un documento con le
informazioni riguardanti la
nave che l’aveva portato a
New York. I medici esamina-
vano brevemente ciascun
immigrante e marcavano
sulla schiena con del gesso
coloro per i quali occorreva
un ulteriore esame per accer-
tarne le condizioni di salute;
se vi erano condizioni parti-
colari di infermità ciò com-
portava che venissero tratte-
nuti all’ospedale di Ellis Is-
land. Dopo questa prima
ispezione, gli immigranti
procedevano verso la parte
centrale della Sala di Regi-
strazione dove gli ispettori
interrogavano gli immigran-
ti a uno ad uno. A ogni immi-
grante occorreva perlomeno
una intera giornata per pas-
sare l’intero processo di
ispezione a Ellis Island. Le
scene sull’isola erano vera-
mente strazianti: per la mag-
gior parte le persone arriva-
vano affamate, sporche e
senza una lira, non conosce-
vano una parola di inglese e
si sentivano estremamente
in soggezione per la metro-
poli sull’altra riva. Agli immi-
granti veniva assegnata una
Inspection Card con un nu-
mero e c’era da aspettare an-
che tutto un giorno, mentre
i funzionari di Ellis Island la-
voravano per esaminarli.
Dopo l’ispezione, gli immi-
granti scendevano dalla Sala
di Registrazione per le “Sca-
le della Separazione” che se-
gnavano il punto di divisione
per molte famiglie e amici
verso diverse destinazioni. Il
centro era stato progettato
per accogliere 500.000 im-
migrati all’anno, ma nella
prima parte del secolo ne ar-
rivarono il doppio. Truffato-
ri saltavano fuori da ogni do-
ve, rubavano il bagaglio degli
immigrati durante i control-
li, e offrivano tassi di cambio
da rapina per il denaro che
questi erano riusciti a porta-
re con sé. Le famiglie veniva-
no divise, uomini da una par-
te, donne e bambini dall’al-
tra, mentre si eseguiva una
serie di controlli per elimina-
re gli indesiderabili e i mala-
ti. Questi ultimi venivano
portati al secondo piano, do-
ve i dottori controllavano la
presenza di “malattie ripu-
gnanti e contagiose” e mani-
festazioni di pazzia. Coloro
che non superavano gli esa-
mi medici venivano contras-
segnati, come già accennato,
con una croce bianca sulla
schiena e confinati sull’isola
fino a diversa decisione, op-
pure venivano reimbarcati. I
capitani delle navi avevano
l’obbligo di riportare gli im-
migrati non accettati al loro
porto di origine. Secondo le
registrazioni ufficiali tutta-
via solo il due per cento veni-
va rifiutato, e molti di questi
si tuffavano in mare e cerca-
vano di raggiungere Manhat-
tan a nuoto o si suicidavano,
piuttosto che affrontare il ri-
torno a casa. Fatto che meri-
tò a Ellis Island il nome di
“Isola delle lacrime”. Quando
gli Stati Uniti entrarono nel-
la prima guerra mondiale nel
1917, i sentimenti anti-immi-
grazione e le ostilità isolazio-
niste erano all’apice. Il Klu-
Klux-Klan, costituito nel
1915, rifletteva le opinioni di
coloro che disprezzavano gli
immigrati non inglesi consi-
derandoli di “razza inferio-
re”. Mentre gli immigrati do-
vevano affrontare ostilità di
ogni tipo, il ruolo di Ellis Is-
land cambiava rapidamente
da centro di smistamento
per gli immigrati a centro di
detenzione. Dopo il 1917
l’isola divenne principalmen-
te campo di raccolta e di
smistamento per deportati e
perseguitati politici. L’immi-
grazione diminuì sensibil-
mente all’inizio della prima
guerra mondiale e i decreti
sull’immigrazione del 1921
e del 1924 di fatto posero fi-
ne alla politica di “porte
aperte” degli Stati Uniti. Cit-
tadini giapponesi, italiani e
tedeschi furono detenuti a
Ellis Island durante la secon-
da guerra mondiale e il cen-
tro venne utilizzato princi-
palmente per detenzione fi-
no alla sua chiusura, il 12 no-
vembre 1954.
Il 28 dicembre 1939 lo scrit-
tore e giornalista praghese
Egon Erwin Kisch (1885-
1948) così scrive nel suo li-
bro Sbarcando a New York.
. “Sono di nuovo prigionie-ro sulla nave. Dall’oblò chiu-so vedo il Nuovo Mondo ver-so il quale da due settimane,due settimane di guerra, stonavigando sulla ‘Pennland’della linea olandese-ameri-cana [...]. L’immigration offi-cer dice che il mio passapor-to non è valido, perché un vi-sto cileno ottenuto a Pariginon è sufficiente come vistodi transito per l’America [...]Mentre parlava con me, unfunzionario gli mostrò un fo-gliettino, senza dubbio con-teneva qualcosa sul mio con-to. ‘Lo so’, disse. Quindi mitocca andare a Island - uneufemismo per Ellis Island,L’isola delle lacrime [...] Giùdalla ‘Pennland’ sulla qualeabbiamo trascorso più didue settimane, giù con tuttoil bagaglio (il mio è rimastoin Belgio), nei dock gelidi do-ve fanno la revisione doga-nale, poi con un tender al-l’isola-prigione sorvegliatadalla Statua della Libertà (siriempiono la bocca con laStatua della Libertà) [...]. Ciòche contraddistingue la no-stra prigione da ogni altra èla cabina telefonica. Una cel-la del carcere con cabina te-lefonica non esiste da nessu-n’altra parte. Ammesso cheuno abbia un nichelino, sipuò mettere in contatto conil resto del mondo, e al tem-po stesso non può. Nessunopuò chiamarti [...]. Facciouna passeggiata nel cortileche invece di quattro paretine ha soltanto due: quellemancanti sono acqua.”
57 milioni sono gli italiani
censiti residenti in Italia; 58
milioni sono gli italiani di
prima, seconda o terza ge-
nerazione stimati al di fuo-
ri dell’Italia. La cifra è im-
pressionante: un’altra na-
zione, un altro popolo al di
fuori dei confini della così
detta “patria”. Si può obiet-
tare che le seconde o le ter-
ze generazioni “non conta-
no”, perché oramai non si
possono più considerare
italiani ma cittadini degli
Stati di nuova residenza.
Questo in parte è vero per-
ché la “nostalgia” dell’Italia
che sicuramente colpiva la
prima generazione, che ha
sempre continuato a spera-
re di ritornare, anche per ri-
congiungersi ai parenti la-
sciati, e forse ha colpito an-
cora la seconda generazio-
ne cresciuta nell’ascolto dei
racconti e delle speranze
dei genitori, per la terza ge-
nerazione si è in buona par-
te mutata nella mera ricer-
ca, o meglio nella pura ri-
vendicazione di un identità
etnica da affermare di fron-
te alle altre tante identità et-
niche vantate dalle innume-
revoli minoranze dei paesi
di emigrazione. Una identi-
tà etnica sicuramente “mi-
nore”, come minore era il
peso mondiale della loro
“patria” di provenienza e
ancora “minimo”, per non
dire rifiutato e negato, era il
legame identitario tra i go-
vernanti della loro patria e i
suoi figli più miserabili spe-
diti a cercare fortuna (so-
pravvivenza!) all’estero. I
dati “veri”, i
dati cioè cen-
siti, del nume-
ro degli emi-
grati nei 100
anni dalla pri-
ma crisi eco-
nomica euro-
pea degli anni
70/80 dell’ot-
tocento all’ul-
timo decen-
nio del secolo
scorso, sono
c o m u n q u e
“mostruosi”:
26 milioni di
emigrati! In
alcune fasce
temporali di maggiore eso-
do (perché di questo si è
trattato: di un esodo bibli-
co!) è emigrata circa un ter-
zo dell’intera popolazione
residente. Alcuni numeri se-
condo i tre periodi statistici
di maggiore emigrazione.
Primo periodo 1876-1914:
oltre 14 milioni, con punte
di vero e sproprio esodo di
massa a ridosso della prima
guerra mondiale, prove-
nienti nella prima fase in
prevalenza dalla “sacche”
di estrema povertà del nord
Italia e poi sempre di più
dal mezzogiorno, diretti
per meno della metà verso
l’Europa e per il resto in
grande maggioranza verso
il nord America e in mino-
ranza verso il sud America;
secondo periodo 1918-
1940: poco più di 4 milioni
anche in ragione del “bloc-
co” all’emigrazione impo-
sto dal fascismo, in direzio-
ne per la metà verso l’Euro-
pa e il resto verso l’America
maggiormente verso il sud
America a causa delle re-
strizioni all’immigrazione
imposte dagli Stati Uniti;
terzo periodo 1946-1976,
circa 8 milioni in ampia par-
te in direzione dell’Europa.
26 milioni partiti, solo circa
8 milioni tornati in larghis-
sima maggioranza negli an-
ni del boom economico do-
po la seconda guerra mon-
diale.
57.000.000 contro 58.000.000il più grande esodo migratoriodella storia moderna
“Coltivavano il basiliconella vasca da bagno”
300.000 ogni anno dal Sudagricolo al Nord industriale
Limon, Costarica 25 agosto1927In questi giorni, in questi duemesi ti ho scritto tante voltesenza spedirti mai una dellemie lettere. Pigrizia e insod-disfazione. Un poco anche lacoscienza di non avere nien-te da scriverti che veramen-te valesse la pena. Di quan-to io mi ostino a pensare e acredere che valga la pena.Impiegato ora in una com-pagnia americana dove nonsto imparando nien-t’altro che l'odio perquesto popolo cheprima ammiravo.Popolo che si crede ildominatore del mon-do, che forse lo è eche da questo trae laconseguenza di unasuperiorità assolutasugli altri popoli e undisprezzo inflessibileper tutto ciò che nonè americano. Stipen-dio, ore di ufficio,nessuna prospettivaavvenire. Grigioreinfinito di vita in porto tropi-cale, abbastanza sudicio, dif-ficoltà propositi nuovi, alcu-ne nuove esperienze e rim-pianto. Rimpianto di quelloche non ho avuto. Niente dibrillante. Però la vita raccol-ta, riposata, silenziosa checonduco da due mesi mi stafacendo risorgere nell’ani-mo nuove energie e nuoviprogetti. Sono sicuro: prefe-risco non essere mai nienteche essere troppo. Preferiscosoffrire per tutta la vita quel-lo che ho sofferto in questiultimi anni che rassegnar-mi. Sono troppo giovane perquesto. Riprenderò la lottaappena abbia forza suffi-
ciente. Stamani, in ora in cuinon avevo niente da fare, miesercitavo a scrivere in ispa-gnolo un articolo per suppo-sto giornale più che altrocon lo scopo di esercitarmi ascrivere la lingua. Ad un cer-to momento arrivai a scrive-re di Firenze. Per la secondavolta nella mia vita un no-stalgia che mi si velava dipianto si è impadronita dime. Rivedevo Firenze dalViale dei Colli in una di quel-
le giornate opaline di prima-vera o di ottobre che ti rive-drai fra qualche mese sol-tanto e che io forse non rive-drò più. Come ero triste…Rimpiangevo tante, tantecose. Rimpiangevo te cheforse nemmeno rivedrò piùbenché tu sia entrata nellamia vita come nessuna altrapersona ha mai entrato némai entrerà più. Non sonovinto, ma stanco. Mi mancaforse lo stimolo ad andare, apensare in domani. Ma nonposso, non posso rimanerequi. In questo porto del tropi-co, caldissimo, asfissiante,monotono, triste dove a vol-te mi prende una disperazio-
ne terribile che va fino alloschifo del mio corpo pieno disudore, sudore, sudore. Vin-cere, riposare, rivedere le co-se lontane, abbandonate,mie. Allora tu non sari piùla. La vita è una perdita con-tinua, una perdita esaspe-rante, una perdita che nonammette sostituzioni. Ed iomi ribello inutilmente. Moltaacqua è fra noi. Molti giornici separano. Le vecchie illu-sioni sono morte, le ultime
speranze disfattedella distanza.Ma non mi rasse-gno. Mi sentostanco, mi sentotriste ma non vin-to. La povertà didomani non mispaventa perchétroppo soffro lapovertà di oggi. Edevo vincere. AhMaria è necessa-ria molta forza,molta pazienzaper passare attra-verso questa ter-
ribile prova. Quando mi scri-verai scrivimi più a lungo.Raccontami più cose. Tu seila ultima voce che mi vienedi costà. Tutti I miei vecchiamici a poco a poco hannocessato di scrivermi e mihanno dimenticato. Mio pa-dre quasi non scrive e quan-do scrive non fa altro cheaumentare la mia tristezza.Io necessito qualcosa che miricordi, che mi faccia rivive-re dinanzi quello che non èpiù mio. Perché di mio oranon ho niente, qui. Tutto èqui come provvisorio, comein un sogno, come in un rac-conto.
Saluti
Questo popolo che ci disprezza
Non è un caso che all’inter-
no di molti paesi della me-
tropoli capitalista vi siano
forti squilibri fra regione e
regione e che tali disparità,
nonostante durino da mol-
to tempo, non siano mai
state risolte. Tale ineguale
sviluppo è voluto, cercato,
utilissimo al rafforzamento
dei capitalismi nazionali.
Da questo punto di vista il
caso italiano è eclatan-
te e peculiare. In Italia
la questione meridio-
nale nasce insieme al-
l’Unità, e anzi, in un
certo senso è proprio
l’Unità a creare la que-
stione meridionale: i
centri industriali del
regno borbonico, in-
fatti, invece di essere
sostenuti e incentivati
furono spazzati via
per favorire le nascen-
ti industrie del nord, e
la monarchia sabauda
gestì il controllo dei
territori conquistati
con le tipiche armi del
colonialismo: feroce
repressione del dis-
senso (dietro il nome
di “lotta al brigantag-
gio”) e alleanza con l’inetta
borghesia locale, latifondi-
sta e parassitaria. E così,
dalla fine dell’Ottocento ai
giorni nostri, una genera-
zione dopo l’altra di lavora-
tori meridionali hanno do-
vuto lasciare la propria ter-
ra per cercarsi un futuro in
luoghi lontani o lontanissi-
mi: Nord Italia, Belgio, Ger-
mania, America, Austra-
lia… e oggi siamo al punto
di partenza: un’indagine
del 2010 redatta dall’Uffi-
cio Studi della Banca d’Italia
ha rilevato che il numero di
emigrati dal Sud al Nord
Italia è di nuovo molto vici-
no a quello dei primi anni
Sessanta, quando migliaia
di figli di contadini meridio-
nali raggiungevano il trian-
golo industriale Milano-Ge-
nova-Torino per diventare
operai. Un’emigrazione
molto diversa qualitativa-
mente, ma che tocca però le
stesse vette numeriche di
allora. Ogni anno, infatti, si
spostano dalle regioni me-
ridionali verso quelle del
Centro-Nord circa 270 mila
persone: 120 mila in manie-
ra permanente, 150 mila
per uno o più mesi. Un da-
to vicino a quello dei primi
anni Sessanta, quando a
trasferirsi al Nord erano
295 mila persone l’anno.
Parlare di 270 mila uomini
e donne che ogni anno van-
no da Sud a Nord per lavo-
rare o per studiare significa
immaginare una città come
Caltanissetta che si sposta
tutta intera per trovare un
futuro. Tra il 1990 e il 2005
quasi 2 milioni di cittadini
italiani sono stati costretti
ad abbandonare il Sud per
andare a trovare un impie-
go in qualche cittadina del
Nord. E le cose sono persi-
no peggiorate rispetto a 40
anni fa! Allora la “valigia di
cartone”, comunque sinoni-
mo di sacrificio e di dolore,
significava anche poter
contare un lavoro presso-
ché sicuro (probabilmente
sino alla pensione) e su un
futuro di più ampie pro-
spettive per sé e per i pro-
pri figli. Ora, invece, con
precarietà e flessibilità a
farla da padrone, si parte
con un carico di incognite
ben più pesante e difficile
da gestire. La “questione
meridionale”, lungi
dall’essere risolta al-
meno sul fronte oc-
cupazionale, quello
del lavoro al sud per
intenderci, esiste in
tutta la sua dramma-
ticità. Un Mezzogior-
no incapace di trat-
tenere il proprio ca-
pitale umano (tra
l’altro ora se vanno
anche moltissimi
laureati), perde uno
dei fattori chiave per
tenere viva la spe-
ranza in un reale
cambiamento per
tutto il Paese. “Dalpunto di vista delMezzogiorno, l’emi-grazione dei lavora-tori, e in particolare
di quelli con qualifiche piùelevate, può comportare unimpoverimento di capitaleumano che, a sua volta, po-trebbe riflettersi nella persi-stenza dei differenziali ter-ritoriali in termini di produt-tività, competitività e, in ul-tima analisi, di crescita eco-nomica. In questo contesto,l’intervento delle autorità dipolitica economica deve es-sere teso, piuttosto che a fre-nare l’emigrazione, a ri-muoverne le determinanti,che hanno come comunedenominatore la quantità ela qualità della crescita eco-nomica nel Mezzogiorno.”(Banca d’Italia gennaio
2010). Ma allora, da sessan-
t’anni a questa parte, cosa è
cambiato?
L’emigrazione senza fine
I meridionali furono dipin-
ti in vari modi: come insof-
ferenti verso il lavoro me-
todico e monotamente
svolto, come incapaci di
adattarsi ai ritmi ed ai la-
vori imposti dalle società
moderne. In molti li consi-
deravano sporchi, incivili e
non erano rari cartelli con
scritto: “non si fitta ai me-
ridionali”. Tutti i meridio-
nali a prescindere dalla lo-
ro regione di provenienza
erano chiamati "i napule",
era meglio non fidarsi e
poi facevano arrivare trop-
pi parenti e "coltivavano il
basilico nella vasca da ba-
gno”. A Torino gli immi-
grati trovarono alloggio
negli scantinati e nei solai
del centro, negli edifici de-
stinati a demolizione, in
cascine abbandonate al-
l'estrema periferia. Nelle
cittadine alla periferia di
Milano gli immigrati trova-
rono una diversa soluzio-
ne al problema della casa,
la costruzione delle cosid-
dette «coree»: gruppi di
case edificate di notte da-
gli stessi immigrati,
senza alcun per-
messo urbanistico,
su terreni agricoli
comprati coi loro ri-
sparmi. Il nome
«coree» sembra de-
rivare dal fatto che
queste costruzioni
apparvero per la
prima volta ai tempi
della guerra di Co-
rea. Il boom econo-
mico esigeva sem-
pre più manodope-
ra e fu così che
l'agricoltura e la
piccola industria insieme
all’edilizia e al piccolo
commercio, svolsero un
ruolo di “polmone della
nuova industrializzazione
del nord”. Le strategie del-
l’imprenditoria nazionale,
tentando un’integrazione
nel tessuto economico dei
paesi più avanzati, aveva-
no portato a una concen-
trazione degli investimen-
ti nei distretti industriali
del nord, rispetto alla qua-
le uno spostamento di ca-
pitali verso il sud avrebbe
significato disperdere tec-
nologie e risorse. Quindi il
Meridione, nel boom eco-
nomico, era destinato ad
avere una funzione subor-
dinata e funzionale agli in-
teressi dell’economia del
nord. La concentrazione
delle grandi fabbriche nel-
le regioni settentrionali
mise in moto un flusso mi-
gratorio dal sud agricolo al
nord industrializzato che
impoverì le regioni meri-
dionali anche delle risorse
umane.
II III
Un popolo migranteUn popolo migrante
“Fra il 1880 e il 1915 ap-
prodano negli Stati Uniti
quattro milioni di italiani,
su 9 milioni circa di emi-
granti che scelsero di attra-
versare l'Oceano verso le
Americhe. Le cifre non ten-
gono conto del gran nume-
ro di persone che rientrò in
Italia: una quota considere-
vole ( 50/60%) nel periodo
1900-1914. Circa il settan-
ta per cento proveniva dal
Meridione, anche se fra il
1876 ed il 1900 la maggior
parte degli emigrati era del
Nord Italia con il quaranta-
cinque per cento composto
solo da Veneto, Friuli Vene-
zia Giulia e Piemonte. Le
motivazioni che spinsero
masse di milioni di Meri-
dionali ad emigrare furono
molteplici. Durante l'inva-
sione Piemontese, operata
senza dichiarazione di
guerra, del Regno delle due
Sicilie, i macchinari delle
fabbriche, non dimenti-
chiamo che Napoli era allo-
ra una città all'avanguardia
in campo industriale, furo-
no portati al Nord dove in
seguito sorsero le industrie
del Piemonte, della Lom-
bardia e della Liguria.
Le popolazioni del Meri-
dione, devastato dalle guer-
ra con circa un milione di
morti, da cataclismi natura-
li (il terremoto del 1908
con l'onda di marea nello
Stretto di Messina uccise
più di 100,000 persone nel-
la sola città di Messina) de-
predato dall'esercito, dis-
sanguato dal potere ancora
di stampo feudale, non eb-
bero altra alternativa che
migrare in massa. Il siste-
ma feudale, ancora perfet-
tamente efficiente, permet-
teva che la proprietà terrie-
ra ereditaria determinasse
il potere politico ed econo-
mico, lo status sociale, di
ogni individuo. In questo
modo, le classi povere non
ebbero praticamente alcu-
na possibilità di migliorare
la propria condizione. Da
aggiungere ai motivi del-
l'esodo la crisi agraria dal
1880 in poi, successiva-
mente l'aggravarsi delle im-
poste nelle campagne meri-
dionali dopo l'unificazione
del paese, il declino dei vec-
chi mestieri artigiani, delle
industrie domestiche, la
crisi della piccola proprie-
tà e delle aziende montane,
delle manifatture rurali. Gli
Stati Uniti dal 1880 apriro-
no le porte all'immigrazio-
ne nel pieno dell'avvio del
loro sviluppo capitalistico;
le navi portavano merci in
Europa e ritornavano cari-
che di emigranti. I costi del-
le navi per l'America erano
inferiori a quelli dei treni
per il Nord Europa, per
questo milioni di persone
scelsero di attraversare
l'Oceano. L'arrivo in Ameri-
ca era caratterizzato dal
trauma dei controlli medi-
ci e amministrativi durissi-
mi, specialmente ad Ellis Is-
land, l'Isola delle Lacrime.
Nel Museo dell'Emigrazio-
ne a New York ci sono an-
cora le valigie piene di sup-
pellettili e di povero abbi-
gliamento delle persone
che reimbarcate per l'Italia,
nella disperazione si butta-
vano nelle acque gelide del-
la baia andando quasi sem-
pre incontro alla morte.”
(da “Remembering Ellis Is-land on Columbus Day”, diRo Pucci)
Ellis Island“Isola delle lacrime”
(tratto da Angela Molteni,www.antoniogramsci.com)
Fino al 1850 circa non esiste-
vano procedure ufficiali per
l’immigrazione a New York.
In questa data l’impennata
del numero di immigrati eu-
ropei che fuggivano dalle
grandi carestie del 1846 e
dalle rivoluzioni fallite del
1848 spinse le autorità ad
aprire un centro di immigra-
zione a Castle Clinton in Bat-
tery Park, sulla punta meri-
dionale dell’isola di Manhat-
tan. Verso il 1880 le privazio-
ni che si soffrivano nell’Euro-
pa orientale e meridionale e
la forte depressione econo-
mica nell’Italia meridionale
spinsero migliaia di persone
ad abbandonare il Vecchio
Continente. Al contempo in
America stava prendendo il
via la rivoluzione industria-
le, con un crescente proces-
so di urbanizzazione. Ellis Is-
land fu aperta nel 1894,
quando l’America superò un
periodo di depressione eco-
nomica e cominciò a impor-
si come potenza mondiale.
In tutta Europa si diffusero
le voci sulle opportunità of-
ferte dal Nuovo Mondo e mi-
gliaia di persone decisero di
lasciare la loro patria. Quan-
do le navi a vapore entrava-
no nel porto di New York, i
più ricchi passeggeri di pri-
ma e seconda classe veniva-
no ispezionati a loro como-
do nelle loro cabine e scorta-
ti a terra da ufficiali dell’im-
migrazione. I passeggeri di
terza classe venivano porta-
ti a Ellis Island per l’ispezio-
ne, che era più dura. Ogni
immigrante in arrivo portava
con sé un documento con le
informazioni riguardanti la
nave che l’aveva portato a
New York. I medici esamina-
vano brevemente ciascun
immigrante e marcavano
sulla schiena con del gesso
coloro per i quali occorreva
un ulteriore esame per accer-
tarne le condizioni di salute;
se vi erano condizioni parti-
colari di infermità ciò com-
portava che venissero tratte-
nuti all’ospedale di Ellis Is-
land. Dopo questa prima
ispezione, gli immigranti
procedevano verso la parte
centrale della Sala di Regi-
strazione dove gli ispettori
interrogavano gli immigran-
ti a uno ad uno. A ogni immi-
grante occorreva perlomeno
una intera giornata per pas-
sare l’intero processo di
ispezione a Ellis Island. Le
scene sull’isola erano vera-
mente strazianti: per la mag-
gior parte le persone arriva-
vano affamate, sporche e
senza una lira, non conosce-
vano una parola di inglese e
si sentivano estremamente
in soggezione per la metro-
poli sull’altra riva. Agli immi-
granti veniva assegnata una
Inspection Card con un nu-
mero e c’era da aspettare an-
che tutto un giorno, mentre
i funzionari di Ellis Island la-
voravano per esaminarli.
Dopo l’ispezione, gli immi-
granti scendevano dalla Sala
di Registrazione per le “Sca-
le della Separazione” che se-
gnavano il punto di divisione
per molte famiglie e amici
verso diverse destinazioni. Il
centro era stato progettato
per accogliere 500.000 im-
migrati all’anno, ma nella
prima parte del secolo ne ar-
rivarono il doppio. Truffato-
ri saltavano fuori da ogni do-
ve, rubavano il bagaglio degli
immigrati durante i control-
li, e offrivano tassi di cambio
da rapina per il denaro che
questi erano riusciti a porta-
re con sé. Le famiglie veniva-
no divise, uomini da una par-
te, donne e bambini dall’al-
tra, mentre si eseguiva una
serie di controlli per elimina-
re gli indesiderabili e i mala-
ti. Questi ultimi venivano
portati al secondo piano, do-
ve i dottori controllavano la
presenza di “malattie ripu-
gnanti e contagiose” e mani-
festazioni di pazzia. Coloro
che non superavano gli esa-
mi medici venivano contras-
segnati, come già accennato,
con una croce bianca sulla
schiena e confinati sull’isola
fino a diversa decisione, op-
pure venivano reimbarcati. I
capitani delle navi avevano
l’obbligo di riportare gli im-
migrati non accettati al loro
porto di origine. Secondo le
registrazioni ufficiali tutta-
via solo il due per cento veni-
va rifiutato, e molti di questi
si tuffavano in mare e cerca-
vano di raggiungere Manhat-
tan a nuoto o si suicidavano,
piuttosto che affrontare il ri-
torno a casa. Fatto che meri-
tò a Ellis Island il nome di
“Isola delle lacrime”. Quando
gli Stati Uniti entrarono nel-
la prima guerra mondiale nel
1917, i sentimenti anti-immi-
grazione e le ostilità isolazio-
niste erano all’apice. Il Klu-
Klux-Klan, costituito nel
1915, rifletteva le opinioni di
coloro che disprezzavano gli
immigrati non inglesi consi-
derandoli di “razza inferio-
re”. Mentre gli immigrati do-
vevano affrontare ostilità di
ogni tipo, il ruolo di Ellis Is-
land cambiava rapidamente
da centro di smistamento
per gli immigrati a centro di
detenzione. Dopo il 1917
l’isola divenne principalmen-
te campo di raccolta e di
smistamento per deportati e
perseguitati politici. L’immi-
grazione diminuì sensibil-
mente all’inizio della prima
guerra mondiale e i decreti
sull’immigrazione del 1921
e del 1924 di fatto posero fi-
ne alla politica di “porte
aperte” degli Stati Uniti. Cit-
tadini giapponesi, italiani e
tedeschi furono detenuti a
Ellis Island durante la secon-
da guerra mondiale e il cen-
tro venne utilizzato princi-
palmente per detenzione fi-
no alla sua chiusura, il 12 no-
vembre 1954.
Il 28 dicembre 1939 lo scrit-
tore e giornalista praghese
Egon Erwin Kisch (1885-
1948) così scrive nel suo li-
bro Sbarcando a New York.
. “Sono di nuovo prigionie-ro sulla nave. Dall’oblò chiu-so vedo il Nuovo Mondo ver-so il quale da due settimane,due settimane di guerra, stonavigando sulla ‘Pennland’della linea olandese-ameri-cana [...]. L’immigration offi-cer dice che il mio passapor-to non è valido, perché un vi-sto cileno ottenuto a Pariginon è sufficiente come vistodi transito per l’America [...]Mentre parlava con me, unfunzionario gli mostrò un fo-gliettino, senza dubbio con-teneva qualcosa sul mio con-to. ‘Lo so’, disse. Quindi mitocca andare a Island - uneufemismo per Ellis Island,L’isola delle lacrime [...] Giùdalla ‘Pennland’ sulla qualeabbiamo trascorso più didue settimane, giù con tuttoil bagaglio (il mio è rimastoin Belgio), nei dock gelidi do-ve fanno la revisione doga-nale, poi con un tender al-l’isola-prigione sorvegliatadalla Statua della Libertà (siriempiono la bocca con laStatua della Libertà) [...]. Ciòche contraddistingue la no-stra prigione da ogni altra èla cabina telefonica. Una cel-la del carcere con cabina te-lefonica non esiste da nessu-n’altra parte. Ammesso cheuno abbia un nichelino, sipuò mettere in contatto conil resto del mondo, e al tem-po stesso non può. Nessunopuò chiamarti [...]. Facciouna passeggiata nel cortileche invece di quattro paretine ha soltanto due: quellemancanti sono acqua.”
57 milioni sono gli italiani
censiti residenti in Italia; 58
milioni sono gli italiani di
prima, seconda o terza ge-
nerazione stimati al di fuo-
ri dell’Italia. La cifra è im-
pressionante: un’altra na-
zione, un altro popolo al di
fuori dei confini della così
detta “patria”. Si può obiet-
tare che le seconde o le ter-
ze generazioni “non conta-
no”, perché oramai non si
possono più considerare
italiani ma cittadini degli
Stati di nuova residenza.
Questo in parte è vero per-
ché la “nostalgia” dell’Italia
che sicuramente colpiva la
prima generazione, che ha
sempre continuato a spera-
re di ritornare, anche per ri-
congiungersi ai parenti la-
sciati, e forse ha colpito an-
cora la seconda generazio-
ne cresciuta nell’ascolto dei
racconti e delle speranze
dei genitori, per la terza ge-
nerazione si è in buona par-
te mutata nella mera ricer-
ca, o meglio nella pura ri-
vendicazione di un identità
etnica da affermare di fron-
te alle altre tante identità et-
niche vantate dalle innume-
revoli minoranze dei paesi
di emigrazione. Una identi-
tà etnica sicuramente “mi-
nore”, come minore era il
peso mondiale della loro
“patria” di provenienza e
ancora “minimo”, per non
dire rifiutato e negato, era il
legame identitario tra i go-
vernanti della loro patria e i
suoi figli più miserabili spe-
diti a cercare fortuna (so-
pravvivenza!) all’estero. I
dati “veri”, i
dati cioè cen-
siti, del nume-
ro degli emi-
grati nei 100
anni dalla pri-
ma crisi eco-
nomica euro-
pea degli anni
70/80 dell’ot-
tocento all’ul-
timo decen-
nio del secolo
scorso, sono
c o m u n q u e
“mostruosi”:
26 milioni di
emigrati! In
alcune fasce
temporali di maggiore eso-
do (perché di questo si è
trattato: di un esodo bibli-
co!) è emigrata circa un ter-
zo dell’intera popolazione
residente. Alcuni numeri se-
condo i tre periodi statistici
di maggiore emigrazione.
Primo periodo 1876-1914:
oltre 14 milioni, con punte
di vero e sproprio esodo di
massa a ridosso della prima
guerra mondiale, prove-
nienti nella prima fase in
prevalenza dalla “sacche”
di estrema povertà del nord
Italia e poi sempre di più
dal mezzogiorno, diretti
per meno della metà verso
l’Europa e per il resto in
grande maggioranza verso
il nord America e in mino-
ranza verso il sud America;
secondo periodo 1918-
1940: poco più di 4 milioni
anche in ragione del “bloc-
co” all’emigrazione impo-
sto dal fascismo, in direzio-
ne per la metà verso l’Euro-
pa e il resto verso l’America
maggiormente verso il sud
America a causa delle re-
strizioni all’immigrazione
imposte dagli Stati Uniti;
terzo periodo 1946-1976,
circa 8 milioni in ampia par-
te in direzione dell’Europa.
26 milioni partiti, solo circa
8 milioni tornati in larghis-
sima maggioranza negli an-
ni del boom economico do-
po la seconda guerra mon-
diale.
57.000.000 contro 58.000.000il più grande esodo migratoriodella storia moderna
“Coltivavano il basiliconella vasca da bagno”
300.000 ogni anno dal Sudagricolo al Nord industriale
Limon, Costarica 25 agosto1927In questi giorni, in questi duemesi ti ho scritto tante voltesenza spedirti mai una dellemie lettere. Pigrizia e insod-disfazione. Un poco anche lacoscienza di non avere nien-te da scriverti che veramen-te valesse la pena. Di quan-to io mi ostino a pensare e acredere che valga la pena.Impiegato ora in una com-pagnia americana dove nonsto imparando nien-t’altro che l'odio perquesto popolo cheprima ammiravo.Popolo che si crede ildominatore del mon-do, che forse lo è eche da questo trae laconseguenza di unasuperiorità assolutasugli altri popoli e undisprezzo inflessibileper tutto ciò che nonè americano. Stipen-dio, ore di ufficio,nessuna prospettivaavvenire. Grigioreinfinito di vita in porto tropi-cale, abbastanza sudicio, dif-ficoltà propositi nuovi, alcu-ne nuove esperienze e rim-pianto. Rimpianto di quelloche non ho avuto. Niente dibrillante. Però la vita raccol-ta, riposata, silenziosa checonduco da due mesi mi stafacendo risorgere nell’ani-mo nuove energie e nuoviprogetti. Sono sicuro: prefe-risco non essere mai nienteche essere troppo. Preferiscosoffrire per tutta la vita quel-lo che ho sofferto in questiultimi anni che rassegnar-mi. Sono troppo giovane perquesto. Riprenderò la lottaappena abbia forza suffi-
ciente. Stamani, in ora in cuinon avevo niente da fare, miesercitavo a scrivere in ispa-gnolo un articolo per suppo-sto giornale più che altrocon lo scopo di esercitarmi ascrivere la lingua. Ad un cer-to momento arrivai a scrive-re di Firenze. Per la secondavolta nella mia vita un no-stalgia che mi si velava dipianto si è impadronita dime. Rivedevo Firenze dalViale dei Colli in una di quel-
le giornate opaline di prima-vera o di ottobre che ti rive-drai fra qualche mese sol-tanto e che io forse non rive-drò più. Come ero triste…Rimpiangevo tante, tantecose. Rimpiangevo te cheforse nemmeno rivedrò piùbenché tu sia entrata nellamia vita come nessuna altrapersona ha mai entrato némai entrerà più. Non sonovinto, ma stanco. Mi mancaforse lo stimolo ad andare, apensare in domani. Ma nonposso, non posso rimanerequi. In questo porto del tropi-co, caldissimo, asfissiante,monotono, triste dove a vol-te mi prende una disperazio-
ne terribile che va fino alloschifo del mio corpo pieno disudore, sudore, sudore. Vin-cere, riposare, rivedere le co-se lontane, abbandonate,mie. Allora tu non sari piùla. La vita è una perdita con-tinua, una perdita esaspe-rante, una perdita che nonammette sostituzioni. Ed iomi ribello inutilmente. Moltaacqua è fra noi. Molti giornici separano. Le vecchie illu-sioni sono morte, le ultime
speranze disfattedella distanza.Ma non mi rasse-gno. Mi sentostanco, mi sentotriste ma non vin-to. La povertà didomani non mispaventa perchétroppo soffro lapovertà di oggi. Edevo vincere. AhMaria è necessa-ria molta forza,molta pazienzaper passare attra-verso questa ter-
ribile prova. Quando mi scri-verai scrivimi più a lungo.Raccontami più cose. Tu seila ultima voce che mi vienedi costà. Tutti I miei vecchiamici a poco a poco hannocessato di scrivermi e mihanno dimenticato. Mio pa-dre quasi non scrive e quan-do scrive non fa altro cheaumentare la mia tristezza.Io necessito qualcosa che miricordi, che mi faccia rivive-re dinanzi quello che non èpiù mio. Perché di mio oranon ho niente, qui. Tutto èqui come provvisorio, comein un sogno, come in un rac-conto.
Saluti
Questo popolo che ci disprezza
Non è un caso che all’inter-
no di molti paesi della me-
tropoli capitalista vi siano
forti squilibri fra regione e
regione e che tali disparità,
nonostante durino da mol-
to tempo, non siano mai
state risolte. Tale ineguale
sviluppo è voluto, cercato,
utilissimo al rafforzamento
dei capitalismi nazionali.
Da questo punto di vista il
caso italiano è eclatan-
te e peculiare. In Italia
la questione meridio-
nale nasce insieme al-
l’Unità, e anzi, in un
certo senso è proprio
l’Unità a creare la que-
stione meridionale: i
centri industriali del
regno borbonico, in-
fatti, invece di essere
sostenuti e incentivati
furono spazzati via
per favorire le nascen-
ti industrie del nord, e
la monarchia sabauda
gestì il controllo dei
territori conquistati
con le tipiche armi del
colonialismo: feroce
repressione del dis-
senso (dietro il nome
di “lotta al brigantag-
gio”) e alleanza con l’inetta
borghesia locale, latifondi-
sta e parassitaria. E così,
dalla fine dell’Ottocento ai
giorni nostri, una genera-
zione dopo l’altra di lavora-
tori meridionali hanno do-
vuto lasciare la propria ter-
ra per cercarsi un futuro in
luoghi lontani o lontanissi-
mi: Nord Italia, Belgio, Ger-
mania, America, Austra-
lia… e oggi siamo al punto
di partenza: un’indagine
del 2010 redatta dall’Uffi-
cio Studi della Banca d’Italia
ha rilevato che il numero di
emigrati dal Sud al Nord
Italia è di nuovo molto vici-
no a quello dei primi anni
Sessanta, quando migliaia
di figli di contadini meridio-
nali raggiungevano il trian-
golo industriale Milano-Ge-
nova-Torino per diventare
operai. Un’emigrazione
molto diversa qualitativa-
mente, ma che tocca però le
stesse vette numeriche di
allora. Ogni anno, infatti, si
spostano dalle regioni me-
ridionali verso quelle del
Centro-Nord circa 270 mila
persone: 120 mila in manie-
ra permanente, 150 mila
per uno o più mesi. Un da-
to vicino a quello dei primi
anni Sessanta, quando a
trasferirsi al Nord erano
295 mila persone l’anno.
Parlare di 270 mila uomini
e donne che ogni anno van-
no da Sud a Nord per lavo-
rare o per studiare significa
immaginare una città come
Caltanissetta che si sposta
tutta intera per trovare un
futuro. Tra il 1990 e il 2005
quasi 2 milioni di cittadini
italiani sono stati costretti
ad abbandonare il Sud per
andare a trovare un impie-
go in qualche cittadina del
Nord. E le cose sono persi-
no peggiorate rispetto a 40
anni fa! Allora la “valigia di
cartone”, comunque sinoni-
mo di sacrificio e di dolore,
significava anche poter
contare un lavoro presso-
ché sicuro (probabilmente
sino alla pensione) e su un
futuro di più ampie pro-
spettive per sé e per i pro-
pri figli. Ora, invece, con
precarietà e flessibilità a
farla da padrone, si parte
con un carico di incognite
ben più pesante e difficile
da gestire. La “questione
meridionale”, lungi
dall’essere risolta al-
meno sul fronte oc-
cupazionale, quello
del lavoro al sud per
intenderci, esiste in
tutta la sua dramma-
ticità. Un Mezzogior-
no incapace di trat-
tenere il proprio ca-
pitale umano (tra
l’altro ora se vanno
anche moltissimi
laureati), perde uno
dei fattori chiave per
tenere viva la spe-
ranza in un reale
cambiamento per
tutto il Paese. “Dalpunto di vista delMezzogiorno, l’emi-grazione dei lavora-tori, e in particolare
di quelli con qualifiche piùelevate, può comportare unimpoverimento di capitaleumano che, a sua volta, po-trebbe riflettersi nella persi-stenza dei differenziali ter-ritoriali in termini di produt-tività, competitività e, in ul-tima analisi, di crescita eco-nomica. In questo contesto,l’intervento delle autorità dipolitica economica deve es-sere teso, piuttosto che a fre-nare l’emigrazione, a ri-muoverne le determinanti,che hanno come comunedenominatore la quantità ela qualità della crescita eco-nomica nel Mezzogiorno.”(Banca d’Italia gennaio
2010). Ma allora, da sessan-
t’anni a questa parte, cosa è
cambiato?
L’emigrazione senza fine
I meridionali furono dipin-
ti in vari modi: come insof-
ferenti verso il lavoro me-
todico e monotamente
svolto, come incapaci di
adattarsi ai ritmi ed ai la-
vori imposti dalle società
moderne. In molti li consi-
deravano sporchi, incivili e
non erano rari cartelli con
scritto: “non si fitta ai me-
ridionali”. Tutti i meridio-
nali a prescindere dalla lo-
ro regione di provenienza
erano chiamati "i napule",
era meglio non fidarsi e
poi facevano arrivare trop-
pi parenti e "coltivavano il
basilico nella vasca da ba-
gno”. A Torino gli immi-
grati trovarono alloggio
negli scantinati e nei solai
del centro, negli edifici de-
stinati a demolizione, in
cascine abbandonate al-
l'estrema periferia. Nelle
cittadine alla periferia di
Milano gli immigrati trova-
rono una diversa soluzio-
ne al problema della casa,
la costruzione delle cosid-
dette «coree»: gruppi di
case edificate di notte da-
gli stessi immigrati,
senza alcun per-
messo urbanistico,
su terreni agricoli
comprati coi loro ri-
sparmi. Il nome
«coree» sembra de-
rivare dal fatto che
queste costruzioni
apparvero per la
prima volta ai tempi
della guerra di Co-
rea. Il boom econo-
mico esigeva sem-
pre più manodope-
ra e fu così che
l'agricoltura e la
piccola industria insieme
all’edilizia e al piccolo
commercio, svolsero un
ruolo di “polmone della
nuova industrializzazione
del nord”. Le strategie del-
l’imprenditoria nazionale,
tentando un’integrazione
nel tessuto economico dei
paesi più avanzati, aveva-
no portato a una concen-
trazione degli investimen-
ti nei distretti industriali
del nord, rispetto alla qua-
le uno spostamento di ca-
pitali verso il sud avrebbe
significato disperdere tec-
nologie e risorse. Quindi il
Meridione, nel boom eco-
nomico, era destinato ad
avere una funzione subor-
dinata e funzionale agli in-
teressi dell’economia del
nord. La concentrazione
delle grandi fabbriche nel-
le regioni settentrionali
mise in moto un flusso mi-
gratorio dal sud agricolo al
nord industrializzato che
impoverì le regioni meri-
dionali anche delle risorse
umane.
IV
In questo mondo libero
(tratto da Antonio Camuso per l’Osservatorio sui Balcanidi Brindisi, 2008) Per circa due giorni, dal 6 a 7 marzo1991, tra le acque internazionali e quelle territoriali ita-liane si era svolta la prima operazione di interdizione dimigranti da parte della Marina Militare italiana. un'ope-razione " con manovre cinematiche e intimidatorie"avrebbe dovuto far invertire la rotta dei boat people, ri-petuta poi nell'agosto 91 quando migliaia di albanesi cer-carono di sbarcare a Bari e tragicamente poi nel marzo97, in quel maledetto venerdì santo che causò l'affonda-mento della Kater I Rades e la morte di un centinaio dialbanesi. In ogni caso queste non impedirono l'arrivo deimigranti rafforzando quanto le organizzazioni antiraz-ziste del territorio pugliese affermavano da tempo chenon con i cannoni si sarebbero potute fermare le ondatemigratorie dai Paesi del Sud del Mondo. Quell'8 marzoera in programma una manifestazione di donne organiz-zata dall'Associazione Io Donna e da altre organizzazio-ni femministe , che fu interrotta e quindi annullata acausa ell'emergenza: le compagne insieme agli uomini,gli operatori e gli utenti del centro Sociale (contro l'emar-ginazione giovanile) di Via santa chiara di Brindisi si uni-rono allo sforzo corale di tutta la città di Brindisi che coni propri mezzi si trovò a gestire l'emergenza. Il CentroSociale divenne il campo docce, disinfestazione e vesti-zione di migliaia di albanesi. Per giorni a turni massa-cranti tutti i militanti storici, i giovani da poco inseritinelle attività ludiche, le donne spesero tutte le forze, lefamiglie dei compagni arruolate tout court nelle mensefamiliari, nell'accoglienza, in un'esperienza irripetibile eche vale, vale... la pena ricordare per comprendere appie-no il significato di solidarietà che è dentro in ogni esse-re umano … ci lanciammo in poche ore in un'operazio-ne riuscitissima nel dar voce a coloro che sarebbero do-vuti diventare nell'immediato futuro un grande fenome-no sociale, politico, economico: i MIGRANTI.
8 marzo 1991, 20.000 albanesi sbarcano a BrindisiUna città che fece stupire l’Italia per la sua solidarietà ai migranti
Riduzione in schiavitù Sfruttamento minorile
Il 22 febbraio del 2008 ilGup del tribunale di Bariha emesso la sentenza diprimo grado (poi confer-mata dalla Corte d’Assi-se d’Appello di Bari) nelprimo processo penalein Europa per il reato diriduzione in schiavitù dilavoratori immigrati. So-no stati condannati a 10anni di reclusione cin-que “caporali” per averridotto centinaia di brac-cianti immigrati in statodi schiavitù sui campi diraccolta dei pomodoridella Capitanata, in Pu-glia. Vari loro complici, esottoposti, hanno subitopene tra 4 e 5 anni. E'stato un evento storiconella lotta a questa for-ma di criminalità matu-rato, oltretutto in uncontesto legislativo na-zionale molto fragile cheancora interpreta il rea-to di riduzione in schia-vitù nella sola formaestrema della costrizio-ne fisica, continuando asottovalutare il lato cul-turale ed economico. Diquesto evento giudizia-rio in Italia se ne è inte-ressata solo la stampalocale. Eppure sono cen-tinaia di migliaia i lavo-ratori ridotti in schiavi-tù. Immigrati ricattati esfruttati da organizza-zioni non solo malavito-se, ma anche legittima-mente imprenditorialisenza scrupoli. Un feno-meno che non riguardasolo il profondo Sud, masi sta diffondendo amacchia d’olio anchenelle regioni centroset-tentrionali. Eppure oggiè possibile fare ben pocoper contrastare questoramo della criminalità
che balza agli onori del-la cronaca molto rara-mente, solo quando siassiste a fatti violenti co-me quelli di Rosarno.Perché i caporali rischia-no, solo se colti in fla-grante, una sanzioneamministrativa di 50 eu-ro per ogni lavoratore in-gaggiato. Niente di più.Anzi, di più, perché conl’entrata in vigore delreato di clandestinità chiha denunciato il propriosfruttatore si è trovatoin mano un decreto diespulsione. Secondo lerecenti stime l’apportodel cosiddetto lavoro ne-ro al Pil italiano è pari acirca il 17% contro unamedia dei Paesi avanzatidell’Europa del 4%. Dei400 mila lavoratori sottocaporale la maggior par-te si concentra al Sud,ma si stanno creando an-che nuovi fronti. Comel’Emilia Romagna dovenel mantovano gli immi-grati per lo più di nazio-nalità indiana, vengonoreclutati per la raccoltadei meloni o il TrentinoAlto Adige, dove si com-prano le braccia per laraccolta delle mele. NelLazio, invece, i caporalisi trovano da Latina ingiù dove sono istituzio-nalizzati gli “smorzi”,così nel gergo si chiama-no i punti dove gli immi-grati si mettono in ven-dita, solitamente viciniai depositi di materialeedile. Non solo. La crisieconomica ha apertonuovi drammatici scena-ri spingendo anche gliitaliani ad affacciarsi do-ve all’alba si concentra-no i lavoratori in cerca dilavoro.
Circa 400 mila minoren-ni sono sfruttati nei luo-ghi di lavoro del nostroPaese. E' quanto si evin-ce dalla ricerca realizza-ta dall'Ires-Cgil. Gli au-tori dell'indagine sotto-lineano come siano sot-tostimate le rilevazionidell'Istat che ha valuta-to il fenomeno dellosfruttamento di minorinon oltre la soglia delle144 mila unità. Sonomolti di più, secondol'Ires, appunto quasi400 mila. Di questi il17,5% (circa 70 milabambini) lavora oltre 4ore al giorno in modocontinuativo, ma per 40mila di loro il temposottratto allo studio e algioco va anche oltre leotto ore quotidiane. Lapaga oscilla tra i 200 e i500 euro. Tra i 400 mi-la minori calcolati dallaCgil sono inclusi i bam-bini figli di immigrati ei circa 30-35 mila mino-ri non accompagnati en-trati clandestinamentenel nostro paese. Oltreai 70 mila bambini im-piegati in lavori impe-gnativi, il 32% dei mino-ri sfruttati, circa 130mila, sono impiegati inlavori stagionali e il50%, circa 200 mila, aiu-tano i genitori in quelliche l'Istat definisce "la-voretti", retribuiti con"paghette", e che la Cgilconsidera invece "lavoriprecoci" all'interno diun "contesto familiarepovero". Dei 70 mila mi-nori impiegati in lavoricontinuativi il 57% lavo-ra nel settore del com-mercio, il 20% nell'arti-gianato e l'11% nell'edi-lizia. Si tratta di un fe-
nomeno in forte aumen-to e destinato a diventa-re sempre più importan-te. In tre grandi realtàmetropolitane: Milano,Roma e Napoli, la popo-lazione minorile tra i 7 ei 14 anni è pari a846.640 unità e i minoriche lavorano sono 26mila, il 3,7% fino a 13anni e l'11,6% i 14enni. Le tre cause principa-li, povertà, lavoro irre-golare e dispersionescolastica, non sono di-minuiti d’importanzaper tre motivi: la cresci-ta della povertà nellearee di emarginazione;la crescita del lavoroclandestino malgrado leregolarizzazioni; la de-penalizzazione della di-spersione scolastica.L'Italia, infatti, è al se-condo posto in Europa,dopo la Gran Bretagna,per la più alta percen-tuale di minori che vivesotto la soglia della po-vertà. Il 17% dei minoriè povero e al Sud la per-centuale sale al 29%. Inoltre, in base ai datidell'Ires, si evince che illavoro minorile è lapunta dell'iceberg delsommerso e che l'Italiaha il più alto tasso disommerso in Europa,pari al 22% del pil e a 4milioni di lavoratori, dicui il 10% è composto diminori. Infine la terzacausa, l'aumento delladispersione e dell'ab-bandono scolastico èconseguenza della rifor-ma Moratti per cui chinon rispetta l'obbligodella frequenza scola-stica dei figli non va piùin carcere, ma è punitosolamente con una mul-