inserto "veniamo da lontano" - luglio 2010

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I supplemento al numero 7 - Anno II - luglio 2010 di Piazza del Grano - www.piazzadelgrano.org Io, cittadini ateniesi, non ho voluto mai esercitare un pubblico ufficio nello stato. La sola mia partecipazione è stata al Consiglio dei Cinque- cento. Anzi la mia gente An- tiochis si trovò ad avere la pritania quel giorno in cui voi decretaste di metter sot- to processo tutti in massa i dieci generali, perché non avevano raccolto le salme della battaglia navale. E que- sto decreto era ingiusto. E in un tempo successivo ne ave- ste chiara la consapevolezza. In quell'occasione fui l'unico tra i pritani che si oppose; l'unico che non volle far nul- la di contrario alla legge. In- somma, ho dato voto contra- rio. I capi partito erano già pronti con una denuncia per trarmi in arresto; e voi li inci- tavate con grida e con ap- plausi. Ma io credetti di do- ver restar fedele alla legge e alla giustizia e di dover af- frontare fino in fondo ogni pericolo, piuttosto che se- Veniamo da Lontano Il comunismo non nasce con il manifesto di Marx, che costitui- sce la sua elaborazione scienti- fica contestualizzata alla at- tuale fase storica dell’econo- mia capitalista. Il comunismo, come pulsione verso una società di benessere e di pace nel rispetto della di- gnità della persona umana, nasce con la comparsa dell’ “uomo politico”, dell’uomo che fonda e si riunisce nelle comu- nità stabili e organizzate deno- minate “polis” (le città). In quello stesso momento, con il passaggio dal branco alla co- munità, ha inizio la ricerca del- le regole della (o per la) vita so- ciale. Ma ha anche inizio il con- flitto tra le leggi ancestrali della natura fondate sul predominio del più forte e sulla prosecuzio- ne della specie (vedi la fonda- zione di Roma nata da un fra- tricidio, Romolo che uccide Re- mo, e da uno stupro etnico, il Ratto delle Sabine) e le leggi ra- zionali dell’uomo sociale. In quel conflitto nasce il comu- nismo inteso come scienza per la ricerca di una disciplina etica per una società giusta di uomi- ni liberi ed eguali. Vogliamo andare lontano, ma per fare ciò dobbiamo sapere chi siamo e perciò dobbiamo in- dagare sul nostro passato per conoscere e capire, appunto, da dove veniamo. La Grecia classica, nel suo pe- riodo di massimo splendore tra il quinto e quarto secolo avanti Cristo, costituisce una delle di- verse e tante matrici dell’odier- na ideologia comunista. Abbia- mo quindi pensato di dedicare questo inserto a quel luminoso periodo della storia dell’umani- tà pubblicando alcuni brani scelti nella enorme produzione politica, scientifica e letteraria di quel periodo. L’impostazione dell’inserto, le ti- tolazioni e le introduzioni criti- che e informative ai singoli bra- ni fanno interamente capo alla responsabilità dell’editore. Per la realizzazione di questo inserto è stata tuttavia fonda- mentale (risolutiva per la deci- sione di pubblicarlo) la collabo- razione del prof. Attilio Turrio- ni che ha, con grande cortesia e disponibilità, offerto la sua pro- fessionalità per la ricerca e la selezione dei brani più coerenti e pertinenti al tema dell’etica nella politica al quale si è inteso dedicare l’inserto (fa eccezione il brano di Epicuro sulla felicità inserito dall’editore). Nel ringraziare il prof. Turrioni, augurandoci che vorrà conti- nuare a collaborare con questo periodico apportando un con- tributo sicuramente importan- te e di qualità, corre l’obbligo di precisare che taluni passaggi dei singoli testi sono stati par- zialmente “manipolati” dal- l’editore per renderne più “at- tuale” la lettura (“popolarizza- ti” direbbe Togliatti), sicché l’eventuale allontanamento dalla fedeltà all’originario testo greco va riferita all’editore. SOCRATE – Io ti domando: se hai conosciuto la cosa giusta da fare, la faresti o eviteresti di farla? CRITONE – La devo fare. SOCRATE - Ciò ammesso, sta attento. Noi fuggiamo via di qui; noi non cerchiamo di persuadere la nostra patria; ebbene, facciamo noi male a qualcuno? E precisamente, male a chi per minima ragio- ne si dovrebbe? o no? E re- stiamo noi fedeli al concetto di giustizia prima posto o no? CRITONE - Non avrei modo di rispondere alla tua domanda, Socrate. Non capisco, vedi. SOCRATE - Osserva allora: ti dico una cosa. Facciamo un'ipotesi. Noi siamo sul punto di scappar via da que- sto luogo (puoi anche chia- marla con quel nome che me- glio ti piace, questa nostra operazione); le Leggi intanto e la Patria nostra vengono qui; si fermano a noi d'accan- to; ci rivolgono una doman- da: «Dimmi un po', Socrate, cosa vorresti fare secondo te? Facendo così, tu soltanto pensi a questo: tu tenti di- struggere noi, le Leggi, e la Patria tua tutta quanta, per quello che sta in te. Ma senti un po'. Pare a te possibile che ancor si mantenga nel suo vi- gore e che non sia interamen- te distrutta quella città in cui le sentenze pronunciate non hanno alcuna forza? Ove pri- vati cittadini ne vanificano l’efficacia, non solo, ma di- struggono interamente quel- la sentenza?». Che diremo, Critone, di fronte a questi ar- gomenti e ad altri del genere? Quante ragioni si potrebbero dire, soprattutto da qualche oratore, a difesa di questa Legge da noi distrutta; questa Legge che impone l'esecuzio- ne di sentenze pronunciate. O diremo forse a quelle argo- mentazioni: “Eh sì, ma era la Patria che faceva a noi ingiu- stizia; è lei che non ha pro- nunciato secondo giustizia la nostra sentenza”; diremo noi questa o qualche altra cosa? CRITONE – Per Giove, questo direi, Socrate. SOCRATE - Supponi ora che le Leggi dicessero a noi: “So- crate, erano questi i patti sta- biliti fra noi e te? O non forse che ti saresti sot- toposto alle sentenze even- tualmente sancite dalla città, tua patria?”. Supponi sempre che noi al- lora facessimo atto di mera- viglia per queste parole; in tal caso le Leggi continue- rebbero a dire: “Socrate, non ti meravigliare troppo per quanto ti stiamo dicendo, bensì dacci una risposta. È tua abitudine far uso d'un metodo di domande e di ri- sposte. Suvvia, dunque: qua- le rimprovero tu puoi rivol- gere a noi e alla città, tua pa- tria, in seguito al quale tu tenti di sottrarti? David Jacques-Louis "La morte di Socrate" 1787 Della filosofia di Socrate è stato detto che se si costruisse una torre con tanti mattoni quanti sono stati i grandi filo- sofi della storia e via via se ne togliessero alcuni, anche dei più importanti, la torre vacil- lerebbe, ma resterebbe in pie- di. Se invece si togliesse So- crate la torre crollerebbe al- l’istante perché tutta la filoso- fia nasce e poggia su quella di Socrate. Di Socrate in verità non c’è stato tramandato alcuno scritto perché ancora la ricer- ca e l’insegnamento filosofico erano nella fase della tradi- zione orale e in particolare Socrate seguiva (aveva in- ventato) il metodo della ricer- ca mediante il dialogo e non l’insegnamento dottorale. Sarà Platone, il suo più im- portante discepolo, a traman- dare in una ampia serie di te- sti quanto aveva appresso se- guendo l’insegnamento orale del maestro. Non è certo quanto i racconti di Platone siano la fedele ri- produzione del pensiero di Socrate dal quale il grande allievo si discostò anche signi- ficativamente intraprendo la via della dottrina filosofica scritta e insegnata, con forti accentuazioni di rigore mo- rale sempre più dottorale e sempre meno dialettico. Ari- stotele, allievo di Platone e quindi conoscitore di Socrate solo per relazione, accentue- rà questo percorso soprattut- to trasferendo gli enunciati assoluti della sua ricerca filo- sofica nella disciplina della politica amministrativa. Nel nostro “venire da lonta- no” l’influenza del pensiero di Socrate resta fortemente nel metodo della dialettica, della indagine che oggi traducia- mo (o almeno dovremmo tra- durre) nella “inchiesta” come metodo politico di conoscen- za e analisi della realtà sulla quale e dentro la quale l’etica politica comunista deve ope- rare per essere tale e non im- posizione presuntuosa e astratta. “Di ogni cosa un comunista deve sempre domandarsi il perché; deve riflettere con ponderazione e maturità in- tellettuale, vedere se tutto è conforme alla realtà e fonda- to sulla verità” (Mao) Allora qualcuno potrebbe dire: “Socrate, ma non riu- scirai a vivere stando zitto e tranquillo, una volta allonta- natoti da noi?” Convincere qualcuno di voi su questo è la cosa più difficile di tutte. Perché se vi dico che un si- mile comportamento è di- subbidienza agli dei e perciò è impossibile, voi non mi credete e pensate che faccia finta di niente; e se vi dico ancora che il più gran bene che può capitare a una per- sona è discorrere ogni gior- no della virtù e del resto di cui mi sentite discutere e in- dagare me stesso e gli altri, che una vita senza indagine non è degna di essere vissu- ta, voi mi credete ancor me- no. Ma è così come dico, cit- tadini, per quanto non sia facile convincervene. E inol- tre non sono abituato a pen- sare me stesso come merite- vole di qualcosa di male. Se avessi avuto soldi, avrei pro- posto una pena pecuniaria nella misura delle mie possi- bilità di pagamento, e non ne sarei stato per nulla dan- neggiato. Ma ora non ho sol- di, a meno che non vogliate multarvi di quel poco che potrei pagare. Forse potrei pagarvi una mina d'argento all'incirca: e questa multa propongo come pena. (...) Cittadini ateniesi, riceverete, da parte chi vuole insultare la città, la fama e la colpa di aver ucciso Socrate, uomo sapiente - perché chi vi vuo- le offendere dice che sono sapiente, anche se non lo so- no - per guadagnare non molto tempo davvero: se aveste aspettato un poco, la cosa sarebbe avvenuta da sé. Vedete la mia età, già avanti nella vita, e anzi vici- na alla morte. Questo non lo dico a tutti voi, ma a quelli che hanno votato per la mia condanna a morte. E a loro dico anche questo: voi forse credete, cittadini ateniesi, di avermi colto in difetto di discorsi con cui convincervi, se aves- si ritenuto indispensabile fa- re e dire di tutto pur di sfug- gire alla condanna. Ma non è così. Sono stato colto in difetto, ma non certo di discorsi, bensì di sfrontatezza e spu- doratezza, e di voglia di dir- vi quello che avreste ascolta- to con più piacere: lamenti, pianti e molte altre azioni e parole indegne di me - dico - ma che voi siete abituati a sentire dagli altri. Tuttavia, io non ritenni allora dovero- so comportarmi in modo in- degno di un uomo libero per paura del pericolo, e non mi pento ora di essermi difeso così, ma preferisco di gran lunga morire con questa au- todifesa che vivere in quel modo. (...) Ma è già l'ora di andarsene, io a morire, voi a vivere; chi dei due però vada verso il meglio, è cosa oscura a tutti, meno che agli dei. guirvi nei vostri decreti in- giusti, per timore del carcere o della morte. Tutto questo avvenne quan- do la nostra patria era anco- ra governata democratica- mente. Venne poi l'oligar- chia. E i Trenta, in modo si- mile, mi vollero coinvolgere nella loro politica. Mi si ordi- nò, come quinto funzionario, di arrestare Leonte Salaminio da Salamina al luogo ove era la sede del loro governo, per condannarlo poi a morte. As- sai spesso essi amavano affi- dare questi compiti a molti cittadini, cercando di com- prometterne quanti più po- tevano. E in quell'occasione, non a parole ma coi fatti, mi- si in luce che della morte (e l'espressione potrà sembrare un po' brusca), non m'impor- ta un bel niente; invece, in modo assoluto, il non com- metter nulla che possa dirsi empio o ingiusto, questo è stato il pensiero. Quel regime insomma non mi poteva in- cutere tanto terrore da farmi commettere un delitto. Ep- pur potenza ne avevano i Trenta! Insomma uscimmo fuori dalla loro sede; e i quat- tro miei compagni si recaro- no a Salamina e tradussero in tribunale Leonte. Io me ne andai via, a casa. E forse avrei potuto pagare con la vi- ta questa mia disobbedienza, se quel regime non fosse sta- to abbattuto.E di questi fatti eccovi molti testimoni. E Voi credete che avrei potu- to sopravvivere durante tutti questi anni se mi fossi dedi- cato alla politica? Se la mia azione si fosse rivolta alla di- fesa di giustizia, com'è dove- re d'una persona onesta? Se a quest'idea le avessi pospo- sto ogni altro interesse e ogni altro pensiero? Certamente no, in nessun modo, né io, né altro alcuno. E tutta la mia vita di cittadino dimostra che mi sono unifor- mato a questi principi ogni volta che dovevo agire. Socrate (469-399 a.c.) Una vita senza indagine non è degna di essere vissuta Il rispetto delle leggi giuste anche al costo della vita Contrapporre alla politica che corrompe la fedeltà ai principi di giustizia Il filosofo “amico dell’uomo” Il saggio che “sapeva di non sapere”

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Mensile d'informazione politica e cultura dell'Associazione comunista "Luciana Fittaioli", via del Grano 11-13 Foligno (PG) Italia

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Page 1: Inserto "Veniamo da lontano" - Luglio 2010

I

supplemento al numero 7 - Anno II - luglio 2010 di Piazza del Grano - www.piazzadelgrano.org

Io, cittadini ateniesi, non hovoluto mai esercitare unpubblico ufficio nello stato.La sola mia partecipazione èstata al Consiglio dei Cinque-cento. Anzi la mia gente An-tiochis si trovò ad avere lapritania quel giorno in cuivoi decretaste di metter sot-to processo tutti in massa idieci generali, perché nonavevano raccolto le salmedella battaglia navale. E que-sto decreto era ingiusto. E inun tempo successivo ne ave-ste chiara la consapevolezza.In quell'occasione fui l'unicotra i pritani che si oppose;l'unico che non volle far nul-la di contrario alla legge. In-somma, ho dato voto contra-rio. I capi partito erano giàpronti con una denuncia pertrarmi in arresto; e voi li inci-tavate con grida e con ap-plausi. Ma io credetti di do-ver restar fedele alla legge ealla giustizia e di dover af-frontare fino in fondo ognipericolo, piuttosto che se-

Veniamo da LontanoIl comunismo non nasce con ilmanifesto di Marx, che costitui-sce la sua elaborazione scienti-fica contestualizzata alla at-tuale fase storica dell’econo-mia capitalista.Il comunismo, come pulsioneverso una società di benesseree di pace nel rispetto della di-gnità della persona umana,nasce con la comparsa dell’“uomo politico”, dell’uomo chefonda e si riunisce nelle comu-nità stabili e organizzate deno-minate “polis” (le città).In quello stesso momento, con ilpassaggio dal branco alla co-munità, ha inizio la ricerca del-le regole della (o per la) vita so-ciale. Ma ha anche inizio il con-flitto tra le leggi ancestrali dellanatura fondate sul predominiodel più forte e sulla prosecuzio-ne della specie (vedi la fonda-zione di Roma nata da un fra-tricidio, Romolo che uccide Re-mo, e da uno stupro etnico, ilRatto delle Sabine) e le leggi ra-zionali dell’uomo sociale.

In quel conflitto nasce il comu-nismo inteso come scienza perla ricerca di una disciplina eticaper una società giusta di uomi-ni liberi ed eguali.Vogliamo andare lontano, maper fare ciò dobbiamo saperechi siamo e perciò dobbiamo in-dagare sul nostro passato perconoscere e capire, appunto, dadove veniamo.La Grecia classica, nel suo pe-riodo di massimo splendore trail quinto e quarto secolo avantiCristo, costituisce una delle di-verse e tante matrici dell’odier-na ideologia comunista. Abbia-mo quindi pensato di dedicarequesto inserto a quel luminosoperiodo della storia dell’umani-tà pubblicando alcuni braniscelti nella enorme produzionepolitica, scientifica e letterariadi quel periodo.L’impostazione dell’inserto, le ti-tolazioni e le introduzioni criti-che e informative ai singoli bra-ni fanno interamente capo allaresponsabilità dell’editore.

Per la realizzazione di questoinserto è stata tuttavia fonda-mentale (risolutiva per la deci-sione di pubblicarlo) la collabo-razione del prof. Attilio Turrio-ni che ha, con grande cortesia edisponibilità, offerto la sua pro-fessionalità per la ricerca e laselezione dei brani più coerentie pertinenti al tema dell’eticanella politica al quale si è intesodedicare l’inserto (fa eccezioneil brano di Epicuro sulla felicitàinserito dall’editore).Nel ringraziare il prof. Turrioni,augurandoci che vorrà conti-nuare a collaborare con questoperiodico apportando un con-tributo sicuramente importan-te e di qualità, corre l’obbligo diprecisare che taluni passaggidei singoli testi sono stati par-zialmente “manipolati” dal-l’editore per renderne più “at-tuale” la lettura (“popolarizza-ti” direbbe Togliatti), sicchél’eventuale allontanamentodalla fedeltà all’originario testogreco va riferita all’editore.

SOCRATE – Io ti domando: sehai conosciuto la cosa giustada fare, la faresti o eviterestidi farla?CRITONE – La devo fare.SOCRATE - Ciò ammesso, staattento. Noi fuggiamo via diqui; noi non cerchiamo dipersuadere la nostra patria;ebbene, facciamo noi male aqualcuno? E precisamente,male a chi per minima ragio-ne si dovrebbe? o no? E re-stiamo noi fedeli al concettodi giustizia prima posto o no?CRITONE - Non avrei modo dirispondere alla tua domanda,Socrate. Non capisco, vedi.SOCRATE - Osserva allora: tidico una cosa. Facciamoun'ipotesi. Noi siamo sulpunto di scappar via da que-sto luogo (puoi anche chia-marla con quel nome che me-glio ti piace, questa nostraoperazione); le Leggi intantoe la Patria nostra vengono

qui; si fermano a noi d'accan-to; ci rivolgono una doman-da: «Dimmi un po', Socrate,cosa vorresti fare secondo te?Facendo così, tu soltantopensi a questo: tu tenti di-struggere noi, le Leggi, e laPatria tua tutta quanta, perquello che sta in te. Ma sentiun po'. Pare a te possibile cheancor si mantenga nel suo vi-gore e che non sia interamen-te distrutta quella città in cuile sentenze pronunciate nonhanno alcuna forza? Ove pri-vati cittadini ne vanificanol’efficacia, non solo, ma di-struggono interamente quel-la sentenza?». Che diremo,Critone, di fronte a questi ar-gomenti e ad altri del genere?Quante ragioni si potrebberodire, soprattutto da qualcheoratore, a difesa di questaLegge da noi distrutta; questaLegge che impone l'esecuzio-ne di sentenze pronunciate.

O diremo forse a quelle argo-mentazioni: “Eh sì, ma era laPatria che faceva a noi ingiu-stizia; è lei che non ha pro-nunciato secondo giustizia lanostra sentenza”; diremo noiquesta o qualche altra cosa?CRITONE – Per Giove, questodirei, Socrate.SOCRATE - Supponi ora chele Leggi dicessero a noi: “So-crate, erano questi i patti sta-biliti fra noi e te? O non forse che ti saresti sot-toposto alle sentenze even-tualmente sancite dalla città,tua patria?”.Supponi sempre che noi al-lora facessimo atto di mera-viglia per queste parole; intal caso le Leggi continue-rebbero a dire: “Socrate, nonti meravigliare troppo perquanto ti stiamo dicendo,bensì dacci una risposta. Ètua abitudine far uso d'unmetodo di domande e di ri-sposte. Suvvia, dunque: qua-le rimprovero tu puoi rivol-gere a noi e alla città, tua pa-tria, in seguito al quale tutenti di sottrarti?

David Jacques-Louis "La morte di Socrate" 1787

Della filosofia di Socrate èstato detto che se si costruisseuna torre con tanti mattoniquanti sono stati i grandi filo-sofi della storia e via via se netogliessero alcuni, anche deipiù importanti, la torre vacil-lerebbe, ma resterebbe in pie-di. Se invece si togliesse So-crate la torre crollerebbe al-l’istante perché tutta la filoso-fia nasce e poggia su quelladi Socrate.Di Socrate in verità non c’èstato tramandato alcunoscritto perché ancora la ricer-ca e l’insegnamento filosoficoerano nella fase della tradi-zione orale e in particolareSocrate seguiva (aveva in-ventato) il metodo della ricer-ca mediante il dialogo e nonl’insegnamento dottorale.

Sarà Platone, il suo più im-portante discepolo, a traman-dare in una ampia serie di te-sti quanto aveva appresso se-guendo l’insegnamento oraledel maestro.Non è certo quanto i raccontidi Platone siano la fedele ri-produzione del pensiero diSocrate dal quale il grandeallievo si discostò anche signi-ficativamente intraprendo lavia della dottrina filosoficascritta e insegnata, con fortiaccentuazioni di rigore mo-rale sempre più dottorale esempre meno dialettico. Ari-stotele, allievo di Platone equindi conoscitore di Socratesolo per relazione, accentue-rà questo percorso soprattut-to trasferendo gli enunciatiassoluti della sua ricerca filo-

sofica nella disciplina dellapolitica amministrativa.Nel nostro “venire da lonta-no” l’influenza del pensiero diSocrate resta fortemente nelmetodo della dialettica, dellaindagine che oggi traducia-mo (o almeno dovremmo tra-durre) nella “inchiesta” comemetodo politico di conoscen-za e analisi della realtà sullaquale e dentro la quale l’eticapolitica comunista deve ope-rare per essere tale e non im-posizione presuntuosa eastratta.“Di ogni cosa un comunistadeve sempre domandarsi ilperché; deve riflettere conponderazione e maturità in-tellettuale, vedere se tutto èconforme alla realtà e fonda-to sulla verità” (Mao)

Allora qualcuno potrebbedire: “Socrate, ma non riu-scirai a vivere stando zitto etranquillo, una volta allonta-natoti da noi?” Convincerequalcuno di voi su questo èla cosa più difficile di tutte.Perché se vi dico che un si-mile comportamento è di-subbidienza agli dei e perciòè impossibile, voi non micredete e pensate che facciafinta di niente; e se vi dicoancora che il più gran beneche può capitare a una per-sona è discorrere ogni gior-no della virtù e del resto dicui mi sentite discutere e in-dagare me stesso e gli altri,che una vita senza indaginenon è degna di essere vissu-ta, voi mi credete ancor me-no. Ma è così come dico, cit-tadini, per quanto non siafacile convincervene. E inol-tre non sono abituato a pen-sare me stesso come merite-vole di qualcosa di male. Seavessi avuto soldi, avrei pro-posto una pena pecuniaria

nella misura delle mie possi-bilità di pagamento, e nonne sarei stato per nulla dan-neggiato. Ma ora non ho sol-di, a meno che non vogliatemultarvi di quel poco chepotrei pagare. Forse potreipagarvi una mina d'argentoall'incirca: e questa multapropongo come pena. (...)Cittadini ateniesi, riceverete,da parte chi vuole insultarela città, la fama e la colpa diaver ucciso Socrate, uomosapiente - perché chi vi vuo-le offendere dice che sonosapiente, anche se non lo so-no - per guadagnare nonmolto tempo davvero: seaveste aspettato un poco, lacosa sarebbe avvenuta dasé. Vedete la mia età, giàavanti nella vita, e anzi vici-na alla morte. Questo non lo dico a tuttivoi, ma a quelli che hannovotato per la mia condannaa morte. E a loro dico anchequesto: voi forse credete,cittadini ateniesi, di avermi

colto in difetto di discorsicon cui convincervi, se aves-si ritenuto indispensabile fa-re e dire di tutto pur di sfug-gire alla condanna. Ma non ècosì. Sono stato colto in difetto,ma non certo di discorsi,bensì di sfrontatezza e spu-doratezza, e di voglia di dir-vi quello che avreste ascolta-to con più piacere: lamenti,pianti e molte altre azioni eparole indegne di me - dico -ma che voi siete abituati asentire dagli altri. Tuttavia,io non ritenni allora dovero-so comportarmi in modo in-degno di un uomo libero perpaura del pericolo, e non mipento ora di essermi difesocosì, ma preferisco di granlunga morire con questa au-todifesa che vivere in quelmodo. (...)Ma è già l'ora di andarsene,io a morire, voi a vivere; chidei due però vada verso ilmeglio, è cosa oscura a tutti,meno che agli dei.

guirvi nei vostri decreti in-giusti, per timore del carcereo della morte.Tutto questo avvenne quan-do la nostra patria era anco-ra governata democratica-mente. Venne poi l'oligar-chia. E i Trenta, in modo si-mile, mi vollero coinvolgerenella loro politica. Mi si ordi-nò, come quinto funzionario,di arrestare Leonte Salaminioda Salamina al luogo ove erala sede del loro governo, percondannarlo poi a morte. As-sai spesso essi amavano affi-dare questi compiti a molticittadini, cercando di com-prometterne quanti più po-tevano. E in quell'occasione,non a parole ma coi fatti, mi-si in luce che della morte (el'espressione potrà sembrareun po' brusca), non m'impor-ta un bel niente; invece, inmodo assoluto, il non com-metter nulla che possa dirsiempio o ingiusto, questo èstato il pensiero. Quel regimeinsomma non mi poteva in-

cutere tanto terrore da farmicommettere un delitto. Ep-pur potenza ne avevano iTrenta! Insomma uscimmofuori dalla loro sede; e i quat-tro miei compagni si recaro-no a Salamina e tradusseroin tribunale Leonte. Io me neandai via, a casa. E forseavrei potuto pagare con la vi-ta questa mia disobbedienza,se quel regime non fosse sta-to abbattuto.E di questi fattieccovi molti testimoni.E Voi credete che avrei potu-to sopravvivere durante tuttiquesti anni se mi fossi dedi-cato alla politica? Se la miaazione si fosse rivolta alla di-fesa di giustizia, com'è dove-re d'una persona onesta? Sea quest'idea le avessi pospo-sto ogni altro interesse eogni altro pensiero?Certamente no, in nessunmodo, né io, né altro alcuno.E tutta la mia vita di cittadinodimostra che mi sono unifor-mato a questi principi ognivolta che dovevo agire.

Socrate (469-399 a.c.)

Una vita senza indaginenon è degna di essere vissuta

Il rispetto delle leggi giusteanche al costo della vita

Contrapporre alla politica che corrompela fedeltà ai principi di giustizia

Il filosofo “amico dell’uomo”Il saggio che “sapeva di non sapere”

Page 2: Inserto "Veniamo da lontano" - Luglio 2010

II III

dalla violenza, altre dalla cat-

tiveria; in più costoro non ri-

fiutano affatto le cariche o

non le bramano - tendenza,

l'una e l'altra, dannosa agli

Stati.

Oltre ciò, quelli che hanno in

eccesso i beni, forza, ric-

chezza, amici e altre cose del

genere, non vogliono farsi

governare né lo sanno (e

quest'atteggiamento traggo-

no direttamente da casa, an-

cora fanciulli, perché, data la

loro mollezza, non si abitua-

no a lasciarsi governare nep-

pure a scuola), mentre quelli

che si trovano in estrema pe-

nuria di tutto ciò, sono trop-

po remissivi. Sicché gli uni

non sanno governare, bensì

sottomettersi da servi al go-

verno, gli altri non sanno

sottomettersi a nessun go-

verno ma governare in ma-

niera dispotica.

Si forma quindi uno Stato di

schiavi e di despoti, ma non

di liberi, di gente che invidia e

di gente che disprezza, e tut-

to questo è quanto mai lonta-

no dall'amicizia e dalla comu-

nità statale, perché la comu-

nità è in rapporto con l'amici-

Solone (638-558 a.c.) Euripide(480-406 a.c.)

Isocrate(436-338 a.c.)

Aristotele (384-322 a.c.)

La nascita dell’ordinamento dello StatoLa “buona” legislazione come strumentodi difesa dagli abusi del poteree dalla prepotenza della ricchezza

L’accettazione della realtà così come esistentee non modificabile e la ricerca del “giusto mezzo”.Medietà o mediocrità?

Aristotele è stato sicuramente

il filosofo, ma anche lo scien-

ziato, più “fecondo” della sto-

ria avendo prodotto una va-

stissima messe di trattati so-

stanzialmente su ogni aspetto

della vita umana: emotiva

(Sull’anima; la Poetica), politi-

ca (l’Etica; la Politica) e scien-

tifica (la Fisica; la Logica)(tra

le altre).

L’omnicomprensività della

sua produzione ha fatto sì che

per numerosi secoli, anche

successivamente alla riscoper-

ta della cultura ellenistica an-

data persa nel medioevo cri-

stiano e recuperata grazie al-

la nascita ed espansione della

cultura araba, sostanzialmen-

te tutte le teorie e gli insegna-

menti del maestro greco siano

stati assunti come precetti as-

soluti e verità indiscutibili.

Occorrerà attendere la risco-

perta di molte altre voci diver-

se e critiche dello stesso mon-

do ellenistico, di quello roma-

no e medio orientale, per ridi-

mensionare il ruolo del pen-

siero aristotelico e aprire a

nuove ricerche sia politiche

che scientifiche.

Aristotele è uno dei pensatori

più controversi nella cultura

della politica generalmente, o

genericamente detta “di sini-

stra”, sotto certi aspetti persi-

no più intensi della critica al

pensiero etico-politico del suo

maestro Platone.

Mentre infatti Platone è stato

accusato di avere sopraffatto

la dialettica della ricerca so-

cratica con la imposizione di

principi morali “superiori”

non discutibili e, quindi, di

avere aperto le porte a forme

di governo della società so-

stanzialmente assolutistiche e

dittatoriali, ad Aristotele si

imputa l’opposta dottrina del-

la accettazione della realtà

così come essa appare e si po-

ne, insuscettiva di essere radi-

calmente rivoluzionata e per-

ciò l’imposizione del limite

della ricerca del giusto “mez-

zo”, della medietà, altrimenti

qualificata dai critici come

“mediocrità”.

Storicamente Aristotele fu il

precettore di Alessandro Se-

condo di Macedonia, divenuto

poi Alessandro Magno.

Invero se al grande condot-

tiero greco si può accredita-

re, attraverso la sua infinita

campagna di conquista mili-

tentò tutti, sia i ricchi che si

videro costretti condividere la

gestione dell’amministrazio-

ne con i “meno ricchi”, che

questi ultimi che non trassero

alcun beneficio concreto dal

nuovo ordine statuale. Di

questo malcontento equa-

mente con-diviso Solone

amava vantarsi affermando

che esso era la prova della

sua imparzialità. Fatto sta

che già vivente Solone la neo-

nata democrazia venne so-

praffatta dalla tirannia di Pi-

sistrato e il nome di Solone ha

assunto nel tempo un signifi-

cato ironico riferito a persone

saccenti e presuntuose.

La nostra città mai periràper decreto di Zeus e pervolere dei degli dei immor-tali; tale è infatti la magna-nimità della protettrice Pal-lade Atena e del potentepadre Zeus che tiene al disopra di essa le propriemani; ma con la loro stol-tezza vogliono rovinarequesta grande città i citta-dini stessi, desiderosi dilucro e ingiusto è l'animodei reggitori del popolo, iquali ben presto subirannomolti dolori per la loro

(Parla il cancelliere)“È vietato fare una legge riguardanteun individuo, che non sia la stessaper tutti gli Ateniesi:tranne che nel caso che essa sia statavotata da non meno di seimila cittadiniche l’abbiano approvata con votosegreto”

(Risponde l'oratore). “Non è consentito fare leggi se non sianole stesse per tutti i cittadini!Perché, come ciascuno ha pari dirittinegli altri campi della vita pubblica,così è giusto che ciascuno si trovi in paricondizioni anche nei riguardi delleleggi”

Demostene (384-322 a.c.)

Solone fu uno dei primi gran-

di legislatori greci che con-

cepì un ordinamento dello

Stato che superava i tradizio-

nali principi del predominio

aristocratico aprendo la stra-

da alle prime forme di demo-

crazia partecipata anche dal-

le classi meno abbienti. Abolì

la schiavitù per debiti ma la

sua riforma istituzionale non

fu accompagnata da riforme

economiche che dunque con-

servarono il previgente siste-

ma estremamente squilibrato

tra un ridotto ceto ricchissi-

mo e la massa povera dei

contadini e dei cittadini urba-

nizzati. La sua riforma scon-

grande protervia. Non sanno infatti contene-re l'arroganza, né usarecon ordine nella tranquil-lità del convivere le pre-senti gioie. Diventano ricchi grazie alleloro opere inique. Senza ri-spettare i beni Sacri néquelli pubblici, rubano esottraggono chi di qua chidi là e non osservano le au-guste norme di Dike che si-lenziosa guarda il passatoe il futuro e a suo tempoarriverà a far pagare intera-mente le loro colpe. Questa piaga insanabile giàavanza per tutta la città;rapidamente procede versouna triste schiavitù che ri-desta la rivolta intestina ela guerra sopita che di-struggerà una florida gio-ventù.Rapidamente infatti l'ama-ta città è mandata in rovinadai malvagi, tra le congiurecare agli ingiusti. Questi mali serpeggianofra il popolo; e dei poverimolti se ne vanno in terra

straniera, venduti schiavi,costretti indegnamente incatene. Così il pubblico male entranella casa di ognuno, e nonvalgono a trattenerlo leporte dell'atrio; esso balzaal di sopra dell'alto muro eci scopre dappertutto, an-che se ci rifugiamo nellacamera più riposta. Questo mi dice l'animo dirivelare agli Ateniesi,quanto grandi mali reca al-la città la cattiva legislazio-ne, mentre la buona legi-slazione rende tutto beneordinato e adatto e nellostesso tempo lega le manidegli ingiusti; mitiga leasperità, fa cessare la tra-cotanza, elimina la proter-via, dissecca i fiori nascen-ti della sventura, corregge igiudizi ingiusti, rende mitile azioni superbe, fa cessa-re quelle della discordia, facessare il furore della mo-lesta contesa; e sotto labuona legislazione tutto èfra gli uomini convenientee saggio.

Euripide è uno dei grandi autori

di teatro dell’antica Grecia. La no-

vità assoluta del suo teatro è rap-

presentata dal realismo con il

quale tratteggia le dinamiche psi-

cologiche dei suoi personaggi. L'e-

roe descritto nelle sue tragedie è

sovente una persona problemati-

ca e insicura, non priva di conflitti

interiori, le cui motivazioni incon-

sce vengono portate alla luce ed

analizzate. Proprio lo sgretola-

mento del tradizionale modello

eroico porta alla ribalta del teatro

euripideo le figure femminili.

Euripide espresse le contraddizio-

ni di una società che stava cam-

biando: nelle sue tragedie spesso

le motivazioni personali entrano

in profondo contrasto con le esi-

genze del potere, e con i vecchi

valori fondanti della polis.

Il teatro di Euripide va considera-

to come un vero e proprio labora-

torio politico attento ai mutamen-

ti della storia.

Teseo - Con un errore hai co-

minciato il tuo dire, o straniero,

cercando qui un re: perché non

è governata questa città da un

uomo solo, ma è libera. Regna il

popolo, perché tutti si succedo-

no nelle cariche ogni anno, e ai

ricchi non è data maggior po-

tenza, e il povero invece a ugua-

li diritti.

Araldo - Un punto, come ai da-

di, mi hai dato di vantaggio:

perché la città dalla quale io

vengo è governata da un solo

uomo, non dalla moltitudine; e

non v'è chi, esaltandola con

chiacchiere, la volga di qua e di

là per proprio utile : questi ora

è gradito e procura gran gioia,

più tardi danno, e con nuove

calunnie dissimulando i prece-

denti misfatti si sottrae alla giu-

stizia. Del resto, il popolo, che

non sa nemmeno ragionar ret-

tamente, come potrebbe gover-

nare bene una città?

È il tempo infatti, e non la fret-

ta, che insegna questa scienza.

Un povero contadino, anche se

non fosse ignorante, a causa

del suo lavoro non potrebbe

dedicarsi agli affari pubblici.

Calamità davvero è per i miglio-

ri quando un miserabile sale in

onore, dominando con la paro-

la il popolo, egli che prima era

nulla.

Teseo - Scaltro è l'araldo, e a

sproposito parla. Ma poiché ti

sei impegnato in questa conte-

sa, ascolta: sei tu infatti che hai

proposto la disputa.

Nulla v'è per una città più nemi-

co che un tiranno, quando non

vi sono anzitutto leggi generali

e un uomo solo ha il potere, fa-

cendo la legge egli stesso a se

stesso; e non v'è affatto ugua-

glianza. Quando invece ci sono

tare, l’effetto della contami-

nazione delle più diverse cul-

ture del mondo medio orien-

tale, sino forse al più lontano

oriente indiano, è indubbio

che le armate di Alessandro

non esportarono in quei va-

stissimi territori nuovi inse-

gnamenti culturali o di go-

verno della società, limitan-

dosi Alessandro, e poi i suoi

eredi che si divisero l’intero

medio oriente (Antioco, Se-

leuco e Tolomeo), a sostituire

se stessi ai precedenti gover-

nanti perpetuandone usi, co-

stumi e cultura economica,

sociale e anche religiosa.

Anche da questa analisi della

vicenda militare e politica del

suo maggiore allievo appare

una lettura sostanzialmente

“conservativa” e “conservatri-

ce” del pensiero aristotelico

(in “altri tempi”, non eccessi-

vamente remoti ma indubbia-

mente superati, si diceva che

Aristotele era, in fondo, un

“democristiano” ante litte-

ram).

Ma qual è la costituzione mi-

gliore e quale il miglior gene-

re di vita per la maggior parte

degli stati e per la maggior

parte degli uomini, volendo

giudicare non in rapporto a

una virtù superiore a quella

delle persone comuni né a

un'educazione che esige di-

sposizioni naturali e risorse

eccezionali e neppure in rap-

porto alla costituzione ideale,

bensì a una forma di vita che

può essere partecipata da

moltissimi e a una costituzio-

ne che la maggior parte degli

Stati può avere?

In realtà le costituzioni che

chiamano aristocrazie, di cui

abbiamo parlato adesso, talu-

ne cadono al di fuori delle

possibilità della maggior par-

te degli Stati, talune s'acco-

stano a quella forma chiama-

ta “politia” (sicché si deve

parlare di entrambe come se

fossero una sola).

Il giudizio intorno a tutti que-

sti problemi va ripetuto dagli

stessi princìpi fondamentali.

Infatti se nell'Etica si è stabi-

lito a ragione che la vita feli-

ce è quella vissuta senza im-

pedimento in accordo con la

virtù, e che la virtù è me-

dietà, è necessario che la vita

media sia la migliore, di

quella medietà che ciascuno

può ottenere.

Questi stessi criteri servono

necessariamente per giudica-

re la bontà o la malvagità di

uno Stato e di una costituzio-

ne, perché la costituzione è

una forma di vita dello Stato.

In tutti gli Stati esistono tre

classi di cittadini, i molto ric-

chi, i molto poveri, e, in terzo

luogo, quanti stanno in mez-

zo a questi.

Ora, siccome si è d'accordo

che la misura e la medietà è

l'ottimo, è evidente che an-

che dei beni il possesso mo-

derato è il migliore di tutti,

perché rende facilissimo

l'obbedire alla ragione, men-

tre chi è eccessivamente bel-

lo o forte o nobile o ricco, o,

al contrario, chi è eccessiva-

mente misero o debole o

troppo ignobile, è difficile

che dia retta alla ragione.

In realtà gli uni diventano

piuttosto violenti e grandi

criminali, gli altri invece catti-

vi e piccoli criminali - e delle

offese alcune sono prodotte

zia, mentre coi nemici non

vogliono avere in comune

nemmeno la strada.

Lo Stato vuole essere costitui-

to, per quanto è possibile, di

elementi uguali e simili, il che

succede soprattutto con le

persone del ceto medio.

Di conseguenza ha necessa-

riamente l'ordinamento mi-

gliore lo Stato che risulti di

quegli elementi dei quali di-

ciamo che è formata per na-

tura la compagine dello Stato.

E sono questi cittadini che

nello Stato hanno l'esistenza

garantita più di tutti: infatti

essi non bramano le altrui co-

se, come i poveri, né gli altri

le loro, come fanno appunto i

poveri dei beni dei ricchi, e

quindi per non essere essi

stessi presi di mira e per non

prendere di mira gli altri, vi-

vono al di fuori di ogni peri-

colo. (...)

Ci sono, in ogni costituzione,

tre parti in rapporto alle quali

il bravo legislatore deve vede-

re quel che è a ciascuna di

giovamento: quando queste

sono bene ordinate, di conse-

guenza anche la costituzione

è bene ordinata e dalla loro

differenza dipende la diffe-

renza delle costituzioni stes-

se, l'una dall'altra.

Di queste tre parti una è

quella che delibera sugli af-

fari comuni, la seconda con-

cerne le magistrature (e cioè

quali devono essere e in qua-

li campi sovrane e in che mo-

do si deve procedere alla lo-

ro elezione), la terza è quella

giudiziaria. La parte delibe-

rante è sovrana riguardo alla

pace e alla guerra, all'allean-

za e alla denuncia di trattati,

riguardo alle leggi, riguardo

alle sentenze di morte, d'esi-

lio, di confisca, riguardo al-

l'elezione dei magistrati e al

loro rendiconto.

È necessario rimettere tutte

queste decisioni o a tutti i

cittadini o tutte ad alcuni di

essi (per esempio a una sola

magistratura o a più magi-

strature o alcune a questa

magistratura, altre ad altra)

ovvero talune a tutti, talune

ad alcuni. (...)

Orbene, bisogna esaminare

quanti sono questi elementi

indispensabili per uno Stato:

tra questi ci dovranno essere

necessariamente quelle che

noi diciamo parti dello Stato.

Bisogna quindi stabilire il nu-

mero delle esigenze a cui lo

Stato deve provvedere.

Innanzi tutto devono esserci

i mezzi di nutrimento, poi le

arti meccaniche (giacché la vi-

ta ha bisogno di molti stru-

menti) in terzo luogo le armi

(i membri della comunità civi-

le devono di necessità posse-

dere essi stessi armi a soste-

gno dell'autorità contro

quanti rifiutano l'obbedienza

e contro quelli che dall'ester-

no tentano di fare soprusi),

inoltre una certa disponibilità

di ricchezze, onde possano

fronteggiare i bisogni interni

e le esigenze della guerra,

quinto, ma insieme primo per

importanza, la cura della di-

vinità che chiamano culto, se-

sto in ordine di successione,

ma di tutti il più necessario,

la possibilità di decidere que-

stioni di interesse e cause tra

cittadini.

Sono queste le esigenze ri-

chieste da ogni Stato, per così

dire (perché lo Stato non è

una massa qualsiasi di perso-

ne, ma autosufficiente alla vi-

ta, come diciamo noi, e se

uno di questi elementi viene

a mancare è impossibile che

codesta associazione sia del

tutto autosufficiente).

È necessario dunque che lo

Stato sia organizzato in base

a queste attività; deve esserci,

cioè, un certo numero di con-

tadini che provvedano al nu-

trimento, poi gli artigiani, poi

la classe militare, poi i bene-

stanti, i sacerdoti e infine i

giudici delle cause indispen-

sabili e delle questioni di in-

teresse. (...)

È necessario, dunque, da

quanto s'è detto, che alcuni

beni ci siano, che altri li pro-

curi il legislatore.

Noi quindi ci auguriamo e

facciamo voti che la compagi-

ne dello Stato abbia quei beni

di cui signora è la fortuna

(che ne sia signora lo ricono-

sciamo), ma quanto all'essere

virtuoso uno Stato non è ope-

ra della fortuna, bensì di

scienza e di scelta deliberata.

Ora uno Stato è virtuoso in

quanto sono virtuosi i cittadi-

ni che partecipano della co-

stituzione, e i nostri cittadini

partecipano tutti della costi-

tuzione.

leggi scritte, il povero e il ricco

hanno uguali diritti, è possibile

ai più deboli replicare al poten-

te, quando questi li insulta, e il

piccolo, se ha ragione, può vin-

cere il grande.

Questa è la libertà: “Chi vuole

alla città dare un con¬siglio uti-

le, e renderlo pubblico?”.

Ed ecco che chi lo desidera si

segnala, e chi non vuole tace.

Quale maggiore uguaglianza

può esservi in uno Stato dove il

popolo è sovrano della terra, si

rallegra di cittadini giovani e

pronti? Un re invece ha ciò in

odio, e i migliori, ch'egli ritiene

che abbiano intelligenza, li uc-

cide, perché teme per il suo po-

tere assoluto.

Come dunque può divenire for-

te uno Stato, quando qualcuno,

come le spighe di un campo a

primavera, strappa la baldanza

e tronca il fiore della gioventù?

A che giova procacciare ric-

chezza e beni ai figli, se si fatica

per arricchire il tiranno o alle-

vare bene nelle case caste fan-

ciulle, piacevole diletto al tiran-

no quando egli voglia, e causa

di lacrime?

Ammiratore di Socrate, ma

molto più vicino alle teorie an-

tidemocratiche di Platone

fondò una sua autonoma

scuola filosofica in Atene.

Fu promotore di un progetto

panellenico che avrebbe du-

vuto unire tutte le polis greche

sotto la guida di Atene ed

esportare la cultura greca nel

resto del mondo con politiche

anche coloniali.

La ragione per cui ciò piace-

va alla maggioranza e le ca-

riche pubbliche non erano

oggetto di lotta era che que-

gli uomini erano educati a

lavorare e a risparmiare, a

non trascurare i propri beni

per insidiare invece quelli

altrui, a non provvedere ai

propri interessi privati ser-

vendosi dei beni dello Stato,

bensì, se mai se ne presenta-

va la necessità, a contribuire

alle spese pubbliche con ciò

che era di proprietà di cia-

scuno, e a non conoscere

con maggiore esattezza i

proventi delle loro pubbli-

che funzioni che quelli dei

loro beni privati.

Si tenevano così lontani dalla

vita pubblica, che era più dif-

ficile in quei tempi trovare

chi volesse ricoprire magi-

strature di quanto ora lo sia

trovare chi non vi aspiri; essi

ritenevano infatti che l'am-

ministrazione della cosa

pubblica fosse, non un'atti-

vità redditizia, ma un onere,

né fin dal primo giorno cor-

revano a vedere se i magi-

strati precedenti avevano la-

sciato qualcosa da prendere,

bensì piuttosto se avevano

trascurato qualche affare da

dover condurre a termine

con urgenza.

Per dirla in breve, quegli uo-

mini avevano deciso che bi-

sognava che il popolo, a gui-

sa di re, nominasse i magi-

strati, punisse i colpevoli e

giudicasse delle contese, e

che coloro che potevano non

lavorare e che possedevano

sufficienti mezzi di sussi-

stenza si prendessero cura

della cosa pubblica come

servitori; e che, se erano stati

giusti, ricevessero un elogio

e di questo onore si accon-

tentassero, e che se invece

avessero amministrato male

non ottenessero alcuna in-

dulgenza ma incorressero

nelle più gravi sanzioni.

Chi potrebbe insomma tro-

vare una democrazia più sal-

da e più giusta di questa, che

da un lato preponeva agli af-

fari pubblici i più capaci, e

dall'altro rendeva signore di

essi il popolo?

Page 3: Inserto "Veniamo da lontano" - Luglio 2010

II III

dalla violenza, altre dalla cat-

tiveria; in più costoro non ri-

fiutano affatto le cariche o

non le bramano - tendenza,

l'una e l'altra, dannosa agli

Stati.

Oltre ciò, quelli che hanno in

eccesso i beni, forza, ric-

chezza, amici e altre cose del

genere, non vogliono farsi

governare né lo sanno (e

quest'atteggiamento traggo-

no direttamente da casa, an-

cora fanciulli, perché, data la

loro mollezza, non si abitua-

no a lasciarsi governare nep-

pure a scuola), mentre quelli

che si trovano in estrema pe-

nuria di tutto ciò, sono trop-

po remissivi. Sicché gli uni

non sanno governare, bensì

sottomettersi da servi al go-

verno, gli altri non sanno

sottomettersi a nessun go-

verno ma governare in ma-

niera dispotica.

Si forma quindi uno Stato di

schiavi e di despoti, ma non

di liberi, di gente che invidia e

di gente che disprezza, e tut-

to questo è quanto mai lonta-

no dall'amicizia e dalla comu-

nità statale, perché la comu-

nità è in rapporto con l'amici-

Solone (638-558 a.c.) Euripide(480-406 a.c.)

Isocrate(436-338 a.c.)

Aristotele (384-322 a.c.)

La nascita dell’ordinamento dello StatoLa “buona” legislazione come strumentodi difesa dagli abusi del poteree dalla prepotenza della ricchezza

L’accettazione della realtà così come esistentee non modificabile e la ricerca del “giusto mezzo”.Medietà o mediocrità?

Aristotele è stato sicuramente

il filosofo, ma anche lo scien-

ziato, più “fecondo” della sto-

ria avendo prodotto una va-

stissima messe di trattati so-

stanzialmente su ogni aspetto

della vita umana: emotiva

(Sull’anima; la Poetica), politi-

ca (l’Etica; la Politica) e scien-

tifica (la Fisica; la Logica)(tra

le altre).

L’omnicomprensività della

sua produzione ha fatto sì che

per numerosi secoli, anche

successivamente alla riscoper-

ta della cultura ellenistica an-

data persa nel medioevo cri-

stiano e recuperata grazie al-

la nascita ed espansione della

cultura araba, sostanzialmen-

te tutte le teorie e gli insegna-

menti del maestro greco siano

stati assunti come precetti as-

soluti e verità indiscutibili.

Occorrerà attendere la risco-

perta di molte altre voci diver-

se e critiche dello stesso mon-

do ellenistico, di quello roma-

no e medio orientale, per ridi-

mensionare il ruolo del pen-

siero aristotelico e aprire a

nuove ricerche sia politiche

che scientifiche.

Aristotele è uno dei pensatori

più controversi nella cultura

della politica generalmente, o

genericamente detta “di sini-

stra”, sotto certi aspetti persi-

no più intensi della critica al

pensiero etico-politico del suo

maestro Platone.

Mentre infatti Platone è stato

accusato di avere sopraffatto

la dialettica della ricerca so-

cratica con la imposizione di

principi morali “superiori”

non discutibili e, quindi, di

avere aperto le porte a forme

di governo della società so-

stanzialmente assolutistiche e

dittatoriali, ad Aristotele si

imputa l’opposta dottrina del-

la accettazione della realtà

così come essa appare e si po-

ne, insuscettiva di essere radi-

calmente rivoluzionata e per-

ciò l’imposizione del limite

della ricerca del giusto “mez-

zo”, della medietà, altrimenti

qualificata dai critici come

“mediocrità”.

Storicamente Aristotele fu il

precettore di Alessandro Se-

condo di Macedonia, divenuto

poi Alessandro Magno.

Invero se al grande condot-

tiero greco si può accredita-

re, attraverso la sua infinita

campagna di conquista mili-

tentò tutti, sia i ricchi che si

videro costretti condividere la

gestione dell’amministrazio-

ne con i “meno ricchi”, che

questi ultimi che non trassero

alcun beneficio concreto dal

nuovo ordine statuale. Di

questo malcontento equa-

mente con-diviso Solone

amava vantarsi affermando

che esso era la prova della

sua imparzialità. Fatto sta

che già vivente Solone la neo-

nata democrazia venne so-

praffatta dalla tirannia di Pi-

sistrato e il nome di Solone ha

assunto nel tempo un signifi-

cato ironico riferito a persone

saccenti e presuntuose.

La nostra città mai periràper decreto di Zeus e pervolere dei degli dei immor-tali; tale è infatti la magna-nimità della protettrice Pal-lade Atena e del potentepadre Zeus che tiene al disopra di essa le propriemani; ma con la loro stol-tezza vogliono rovinarequesta grande città i citta-dini stessi, desiderosi dilucro e ingiusto è l'animodei reggitori del popolo, iquali ben presto subirannomolti dolori per la loro

(Parla il cancelliere)“È vietato fare una legge riguardanteun individuo, che non sia la stessaper tutti gli Ateniesi:tranne che nel caso che essa sia statavotata da non meno di seimila cittadiniche l’abbiano approvata con votosegreto”

(Risponde l'oratore). “Non è consentito fare leggi se non sianole stesse per tutti i cittadini!Perché, come ciascuno ha pari dirittinegli altri campi della vita pubblica,così è giusto che ciascuno si trovi in paricondizioni anche nei riguardi delleleggi”

Demostene (384-322 a.c.)

Solone fu uno dei primi gran-

di legislatori greci che con-

cepì un ordinamento dello

Stato che superava i tradizio-

nali principi del predominio

aristocratico aprendo la stra-

da alle prime forme di demo-

crazia partecipata anche dal-

le classi meno abbienti. Abolì

la schiavitù per debiti ma la

sua riforma istituzionale non

fu accompagnata da riforme

economiche che dunque con-

servarono il previgente siste-

ma estremamente squilibrato

tra un ridotto ceto ricchissi-

mo e la massa povera dei

contadini e dei cittadini urba-

nizzati. La sua riforma scon-

grande protervia. Non sanno infatti contene-re l'arroganza, né usarecon ordine nella tranquil-lità del convivere le pre-senti gioie. Diventano ricchi grazie alleloro opere inique. Senza ri-spettare i beni Sacri néquelli pubblici, rubano esottraggono chi di qua chidi là e non osservano le au-guste norme di Dike che si-lenziosa guarda il passatoe il futuro e a suo tempoarriverà a far pagare intera-mente le loro colpe. Questa piaga insanabile giàavanza per tutta la città;rapidamente procede versouna triste schiavitù che ri-desta la rivolta intestina ela guerra sopita che di-struggerà una florida gio-ventù.Rapidamente infatti l'ama-ta città è mandata in rovinadai malvagi, tra le congiurecare agli ingiusti. Questi mali serpeggianofra il popolo; e dei poverimolti se ne vanno in terra

straniera, venduti schiavi,costretti indegnamente incatene. Così il pubblico male entranella casa di ognuno, e nonvalgono a trattenerlo leporte dell'atrio; esso balzaal di sopra dell'alto muro eci scopre dappertutto, an-che se ci rifugiamo nellacamera più riposta. Questo mi dice l'animo dirivelare agli Ateniesi,quanto grandi mali reca al-la città la cattiva legislazio-ne, mentre la buona legi-slazione rende tutto beneordinato e adatto e nellostesso tempo lega le manidegli ingiusti; mitiga leasperità, fa cessare la tra-cotanza, elimina la proter-via, dissecca i fiori nascen-ti della sventura, corregge igiudizi ingiusti, rende mitile azioni superbe, fa cessa-re quelle della discordia, facessare il furore della mo-lesta contesa; e sotto labuona legislazione tutto èfra gli uomini convenientee saggio.

Euripide è uno dei grandi autori

di teatro dell’antica Grecia. La no-

vità assoluta del suo teatro è rap-

presentata dal realismo con il

quale tratteggia le dinamiche psi-

cologiche dei suoi personaggi. L'e-

roe descritto nelle sue tragedie è

sovente una persona problemati-

ca e insicura, non priva di conflitti

interiori, le cui motivazioni incon-

sce vengono portate alla luce ed

analizzate. Proprio lo sgretola-

mento del tradizionale modello

eroico porta alla ribalta del teatro

euripideo le figure femminili.

Euripide espresse le contraddizio-

ni di una società che stava cam-

biando: nelle sue tragedie spesso

le motivazioni personali entrano

in profondo contrasto con le esi-

genze del potere, e con i vecchi

valori fondanti della polis.

Il teatro di Euripide va considera-

to come un vero e proprio labora-

torio politico attento ai mutamen-

ti della storia.

Teseo - Con un errore hai co-

minciato il tuo dire, o straniero,

cercando qui un re: perché non

è governata questa città da un

uomo solo, ma è libera. Regna il

popolo, perché tutti si succedo-

no nelle cariche ogni anno, e ai

ricchi non è data maggior po-

tenza, e il povero invece a ugua-

li diritti.

Araldo - Un punto, come ai da-

di, mi hai dato di vantaggio:

perché la città dalla quale io

vengo è governata da un solo

uomo, non dalla moltitudine; e

non v'è chi, esaltandola con

chiacchiere, la volga di qua e di

là per proprio utile : questi ora

è gradito e procura gran gioia,

più tardi danno, e con nuove

calunnie dissimulando i prece-

denti misfatti si sottrae alla giu-

stizia. Del resto, il popolo, che

non sa nemmeno ragionar ret-

tamente, come potrebbe gover-

nare bene una città?

È il tempo infatti, e non la fret-

ta, che insegna questa scienza.

Un povero contadino, anche se

non fosse ignorante, a causa

del suo lavoro non potrebbe

dedicarsi agli affari pubblici.

Calamità davvero è per i miglio-

ri quando un miserabile sale in

onore, dominando con la paro-

la il popolo, egli che prima era

nulla.

Teseo - Scaltro è l'araldo, e a

sproposito parla. Ma poiché ti

sei impegnato in questa conte-

sa, ascolta: sei tu infatti che hai

proposto la disputa.

Nulla v'è per una città più nemi-

co che un tiranno, quando non

vi sono anzitutto leggi generali

e un uomo solo ha il potere, fa-

cendo la legge egli stesso a se

stesso; e non v'è affatto ugua-

glianza. Quando invece ci sono

tare, l’effetto della contami-

nazione delle più diverse cul-

ture del mondo medio orien-

tale, sino forse al più lontano

oriente indiano, è indubbio

che le armate di Alessandro

non esportarono in quei va-

stissimi territori nuovi inse-

gnamenti culturali o di go-

verno della società, limitan-

dosi Alessandro, e poi i suoi

eredi che si divisero l’intero

medio oriente (Antioco, Se-

leuco e Tolomeo), a sostituire

se stessi ai precedenti gover-

nanti perpetuandone usi, co-

stumi e cultura economica,

sociale e anche religiosa.

Anche da questa analisi della

vicenda militare e politica del

suo maggiore allievo appare

una lettura sostanzialmente

“conservativa” e “conservatri-

ce” del pensiero aristotelico

(in “altri tempi”, non eccessi-

vamente remoti ma indubbia-

mente superati, si diceva che

Aristotele era, in fondo, un

“democristiano” ante litte-

ram).

Ma qual è la costituzione mi-

gliore e quale il miglior gene-

re di vita per la maggior parte

degli stati e per la maggior

parte degli uomini, volendo

giudicare non in rapporto a

una virtù superiore a quella

delle persone comuni né a

un'educazione che esige di-

sposizioni naturali e risorse

eccezionali e neppure in rap-

porto alla costituzione ideale,

bensì a una forma di vita che

può essere partecipata da

moltissimi e a una costituzio-

ne che la maggior parte degli

Stati può avere?

In realtà le costituzioni che

chiamano aristocrazie, di cui

abbiamo parlato adesso, talu-

ne cadono al di fuori delle

possibilità della maggior par-

te degli Stati, talune s'acco-

stano a quella forma chiama-

ta “politia” (sicché si deve

parlare di entrambe come se

fossero una sola).

Il giudizio intorno a tutti que-

sti problemi va ripetuto dagli

stessi princìpi fondamentali.

Infatti se nell'Etica si è stabi-

lito a ragione che la vita feli-

ce è quella vissuta senza im-

pedimento in accordo con la

virtù, e che la virtù è me-

dietà, è necessario che la vita

media sia la migliore, di

quella medietà che ciascuno

può ottenere.

Questi stessi criteri servono

necessariamente per giudica-

re la bontà o la malvagità di

uno Stato e di una costituzio-

ne, perché la costituzione è

una forma di vita dello Stato.

In tutti gli Stati esistono tre

classi di cittadini, i molto ric-

chi, i molto poveri, e, in terzo

luogo, quanti stanno in mez-

zo a questi.

Ora, siccome si è d'accordo

che la misura e la medietà è

l'ottimo, è evidente che an-

che dei beni il possesso mo-

derato è il migliore di tutti,

perché rende facilissimo

l'obbedire alla ragione, men-

tre chi è eccessivamente bel-

lo o forte o nobile o ricco, o,

al contrario, chi è eccessiva-

mente misero o debole o

troppo ignobile, è difficile

che dia retta alla ragione.

In realtà gli uni diventano

piuttosto violenti e grandi

criminali, gli altri invece catti-

vi e piccoli criminali - e delle

offese alcune sono prodotte

zia, mentre coi nemici non

vogliono avere in comune

nemmeno la strada.

Lo Stato vuole essere costitui-

to, per quanto è possibile, di

elementi uguali e simili, il che

succede soprattutto con le

persone del ceto medio.

Di conseguenza ha necessa-

riamente l'ordinamento mi-

gliore lo Stato che risulti di

quegli elementi dei quali di-

ciamo che è formata per na-

tura la compagine dello Stato.

E sono questi cittadini che

nello Stato hanno l'esistenza

garantita più di tutti: infatti

essi non bramano le altrui co-

se, come i poveri, né gli altri

le loro, come fanno appunto i

poveri dei beni dei ricchi, e

quindi per non essere essi

stessi presi di mira e per non

prendere di mira gli altri, vi-

vono al di fuori di ogni peri-

colo. (...)

Ci sono, in ogni costituzione,

tre parti in rapporto alle quali

il bravo legislatore deve vede-

re quel che è a ciascuna di

giovamento: quando queste

sono bene ordinate, di conse-

guenza anche la costituzione

è bene ordinata e dalla loro

differenza dipende la diffe-

renza delle costituzioni stes-

se, l'una dall'altra.

Di queste tre parti una è

quella che delibera sugli af-

fari comuni, la seconda con-

cerne le magistrature (e cioè

quali devono essere e in qua-

li campi sovrane e in che mo-

do si deve procedere alla lo-

ro elezione), la terza è quella

giudiziaria. La parte delibe-

rante è sovrana riguardo alla

pace e alla guerra, all'allean-

za e alla denuncia di trattati,

riguardo alle leggi, riguardo

alle sentenze di morte, d'esi-

lio, di confisca, riguardo al-

l'elezione dei magistrati e al

loro rendiconto.

È necessario rimettere tutte

queste decisioni o a tutti i

cittadini o tutte ad alcuni di

essi (per esempio a una sola

magistratura o a più magi-

strature o alcune a questa

magistratura, altre ad altra)

ovvero talune a tutti, talune

ad alcuni. (...)

Orbene, bisogna esaminare

quanti sono questi elementi

indispensabili per uno Stato:

tra questi ci dovranno essere

necessariamente quelle che

noi diciamo parti dello Stato.

Bisogna quindi stabilire il nu-

mero delle esigenze a cui lo

Stato deve provvedere.

Innanzi tutto devono esserci

i mezzi di nutrimento, poi le

arti meccaniche (giacché la vi-

ta ha bisogno di molti stru-

menti) in terzo luogo le armi

(i membri della comunità civi-

le devono di necessità posse-

dere essi stessi armi a soste-

gno dell'autorità contro

quanti rifiutano l'obbedienza

e contro quelli che dall'ester-

no tentano di fare soprusi),

inoltre una certa disponibilità

di ricchezze, onde possano

fronteggiare i bisogni interni

e le esigenze della guerra,

quinto, ma insieme primo per

importanza, la cura della di-

vinità che chiamano culto, se-

sto in ordine di successione,

ma di tutti il più necessario,

la possibilità di decidere que-

stioni di interesse e cause tra

cittadini.

Sono queste le esigenze ri-

chieste da ogni Stato, per così

dire (perché lo Stato non è

una massa qualsiasi di perso-

ne, ma autosufficiente alla vi-

ta, come diciamo noi, e se

uno di questi elementi viene

a mancare è impossibile che

codesta associazione sia del

tutto autosufficiente).

È necessario dunque che lo

Stato sia organizzato in base

a queste attività; deve esserci,

cioè, un certo numero di con-

tadini che provvedano al nu-

trimento, poi gli artigiani, poi

la classe militare, poi i bene-

stanti, i sacerdoti e infine i

giudici delle cause indispen-

sabili e delle questioni di in-

teresse. (...)

È necessario, dunque, da

quanto s'è detto, che alcuni

beni ci siano, che altri li pro-

curi il legislatore.

Noi quindi ci auguriamo e

facciamo voti che la compagi-

ne dello Stato abbia quei beni

di cui signora è la fortuna

(che ne sia signora lo ricono-

sciamo), ma quanto all'essere

virtuoso uno Stato non è ope-

ra della fortuna, bensì di

scienza e di scelta deliberata.

Ora uno Stato è virtuoso in

quanto sono virtuosi i cittadi-

ni che partecipano della co-

stituzione, e i nostri cittadini

partecipano tutti della costi-

tuzione.

leggi scritte, il povero e il ricco

hanno uguali diritti, è possibile

ai più deboli replicare al poten-

te, quando questi li insulta, e il

piccolo, se ha ragione, può vin-

cere il grande.

Questa è la libertà: “Chi vuole

alla città dare un con¬siglio uti-

le, e renderlo pubblico?”.

Ed ecco che chi lo desidera si

segnala, e chi non vuole tace.

Quale maggiore uguaglianza

può esservi in uno Stato dove il

popolo è sovrano della terra, si

rallegra di cittadini giovani e

pronti? Un re invece ha ciò in

odio, e i migliori, ch'egli ritiene

che abbiano intelligenza, li uc-

cide, perché teme per il suo po-

tere assoluto.

Come dunque può divenire for-

te uno Stato, quando qualcuno,

come le spighe di un campo a

primavera, strappa la baldanza

e tronca il fiore della gioventù?

A che giova procacciare ric-

chezza e beni ai figli, se si fatica

per arricchire il tiranno o alle-

vare bene nelle case caste fan-

ciulle, piacevole diletto al tiran-

no quando egli voglia, e causa

di lacrime?

Ammiratore di Socrate, ma

molto più vicino alle teorie an-

tidemocratiche di Platone

fondò una sua autonoma

scuola filosofica in Atene.

Fu promotore di un progetto

panellenico che avrebbe du-

vuto unire tutte le polis greche

sotto la guida di Atene ed

esportare la cultura greca nel

resto del mondo con politiche

anche coloniali.

La ragione per cui ciò piace-

va alla maggioranza e le ca-

riche pubbliche non erano

oggetto di lotta era che que-

gli uomini erano educati a

lavorare e a risparmiare, a

non trascurare i propri beni

per insidiare invece quelli

altrui, a non provvedere ai

propri interessi privati ser-

vendosi dei beni dello Stato,

bensì, se mai se ne presenta-

va la necessità, a contribuire

alle spese pubbliche con ciò

che era di proprietà di cia-

scuno, e a non conoscere

con maggiore esattezza i

proventi delle loro pubbli-

che funzioni che quelli dei

loro beni privati.

Si tenevano così lontani dalla

vita pubblica, che era più dif-

ficile in quei tempi trovare

chi volesse ricoprire magi-

strature di quanto ora lo sia

trovare chi non vi aspiri; essi

ritenevano infatti che l'am-

ministrazione della cosa

pubblica fosse, non un'atti-

vità redditizia, ma un onere,

né fin dal primo giorno cor-

revano a vedere se i magi-

strati precedenti avevano la-

sciato qualcosa da prendere,

bensì piuttosto se avevano

trascurato qualche affare da

dover condurre a termine

con urgenza.

Per dirla in breve, quegli uo-

mini avevano deciso che bi-

sognava che il popolo, a gui-

sa di re, nominasse i magi-

strati, punisse i colpevoli e

giudicasse delle contese, e

che coloro che potevano non

lavorare e che possedevano

sufficienti mezzi di sussi-

stenza si prendessero cura

della cosa pubblica come

servitori; e che, se erano stati

giusti, ricevessero un elogio

e di questo onore si accon-

tentassero, e che se invece

avessero amministrato male

non ottenessero alcuna in-

dulgenza ma incorressero

nelle più gravi sanzioni.

Chi potrebbe insomma tro-

vare una democrazia più sal-

da e più giusta di questa, che

da un lato preponeva agli af-

fari pubblici i più capaci, e

dall'altro rendeva signore di

essi il popolo?

Page 4: Inserto "Veniamo da lontano" - Luglio 2010

Non si è mai troppo giovani otroppo vecchi per la conoscen-za della felicità. A qualsiasi etàè bello occuparsi del benesseredell'anima. Chi sostiene chenon è ancora giunto il momen-to di dedicarsi alla conoscenzadi essa, o che ormai è troppotardi, è come se andasse dicen-do che non è ancora il momen-to di essere felice, o che ormaiè passata l'età. Da giovani co-me da vecchi è giusto che noi cidedichiamo a conoscere la feli-cità. Per sentirci sempre giova-ni quando saremo avanti congli anni in virtù del grato ricor-do della felicità avuta in passa-to, e da giovani, irrobustiti inessa, per prepararci a non te-mere l'avvenire. Cerchiamo diconoscere allora le cose chefanno la felicità, perché quan-do essa c'è tutto abbiamo, altri-menti tutto facciamo per aver-la.Pratica e medita le cose che tiho sempre raccomandato: so-no fondamentali per una vitafelice. Prima di tutto consideral'essenza del divino materiaeterna e felice, come rettamen-te suggerisce la nozione di di-vinità che ci è innata. Non attri-buire alla divinità niente chesia diverso dal sempre viventeo contrario a tutto ciò che è fe-

lice, vedi sempre in essa lo sta-to eterno congiunto alla felici-tà. Gli dei esistono, è evidente atutti, ma non sono come credela gente comune, la quale èportata a tradire sempre la no-zione innata che ne ha. Perciònon è irreligioso chi rifiuta lareligione popolare, ma coluiche i giudizi del popolo attri-buisce alla divinità.Tali giudizi, che non ascoltanole nozioni ancestrali, innate,sono opinioni false. A secondadi come si pensa che gli dei sia-no, possono venire da loro lepiù grandi sofferenze come ibeni più splendidi. Ma noi sap-piamo che essi sono perfetta-mente felici, riconoscono i lorosimili, e chi non è tale lo consi-derano estraneo. Poi abituati apensare che la morte non co-stituisce nulla per noi, dal mo-mento che il godere e il soffriresono entrambi nel sentire, e lamorte altro non è che la sua as-senza. L'esatta coscienza che lamorte non significa nulla pernoi rende godibile la mortalitàdella vita, togliendo l'inganne-vole desiderio dell'immortalità.Non esiste nulla di terribile nel-la vita per chi davvero sappiache nulla c'è da temere nel nonvivere più. Perciò è sciocco chisostiene di aver paura della

non li scegliamo tutti. Allostesso modo ogni dolore è ma-le, ma non tutti sono sempreda fuggire.Bisogna giudicare gli uni e glialtri in base alla considerazio-ne degli utili e dei danni. Certevolte sperimentiamo che il be-ne si rivela per noi un male, in-vece il male un bene. Conside-

Noi abbiamo una forma di go-verno che non guarda con invi-dia le costituzioni dei vicini, enon solo non imitiamo altri,ma anzi siamo noi stessi diesempio a qualcuno. Quanto alnome, essa è chiamata demo-crazia, poiché è amministratanon già per il bene di pochepersone, bensí di una cerchiapiú vasta: di fronte alle leggi,però, tutti, nelle private contro-versie, godono di uguale tratta-mento; e secondo la considera-zione di cui uno gode, poichéin qualche campo si distingue,non tanto per il suo partito,quanto per il suo merito, vienepreferito nelle cariche pubbli-che; né, d’altra parte, la pover-tà, se uno è in grado di farequalche cosa di utile alla città,gli è di impedimento perl’oscura sua posizione sociale.Come in piena libertà viviamonella vita pubblica cosí in quelvicendevole sorvegliarsi che siverifica nelle azioni di ognigiorno, noi non ci sentiamourtati se uno si comporta asuo gradimento, né gli inflig-giamo con il nostro corrucciouna molestia che, se non è uncastigo vero e proprio, è pursempre qualche cosa di pocogradito.Noi che serenamente trattiamoi nostri affari privati, quando sitratta degli interessi pubbliciabbiamo un’incredibile pauradi scendere nell’illegalità: sia-mo obbedienti a quanti si suc-cedono al governo, ossequientialle leggi e tra esse in modospeciale a quelle che sono a tu-tela di chi subisce ingiustizia ea quelle che, pur non trovan-dosi scritte in alcuna tavola,

IV

portano per universale con-senso il disonore a chi non lerispetta.Inoltre, a sollievo delle fatiche,abbiamo procurato allo spiri-to nostro moltissimi svaghi,celebrando secondo il patriocostume giochi e feste che sisusseguono per tutto l’anno eabitando case fornite di ogniconforto, il cui godimentoscaccia da noi la tristezza.Affluiscono poinella nostra città,per la sua impor-tanza, beni d’ognispecie da tutta laTerra e cosí capitaa noi di poter go-dere non solo tuttii frutti e prodottidi questo paese,ma anche quellidegli altri, conuguale diletto eabbondanza comese fossero nostri.Anche nei prepara-tivi di guerra ci se-gnaliamo sugli av-versari. La nostracittà, ad esempio, èsempre aperta atutti e non c’è peri-colo che, allontanando i fore-stieri, noi impediamo ad alcu-no di conoscere o di vedere co-se da cui, se non fossero tenutenascoste e un nemico le vedes-se, potrebbe trar vantaggio;perché fidiamo non tanto neipreparativi e negli stratagem-mi, quanto nel nostro innatovalore che si rivela nell’azione.Diverso è pure il sistema dieducazione: mentre gli avver-sari, subito fin da giovani, confaticoso esercizio vengono

educati all’eroismo; noi, invece,pur vivendo con abbandono lavita, con pari forza affrontia-mo pericoli uguali. E la prova èquesta: gli Spartani fanno ir-ruzione nel nostro paese, manon da soli, bensí con tutti glialleati; noi invece, invadendoil territorio dei vicini, il piúdelle volte non facciamo fati-ca a superare in campo apertoe in paese altrui uomini che

difendono i propri focolari.E sí che mai nessuno dei nemi-ci si è trovato di fronte tutta in-tera la nostra potenza, datoche noi rivolgiamo le nostrecure alla flotta di mare, ma an-che, nello stesso tempo, man-diamo milizie cittadine in mol-ti luoghi del continente. Quan-do gli avversari vengono ascontrarsi in qualche luogocon una piccola parte delle no-stre forze, se riescono ad otte-nere un successo parziale si

vantano di averci sbaragliatitutti e se sono battuti, vannodicendo, a loro scusa, di averceduto a tutto intero il nostroesercito. E per vero se noiamiamo affrontare i pericolicon signorile baldanza, piutto-sto che con faticoso esercizio,e con un coraggio che non èfrutto di leggi, ma di un deter-minato modo di vivere, abbia-mo il vantaggio di non sfibrarciprima del tempo per dei ci-menti che hanno a venire e, difronte ad essi, ci dimostriamonon meno audaci di coloro chedi fatiche vivono. Se per questimotivi è degna la nostra città diessere ammirata, lo è ancheper altre ragioni ancora.Noi amiamo il bello, ma conmisura; amiamo la culturadello spirito, ma senza mol-lezza. Usiamo la ricchezza

piú per l’opportunità che of-fre all’azione che per scioccovanto di parola, e non il rico-noscere la povertà è vergo-gnoso tra noi, ma piú vergo-gnoso non adoperarsi perfuggirla.Le medesime persone da noi sicurano nello stesso tempo edei loro interessi privati e dellequestioni pubbliche: gli altripoi che si dedicano ad attivitàparticolari sono perfetti cono-scitori dei problemi politici;

TucidideIl discorso di Pericle agli ateniesi (461 a.c.)

poiché il cittadino che di essiassolutamente non si curi sia-mo i soli a considerarlo nongià uomo pacifico, ma addirit-tura un inutile.Noi stessi o prendiamo deci-sioni o esaminiamo con curagli eventi: convinti che non so-no le discussioni che danneg-giano le azioni, ma il non attin-gere le necessarie cognizioniper mezzo della discussioneprima di venire all’esecuzionedi ciò che si deve fare.Abbiamo infatti anche questanostra dote particolare, di sa-per, cioè, osare quant’altri maie nello stesso tempo fare i do-vuti calcoli su ciò che intendia-mo intraprendere: agli altri, in-vece, l’ignoranza provoca bal-danza, la riflessione apportaesitazione. Ma fortissimi d’ani-mo, a buon diritto, vanno con-siderati coloro che, conoscen-do chiaramente le difficoltàdella situazione e apprezzan-do le delizie della vita, tuttavia,proprio per questo, non si riti-rano di fronte ai pericoli.Anche nelle manifestazioni dinobiltà d’animo noi ci compor-tiamo in modo diverso dallamaggior parte: le amicizie ce leprocuriamo non già ricevendobenefici, ma facendone agli al-tri. È amico piú sicuro colui cheha fatto un favore, in quantovuol mettere in serbo la grati-tudine dovutagli con la bene-volenza dimostrata al benefi-cato. Chi invece tale beneficioricambia è piú tiepido, poichésa bene che ricambierà nonper avere gratitudine, ma peradempiere un dovere. Noi sia-mo i soli che francamente por-tiamo soccorso ad altri nonper calcolo d’utilità, ma per fi-duciosa liberalità.In una parola, io dico che nonsolo la città nostra, nel suocomplesso, è la scuola dell’El-lade, ma mi pare che in parti-colare ciascun Ateniese, cre-sciuto a questa scuola, possarendere la sua persona adattaalle piú svariate attività, con lamaggior destrezza e con deco-ro, a se stesso bastante.

La cosa più importante fraquante siamo venuti dicen-do circa la stabilità delleforme di governo, e chetutti attualmente trascura-no, è l'educazione civile. A nulla servono infatti an-che le leggi più utili e ap-provate da tutti i cittadini,se questi non sono abituatied educati alla costituzio-ne: democraticamente se lalegislazione è democratica,oligarchicamente se oligar-chica. Quando infatti manca didisciplina l'individuo, nemanca anche lo Stato. L'es-sere educato a una costitu-zione non consiste nel fareciò che piace agli oligarchi-ci o ai fautori della demo-crazia, ma ciò che è condi-zione dell'esistenza del-l'oligarchia o della demo-crazia. Oggi invece nelle oligar-chie i figli dei capi vivononel lusso, mentre i figli deipoveri si esercitano e sop-portano le fatiche, di modoche aspirano alle rivoluzio-ni e sono in grado di com-pierle. In quelle democra-zie d'altra parte che appa-iono spingere all'estremo ildemocratismo, avviene ilcontrario di ciò che sareb-be conveniente: causa diciò è l'errata concezionedella libertà.Due infatti sono gli ele-menti che costituiscono lademocrazia, la sovranitàdella maggioranza e la li-bertà; si pensa infatti chela giustizia consista nel-l'uguaglianza e l'uguaglian-za nella sovranità “dellavolontà popolare”.

riamo inoltre una gran cosal'indipendenza dai bisogni nonperché sempre ci si debba ac-contentare del poco, ma pergodere anche di questo pocose ci capita di non avere molto,convinti come siamo che l'ab-bondanza si gode con più dol-cezza se meno da essa dipen-diamo. In fondo ciò che vera-

mente serve non è difficile atrovarsi, l'inutile è difficile. (...) Quando dunque diciamo che ilbene è il piacere, non intendia-mo il semplice piacere dei go-derecci, come credono coloroche ignorano il nostro pensie-ro, o lo avversano, o lo inter-pretano male, ma quanto aiutail corpo a non soffrire e l'animoa essere sereno. (...) Di tutto questo, principio e be-ne supremo è la saggezza, per-ciò questa è anche più apprez-zabile della stessa filosofia, èmadre di tutte le altre virtù. Es-sa ci aiuta a comprendere chenon si dà vita felice senza chesia saggia, bella e giusta, né vitasaggia, bella e giusta priva difelicità, perché le virtù sonoconnaturate alla felicità e daquesta inseparabili. (...) La fortuna per il saggio non èuna divinità come per la massa- la divinità non fa nulla a caso- e neppure qualcosa priva diconsistenza. Non crede che es-sa dia agli uomini alcun bene omale determinante per la vitafelice, ma sa che può offrirel'avvio a grandi beni o mali.Però è meglio essere senza for-tuna ma saggi che fortunati estolti, e nella pratica è preferi-bile che un bel progetto nonvada in porto piuttosto che ab-bia successo un progetto dis-sennato. Medita giorno e nottetutte queste cose e altre conge-neri, con te stesso e con chi ti èsimile, e mai sarai preda del-l'ansia. Vivrai invece come undio fra gli uomini. Non sembrapiù nemmeno mortale l'uomoche vive fra beni immortali.

Epicuro(341-271 a.c.) Lettera sulla felicità

Finché viviamo la morte non esiste ed è inutile preoccuparseneGli dei non portano né beni né mali; il saggio è dio tra i mortali

Il rispetto delle leggi, l’onestà e il disinteresse nello svolgimentodegli incarichi pubblici fanno di Atene la scuola della Grecia

morte, non tanto perché il suoarrivo lo farà soffrire, ma inquanto l'affligge la sua conti-nua attesa. Ciò che una voltapresente non ci turba, stolta-mente atteso ci fa impazzire.La morte, il più atroce dunquedi tutti i mali, non esiste pernoi. Quando noi viviamo lamorte non c'è, quando c'è leinon ci siamo noi. Non è nullané per i vivi né per i morti. Per ivivi non c'è, i morti non sonopiù. Invece la gente ora fugge lamorte come il peggior male,ora la invoca come requie aimali che vive. (...)Per questo noi riteniamo il pia-cere principio e fine della vitafelice, perché lo abbiamo rico-nosciuto bene primo e a noicongenito. Ad esso ci ispiriamoper ogni atto di scelta o di rifiu-to, e scegliamo ogni bene in ba-se al sentimento del piacere edel dolore. E' bene primario enaturale per noi, per questonon scegliamo ogni piacere.Talvolta conviene tralasciarnealcuni da cui può venirci piùmale che bene, e giudicare al-cune sofferenze preferibili aipiaceri stessi se un piacere piùgrande possiamo provare do-po averle sopportate a lungo.Ogni piacere dunque è beneper sua intima natura, ma noi

Botticelli, Nascita di Venere, particolare

AristoteleL’importanza dellaeducazione civica