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OGNI SETTIMANA IL MEGLIO DEI GIORNALI DI TUTTO IL MONDO N. CARTA WEB • TABLET SMARTPHONE Juan Villor o • Yu Hua • Vl adimir Soro kin • Jhumpa Lahiri In nome dei soldi SPAGNA Utopia andalusa SCIENZA La t rappola evolutiva UCRAINA Una tregua fragile Sempre più spesso le multinazionali portano in tribunale gli stati. Vogliono leggi che non ostacolino i loro aff ari o risarcimenti miliardari. E vincono sempre PI, SPED IN AP, DL ART DCB VR ESTERO: DE CHF internazionale.it

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OGNI SETTIMANA IL MEGLIO DEI GIORNALI DI TUTTO IL MONDO • N. •

CARTA • WEB • TABLET • SMARTPHONE

Juan Villoro • Yu Hua • Vladimir Sorokin • Jhumpa Lahiri

In nome dei soldi

SPAGNA

Utopia andalusaSCIENZA

La trappola evolutivaUCRAINA

Una tregua fragile

Sempre più spesso le multinazionali portano in tribunale gli stati. Vogliono leggi che non ostacolino i loro a� ari o risarcimenti miliardari. E vincono sempre

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Internazionale 1048 | 24 aprile 2014 3

Sommario

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io

La settimana

24/30 aprile 2014 • Numero 1048 • Anno 21

Inverosimile

ucrAiNA14 Un accordo

precario The Guardian

AfricA e medio orieNte20 Algeria

Le Quotidien d’Oran

22 Sud Sudan Radio Tamazuj

Americhe24 Brasile

Financial Times

AsiA e pAcifico26 Corea del Sud Hankyoreh

visti dAgli Altri30 I tentacoli

della maia in Europa

The New York Times

spAgNA46 Utopia

andalusa Libération

irAq50 Prigionieri

di Baghdad Financial Times

scieNzA58 La trappola

evolutiva New Scientist

AtlANte60 Crimini

ambientali Cartografare

il presente

portfolio62 La città

dei campioni Francesco Alesi

ritrAtti68 Michael

Correia The Washington

Post

viAggi70 Una vita

in vacanza The New York

Times

grAphic jourNAlism72 Parigi Chantal

Montellier

letterAturA74 Luminosa

nostalgia El Espectador

pop86 Una

rivoluzione che non abbatte i monumenti Vladimir Sorokin

93 Il riparo fragile Jhumpa Lahiri

scieNzA94 Il ritorno del

piccolo mostro Le Monde

ecoNomiA e lAvoro100 La donna

che ha pagato per la crisi inanziaria Financial Times

cultura76 Cinema, libri,

musica, video, arte

Le opinioni

21 Amira Hass

34 Juan Villoro

36 Yu Hua

78 Gofredo Foi

80 Giuliano Milani

84 Pier Andrea Canei

86 Christian Caujolle

91 Tullio De Mauro

101 Tito Boeri

iN copertiNA

In nome dei soldiSempre più spesso le multinazionali portano in tribunale gli stati. Vogliono leggi che non ostacolino i loro afari o risarcimenti miliardari. E vincono sempre. L’articolo di Die Zeit (p. 38). Illustrazione di Derek Bacon.

Juan Villoro • Yu Hua • Vladimir Sorokin • Jhumpa Lahiri

In nome dei soldi

Utopia andalusa

La trappola evolutiva

Una tregua fragile

Sempre più spesso le multinazionali portano in tribunale gli stati. Vogliono leggi che non ostacolino i loro af ari o risarcimenti miliardari. E vincono sempre

El Espectador Fondato nel 1887, è il più antico quotidiano colombiano. Pubblicava gli articoli di Gabriel García Márquez. L’articolo a pagina 74 è uscito il 18 aprile 2014 con il titolo La luminosa nostalgia de García Márquez. Slon È un sito russo di politica ed economia. L’articolo a pagina 16 è uscito il 18 aprile 2014 con il titolo Ženevskaja deklaratsia i razbitie okna Donetska. Die Zeit È un settimanale tedesco. L’articolo a pagina 38 è uscito il 27 febbraio 2014 con il titolo In Namen des Geldes. Internazionale pubblica in esclusiva per l’Italia gli articoli dell’Economist.

le principali fonti di questo numero

“Ci sono cose il cui valore dipende dal desiderio”juAN villoro, pAgiNA

Articoli in formato mp3 per gli abbonati

“Poco tempo fa, svegliandomi nel mio letto in Messico, lessi su un giornale che avevo tenuto una conferenza di letteratura il giorno prima a Las Palmas di Gran Canaria, dall’altra parte dell’oceano, e lo zelante corrispondente aveva fatto non solo una cronaca dettagliata della cerimonia, ma pure una sintesi molto suggestiva della mia esposizione. Tuttavia, il fatto per me più lusinghiero fu che gli argomenti dell’intervento erano molto più intelligenti di quel che mi sarebbe potuto venire in mente, e il modo in cui erano esposti era molto più brillante di come io ne sarei stato capace. C’era solo un errore: io non mi ero trovato a Las Palmas né il giorno prima né nei ventidue anni precedenti, e non avevo mai tenuto una conferenza su un qualche argomento in qualche parte del mondo. Accade spesso che si annunci la mia presenza in luoghi dove non mi trovo. (...) La colpa non è di nessuno, perché esiste un altro io che gira libero per il mondo, senza controllo di alcun genere, facendo tutto quel che uno dovrebbe fare e che non osa. L’altro io non mi incontrerà mai, perché non sa dove abito, né come sono, né potrebbe immaginare che siamo tanto diversi. Continuerà a godersi la sua esistenza immaginaria, abbagliante ed estranea, col proprio yacht, con l’aereo privato e i palazzi imperiali dove fa fare il bagno nello champagne alle sue amanti dorate e sconigge a suon di cazzotti i principi suoi rivali. Continuerà a nutrirsi della mia leggenda, ricco ino all’inverosimile, giovane e bello per sempre e felice anche nelle lacrime, mentre io continuo a invecchiare senza rimorsi davanti alla macchina da scrivere, estraneo ai suoi deliri e ai suoi spropositi, cercando ogni sera gli amici di tutta la vita per farci la solita bevuta e rimpiangere sconsolati l’odor di guayaba. Perché la cosa più ingiusta è questa: che l’altro è quello che si gode la fama, mentre io sono quello che si frega vivendo”.

Gabriel García Márquez, Il mio altro io, da Taccuino di cinque anni (Mondadori 1994).

Giovanni De Mauro

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Immagini

I sopravvissutiCorea del Sud16 aprile 2014

La guardia costiera sudcoreana soccor-re i passeggeri del traghetto Sewol, af-fondato al largo dell’isola di Jindo. L’in-cidente è avvenuto probabilmente a causa di una manovra sbagliata mentre al timone non c’era il comandante. A bordo del Sewol c’erano 476 passeggeri, soprattutto studenti delle scuole supe-riori, e solo 176 sono stati messi in salvo. L’immagine è tratta da un video della guardia costiera. (Yonhap/Ap/Lapresse)

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Immagini

Boston corre ancoraBoston, Stati Uniti21 aprile 2014

I partecipanti alla 118a maratona di Bo-ston alla ine della corsa. Il 15 aprile 2013 due bombe artigianali esplosero duran-te la gara uccidendo tre persone e feren-done 264. Nel primo anniversario dell’attentato, la città ha ricordato le vit-time con una cerimonia uiciale e una serie di eventi e mostre. Il processo con-tro Dzhokhar Tsarnaev, 20 anni, presun-to autore dell’attentato, comincerà a novembre. Su di lui pendono trenta capi d’accusa. Foto di Jared Wickerham (Getty Images)

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Immagini

Sotto i ferriSumatra, Indonesia16 aprile 2014

Un orango maschio di quattordici anni viene curato da un veterinario nella sala operatoria del Sumatran orangutan conservation programme center. L’ani-male è stato ferito da colpi di arma da fuoco, in una foresta del distretto di Langkat. Nel centro sono stati curati più di duecentottanta oranghi, feriti dai bracconieri, e oltre duecento sono stati reinseriti nel loro habitat naturale. La popolazione di questi primati sta dimi-nuendo rapidamente a causa della di-struzione delle foreste, abbattute per essere trasformate in piantagioni di pal-me da olio. Foto di Sutanta Aditya (Afp/Getty Images)

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10 Internazionale 1048 | 24 aprile 2014

[email protected]

Incendio a Valparaíso u La foto di Valparaíso e l’arti-colo a pagina 21 (Internazionale 1047) sono davvero forti perché, anche se si tratta di uno scenario lontano, fanno capire quanto sia travolgente la forza incontrolla-ta della natura. Dovrebbero far-ci rilettere su quello che è suc-cesso nel nostro paese, per esempio all’Aquila. Bacone di-ceva che “alla natura si coman-da solo ubbidendole”. La ce-mentiicazione selvaggia e in-controllata dovrebbe lasciar po-sto a un’etica nuova, per salva-guardare l’ambiente e gli esseri umani. Luciano

La prigione del passato u Gli articoli sul Ruanda sono importantissimi, ma quello che più mi ha colpito (direi folgora-to) è il progetto realizzato da Pieter Hugo (Internazionale 1046): sono stato non so quanto tempo a issare negli occhi Go-defroid ed Evasta a pagina 37 e a leggere e rileggere la didasca-

lia della foto. Lavori così diretti e toccanti servono a farci cre-scere come persone e infondo-no iducia. In questi mesi mi sto impegnando in un progetto con il carcere di Bollate e il sistema bibliotecario milanese. Il mio gruppo organizzerà una biblio-teca vivente sul tema del carce-re e della detenzione. An-che questo vuole essere un la-voro diretto e toccante: spero che permetta di superare i pre-giudizi e alimenti la iducia nel-le persone, anche in quelle che hanno sbagliato. Cristian

Nel bene e nel male u È da un mesetto che compro Internazionale e ogni settimana apprezzo sempre di più la scelta degli articoli che traducete. Per esempio “Il papa si unisce ai preti antimaia” (Internaziona-le 1047). Di sicuro qualcuno non apprezzerà la critica stra-niera o l’essere associati alla maia in quanto italiani, ma quanto è bello come articolo? A proposito, forse sono l’unico vostro lettore che non va pazzo per Jhumpa Lahiri: mi dispiace,

è una brava scrittrice, ma... Arcangelo u Sia io (19 anni) che mio fratel-lo (25) non possiamo fare a me-no dei vostri articoli e litighiamo su chi legge per primo Interna-zionale. Grazie perché scegliete articoli su argomenti che pur-troppo sono poco trattati (per esempio il Ruanda) con grande cognizione di causa. Sicuramen-te rinnoveremo l’abbonamento! Ps: adoro Amira Hass e Jhumpa Lahiri! Susanna

Errata corrige

u Nel numero 1046 di Interna-zionale, a pagina 90, il gruppo musicale si chiama Monaci del Surf e non I Monaci del Surf; nel numero 1047, il titolo del libro di Jan Peter Bremer citato a pagina 75 è L’investitore americano e non L’investigatore americano.

PER CONTATTARE LA REDAZIONE

Telefono 06 441 7301 Fax 06 4425 2718Posta viale Regina Margherita 294, 00198 RomaEmail [email protected] internazionale.it

Mio iglio è diventato maggiorenne ma non ha intenzione di votare alle europee. Mi chiedo come convincerlo a cambiare idea.–Lele

È prima di tutto un problema d’età: non avendo conosciuto le glorie sanremesi della for-zista Iva Zanicchi, a tuo iglio non viene la pelle d’oca ogni volta che lei urla: “Prendi questa mano, zingaraaa!”. E non ricorda neanche l’epoca d’oro di Ok, il prezzo è giusto: i sostenitori della Zanicchi che ai comizi gridano “cen-to! cen-to! cen-to!” gli sembre-

ranno pazzi. Stessa cosa per il candidato Fabrizio Bracco-nieri: questo nome non dice-va nulla a nessuno, me com-preso. Ma, a diferenza di tuo iglio, quando ho scoperto che si trattava di Bruno Sac-chi dei Ragazzi della terza C sono stato assalito dall’irre-frenabile voglia di correre alle urne. Inoltre presumo che tuo iglio non sia gay, altrimenti non capisco perché non voti Alessandro Cecchi Paone, che si batte da anni per i dirit-ti degli omosessuali portando voti al partito che si batte da ancora più anni per non rico-noscerli. Se poi tuo iglio non

tifa né Milan né Fiorentina è comprensibile che non voglia mandare a Strasburgo lo sto-rico portiere Giovanni Galli, però non è sano che un ragaz-zo della sua generazione non voti l’ex tronista di Uomini e donne Ylenia Maria Citino. Tuo iglio non ha ancora in-contrato il candidato giusto, ma se lo tieni qualche giorno incollato alla tv forse troverà l’attore, la valletta o il tronista degno della sua iducia.

Claudio Rossi Marcelli è un giornalista di Internazio-nale. Risponde all’indirizzo [email protected]

Dear Daddy

Onorevoli vip

Leggee diritto

Le correzioni

u “La traduzione in italiano dell’espressione inglese inter-national law non è ‘legge in-ternazionale’ (Internazionale 1046, pagina 26), ma ‘diritto internazionale’”, ci scrive Ce-sare Pitea, che insegna diritto internazionale all’università di Parma. “Il termine inglese law, infatti, indica quello che nella teoria del diritto si dei-nisce ‘diritto in senso oggetti-vo’: l’insieme delle norme giu-ridiche che compongono un ordinamento (per esempio il diritto italiano) o un suo setto-re (il diritto civile, il diritto del lavoro, eccetera). Invece il di-ritto in senso soggettivo, cioè una posizione giuridica attiva conferita in un ordinamento a un certo soggetto (il diritto di proprietà, il diritto alla vita, eccetera), in inglese si chiama right. La legge, intesa come at-to normativo scritto, generale e astratto, emanato dal legi-slatore, in inglese si chiama act o statute. Quindi”, spiega ancora il nostro lettore, “se traduco con ‘legge internazio-nale’ l’inglese international law induco nel lettore l’idea che esista un legislatore inter-nazionale, un’autorità supe-riore agli stati che ha il potere di vincolarne la condotta. Al contrario, l’ordinamento in-ternazionale è caratterizzato proprio dall’assenza di un legi-slatore. Il suo diritto scaturi-sce o dall’accordo tra stati o dalla consuetudine”.

Giulia Zoli è una giornalista di Internazionale. L’email di questa rubrica è [email protected]

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C I N E M A

A R T E

F O T O G R A F I A

L E T T E R A T U R A

P O E S I A

C R I T I C A

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Internazionale 1048 | 24 aprile 2014 13

Editoriali

I quattro giornalisti francesi rapiti in Siria sono stati liberati. È una splendida notizia, ma il sollie-vo per la loro liberazione non deve farci dimenti-care il motivo che li ha spinti ad andare in Siria: raccontare, nonostante la doppia minaccia del regime di Bashar al Assad e dei jihadisti dello Sta-to islamico dell’Iraq e del levante, il più barbaro conlitto del ventunesimo secolo.

Oggi è lecito parlare di guerra civile, ma non si può ignorare che tutto è cominciato tre anni fa con una rivoluzione paciica, repressa nel sangue. Il regime della famiglia Assad ha preferito colpire la sua popolazione con pallottole e bombe piutto-sto che rinunciare a una minima parte del suo potere. Ai siriani non è stato risparmiato nulla: tortura di massa, missili Scud, barili esplosivi, ar-mi chimiche e perino la fame. Secondo le stime più contenute le vittime sono circa 150mila. Qua-si tre milioni di siriani, su una popolazione di 22 milioni, sono scappati all’estero. Ma la comunità internazionale non è riuscita a far nulla per fer-mare questo dramma di portata regionale, se non globale. Al sostegno costante degli alleati del re-gime (Hezbollah, l’Iraq e l’Iran sciiti, la Russia) ha

risposto l’impegno sempre più intenso delle mo-narchie del Golfo al ianco dei ribelli sunniti, or-mai molto inluenzati dai jihadisti. I tentenna-menti degli occidentali hanno contribuito a que-sta deriva, che potrebbe diventare un boomerang per l’Europa quando torneranno a casa i tanti gio-vani estremisti andati a combattere in Siria.

Ormai la tragedia siriana non interessa più l’opinione pubblica occidentale, quasi la infasti-disce. La presenza dei jihadisti ha compromesso l’immagine dei ribelli, e nell’indiferenza più to-tale la violenza sale di livello. La settimana scor-sa alcuni attacchi con il cloro nella regione di Hama non hanno provocato nessuna protesta, e questo anche se Damasco si è in teoria impegna-ta a smantellare il suo arsenale chimico. Intanto il regime ha annunciato che il 3 giugno si terran-no le elezioni presidenziali, come se la Siria fosse un paese normale e il processo democratico po-tesse legittimare in qualche modo una feroce dittatura.

Non possiamo più ignorare questa realtà spa-ventosa di cui Bashar al Assad è il primo respon-sabile. u as

Non dimentichiamo la Siria

Il ritorno dei titoli greci

Le Monde, Francia

El País, Spagna

La Grecia è ricomparsa sui mercati, con un certo successo. È riuscita a collocare tre miliardi di euro in obbligazioni quinquennali a un tasso d’interes-se annuale inferiore al 5 per cento. Si potrebbe pensare, quindi, che la percezione dei mercati i-nanziari sia cambiata. Un paese come la Grecia, con un debito che supera il 150 per cento del pil e un rigido piano d’austerità che ha causato sofe-renze sociali e rivolte tra i cittadini, ha ottenuto l’approvazione degli investitori a un prezzo abba-stanza basso. Tutto questo smentisce la tesi che i mercati puniscono senza pietà debito e deicit.

Oggi sembra quindi che chi valuta i rischi eco-nomici pensi più al rendimento a breve e alle aspettative di crescita che non alla capacità di re-stituire il debito. Non dobbiamo però dimenticare che la solidità delle economie mondiali è cambia-ta. La recessione ha trasferito enormi quantità di reddito dai cittadini alle banche e dalla periferia dell’Europa (Spagna, Grecia, Irlanda, Portogallo ecc.) ai paesi del centro (come la Germania). Quindi molte economie sono diventate più vul-nerabili e una nuova recessione avrebbe conse-

guenze tragiche. L’equilibrio è instabile e non si prevede un miglioramento in tempi brevi.

I problemi fondamentali della Grecia sono sempre gli stessi: non c’è crescita, la disoccupa-zione è eccessiva, ci sono poche attività oltre al turismo e il debito è troppo alto per permettere risparmi. Prima o poi servirà una ristrutturazione del debito, e la situazione è simile a quella che ha portato agli interventi di salvataggio. Questo in-dica che il modello della troika (Commissione europea, Bce e Fmi), basato su tagli di bilancio e iniezioni di liquidità a costi troppo alti per le pos-sibilità del paese, è fallito. L’economia greca ave-va bisogno di una drastica razionalizzazione, ma quando un intervento viene imposto a un paese dall’esterno, spesso l’austerità è indiscriminata e si bada solo all’obiettivo di contenere il deicit, cosa che spesso non riesce. E gli efetti collaterali sono devastanti: le opportunità di crescita a me-dio termine si riducono drasticamente e il livello minimo di benessere sociale scompare.

Purtroppo, la primavera greca dei mercati sa-rà probabilmente una stagione breve. u bt

“Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio,di quante se ne sognano nella vostra ilosoia”William Shakespeare, Amleto Direttore Giovanni De MauroVicedirettori Elena Boille, Chiara Nielsen, Alberto Notarbartolo, Jacopo ZanchiniComitato di direzione Giovanna Chioini (copy editor), Stefania Mascetti (Internazionale.it), Martina Recchiuti (Internazionale.it), Pierfrancesco Romano (copy editor)In redazione Giovanni Ansaldo, Annalisa Camilli, Carlo Ciurlo (viaggi, visti dagli altri), Gabriele Crescente, Giovanna D’Ascenzi, Camilla Desideri (America Latina), Simon Dunaway (attualità), Mélissa Jollivet (photo editor), Alessandro Lubello (economia), Alessio Marchionna (inchieste), Maysa Moroni (photo editor), Andrea Pipino (Europa), Francesca Sibani (Africa e Medio Oriente), Junko Terao (Asia e Paciico), Piero Zardo (cultura), Giulia Zoli (Stati Uniti) Impaginazione Pasquale Cavorsi, Valeria Quadri, Marta Russo Segreteria Teresa Censini, Monica Paolucci Correzione di bozze Sara Esposito, Lulli Bertini Traduzioni I traduttori sono indicati dalla sigla alla ine degli articoli. Giuseppina Cavallo, Andrea De Ritis, Andrea Ferrario, Giacomo Longhi, Giusy Muzzopappa, Floriana Pagano, Francesca Rossetti, Fabrizio Saulini, Andrea Sparacino, Bruna Tortorella Disegni Anna Keen. I ritratti dei columnist sono di Scott Menchin Progetto graico Mark Porter Hanno collaborato Gian Paolo Accardo, Luca Bacchini, Francesco Boille, Sergio Fant, Anna Franchin, Anita Joshi, Andrea Pira, Fabio Pusterla, Alessia Salvitti, Marc Saghié, Andreana Saint Amour, Angelo Sellitto, Francesca Spinelli, Laura Tonon, Pierre Vanrie, Guido VitielloInternazionale a Ferrara Luisa CifolilliEditore Internazionale spa Consiglio di amministrazione Brunetto Tini (presidente), Giuseppe Cornetto Bourlot (vicepresidente), Alessandro Spaventa (amministratore delegato), Antonio Abete, Emanuele Bevilacqua, Giovanni De Mauro, Giovanni Lo StortoSede legale via Prenestina 685, 00155 Roma Produzione e difusione Francisco Vilalta Amministrazione Tommasa Palumbo, Arianna CastelliConcessionaria esclusiva per la pubblicità Agenzia del marketing editorialeTel. 06 6953 9313, 06 6953 9312 [email protected] Download Pubblicità srlConcessionaria esclusiva per la pubblicità moda e lifestyle Milano Fashion Media srlStampa Elcograf spa, via Mondadori 15, 37131 Verona Distribuzione Press Di, Segrate (Mi)Copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo 3.0. Signiica che può essere riprodotto a patto di citare Internazionale, di non usarlo per ini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Per questioni di diritti non possiamo applicare questa licenza agli articoli che compriamo dai giornali stranieri. Info: [email protected]

Registrazione tribunale di Roma n. 433 del 4 ottobre 1993Direttore responsabile Giovanni De MauroChiuso in redazione alle 20 di martedì 22 aprile 2014

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Ucraina

14 Internazionale 1048 | 24 aprile 2014

Un accordoprecarioLuke Harding, The Guardian, Regno Unito

L’accordo per scongiurare la crisi in Ucraina rag-giunto a Ginevra il 17 aprile è stato quasi man-dato a monte il 20 aprile in seguito a uno scontro a

fuoco nella città separatista di Sloviansk. Tre giorni dopo che l’intesa negoziata tra Stati Uniti, Unione europea, Ucraina e Rus-sia aveva alimentato qualche speranza per una soluzione paciica alla più grande crisi scoppiata tra Est e Ovest dopo la ine della guerra fredda, l’incidente di Sloviansk ha rimesso tutto in gioco. La sparatoria, avve-nuta intorno a mezzanotte a un posto di blocco e in cui sono morte tre persone, ha scatenato un iume di accuse e controaccu-se che non promettono nulla di buono per gli sforzi internazionali di pace.

La Russia sostiene che nazionalisti ucraini di estrema destra hanno aperto il fuoco contro un checkpoint in mano alle milizie ilorusse appena fuori dalla città. Il ministero degli esteri di Mosca ha accusato Kiev di non avere disarmato “estremisti e terroristi” e ha dato la colpa dell’accaduto a Pravij sektor, il gruppo ultranazionalista ucraino che è stato tra i protagonisti della rivolta di Maidan.

Le autorità di Kiev, al contrario, hanno deinito l’incidente una “rozza provocazio-ne”, orchestrata per essere trasmessa alla

controllo di Kiev era Jenakijeve: una delle rare buone notizie per il governo ilocciden-tale ucraino, che sembra impotente di fron-te alla rapida evoluzione degli eventi.

Intanto il primo ministro Arsenij Jatsen-juk – che il 22 aprile ha ricevuto a Kiev il vi-cepresidente degli Stati Uniti Joe Biden – parlando alla tv americana Nbc ha detto che l’Ucraina ha bisogno di un maggior so-stegno di Washington per rispondere all’ag-gressione russa. “Abbiamo bisogno di uno stato forte e solido”, ha dichiarato Jatsen-juk. “Abbiamo bisogno di supporto inan-ziario ed economico. Dobbiamo riorganiz-zare l’esercito. Dobbiamo ammodernare le nostre forze di sicurezza. Abbiamo bisogno di un supporto reale”. L’ambasciatore sta-tunitense a Kiev, tuttavia, ha afermato che Washington può fare poco per modiicare gli equilibri militari a favore dell’Ucraina. “La geograia e l’assetto di potere sono tali da rendere impossibile una soluzione mili-tare alla crisi”, ha detto Geofrey Pyatt alla

L’intesa raggiunta il 17 aprile per risolvere la crisi ucraina rischia di fallire. Mosca e Kiev si accusano di non rispettare gli impegni. E sul terreno la situazione rimane molto tesa

televisione russa, e hanno sottolineato che alcuni dettagli della sparatoria sono così poco plausibili da apparire ridicoli. Secondo i servizi segreti ucraini, l’intelligence mili-tare russa ha messo in scena lo scontro con l’aiuto di alcuni criminali. Secondo la tv rus-sa, invece, gli “attentatori” avrebbero la-sciato sul posto un biglietto da visita appar-tenente a Dmytro Jaroš, il leader di Pravij sektor. Stando alle stesse fonti, sul luogo della sparatoria sono state trovate anche banconote da cento dollari nuove di zecca, una mappa satellitare dell’area e un fucile tedesco della seconda guerra mondiale.

Il biglietto da visitaPer ora è diicile stabilire con certezza la dinamica dei fatti. Il 20 aprile le milizie ar-mate che organizzano i posti di blocco sotto la bandiera russa intorno a Sloviansk non ci hanno permesso di fare indagini sull’acca-duto. Sul ponte che porta in città un militare armato di pistola ci ha intimato di andare via. Ha dato un pugno sulla nostra automo-bile, lasciando un’ammaccatura, e ha urla-to: “Andatevene da qui”.

I nuovi leader dell’Ucraina, così come molti abitanti delle regioni occidentali del paese, temono che questo incidente possa essere usato come pretesto per un’opera-zione militare simile a quella che, con gran-de rapidità, ha portato a marzo all’annes-sione della Crimea. Secondo gli accordi di Ginevra, i gruppi armati illegali devono la-sciare gli ediici amministrativi occupati e consegnare le armi. Ma la maggior parte delle milizie ilorusse che all’inizio di aprile avevano conquistato le amministrazioni locali in una decina di città dell’est del pae-se si è riiutata di smobilitare.

Il 20 aprile l’unica città tornata sotto il

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Internazionale 1048 | 24 aprile 2014 15

Cnn. “La realtà è che sotto il proilo militare l’Ucraina si trova in una posizione di infe-riorità, come ha dimostrato la Crimea”.

Dal ministero dell’interno ucraino han-no anche fatto sapere che durante il ine settimana nessuna forza legata Kiev ha condotto operazioni intorno a Sloviansk, descritta come “il luogo più pericoloso in Ucraina a causa della presenza di sabotato-ri stranieri e di gruppi armati illegali”. Dal ministero hanno poi aggiunto: “Inoltre, è impossibile non nutrire sospetti di fronte alla rapidità con cui i giornalisti della tv rus-sa sono comparsi sulla scena della sparato-ria e di fronte alle chiare manipolazioni dei loro reportage”.

Le autorità ucraine hanno inine sottoli-neato come il primo a riferire degli eventi sia stato il giornalista russo Dmitrij Kiselëv, vicino a Vladimir Putin e noto per il suo na-zionalismo radicale. A marzo gli Stati Uniti e l’Unione europea lo avevano inserito nell’elenco delle persone colpite dalle san-

zioni decise dopo l’annessione russa della Crimea.

Completamente diversa è la versione del ministero degli esteri di Mosca, secon-do cui dietro all’incidente di Sloviansk ci sono gli ultranazionalisti ucraini. “La Rus-sia è indignata per questa provocazione. È la dimostrazione che Kiev non ha nessuna intenzione di fermare e disarmare i nazio-nalisti e gli estremisti”, hanno dichiarato dal ministero. Ma Mosca “insiste ainché l’Ucraina mantenga rigorosamente l’impe-gno preso per fermare l’escalation nell’est del paese”.

Da parte sua, Pravij sektor nega ogni coinvolgimento. Il suo portavoce, Artem Skoropadskij, ha detto alla Reuters: “Si trat-ta di una provocazione blasfema da parte della Russia: blasfema perché si è veriicata in una notte sacra per i cristiani, la notte di Pasqua. L’operazione è stata chiaramente condotta dalle forze speciali russe”.

I blogger ucraini, intanto, fanno ironia

sulla ricostruzione dei mezzi d’informazio-ne russi, secondo cui sul luogo dell’inciden-te sarebbe stato trovato un biglietto da visita del leader di Pravij sektor. Su Twitter sono stati postati fotomontaggi con il biglietto da visita di Jaroš sulla Luna, nel taschino di Pu-tin o negli afreschi della cappella Sistina. Molti hanno sottolineato l’improbabilità del fatto che il biglietto da visita sia soprav-vissuto all’incendio in cui sono andate com-pletamente distrutte le macchine dei pre-sunti assalitori.

Miliziani armatiL’accordo di Ginevra era stato raggiunto anche per aprire la strada a una tregua di Pasqua. Domenica, infatti, si sono svolte cerimonie religiose nella maggior parte delle città dell’Ucraina orientale. A Slo-viansk gli abitanti si sono scambiati, come da tradizione, dolci ricoperti di zucchero. Ofrendomene una fetta, Leonid Bikada-nov, che ha 43 anni, mi ha raccontato di fare

17 aprile 2014 Ucraina, Russia, Stati Uniti e Unione europea irmano a Ginevra un accordo per disinnescare la crisi ucraina. Secondo l’inte-sa, i gruppi armati illegali devono essere sciolti e gli ediici occupati devono essere sgomberati. Kiev si impegna a concedere maggiore autono-mia alle regioni dell’est. A vigilare sull’intesa sa-rà l’Organizzazione per la sicurezza e la coopera-zione in Europa. 20 aprile Nella notte prima di Pasqua in uno scontro a fuoco a un posto di blocco a Sloviansk muoiono tre persone. Mosca accusa gli estremi-sti di destra ucraini, Kiev parla di un incidente orchestrato dal Cremlino.21 aprile Il ministro degli esteri russo Sergej La-vrov accusa Kiev di aver violato l’accordo di Gi-nevra e di non voler disarmare le sue milizie.22 aprile Il vicepresidente degli Stati Uniti, Joe Biden, in visita a Kiev, annuncia il sostegno di Washington al governo provvisorio. Kiev annun-cia la ripresa delle operazioni militari contro i i-lorussi nell’est del paese.

Da sapere Dopo la tregua

Fiori in ricordo dei morti nella sparatoria di Sloviansk, 20 aprile 2014

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16 Internazionale 1048 | 24 aprile 2014

Ucraina

La primavera di Donetsk e la tattica del Cremlino

Le proteste ilorusse nell’est del paese sono spontanee. Ma sono manipolate dalla propaganda di Mosca. Che cerca di alimentare una rivolta popolare opposta a quella di Maidan

Oleg Kašin, Slon, Russia

èevidente che l’accordo di Gine-vra per risolvere la crisi ucraina si basa su impegni talmente ge-nerici da renderne difficile la realizzazione. Quali formazioni

illegali bisogna disarmare? Bisogna co-minciare dal gruppo ucraino di estrema destra Pravij sektor? Le strade, le piazze e i luoghi pubblici devono essere sgomberati, benissimo. Ma come la mettiamo allora con l’accampamento che ancora c’è a Mai-dan, a Kiev? Liberare gli ediici occupati, giusto. Ma considerata l’ostilità di Mosca nei confronti di Oleksandr Turčinov e Ar-senij Jatsenjuk non ci sarebbe da meravi-gliarsi se domani qualcuno al Cremlino dicesse che il presidente e il primo ministro ad interim occupano illegalmente gli edii-ci del governo a Kiev.

parte delle milizie popolari ilorusse. “Non ho un ruolo importante. L’ho fatto per di-fendermi”, ha detto, sollevando la mimeti-ca per mostrarmi alcuni versi della Bibbia incisi sulla sua cintura.

Tuttavia, la situazione sul terreno a Slo-viansk e nei dintorni sembra peggiorare di ora in ora. Secondo un esperto ucraino, la maggior parte delle milizie irregolari e dei criminali presenti in città è arrivata nelle ultime quarantott’ore. Gira voce che alcune famiglie rom siano state obbligate ad ab-bandonare le loro case. Giovani in passa-montagna neri, molti dei quali armati di pistola, sorvegliano i posti di blocco fer-mando tutte le automobili. Fino a pochi giorni fa erano disarmati.

Vogliamo la paceCirca quindici chilometri a nord della città c’è il monastero Sviatogorsk, costruito in una posizione che domina il pittoresco iu-me Severskij Donec e meta di pellegrinag-gio per la gente della zona. Gli anni scorsi a Pasqua era visitato da migliaia di persone. Domenica, invece, c’era solo qualche fa-miglia con ceste di vimini piene di uova di Pasqua e dolci. “La gente ha paura. Non vuole uscire di casa”, ci ha detto Viktor Onešenko, un medico di 53 anni sopravvis-suto al disastro di Cernobyl, in visita al mo-nastero con la moglie e la iglia. Poi ha di-chiarato di essere favorevole all’integrità territoriale dell’Ucraina e ha accusato i se-paratisti di aver preso Sloviansk con la for-za. “Sono opportunisti e maiosi”, ha detto. “I separatisti in realtà non sono molti. Da queste parti la maggior parte della gente sostiene l’Ucraina”.

Onešenko è critico anche verso la cosid-detta “Repubblica popolare di Donetsk”, l’autoproclamato governo locale ilomosco-vita che chiede l’organizzazione di un refe-rendum sullo status della regione. “Non ne vogliamo sapere. È roba da farabutti. Signi-ica avere paura. E noi vogliamo la pace”, ha detto. Poi ha ammesso che alcuni anziani sono favorevoli all’idea di un’unione con la Russia perché pensano di ottenere pensioni più alte. “Ho viaggiato in tutta la Russia. Ho visto come vive la gente lì. Quelle dei pen-sionati ilorussi dell’Ucraina orientale sono solo illusioni”. u af

Luke Harding è un giornalista del Guar-dian. È stato il corrispondente da Mosca dal 2007 al 2011. Sulla Russia ha scritto Maia state (Guardian Books 2011).

Inoltre il documento non è stato irma-to dai rappresentanti della Repubblica po-polare di Donetsk né dalle altre organizza-zioni ilorusse di tipo simile.

La Russia, intanto, ripete la stessa solfa: “Noi non c’entriamo nulla, hanno fatto tutto da soli”. Al riguardo vale la pena di ricordare l’ormai quasi dimenticato accor-do irmato il 21 febbraio tra l’ex presidente ucraino Viktor Janukovič e gli allora leader dell’opposizione. In quell’occasione, appe-na un’ora dopo la irma dell’intesa, un atti-vista di Maidan era salito sul palco dicendo che c’era stato un cambio della guardia e che Janukovič era fuori gioco.

Il trucco dell’attivistaPutin, a quanto sembra, crede veramente che gli avvenimenti di Maidan siano stati solo uno spettacolo abilmente inscenato dall’occidente. Ora che il capo del Cremli-no sta cercando di ripetere gli eventi di Kiev nell’est del paese, potrebbe replicare anche il trucco dell’attivista: a Luhansk o a Donetsk qualcuno prende la parola in piaz-za pronunciando una dichiarazione solen-ne di fedeltà a Mosca e qualche ora dopo su tutti gli ediici delle amministrazioni regio-

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Una manifestazione iloucraina a Donetsk, il 17 aprile 2014

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nali e comunali della regione sventolano le bandiere russe. Dopotutto, l’accordo tatti-co di Ginevra non fa altro che dare più tem-po alla Russia. Prima che gli osservatori dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) arrivino sul posto, gli insorti avranno ancora alcune settimane per rimanere negli ediici con-quistati. A quel punto sarà arrivato il mo-mento delle presidenziali ucraine, in pro-gramma il 25 maggio. E sarà possibile, per esempio, far coincidere il voto con il refe-rendum sul futuro dell’Ucraina sudorien-tale. Magari il referendum non sarà orga-nizzato con tutti i crismi, ma sarà comun-que un punto fermo a cui i ilorussi potran-no appellarsi nei successivi incontri con i ministri degli esteri occidentali e all’Onu. In altre parole, i sostenitori della “prima-vera russa” non sono certo diminuiti dopo i negoziati di Ginevra, mentre sono au-mentati gli argomenti a favore dell’ipotesi che la crisi politica nei territori sudorienta-li dell’Ucraina si concluderà con una vitto-ria dei federalisti.

Un leader molto autorevoleSarebbe stupido ignorare gli ediici occu-pati, i poliziotti ucraini che hanno paura perino della propria ombra o l’impotenza dei ministri e dei governatori fedeli a Kiev, oppure dimenticare i militari che sono pas-sati dalla parte degli insorti. Sono tutti fatti reali. Solo una minima parte è stata insce-nata dal Cremlino, a diferenza di quanto credono gli ambienti vicini alle attuali au-torità di Kiev. È sbagliato pensare che nel sudest del paese sia stato tutto orchestrato in anticipo. In realtà molti eventi sono spontanei. Ma di una spontaneità che ri-corda quella dinamica che gli urbanisti deiniscono “delle inestre rotte”. Secondo questa teoria, se in una casa c’è una ine-stra rotta, dopo un po’ di tempo qualcuno ne romperà un’altra. Alla ine saranno tutte ridotte in frantumi, perché chi passa di lì sa di poterle rompere senza rischiare conse-guenze.

In ogni città ucraina c’è un numero suf-iciente di persone che non hanno fretta di andare da nessuna parte, che non hanno chi le aspetti a casa, che non hanno un la-voro e hanno invece l’abitudine di parteci-pare a ogni manifestazione possibile per-ché la vita è noiosa e ogni cambiamento è benvenuto. Non sono stato a Luhansk, ma i separatisti che ho visto a Donetsk danno proprio quest’impressione. Non hanno un

sostegno reale né sono comandati o mani-polati da qualcuno: hanno semplicemente visto che all’improvviso è diventato possi-bile trasferirsi negli ediici amministrativi o starsene all’ombra di un tiglio in un gior-no di primavera travestiti da guerriglieri latinoamericani. L’espressione “primavera russa” suscita associazioni con quella ara-ba, ma non ha nulla a che vedere con quello che è successo in Egitto o in Tunisia. Qui ci troviamo di fronte a un movimento pas-seggero che non coinvolge assolutamente il resto della popolazione e che esiste solo nella misura necessaria per alimentare l’indispensabile marea mediatica.

A Donetsk, dopo lunghi e infruttuosi tentativi, alla ine mi hanno indicato qual-cuno che potevo intervistare come leader della Repubblica popolare di Donetsk, un certo Nikolaj Solntsev. Si tratta di un im-prenditore che, già prima delle proteste di Maidan, aveva fondato il movimento Fron-te orientale. Mi è venuto incontro con il giubbotto antiproiettile tra le mani, un uo-mo solido. Appena ha aperto bocca mi sono reso conto che non mi trovavo di fronte a un leader popolare o a un brillante stratega, ma a un esperto di industria alimentare che, dopo la rivoluzione arancione del 2004, si è improvvisato politico e oggi, tra le altre co-se, aferma di essere favorevole al ritorno dell’Ucraina al suo vecchio status di poten-za nucleare. Un tipo alquanto strambo, in-somma, dipinto dai mezzi d’informazione russi come “molto autore vole”.

L’immagine trasmessa dai mezzi d’in-formazione di quello che succede nel su-dest del paese si sta rivelando più impor-tante della realtà, almeno finora. Ma quest’immagine è molto facile da cancel-lare. Ora, non ritengo che a riuscirci sarà l’accordo di Ginevra. Forse le trattative (come quella sul riconoscimento del nuovo status della Crimea) si trascineranno an-cora per un po’. Ma niente lascia pensare che ci siano passioni popolari più forti delle decisioni prese dai politici lontano da Do-netsk. E se esistono, non sono di certo le passioni su cui i sostenitori della “primave-ra russa” fondano le loro speranze. u af

Oleg Kašin è un giornalista russo. Nel 2010, mentre lavorava a Kommersant, è stato vittima di un pestaggio ed è rimasto in coma alcuni giorni. L’aggressione era proba-bilmente legata alle sue inchieste giornalisti-che. Oggi collabora, tra gli altri, con Slon, Lenta e Colta.

Argument, Ucraina

L’opinione

Aproposito dello scontro a fuoco di Pasqua a Sloviansk, le autorità di Kiev parlano di

una provocazione pianiicata in an-ticipo. In efetti si tratta chiaramen-te di una provocazione. L’unico pun-to interrogativo è chi ne sia stato l’ispiratore e l’ideatore. Secondo l’autoproclamato sindaco della città, Vjačeslav Ponomarëv, i colpevoli dell’aggressione sono i nazionalisti radicali ucraini. In una delle auto degli aggressori, distrutte dalle iamme dopo la sparatoria, è stato addirittura trovato un biglietto da visita del leader di Pravij sektor, Dmytro Jaroš. C’è solo da meravi-gliarsi che all’incendio non siano miracolosamente sopravvissute an-che le istruzioni dettagliate dell’at-tacco irmate dallo stesso Jaroš.

Il risultato è che ora c’è in teoria un pretesto per l’invio di un “contin-gente limitato di truppe” da parte di Mosca, visto che le vittime erano persone favorevoli alla federalizza-zione dell’Ucraina. Stiamo quindi andando verso la guerra? Diicile dirlo. In ogni caso Vladimir Putin non ha molto tempo per prendere una decisione. Se aspetterà troppo, c’è il rischio che il conlitto a Slo-viansk passi in secondo piano e le forze armate ucraine riprendano il controllo della regione. In tal caso, tutto sarà stato inutile. E Putin non può permettersi di perdere la repu-tazione di leader in grado di proteg-gere i russi dai nazionalisti ucraini e capace di riuniicare tutte le terre russe. In poche parole, ci sono moti-vi per ritenere che presto ci saranno altri sviluppi drammatici nel sudest del paese. L’unica speranza è che Putin decida di non lanciare una guerra a tutto campo, le cui conse-guenze sarebbero terribili. u af

Il conlittopossibile

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18 Internazionale 1048 | 24 aprile 2014

repubblica ceca

Niente da festeggiare A Praga il decimo anniversario dell’ingresso nell’Unione euro-pea non è occasione di celebra-zioni. Come racconta l’agenzia Ctk, solo il 34 per cento dei ce-

chi ha iducia nelle istituzioni europee, il rating più basso dal 1994. Critiche a Bruxelles sono arrivate anche dall’ex presiden-te Vaclav Klaus (nella foto), con-vinto euroscettico. Klaus, in ca-rica ino al 2013, ha dichiarato che “il paese non ha nulla da fe-steggiare”, spiegando che le po-litiche europeiste dell’attuale governo, guidato da Bohuslav Sobotka, sono una sconitta per i cittadini cechi e accusando l’Europa di essere dominata da Parigi e Berlino. “È il solito Klaus”, commenta Pravo. “Sof-fre di eurofobia da anni, ma i-nora non aveva mai detto chia-ramente da che parte dovesse stare la Repubblica Ceca. Schie-randosi con Putin nella crisi ucraina, è uscito allo scoperto”.

“Arrivano da parti diverse dell’Africa, a volte percorrendo migliaia di chilometri a piedi, con un unico obiettivo: superare le barriere che separano il Marocco dalle enclave spagnole di Ceuta e Melilla e mettere piede in Europa, alla ricerca di una vita migliore”. Come Maria, che – scrive Revista – “è partita dal Camerun e ha

attraversato a piedi il Mali e l’Algeria prima di arrivare in Marocco. Quattromila chilometri di calvario, tra il caldo, la fame e il freddo di notte, per inire bloccata a Castillejos, alle porte di Ceuta, dove hanno trovato rifugio centinaia di migranti africani”. E dove spesso la polizia fa irruzione. Chi viene preso è trasferito in altre città del paese. Gli altri aspettano il momento giusto per entrare in Spagna. Con grandi rischi: il 6 febbraio, 15 persone sono annegate cercando di arrivare a nuoto a Ceuta. Chi invece rimane in Marocco, vive di elemosina e fatica a integrarsi. Per questo il re Mohammed VI ha deciso a gennaio di regolarizzare 20mila dei 40mila immigrati irregolari del paese. “Il Marocco è così il primo paese africano ad avviare un processo di regolarizzazione di massa. Per la quale, però, servono requisiti che mancano alla maggior parte dei subsahariani: aver vissuto in Marocco per cinque anni o avere un coniuge marocchino”. u

immigrazione

il miraggio del benessere

Revista, Portogallo

regNo uNito

che europavogliamo Con l’avvicinarsi della scadenza del 25 maggio, la stampa euro-pea comincia a occuparsi delle elezioni per il parlamento di Strasburgo (nella foto). In Gran Bretagna il Guardian critica l’impostazione stessa del dibat-tito sul voto: “Oggi non si do-vrebbe discutere solo dell’op-portunità o meno di rimanere in Europa. Dovremmo anche par-lare di che tipo di Europa voglia-mo costruire. L’economia, la go-vernance, i conini, il welfare, l’ambiente, la Russia: questi so-no i temi che deiniranno i pros-simi cinque anni in questa parte del mondo. Il resto sono solo chiacchiere”.

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i sussidi in olandese Al parlamento dell’Aja è stato presentato un progetto di legge che prevede la sospensione dei sussidi agli immigrati che, dopo un anno nel paese, non parlano ancora l’olandese. Secondo De Volkskrant, se approvata, la legge si trasformerà in una farsa: “Le autorità locali hanno già il diicile compito di controllare che chi incassa il sussidio non trui il sistema riiutando even-tuali oferte di lavoro. Ora avranno anche l’onere di valuta-re i progressi linguistici degli immigrati. La legge porterà a un’ulteriore crescita della buro-crazia e a inevitabili arbitri”. Se-condo il quotidiano, il provvedi-mento è stato preso dal governo solo per cercare di tenere buoni i populisti del Partito della liber-tà di Geert Wilders.

iN breve

Regno Unito Il 20 aprile un enorme incendio si è sviluppato in una centrale elettrica nell’en-clave di Gibilterra. Le iamme hanno costretto il gruppo di te-lecomunicazioni Gibtelecom a interrompere le attività, paraliz-zando alcuni giganti mondiali delle scommesse come William Hill e Ladbrokes.Georgia Il 17 aprile il parlamen-to ha approvato, con 117 voti a favore e nessuno contrario, una legge antidiscriminazione che estende alcune garanzie agli omosessuali. Secondo gli attivi-sti per i diritti umani, la legge però è del tutto insuiciente.

macedoNia

schiaielettorali Alla vigilia dell’appuntamento del 27 aprile, quando si voterà per il ballottaggio delle presi-denziali e per le politiche, la si-tuazione è tesa. Il 15 aprile due gruppi di simpatizzanti dei par-titi principali (i nazionalisti di Vmro-Dpmne, al governo, e i socialdemocratici, Sdms) si so-no afrontati a pugni a Skopje dopo un comizio di Stevo Pen-darovski (Sdms), l’avversario di Gjorge Ivanov nella sida per la presidenza. Secondo Utrinski Vesnik, “la campagna elettora-le è entrata nella fase più accesa e già circolano voci sul rischio di incidenti alle urne”. (V

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Africa e Medio OrienteA lezionedi brogli

Salsabil Chellali, El Watan, Algeria

Le presidenziali del 17 aprile hanno fatto registrare l’aluenza alle ur-ne più bassa dal 1995. Il partito degli astensionisti è il “vincitore”

dello scrutinio, perché una partecipazione al voto del 51,70 per cento – una cifra “gon-iata”, secondo gli oppositori del governo – relativizza la vittoria di Abdelaziz Bouteli-ka (che, con l’81,53 per cento dei voti, ha ot-tenuto un quarto mandato).

Il principale avversario di Boutelika, il candidato indipendente Ali Benlis (12,18 per cento dei voti), ha denunciato brogli, ma dovrebbe fare accuse più precise. Agli occhi di quelli che si sono riiutati di “parte-cipare” alle elezioni, i brogli sono innanzi-tutto il frutto di un regime che per anni ha chiuso lo spazio pubblico e dell’informazio-ne, e lo ha aperto solo poche settimane pri-ma del voto.

Una politica inta non può portare a vere elezioni. Benlis lo sapeva, ma sperava di poter approittare della crisi del regime e dell’indignazione provocata dalla candida-tura di un uomo malato come Boutelika. L’unica possibilità di cambiare qualcosa era spingere gli algerini a votare. Benlis dove-va convincere gli astensionisti che ne valeva la pena, ma non ci è riuscito. L’appello alla partecipazione è stato l’unico punto in co-

mune tra Benlis, Boutelika e gli altri can-didati. Ma i loro appelli – declinati in vari modi, anche evocando la “paura” o una “minaccia esterna” – sono rimasti inascol-tati. Gli algerini non danno credito ai politi-ci e pensano che le elezioni non servano a sanzionare e a cambiare i governi che agi-scono male. Hanno capito che sono una formalità inutile.

Un peso sul futuroI dati uiciali non permettono più di ignora-re questa tendenza. Ma gli uomini del regi-me sono disposti a interpretare corretta-mente la situazione? E sono in grado di far-lo? Il 17 aprile non è stata una festa della democrazia. Non ci credeva nessuno. Quest’elezione non modiica i problemi di fondo dell’Algeria: il suo dinamismo e la sua creatività sono ostacolati da un governo im-mobile, fondato su una redistribuzione del reddito iniqua e, quando serve, sulla repres-sione. I problemi del paese continuano a non essere afrontati e pesano sul suo futu-ro. L’astensionismo strutturale non fa che confermare l’impressione generale di un voto che serve solo a rafforzare lo status quo. Questo è il messaggio principale delle ultime elezioni, anche se i sostenitori dello status quo fanno inta di non capire. u adr

Gli algerini disertano le urne e Boutelika torna a vincere

K. Selim, Le Quotidien d’Oran, Algeria

Abdelaziz Boutelika, 77 anni, al potere dal 1999, reduce da un ictus, assente durante la cam-pagna elettorale, ha vinto le

presidenziali con l’81,53 per cento dei voti. Come si manipolano i risultati elettorali? Con registri poco trasparenti I registri elettorali raggruppano per comune il nome di ogni iscritto con il suo numero d’identii-cazione. Ma queste liste non sono sempre chiare. È un problema per gli osservatori elettorali: le autorità algerine gli permetto-no di visionare i registri locali, ma non di confrontarli con quello nazionale. Con le minacce Sono stati denunciati casi di pressioni sugli elettori e sugli agenti che sorvegliano i seggi.Creando seggi fasulli I brogli sono fre-quenti nei seggi itineranti, che spesso apro-no in anticipo e in zone poco accessibili agli osservatori.Facendo votare i morti Non è raro che i nomi dei defunti siano ancora presenti sul-le liste elettorali.Votando più volte Con una delega con-trafatta, un elettore può votare al posto di un altro.Comprando i voti Secondo un collabora-tore di Moussa Touati (un candidato che ha ottenuto lo 0,56 per cento dei voti) nel 2009 alcuni cittadini erano andati a votare dopo aver ricevuto tra i 2 e i 10 euro.Inilando schede false nelle urne Può succedere prima, durante o dopo il voto, ed è uno dei brogli più difusi.Con il sostegno dei governatori Il mini-stro dell’interno ha chiesto ai governatori regionali di comunicargli in anticipo i risul-tati dei loro distretti. Nel periodo di tempo che precede l’annuncio uiciale, è possibile manipolare i risultati.Sfruttando il voto delle forze di sicu-rezza I circa 930mila appartenenti all’eser-cito e alle altre forze armate possono votare in quattro comuni diversi ed è diicile con-trollare che non votino più volte. Proclamando risultati manipolati Al momento dei calcoli informatici al mini-stero dell’interno, si possono ritoccare i dati, soprattutto quello sull’aluenza. u

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In un seggio di Algeri, il 17 aprile 2014

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Internazionale 1048 | 24 aprile 2014 21

Torneranno in Grecia. Lasce-ranno il loro afascinante ap-partamento a Manhattan per vivere in un paese dove non avranno bisogno di tre mesi di preavviso per issare un incon-tro con un amico. Stanno solo aspettando di andare in pen-sione. I miei due amici sono professori universitari, non certo il mestiere più comune tra gli immigrati a New York. In un giorno di pioggia ci se-diamo in un cafè e pensiamo ai milioni di individui che arri-vano in questa città con grandi speranze, spesso deluse.

Ho capito a pieno la realtà degli immigrati grazie a uno scrittore e giornalista indiano, Suketu Mehta. Un amico co-mune ci ha presentati a una fe-sta, e quando ho scoperto che ha passato l’infanzia nel Queens gli ho chiesto di indi-carmi i luoghi più interessanti. Sono stata fortunata, perché si è oferto di accompagnarmi a fare un giro a Jackson Heights, il quartiere dov’è cresciuto. Mehta sta scrivendo un libro sugli immigrati a New York e si è documentato frequentando bar, cantieri e punti d’incontro

delle varie comunità. Per lui gli immigranti sono veri eroi. Non vengono per arricchirsi, ma per ofrire una vita miglio-re alle famiglie rimaste in pa-tria. Molti vivono in apparta-menti illegali senza inestre, con la paura di essere scoperti.

L’unica consolazione sono i video spediti dalla famiglia. Le immagini mostrano i lavori per la nuova casa, pagata gra-zie al loro lavoro. Sui telefoni tengono le foto dei familiari ri-masti a casa, che vorrebbero rivederli ma vivono grazie alla loro assenza. u as

Da New York Amira Hass

Il sacriicio degli immigrati

Quattro giornalisti francesi (nella foto, insieme al presidente François Hollande a Evreux il 20 aprile) sono stati liberati il 19 aprile vicino alla frontiera turca. Didier François ed Edouard Elias erano stati rapiti ad Aleppo, Nicolas Hénin e Pierre Torrès a Raqqa. Erano ostaggi dello Stato islamico dell’Iraq e del levante, lo stesso gruppo che si ritiene tenga prigioniero il prete italiano Paolo Dall’Oglio, rapito nel luglio del 2013. Secondo fonti dell’opposizione siriana citate dalla stampa italiana, Dall’Oglio è ancora vivo. Nei tre anni di guerra in Siria sono morti almeno 29 giornalisti e almeno altri trenta sono ancora tenuti in ostaggio. u

Siria

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La stampaimbavagliata È stata sospesa per due settima-ne la pubblicazione di due quo-tidiani, Al Watan e Alam al Youm, che hanno infranto il di-vieto di parlare dei “video della cospirazione”. Secondo Al Ja-zeera, si tratta di video che do-cumenterebbero il tentativo di rovesciare il governo da parte di alcuni ex alti funzionari. Le au-torità avevano ordinato il “black out informativo” per non pre-giudicare le indagini in corso.

IN breve

Egitto Il 20 aprile Hamdin Sa-bahi, leader della sinistra, si è candidato alle presidenziali. Si-derà Abdel Fattah al Sisi.Guinea Bissau Saranno José Mario Vaz e Nuno Gomes Na-biam ad afrontarsi il 18 maggio nel ballottaggio delle elezioni presidenziali.Somalia Il 21 aprile un deputato è morto a Mogadiscio in un at-tentato rivendicato dal gruppo Al Shabaab. Il giorno dopo è sta-to ucciso un altro parlamentare.

NIgerIa

Lo statoha fallito “Il governo ha dimostrato una spaventosa incompetenza nella protezione dei cittadini”, scrive Leadership dopo il rapimento, il 14 aprile, di più di un centinaio di studentesse da una scuola di Chibok. Nella settimana dopo il sequestro decine di giovani so-no riuscite a scappare, ma se-condo il preside ancora 190 ra-gazze (un bilancio molto più alto di quello fornito dal governo) si trovano nelle mani dei rapitori, che si presume appartengano a Boko haram. Il gruppo ha riven-dicato gli attentati di Abuja del 14 aprile che, secondo The Punch, sarebbero stati compiu-ti in collaborazione con i terrori-sti somali di Al Shabaab.

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attacchi aereicontro al Qaeda Tra il 19 e il 21 aprile una serie di attacchi aerei nello Yemen cen-trale e meridionale ha causato la morte di 55 miliziani di diverse nazionalità, che si presume ap-partengano ad Al Qaeda nella penisola araba (Aqap). Durante le operazioni sono morti almeno tre civili, precisa l’agenzia Saba. Il governo di Sana’a ha dichiara-to che l’operazione è stata con-dotta in collaborazione con gli Stati Uniti, ma non ha speciica-to se siano stati usati droni, an-che se gli abitanti del luogo ne hanno avvistati alcuni prima che si svolgessero i raid.

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22 Internazionale 1048 | 24 aprile 2014

Africa e Medio Oriente

A quattro mesi dall’inizio del con-litto in Sud Sudan, dopo alcu-ne settimane di tregua, verso la metà di aprile sono scoppiati

nuovi scontri tra i soldati ribelli e l’esercito sudsudanese (i ribelli sono riusciti a otte-nere il controllo della città di Bentiu, un importante centro petrolifero). La ripresa dei combattimenti fa temere una carestia, causata dall’interruzione delle attività eco-nomiche e dalla migrazione di circa un de-cimo della popolazione. Le ragioni per le quali in Sud Sudan si continua a combatte-re sono almeno cinque.Il processo per tradimento Il motivo principale con cui l’opposizione giustiica la continuazione della guerra è il processo, tuttora in corso, a quattro prigionieri politi-ci accusati di aver cercato di rovesciare il governo del presidente Salva Kiir nel di-

cembre del 2013. Tra loro c’è anche Pagan Amum, l’ex segretario generale del Movi-mento popolare per la liberazione del Su-dan (Splm, al governo). Secondo i ribelli – che fanno capo all’ex vicepresidente Riek Machar, di etnia nuer – il rilascio dei prigio-nieri era una delle condizioni a cui era vin-colato il rispetto dell’accordo sul cessate il fuoco irmato il 23 gennaio. I quattro dete-nuti sono tutti originari degli stati più colpi-ti dalle violenze.Le scelte dei politici La continuazione della guerra è soprattutto il frutto delle scelte di Kiir e di Machar. L’ex vicepresi-dente ha rivelato di non aver mai ordinato la smobilitazione dei comandanti ribelli, neanche dopo l’accordo sul cessate il fuo-co. Anzi, dice di averli incoraggiati ad at-taccare Malakal e i pozzi petroliferi del go-verno. Sull’altro fronte, il governo è accusa-to dai mediatori dell’Autorità intergover-nativa per lo sviluppo (Igad) di “lagranti violazioni” del cessate il fuoco e di aver continuato a reclutare nuove leve da invia-re al fronte.Caratterizzazione etnica del conlitto Anche se sostengono che il conlitto non si basa sulle divisioni etniche, gli uiciali sud-sudanesi criticano Machar per gli slogan di

stampo razziale con cui ha mobilitato i nuer. Secondo i sostenitori di Machar, è ve-ro il contrario: il governo avrebbe tenuto comportamenti “genocidari”, reclutando uomini soprattutto tra i dinka, l’etnia del presidente Kiir. Entrambi gli schieramenti hanno armato i giovani e le milizie tribali nei territori sotto il loro controllo. Impunità per i crimini di guerra Mesi di spargimenti di sangue non hanno fatto al-tro che rendere ancora più spietati i com-battenti e i comandanti, responsabili di crimini di guerra come massacri di civili, esecuzioni, stupri, torture, saccheggi e in-cendi di villaggi. Fin dagli eventi avvenuti a Juba tra il 15 e il 18 dicembre – quando cen-tinaia di persone sono state massacrate e seppellite in fosse comuni – hanno conti-nuato a circolare notizie di atrocità com-messe nelle città di Malakal, Bor e Bentiu. Nella maggior parte dei casi le vittime o le loro famiglie non avranno nessuna possibi-lità di fare appello alla giustizia.Mancanza di soluzioni In Sud Sudan gli sforzi di costruzione dello stato sostenuti dalle Nazioni Unite e dai donatori interna-zionali non sono stati sostenuti dalla classe politica né dalla popolazione, che non ha iducia nelle istituzioni. Il partito di gover-no Splm è nel caos. La società civile è disor-ganizzata e in gran parte inattiva. Non c’è alcuna forma di discorso politico, neanche nei luoghi dove ci si aspetterebbe di trovar-lo, come le assemblee legislative regionali e nazionali o i mezzi d’informazione. C’è un clima di paralisi e paura. Mentre la crisi si aggrava, non s’intravedono soluzioni po-litiche. u gim

Perché in Sud Sudansi continua a combattere

A metà aprile sono scoppiati nuovi scontri tra governo e ribelli a Bentiu e a Bor. Nessuna delle due parti si è sforzata di rispettare il cessate il fuoco che era stato raggiunto il 23 gennaio

Daniel Van Oudenaren, Radio Tamazuj, Sud Sudan

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Nel campo profughi di Minkaman, il 24 marzo 2014

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Da sapere Ultime notizie

15-16 aprile 2014 Esercito e ribelli si scontrano a Bentiu. I ribelli ottengono il controllo della città, ma sono accusati di aver commesso atrocità, tra cui il massacro di duecento persone in una moschea.17 aprile A Bor un gruppo di giovani armati attacca una base dell’onu (che accoglie migliaia di sfollati) causando 58 morti.

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WU MING

L’ARMATA

DEI SONNAMBULI

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Parigi, 1793.

Te lo si conta noi, com’è che andò.

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24 Internazionale 1048 | 24 aprile 2014

Americhe

Mancano meno di due mesi all’inizio dei Mondiali: la partita inaugurale si gioche-rà il prossimo 12 giugno a

São Paulo, se lo stadio sarà completato (og-gi è ancora in costruzione). A questo punto è evidente che il torneo non eleggerà solo la migliore squadra di calcio del mondo, ma inluenzerà le elezioni presidenziali del 5 ottobre. Negli ultimi tre mesi la presidente Dilma Roussef ha perso punti nei sondaggi e ogni giorno i quotidiani gettano benzina sul fuoco. L’ultimo episodio è stato un du-plice attacco lanciato dall’opposizione con-tro Petrobras, la più grande azienda del pa-ese. Petrobras, parzialmente controllata dallo stato, è accusata di aver valutato male un investimento in una raineria del Texas. L’amministratrice delegata dell’azienda Maria das Graças Foster, chiamata a testi-

moniare davanti al senato, ha ammesso che è stato “un cattivo afare”, smentendo però che per la raineria siano state pagate le ci-fre insinuate dai critici. Un’indagine parla-mentare non ha evidenziato illeciti com-messi dai dipendenti dell’azienda. Al mo-mento della irma dell’accordo, nel 2006, Roussef era nel consiglio d’amministrazio-ne dell’azienda. L’azienda petrolifera è stata coinvolta anche in uno scandalo di riciclag-gio di denaro che ha travolto André Vargas, del Partito dei lavoratori (al governo). Var-gas ha respinto le accuse contro di lui, ma si è dimesso da viceportavoce della camera, mentre Petrobras ha collaborato con le in-dagini della polizia.

Buona reputazioneRoussef ha due avversari principali nella corsa alla presidenza. Il primo è Aécio Ne-ves, che grazie alla forza del Partito social-democratico può conquistare lo stato di São Paulo (il più grande e importante del pae-se), ma con una vita privata ricca di eccessi che potrebbe rivelarsi controproducente. L’altro avversario è Eduardo Campos, gio-vane ex governatore dello stato di Pernam-buco e capo del Partito socialista brasiliano. La carta vincente di Campos potrebbe esse-

re la candidatura a vicepresidente di Mari-na Silva, diventata popolare come ministra dell’ambiente durante il governo di Luiz Inácio Lula da Silva e sostenuta dai giovani e dagli abitanti delle grandi città.

In ogni caso Roussef è ancora in van-taggio, ma all’orizzonte si avvicina un’altra possibile tempesta: i Mondiali. La preoccu-pazione è forte in modo particolare a Rio de Janeiro, dove alcuni incidenti di percorso hanno messo in discussione la capacità del Brasile di organizzare un evento sportivo così complesso. Durante la Confederations cup del giugno 2013, la classe politica del paese è rimasta sconvolta dalla vista di cen-tinaia di migliaia di persone che sono scese in piazza per protestare contro la corruzio-ne nelle istituzioni. Nei giorni degli scontri tra i manifestanti e la polizia l’indice di gra-dimento di Roussef è sceso sotto il 30 per cento. Le proteste sono state imponenti so-prattutto a Rio de Janeiro, dove lo stato di abbandono delle infrastrutture ha alimen-tato la rabbia verso il governo. A questo bi-sogna aggiungere i risultati discutibili della politica di “paciicazione” delle favelas, una fantasiosa strategia per combattere la vio-lenza legata al traico di droga. Nella città le rapine e gli omicidi sono in aumento, e gli scontri a fuoco tra la polizia e i narcotrai-canti sono all’ordine del giorno. Le manife-stazioni del 2013 sono state animate dai giovani della classe media, mentre i resi-denti delle favelas sono rimasti (e lo sono ancora) fedeli al Partito dei lavoratori di Roussef. Ma è probabile che tutti si uniran-no alle critiche contro la presidente appena si veriicheranno i primi incidenti tra i turi-sti e le bande di Rio. Il 30 marzo i militari hanno occupato il Complexo da Maré, un insieme di favelas che si trova sulla strada per l’aeroporto. Inoltre, il governo ha stabi-lito che durante i Mondiali negli stadi ci sa-ranno più agenti antisommossa.

Se qualcosa andrà storto, Roussef do-vrà fare i conti con le sue responsabilità. Negli ultimi quattro anni, infatti, il paese ha rovinato la buona reputazione guadagnata durante i governi di Lula. Il messaggio delle manifestazioni è chiaro: il Brasile deve combattere la corruzione e concentrarsi sulla sanità, sull’istruzione e sui trasporti. Altrimenti, il governo ne pagherà le conse-guenze. u as

Misha Glenny è un giornalista britannico. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Mc-Maia (Mondadori 2008).

I Mondiali si avvicinanoe Roussef è in diicoltà

Il 12 giugno ci sarà l’incontro inaugurale del torneo. Se qualcosa andrà storto, la presidente brasiliana potrebbe avere brutte sorprese alle elezioni presidenziali di ottobre

Misha Glenny, Financial Times, Regno Unito

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Durante uno sgombero a Rio de Janeiro, 10 aprile 2014

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Internazionale 1048 | 24 aprile 2014 25

Cinquantacinque anni, iglia di un ex vicescerifo di El Paso, eletta governatrice del New Mexico nel 2010 dopo una carriera nella magistratura dello stato: Susana Martínez potrebbe essere la nuova speranza del partito repubblicano, scrive Mother Jones. Giornali e tv l’hanno battezzata “la nuova Sarah

Palin”, ma forse il paragone più indovinato è quello con il governatore del New Jersey Chris Christie, anche lui un repubblicano che guida uno stato democratico. Martínez si scaglia contro le tasse e il governo federale, i matrimoni gay, l’aborto e la legalizzazione della marijuana. Con il suo stile perentorio e i suoi modi vendicativi, non si è conquistata le simpatie dei politici locali, ma tra gli elettori del New Mexico ha un indice di gradimento tra il 50 e il 60 per cento. E i repubblicani hanno un disperato bisogno di recuperare terreno: “La guerra civile tra il Tea party e la dirigenza, insieme ai cambiamenti demograici in atto nel paese, rischiano di portare il partito all’estinzione”. I repubblicani continuano a perdere i voti delle donne non sposate e degli ispanici, le fasce di popolazione in più rapida crescita. u

Stati Uniti

La stella del New Mexico

Mother Jones, Stati Uniti

VENEZUELA

In piazza perla democrazia “Il 20 aprile centinaia di studen-ti sono scesi in piazza nella zona orientale di Caracas contro il governo di Nicolás Maduro per chiedere ‘la resurrezione della democrazia’ e la liberazione de-gli universitari arrestati dall’ini-zio delle proteste a febbraio”, scrive La Nación. “Resteremo per strada inché non riavremo indietro il nostro paese”, ha di-chiarato alla Reuters Djamil Jassir, un leader studentesco di 22 anni. Anche se il paese è divi-so, la posizione di Maduro non sembra in discussione: “Dopo un anno al governo continuo a rispettare il patto di iducia con i cittadini”, ha dichiarato il suc-cessore di Hugo Chávez.

AMERICA LATINA

Il continentepiù violento “Secondo l’ultimo rapporto dell’agenzia delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (Unodc), l’America Latina ha il tasso di violenza più alto del mondo”, scrive The Wall Stre-et Journal. In America Centra-le la situazione è particolarmen-te grave, a causa della lotta tra cartelli per il controllo delle rot-te della droga e degli scontri tra gang rivali. L’Honduras è il pae-se più pericoloso tra quelli non in guerra, con un tasso di 90,4 omicidi ogni centomila abitanti.

ARGENTINA

Rosarionel caos A metà aprile il governo argenti-no ha inviato duemila agenti della polizia federale a sorve-gliare i quartieri più umili di Ro-sario, nella provincia di Santa Fe, che negli ultimi mesi è di-ventata la città più violenta del paese. “Nella città, che si trova a trecento chilometri da Buenos Aires, il tasso di omicidi è quat-tro volte quello del resto dell’Ar-gentina: 22 morti violente ogni centomila abitanti”, scrive Igna-cio de los Reyes in un reportage per Bbc mundo. Secondo un’indagine dell’Universidad de Rosario, più dell’80 per cento degli omicidi è dovuto a dispute tra componenti delle bande gio-

vanili e non dipende dal narco-traico, comunque presente in città. Della violenza a Rosario parla anche il settimanale Pro-ceso, che si concentra sul feno-meno dei linciaggi. Secondo un’inchiesta pubblicata dal quo-tidiano La Nación, le cause dell’ondata di linciaggi sono so-prattutto due: la gente è stufa di essere derubata e i delinquenti non sono puniti.

STATI UNITI

Spari e mortia Chicago “Chicago è impotente?”, si chie-de il Chicago Tribune nell’edi-toriale. Nel ine settimana di Pa-squa sono state uccise nove per-sone e almeno 36 sono rimaste ferite in una serie di sparatorie in diverse parti della città. Tra i feriti ci sono cinque bambini tra gli 11 e i 14 anni. Dall’inizio del 2013 a Chicago sono state uccise 90 persone nell’ambito di guer-re e regolamenti di conti tra gang rivali. Il numero di omicidi è sceso di quasi la metà rispetto al 1992, quando il bilancio rag-giunse il record di 943 morti, ma gli omicidi legati alle gang sono molto più numerosi di allora. Nel 2013 lo stato dell’Illinois ha approvato una legge che per-mette ai cittadini di circolare con armi non in vista.

IN BREVE

Canada Il 18 aprile Rob Ford ha lanciato la sua candidatura per la rielezione a sindaco di Toron-to. Ford è ancora formalmente sindaco, ma è stato privato dei poteri dopo alcuni scandali lega-ti al consumo di droga e alcol.Bolivia Il 15 aprile il presidente Evo Morales ha presentato ri-corso alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja per ottenere un accesso all’oceano Paciico, perso dopo una guerra con il Ci-le alla ine dell’ottocento.Stati Uniti Il 18 aprile il governo ha rinviato una decisione deini-tiva sul nuovo percorso dell’ole-odotto Keystone Xl che collega il Canada al golfo del Messico.

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Omicidi ogni centomila persone, dati 2012, primi dieci paesi

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26 Internazionale 1048 | 24 aprile 2014

Asia e Paciico

è passata più di una settimana dal naufragio del Sewol, il traghetto coreano salpato da Incheon, vicino a Seoul, per l’isola di Jeju e afon-

dato nelle acque al largo dell’isola di Jindo il 16 aprile. Ogni giorno il bilancio delle vit-time sale e si riduce la speranza di salvare i dispersi, che sono più di duecento. L’even-to ha rivelato inoltre l’impreparazione del governo, che cambia costantemente le sue valutazioni sulla portata del disastro e gli annunci sulle attività di ricerca e di soccor-so. Le famiglie delle vittime stanno assi-stendo con rabbia e tristezza all’ineicien-za del sistema. I sudcoreani sono profon-damente afranti e sembrano sull’orlo di una depressione collettiva.

Appena entrato in carica, nel febbraio del 2013, il governo della presidente Park Geun-hye aveva dichiarato che la sicurezza

Seoul impreparata di fronte all’emergenza

Il governo sudcoreano ha risposto in modo inadeguato al naufragio del traghetto Sewol. E ha scatenato la rabbia dei familiari delle vittime, che si teme siano più di trecento

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Familiari dei dispersi sull’isola di Jindo, Corea del Sud, 18 aprile 2014

nazionale era una delle sue priorità. nel febbraio scorso ha perino modiicato la legge per migliorare il sistema di risposta alle catastroi. Secondo la nuova norma, in caso di disastro nazionale il ministero della sicurezza e della pubblica amministrazio-ne avrebbe dovuto istituire immediata-mente una centrale per il controllo delle operazioni. E l’amministrazione ha tenuto a sottolineare che avrebbe assunto le fun-zioni prima distribuite tra diverse agenzie e le avrebbe integrate in un unico sistema. ma dopo l’afondamento del Sewol questa funzione di controllo è completamente mancata. La centrale si è limitata a riporta-re i dati raccolti da altre agenzie e, nono-stante questo, le informazioni erano spesso imprecise e hanno alimentato ulterior-mente la siducia e la rabbia popolari. A un certo punto sono stati perino scambiati gli elenchi dei passeggeri scomparsi e di quel-li soccorsi.

La stessa approssimazione è emersa nella reazione del governo subito dopo l’in-cidente. La confusione su chi doveva dare ordini a terra è stato il motivo principale per cui i soccorritori hanno sprecato la cosid-detta “ora d’oro”, il breve lasso di tempo dopo il naufragio di una nave decisivo per la

sorte dei passeggeri. Le riunioni per fare il punto della situazione sono state inutil-mente divise tra il ministero degli oceani e della pesca e la guardia costiera, e la discus-sione su chi dovesse assumere il comando ha impedito un intervento tempestivo.

Condotta imbarazzanteI mezzi d’informazione stranieri stanno fornendo tutti i dettagli imbarazzanti di una condotta da paese arretrato, dimo-strando al mondo intero quanto sono inef-icienti il sistema di risposta alle emergen-ze della Corea del Sud e il suo modo di ge-stire le crisi. I familiari delle vittime ce l’hanno con la Casa blu (la presidenza). So-no infuriati per gli annunci inaidabili del governo e per la lentezza delle ricerche e dei soccorsi.

Il capitano del Sewol è stato il primo a lasciare la nave al momento del naufragio, mentre i passeggeri, che avevano ricevuto l’ordine di rimanere al loro posto, aspetta-vano di essere salvati quando la nave ha cominciato a scivolare tra le onde gelide. Fino a quel punto, la tragedia era il naufra-gio del traghetto. ma subito dopo se n’è sco-perta un’altra: quella dell’assoluta inade-guatezza della risposta del governo. u bt

Tiraspol

Da sapere L’equipaggio sotto accusa

u A bordo del traghetto Sewol, afondato il 16 aprile 2014 al largo dell’isola di Jindo, c’erano 476 passeggeri, per la maggior parte studenti in gita. I sopravvissuti sono 176. A quanto pare il naufragio sarebbe stato causato da una ma-novra sbagliata compiuta mentre era ai co-mandi una persona poco esperta che non ave-va mai navigato in quel tratto di mare. Il capita-no, inquisito insieme ad altri componenti dell’equipaggio, ha abbandonato la nave dopo aver ordinato ai passeggeri di rimanere ai loro posti. Il 21 aprile la presidente Park Geun-hye ha deinito il comportamento “incomprensibi-le, inaccettabile ed equivalente a un omicidio”.

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28 Internazionale 1048 | 24 aprile 2014

Cina

Un paesecontaminato Secondo un rapporto pubblicato dal ministero dell’ambiente ci-nese, un quinto dei terreni colti-vati in Cina è inquinato, scrive il South China Morning Post. Il 16 per cento del suolo del paese contiene quantità eccessive di agenti inquinanti e la percentua-le sale al 20 per quanto riguarda le terre coltivate. La maggior parte dei terreni contaminati si trova sulla costa orientale, dove c’è un’alta concentrazione di fabbriche. Le sostanze inqui-nanti presenti in maggior quan-tità sono il cadmio, il nickel e l’arsenico. Il rapporto è frutto di uno studio, cominciato nel 2005 e inito nel dicembre del 2013, che ha analizzato centomila campioni di terra. “Ma queste sono solo le prime considerazio-ni, la situazione potrebbe essere anche peggiore”, avverte Chen Shibao, del ministero dell’agri-coltura, esperto del trattamento dei metalli pesanti nel suolo.

Chi vuole zittire Hamid Mir

In molti vorrebbero mettere a tacere una voce come quella di Hamid Mir, il giornalista di Geo Tv ferito in un at-tentato il 19 aprile a Karachi. Mir stes-

so, ha rivelato suo fratello, era convinto che l’Isi (l’intelligence militare) stesse traman-do per eliminarlo e aveva detto che se gli fosse successo qualcosa sicuramente ne sa-rebbe stata responsabile l’agenzia. Diversi loschi personaggi che si aggirano nei corri-doi del potere avrebbero buoni motivi per nutrire rancore nei suoi confronti. Più di qualunque altro giornalista Mir ha denun-ciato il dramma dei beluci scomparsi, accu-

sando esplicitamente i servizi segreti di aver rapito e detenuto centinaia di persone. Spetta ora allo stato dimostrare oltre ogni ragionevole dubbio di non avere niente a che fare con il tentato omicidio di Mir. L’ul-tima volta che l’Isi è stato accusato di aver preso di mira un giornalista, Syed Saleem Shahzad, l’inchiesta che ne è risultata è sta-ta un’operazione di facciata che non ha chiarito nulla. Non possiamo tollerare che succeda di nuovo. Se ci sarà un’inchiesta, dovrà essere condotta da persone total-mente estranee ai servizi segreti. Anche le indagini su altri attacchi contro giornalisti, tra cui il recente tentativo di uccidere Raza Rumi, non hanno portato a nulla. Non ci si può idare del governo. Non si sa se si è trat-tato di semplice incompetenza o di qualco-sa di più grave, ma una risposta deinitiva è ormai il minimo dovuto alla comunità dei giornalisti. Anche il portavoce dell’esercito, pur criticando le accuse all’Isi, ha chiesto un’inchiesta indipendente sul caso di Mir.

Le circostanze dell’attentato fanno pen-sare al coinvolgimento di persone molto

potenti. Chi gli ha sparato conosceva i mo-vimenti di Mir. Il fatto che a Karachi fosse atteso Pervez Musharraf rende la mancan-za di sicurezza ancora più sorprendente. E non è la prima volta che Mir scampa a un attentato. Nel 2012 si è salvato per miracolo da una bomba piazzata sotto la sua auto dai taliban. Ma la vera responsabilità è di uno stato che prende di mira i giornalisti o non li protegge. È nostro dovere non accettare più il suo silenzio e mostrare lo stesso coraggio di Hamid Mir. u bt

The News, Pakistan

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lutto sul tetto del mondo

Il 22 aprile, in segno di rispetto per i 16 colleghi rimasti uccisi quattro giorni prima da una va-langa sull’Everest, gli sherpa ne-palesi hanno deciso di rinuncia-re alla stagione di lavoro. Gli uo-mini che accompagnano gli al-pinisti sulla cima più alta del mondo hanno anche chiesto al governo di Kathmandu di au-mentare il risarcimento di 400 dollari oferto alle famiglie delle vittime, scrive India Today.

in breve

Birmania Il 21 aprile Win Tin, leader storico dell’opposizione birmana e confondatore con Aung San Suu Kyi della Lega na-zionale per la democrazia (Lnd), è morto a Rangoon a 84 anni.Cina Il 18 aprile quattro attivisti anticorruzione sono stati con-dannati a Pechino a pene com-prese fra i due e i tre anni e mez-zo di prigione.

Il 19 aprile il ministro della difesa giapponese Itsunori onodera ha inaugurato l’inizio dei lavori di costruzione di una stazione radar sull’isola di yonaguni, vicino alle isole Senkaku, reclamate dalla Cina (che le chiama Diaoyu). Si tratta della prima postazione militare giapponese a ovest dell’arcipelago in più di quarant’anni e servirà a “difendere le isole che sono parte del territorio giapponese”. La mossa rischia di provocare l’ira di Pechino, che lì nel 2013 aveva stabilito una zona di identiicazione per la difesa aerea. u

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Il ministro Itsunori Onodera a Yonaguni, 19 aprile 2014

asia e Paciico

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30 Internazionale 1048 | 24 aprile 2014

Le attività commerciali erano spar-se in ogni angolo di Roma. Un ri-storante a pochi passi dal senato, un bar ai confini dell’elegante

quartiere diplomatico, una gelateria vici-nissima al Pantheon. Perino un hotel non lontano dalla statua di Giuseppe Garibaldi, l’eroe dell’unità d’Italia. Nella capitale, una città dove le istituzioni e il turismo sono il motore dell’economia locale, queste picco-le aziende sembravano innocue, fino a quando un’operazione della polizia ha sve-

lato un giro di riciclaggio di denaro per con-to di organizzazioni maiose. Solo nei mesi di gennaio e febbraio del 2014 le autorità italiane hanno sequestrato nella capitale 51 milioni di euro tra proprietà e altri beni le-gati alla mafia, e probabilmente si tratta solo della punta dell’iceberg delle attività lecite controllate dai clan maiosi a Roma.

L’operazione di polizia ha svelato una piccola parte di quella che le autorità de-scrivono come un’economia criminale in rapida espansione anche nel resto d’Euro-pa. In un’epoca segnata dall’austerità e con l’Italia sprofondata nei debiti, il crimine or-ganizzato continua a gestire montagne di denaro. I clan hanno approittato della crisi economica per accelerare la loro iniltrazio-ne in attività legali fuori delle loro roccafor-

ti, e ora sono presenti nel settore commer-ciale a Roma e Milano ma anche in Spagna, Scozia, Germania, Francia e Paesi Bassi. “Negli ultimi vent’anni hanno avuto a di-sposizione grandi liquidità”, spiega Michele Prestipino, procuratore antimaia che ha guidato il maxisequestro. “Per loro il pro-blema è che hanno troppo denaro e non possono investirlo tutto. Praticamente l’op-posto di quel che accade agli altri imprendi-tori”.

Un tempo in Europa si pensava che i clan maiosi fossero un problema esclusivamen-te italiano, e molti italiani erano convinti che la piaga esistesse solo nel meridione, ma la scoperta di attività maiose in tutto il continente mostra una realtà diversa. A febbraio, per rispondere al fenomeno dell’accumulo di proprietà e aziende in Eu-ropa nelle mani dei clan, il parlamento eu-ropeo ha approvato una direttiva che sem-pliica la conisca dei beni maiosi. Secondo gli esperti dell’antimaia, l’Unione europea dovrebbe introdurre leggi più restrittive, simili a quelle già in vigore in Italia, e au-mentare l’impegno della polizia per contra-stare il fenomeno. Oltre alle maie italiane, spiegano, anche altre organizzazioni crimi-

L’economia criminale alla conquista dell’Europa

L’Italia ha leggi antimaia molto severe, ma il resto del continente è impreparato e più vulnerabile

Jim Yardley, The New York Times, Stati Uniti

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Uno dei locali della catena Pizza Ciro messi sotto sequestro a Roma, 6 aprile 2014

Visti dagli altri

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nali provenienti dalla Cina, dalla Russia e dall’Albania si stanno iniltrando nell’ambi-to delle attività lecite in Europa. “Le demo-crazie sottovalutano la lotta alla mafia”, spiega Giuseppe Lumia, senatore e mem-bro della commissione antimaia italiana. “La criminalità organizzata è diventata glo-bale. Fa afari e ricicla denaro oltrepassando le frontiere tra diversi paesi, mentre le auto-rità antimaia restano limitate all’ambito nazionale e locale”.

È molto diicile determinare la quantità di denaro contante di provenienza illecita investito dalle organizzazioni criminali ita-liane in un anno, e le stime variano dai dieci ai 220 miliardi. Secondo la Confesercenti il crimine organizzato investe 130 miliardi all’anno, ovvero il 7 per cento del pil italia-no. L’associazione ha inoltre stimato che le riserve di contanti delle maie ammontano a 65 miliardi di euro. “Dispongono di som-me incredibili”, spiega David Ellero, spe-cialista delle maie italiane dell’Europol, l’agenzia europea per la lotta al crimine. “Alcune indagini hanno evidenziato lussi di denaro così ingenti che anziché contare le banconote era più semplice pesarle”.

Stando alle ultime valutazioni la più ric-ca organizzazione criminale italiana è la ’ndrangheta, che ormai controllerebbe la maggior parte del traico di cocaina in Eu-ropa. Gli esperti afermano che le cosche calabresi sono attive in Spagna, Germania, Francia, Svizzera e Regno Unito. La camor-ra è molto presente nella Spagna meridio-nale, e la mafia siciliana è attiva in tutta Europa. Nelle loro regioni di origine le ma-ie italiane funzionano spesso come stati ombra, iniltrandosi nella politica e control-lando il territorio attraverso la violenza e l’intimidazione. Secondo gli analisti questo tipo di dominio locale è il motivo per cui le maie sono pesantemente coinvolte in set-tori come l’edilizia, le miniere, la gestione dei rifiuti e i trasporti, mentre la loro in-luenza politica è utile per garantire ogni genere di appalti alle loro aziende.

Nell’Italia del nord e in altri paesi euro-pei i clan maiosi hanno un impatto inferio-re, soprattutto perché non possono contare sulla stessa inluenza politica e territoriale. Tuttavia un rapporto presentato in aprile ad alcuni funzionari europei ha concluso che i tentacoli della maia afondano in ogni set-tore: alberghi, locali notturni, proprietà im-mobiliari, scommesse, edilizia, distribuzio-ne di benzina, abbigliamento, gioielleria, settore alimentare, salute, energie rinnova-

bili. “Mostrano una preferenza per alcuni settori speciici”, spiega Michele Riccardi, ricercatore di Transcrime, l’istituto di ricer-ca milanese che ha compilato il rapporto. “Questi settori sembrano più vulnerabili e caratterizzati da una regolamentazione più blanda”.

Le leggi antimaia italiane sono tra le più dure in Europa, e anche per questo i clan hanno deciso di iniltrarsi in altri paesi eu-ropei. La Germania si è dimostrata un terre-no particolarmente fertile per le attività maiose. Gli immigrati italiani, di cui molti provenienti dalla Calabria, hanno comin-ciato a trasferirsi in Germania negli anni cinquanta. Dopo la caduta del muro di Ber-lino, nel 1989, un boss italiano è stato inter-cettato mentre ordinava ai suoi luogote-nenti di partire immediatamente per la Germania orientale e “comprare tutto”.

In aprile il settimanale tedesco Der Spie-gel si è occupato di un processo in corso a

Colonia in cui gli inquirenti hanno accusato alcuni criminali legati alla maia siciliana di aver rubato milioni allo stato presentando fatture false di aziende edili di facciata. Se-condo le autorità tedesche la presenza del crimine organizzato è una minaccia reale per l’edilizia del paese.

Lo Spiegel ha citato un rapporto coni-denziale dell’uicio criminale della polizia federale che accusa lo stato tedesco di inca-pacità nell’individuare gli interessi maiosi. Secondo il rapporto, nell’ultimo decennio le organizzazioni criminali maiose avreb-bero guadagnato circa 123 milioni in Ger-mania, e solo otto milioni sarebbero stati coniscati. La polizia tedesca ha scoperto che la maia siciliana si è iniltrata nell’edi-lizia, la camorra vende prodotti contrafatti e la ’ndrangheta commercia in prodotti ali-mentari adulterati come l’olio d’oliva. In Germania i clan controllano almeno 300 pizzerie, e usano queste attività per inserir-si nell’economia legale.

Un tempo la Germania e altri paesi eu-ropei negavano l’esistenza del problema, ma adesso la loro consapevolezza è mag-giore. A febbraio le autorità italiane e tede-sche hanno messo in atto un’operazione

congiunta contro la maia arrestando una decina di sospetti nei due paesi, accusati di appropriazione di fondi europei per l’agri-coltura. Due anni fa l’Unione europea ha creato una commissione antimaia, e nel 2011 l’Europol ha ammesso di avere infor-mazioni insuicienti sulle attività della ma-ia. Nel 2013 è uscita un’analisi commissio-nata dall’Europol secondo cui i clan minac-ciano i settori legali perché “possono per-mettersi di operare in perdita e creare nel lungo periodo una situazione di semi-mo-nopolio contraria ai princìpi basilari del li-bero mercato”. Eppure perfino in Italia molte persone continuano a considerare la maia un problema legato esclusivamente al sud. Quando nel 2010 lo scrittore Rober-to Saviano ha denunciato in tv le iniltrazio-ni maiose nel nord, il quotidiano milanese il Giornale ha risposto con una petizione online intitolata “Caro Saviano, il nord non è maioso”.

Vantaggi per tutti“Le organizzazioni criminali operano tutte a Roma e nel nord”, ha spiegato Saviano in una recente intervista. “Al sud la loro pre-senza è di tipo militare, mentre a Roma e nel nord è economica”. I clan maiosi sono da tempo una presenza discreta a Roma, e i negozianti hanno spesso denunciato tenta-tivi di estorsione e richieste di pizzo. Tutta-via la recente operazione delle forze dell’or-dine ha mostrato che oggi le bande crimina-li investono direttamente nelle attività commerciali. Tra i 23 ristoranti messi sotto sequestro a gennaio c’è anche Pizza Ciro, una famosa catena di pizzerie romane. “Non importa quanto contante c’è in cassa alla ine della giornata”, spiega Enrico Fon-tana, direttore dell’associazione antimaia Libera. “L’obiettivo è riciclare denaro”.

Il procuratore antimaia Prestipino con-corda sul fatto che il riciclaggio di denaro è molto importante, e aggiunge che i boss stanno cercando nuovi canali per avvicina-re i leader politici. Prestipino spiega che nessun politico può incontrare direttamen-te un boss mafioso, ma investendo negli esercizi commerciali la maia può attirare una serie di imprenditori presenti a Roma, che a loro volta potrebbero avere rapporti alla luce del sole con politici e funzionari pubblici. “È un sistema che genera vantaggi per tutti”, spiega Prestipino. “Il commer-ciante incassa il denaro, il maioso non deve venire ino a Roma e il politico non si sporca le mani”. u as

La Germania e altri paesi un tempo negavano l’esistenza del problema

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I latitanti si rifugiano in Costa Azzurra

Sono sempre di più i maiosi e i camorristi che scelgono la Francia meridionale per fare afari o per nascondersi

Paul Barelli, Le Monde, Francia

La latitanza di Antonio Lo Russo, capo di uno dei clan della camor-ra, si è conclusa in un bar di Niz-za alle 19 di martedì 15 aprile. Lo

“Sciacallo della Campania”, 33 anni, è uno dei cento criminali più ricercati in Italia ed è stato avvicinato con discrezione dalle forze dell’ordine mentre era seduto a bere qualcosa. Non era armato e non ha opposto alcuna resistenza, anche perché non ne ha avuto il tempo.

L’arresto, che ha coinvolto oltre ai cara-binieri anche la polizia francese, è scattato poche ore dopo che il latitante era stato in-dividuato. Da tre settimane una sessantina di agenti lavoravano a questa operazione, avviata da una nota informativa dei carabi-nieri.

Il sospettato, “che non ha legami con gli ambienti del posto, era venuto in Costa az-zurra per nascondersi”, ha precisato il co-

lonnello Sylvain Noyau, capo della sezione ricerche della polizia marsigliese. “Le au-torità italiane ci avevano avvisato già da qualche settimana della possibilità che si trovasse nella regione delle Alpi Maritti-me”. Il clan Lo Russo, accusato di estorsio-ne, gestione di case da gioco illegali, trai-co di droga e omicidi, è stato uno dei prota-gonisti delle guerre tra clan nel quartiere napoletano di Scampia per il controllo del traico della droga.

Modelli lessibiliAntonio Lo Russo, contro il quale nel 2011 era stato emesso un mandato di arresto eu-ropeo, era a Nizza con suo cugino Carlo Lo Russo, detto “Lellè”, anche lui ricercato. In assenza di traduzione francese dei manda-ti di arresto, i due presunti camorristi do-vranno attendere il 22 aprile, data di com-parizione presso la corte d’appello di Aix-en-Provence, per sapere se saranno conse-gnati alle autorità italiane.

La magistratura francese ha rinviato, per le stesse ragioni, l’udienza relativa a un altro italiano, ailiato alla ’ndrangheta, Vi-to Laterza, arrestato il 16 aprile a Mentone.

Era destinatario di un mandato d’arresto europeo per traffico di stupefacenti tra l’America Latina, i Paesi Bassi e la Germa-nia, paese in cui la ’ndrangheta ha una for-te presenza.

L’arresto di questi tre ricercati a Nizza e Mentone conferma che la regione francese delle Alpi Marittime, al conine con l’Italia, è tra le preferite dalle organizzazioni cri-minali calabresi, napoletane e siciliane. Sono molti a scegliere questa “zona di rifu-gio per latitanti. A volte”, conida un inqui-rente della polizia giudiziaria di Nizza, “i ricercati ricevono il sostegno di altri crimi-nali italiani che si sono inseriti in modo discreto nella comunità italiana in Fran-cia”.

L’aspetto più preoccupante, però, è che gli ailiati alla ’ndrangheta o alla camorra non fanno parlare di loro. “È segno che so-no entrati in azione”, ironizza il poliziotto. “Sono iniltrati in aziende di cui possiedo-no delle partecipazioni. Sono presenti so-prattutto nel settore delle ristrutturazioni e dei lavori pubblici, dove investono anche per poter riciclare il denaro sporco. E per fare questo cercano di corrompere i politici coinvolti nella progettazione dei lavori pubblici”.

Le stesse considerazioni sono condivi-se dai servizi specializzati per la regione della Costa Azzurra, che preferiscono par-lare di “organizzazioni criminali” invece che di “maie”. “Il radicamento nelle Alpi Marittime delle organizzazioni criminali è molto complesso e diversiicato. Ognuna lavora in modo lessibile e si adatta al con-testo economico della regione”, spiega Philippe Frizon, capo della polizia giudi-ziaria di Nizza.

Per combattere contro queste organiz-zazioni gli specialisti dell’antimaia cerca-no di condurre indagini trasversali, in col-laborazione con altri paesi. Spesso si tratta di sorvegliare i criminali e le loro organiz-zazioni piuttosto che indagare sui singoli crimini. “Occorre adattarsi alla Costa Az-zurra”, sottolinea il colonnello Gaël Mar-chand, comandante del raggruppamento delle Alpi Marittime. “Qui si può percepire la presenza di tutti i tipi di maia, ma non sempre si può dimostrare. Credo non ne manchi nessuna: i ceceni, gli albanesi, i ko-sovari, i russi, le maia siciliana e quella calabrese”. Proprio per questo da qualche mese la polizia francese ha creato una se-zione antimaia per la regione Provenza-Alpi-Costa Azzurra. u gim

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Aix-en-Provence, Francia. Antonio Lo Russo (a sinistra) il 16 aprile 2014

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L’Italia mette in venditaisole e palazzi

Il piano del governo per ridurre il debito prevede di cedere ai privati parte del patrimonio immobiliare dello stato

Pablo Ordaz, El País, Spagna

Lo stato italiano è come un vecchio marchese che possiede centinaia di palazzi, ma per colpa di una ge-stione poco razionale è costretto

a vivere in un appartamento in aitto e a chiedere soldi in prestito. Senza contare un ininito patrimonio architettonico, in Italia lo stato possiede beni immobili per un valo-re di oltre 281 miliardi di euro (quattro volte la fortuna di Bill Gates), eppure spende un miliardo all’anno per aittare sedi e uici. Il governo presieduto da Matteo Renzi, pron-to a promuovere il piano di privatizzazioni dell’ex presidente del consiglio Enrico Let-ta, vorrebbe anche cedere una parte del pa-trimonio immobiliare pubblico: si va da una bellissima isola abbandonata nella laguna di Venezia (oferta in concessione per 99 anni) a un castello alla frontiera con la Slo-venia. L’obiettivo è usare il ricavato per ri-durre il debito pubblico. Ma prima, come il vecchio marchese smemorato, dovrà ricor-dare quanti palazzi ha e dove ha messo le chiavi.

Sembra incredibile, ma lo stato italiano ignora la vera portata del suo patrimonio. Secondo alcuni istituti privati, la stima di 281 miliardi di euro presentata in un recente rapporto del ministero dell’economia e del-le inanze potrebbe salire a 400 miliardi di euro, quasi il 25 per cento del pil. Prima che Renzi diventasse presidente del consiglio, i governi guidati da Mario Monti ed Enrico Letta, spinti anche dall’Unione europea che chiedeva di trovare risorse a ogni costo, hanno cercato di afrontare la questione. Il rapporto del ministero dell’economia afer-ma che “la gestione eicace del patrimonio pubblico può svolgere un ruolo importante nel contenimento del deicit e nella riduzio-ne del debito pubblico”. Così, il governo ha deciso di censire i suoi beni immobiliari. E

non sono mancate le sorprese. Nonostante le richieste del ministero dell’economia, il 40 per cento delle pubbliche amministra-zioni (compresa la presidenza del consiglio) non ha ancora comunicato i dati richiesti. Inoltre, pur avendo a disposizione un patri-monio immobiliare immenso, molte am-ministrazioni prendono in affitto uffici o interi ediici. Un aitto (e qui arriva l’altra clamorosa sorpresa) che troppo spesso non pagano nemmeno. E il patrimonio immobi-liare continua ad aumentare nonostante la crisi.

Pur disponendo di 634mila immobili per un totale di 300 milioni di metri quadri – costituiti da caserme abbandonate e uici vuoti un po’ ovunque –, lo stato italiano è come il marchese moroso e scapestrato che non si fa mancare nulla. L’aspetto più grave, o la quadratura del cerchio, è che questa in-sensatezza non sembra solo dovuta alla pi-gra burocrazia italiana, come dimostra un caso che negli ultimi mesi ha sollevato tante polemiche: la camera dei deputati ha irma-to un nuovo contratto di locazione con Ser-gio Scarpellini, che a Roma è considerato il re del mattone, per aittare per nove anni (rinnovabili per altri nove) alcuni ediici nel

centro della capitale per un valore totale di più di venti milioni all’anno. I sospetti che si tratti come minimo di un episodio di cattiva gestione sono stati confermati dallo stesso Scarpellini che, a 76 anni e con una fortuna incalcolabile, è il padrone di casa della casta e non ha bisogno di nascondersi (l’Italia è fatta così, a volte è profondamente miste-riosa e altre volte estremamente trasparen-te). In un paio di interviste Scarpellini ha ammesso: “Con i soldi che mi ha pagato per gli aitti, più di 369 milioni di euro, la came-ra avrebbe potuto comprarsi un paio di pa-lazzi, ma preferiscono continuare a pagare l’aitto”. Il re del mattone ha svelato anche cosa c’è dietro questa operazione: “Durante la campagna elettorale vengono qui bian-chi, rossi e verdi e noi un contributo (si parla di 650mila euro negli ultimi dieci anni ) lo diamo sempre. A tutti. Gli imprenditori ro-mani fanno così”.

Soddisfare le aspettativeÈ stato a questo punto che è arrivato Renzi. Avendo fatto lo stesso a Firenze, il sindaco dell’Italia conosce i beneici non solo eco-nomici della vendita di vecchie caserme vuote e abbandonate. Per convinzione o per obbligo a Renzi non resta che proseguire, accelerare e perino ampliare il piano di pri-vatizzazioni annunciato a novembre dall’ex presidente del consiglio Enrico Letta. L’obiettivo è incassare dagli otto ai dieci mi-liardi di euro mettendo in vendita una parte delle aziende pubbliche più importanti, co-me Finmeccanica (che si sbarazzerebbe della parte relativa al trasporto ferroviario per concentrarsi sul settore aerospaziale e della difesa), Fincantieri (il più importante complesso cantieristico navale d’Europa), le poste, l’Enav (l’azienda che controlla il traico aereo) e parte dell’Eni.

Se a novembre Letta doveva soddisfare Bruxelles mantenendo il deicit sotto con-trollo e riducendo il debito pubblico, Renzi deve soddisfare anche le aspettative create con la sua promessa di un bonus mensile di 80 euro a tutti i dipendenti con uno stipen-dio annuale dagli 8 ai 26mila euro. È un in-centivo al consumo e un riconoscimento del settore più colpito dalla crisi, ma anche una disperata fuga in avanti. Vendendo pa-lazzi, isole abbandonate, lussuose auto blu e aziende che l’amministrazione non è in grado di gestire, Renzi vuole soprattutto evitare che la crescente separazione tra la politica e i cittadini si trasformi in un divor-zio alle prossime elezioni europee. u fr

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Matteo Renzi, 25 febbraio 2014

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Le opinioni

G abriel García Márquez amava raccon-tare di essere arrivato in Messico, dal-la sua Colombia, il giorno della morte di Ernest Hemingway. Certi momenti sono deiniti da una perdita: il 17 apri-le 2014 è morta l’unica persona che

avrebbe scritto bene questa notizia. Fin dai primi arti-coli pubblicati a Cartagena de Indias e a Barranquilla, García Márquez decise che la realtà è una parte della mitologia, piena di cose diicili da provare e indimen-ticabili come queste: non c’è niente di più drammatico di una nera altezzosa, suicidarsi è un modo di essere cinese e lo zucchero sussurra salendo sulle arance. Do-po l’omicidio del politico liberale Jorge Eliécer Gaitán, nel 1948, la stampa colombiana fu sottoposta a una for-te censura. Non potendo descrivere i fatti, il giovane García Márquez raccontò la vita intima di una isarmo-nica, i problemi di traico dovuti ai morti e lo sconcerto causato da una mucca che si credeva urbana. Come il suo maestro Daniel Defoe, García Márquez rinnovò il giornalismo per rinnovare la letteratura. L’autore di Ro-

binson Crusoe arrivò a sessant’anni per descrivere lo sconcerto provocato da un’impronta sulla sabbia di un’isola deserta. Nato sotto il fortunato segno dei Pesci, García Márquez non aspettò così a lungo per trovare il suo naufrago: José Salgar, colonna del quotidiano co-lombiano El Espectador, chiese al giovane giornalista di Aracataca di scrivere la storia di un naufrago (Rac-conto di un naufrago uscì in quattordici puntate e si ba-sava sulle interviste che Márquez fece a un sopravvissu-to di un naufragio). García Márquez si accese una siga-retta pensando a una scusa per riiutare, ma ebbe una rivelazione: poteva scrivere quella storia in prima per-sona, come Crusoe sulla sua isola.

García Márquez visse il giornalismo in chiave cer-vantina. I dati che il mondo presenta a don Chisciotte sono arbitrari, itti, caotici: sono “notizie”. Dal suo pun-to di vista, l’epoca è impazzita; dal punto di vista dell’epoca, a essere impazzito è lui. Grazie a questo sfa-

samento capiamo tutto due volte: con lo sguardo alluci-nato di don Chisciotte e con la sensatezza dell’ambien-te circostante. Il risultato è la letteratura moderna. A 53 anni, Alonso Quijano (il vero nome di don Chisciotte) conclude la sua avventura di lettore assoluto trasfor-mando la realtà in libro. A diciannove anni, García Már-quez iniziò la sua avventura raccontando la realtà come una favola.

In un buon reportage i dettagli sono tutti indiscuti-bili e la trama ha la portata eccessiva tipica di ciò che è logico perché è successo e può essere provato. Con que-sta strategia García Márquez scrisse due capolavori del romanzo breve: Nessuno scrive al colonnello e Cronaca di una morte annunciata. Il narratore è il giornalista d’in-chiesta delle sue stesse creazioni. I dati sono così esatti da impedirci di dubitare del resto. Nelle sue lezioni alla Fundación nuevo periodismo iberoamericano, Gabo ricordava che “l’etica deve accompagnare il giornali-smo come il ronzio accompagna il calabrone”. L’episo-dio di Cent’anni di solitudine in cui Remedios la bella sale in cielo non è un trionfo dell’esagerazione, ma dell’esattezza. La ragazza, di per sé eterea, esce in un cortile dove le lenzuola sono stese ad asciugare come vele di una nave. La scena ha già imboccato la strada giusta, ma manca di “realtà”. Un giornalista che si è oc-cupato di omicidi sa che se la vittima indossa calzini di colori diversi è perché si è vestita al buio. Con la stessa precisione, García Márquez cercò un dato per puntella-re la sua fantasia. Avvicinò a Remedios una tazza di cioccolata calda, un liquido denso e ascendente, ottimo come combustibile. Quando Remedios la bevve, non ci fu più verso di fermarla. Il cronista dell’afabulazione scriveva rapporti unici: la spesa militare del pianeta po-teva essere usata per profumare di sandalo le cascate del Niagara, la conquista della Luna si era chiusa solo con una bandiera piantata in una terra senza venti.

Ci sono cose il cui valore dipende dal desiderio. Nel primo capitolo di Cent’anni di solitudine, García Már-quez ofrì un’immagine esclusiva dei tropici: il ghiac-cio è la grande invenzione dei nostri tempi. A scoprire l’acqua tiepida sono buoni tutti: reinventare il ghiaccio fu un colpo di genio, la notizia che poteva dare solo il più grande giornalista dell’immaginazione latinoame-ricana. u fr

L’inventore del ghiaccio

Juan Villoro

JUAN VILLORO

è un giornalista e uno scrittore messicano. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è La piramide (Gran vía edizioni 2014). Questo articolo è uscito sul quotidiano Reforma.

García Márquez si accese una sigaretta pensando a una scusa per riiutare, ma ebbe una rivelazione: poteva scrivere la storia del naufrago in prima persona, come Crusoe sull’isola

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Le opinioni

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Nel 1970, quando la Cina era nel pieno della rivoluzione culturale, Zhang Hongbing, un ragazzo di 16 anni di Guzhen, nella provincia di Anhui, prese una decisione fatale. Durante una discussione in famiglia sua ma-

dre, Fang Zhongmou, criticò Mao Zedong perché inco-raggiava il culto della personalità. Il marito e il iglio, convinti che le idee della donna fossero controrivolu-zionarie, la denunciarono, e Zhongmou fu arrestata. Due mesi dopo fu fucilata. Nel 1980, quattro anni dopo la morte di Mao e la ine della rivoluzione culturale un tribunale locale stabilì che Fang Zhongmou era innocente. Negli an-ni che seguirono, Zhang Hongbing e suo padre evitarono di parlare dell’accaduto. Solo dopo essere andato in pensione, suo padre tornò sulla vicenda: dato che all’epoca era lui l’adulto, se ne assunse la responsabilità.

Nel 2013, all’età di 59 anni, Zhang ha raccontato alla stampa di essere stato perseguitato dai rimorsi per tutta la vita. Per anni ha avuto crisi di pianto. “Conti-nuo a sognarla”, ha detto, “giovane com’era allora. Mi inginocchio e le prendo le mani. ‘Mamma’, grido, ‘ti chiedo perdono!’. Ma lei non risponde. Non mi ha mai risposto. È questa la mia punizione”. Perché, in quei so-gni, la donna non risponde a suo iglio? Secondo me, non è per punirlo. Sa bene che i veri colpevoli sono stati altri, quelli che erano al potere all’epoca. Anche lei, co-me tutte le persone morte durante la rivoluzione cultu-rale, aspetta ancora le loro scuse. Da 44 anni.

Di recente alcune persone che a quell’epoca hanno commesso crimini simili hanno chiesto scusa alle loro vittime sui mezzi d’informazione o su internet. Ora che sono in pensione si dicono pentite, forse anche perché sono infastidite dai tentativi in corso di rivalutare la ri-voluzione culturale. Confessano comportamenti ver-gognosi nella speranza che i giovani di oggi capiscano la triste storia di quel periodo. Ma le voci dei pentiti non vanno lontano, sommerse dalle notizie sulle crisi inter-nazionali, i problemi interni, gli spettacoli e gli eventi sportivi. A diferenza di queste persone prese dal rimor-so, il Partito comunista non ha mai avuto problemi a perdonarsi gli spaventosi errori commessi nei 64 anni di potere e si sforza di cancellarne tutte le tracce stori-che. Subito dopo la rivoluzione culturale molti cercaro-no di rinnegarla, ma quando i leader cinesi si resero conto che queste critiche minavano la loro autorità, le repressero immediatamente.

I mezzi d’informazione uiciali non dicono mai tut-

ta la verità sulla rivoluzione culturale, è solo nella socie-tà civile che a volte riemerge questa discussione. Ora, indignati e impotenti davanti alle sgradevoli realtà del-la Cina moderna (degrado ambientale, disparità di red-dito, corruzione, furti e omicidi, droga, traico di esseri umani, conisca di terre e demolizioni forzate), molti di quelli che hanno vissuto la rivoluzione culturale comin-ciano ad averne nostalgia. Probabilmente perché quan-do c’era Mao e tutti erano sotto il controllo del regime, i problemi sociali non erano così difusi e le contraddi-zioni non così forti. Dato che qualsiasi tentativo di ridi-

scutere la rivoluzione culturale è sempre stato sofocato, le persone che sono nate dopo non sanno cosa è successo. Nel giu-gno del 2012, per la loro foto di laurea, gli studenti dell’ultimo anno dell’Università normale della Cina centrale di Wuhan hanno tutti indossato l’uniforme delle Guardie rosse. Per quei giovani la rivolu-zione culturale è stata solo una grande mascherata.

La disputa tra Tokyo e Pechino per le isole Diaoyu (Senkaku) ha riacceso nella popolazione cinese i sentimenti antinip-

ponici. A settembre del 2012, sono scoppiate proteste contro i giapponesi in più di 50 città. Intanto negli studi cinematografici di Hengdian, nella provincia di Zhejiang, i più grandi del paese, si giravano molti ilm per il grande schermo e la tv ambientati all’epoca della guerra sino-giapponese del 1937-1945. Ormai circola la battuta che siano stati “uccisi” più giapponesi a Heng-dian che su tutti i campi di battaglia. L’atteggiamento del governo di Tokyo verso la storia passata fa infuriare i cinesi. Ma anche il governo di Pechino dovrebbe rilet-tere. Continuiamo a ricordare al Giappone che, se non riconosce la propria storia di aggressioni, rischia di ri-petere i suoi errori. Ma anche noi abbiamo qualcosa da imparare dal passato.

Nella Cina di oggi, le persone che idealizzano la ri-voluzione culturale sono sempre di più. La maggior parte non vorrebbe davvero tornare indietro, è solo l’in-soddisfazione per la realtà attuale ad alimentare la no-stalgia per quel periodo. La voglia di rivoluzione, natu-ralmente, nasce anche da altri motivi. Alcuni sono di-sgustati dal crescente materialismo della società cine-se, ma molti di più sono indignati per l’emergere di gruppi d’interesse che sposano il potere politico al pro-itto economico. Anche quelli che rinnegano completa-mente quel periodo, nel loro scontento cominciano a pensare che il vero errore sia stato solo la scelta del mo-mento: è adesso che avremmo bisogno di una rivolu-zione culturale. u bt

La Cina aspettadelle scuse

Yu Hua

YU HUA

è uno scrittore cinese. I suoi ultimi libri pubblicati in Italia sono Vivere! e La Cina

in dieci parole

(Feltrinelli 2013 e 2012). Ha scritto questo articolo per il New York Times.

Sempre più persone idealizzano la rivoluzione culturale. La maggior parte non vuole davvero tornare indietro, ma è insoddisfatta della situazione della Cina di oggi

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In copertina

La legge delle multin

La Vattenfall contro la Germania, la Philip Morris contro l’Australia, la Deutsche Bank controlo Sri Lanka: quando pensano che una legge li danneggi, i grandi gruppi industriali fanno causa agli stati. E vincono sempre

Quando il sistema inan-ziario argentino è crol-lato, per Selvyn Seidel è stata una bella giornata. Anche quando è esplosa la centrale nucleare di Fukushima non è anda-

ta male. E quando nella provincia canade-se del Québec si sono veriicate delle per-dite di gas tossici da alcuni impianti di fra-cking, gli afari di Selvyn Seidel sono anda-ti a gonie vele. Quando nel mondo succe-de qualcosa che terrorizza la gente, per Seidel è sempre una buona notizia. Perché in genere in queste occasioni i governi adottano nuove leggi e regolamenti.

Dopo il crollo inanziario, l’Argentina ha annunciato che non avrebbe saldato i suoi debiti: un danno consistente per le banche estere che le avevano prestato grandi somme di denaro. Dopo la catastro-fe di Fukushima, la cancelliera tedesca Angela Merkel ha annunciato che la Ger-mania avrebbe rinunciato all’energia nu-cleare, con gravi contraccolpi per le azien-de che gestiscono le centrali nucleari nel paese. La provincia del Québec ha imposto un divieto temporaneo sul fracking: una perdita grave per le compagnie minerarie internazionali. Selvyn Seidel si guadagna da vivere recuperando una parte di tutti questi soldi persi.

Dalla sua scrivania al ventisettesimo piano di un grattacielo non lontano da Ti-mes square, a New York, Seidel può ammi-rare il paesaggio innevato del New Jersey al di là del iume Hudson. Indossa un com-

pleto blu e una cravatta a farfalla rossa, e ha davanti a sé un bicchiere di carta pieno di cafè. Seidel, 71 anni e una corona di ca-pelli bianchi, nella vita ha già lavorato ab-bastanza, ma non ha ancora voglia di smet-tere. Gli afari vanno bene: i grandi gruppi industriali di tutto il mondo non hanno mai afrontato così tante battaglie legali contro i governi. Per Seidel sono anni d’oro. Lun-go la parete alle sue spalle sono impilati gli scatoloni che contengono gli incartamenti dei suoi clienti.

Tra poco squillerà il telefono. Seidel sta aspettando di essere contattato da un for-nitore di servizi inanziari olandese. Prefe-risce non scendere nei dettagli, è una que-stione molto riservata. Si limita a dire che recentemente un paese sudamericano ha vietato le transazioni inanziarie rischiose. L’obiettivo del governo locale è proteggere i risparmi degli investitori privati, ma il provvedimento è stato una rovina per le aziende che forniscono servizi inanziari. Ora l’azienda olandese vuole recuperare il denaro perso.

Seidel copre le spese legali e processua-li delle aziende che fanno causa agli stati per ottenere un risarcimento dei danni e che devono afrontare processi molto co-stosi. Se l’azienda vince, Seidel incassa buona parte della somma richiesta, spesso centinaia di milioni di dollari. È il suo mo-dello d’impresa.

Sulla scrivania campeggia un trofeo che Seidel ha conquistato sostenendo le multi-nazionali nella loro battaglia contro gli sta-ti: il Lawyers award del 2013. È un oggetto c

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Kerstin Kohlenberg, Petra Pinzler e Wolfgang Uchatius, Die Zeit, GermaniaFoto di C.J. Burton

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lle multinazionalidi cristallo che è stato assegnato alla Fullbrook Capital Management di Seidel per i suoi successi come legale di cause ci-vili negli Stati Uniti. Seidel in genere inve-ste in sei o otto cause contemporaneamen-te, e intanto ne esamina altre venti o trenta in cui sono coinvolti paesi dell’America La-tina, dell’Europa, dell’Asia centrale, di tut-to il mondo.

Seidel potrebbe sembrare una specie di genio, un esperto che conosce a memoria le leggi e i sistemi giuridici di decine di sta-ti. In realtà il suo lavoro è più semplice, perché la maggior parte delle cause che i-nanzia si svolge secondo un unico princi-pio e sempre nello stesso luogo: in un edii-cio di marmo e granito nel centro di Wa-shington, non lontano dalla Casa Bianca. L’ediicio appartiene alla Banca mondiale, l’istituzione internazionale che si occupa di prestare denaro ai paesi poveri. E ospita uno strano tribunale: il Centro internazio-nale per il regolamento delle controversie relative agli investimenti (Icsid).

A questa corte si possono rivolgere le imprese che vogliono citare in giudizio de-gli stati stranieri per aver fatto diminuire il valore dei loro investimenti.

Lontano dagli occhi dell’opinione pub-blica, intorno a questo tribunale si è creata una macchina giudiziaria potente ed estre-mamente redditizia, manovrata da avvo-cati esperti di diritto commerciale che la-vorano per studi legali attivi a livello inter-nazionale. Osservando il funzionamento di questa macchina si trovano nuove rispo-ste all’antica domanda su quanto potere detengano gli stati nel mondo e quanto ne detengano invece le grandi aziende.

In questo momento all’Icsid ci sono 185 processi in corso. Uno di questi è classiica-to come Icsid-Case Arb/12/12: Vattenfall contro Federal Republic of Germany. Il motivo del contendere è la rinuncia della Germania al nucleare, che ha costretto il gruppo svedese produttore di energia elet-trica a chiudere le centrali nucleari che ge-stiva a Brunsbüttel e a Krümmel.

Oltre all’Icsid, anche altri tribunali mi-nori si occupano di regolare le controversie sugli investimenti. Non si tratta di corti giudiziarie come quelle che tutti conosco-

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In copertina

no, ma di tribunali arbitrali. A prima vista la diferenza non è enorme: anche nei pro-cedimenti arbitrali ci sono una parte lesa, un imputato, gli avvocati, le deposizioni dei testimoni e dei periti. Naturalmente ci sono anche i giudici, sempre tre. Ma già qui emergono le prime diferenze.

I giudici non lavorano per il tribunale arbitrale, non sono funzionari e neanche dipendenti. Sono esperti di giurisprudenza provenienti da paesi diversi che vengono nominati per ciascun processo dalle parti in causa e tengono udienza insieme in una delle aule del tribunale arbitrale. In queste aule non ci sono i banchi del pubblico per-ché i processi si svolgono a porte chiuse, e questa è la seconda diferenza.

La Vattenfall ha citato in giudizio la Germania, e di conseguenza tutti i tede-schi, chiedendo un risarcimento di più di quattro miliardi di euro: una somma corri-spondente a poco meno della metà degli aiuti allo sviluppo che la Germania invia all’estero. Nessuno sa ancora quale sarà la decisione dei giudici, ma una cosa è certa: il verdetto, che non sarà emesso prima di due anni, sarà irrevocabile. Contro le sen-tenze dell’Icsid non è possibile ricorrere presso un’istanza superiore, non si può fa-re appello e non si possono chiedere revi-sioni. E questa è la terza diferenza.

Un’idea allettanteAlla base di questi procedimenti giudiziari ci sono i cosiddetti accordi internazionali per la promozione e la protezione degli in-vestimenti. In tutto il mondo esistono circa tremila trattati di questo tipo, con cui i go-verni s’impegnano a riconoscere i verdetti di un tribunale arbitrale. Di fronte a queste corti lo stato è l’imputato, non la parte lesa: può solo perdere denaro, mai guadagnar-ne. Tutti i cancellieri, i primi ministri e i presidenti devono inchinarsi di fronte alle decisioni dell’Icsid: lo dicono gli accordi.

Viene da chiedersi come mai ai governi della Germania e di quasi tutti gli altri pae-si del mondo sia venuto in mente di sotto-scrivere questi trattati. La risposta è che credevano di poterne approittare. Questi patti tra paesi esistono da molto tempo. Il primo accordo per la promozione e la pro-tezione degli investimenti è stato concluso tra la Germania e il Pakistan nel 1959. All’epoca l’obiettivo di Berlino era proteg-gere gli investitori tedeschi da possibili espropriazioni. Grazie a quel trattato, se per esempio una fabbrica di tessuti tedesca fosse stata sequestrata da un funzionario pachistano corrotto, il titolare dell’azienda non avrebbe più dovuto aidarsi alla giu-

stizia del Pakistan. Non avrebbe dovuto prendere parte a un’udienza pubblica e non avrebbe rischiato che il suo avversario ritardasse il processo all’ininito. Invece si sarebbe potuto rivolgere al tribunale arbi-trale internazionale, e se i giudici avessero preso le sue parti, lo stato pachistano avrebbe dovuto risarcirlo. Il Pakistan avrebbe ceduto un po’ di potere ma in com-penso sarebbe diventato più invitante per le imprese tedesche: questa era l’idea. An-che Berlino avrebbe ceduto un po’ di pote-re agli investitori pachistani, che a loro volta avrebbero potuto citare in giudizio la Germania. Almeno in teoria: in realtà all’epoca gli investitori pachistani non esi-stevano.

Nei decenni successivi molti paesi han-no irmato accordi per la promozione e la protezione degli investimenti. La sola Ger-mania ha concluso più di cento patti di questo tipo. Eppure l’Icsid non ha attirato quasi mai l’attenzione della pubblica opi-nione. Un ricco cittadino tedesco ha de-nunciato il Camerun, una grande azienda statunitense ha citato in giudizio la Gia-maica, ma i casi erano pochi: nel 1989, per esempio, all’Icsid fu istruito solo un pro-cesso. All’epoca le imprese che investivano somme ingenti all’estero erano poche e i casi di espropriazione illegittima molto rari.

Poi a metà degli anni novanta il numero dei procedimenti arbitrali si è impennato improvvisamente, passando prima a trenta, cinquanta, ottanta, e poi a centinaia di casi. Il motivo è che dopo la caduta del muro di Berlino i grandi gruppi europei e statunitensi si sono avventurati sempre più spesso nei mercati dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina. Ma un’al-tra spiegazione si trova in un articolo uscito nel 1995 sul Foreign Investment Law Journal, una pubblicazione dell’Icsid. Que-sto testo ha contribuito a diffondere un’idea molto allettante tra gli avvocati che si occupavano di diritto commerciale: gli accordi per la promozione e la protezio-ne degli investimenti e i tribunali arbitrali potevano aiutare le imprese a farsi risarci-re anche nei casi in cui non c’era un’espro-priazione palese. Bastava estendere il con-

cetto di espropriazione.Nell’articolo si legge: “Gli esploratori

sono in cerca di terre sconosciute da sfrut-tare nel campo della giurisdizione arbitrale internazionale”. L’autore era un avvocato della Freshields, uno studio legale britan-nico attivo a livello internazionale. Il terri-torio inesplorato era un mercato immenso che proprio in quegli anni si stava aprendo a migliaia di avvocati in tutto il pianeta.

Al momento giustoSeduto nella penombra in un ristorante di pesce di un esclusivo albergo newyorche-se, Selvyn Seidel ordina gamberetti alla griglia. Ha appena inito di parlare al tele-fono: un’azienda gli ha oferto un posto nel suo consiglio di vigilanza. Domani andrà a Barcellona per tre giorni con la moglie, la prima vacanza da anni. Poi incontrerà al-cuni soci a Londra. Seidel è cresciuto in una fattoria del New Jersey. Da ragazzo la-vorava durante le ferie estive come rappre-sentante di una casa editrice vendendo enciclopedie porta a porta. Era bravo a smerciare quei pesanti volumi. “Ero uno dei migliori rappresentanti della costa est”, dice. In seguito ha studiato giurispruden-za, ma il iuto per gli afari non lo ha mai abbandonato.

Seidel ha lavorato per venticinque anni per la Latham & Watkins, uno studio legale californiano specializzato in diritto com-merciale. Forniva consulenze a clienti im-portanti come la compagnia aerea israelia-na El Al e rappresentava banche d’investi-

mento e assicurazioni di fronte all’Icsid. Ha lasciato lo studio nel 2006, a 65 anni. Non voleva più fare l’avvocato e si è messo in proprio. Aveva scoperto un altro territorio inesplorato nel campo

della giurisdizione arbitrale: la soluzione del problema dei costi.

I processi dell’Icsid sono costosi. La maggior parte degli avvocati si fa pagare settecento dollari all’ora o anche di più. Dal momento che anche solo per stilare e presentare la citazione in giudizio possono servire diversi mesi, in poco tempo si accu-mulano spese per decine, centinaia di mi-lioni. Per alcune aziende sono costi inso-stenibili. Seidel si accolla le spese proces-suali: se la causa viene respinta perde, ma se l’azienda vince l’avvocato può prendersi anche l’80 per cento del risarcimento. Sta-sera è di ottimo umore, e continua a ripete-re che basta una vittoria presso un tribuna-le arbitrale per guadagnare big bucks, bei soldi. Dopo quello di Seidel, sono nati altri studi che inanziano i processi dell’Icsid

Lo stato è l’imputato, non la parte lesa: può solo perdere denaro, mai guadagnarne

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per conto di grandi aziende, e tutti si sono messi in cerca di clienti e di nuove oppor-tunità. Con il boom economico in Asia le grandi aziende della regione hanno comin-ciato a investire in Europa e negli Stati Uni-ti. E niente vieta a un’azienda asiatica di fare causa a un governo occidentale. L’ina-sprimento della legislazione contro il fumo non è forse un buon motivo per farlo? E chissà, forse si può reinterpretare anche il concetto di investitore estero. Selvyn Sei-del e gli altri inanziatori di processi sono arrivati al momento giusto.

La società cinese di assicurazioni sulla vita Ping An ha citato in giudizio il Belgio

chiedendo un risarcimento di 1,8 miliardi di euro. Il motivo? Durante la crisi inan-ziaria il governo belga ha salvato dalla ban-carotta e nazionalizzato una banca usando miliardi di euro delle casse dello stato. E la Ping An aveva una quota di partecipazione nell’istituto. Il gruppo Philip Morris, pro-duttore di tabacco, ha chiesto all’Australia un indennizzo di alcuni miliardi di dollari – la cifra non è stata ancora deinita – per-ché il governo australiano ha stabilito che le sigarette possono essere vendute solo in pacchetti senza logo. La compagnia mine-raria Lone Pine ha denunciato il Canada per la moratoria sul fracking imposta dal

Québec chiedendo un risarcimento di 250 milioni di dollari. La Lone Pine è un’azien-da canadese e il tribunale arbitrale dovreb-be accogliere solo le cause di investitori stranieri, ma la Lone Pine ha sporto de-nuncia attraverso la sua ailiata statuni-tense.

“Ci sono persone che guadagnano un bel po’ di soldi da processi contro paesi che vorrebbero proteggere l’ambiente o i citta-dini”, ammette Nicolas Ulmer, un avvoca-to svizzero specializzato in procedimenti arbitrali. Anche gli studi legali tedeschi hanno scoperto il redditizio settore della giurisdizione arbitrale. Nell’estate del

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2011, sulla scia della crisi dell’euro, lo stu-dio Luther di Colonia ha inviato ai clienti un nuovo numero della sua newsletter in cui spiegava che il rischio di bancarotta di uno stato si poteva convertire in denaro sonante. In quel periodo i governi europei stavano discutendo un programma di con-solidamento del debito quale ultima possi-bilità di salvare la Grecia dall’insolvenza. In base a quel piano, le banche e le assicu-razioni estere che detenevano titoli di stato greci avrebbero dovuto rinunciare a una parte dei loro crediti per concedere ai greci un margine d’azione più ampio a livello i-nanziario. Lo studio Luther ha scritto ai suoi clienti che gli investitori non erano te-nuti a tollerare quella decisione e potevano chiedere un risarcimento: “Il nostro studio può aiancarvi nella teoria e nella pratica in queste questioni complesse con una squadra di avvocati qualiicati nel campo delle procedure giudiziarie internazionali e nel diritto relativo ai titoli di credito”. Uno degli autori del testo era l’avvocato Richard Happ. Neanche un anno dopo, all’inizio di giugno del 2012, il nome di Happ è comparso su un sito d’informazio-ne giuridica in tutt’altro contesto: Happ era stato scelto per rappresentare la Vattenfall nel processo istituito presso l’Icsid contro la Germania.

Un’alternativa eicaceHapp sarebbe la persona ideale con cui parlare di questa disputa tra un governo che vuole fare leggi e un’azienda che vuole fare afari. Nato nel 1971, è un esperto di controversie legali sugli investimenti e ha rappresentato aziende private in processi contro l’Albania e l’Ucraina. Ha scritto il testo di un opuscolo della Gesel-lschaft für Aussenwirtschaft und Standortmarketing, l’ente tede-sco per l’economia estera e la promozione del territorio nazio-nale, intitolato “Hilfe, ich werde enteignet!” (Aiuto, mi stanno esproprian-do!), in cui illustra diverse situazioni in cui le imprese hanno buone prospettive di suc-cesso se fanno causa a uno stato. Un gover-no straniero può per esempio “vaniicare il finanziamento di un progetto aziendale orientato a un lusso di cassa costante ridu-cendo certe tarife regolamentate a livello statale, per esempio nel settore dell’ener-gia elettrica, del gas, delle telecomunica-zioni o del trasporto”. Happ ha in mente anche altri motivi per cui un’azienda po-trebbe fare causa a un governo: “Per esem-pio se uno stato impone nuove tasse che rendono economicamente vano il prose-

nazionali di un paese democratico, e altre no.

Anche la Rwe e la E.on, due gruppi te-deschi produttori di energia elettrica, han-no fatto causa alla Germania dopo l’uscita dal nucleare. Ma, a diferenza della Vatten-fall, dovranno afrontare le udienze aperte al pubblico della corte costituzionale tede-sca. La Vattenfall invece, in quanto investi-tore straniero, può rivolgersi al tribunale arbitrale che si riunisce a porte chiuse. Mentre i giudici costituzionali devono emettere la loro sentenza in base alle leggi della Germania, i giudici arbitrali decide-ranno secondo criteri approssimativi se il governo tedesco si è comportato in manie-ra illegittima. Insomma, le aziende tede-sche devono aidarsi alla propria giurisdi-zione nazionale, quelle straniere invece rispondono a una sorta di giustizia privata. La corte costituzionale tedesca decide “in nome del popolo”, ma in nome di chi giudi-cano i tribunali arbitrali? Perché gli investi-tori possono sottoporsi a una giurisdizione separata e chi si batte per la difesa dell’am-biente o per i diritti umani no?

Secondo l’avvocato Happ, gli investito-ri hanno dei privilegi particolari perché portano nel paese capitali necessari e ge-nerano ricchezza. Ma secondo Peter Fuchs il motivo è un altro: il mondo si è ridotto a un mercato e i governi sono troppo deboli per opporsi al grande capitale. Oggi Fuchs indossa la giacca e una cravatta annodata male. Non ha dimestichezza con questo tipo di abbigliamento, in genere porta je-ans e maglione, ma oggi l’eleganza è im-portante. “Altrimenti qui non mi prendono sul serio”, spiega.

In questa mattina di febbraio Fuchs ar-riva in bicicletta all’Europäisches Haus di Berlino, in Unter den Linden 78, non lonta-no dalla porta di Brandeburgo. Qui c’è l’uf-icio di rappresentanza della Commissione europea in Germania, una specie di amba-sciata dell’Unione europea. Tra poco, nella sala conferenze, comincerà un evento in-formativo con la partecipazione di rappre-sentanti dell’Unione e del ministero dell’economia tedesco. Il tema del giorno è il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (Ttip), che l’Unione eu-ropea e gli Stati Uniti stanno discutendo proprio in questi mesi. Il patto prevede an-che un accordo per la promozione e la pro-tezione degli investimenti, che tra l’Europa e gli Stati Uniti non è mai stato siglato.

Una volta irmato il trattato, le imprese europee potranno citare in giudizio gli Sta-ti Uniti presso un tribunale arbitrale e le aziende statunitensi potranno fare la stes-

guimento delle attività o fa leggi per la tu-tela dell’ambiente che mettono al bando prodotti fabbricati ino a quel momento”.

Che un avvocato eviti di esprimersi ri-guardo ai processi in corso è normale. Ma Happ si è anche riiutato di descrivere più nel dettaglio le caratteristiche dei procedi-menti arbitrali.

Francoforte sul Meno, Feldbergstrasse 35. Tra i grattacieli delle banche e le palme dei giardini c’è l’uicio della controparte di Happ nel caso Vattenfall. Sabine Konrad ci riceve in una sala con pareti e tavoli bian-chi, davanti a una bottiglia d’acqua con la scritta: McDermott Will & Emery. È il no-me di un altro importante studio legale che si muove come un grande gruppo azienda-le. La McDermott Will & Emery ha alle sue dipendenze un migliaio di avvocati in tutto

il mondo, e Sabine Konrad è una di loro.Quando si è capito che la Vattenfall si

sarebbe rivolta all’Icsid, il governo tedesco ha creato all’interno del ministero dell’eco-nomia l’“uicio di cancelleria per il proce-dimento arbitrale sul 13° emendamento della legge sul nucleare”. Da allora quattro impiegati si occupano del caso e hanno scelto come legale Konrad, 40 anni, uno degli astri nascenti della giurisprudenza arbitrale.

Nel suo bilancio per il 2014 la Germania ha stanziato 2,2 milioni di euro per il pro-

cesso contro la Vattenfall all’Ic-sid. La maggior parte dei soldi servono a coprire le spese per l’avvocato. Konrad ha già rappre-sentato delle aziende in processi arbitrali. A volte difende la parte

lesa, altre volte l’imputato. Ma della nostra conversazione annaiata con acqua natu-rale non si può scrivere nulla. Quando si tratta di controversie sugli investimenti, a volte il pubblico non resta escluso solo dal-le aule del tribunale. Nell’ottobre del 2011 Konrad ha inviato una lettera ai clienti del-lo studio per cui lavorava all’epoca: “I pro-cedimenti arbitrali sono un’alternativa unica ed eicace per ottenere un risarci-mento dei danni”, ha scritto.

Non c’è nulla di strano nel fatto che un’impresa possa portare uno stato in tri-bunale. Ma viene da chiedersi perché alcu-ne aziende possono scavalcare i tribunali

Cosa può permettersi di fare uno stato se non vuole essere citato in giudizio?

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sa cosa con gli stati europei. La Commis-sione europea spera in questo modo di fa-vorire gli affari delle banche spagnole, dell’industria meccanica tedesca e delle compagnie farmaceutiche francesi negli Stati Uniti, e di rendere l’Europa più inte-ressante per gli investitori statunitensi. Questo è il piano che la commissione sta promuovendo a Berlino stamattina.

All’appuntamento si sono presentate circa centocinquanta persone. Deputati del Bundestag ed esponenti dell’industria, ma anche lobbisti specializzati in temi am-bientali e sindacalisti. Tutti devono passa-re accanto a Peter Fuchs, che se ne sta sul

marciapiede all’ingresso dell’Europäi-sches Haus e piazza in mano a chiunque passi un volantino che accusa i grandi gruppi industriali di voler aggirare i tribu-nali nazionali. Quasi tutti i passanti pren-dono il volantino senza guardarlo in faccia e proseguono. Solo ogni tanto qualcuno si ferma e fa un paio di domande.

“Lei chi è?”.“Sono Peter Fuchs, di PowerShift”.“PowerShift?”.“È un’associazione che si occupa di po-

litiche commerciali ed economiche”.Non è detto che ne abbiate sentito par-

lare: PowerShift è stata fondata solo tre

anni fa. Ha ventisette associati e tre dipen-denti issi. Fuchs, 49 anni, è il direttore re-sponsabile.

Da ragazzo Fuchs non vendeva enciclo-pedie come Selvyn Seidel, ma si è diploma-to con voti eccellenti e sarebbe potuto di-ventare un avvocato specializzato in diritto commerciale. Solo che quella prospettiva non gli interessava: per lui era più impor-tante l’interesse collettivo che il saldo del suo conto in banca. Così ha studiato scien-ze politiche ed economia politica, ha lavo-rato all’università e per diverse organizza-zioni che criticano la globalizzazione e alla ine ha fondato PowerShift.

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Fuchs organizza manifestazioni, scrive saggi sulla politica dell’Unione europea, cerca di farsi ricevere dai deputati del Bun-destag. Descrive le sue attività come un tentativo di “inluenzare il dibattito”. In certe occasioni distribuisce anche volanti-ni, come stamattina.

Quando all’ingresso dell’Europäisches Haus non arriva più nessuno, Fuchs sale al primo piano. L’evento è cominciato e, quando Fuchs entra nella sala, la direttrice dell’uicio di rappresentanza dell’Unione europea a Berlino sta parlando dei 120 mi-liardi di euro per il welfare che l’accordo commerciale con gli Stati Uniti porterà ai paesi europei in questi tempi di crisi eco-nomica. Il direttore dei negoziati dell’Unio-ne, uno spagnolo, sottolinea che si tratta dell’accordo commerciale più importante della storia d’Europa. Un sottosegretario del ministero tedesco dell’economia afer-ma che i timori relativi all’accordo per la promozione e la protezione degli investi-menti sono assolutamente infondati.

Fuchs ridacchia. Se dipendesse da lui, l’Unione europea farebbe saltare i nego-ziati con gli Stati Uniti. Fuchs è contrario al trattato, e ha criticato quasi tutte le deci-sioni di politica economica europea negli ultimi anni. Prima di fondare PowerShift ha lavorato come consulente del partito di sinistra Die Linke al Bundestag.

Sulle sponde dell’ElbaFuchs è stato sempre all’estremo dello spettro politico e non ha cambiato idea, ma ora, nella controversia sulla protezione de-gli investimenti, si è ritrovato a pensarla come il centro. Con l’eccezione della Cdu e della Csu, infatti, i partiti eletti al Bunde-stag sono sempre più scettici sul Trattato per la promozione e la protezione degli in-vestimenti.Per capire cosa pensano gli elettori basta dare un’occhiata al sito di Campact, dove i cittadini possono sotto-scrivere petizioni online sui temi più diver-si, dalla svolta energetica alle speculazioni sul cibo all’asilo politico per Edward Snowden. La petizione contro l’accordo di libero scambio ha già raccolto 400mila ir-me: è stata la campagna più eicace nei dieci anni di esistenza di Campact.

Stamattina, nella sala dell’Europäi-sches Haus, i presenti fanno domande che in realtà sono afermazioni. Un uomo che si definisce un esponente berlinese dei Freie Wähler, il movimento dei liberi elet-tori, riscuote un sonoro applauso quando dice che non capisce quale sia il vantaggio di questi trattati per i comuni cittadini.

Christian Maass si chiede la stessa cosa

di dollari. La sentenza ha incoraggiato il mondo della inanza, che da allora si rivol-ge sempre più spesso all’Icsid.

Sempre in favore della parte lesa si è concluso nell’autunno del 2012 il caso Icsid Arb 06/11, che vedeva la multinazionale petrolifera Oxy schierata contro l’Ecuador. Il governo ecuadoriano aveva revocato le licenze di trivellazione dell’Oxy, perché l’azienda le aveva rivendute violando i ter-mini del contratto. In base alla norma che garantisce un “trattamento giusto ed equo” alle imprese straniere, la corte ha riconosciuto all’azienda un risarcimento di 1,77 miliardi di dollari: il verdetto più co-stoso che sia mai stato formulato da un tri-bunale arbitrale.

Tre anni e mezzo fa è terminato invece con un compromesso il caso Icsid Arb 07/1: per superare l’apartheid, il governo suda-fricano aveva stabilito che aziende come le compagnie minerarie dovevano vendere una parte delle loro azioni a investitori ne-ri. Alcune imprese italiane e lussembur-ghesi hanno fatto causa al Sudafrica. Il ri-sultato è stato che Pretoria non ha dovuto risarcire le aziende, ma è stata costretta a rendere la legge meno severa.

Cosa può permettersi di fare uno stato se non vuole rischiare di essere citato in giudizio? Ben poco, rispondono i governi dell’Australia, dell’Argentina, della Boli-via, del Brasile, dell’Ecuador, dell’India, del Sudafrica e del Venezuela. Questi paesi

hanno rescisso accordi per la promozione e la protezione degli investimenti, si sono riiutati di sottoscriverli o hanno annuncia-to che non ne avrebbero irmati di nuovi. Ormai anche la Com-

missione europea ha riconosciuto che la presenza di una giustizia separata e segre-ta per le aziende straniere è difficile da spiegare ai cittadini. Di fronte alle crescen-ti critiche, Bruxelles ha sospeso per tre me-si i negoziati con gli Stati Uniti sulla prote-zione degli investimenti.

Durante l’evento all’Europäisches Haus il direttore dei negoziati dell’Unione europea aferma che in dall’inizio si è te-nuto conto dei dubbi dei cittadini: l’obietti-vo è sempre stato quello di concludere un nuovo tipo di accordo per la promozione e la protezione degli investimenti.

Ma questa afermazione non corrispon-de alla realtà. La Commissione europea si rifiuta di rendere pubbliche le bozze dell’accordo, ma la Zeit è in possesso della versione del testo con cui la commissione si è presentata al tavolo dei negoziati, quel-lo cioè in cui sono contenute le sue richie-

da cinque anni, da quando la Germania è stata citata in giudizio presso l’Icsid per la prima volta. Maass, 41 anni, all’epoca era un esponente dei Verdi di Amburgo. Dopo le elezioni comunali il suo partito si è coa-lizzato con la Cdu e lui è diventato consi-gliere per l’ambiente. Proprio in quel pe-riodo sulla sponda meridionale dell’Elba stava prendendo il via un progetto immen-so: la centrale a carbone di Amburgo Mo-orburg, gestita dal gruppo Vattenfall.

L’impianto avrebbe bruciato e trasfor-mato in corrente elettrica ino a 12mila ton-nellate di carbon fossile al giorno. La Vat-tenfall voleva rafreddare la centrale con l’acqua dell’Elba, ma la città di Amburgo, temendo che il rafreddamento stravolges-

se l’ecosistema del iume, ha posto condi-zioni molto severe per l’apertura dell’im-pianto. La Vattenfall ha risposto sporgendo denuncia all’Icsid. La richiesta di risarci-mento presentata allo stato tedesco, e quindi ai contribuenti, era di 1,4 miliardi di euro. La tesi dell’azienda svedese era che le norme per la tutela dell’ambiente aveva-no causato una riduzione della redditività della centrale elettrica, e che quindi l’investimento aveva per-so valore.

Quando Maass ha saputo la notizia non ha potuto fare altro che scuotere la testa incredulo. Anche lui è un giurista, specializzato in di-ritto ambientale, ma non aveva mai sentito parlare del tribunale arbitrale di Washing-ton. Il processo si è concluso con una con-ciliazione: la Vattenfall ha rinunciato all’indennizzo e in cambio l’autorità per la tutela dell’ambiente ha adottato norme meno rigide.

Invece il caso Icsid Arb/09/2, Deutsche Bank contro Sri Lanka, si è concluso non con un pareggio ma con una vittoria della parte lesa. È successo un anno e mezzo fa. La banca tedesca aveva concluso con un’azienda di proprietà dello stato srilan-chese una complessa transazione inanzia-ria che aveva a che fare con le tarife petro-lifere. Quando l’azienda non ha onorato i suoi debiti, l’istituto di credito ha fatto cau-sa al governo dello Sri Lanka e il tribunale arbitrale ha stabilito che gli fosse ricono-sciuto un risarcimento di sessanta milioni

Il Sudafrica non ha pagato risarcimenti, ma ha dovuto cambiare la legge

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ste iniziali. L’articolo 12, comma 1, prescri-ve un “trattamento giusto ed equo” delle imprese estere. Non sembrerà nulla di drammatico, ma in altri accordi simili è stata proprio questa norma a permettere di istruire molti processi dell’Icsid, per esem-pio quello contro le leggi per la tutela dell’ambiente.

Lo stesso si può dire di un altro patto che l’Unione europea potrebbe siglare con il Canada. Le trattative stanno per conclu-dersi e anche in questo caso la Zeit dispone delle bozze. Di nuovo, non si vedono gran-di cambiamenti: se un’impresa citerà in giudizio l’Unione europea o la Germania, si potrà tenere l’opinione pubblica all’oscu-ro di tutto. Di un’eventuale istanza supe-riore a cui fare appello si parlerà solo in un secondo momento.

Approittare dell’ingiustiziaTutte le mattine, quando va in ufficio, Klaus Sachs passa davanti a un enorme blocco di cemento che trent’anni fa era considerato un esempio di architettura moderna. È il palazzo di giustizia di Mona-co, dove si svolgono il processo all’organiz-zazione neonazista Nsu e decine di altri procedimenti giudiziari. Salvo poche ecce-zioni, le udienze sono tutte pubbliche.

Anche Klaus Sachs, 62 anni, è un avvo-cato. A diferenza di quasi tutti i colleghi, però, il suo nome compare in una lista pub-blicata lo scorso autunno dal ministero dell’economia tedesco: l’elenco dei giudici arbitrali tedeschi dell’Icsid, che contiene appena otto nomi.

Sachs ha esercitato il potere giurisdi-zionale in nove processi arbitrali. Una volta si è trattato di una causa intentata contro la Polonia da un grande gruppo francese atti-vo nel settore dell’informazione, un’altra di una controversia tra un produttore di energia elettrica statunitense e il Kazaki-stan. Prima che fossero istituiti i tribunali arbitrali, osserva Sachs, capitava spesso che un’espropriazione o una controversia sugli investimenti provocassero una crisi internazionale: non bisogna dimenticarlo. Nell’ottocento e nel novecento le navi da guerra europee hanno bombardato più volte i porti dell’Africa e dell’America Lati-na per ottenere il dovuto dai mercanti lo-cali. Rispetto ad allora, è un grande pro-gresso che le dispute tra imprese e governi si risolvano di fronte a un tribunale arbitra-le. E non c’è dubbio che in tutto il mondo esistano ancora decine di paesi il cui appa-rato giudiziario non si può certo deinire indipendente.

Anche se lavora all’Icsid, Sachs non è tipo da difenderlo a spada tratta. Ha una cattedra all’università di Monaco e ha di-stribuito ai suoi studenti uno studio sui tribunali arbitrali pubblicato dal Corporate Europe observatory, un’organizzazione non governativa che si batte contro i poteri economici e politici delle grandi aziende. Il documento s’intitola “Proiting from in-justice”, approittare dell’ingiustizia. Sachs ha chiesto ai suoi allievi di scrivere una te-sina sul tema: “Per quale motivo la giuri-sprudenza arbitrale viene criticata?”.

Sachs osserva che da un certo punto di vista è già stupefacente che gli stati sovrani abbiano accettato di farsi giudicare da pri-vati cittadini – i giudici arbitrali – riguardo alle proprie leggi e alle proprie decisioni. D’altra parte la grande maggioranza di questi privati cittadini è estremamente consapevole delle proprie responsabilità. Sachs si ferma a rilettere, cerca di formu-lare un giudizio più equo possibile sul suo mestiere. Su un punto è molto deciso: “In efetti sarebbe davvero opportuno miglio-rare la trasparenza”. Un verdetto che spun-ta dal nulla non è più adeguato ai tempi. Sachs non è più l’unico a sostenere questa posizione. Anche il giurista francese Em-manuel Gaillard, uno dei giudici arbitrali più impegnati del mondo, sostiene che le udienze dovrebbero essere pubbliche.

Procedure trasparenti, un’istanza su-periore a cui fare appello e possibilmente anche una serie di clausole per la tutela dell’ambiente e della salute pubblica. Per-ino Selvyn Seidel, il newyorchese che i-nanzia le cause delle imprese, recente-mente si è espresso a favore di una riforma dei tribunali arbitrali. Ma gli afari devono pur proseguire.

“Lei sa cosa sono i junk bond?”, mi do-manda di punto in bianco durante la cena al ristorante di pesce. La traduzione dell’espressione inglese è “titoli tossici”. “Si tratta di un nome fuorviante per riferir-si a titoli di credito che espongono a un ri-schio notevole ma ofrono anche la possi-bilità di ottenere grandi guadagni”.

Seidel ha avuto un’idea per inanziare un numero ancora maggiore di processi: vuole trasformare le cause per risarcimen-to danni in titoli da mettere in vendita sui mercati inanziari. Banche, assicurazioni, fondi d’investimento e singoli individui potrebbero comprarli come se fossero azioni e fare ricche speculazioni su questi casi giudiziari. Così anche il processo con-tro l’uscita della Germania dal nucleare potrebbe trasformarsi in un investimento interessante. u fp

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Un leader rivoluzionario non ha orari. È venerdì sera, quasi mezzanotte, quando Juan Manuel Sánchez Gordillo, 64 an-ni, ci riceve a casa sua,

un ediicio basso in un quartiere piuttosto anonimo. Sulla porta di un minuscolo salot-to senza lussi particolari, quest’uomo di bassa statura appare nel suo aspetto abitua-le: lunga barba da profeta, camicia rossa a quadri e keiah palestinese. Ha i lineamenti tirati, la gola irritata e il respiro rumoroso, tutti efetti collaterali del suo sacerdozio sociale. Quasi fosse ispirato dal ritratto del Che Guevara appeso al muro, aferma con la sua voce acuta e nasale: “La situazione attuale mi dà ragione. Il capitalismo, questa idra dalle mille teste, divora le nostre vite in modo subdolo. È un sistema necroilo. Dob-biamo resistergli. Questo è lo scopo della mia lotta”. Il suo sguardo è intenso e i picco-li occhi neri sono scintillanti.

Trent’anni dopo la sua nascita, nel cuore dell’Andalusia rurale e povera, avevamo quasi dimenticato l’esperimento della ri-belle e anarchica Marinaleda, la cittadina di 2.786 abitanti di cui Sánchez Gordillo è l’inossidabile e carismatico sindaco. Quan-do è stato eletto per la prima volta, nel 1999, aveva alle sue spalle già dodici anni di lotte per la terra. In questo villaggio di braccianti, che vive grazie all’occupazione di terre ap-partenenti all’aristocrazia e grida slogan rivoluzionari, la maggior parte degli abitan-

cheggiato un supermercato di Écija (una cittadina a mezz’ora di macchina da Mari-naleda) distribuendo il bottino tra le fami-glie povere del posto. Tre mesi dopo ad Ar-cos de la Frontera (un’altra città andalusa) sono entrati in un supermercato Carrefour e hanno portato via diversi carrelli di beni alimentari di prima necessità. Sempre nel 2012, accompagnato da cinquecento sim-patizzanti, il líder máximo di Marinaleda ha occupato 470 ettari di terra che stavano per essere messi all’asta dal governo autonomo dell’Andalusia a Somonte, nella provincia di Cordova.

Nell’estate del 2012, poi, un gruppo di braccianti del Sat si è impadronito per una quindicina di giorni di un’area militare nei pressi di Osuna, non lontano da Siviglia: 1.200 ettari, di cui solo venti erano usati per l’allevamento di cavalli. L’azione gli è costa-ta una denuncia per “reati contro la proprie-tà”, “danni materiali” e “insubordinazio-ne”. Nel novembre del 2013 quattro leader del sindacato, tra cui Sánchez Gordillo, so-no stati condannati a 275mila euro di multa e sette mesi di prigione. Contro la sentenza

ti riceve lo stesso salario, abita in case di proprietà collettiva e in occasione delle “domeniche rosse” si dedica ai lavori co-munitari. Una sorta di Cuba in miniatura, nascosta tra Siviglia e Cordova, che ha in Sánchez Gordillo il suo líder máximo e che, dopo tanti anni, ha finito per assumere un’immagine quasi folcloristica, attirando scrittori, intellettuali, giornalisti e comuni-sti di tutto il mondo.

Negli ultimi anni, però, la crisi economi-ca e l’abilità politica di Sánchez Gordillo hanno dato una nuova popolarità a Marina-leda. In una regione dove la disoccupazione raggiunge il 36 per cento (il 62 per cento tra i giovani) e dove il 40 per cento degli abi-tanti vive appena sopra il limite della pover-tà (in totale tre milioni e mezzo di persone), l’attività del sindaco ha conquistato una nuova legittimità agli occhi dei cittadini, sempre più poveri. Nel 2007, nel pieno della crisi immobiliare che aveva colpito la Spa-gna, Sánchez Gordillo ha capito che il vento stava soiando dalla sua parte. E ha deciso di cambiare il nome del suo storico sindaca-to da Soc (cioè Sindicato de obreros del campo) a Sat, dove la a sta per andaluz e la t per trabajadores, tutti i lavoratori. Oggi il Sat ha sostenitori anche nelle città, non più solo nelle campagne.

Espropri proletariCon il tempo le iniziative del sindaco di Ma-rinaleda si sono moltiplicate. Nel maggio del 2012 alcuni militanti del Sat hanno sac-

UtopiaandalusaFrançois Musseau, Libération, Francia

Occupazioni di terre. Salari uguali per tutti. Autogestione. In una Spagna che fatica a uscire dalla crisi, il modello collettivista della comunità agricola di Marinaleda fa proseliti

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Marinaleda è un villaggio molto parti-colare. All’ingresso del paese, sotto il dise-gno di una colomba, c’è scritto: “Marinale-da, un’utopia verso la pace”. I muri delle case basse che costeggiano la via principa-le sono decorati con slogan militanti: “Ter-ra ai contadini”, “Sovranità socialista” o “La costanza è rivoluzionaria”. Di recente anche alcuni indignados hanno lasciato il loro simbolo.

La prima grande vittoria di Sánchez Gordillo risale a poco più di vent’anni fa. Nel 1991, dopo dodici anni di lotte tenaci, i jornaleros avevano ottenuto l’espropriazio-ne e poi l’acquisto, da parte del governo an-daluso, di vasti terreni di proprietà del duca dell’Infantado, una decina di chilometri a nord del villaggio. Il risultato è che la coope-rativa di Marinaleda, El Humoso, oggi oc-cupa 1.200 ettari e fa lavorare la metà degli abitanti del villaggio nei campi o nella fab-brica comunale, Humar, dove i prodotti agricoli sono confezionati per la vendita. Da qui partono olive, fagioli, carcioi, pepe-roni, porri e bieta, tutte coltivazioni che ri-chiedono molta manodopera. La maggior parte della popolazione riceve anche un sussidio agricolo di 426 euro, inanziato con i fondi europei: uno strumento per evitare lo spopolamento delle campagne.

Manolo ha sessant’anni e si occupa del frantoio. Anche lui è un fervente sostenito-re di Sánchez Gordillo. Prima dell’espro-priazione del 1991, quando da queste parti era impossibile trovare un lavoro, doveva andare a lavorare a Jaén (per la raccolta del-le olive), a Valladolid (per le barbabietole) o nel sud della Francia (per la vendemmia). “All’epoca Marinaleda era uno dei villaggi più poveri della Spagna. Dovevamo andare ad ammazzarci di lavoro altrove o emigra-re”, ricorda Manolo. “In ogni caso c’era sempre un padrone che ci trattava come schiavi. Il sindaco ci ha ridato la dignità”.

La famiglia di Manolo, come altre 317, beneicia di un alloggio gratuito – di pro-

hanno presentato ricorso.Quando parla della condanna, il sindaco

è un iume in piena: “In passato quella pro-prietà l’avevamo già occupata una quindici-na di volte. Per quanto riguarda le multe, ci siamo abituati: in trent’anni abbiamo accu-mulato un debito di circa un milione di eu-ro. Ma la prigione è una novità. Questo si-gniica una repressione più forte. Hanno paura perché si rendono conto che le nostre azioni sono condivise da una popolazione sempre più prostrata a causa della politica ultraliberista imposta da Bruxelles e dai mercati”. I suoi occhi si fanno ancora più neri: “Come si fa a condannare l’occupazio-ne di terre non coltivate e abbandonate dai loro proprietari, quando questa serve a dare lavoro a migliaia di jornaleros (braccianti agricoli) che fanno fatica a sopravvivere? In una regione latifondista dove il 3 per cento della popolazione possiede il 50 per cento delle terre, da che parte sta la giustizia?”.

A Somonte una trentina di giovani sem-bra aver recepito il messaggio. Quasi due anni dopo l’ocupación del marzo del 2012 un gruppo di braccianti disoccupati, prove-

nienti dai paesi vicini, ha occupato 400 et-tari di terra, sottraendoli all’abbandono e seminando avena, orzo, fagioli e girasoli. Alla guida di un trattore c’è Juan Manuel Borrego, 38 anni, che pensa a un progetto a lungo termine: “Con la crisi migliaia di per-sone che lavoravano nell’edilizia sono tor-nate nei villaggi, senza formazione e senza risorse. Vogliono solo lavorare la terra, co-me i loro padri e i loro nonni. Quando non rimane nient’altro, si torna alla terra. È una questione di sopravvivenza. E questo lo dobbiamo al Sat e a Sánchez Gordillo”.

Olive e carcioi

Il leader e le sue truppe proclamano che, grazie alle misure collettivistiche, in questa roccaforte anarco-sindacalista la crisi è me-no dura che altrove. La disoccupazione – so-stengono – è al 5 per cento. “In realtà tutto dipende dai raccolti. Quando è la stagione delle olive o dei carcioi siamo a pieno regi-me, ma a partire da maggio-giugno c’è mol-to meno lavoro”, precisa la vicesindaca Esperanza Saavedra, in un’aula municipale dove i conti si fanno ancora in pesetas.

Juan Manuel Sánchez Gordillo, il sindaco di Marinaleda, l’8 agosto 2012

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Spagna

prietà del comune – e di uno stipendio ga-rantito e uguale per tutti: 1.200 euro. Attual-mente sono in cantiere 23 nuove case “au-tocostruite”: i futuri inquilini contribuisco-no a realizzarle lavorando come muratori. “Senza il sindaco non so cosa sarei diventa-to”, mormora José Muñoz, che ha 58 anni e alleva un gregge di 600 capre. “Gli devo tutto”. Non deve stupire, quindi, che dal 1999 a oggi il líder máximo abbia sempre ottenuto la maggioranza assoluta in tutte le elezioni locali. Nel 2011, mentre la crisi ob-bligava molti operai edili a tornare a Mari-naleda, il suo partito (Izquierda unida-Con-vocatoria por Andalucía) ha avuto il 73 per cento dei voti, rispetto al 21 per cento dei socialisti, cioè nove rappresentanti contro i due dell’opposizione. Sánchez Gordillo è il signore incontrastato della zona. Le lodi al suo operato sono la norma.

Il culto della personalitàMariano Pradas, consigliere socialista, è uno dei pochi a criticare pubblicamente il sindaco. E non c’è seduta del consiglio co-munale in cui lui e il suo collega Hipólito Aires Navarro non siano deiniti “fascisti”. “Visti i suoi metodi autoritari”, dice Pradas, “e il culto della personalità, la gente ha pau-ra. Ha messo a punto un sistema clientelare di cui ha il controllo assoluto. Se si è d’ac-cordo con lui, va tutto bene, in caso contra-rio le pressioni sono fortissime. Per me Sán-chez Gordillo non è altro che un tradiziona-le cacicco andaluso. Approviamo le sue idee ma non i suoi metodi, come l’occupazione delle terre nella più completa illegalità”.

Sánchez Gordillo non si preoccupa delle voci critiche, che rimangono “un numero insigniicante”. Mentre si avvicina il mo-mento del pensionamento politico, la sua principale preoccupazione è rendere per-manente il modello instaurato a Marinale-da e trasmetterlo alle generazioni future. “I prezzi agricoli sono molto bassi e la presen-za dei nostri prodotti su un mercato senza regole è ogni giorno più complicata. Abbia-mo dei progetti, in particolare una banca della terra per i jornaleros senza lavoro, ma ci mancano i mezzi inanziari per realizzar-li. Almeno, però, siamo riusciti a conservare quello che abbiamo conquistato”. Per ora Marinaleda sembra resistere e anche i suoi (numerosi) nemici lo riconoscono. D’altra parte, viene spontaneo chiedersi perché al-tri villaggi andalusi non abbiano seguito lo stesso modello. A questa domanda Sánchez Gordillo si limita a sorridere. Di fronte al municipio uno dei suoi collaboratori ha la risposta pronta: “Di Sánchez Gordillo ce n’è uno solo!”. u adr

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Durante un’occupazione dell’agosto 2012

Il complesso sportivo di Marinaleda, novembre 2012

Braccianti durante una marcia da Jódar a Jaen, agosto 2012

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Sono in tanti a ferirlo, inquinarlo e sventrarlo.Lo sfruttamento delle sue risorse

accelera lo scioglimento dei ghiacciai,causa i cambiamenti climatici

e determina la scomparsadi interi ecosistemi. È l’unico Pianeta

che abbiamo, ed è in pericolo.Ecco perché abbiamo bisogno

del tuo aiuto in difesa.Dai il tuo 5x1000 a Greenpeace.

Non ti costa nulla e può fare tanto.

SONO IN TANTI

A PRENDERE A CALCI

IL PIANETA,

TUTTI I GIORNI.

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Prigionieri di B

Le macerie di una moschea di Baghdad, nell’aprile del 2012

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eri di Baghdad

Le email da Baghdad mi sor-prendono nel bel mezzo di una normale giornata di la-voro. Amici, autisti e inter-preti che dieci anni fa mi avevano aiutato a destreg-

giarmi nella guerra irachena – di cui mi ero occupata per conto del Chicago Tribune – mi scrivono rispondendo ai miei auguri di buon anno. Le loro parole mi colpiscono, lasciandomi attonita davanti al computer. “Non c’è bisogno che ti dica quanto è brutto vivere a Baghdad di questi tempi. So che sei informata sulle ultime notizie. La situazio-ne è pessima”, mi scrive Na deem Majeed, un ingegnere che aveva lavorato per il Chi-cago Tribune come interprete e che oggi gestisce una concessionaria Nissan. A Na-tale del 2013 il quartiere dove vive è stato colpito da due forti esplosioni. Lui e la sua famiglia sono rimasti chiusi in casa per giorni.

Sinan Adhem è un ex uiciale dell’eser-cito iracheno. Nel 2003 faceva l’autista e mi aveva scortato nelle zone più pericolose. Il tono della sua email è allarmante: lavoran-do come consulente per le Nazioni Unite, ha constatato che i livelli di violenza in Iraq continuano ad aumentare. Perciò ha chie-sto un nuovo incarico in un paese più sicuro: la Siria. “La Siria?”, obietto. Un paese in pie-na guerra civile? “Qui le cose vanno sempre peggio e non si vedono segnali di migliora-mento”, mi risponde. Lavorare per l’Onu in Siria, invece, signiicherebbe vivere in un

Christine Spolar, Financial Times,Regno Unito. Fotodi Christian Werner

Dieci anni fa Christine Spolar ha seguito la guerra in Iraq come inviata del Chicago Tribune. A febbraio è tornata a Baghdad per incontrare amici e colleghi. Ha trovato un paese sconvolto dalle violenze e senza iducia nel voto del 30 aprile

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Iraq

compound protetto, mentre sua moglie e sua iglia potrebbero stare in una bella casa in Libano, con la prospettiva di passare un po’ di tempo insieme durante le vacanze. “Ma staremo a vedere”, conclude.

Nel 2013 avevo letto con preoccupazio-ne i resoconti dall’Iraq. Nella provincia di Al Anbar, non lontano dalla capitale, c’era-no nuovi scontri, in alcuni casi provocati da combattenti provenienti dalla Siria. Le no-tizie di decapitazioni, sparatorie e auto-bombe erano sempre più frequenti. La ca-pitale sembrava al riparo dalle violenze, ma poi è arrivato dicembre. A Natale un atten-tato vicino a una chiesa nel quartiere di Du-ra, a Baghdad, ha causato la morte di 24 persone. Lo stesso giorno una bomba in un mercato ha provocato altri undici morti. Violenze paragonabili a quelle del 2008, uno degli anni peggiori della guerra.

Rileggo le vecchie email dei miei ex col-laboratori in cui raccontano di aver compiu-to quarant’anni, di essersi sposati ed essere diventati padri. Com’è oggi la loro vita? Pensano che il nuovo Iraq sia meglio di quello di Saddam Hussein? I loro igli cre-scono sereni? Ci scriviamo e ci sentiamo per telefono. Dieci anni dopo aver lavorato insieme, possiamo rivederci a Baghdad?

Prima di comprare il biglietto aereo, te-lefono a Nadeem perché ho un dubbio: for-se dovrei aspettare le legislative del 30 apri-le. “Se vuoi venire in Iraq, è meglio farlo subito”, mi risponde. “Con l’avvicinarsi del-le elezioni aumenteranno gli attentati”. Poi fa una risatina: “È così che funziona la de-mocrazia da noi”.

Con le lacrime agli occhiAl mio arrivo a Baghdad, a febbraio, mi sen-to confusa. Non riesco a trovare Sinan al terminal dell’aeroporto. Poche ore prima le autorità irachene hanno raforzato le misu-re di sicurezza e, anche se Sinan ha un tes-serino delle Nazioni Unite, non è riuscito a superare i quattro checkpoint e le ispezioni con i cani poliziotto che ha incontrato lungo la strada. Ci sentiamo per telefono e mi manda incontro un amico con un nullaosta di sicurezza più elevato, che mi porta via in auto. A un certo punto, su un lato della stra-da, vediamo Sinan che si sbraccia per salu-tarci. Vedendolo correre verso il mio ine-strino, senza barba e ingrassato ma con un’andatura saltellante da ragazzino, mi viene da ridere. Poi i nostri occhi si riempio-no di lacrime. Pochi secondi dopo è seduto con me sul sedile posteriore dell’auto e mi mostra una città che fatico a riconoscere.

La strada dell’aeroporto è una meravi-glia (una meraviglia da dieci milioni di dol-

lari, osserva sarcastico Sinan): ampie car-reggiate d’asfalto, imponenti barriere di si-curezza e posti di blocco. Mentre procedia-mo incolonnati nel traico, comincio a fare domande. Quando ho lasciato Baghdad, nel 2004, i lampioni non funzionavano, i segnali stradali erano pochi e i negozi di ali-mentari aidabili si contavano sulle dita di una mano. La nuova Baghdad è piena di concessionarie, fast food e centri commer-ciali. In ogni strada si sente il rumore dei generatori – le interruzioni di corrente sono ancora frequenti – ma è chiaro che la città si sta sforzando di risolvere i problemi. Avevo letto che la produzione di petrolio sta per

raggiungere i tre milioni di barili al giorno, ma non mi ero resa conto di quanti investi-tori turchi, iraniani, emiratini e iracheni avessero irmato accordi, costruito appar-tamenti e alberghi, e scommesso su un Iraq più sicuro.

È per questo che le violenze del 2013 hanno spaventato così tanto i miei amici, i politici iracheni e l’amministrazione statu-nitense, che a gennaio ha inviato i suoi rap-presentanti a incontrare il primo ministro iracheno Nuri al Maliki per convincerlo a raforzare le misure di sicurezza. L’Iraq non è certo destinato a diventare una destina-zione turistica ma, secondo gli avversari politici di Al Maliki e molti esponenti della comunità internazionale, il primo ministro ha giocato la carta delle divisioni religiose con troppa disinvoltura. Il mancato rispetto delle promesse fatte a sunniti e sciiti ha con-tribuito a far aumentare le tensioni.

L’anno scorso nella provincia di Al An-bar sono scoppiate le proteste delle tribù sunnite, convinte che il primo ministro, scii ta, avesse ignorato gli impegni assunti nel 2007, ai tempi del cosiddetto surge, quando gli Stati Uniti aumentarono le loro truppe sul campo per sconiggere l’insurre-zione jihadista. I combattenti tribali che avevano partecipato alla lotta contro Al Qae da non hanno avuto beneici né econo-mici né di status. A Ramadi le loro proteste hanno fatto scoppiare degli scontri. In esta-te gruppi di combattenti stranieri prove-nienti dalla Siria hanno approittato dei di-sordini per occupare Falluja. A luglio e a di-cembre sono evasi di prigione altri estremi-sti islamici, che hanno ingrossato le ile de-gli oppositori del governo. In autunno si sono intensiicati gli omicidi mirati. E alla ine del 2013 sono scoppiate bombe in tutto l’Iraq. Nella prima settimana di gennaio la bandiera nera di Al Qaeda è stata vista sventolare su alcuni camion che percorre-vano la provincia di Al Anbar.

Nei giorni in cui stavo organizzando il viaggio, a inire nel mirino sono stati i mini-steri iracheni. Il 30 gennaio un raid al mini-stero dei trasporti ha causato dodici morti. Il 5 febbraio il ministero degli esteri è stato colpito da una bomba: sedici morti e dieci feriti. Non c’è modo di indovinare dove e quando scoppierà la prossima bomba, mi spiega Sinan. Tutte le mattine lui prende il taxi alle sei e mezza – due ore prima di co-minciare il lavoro – per entrare nella zona internazionale, dove si trova l’ambasciata statunitense. Lo fa per evitare sia l’ora di punta sia le bombe. Ma non c’è metodo nel-la follia e in certi giorni le esplosioni scuoto-no tutti gli angoli della città.

Da sapere Alle urne

u Il 30 aprile gli iracheni tornano alle urne per la terza volta dalla caduta di Saddam Hussein per eleggere i 328 rappresentanti del parlamento. I candidati sono 9.045, divisi in 142 partiti e in 41 coalizioni. Le legislative del 2010 avevano portato a una lunga crisi politica. Per formare il governo ci vollero nove mesi di negoziati perché il risultato delle urne era stato un sostanziale pareggio tra la coalizione Stato di diritto, guidata dal primo ministro Nuri al

Maliki, e il blocco laico Iraqiya di Iyad Allawi, che pur avendo ottenuto il maggior numero di voti non è riuscito a stringere le alleanze necessarie a formare un governo. Dopo il 2010 è sembrato che il paese si stesse allontanando da una politica basata sulle divisioni religiose, ma la situazione in realtà è peggiorata, stima Kirk Sowell su Gulf News. “La competizione politica si svolge essenzialmente all’interno di ciascun gruppo demograico (sciiti, sunniti, curdi e altre minoranze). Alle prossime elezioni la coalizione sciita Stato di diritto otterrà quasi sicuramente la maggioranza relativa. Le possibilità che Al Maliki si assicuri un terzo mandato dipendono invece da quanto sarà ampia questa maggioranza”. Il premier è comunque iducioso: per sconiggerlo i suoi avversari politici sciiti dovrebbero formare una coalizione con i sunniti e i curdi. Una prospettiva diicilmente realizzabile, scrive Ned Parker sulla New York Review of Books.

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Quando ero un’inviata in Iraq al giorna-le a volte brontolavano se insistevo che bi-sognava limitare i rischi. Non questa volta. Mi trovano una sistemazione in una casa privata, vicino a una strada protetta da guardie armate. Per uscire dovrò coprirmi il capo con un velo. E siamo d’accordo: niente cene al ristorante né incontri negli uffici pubblici. Mi muoverò solo con i miei ex col-laboratori, a bordo delle loro auto.

Il pomeriggio del mio arrivo, Nadeem e suo fratello Arfan entrano in casa proprio mentre Sinan e io posiamo i bagagli. Ci ab-bracciamo sorridendo. Sono ancora belli – hanno solo perso un po’ di capelli – e vesto-no eleganti, in giacca e pantaloni. Senza smettere di chiacchierare ci infiliamo nell’auto di Nadeem, mostriamo i nostri do-cumenti agli agenti del checkpoint e ci diri-giamo verso un cafè all’aperto. Seduti sotto le palme, facciamo una cena a base di agnello e discutiamo dell’organizzazione dei prossimi giorni.

Arfan ascolterà i notiziari radio del mat-tino e darà un’occhiata su internet per farsi un’idea dei pericoli. “Dopo un attentato tutti vanno a casa e c’è traico. Quando ce ne sono vari contemporaneamente il trai-co diventa impossibile”, spiega. Suo fratello Nadeem, che ha WhatsApp e Facebook sul

telefono, scambia in continuazione mes-saggi sulla sicurezza con la moglie e con gli amici. “Fanno tutti così”, osserva. “Non di-co mai a che ora arrivo. Dico a che ora parto. Dopo di che calcoliamo insieme il tragitto e il tempo necessario, e ci informiamo sui nuovi checkpoint. Per questo c’è anche un’app: GoPhast”.

La mattina dopo mi sveglio tardi. È una splendida giornata ma le notizie sono preoc cupanti. Nel Suq al arabi, un mercato del centro, sono esplose due bombe tra le bancarelle di vestiti. Il bilancio è di sei mor-ti e diciotto feriti. L’Onu rilascia una dichia-razione in cui esprime inquietudine per le “condizioni in rapido peggioramento” nella zona di Al Anbar. Verso sera partiamo per la zona orientale di Baghdad, diretti a casa di Sinan dove si festeggia il compleanno di sua iglia di nove anni.

A tutti i costi

Maryam Adhem indossa una corona di car-ta rosa sui capelli ricci e gioca in salotto con altre sei bambine. Sul tavolo da pranzo c’è una torta di cioccolato decorata con una i-gurina di zucchero di Dora l’esploratrice. Il mio arrivo per Maryam è un evento, ma il momento clou della serata è quando deve aprire il regalo dei genitori: un set da piccola

chimica. Sua madre Hiba scherza: “Potreb-be diventare la nostra scienziata”.

Sinan e Hiba guardano le bambine di-vertiti, ma anche pensierosi. Sinan fa nota-re che per Maryam la casa è tutto il suo mondo. Ha imparato a pattinare in salotto. La bici è appoggiata vicino al letto. Il luogo più lontano che può raggiungere pedalando è il parcheggio di casa, che è protetto da un muro alto tre metri. I genitori non la lascia-no giocare per strada. Hanno paura dei ra-pimenti e delle sparatorie. La scuola di Ma-ryam dista cento metri ma i suoi la accom-pagnano in auto, come fanno tutti i genitori. “È questo che mi preoccupa”, dice Sinan. “Quando ero piccolo io e i miei amici stava-mo sempre per strada. Andavamo a piedi a scuola, ed era così che imparavamo a vive-re. Andavamo in bici, giocavamo… La reli-gione non aveva importanza. Nessuno ci faceva caso”.

Il quartiere dove vivono, Zayuna, è mol-to cambiato. Sotto la dittatura di Saddam, i quartieri erano divisi in base alla professio-ne dei residenti. Gli insegnanti abitavano da una parte, gli ingegneri da un’altra. Il pa-dre di Sinan, un sunnita, era un ufficiale dell’esercito perciò vivevano in una strada elegante. Quando Sinan era adolescente, suo padre si riiutò di partecipare alle riu-

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Baghdad, aprile 2012

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nioni del partito Baath e fu cacciato dall’esercito. Perse il diritto alla pensione e fu costretto a vendere parte della casa.

Oggi Sinan, il fratello e la sorella vivono ancora nello stesso stabile con le loro fami-glie, ognuna a un piano diverso. Conoscono bene il quartiere, ma non i loro vicini. Negli ultimi sette anni le moschee sunnite sono diventate sciite. Si sono presentati dei reli-giosi sciiti dicendo che “così era meglio”, racconta Sinan. A cinquecento metri da ca-sa sua ci sono due nuove moschee sciite in costruzione. I nuovi vicini sono tutti sciiti. Quando gli chiedo se ci sono tensioni, Sinan fa segno di no. “Qui gli sceicchi sono mode-rati”, spiega. “Neanche loro vogliono pro-blemi”.

Hiba mi parla della scuola. Insegna alle elementari, in un istituto pubblico, dove mancano il riscaldamento, l’aria condizio-nata e l’acqua corrente. Condizioni molto diverse rispetto a quando lei e Sinan erano bambini. Per Maryam, invece, hanno deci-so che la scuola privata – a Baghdad ce ne sono moltissime – fosse l’unica scelta possi-bile. Hiba non si lamenta del governo né di quello che manca nelle scuole pubbliche. Ma lei e Sinan – come molti altri – stabilisco-no autonomamente quali sono le cose a cui non vogliono rinun ciare.

cui sono ospite. Mentre ci stringiamo la ma-no, mi rendo conto che non sorridono solo a me. Anche loro non si vedono tutti insie-me da anni.

Alcuni vivono in case vicine all’aeropor-to, nel quartiere di Al Amiriya, e possono rimanere circondati dai posti di blocco per giorni interi. Una riunione in programma da mesi può andare all’aria a causa di un al-larme terrorismo. Alcuni si sentono ogni tanto per telefono, ma lo stress di attraver-sare Baghdad li tiene lontani. Oggi, però, hanno fatto uno sforzo.

All’insegna del terroreSono un bel gruppo. Tra loro c’è un assisten-te parlamentare, un negoziatore impegnato a far entrare l’Iraq nell’Organizzazione mondiale del commercio, il dirigente di un’azienda energetica turca, due dirigenti della Nissan, un autista, un consulente per le questioni di sicurezza delle Nazioni Unite e uno shipping manager. Fanno lavori im-portanti e dovrebbero essere i motori dell’economia irachena. Ma, quando gli chiedo che ruolo avranno nel futuro del pae se, quasi tutti scuotono la testa.

Era prevedibile che i primi anni della de-mocrazia sarebbero stati duri. Ma quest’an-no, con le elezioni in programma per il 30

Quando manca l’elettricità si usa un ge-neratore diesel autonomo, che resta in fun-zione per ore ogni giorno. Costa 230 dollari al mese. Il fratello di Sinan, ingegnere, ha analizzato la qualità dell’acqua a Baghdad e ha consigliato ai parenti di non berla. Quin-di la famiglia di Sinan spende altri 150 dol-lari al mese per l’acqua minerale. La scuola privata costa cento dollari al mese. Questo è il costo della vita per una famiglia della classe media, spiegano Hiba e Sinan. Ma, a preoccuparli di più, è il costo della violenza su Maryam.

“Mia iglia deve conoscere il mondo”, aferma Hiba. Sinan le fa eco: “Dovrebbe passeggiare per strada, andare in gita con i compagni… In questo modo un bambino acquista iducia in sé”. È per questo che Si-nan vorrebbe lavorare in Siria. “Se voglio una vita migliore, devo correre dei rischi”, spiega. “Maryam ha un radar al posto delle orecchie. Quando sente parlare di esplosio-ni sta ancora più attenta. Sa cos’è un ordi-gno esplosivo improvvisato. Ascolta la ra-dio, sente parlare di queste cose a scuola. Non voglio che cresca contando le auto-bombe”.

In una fresca mattina di sole otto miei collaboratori dei tempi della guerra in Iraq si materializzano nel giardino della casa in

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Il quartiere Al Hurriya a Baghdad, 2012

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aprile, si sentono frustrati da una vita vissu­ta all’insegna del terrore. Ogni nuova esplo­sione indebolisce le speranze di condurre un’esistenza normale.

“A cosa serve un buon lavoro se la tua preoccupazione principale è sopravvive­re?”, si chiede Tharwat al Ani, funzionario del ministero del commercio. “Ogni anno c’è una novità: le autobombe, gli ordigni artigianali, i rapimenti. Dopo gli attentati ai ministeri, le misure di sicurezza sono state rafforzate. Ma questo significa più checkpoint per le strade e più complicazio­ni. Ecco com’è la mia vita: in una giornata fortunata impiego dieci minuti per andare al lavoro in auto. Tre settimane fa, ci ho messo cinque ore. Perdo più della metà del­le mie giornate”.

Haval Tahir dirige gli uffici di Etsun, un’azienda turca che distribuisce carburan­ti. Secondo lui gli ultimi dieci anni hanno portato opportunità di lavoro migliori, ma anche orizzonti più ristretti. Lavora da casa, e così può evitare il traico, ma il motivo non è piacevole. Nel 2005 il fratello del suo capo è stato rapito. L’azienda ha pagato cen­tomila dollari di riscatto, ma la vicenda ha lasciato il segno. “Quando si sono resi conto della situazione in Iraq, mi hanno ordinato di lavorare da casa”, racconta Haval, che ha quattro igli. “Non è quello che ci aspettava­mo quando arrivarono gli americani”.

Il quartiere di Al Amin, dove vive, nella zona sudest di Baghdad, è molto cambiato negli ultimi sette anni: i cristiani sono anda­ti via. I nuovi arrivati, prevalentemente scii­ti, hanno comprato le case e le hanno divise in appartamenti. Buona parte di queste fac­ce sconosciute sono poliziotti o dipendenti statali, spiega Haval. Lui, un curdo cresciu­to a Baghdad, e sua moglie, una dirigente scolastica, nel 2007 hanno silenziosamente

cambiato qualcosa nella loro vita per man­tenere buoni rapporti con i vicini: il nome curdo del loro iglio maggiore, Azad, è stato cambiato in Omar.

Quando faceva la guardia armata per il Chicago Tribune, Majid Khadim conosceva poche parole d’inglese. Quando gli chiedo del suo nuovo lavoro di autista per le Nazio­ni Unite, sbotta in inglese: “Tutta la nostra vita ruota intorno alla sicurezza. Se succede qualcosa, come una bomba, devo telefona­re a tutti i miei familiari per accertarmi che stiano bene. Abbiamo paura ventiquattr’ore al giorno”.

Majid sa bene cosa signiica prendere delle precauzioni. Aveva lasciato il Chicago Tribune per lavorare alla Ake, un’agenzia che valuta i rischi per la sicurezza e fornisce analisi sulle regioni ostili. A quei tempi il quartiere dove abitava, vicino all’aeropor­to, si trovava sulla linea di fuoco. Dopo il ri­tiro delle truppe statunitensi nel 2011, Majid sperava che gli attacchi sarebbero diminui­ti. Ma quando nell’aprile del 2013 un’esplo­sione ha devastato un cafè dove un gruppo di neolaurea ti stava facendo festa, si è reso conto che sarebbero tornate le violenze.

L’attentato era avvenuto due giorni pri­ma delle elezioni provinciali, considerate un banco di prova della stabilità politica ira­chena. Secondo tutti i miei ex collaboratori bisognerà aspettarsi nuove esplosioni di violenza prima del voto del 30 aprile, con cui il primo ministro Al Maliki spera di otte­nere un terzo mandato. Quando chiedo chi andrà a votare rimango sorpresa: quasi nes­suno. “Perché correre il rischio?”, spiega Arfan Majeed. “Dovremmo aspettare in i­la, mettendo a repentaglio le nostre vite, mentre le autorità non sanno neanche co­me garantire la nostra sicurezza”.

Tutti parlano male dei parlamentari e del fatto che si sono aumentati gli stipendi e le pensioni. “L’anno scorso, durante il Ra­madan, un deputato si è vantato del fatto che suo iglio aveva speso 3.500 dollari per la bolletta del telefono. Ecco cosa ci tocca sentire”, osserva Arfan.

I risultati delle legislative del 2010 li hanno lasciati di stucco. Il blocco laico di Iyad Allawi aveva ottenuto più voti, ma Al Maliki è riuscito a creare una fragile coali­zione di partiti sciiti che gli ha permesso di restare al potere. Nessuno dei miei amici pensa sia giusto. Si informano su Facebook, leggono i commenti delle altre persone e si chiedono se le prossime elezioni possano incoraggiare nuove alleanze basate su pro­grammi condivisi, invece che sulle divisioni settarie. Ma nessuno crede che possa suc­cedere realmente. Gli scontri nella provin­

Dall’Iraq

Baghdad è il principale cam­po di battaglia dello scontro tra i candidati alle elezioni

del 30 aprile, scrive il giornalista ira­cheno Zuhair al Jezairy. “Le mu­ra, i ponti e gli ediici più alti della città sono diventati un supporto per i manifesti politici. Rispetto alle ele­zioni del 2010 la religione è molto poco presente nei discorsi dei can­didati, che raramente si fanno ri­trarre con il turbante tradizionale. Secondo l’analista politico Alaa La­mi, la campagna elettorale è carat­terizzata da molta propaganda, ma dall’assenza di programmi seri. Le grandi coalizioni costruite su base settaria si sono divise in gruppi più piccoli e ogni candidato strizza l’oc­chio agli elettori delle altre comuni­tà. Nessuno, neanche il primo mini­stro Nuri al Maliki, sembra in grado di ottenere la maggioranza necessa­ria per formare il governo. Per que­sto saranno decisive le manovre successive al voto”.

“Gli iracheni vorrebbero un lea­der forte e rigoroso”, scrive Jaafar Wanan sul sito Baghdad. “Ma la politica è talmente in crisi che sarà diicile vedere realizzata la volontà degli elettori. Dato che il parlamen­to ha le mani legate, i discorsi si concentrano sulla igura di un ‘lea­der forte’. Nonostante i numerosi esempi negativi che gli arabi hanno avuto nella storia, sembra che ne siano ancora afascinati. Il nuovo lea der dovrà rispettare la costituzio­ne, leggendola alla luce degli ideali democratici, e moderare il più pos­sibile lo scontro con l’opposizione. Dovrà rappresentare l’intero pae se ed essere intransigente con gli estremismi religiosi, che hanno la­cerato il tessuto sociale. Anche se il voto non porterà a un cambiamento radicale, potrà servire a rinnovare il parlamento e a far emergere un lea­der che prenda provvedimenti deci­si contro la corruzione, il terrorismo e il settarismo”. u

Un leader fortema non troppo

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Da sapere Attentati a ripetizioneAttacchi terroristici registrati in Iraq ogni settimanaFonte: Ake, Financial Times

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Iraq

cia di Al Anbar aggravano le tensioni tra sunniti e sciiti. Si parla di combattenti che fanno la spola tra la Siria e l’Iraq, e del fatto che l’Iran cerca di inluenzare il risultato del voto. Ai miei vecchi collaboratori viene il dubbio che alcuni politici preferiscano il caos. Muhanned Essam, un’ex guardia ar-mata che ora lavora in parlamento, consi-dera le divisioni religiose una strumentaliz-zazione politica. “Non credo che esistano problemi di settarismo”, dice. “Non nella vita reale. Guarda qui: siamo tutti amici. I politici sfruttano ogni questione per il loro tornaconto”.

Alcuni hanno chiesto il visto per trasfe-rirsi in Canada, negli Stati Uniti o in Austra-lia, anche se nessuno è entusiasta all’idea di ricominciare da capo. Majid aspetta i docu-menti per trasferirsi ad Albuquerque, negli Stati Uniti. Sarà diicile, aferma, ma lo fa per i igli. Arfan, che ha una moglie giovane e una bimba di un anno, è riuscito a ottene-re i documenti ma poi ha rinunciato: “È dif-icile cambiare vita, cambiare paese”.

Ziad Khisrow vuole trasferirsi nelle zone curde vicino a Erbil. Ha fondato un’azienda di spedizioni aeree, e per un certo periodo ha lavorato in Giordania e in Cina. È tornato a Baghdad perché aveva nostalgia. Ora se ne va per motivi di sicurezza. Una quaranti-na di suoi familiari vive già al nord. Ziad ri-conosce che in Iraq “si fanno buoni afari. Ma alla ine quello che conta davvero è vi-vere in pace”.

Nel gruppo ci sono sunniti, sciiti e curdi. Tutti sono cresciuti ai tempi della dittatura. Guadagnano molto di più di quanto si sa-rebbero mai aspettati. Ma sono tutti d’ac-cordo con Majid, sciita e con un’istruzione universitaria, quando dice che rinuncereb-be a tutto in cambio di una vita tranquilla. Vorrebbe che le iglie potessero giocare li-beramente. La folla lo spaventa. Ha paura che ci siano degli assassini nei parchi gio-chi. “Adoro le mie iglie e se gli succedesse qualcosa non me lo perdonerei”, osserva. “Quando facevo l’insegnante guadagnavo tre dollari al mese. Immagino che qualcuno potrebbe dirmi: con tutti i soldi che guada-gni, le cose ti andranno meglio. Ma tornerei a vivere con tre dollari al mese se mi dices-sero che potrei stare più tran quillo”.

Nel paese tornano anche gli intrighi po-

lenze nella provincia di Al Anbar. Anche nelle sue parole riecheggia il rancore difu-so tra i miei amici. Deinisce le prossime elezioni “una catastrofe”. “Sofriamo per il settarismo e per le divisioni tribali. Il caos di Al Anbar è sfruttato da entrambe le parti. Chi attacca sostiene di voler uccidere i ter-roristi, chi è attaccato dice di voler difende-re i suoi diritti. Sono tutti dei bufoni”, ag-giunge con sarcasmo. “Sono molto, molto divertenti”.

Il centro commercialeNadeem e Arfan sono nervosi all’idea di an-dare a fare shopping ad Al Mansour. Io inve-ce sono curiosa di vedere il primo centro commerciale di lusso di Baghdad, con i suoi cinema, i bar e i negozi eleganti. Il 18 genna-io di quest’anno vicino al centro commer-ciale sono stati sparati dei colpi ed è scop-piato uno scontro a fuoco. Nella galleria non è morto nessuno, però in strada sono rimaste uccise due persone.

Dopo questi fatti, Nadeem ha proibito alla moglie Reem di andarci. Ma io insisto e Reem mi appoggia: è l’unico posto, pieno di guardie di sicurezza, dove si può fare shop-ping senza timori. Quindi prima che io ri-parta, Nadeem e Arfan studiano un itinera-rio che ci permette di evitare il traico sera-le dei lavoratori.

Per entrare al centro commerciale dob-biamo sottoporci a un controllo di sicurezza e io sono perquisita nella sezione riservata alle donne. Poi, mi ritrovo in una terra nuo-va e sconosciuta. In giro ci sono donne con capelli biondo platino, minigonna o jeans attillati. Ragazzi che si tengono per mano. Il centro commerciale, inaugurato sei mesi prima, ofre non solo beni di lusso ma anche la possibilità di incontrare una generazione diversa dalle precedenti.

Samaa Sinan Nadhim e Shams Emad pranzano nella zona ristoro. Samaa studia medicina a Tbilisi, in Georgia; è venuta a fare visita a Shams, che studia ingegneria a Baghdad. Nessuna delle due pensa di anda-re a votare. Samaa potrebbe farlo perché il governo ha distribuito delle schede elettro-niche che permettono di votare dall’estero, ma non ne ha intenzione. “Sono tutti dei bugiardi”, aferma. Anche Shams è convin-ta che i politici non servano a niente. Le due ragazze si mettono a ridacchiare quando gli chiedo com’è l’oferta del centro commer-ciale. “È per questo che siamo qui”, rispon-de Samaa. Shams ha la gonna lunga ino alle ginocchia, ma si è tolta il velo. Samaa non ce l’ha per niente. “Solo in questo cen-tro commerciale, e qualche volta all’univer-sità, mi vesto in questo modo”, spiega

litici. Muqtada al Sadr, una delle igure reli-giose sciite più inluenti, ha annunciato il suo ritiro dalla vita politica. La notizia è sta-ta pubblicata sul suo sito ed è stata difusa da Facebook. I blogger iracheni stanno esa-minando le possibili conseguenze della sua uscita di scena sul voto del 30 aprile. Dopo aver alimentato le rivolte contro le truppe statunitensi e britanniche, Al Sadr ha cam-biato posizione diventando una voce sciita moderata. Ha accusato Al Maliki di aver fatto leva sul settarismo e l’annuncio del suo ritiro, visto come un rimprovero per le azioni del premier nella provincia di Al An-bar, fa nascere sospetti sui possibili accordi politici stretti dietro le quinte.

Perino Al Sadr esorta gli iracheni a eser-citare il loro diritto di voto. Forse i miei ami-ci ed ex collaboratori sono troppo pessimi-sti. Così ho chiesto di incontrare l’attore comico Ali Fadhil, che di recente è tornato a Baghdad dal Kurdistan.

Fadhil, 32 anni, è il volto di Qui Baghdad, un programma televisivo che racconta con

ironia i problemi della vita quotidiana in città. È diventato un fenomeno su YouTube grazie a uno sketch sul peggior incrocio del-la città. Fadhil prende in giro il checkpoint Sayyid al halib (Signor latte), dal nome di un negozio di alimentari vicino al posto di blocco. I suoi sketch sono condivisi da una ventina di gruppi su Facebook, che gli atti-rano centinaia di migliaia di spettatori. Fa-dhil dice di non riuscire neppure a immagi-nare le conseguenze di tutta questa popola-rità. Facebook ha favorito le rivoluzioni di altri paesi e in Iraq i social network stanno cambiando il modo di fare politica, osserva. I cittadini s’impegnano più apertamente e seriamente. “Nel mio sketch mostriamo la realtà. Non vogliamo criticare il governo ma aiutare i cittadini a metabolizzare tutte le diicoltà con cui si scontrano quotidiana-mente”.

Fadhil scoppia a ridere quando gli chie-do come lavora. Mi racconta che un giorno si trovava in ila al checkpoint Sayyid al ha-lib quando ha cominciato a prendere ap-punti sul telefono. Prima che gli facessero cenno di passare, aveva già scritto quasi tut-to il testo. Quando afronto il tema della politica, Fadhil perde il buonumore. Come molti altri, è scettico sulle cause delle vio-

Quando ero a Baghdad ho passato buona parte del tempo a scoprire quello che gli iracheni cercano di dimenticare

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Shams. Senza il velo per strada, “la gente mi issa e non mi sento sicura”.

Qualche minuto dopo incontro Ali Raad, proprietario di una profumeria. “I clienti vengono qui perché è sicuro”, spiega. “Io posso tenere i prezzi alti. Una boccetta di Bulgari Jasmin Noir da noi costa 65 dolla­ri, perché il centro commerciale è pieno di addetti alla sicurezza”. Secondo Raad i suoi clienti comprano articoli costosi “per smet­tere di pensare alla loro vita di tutti i giorni”. Qualche giorno fa è scoppiata una bomba nel posto dove lavora suo fratello. “Ho cer­cato di telefonargli per un’ora e mezzo”, racconta. “Alla ine mi ha risposto, ma que­sti incidenti ti deprimono. Lavoro tutti i giorni dalle dieci del mattino alle dieci di sera, e preferisco così perché in questo mo­do mi stanco e non penso troppo”.

Ricordi diicili

A Baghdad ho passato buona parte del tem­po a scoprire quello che la gente cerca di dimenticare. Durante la rimpatriata con il personale della redazione, solo pochi han­no ricordato i momenti terribili che aveva­no vissuto. Il primo anno avevo mandato Nadeem e Arfan in missione a Bassora ed erano stati inseguiti da uomini armati. Nel 2005, insieme a Majid, erano sopravvissuti

all’esplosione di due autobombe che aveva­no devastato la redazione locale del giorna­le. Sinan è sfuggito a un attacco di mortaio mentre passava per un check point.

Nessuno di loro ha accennato all’unica morte che ha toccato tutti. Nel 2006 la so­rella di Nadeem e Arfan è stata ferita a mor­te. Stavano andando in macchina alla festa di idanzamento di Nadeem, e lei era sedu­ta al suo ianco. Mentre attraversavano un checkpoint è scoppiato uno scontro a fuoco. Un proiettile ha attraversato il collo di Me­dya Majeed uscendo dalla fronte. Aveva 26 anni, insegnava all’università di Baghdad e aveva appena completato un dottorato in scienze della formazione. Quasi tutti gli uo­mini presenti alla rimpatriata erano andati in ospedale per condividere il lutto dei due fratelli. Quando ci siamo ritrovati, ho chie­sto a tutti quanti amici e familiari avessero perso per colpa delle violenze. Nessuno di loro ha saputo rispondere. Hanno perso il conto. Arfan, Nadeem e io non abbiamo mai parlato dei particolari della morte di Medya. Preferiscono non toccare l’argo­mento. Ne ho parlato in privato con ognuno di loro. Nessuno dei due ha ancora visitato la sua tomba. Il trauma è troppo forte.

È così che vivono migliaia di iracheni. Questo spiega la rabbia, la frustrazione e

l’indiferenza nei confronti delle elezioni. La violenza si sta diffondendo. La gente muore. La speranza che il governo possa fermare lo spargimento di sangue è sempre più debole.

Ai vecchi tempi Sinan portava la barba lunga e pregava regolarmente. Oggi no. Non ha più la barba dal 2010, mi dice. Stava diventando bianca e non voleva sembrare vecchio. O essere scambiato per un fonda­mentalista.

Ma quando gli chiedo se prega ancora, la sua risposta mi stupisce. Dice di essere ateo. Da quando? È stato un processo gra­duale, spiega: “Il lavoro per il Chicago Tri­bune mi ha cambiato. Il matrimonio mi ha cambiato. Mi sono posto delle domande, e credo che mi abbia fatto bene. Poi ho assi­stito a tutta la questione delle divisioni reli­giose mentre le persone continuavano a morire. Mi sono chiesto: perché? E così ho abbandonato la religione”.

“Ma credo ancora in Dio, Christine”, aggiunge con tono gentile. “E credo che sia un tipo paciico”. u gc

l’autRIce

Christine Spolar è stata corrispondente del Chicago Tribune. Oggi dirige le inchieste del Financial Times.

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Un bar del quartiere Al Hurriya, 2012

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Scienza

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Sull’isola caraibica di Saint Kitts una colonia di cercopite-chi, le scimmie verdi, pattu-glia la spiaggia per avventarsi sui cocktail avanzati. Appena ne individuano uno, saltano

sulla sabbia per rubarlo: lottano, bevono e rovesciano i tavoli. Inine, al tramonto, si accasciano gofamente sulla spiaggia. Gli scienziati osservano le scimmie ubriache di Saint Kitts da decenni per studiare i mecca-nismi neurali coinvolti nell’alcolismo. Ma questi animali non sono solo un modello

Le trappole evolutive – chiamate anche trappole ecologiche – sono ovunque. Sono state scoperte in ogni tipo di habitat e inte-ressano mammiferi, uccelli, rettili, anibi, pesci e insetti: le scelte sbagliate sembrano buone e gli animali sono attirati in un vicolo cieco evolutivo. In questo nuovo mondo, un bupreste gigante maschio atterra su una bottiglia di birra e cerca di usarla per accop-piarsi. Le proprietà rilessive del vetro color ambra lo hanno ingannato, facendogli cre-dere che la bottiglia sia una femmina della sua specie. Una raganella cubana ingoia

della dipendenza nei primati. Secondo il biologo Bruce Robertson, del Bard college di New York, le scimmie sono inite in una “trappola evolutiva”. La loro passione per l’alcol ha una spiegazione semplice: si sono evolute sviluppando il bisogno di alimenti molto energetici. Ma visto che oggi è più fa-cile trovare una piña colada che una bana-na, questo è diventato una debolezza. “È un comportamento scorretto dovuto al fatto che abbiamo cambiato l’ambiente troppo in fretta e l’evoluzione non si è adeguata”, spiega il biologo.

La trappolaevolutivaChristopher Kemp, New Scientist, Regno Unito

Rane che ingoiano luci e coleotteri che si accoppiano con le bottiglie. L’ambientesi trasforma troppo in fretta per permettere ad alcune specie di riadattarsi

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Un cercopiteco beve un cocktail a Saint Kitts e Nevis

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centinaia di milioni di persone contraggono la malaria perché sono infettate da zanzare che con una puntura trasmettono protozoi parassiti. Secondo l’Organizzazione mon-diale della sanità, nel 2012 in tutto il mondo si sono registrati 207 milioni di casi di mala-ria che hanno provocato 627mila vittime. Una trappola evolutiva creata ad hoc po-trebbe cambiare questi dati, riducendo dra-sticamente il numero di nuove infezioni? Si possono allontanare le zanzare dalle perso-ne esposte al rischio di contrarre la malat-tia? Se miliardi di efemere sono indotte a deporre le uova sulle automobili, sui palazzi e sui pannelli solari, forse si possono ingan-nare anche le zanzare. “È un’idea fantasti-ca, anche se non è facile capire qual è il mo-do migliore per realizzarla”, dice Ro-bertson.

Ken Pienta sta pensando a qualcosa di simile, ma su scala minore. Pienta lavora come oncologo alla Johns Hopkins univer-sity school of medicine di Baltimora, nel Maryland, e vuole creare una trappola per catturare le cellule tumorali metastatiche. “Il mio laboratorio sta cercando di studiare il cancro come ecosistema e di sviluppare quelle che abbiamo chiamato ‘ecoterapie’”, spiega. Un ecosistema non è solo una zona umida, potrebbe anche essere una persona con un tumore con metastasi. Proprio come le rane dalle zampe rosse della California che vogliono accoppiarsi con la specie di rane sbagliata, non si potrebbe ingannare le cellule tumorali per spingerle a seguire un comportamento altrettanto inutile? Pienta

crede di sì. In futuro i medici po-trebbero impiantare in un malato di cancro un dispositivo pieno di chemochine – proteine che attira-no le cellule tumorali – per impe-dire che le metastasi attacchino

altri tessuti. O forse gli oncologi costringe-ranno le cellule a fare metastasi in parti del corpo da cui il tumore può essere rimosso con facilità. “Può sembrare fantascienza, ma molte persone stanno già lavorando a serbatoi che si possono introdurre in una vena”, continua Pienta. “Si potrebbe pro-gettare un iltro da posizionare nel lusso sanguigno per attirare le cellule tumorali e poi toglierle da questa trappola ogni due giorni”. Secondo Robertson, il lavoro più diicile è appena cominciato: “Pensaci un attimo”, dice, “abbiamo ogni genere di spe-cie invasive che bisognerebbe ridurre. Nul-la potrebbe funzionare meglio di apposite trappole evolutive in grado di controllare o sradicare queste specie nocive. Una cata-strofe”, conclude il biologo, “può essere trasformata in un’opportunità”. u gc

una lucina in un cortile della Florida, com-portandosi come se la lucina fosse un inset-to gustoso. In mare, albatros e tartarughe scambiano per cibo i pezzetti di plastica co-lorata e muoiono, piene ma afamate. Le tartarughe appena uscite dal guscio scam-biano le luci degli alberghi sulla spiaggia per l’orizzonte e si allontanano dal mare strisciando verso località affollate, dove muoiono. Le rane dalle zampe rosse della California scambiano per femmine i picco-li di un’altra specie invasiva di rane e li av-vinghiano per ore in un abbraccio inutile.

In un’analisi recente, Robertson ha indi-viduato quaranta tipi di trappole evolutive, alcune delle quali riguardano centinaia di specie. Le trappole possono essere create da attività umane di ogni tipo, tra cui l’agri-coltura, il restauro ecologico, l’edilizia e l’inquinamento. La trappola peggiore è l’in-troduzione di specie invasive. Perino quan-do cerchiamo di fare una buona azione, possiamo inavvertitamente provocare una trappola evolutiva. In Israele, per protegge-re una popolazione di salamandre in via di estinzione, gli esperti di conservazione hanno cominciato a piantare alberi, trasfor-mando un deserto in una zona umida. “Pri-ma non esistevano alberi”, racconta Ro-bertson, “li hanno introdotti con un proget-to di rivegetazione. E questo ha attirato un uccello predatore”. La foresta ha fornito ospitalità alle afamate averle grigie meri-dionali, convertendo un habitat ideale per le salamandre in una trappola mortale. Po-tete immaginare cos’è successo alle sala-mandre.

Un’opportunitàIl concetto di trappola evolutiva fu avanzato per la prima volta all’inizio degli anni set-tanta, ma non suscitò molto interesse. In uno studio del 2006, Robertson non trovò molti esempi pubblicati e stabilì che le trap-pole erano rare, diicili da scoprire o en-trambe le cose. Così ha messo a punto una serie di strumenti per individuarle. “Il mo-do più rapido per distruggere una popola-zione è imprigionarla in una trappola evolu-tiva”, aferma Robertson. Se la deforesta-zione cancella mezza foresta pluviale, vi aspettereste che si perda la metà degli ani-mali. E invece molte specie di mammiferi, volatili e insetti sono attirate dagli habitat marginali ai bordi delle foreste. Altre trova-no abbondanti risorse di cibo nelle zone umide dove gli alberi sono stati abbattuti. Questi habitat, però, sono delle trappole: possono ofrire vantaggi sotto il proilo ali-mentare, ma espongono gli animali ai pre-datori e ad altri rischi, come le strade. Se le

specie rimanenti migrano e si trasferiscono intorno alle zone deforestate, ne spariranno molte di più della metà.

Una delle trappole peggiori colpisce gli insetti acquatici come i tricotteri e le efe-mere. Per molte specie d’insetti, una delle decisioni più importanti è dove deporre le uova. Nel caso degli insetti acquatici, que-sto signiica l’acqua. “Quando la luce si ri-lette sull’acqua viene polarizzata”, spiega Robertson. “Questa luce polarizzata era così associata all’acqua che molti organi-smi hanno sviluppato occhi in grado di ve-derla”. È così che gli insetti acquatici indi-viduano gli habitat adatti alla deposizione delle uova. Ma c’è un problema: i paesaggi moderni sono pieni di superici artiiciali che polarizzano la luce proprio come l’ac-qua. “Gli insetti acquatici depongono le

uova sui palazzi e sui pannelli solari, sull’asfalto e sulle macchine, credendo di trovarsi sull’acqua”, spiega Robertson. “Preferiscono deporre le uova sulle auto-mobili che su un lago vicino, anche se rie-scono a vederlo”. Le uova deposte su que-sti oggetti non si schiuderanno mai.

Come i cercopitechi e gli insetti acquati-ci, anche l’essere umano è rimasto impiglia-to nelle trappole evolutive che ha creato. “Per gli esseri umani la trappola evolutiva più probabile, o la più discussa, potrebbe essere il fast food”, dice il biologo. Ma ce ne sono molte altre: la pornogra-ia, il gioco d’azzardo, i videogiochi e le dro-ghe. Questi fenomeni hanno dirottato com-portamenti che si erano evoluti per favorire la sopravvivenza. In linea di principio è faci-le eliminare certe trappole: “Le cose che polarizzano la luce sono nere e levigate”, spiega Robertson, “quindi se vivete in uno stabile dove i tricotteri depongono le uova potete mettere delle tende bianche. O pote-te costruire la casa con materiali più chiari. Se c’è una strada d’asfalto dove le libellule depongono le uova, si può aggiungere la ghiaia in modo che il fondo diventi meno uniforme. Sono rimedi semplici”.

Ma a volte l’intenzione non è correggere una trappola. Anzi, secondo Robertson, è possibile crearne apposta: lui le chiama trappole evolutive virtuose.

Ogni anno nei paesi in via di sviluppo

Gli insetti acquatici depongono le uova sui palazzi, sui pannelli solari e sull’asfalto

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Crimini ambientali

I reati contro l’ambiente sono in continuo aumento e costituiscono ormai uno dei settori più redditizi per

le grandi organizzazioni criminali. Secondo il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep), i più gravi sono questi. ◆ Il commercio illegale di legname, perché la deforestazione priva le popolazioni indigene dei loro mezzi di sussistenza e accelera il riscaldamento climatico.◆

strato dell’ozono, provocando di conseguenza gravi problemi alla salute, soprattutto l’aumento dei tumori della pelle.◆

suolo e le acque, minacciando l’ecosistema e la salute delle persone.◆ La pesca illegale, che comporta perdite economiche dirette e indirette, e minaccia di estinzione alcune specie.◆ Il bracconaggio, che minaccia di estinzione alcune specie, come le tigri, i rinoceronti e gli elefanti.Di fronte alla proliferazione di questi “nuovi” crimini, alcuni esperti propongono l’istituzione di una Corte penale internazionale dell’ambiente. Cartografare il presente

◆ L’Atlante è un progetto realizza-to da Cartografare il presente, labo-ratorio di ricerca e documentazione sulle trasformazioni geopolitiche del mondo contemporaneo del Di-partimento di storia, culture, civiltà dell’Università di Bologna, con la partecipazione del Grid di Arendal (Norvegia). Ogni mese Internazio-nale ospita una selezione di mappe sui principali temi dell’attualità po-litica, economica e sociale per orientarsi nelle trasformazioni del mondo globalizzato.

La versione integrale dell’Atlan-te, con più mappe, è online su: internazionale.it/atlante.

Queste pagine

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Atlante 14

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Gli abitanti di Bekoji, una città di 17mila abitanti sull’altopiano etiope, hanno vinto dieci me­daglie d’oro olimpiche negli ultimi vent’anni

(16 medaglie in tutto con sette atleti diver­si). Bekoji ha vinto così più medaglie d’oro dell’India, con i suoi 1,2 miliardi di abitan­ti, in tutte le edizioni delle Olimpiadi. L’a­tleta più noto è Kenenisa Bekele, attuale detentore dei record del mondo nei cin­quemila e nei diecimila metri.

Ogni mattina alle sei centinaia di per­sone si radunano nei boschi intorno a Bekoji per allenarsi, ma quasi tutti gli abi­tanti, quale che sia la loro professione, in­dossano scarpe da corsa e hanno l’abitudi­ne di correre per muoversi in città.

La concentrazione di fondisti e mezzo­fondisti di alto livello in Etiopia, come an­che in Kenya, è dovuta a una combinazio­

La città dei campioniGli atleti di Bekoji, sull’altopiano etiope, hanno vinto 16 medaglie olimpiche negli ultimi vent’anni. Ma tutti gli abitanti sono dei corridori. Le foto di Francesco Alesi

Portfolio

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ne di fattori genetici, geograici e sociali (foto Parallelozero). u

Francesco Alesi è nato a Roma nel 1975. Questo reportage, realizzato nell’agosto del 2013, ha vinto il premio speciale della giuria ai Days Japan international photojournalism awards.

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Sopra: un allenamento nei boschi intorno a Bekoji. Nella pagina accanto, in alto: la maratoneta Askale Tafa, 29 anni, originaria di Bekoji, mostra le medaglie vinte. Tafa vive ad Addis Abeba con il marito Tolo Debele, anche lui maratoneta. Con i loro risparmi hanno aperto un hotel ristorante a Bekoji. In basso al centro: un ragazzo si allena sulla piazza del mercato di Bekoji. Qui accanto: il mezzofondista Lencoo Tesfare, specialista dei cinquemila metri. Dopo l’allenamento lavora da un suo amico barbiere per 20 birr al giorno (circa 0,80 euro).

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Allenamento alle sei del mattino nei boschi intorno a Bekoji

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Sopra, dall’alto: una veduta di Bekoji (la città si trova nella regione di Oromia, a 2.810 metri sul livello del mare); gli abitanti riuniti per seguire in tv gli atleti locali durante i Mondiali di atletica a Mosca. Qui accanto: alcuni atleti durante una pausa dell’allenamento. L’allenatore è Santayehu Eshetu, insegnante di educazione isica al liceo di Bekoji. Eshetu ha scoperto e allenato i più importanti atleti di Bekoji, tra cui Kenenisa Bekele e Tirunesh Dibaba, entrambi vincitori di tre medaglie d’oro olimpiche, e Derartu Tulu, prima africana nera a vincere una medaglia d’oro olimpica. Nella foto grande: bambini giocano in strada. In basso al centro: un allenamento nel fango. Gli allenamenti si svolgono anche tra giugno e settembre, durante la stagione delle piogge. Le scarpe da corsa sono riparate in una bottega locale perché molti non possono permettersene di nuove. In basso a destra: corsa con ostacoli fatti in casa.

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Dopo aver cominciato il suo nuovo lavoro, Mi-chael Correia ha aspet-tato più di una settima-na prima di dire ai suoi genitori che era diven-

tato un lobbista della marijuana. “Sono sta-to assunto da un’associazione che cura gli interessi commerciali di alcune piccole im-prese”, gli ha detto quattro mesi fa, dopo essere stato assunto dalla National canna-bis industry association (Ncia). Non stava mentendo, ma per una persona che ha lavo-rato per i repubblicani e per organizzazioni conservatrici per quasi sedici anni, non era semplice dire a mamma e papà che da quel momento avrebbe rappresentato la Big pot, l’industria dell’erba. Non era la prima volta che Correia evitava di parlare ai suoi geni-tori della marijuana. Da adolescente ha fu-mato una decina di volte prima di conclu-dere che su di lui la marijuana ha solo l’ef-fetto di renderlo afamato e stanco. “È stata una notizia inaspettata per me”, racconta sua madre Joanne, spiegando che ha sem-pre messo in guardia i suoi tre igli dai peri-coli delle droghe. “Se qualche volta ha fu-mato, non ce ne siamo mai accorti. Ma se l’ha fatto, è andato oltre, evidentemente. Adesso non beve nemmeno cafè”.

Correia, 44 anni, forse non voleva rac-contare ai suoi genitori di aver fumato ma-rijuana in passato, ma non aveva intenzione di nascondergli per sempre i dettagli del suo nuovo lavoro. Alla ine gli ha spiegato di essere il primo lobbista a tempo pieno in

attività per l’Ncia – in pratica la camera di commercio della marijuana – al congresso. In fondo è vero che si occupa di piccole im-prese. Aziende che hanno nomi come Weed maps, Chronic clinic e Haze city.

“Quando ce lo ha detto, non abbiamo pensato nemmeno per un momento che fosse illegale o immorale”, racconta Joan-ne. “Non farà niente che non sia perfetta-mente legale. Siamo molto orgogliosi”.

Con il suo metro e novanta di altezza, le ultime tracce di un’abbronzatura california-na, una testa piena di capelli, una cravatta rossa e un soprabito nero, Correia è il nuovo volto della marijuana a Washington. Le bat-taglie ideologiche appartengono al passato, così come le bandiere dei fricchettoni. Or-mai non servono più. Nel 1969 un sondag-gio di Gallup aveva rilevato che solo il 12 per cento del paese era favorevole alla legaliz-zazione della marijuana. Nel 2013 quella percentuale era salita al 58 per cento. La battaglia contro l’idea che la marijuana sia una cosa da depravati è ormai conclusa. È stata sostituita da una serie di battaglie più limitate e professionali su questioni come la sua legalizzazione e i modi in cui tassarla e regolamentarla. Sommate queste piccole schermaglie e otterrete uno scontro per l’anima del movimento per la marijuana.

“Penso che in questo momento siamo di fronte alla transizione dal movimento

È il primo lobbista a tempo pieno dell’industria della marijuana al congresso degli Stati Uniti. Il suo compito è ottenere condizioni iscali e inanziarie favorevoli per le aziende del settore

Ben Terris, The Washington Post, Stati Uniti. Foto di Melina Mara

alla lobby”, aferma Mark Kleiman, docen-te all’Università della California (Ucla). “I funzionari in giacca e cravatta hanno emarginato gli hippy. Ed è un male, perché l’interesse degli hippy era in linea con quel-lo dell’opinione pubblica, mentre quello dei funzionari in giacca e cravatta è all’op-posto”. Questo è uno dei possibili punti di vista. L’altro è che il movimento è cresciu-to. “Si è trasformato in una forza legittima e degna di rispetto”, dice Jared Polis depu-tato repubblicano. Polis rappresenta il Co-lorado ed è una delle principali voci a favo-re della legalizzazione della marijuana nel congresso.

L’utile nettoCorreia non dice se è favorevole o contra-rio alla legalizzazione. “Per fortuna non devo afrontare questo argomento”, dice. È stato assunto per fare un lavoro sporco, sa come funzionano le cose a Washington e non si pone il problema degli efetti della marijuana.

Nato in una famiglia di democratici, Correia ha scoperto di avere un’identità po-litica diversa da quella dei suoi genitori fre-quentando l’Università della California, a San Diego. Dopo la laurea, ha lavorato per nove anni nello staf dei repubblicani pres-so la commissione parlamentare sulle risor-se naturali. Poi ha ottenuto un incarico diri-genziale che l’ha portato al congresso e alla Casa Bianca come direttore degli afari fe-derali per l’American legislative exchange council (Alec), un’organizzazione che colla-bora alla stesura di disegni di legge di stam-po conservatore. Tra le altre cose, l’Alec ha contribuito alla realizzazione di leggi per punire in modo molto severo i consumatori di droghe. Correia sostiene di non aver mai lavorato ai progetti di legge dell’Alec sulle droghe. Quindi non ha avuto nessuno scru-polo etico quando, nel 2013, ha fatto do-manda di assunzione all’Ncia. Se si toglie la parola “marijuana”, il lavoro di Correia

◆ 1969 Nasce a San Diego, negli Stati Uniti.◆ Anni novanta Dopo la laurea all’Università della California, lavora per nove anni nello staf dei repubblicani presso la commissione parlamentare sulle risorse naturali.◆ 2007 È assunto come direttore degli afari federali dall’American legislative exchange council.◆ 2010-2011 Lavora nello staf del deputato repubblicano George Radanovich.◆ Novembre 2013 La National cannabis industry association lo assume come lobbista.

Biograia

Ritratti

Michael CorreiaLobbista in erba

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sembra incredibilmente noioso. La sua at­tività principale consiste nel convincere i parlamentari a fare due cose: cambiare la normativa iscale per alleggerire le tasse per gli imprenditori e facilitare l’accesso di queste aziende ai prestiti bancari. Secondo alcuni attivisti per la legalizzazione non è abbastanza. “Noi vogliamo aggiustare il motore, e loro invece vogliono solo dare un quarto di giro a una vite del carburatore”, sostiene Allen St. Pierre, direttore della Na­tional organization for the reform of mari­juana laws (Norml). “Mi sono sempre sen­tito più a mio agio nel fare campagna per i diritti civili invece che ragionando solo sull’utile netto”.

Nel dirlo, St. Pierre sorride. Da “polemi­sta”, come lui stesso si deinisce, ha sempre cercato lo scontro, ma sa anche che la batta­glia principale è stata vinta. Per provarlo, St. Pierre mi mostra uno scontrino di 73,01 dol­lari: Super Lemon Haze, 22,16; Kool Aid Kush, 22,16; contenitore per la fioritura, 0,82; Wana Rolls, 14,77; tasse, 13,10. Un ac­quisto legale alla Terrapin care station di Boulder, in Colorado.

Nella sede della Norml, basta guardarsi intorno per capire che l’organizzazione si è sempre occupata di erba: una pubblicità d’epoca di cartine “Acapulco”, una finta piantina di marijuana in un vaso, una bilan­cia con sopra una foglia di marijuana e un

vecchio poster del ilm Reefer madness. Ma non bisogna lasciarsi ingannare: questo ar­redamento non indica più l’appartenenza a una controcultura. Fumare erba sta diven­tando un gesto conformista. “Se fai una ri­cerca su Wall Street Journal, Barron’s o For­bes”, racconta St. Pierre, “scopri che hanno scritto più articoli sulla marijuana negli ul­timi 18 mesi che nei 24 anni che ho trascorso qui. E ne scrivono in chiave puramente eco­nomica”.

Nuove side

La Norml ha fatto un lungo cammino da quando, nel 1970, Keith Stroup fondò l’or­ganizzazione con i cinquemila dollari for­niti da Playboy come capitale iniziale. Stroup, che attualmente è consulente lega­le della Norml, sa che la trasformazione del movimento per la legalizzazione in un’attività economica non è priva di pro­blemi. “Le persone che lavorano per l’in­dustria vogliono prima di tutto arricchirsi”, dichiara Stroup, che con i lunghi capelli bianchi e gli zigomi prominenti somiglia a un compositore del seicento. “Tanti anni fa ci si divideva tra favorevoli e contrari alla legalizzazione. Oggi non è più così sem­plice”.

Oggi ci sono persone come Mark Klei­man preoccupate dall’idea che l’industria della marijuana possa cominciare a somi­gliare a quella del tabacco; ci sono gruppi per la vendita della marijuana a scopo tera­peutico spaventati dal fatto che l’uso per scopi ricreativi possa sottrargli fette di mer­cato; e ci sono i deputati del congresso che potrebbero anche essere favorevoli al cam­biamento ma devono fare i conti con pres­sioni diverse. “Nel nostro elettorato se ne parla molto”, sostiene Dana Rohrabacher, deputato repubblicano della California. Rohrabacher è favorevole alla legalizzazio­ne. “Sono i deputati del partito repubblica­no che continuano a esitare, perché pensa­no che schierandosi a favore sarebbero in­dicati come sostenitori dei cartelli della droga”. Il congresso tende a restare indie­tro rispetto all’opinione pubblica, ma poi di solito recupera il distacco. E in questo sen­so, quello di Correia è uno dei lavori più entusiasmanti nel campo del lobbismo. Ha assunto l’incarico solo da quattro mesi, ma sa già come muoversi. Con i suoi dodici anni di esperienza al congresso, incontra tante facce familiari. E a quanto pare i suoi colleghi repubblicani non si girano dall’al­tra parte quando lo vedono arrivare. “Pri­ma si congratulano per il nuovo lavoro. Poi mi chiedono se ho con me qualche cam­pione”. u gim

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Viaggi

cambiando”, mi dice Jef Maurer, il padre, durante un’intervista via Skype (hanno trovato una connessione internet stabile in un albergo di Swakopmund, in Namibia). “Praticamente non c’è un posto che non sia stato già scoperto. E siccome sta diven-tando tutto troppo uguale, abbiamo pensa-to che dovevamo assolutamente andare a vedere il mondo e le tradizioni che sono rimaste perché tra cinque anni Miles e Lily potrebbero non trovarle più”, mi spiega. “In molti mi chiedono: ‘Non puoi prender-ti dieci mesi di ferie e fare queste cose, sei un irresponsabile a non mandare i tuoi igli a scuola’”. Un’altra coppia di genitori, Charlotte ed Eric Kaufman, ha ricevuto critiche molto più severe per aver portato i igli piccoli per un mese in un viaggio per mare che si è concluso con una complicata operazione di salvataggio.

Accoglienza senza riserveMiles ha rinunciato al primo anno delle su-periori e al suo primo campionato scolasti-co di hockey. Lily, invece, ha rinunciato alla seconda media, alla squadra di ginna-stica e a stare sempre su Snapchat. In realtà i due ragazzi non perderanno l’anno scola-stico perché Kari Tuomisto Maurer, la mo-glie di Jef, è un’ex insegnante e gli farà le-zione a casa, se possiamo considerare “ca-sa” le case del tè del circuito dell’Annapur-na in Nepal, un appartamento in aitto a Lisbona e una tenda nel cortile di un liceo dello Zimbabwe.

Jef e Kari hanno lasciato la loro piccola azienda in mani idate e hanno aittato la loro casa per coprire le spese del mutuo. Per il costo dei biglietti aerei, piuttosto consistente – circa ventimila dollari per tutta la famiglia – hanno usato i risparmi messi da parte per anni affittando una stanza di casa loro su Airbnb. Acquistare dei pacchetti di biglietti per il giro del mon-do sarebbe stato molto più conveniente ma li avrebbe limitati troppo nelle scelte. Le spese sono più basse che a casa. “Spendia-

“La storia dei Kh-mer rossi si im-para molto me-glio in Cambo-gia che in clas-se”, dice Miles

Maurer, un ragazzo di quindici anni che invece di frequentare il liceo a Flagstaf, in Arizona, sta facendo il giro del mondo. Dif-icile dargli torto.

In Thailandia sua sorella Lily, dodici anni, ha imparato una lezione più persona-le. “Per colpa di quegli uomini anziani spo-sati con ragazzine tailandesi, siccome sono stata adottata in Corea, non potevo andare in giro da sola con mio padre, ci avrebbero guardato male”, racconta. Di tutte le stra-ne creature in cui mi sono imbattuto in Su-dafrica a febbraio, durante tre giorni pas-sati al Kruger national park (sciacalli, faco-ceri, babbuini, zibetti, serpenti, ragni), i più strani di tutti sono i Maurer, i miei vici-ni di tenda al Lower Siable rest camp. Han-no organizzato un giro del mondo in dieci mesi, ma non hanno nessuna troupe tele-visiva al seguito né un sito per raccogliere fondi né aspirazioni di notorietà “virale”. Stanno semplicemente viaggiando. Il loro budget giornaliero è di 150 dollari: decisa-mente modesto per una famiglia di quattro persone.

Il viaggio li ha portati nel sudest asiati-co, poi in Nepal e dopo in Europa. Adesso, negli ultimi quattro mesi del viaggio, gira-no l’Africa meridionale con un’auto 4x4 a noleggio che ha una tenda montata sul tet-to. Stabiliscono il loro itinerario sulla base dei consigli degli abitanti del posto e dei viaggiatori che incontrano. “Il mondo sta

Una vita in vacanzaSeth Kugel, The New York Times, Stati Uniti

Dieci mesi tra Asia, Europa e Africa senza spendere più di 150 dollari al giorno in quattro. Il piacevole esperimento della famiglia Maurer

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ha dovuto vedersela con gli africani che volevano costantemente toccarle i capelli. E i problemi che aveva in Thailandia sono continuati, anche se in modo diverso. “Ac-cusano i miei genitori di avermi sequestra-to, e cercano di portarmi via con sé dicen-do che non appartengo alla mia famiglia”, racconta Lily. Spesso, infatti, Kari e Jeff hanno diicoltà a spiegare alle persone del posto che è stata adottata. “Adesso quando c’è una guida gli diciamo subito di Lily, co-sì ci pensano loro a spiegare la situazione”, dice.

Lily non è l’unica della famiglia a essere stata trattata diversamente. Mentre Jef ha conosciuto diverse persone simpatiche (per esempio, è stato un’intera notte a par-lare di paternità con un agente della sicu-rezza della scuola dello Zimbabwe dove si sono accampati), Kari ha avuto più diicol-tà a socializzare. “Per un fatto culturale”, spiega, “è molto più diicile per una donna fare amicizia”. In Africa è riuscita in parte a ovviare al problema dando un passaggio alle insegnanti e alle donne delle tribù che facevano l’autostop.

Nel complesso, però, la famiglia è stata accolta bene. “Siamo stati in zone del mon-do dove per motivi storici gli Stati Uniti non sono proprio ben visti, e ci hanno ac-colto senza riserve, dal Laos alla Cambogia ad alcuni paesi africani”, racconta Jeff. “Onestamente credo che c’entri parecchio il fatto che viaggiamo in famiglia. Penso che ci renda più umani agli occhi delle per-sone”.

Chiedo a Lily, che ha scritto un articolo per un giornale della sua città e ha un pic-colo blog chiamato Don’t use my toothbrush (non usare il mio spazzolino da denti), se ha dei consigli per i suoi coetanei nel caso i genitori avessero in mente di partire per un viaggio del genere. “Non puoi sapere se avrai mai un’altra occasione per fare un’esperienza come questa”, dice. “Me lo dicevano tutti prima di partire, ma adesso l’ho capito meglio: a chi ha paura di stac-carsi da casa dico che al ritorno ritroverà tutto quello che ha lasciato”. u fas

mo meno per mangiare, meno per la ben-zina e per l’auto”, dice Kari. “Abbiamo di-sdetto l’assicurazione dell’auto e tutte le attività dei ragazzi sono uscite dalla nota spese”. Risparmiano anche sull’assicura-zione sanitaria: la loro polizza di viaggio costa molto meno del piano sanitario di cui usufruiscono negli Stati Uniti. E i regali di Natale? Ogni componente della famiglia ha speso esattamente un euro per regalo. Questo sì che vuol dire essere frugali.

Visto il budget giornaliero così basso devono spesso adattarsi. In Asia 150 dolla-ri bastavano e avanzavano per alberghi e molto altro (le case da tè costano pochi dollari a notte). In Portogallo, invece, l’af-itto della casa ha richiesto quasi tutto il budget. “Abbiamo calcolato che ogni gior-no avevamo 40 euro da spendere. Doveva-mo farceli bastare”, dice Kari. In pratica, niente ristoranti e al massimo un’attività a pagamento al giorno.

I ragazzi fanno buon viso a cattivo gioco o almeno così dicono. A Lily piacerebbe comprare più souvenir e fa notare che il suo guardaroba risente dei pochi soldi a disposizione. “È un po’ diverso portare gli stessi vestiti per una settimana”, dice. “Ma in auto lo spazio è poco quindi comprerò dei vestiti più belli quando torneremo a ca-sa”. Miles, più concentrato sugli sport estremi, è altrettanto comprensivo: “Pre-ferisco vedere un posto in più che pagare cento dollari per fare bungee jumping”.

I Maurer passano molto tempo tra loro, ma a quanto pare resistono. “Ci sono stati pochissimi musi lunghi”, assicura Jef, an-che se non c’è modo di veriicarlo. In com-penso ci sono molti canti e balli, come ho potuto constatare dalla traballante con-nessione via Skype. Lily canta una canzone tradizionale che ascoltavano sempre in Nepal, mentre Miles l’accompagna con una danza che ha imparato da un giovane aiutante durante un’escursione sull’Hima-laya. Non sono le uniche cose che si sono portati dal Nepal. Usano ancora il sopran-nome che gli abitanti del posto hanno dato a Lily perché non riuscivano a pronunciare il suo nome: Lollie.

Jef e Kari si stanno adattando benissi-mo. Jef dice che gli manca la cucina mes-sicana, mentre Kari vorrebbe un po’ più di tempo per sé. “Un bicchiere di vino la sera aiuterebbe”, dice lei. Durante il viaggio hanno imparato tante cose. Miles ha nota-to che in Africa in molti pensano ai soldi appena vedono una famiglia bianca. “Ti vedono solo come un modo facile per otte-nere denaro. Pensano che gli Stati Uniti siano tutti come Hollywood”. Inoltre Lily

In Asia 150 dollari bastavano e avanzavano. In Portogallo, invece, l’aitto della casa si portava via quasi tutto il budget

Lisbona, Portogallo

Regione di Solo Khumbu, Nepal

Regione di Erongo, Namibia

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Graphic journalism Cartoline da Parigi

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Chantal Montellier è una pittrice e autrice di fumetti. Nata nel 1947 a Bouthéon, nella Loira, vive a Ivry-sur-Seine,alla periferia di Parigi. Il suo ultimo libro è L’inscription (Actes Sud bd 2011).

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Cultura

Letteratura

I rami della nostalgia spuntano du-rante l’infanzia, ma straripano forti e impetuosi solo negli anni della so-litudine. Gabriel García Márquez sentì scorrere il iume selvaggio dei

ricordi al suo ritorno ad Aracataca, quindici anni dopo aver lasciato quel paesino polve-roso. Quando risalì il corso d’acqua che cambiava umore a seconda del clima e della pioggia. Quando arrivò a Ciénaga navigan-do su un canale scavato “a braccia di schia-vi” e salì su un treno dove lui e sua madre erano gli unici passeggeri e dove da soli lui e sua madre, Luisa Santiaga Márquez, con-

versarono passando tra le piantagioni che la United Fruit Company aveva seminato lun-go la ferrovia. Sentì anche una nostalgia leggera e sottile entrando nel paesino e ve-dendo la casupola di legno con il tetto di zinco, un tempo glorioso porto di arrivo del viaggiatore, trasformata in un cassetto rug-ginoso pregno di piante ed erbacce.

Ritorno a casaAll’epoca Aracataca era uguale a sempre: un villaggio di case dipinte a pennellate di colori primari, imbevuto del caldo di mez-zogiorno, con una chiesa e un uicio del te-legrafo abbandonato e cadente. E García Márquez era un ragazzo di 23 anni che ave-va pubblicato quindici racconti, scriveva per El Heraldo guadagnando tre pesos ad articolo e fumava sessanta sigarette al gior-no. Con un lavoro da due soldi e il desiderio di diventare scrittore, passava la notte dove

la notte gli passava un giaciglio, e di giorno chiacchierava e beveva con gli amici che incontrava.

Suo padre, pieno di speranza, aveva ri-posto in lui la certezza del trionfo: Gabriel Eligio García voleva appendere alla parete di casa un diploma o un titolo, uno qualsia-si, che certiicasse la bravura negli studi del iglio maggiore, per godere della gloria che a lui era stata negata. Gabriel García Már-quez, invece, aveva studiato qualche seme-stre giurisprudenza all’Universidad nacio-nal di Bogotá e poi aveva abbandonato gli studi; viveva in una pensioncina economica che andò a fuoco durante il Bogotazo. Allo-ra andò a Cartagena e riprese i suoi studi, più per dovere che per entusiasmo. Ma la nostalgia e le letture di notti intere ebbero la meglio e fu così che, tra la povertà e la coc-ciutaggine tipica di chi conosce già il suo destino, García Márquez volle più di ogni altra cosa essere scrittore.

Fu quel pomeriggio inatteso ad Aracata-ca, in procinto di vendere la casa in cui era cresciuto prima con i genitori e poi con i nonni, che Gabriel García Márquez si rese conto che la nostalgia può assopirsi, ma non per questo diminuire. Mentre si avvicinava alla sua casa, con un peso forse simile a quello di una pietra sul cuore, ricordò le sto-rie che gli avevano raccontato i nonni Nico-lás Márquez e Tranquilina Iguarán e che lui aveva sempre saputo essere vere, nono-stante la loro atmosfera irreale. Anni dopo,

Lo scrittore colombiano Gabriel García Márquez è morto il 17 aprile a Città del Messico. Aveva 87 anni

LuminosanostalgiaJuan David Torres Duarte, El Espectador, Colombia

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Gabriel García Márquez a Parigi, gennaio 1982

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quando si trovò davanti alla macchina da scrivere, ricordò tutto ciò che aveva vissuto e sentito tra le pareti di canne e all’ombra di robusti castagni.

Tornato ad Aracataca, evitando la tra-ballante casa di legno in cui visse otto anni, la nostalgia colse Gabriel García Márquez indifeso e, tra la canicola e l’umidità di quel-la terra arida di spiriti, lo distrusse a colpi di certezza: la sua vita, il suo slancio, la vapo-rosa realtà di cui era stato testimone da bambino, tutte e ognuna delle diligenti sto-rie condensate dai nonni e l’eterea e diicile creazione della fantasia si coniugarono in un viaggio imprevedibile.

Fu allora che Gabriel García Márquez approdò al porto sicuro della sua solitudine, la materia prima di ciò che avrebbe fatto do-po. La nostalgia lo avrebbe spinto a scrivere quei racconti con il tono dei suoi nonni, con aggettivi e verbi apparentemente ormai morti ma capaci di creare rilievi attenti nei confronti della realtà e che gli servivano, così avrebbe detto dopo, ad allontanarsi dalla letteratura politica e rurale a cui si era abituata la cultura colombiana. García Már-quez tornò a Barranquilla, alle conversazio-ni con Álvaro Cepeda Samudio e Alfonso Fuenmayor alla Cueva, e si nutrì paziente-mente di letteratura statunitense, della sua struttura e della sua ambizione di prendere il caos e trasformarlo in un caos degno di essere letto. Su invito ostinato di Álvaro Mutis arrivò a Bogotá e diventò giornalista

dell’Espectador, proponendo lì le sue idee sulla scrittura: un metodo di osservazione, la raccolta di aneddoti apparentemente su-perlui ma indicativi, la meravigliosa crea-zione della realtà. Scrisse articoli che ave-vano il tono dell’epopea anche se erano solo racconti di smottamenti stradali o di una tragedia, o il proilo di un altezzoso cantan-te di Santander.

Lo scrittore e il falegnameSe ne andò a Parigi a fare il corrispondente, e lì restò intrappolato in una camera lugu-bre del quartiere latino quando il giornale chiuse i battenti per la censura di Rojas Pi-nilla. Senza soldi e con molto tempo a di-sposizione, García Márquez occupò i suoi giorni a scrivere un romanzo breve per tra-ma e ininito per considerazioni: Nessuno scrive al colonnello.

García Márquez amava dire che il lavoro del falegname e dello scrittore erano molto simili: entrambi avevano tecniche e mate-riali che bisognava plasmare partendo dalla devastazione della loro natura. Uno usava il legno, l’altro le parole. C’era quindi bisogno del falegname e dello scrittore, i lavoratori delle cose. Con questa prospettiva, prima di notte e poi di giorno, García Márquez scris-se grazie all’ispirazione, ma soprattutto alla disciplina. “Non credo di poter scrivere un libro degno di nota senza una straordinaria disciplina”. Scriveva e nel frattempo dove-va prendersi cura della sua famiglia: di sua

moglie, Mercedes Barcha, e dei suoi due i-gli. Scriveva e nel frattempo mancavano i soldi e la libertà data dai soldi in quel mon-do traboccante di povertà e squilibri che comunque volle afrontare. Dopo aver scrit-to una serie di racconti con scenari e perso-naggi presi dalla realtà, dalla sua realtà, in libri come I funerali della Mamá Grande, si rinchiuse per diciotto mesi a scrivere quel romanzo che si sarebbe abbeverato alla fonte della sua infanzia, ai ricordi dei suoi nonni: Cent’anni di solitudine, che segnò l’approdo alla sua solitudine.

“La solitudine dello scrittore è molto simile alla solitudine del potere”, disse. “Lo scrittore vuole ritrarre la realtà e a volte per farlo inisce per darne una visione distorta. Cercando di trasporre la realtà, lo scrittore potrebbe inire per perdere il contatto con essa, chiudendosi, come si suol dire, in una torre d’avorio”. Carlos Barral, editore di Seix Barral, gli aveva detto che forse il suo romanzo non avrebbe avuto successo. Gli anni e i fatti lo contraddissero. Dalla solitu-dine della torre d’avorio, García Márquez passò alla solitudine della fama. Non scri-veva più per i suoi amici, come prima, ma per milioni di lettori in tutte le lingue di Ba-bele che avevano messo a soqquadro i si-gniicati e che leggevano nella condanna secolare dei Buendía la condanna dell’uma-nità intera alla tormenta leggendaria, al di-sastro squisito, alla meschina felicità che corrode le anime nei secoli dei secoli. u fr

Maggio 2007, García Márquez torna ad Aracataca

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Cultura

Cinema

Una grande collezione di cinegiornali britannici è disponibile su YouTube L’agenzia British Pathé, che con i suoi cinegiornali ha co-perto i primi settant’anni del novecento, ha pubblicato su YouTube tutti gli 85mila video della sua collezione, per un to-tale di 3.500 ore di ilmati sto-rici. Da dove si comincia a esplorare tutto questo mate-riale? L’unica risposta è im-mergersi a caso. In questo mo-do può capitare di ripescare un video del 1930 dedicato a Mi-cky, il cane che “fa i salti più alti del mondo”, o uno del 1935 su Leslie Bowles, un bambino

di tre anni che pesava sessanta chili.

Tra i ilmati messi in evi-denza sulla pagina YouTube di British Pathé, spiccano quelli di grandi eventi storici (l’abdi-cazione dello zar Nicola II nel 1917, la battaglia della Somme, l’esplosione della bomba ato-

mica su Hiroshima), ma anche quelli di incidenti e disastri, come l’incendio del dirigibile Hindenburg in New Jersey nel 1937 o la morte di Franz Rei-chelt, che nel 1912 testò il suo paracadute artigianale buttan-dosi dalla torre Eifel.

Uno degli aspetti più inte-ressanti della raccolta è quan-to possa essere bizzarro anche il passato più recente: un video del 1954 parla di Catherine Bent, “una delle rabdomanti professioniste migliori d’In-ghilterra”. A quanto pare, negli anni cinquanta, era un lavoro di tutto rispetto.Stephen Moss, The Guardian

Dal Regno Unito

Il novecento di British Pathé

Dieci ilm nelle sale italiane giudicati dai critici di tutto il mondo

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Media

Italieni I ilm italiani visti da un corrispondente straniero. Questa settimana paul bompard, corrispondente del Times Higher Education e collaboratore del Times.

Il venditore di medicineDi Antonio Morabito. Con Claudio Santamaria, Isabella Ferrari. Italia 2013, 105’

●●●●● Durissima denuncia della corruzione che governa il commercio di farmaci nel si-stema sanitario italiano. Un giovane “informatore scien-tiico”, di quelli che fanno il giro dei medici di base per presentare i prodotti della lo-ro casa farmaceutica, è mi-nacciato di licenziamento se non fa prescrivere i medici-nali della sua azienda. Per raggiungere l’obiettivo acce-de illegalmente ai dati delle farmacie in modo da control-lare l’operato dei medici e premiarli, a seconda del li-vello di “collaborazione”, con cellulare o automobile, con fornitura di “escort” o conve-gni-vacanza in paradisi tropi-cali. Se i medici corrotti sono anche primari ospedalieri hanno il potere di decidere se usare un costosissimo farma-co piuttosto che un altro e in grandi quantità. Il venditore corrompe, ma ne sofre e si corrompe lui stesso. Imbotti-to di ansiolitici, somministra di nascosto anticoncezionali alla moglie per evitare il peso economico di un iglio. Il ilm è ben girato, anche se con al-cune lentezze e un eccesso di retorica. La realtà che rac-conta è terribile. Essendo “inzione” non possiamo sa-pere quanto sia realistico. Ma dato quello che regolarmente emerge da indagini e proces-si, c’è poco da sperare.

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niugale da madre di famiglia (nel secondo ilm). Sarebbe troppo facile rimproverare a Von Trier l’assenza di un’esal-tazione edonistica del com-portamento di Jo. Niente ero-tismo né glamour in una pelli-cola lucida, di una freddezza sinistra. Il regista va chiara-mente oltre il compiacimento per un atteggiamento liberta-rio. Il sesso è sia lo strumento di un’afermazione personale sia una forza distruttrice. Nel-la seconda parte Jo ritroverà se stessa, ma solo dopo un percorso paradossale in cui scoprirà il potere della sotto-missione e del dolore isico. È il nichilismo quello che de-scrive Von Trier. Il caos, non la libertà, o comunque il caos come strumento di liberazio-ne suprema. Di fronte a Jo e al suo percorso, i paradossi pro-posti dal suo confessore risul-teranno quasi banali. E il ina-le rilancia pienamente l’ango-scia latente che pervade tutte e quattro le ore del ilm. Alla ine, i due capitoli di Nympho-maniac e il precedente Anti-christ (2009) formano una tri-logia coerente sulle nevrosi femminili. Isteria, depressio-ne, malinconia: in tre ilm Lars von Trier ha scritto una moderna storia della strego-neria. Jean-François Rauger, Le Monde

The amazing Spider-Man 2. Il potere di ElectroDi Marc Webb. Con Andrew Garield, Emma Stone, Jamie Foxx. Stati Uniti 2013, 142’●●●●● Ecco il secondo nuovo Spider-Man o anche il quinto, se vo-gliamo tenere conto di quello che un tempo era il colossal di Sam Raimi, inito nel 2007, ra-pidamente trasformato in no-ioso e obsoleto nonno di que-sto reboot (ecco una piccola interessante lezione sul capi-talismo consumistico e sulle serie di ilm). Il nuovo Spidey, scritto da Alex Kurtzman, Ro-berto Orci e Jef Pinker e diret-to da Marc Webb, è intratteni-mento superenergetico. Il Pe-ter Parker di Andrew Garield ha un suo fascino longilineo e fa una bella coppia con l’aila-ta Emma Stone nei panni di Gwen Stacey. Una sequenza di montaggio, che mostra la vita triste e solitaria di Parker, fa pensare a (500) giorni insieme, la commedia sentimentale

con cui Marc Webb è diventa-to famoso. E, nonostante i cla-morosi sviluppi della trama, qua e là si avverte una sensa-zione di déjà vu che, come nel terzo Spider-Man di Sam Rai-mi, sembra inevitabile. Il cast è ricchissimo e ognuno, da Paul Giamatti a Felicity Jones, ha il suo momento. Certo Ja-mie Foxx nei panni di Electro sembra davvero sprecato e non si capisce perché una star del suo livello abbia accettato un ruolo così, anche se i duetti con Garield funzionano mol-to bene. In generale, nel mon-do maschile di Spider-Man do-ve lui, Electro e Harry Osbor-ne sono destinati a combatte-re, la vera oppositrice è Gwen e grazie a Emma Stone questo ilm di supereroi si trasforma in qualcosa di insolito per il genere: una storia d’amore. Peter Bradshaw, The Guardian

Il centenario che saltò dalla inestra e scomparveDi Felix Herngren. Con Robert Gustafsson. Svezia 2014, 114’●●●●● Dopo aver vissuto un’esisten-za a dir poco avventurosa, Al-lan Karlsson (interpretato da Robert Gustafsson, un attore comico molto conosciuto in Svezia) è rinchiuso in una casa di riposo dove pensa di tra-scorrere in pace gli ultimi gior-ni della sua vita. Ma sta per fe-steggiare il suo centesimo compleanno quando decide di scappare dalla inestra in cer-ca di nuove avventure. Il ilm ripercorre la vita di questo per-sonaggio alla Forrest Gump, che ha l’occasione di incontra-re molti personaggi storici, da Stalin a Truman. Tratto dal best seller dello svedese Jonas Jonasson, il ilm è divertente, ma rie sce solo in parte a ren-dere giustizia al romanzo. David Sundgren, Snajvid

Nymphomaniac. Vol. 1Lars Von Trier (Danimarca, 118’)

Nymphomaniac. Vol. 2Lars Von Trier (Danimarca, 123’)

The Grand Budapest hotel Wes Anderson (Stati Uniti, 100’)

Il centenario…

Nymphomaniac. Volume 2

In uscita

Nymphomaniac. Volume 2Di Lars von Trier. Con Charlotte Gainsbourg, Stellan Skarsgård. Danimarca 2013, 123’●●●●● Al centro di Nymphomaniac, quando inisce il primo capito-lo o comincia il secondo (è proprio in due episodi che il regista ha voluto distribuire nelle sale il suo ilm), si pone una delle domande fonda-mentali della pellicola. Arriva quando la protagonista con-fessa di non sentire alcun pia-cere sessuale e si dispera per questo. L’orgasmo femminile, o piuttosto la sua ricerca di-sperata (quasi fosse un cerchio multicentrico senza nessuna circonferenza), è presentato come una forza irriducibile e distruttrice, l’afermazione di una paradossale sovranità di cui il ilm di Von Trier costitui-sce la scottante espressione. Abbiamo già parlato della struttura di quest’opera, co-struita in sequenze sedimen-tate raccontate da una donna, Jo (Charlotte Gainsbourg) tro-vata esanime in un vicolo da uno studioso eremita (Stellan Skarsgård), malconcia per es-sere stata picchiata violente-mente. L’uomo la porta con sé a casa e raccoglie il racconto della sua vita. La storia di Jo, dall’infanzia alla maturità, amante insaziabile che accu-mula esperienze sessuali, si articola quasi clinicamente in una serie di tavole la cui suc-cessione rivela un crescendo cromatico di perversioni e di esaurimento delle combina-zioni sessuali. La presunta ninfomania di Jo è sottomessa alle prescrizioni della società, la sua forza passa attraverso un’incapacità di provare senti-menti (nel primo ilm) e l’im-possibilità di condurre una vi-ta adulta normale, una vita co-

I consigli della

redazione

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Libri

Sous chef di Michael Gibney conduce il lettore nel cuore di un ristorante Il mondo della cucina profes-sionale si nutre di leggende. Sulle persone e sulle storie. Da quando alcuni chef sono di-ventati delle star della tv ab-biamo avuto un assaggio di quella che è la vita dentro la cucina di un ristorante, ma Sous chef di Michael Gibney ci fornisce un pasto completo. Ci prende per mano e ci conduce nel meraviglioso reame di col-telli e fornelli, dove regnano l’ordine e il caos, per un giorno intero, dal principio alla dram-matica ine. Quello che si vede in tv è sostanzialmente vero. Gordon Ramsey non si com-porta così solo davanti a una telecamera. Il linguaggio scur-rile e lo scontro degli ego sono

Dal Regno Unito

Ventiquattr’ore in cucina

Michele Mari Roderick Duddle Einaudi, 485 pagine, 22 euroTu non sei Michele Mari, ma Roderick Duddle, intimano all’autore due brutti cei, pre-cipitandolo in un’altra vita, in altri tempi, e in un’altra età perché Roderick ha dieci anni e intorno a lui c’è l’Inghilterra di Stevenson e Dickens ma an-che degli intrighi gotici e dei perversi libri proibiti vittoria-ni. Giocando con la cultura, Mari ci regala un divertimento di classe, un labirintico, verti-ginoso romanzo d’appendice

dove tutto è doppio e un capi-tolo s’intitola perino Il doppio del doppio del doppio, dove in-venzioni e nomi rimandano ad altri, dove i destini s’incrocia-no e le parti si scambiano, do-ve il bene è soprafatto dal ma-le ma alla ine le vie della prov-videnza sciolgono le matasse più complicate, ma alla meno peggio, perché il bene deve sempre accordarsi con il male minore. Perversioni, omicidi e ingiustizie non hanno la me-glio su Roderick e il suo dop-pio Michael, che seguiamo per terra e per mare. Ci si diverte

molto, in questo gran gioco colto e bizzarro, anche se a volte chiedendosi che senso ha tutta questa impresa. Ma nel ritmo mozzaiato delle av-venture ci si crogiola allegra-mente, constatando che l’esa-sperazione delle vicende ri-manda alla constatazione che l’uomo è un’argilla capace di tutto, e che gli innocenti fanno una gran fatica. Dopo la ridda delle azioni simultanee e dei cambi di scena Mari torna malvolentieri al presente e al “vero”: tu sei Michele Mari, non sei Roderick Duddle. u

Il libro Gofredo Foi

Il doppio del doppio del doppio

Italieni I libri italiani letti da un corrispondente straniero. Questa settimana il giornali-sta australiano Desmond O’Grady.

A cura di Federica Pirani e Gloria Raimondi Legami e corrispondenzePalombi, 501 pagine, 34 euro●●●●●Quando la mostra Legami e corrispondenze. Immagini e parole attraverso il ’900 romano chiuderà, il 27 aprile, rimarrà il suo splendido catalogo. Si tratta di rilessioni di Maria Catalano sulle opere in mostra (molte delle quali sono riprodotte con qualche sacriicio nella resa) e di saggi sulle interazioni tra artisti e scrittori, che costituiscono la base della mostra: D’Annunzio, Ungaretti, Pirandello, Marinetti, Moravia e altri ancora. Questi saggi permettono al lettore di approfondire il tema in un modo ancora più piacevole della mostra stessa. In generale i saggi tendono a essere più elogiativi che critici. Roma stessa diventa un tema ed è un peccato che il cinema non abbia avuto un ruolo importante nella mostra visto che alcuni registi, in particolare Federico Fellini, hanno dato un’immagine molto potente della città. Notevole la sezione sui luoghi che artisti e scrittori frequentavano. È molto triste constatare che l’antico Cafè Aragno, in via del Corso, dove s’incontravano Emilio Cecchi, Armando Spadini, Antonio Baldini e Filippo de Pisis, e dove Bontempelli schiafeggiò Ungaretti, sia diventato una specie di fast food. Induce alla nostalgia per una Roma che non esiste più.

veri. Ma quello che ci presenta Gibney è anche un mondo do-minato da piccole armate per-fettamente addestrate, un mondo con delle gerarchie ri-gidissime in cui ognuno ha una posizione e dei compiti ben precisi. Quello di Gibney è un libro drammatico, più di un

romanzo. Dopo averlo letto si ha la sensazione che le cucine siano veramente “l’ultimo ba-luardo della meritocrazia”, co-me ha afermato l’autore. E, se Gibney cucina bene come scrive, allora è un uomo di grande talento. Lucy Scholes, The Independent

Cultura

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Steve TesichKarooAdelphi, 459 pagine, 20 euro●●●●●Nel suo romanzo molto ama-ro, lo sceneggiatore e comme-diografo Steve Tesich (morto nel 1996 a 53 anni) racconta la storia straordinariamente con-temporanea di Saul Karoo, uno sceneggiatore alcolista e moralmente corrotto. Questo improbabile Faust ottiene un lavoro così atrocemente volga-re che neppure lui riesce a cre-dere che gliel’abbiano propo-sto: il sordido produttore Jay Cromwell vuole che Karoo modiichi l’ultimo grande ilm del leggendario regista Arthur Houseman per renderlo più commerciale. Dopo aver visto il ilm, Karoo pensa di riiutare il lavoro. Ma presto sviluppa un’ossessione per Leila Millar, un’attrice sconosciuta che ha adocchiato in una breve scena. Karoo si convince che Millar sia la madre del suo iglio adottivo, Billy, e decide di mettersi sulle sue tracce. Tro-va Leila a Venice Beach, dove lavora come cameriera ed è assillata dal ricordo del neona-to che ha dato via perché fosse adottato. Karoo si innamora di lei, e preso da questa nuova passione ricorre ai più miseri trucchetti da sceneggiatore per trasformare lo sconvolgen-te capolavoro di Houseman in una commedia che farà di Lei-la una star. Per giunta, Karoo progetta di far riunire madre e iglio alla prima del ilm. Ov-viamente i suoi piani vanno in malora, e anche se la nuova versione del ilm diventerà un successo enorme, Meistofele ha in serbo il colpo di grazia che spedirà Faust all’inferno: Karoo, emotivamente deva-stato dal disastro personale che ha contribuito a creare, i-nisce ingaggiato da Cromwell per trasformare un resoconto

giornalistico delle sue tragiche macchinazioni in una sceneg-giatura. Karoo sarebbe un gran ilm. Bill Kent, The New York Times

Roberto AmpueroL’ultimo tango di Salvador AllendeMondadori, 353 pagine, 16 euro●●●●●L’ultimo tango di Salvador Al-lende segna la nuova tappa di uno stile, di un’atmosfera, di un genere che Ampuero inse-gue da tempo. Questa ricerca ha a che fare con l’impiego, in qualità di personaggi letterari, di igure emblematiche della storia cilena, intorno alle qua-li, quasi distrattamente, si va tessendo una inzione assolu-ta, vale a dire una storia inven-tata e separata dalla storia che tuttavia si intreccia con fatti reali. Il libro racconta l’inizio della ine di Allende, che cul-mina con il golpe dell’11 set-tembre 1973. Nel corso di quei giorni il Dottore (così è chia-mato per tutto il romanzo) in-terrompe la sua solitudine con lunghe chiacchierate e partite di scacchi con Ruino, un umi-le e appassionato panettiere che, a causa dei continui scio-peri, è costretto a rivolgersi all’uomo a cui lo lega un pas-sato di militanza in un gruppo anarchico. Dopo averlo fatto penare un po’, Allende lo assu-me come assistente personale. Durante queste conversazioni piene di malinconia, Ruino inculca nel presidente l’amore per il tango. Bisogna dire che questo tentativo di estrema umanizzazione tentato da Ampuero forse non è riuscito benissimo: lo sforzo di desa-cralizzare Allende lo trasfor-ma in un personaggio troppo ammorbidito e quasi assente. Juan Pablo Bertazza, Página 12

Didier DecoinUn’inglese in bicicletta (Edizione Clichy)

Aihwa OngNeoliberalismo come eccezione (La Casa Usher)

Jan SiebelinkNel giardino del padre (Marsilio)

I consigli della

redazione

Jonathan LethemI giardini dei dissidentiBompiani, 536 pagine, 19,50 euro●●●●●I giardini dei dissidenti comincia nel Queens degli anni cinquanta, tra i componenti di una cellula ebraica del partito comunista americano, e inisce nel New England del 2012, dove un rampollo di quegli stessi militanti porta avanti la loro tradizione di rabbioso intellettualismo politicizzato.

Il libro di Lethem si può senza dubbio collocare nel canone del grande romanzo sociale statunitense, che tenta di descrivere alcuni aspetti diicili della vita nazionale. Nella scena iniziale incontriamo Rose Angrush Zimmer, che nel 1955 si trova davanti a un tribunale informale radunato in salotto per espellerla dal partito a causa della sua relazione con un poliziotto nero. La scena inisce con lei che prende la mano del capo del tribunale e la inila a forza sotto la camicetta, in modo che lui, un suo ex amante, possa avere un ultimo e amaro assaggio del suo petto abbondante.

Rose è un personaggio imponente. È sempre la più intelligente, la più rumorosa e la più dura della stanza, o dell’isolato, o forse dell’intero Queens. Intorno a lei ruota un ampio cast di personaggi. I più interessanti sono l’attivista hippy Miriam, iglia di Rose, e Cicero, il iglio dell’amante poliziotto, la cui educazione resta sotto la direzione di Rose anche dopo che la storia

Il romanzo

Una donna imponente

con il padre si è conclusa. Rose e Miriam litigano ferocemente nei giardini di Sunnyside, ino a che Miriam decide di spostarsi nei pascoli più bohémien del Village.

La trama è una costellazione di eventi più che una successione lineare. Questo dà al libro una certa gofaggine, ma anche enorme energia e movimento. I giardini dei dissidenti parla di molte cose, tra cui l’identità etnica e razziale, l’appartenenza di classe e il modo in cui si rilette nei quartieri di New York.

L’identità di Rose come comunista ed ebrea è indissolubile dal suo passato europeo. Nel marxismo vede una via di riscatto dal basso che non riguarda solo se stessa ma è “l’unica prospettiva per la specie umana”. Donne come Rose raramente sono protagoniste. Lei da sola vale il prezzo del biglietto.Ayana Mathis, Financial Times

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Jonathan Lethem

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Cultura

Libri

Anna Momigliano Il macellaio di DamascoVandA epublishing, ebook, 1,99 euro Nel marzo del 2008 durante una riunione della lega araba dopo la morte di Saddam Hus-sein, Gheddai esclamò: “Co-me può un prigioniero di guer-ra, il presidente di un paese arabo e anche un membro del-la Lega araba, essere appeso alla forca senza che nessuno dica nulla?”. Poi, di fronte alle risate dei leader tunisini, siria-ni, egiziani, aggiunse: “Ma non capite che ognuno di noi

potrebbe essere il prossimo?”. Sappiamo come è andata a i-nire per molti dei presenti. Nell’attesa di sapere cosa sarà di Bashar al Assad è utile que-sta biograia che ne ricostrui-sce la carriera: dalle premesse, le lotte interne al clan domina-to dal padre, ino alla lunga e sanguinosa lotta che conduce oggi contro gli oppositori, riu-scendo a destreggiarsi nono-stante le pressioni. Per ora il ri-sultato è che “quello di Assad è l’unico governo al mondo che abbia gasato i propri citta-dini e ne sia uscito più legitti-

mato internazionalmente di prima”. Escono male governi e giornalisti di Europa e Stati Uniti: da subito pronti a scom-mettere su un leader di cui si decantava “l’educazione occi-dentale” anche se aveva pas-sato a Londra poco più di un anno; poi convinti della sua capacità di produrre democra-zia esclusivamente per mezzo di riforme economiche; inine incapaci di distinguere la real-tà dalla versione propagandata dal regime, in merito tanto alla vita familiare quanto alla re-pressione dei ribelli. u

Non iction Giuliano Milani

Il dittatore riluttante

Louise ErdrichIl giorno dei colombiFeltrinelli, 387 pagine, 19 euro

●●●●●Nell’inquietante capitolo di un solo paragrafo che apre Il gior-no dei colombi, un uomo ucci-de cinque componenti di una famiglia di bianchi a Pluto, nel North Dakota, accanto alla ri-serva degli indiani Ojibwe nel 1911. Da questo massacro ne nasce un altro: quando quattro sfortunati indiani si imbattono nella famiglia sterminata, sco-prono che nella casa è stato la-sciato vivo un neonato. Deter-minati a salvare il bambino dall’abbandono ma con il ter-rore di essere ritenuti respon-sabili degli omicidi, lasciano un biglietto anonimo per lo scerifo. Il loro piano però gli si ritorce contro, e gli indiani i-niscono linciati da una gang di bianchi. Questi crimini gemel-li incombono sulla città e sulla riserva per decenni. Quando l’economia del posto entra in crisi, i bianchi dimenticano il terribile incidente o ingono di

dimenticarlo, gli indiani se lo portano dentro come una feri-ta segreta ma sanguinante, e i molti igli di matrimoni misti si arrovellano su domande ri-maste senza risposta. Al cen-tro di tutte queste complica-zioni sta Evelina Harp, iglia di una madre indiana e di un in-segnante bianco della riserva. Eve ha un’inesauribile sete di storie, soprattutto dei racconti di suo nonno Mooshum. Il rac-conto dell’infestazione dei co-lombi nel 1896, che dà il titolo al libro, è quasi una variante indiano-americana degli Uc-celli di Alfred Hitchcock. Nel romanzo di Louise Erdrich pa-thos e commedia, tragedia e farsa sembrano combinarsi in una strana danza. Ron Charles, The Washington Post

Stephan EnterLa presaIperborea, 228 pagine, 15 euro

●●●●●Paul e Vincent, si rivedono per la prima volta dopo vent’anni

alla stazione di Bruxelles per prendere insieme un treno che li porterà in Galles, dove, nella città di Swansea, ritroveranno una coppia di vecchi amici, Martin e Lotte. Le strade della piccola comitiva si erano sepa-rate dopo una scalata ai monti delle Lofoten, dove qualcosa di irreparabile è accaduto. Og-gi quella vecchia vacanza può essere riconsiderata sotto una luce diversa. Eventi che a pri-ma vista sembravano strani si combinano in un quadro coe-rente; ma per il lettore, non per i personaggi, intrappolati ciascuno nel suo punto di vi-sta. Al centro delle conversa-zioni dei quattro amici sta l’esperienza dell’invecchia-mento. Vincent e Paul si acca-lorano discutendo sulla mor-talità e si chiedono se questa renda la vita piena di signiica-to o, al contrario, insensata. Il romanzo, dopo un avvio un po’ faticoso, si avvicina a temi di fondo potenti e importanti.Greta Riemersma, De Volkskrant

Germania

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Volker WeidermannOstende. 1936 Kiepenheuer & WitschNell’estate del 1936 alcuni scrittori s’incontrano a Osten-da. Weiderman cattura molto bene l’amicizia tra Stefan zweig e Joseph roth e l’atmo-sfera prebellica. Weidermann è nato a Darmstadt nel 1969.

Ulrike DraesnerSieben Sprünge vom Rand der Welt Luchterhand LiteraturverlagSaga familiare che vuole mo-strare come il comportamento dei primati sia simile a quello umano. Ulrike Draesner è nata a Monaco nel 1962.

Heinz HelleDer beruhigende Klang von explodierendem Kerosin Suhrkamp VerlagUn giovane in crisi va a New York a studiare ilosoia. Dopo un periodo di solitudine, con-fusione e sogni inquietanti ri-trova se stesso. Heinz Helle è nato a Monaco nel 1978.

Larissa BoehningNichts davon stimmt, aber alles ist wahr Kiepenheuer & Witsch Julianne è innamorata di Mat-thias. Sospettando un suo tra-dimento, comincia a seguirlo scoprendo che frequenta una ricca malata terminale. Larissa Boehning è nata a Wiesbaden nel 1971. Vive a Berlino. Maria Sepausalibri.blogspot.com

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Cultura

LibriRicevutiRagazzi

Fumetti

Tutto torna

Spider-Man e le femmine

Tuono PettinatoNevermindRizzoli Lizard, 96 pagine, 13 euroPoco più di vent’anni fa, il 5 aprile 1994, Kurt Kobain, il cantante dei Nirvana, si tolse la vita con un colpo di fucile. Simbolo di una generazione che reagiva alla fatuità e al pa-tinato degli anni ottanta, per molti fu come il segno di un ennesimo sogno che andava perduto. Gus Van Sant, il mi-glior regista della generazione grunge e post-punk, chiuse in-fatti la sua trilogia no future (di cui facevano parte anche Gerry ed Elephant) con Last days, una sorta di omaggio diurno-sonnambulo a un esse-re intrinsecamente poetico, convertitosi al buddismo (il nirvana), fragile e indifeso: Kurt Kobain. Tutto torna.

Tuono Pettinato è l’autore di fumetti italiano più delicato della sua generazione, quindi il più indicato per ripercorrere la vita di Kobain combinando, in questo Nevermind (titolo del

Giorgia Vezzoli e Massimiliano Di LauroMi piace Spider-Man… e allora?Settenove, 48 pagine, 12 euroCloe ha sei anni e ha già le idee chiare sulla vita. Quando deve scegliere la cartella per la prima elementare non ha dubbi, vuole la cartella di Spi-der-Man, il suo eroe preferito. La zia e il cartolaio invece di dubbi ne hanno tanti: “Spider-Man è da maschi”, le dicono. Per fortuna Cloe ha i genitori dalla sua. Sono stati loro a spiegarle che non ci sono gio-chi solo per i maschi o solo per le femmine. Naturalmente Cloe a scuola viene presa in giro per la sua cartella, ma questo invece di piegarla le da più forza. Cloe capisce tante cose attraverso la sua cartella, capisce che da grande potrà avere un idanzato o una i-danzata per esempio. O che le bambole le piacciono un sac-co, ma anche le macchinine. In poche parole Cloe capisce che potrà scegliere che vita avere. Il libro di Giorgia Vez-zoli, nato da un pensiero for-temente femminista (l’eco della lettura di Ancora dalla parte delle bambine di Loreda-na Lipperini si sente tantissi-mo) è racchiuso tutto nelle domande di questa bambina battagliera. A ine lettura, è bene saperlo questo, saremo anche tutti tentati di farci i ca-pelli come lei (come li ha dise-gnati fantasticamente Massi-miliano Di Lauro), un po’ da maschio davanti, un po’ da femmina dietro. Insomma de-cisamente punk.Igiaba Scego

più noto album dei Nirvana), l’umorismo con il rispetto per la sua fragilità, fornendo in po-che pagine un ritratto dall’in-terno dell’alienante sistema americano fondato sul succes-so e l’ostilità verso artisti e in-tellettuali, e ripercorrendo la personale resistenza alla mer-ciicazione da parte di Kobain, per il quale la musica era una coperta di Linus.

Filo conduttore è Bobbah, l’amico immaginario che ac-compagnò Kobain per tutta la vita e al quale era indirizzata la lettera di addio. Bobbah ha qui le fattezze di Hobbes, il tigrot-to-pupazzo che si anima solo quando c’è il suo padroncino. La striscia Calvin e Hobbes di Bill Watterson è forse uno dei più spietati atti di accusa – ce-lato dall’umorismo – contro la società americana, gli adulti e la solitudine di bambini e ado-lescenti. La striscia di Watter-son s’interruppe un anno dopo la morte di Kobain. Tutto tor-na, appunto. Francesco Boille

Luciano RegoloCosì combattevamo il duceKogoi edizioni, 276 pagine, 16 euroScritti inediti di Soia Jaccari-no, dama di corte dell’ultima regina d’Italia, Maria José.

Alexandre PostelUn uomo discretoCodice edizioni, 237 pagine, 16,90 euroUn timido professore di iloso-ia deve scagionarsi dall’accu-sa di essere un pedoilo.

Freya StarkLettere dalla SiriaLa vita felice, 364 pagine, 18,50 euroRaccolta di lettere scritte negli anni venti durante un lungo viaggio dalla Grecia alla Pale-stina, attraverso la Siria.

Giorgio FontanaMorte di un uomo feliceSellerio, 261 pagine, 14 euroNell’estate del 1981 un giova-ne magistrato milanese indaga sulle attività di una banda che ha assassinato un politico de-mocristiano.

Concita De Gregorio e LorenzoUn giorno sull’isolaEinaudi, 107 pagine, 14,50 euroMadre e iglio s’incontrano nel gioco del racconto.

Alain De BottonNewsGuanda, 270 pagine, 18 euroIl giornalismo dovrebbe torna-re alle sue origini: fare infor-mazione per formare una so-cietà più civile e consapevole.

Usain BoltCome un fulminetre60, 266 pagine, 16 euroL’autobiograia dell’atleta più veloce di tutti i tempi.

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Cultura

1 Massaroni Pianoforti Alla fermata del 33 “Ma per fortuna c’è una

luna che digiuna / io li ho fatti i buchi alla cintura”, e la speran-za è che arrivi il tram giusto per uscire dalla “vita che mi spezza” a quella che gli spetta. L’artista come pseudonimo ha la ragione sociale dell’azienda di famiglia, fa l’accordatore, viene da Voghera, è del 1976. Quello che spicca nel suo al-bum Non date il salame ai corvi è la capacità di sopportazione coinvolgente, di racconto sof-ferto, qualcosa del primo Tom Waits, del vecchio Cocciante, dell’agro Bianciardi, un picco-lo grande autore di provincia, cavolo crudo e canzoni vere.

2 Foxhound My life is so cool Se il Marc’Antonio di

Shakespeare insiste nel deini-re Bruto e soci uomini d’onore per dare loro la patente di fara-butti, cosa si può pensare di una canzone che s’intitola più o meno “ma che ganza la vita mia”? I Foxhound, torinesi ventenni un po’ miniKasabian in grado di dissimulare bene la cittadinanza italiana che per la musica che interessa a loro fa un po’ uncool, hanno sfornato questo album che s’intitola In primavera. I titoli sono tutti in inglese, e dicono “cancella-mi”, “proprio non so” e “oggi non corro”. Quante amarezze: dispiace, perché sono bravi.

3 Daniele Sanfilippo AstronautLa vita terrena è domina-

ta dalla forza di gramità, e lo s’intuisce da bambini, quando si vuol essere cowboy o astro-nauti per fuggire, nel tempo o meglio ancora nello spazio, a tante amarezze; il chitarrista, compositore e tecnico del suo-no Daniele ha fatto la gavetta, si è creato la sua etichetta (Suoneria Mediterranea) e ora s’imbarca in una sua odissea di delicata psichedelia con l’al-bum Lem, come un Alan Par-sons piacevolmente alla deriva su chissà quale Apollo in una nebulosa di suoni fuori dalle mode. Una piacevole avventu-ra nel sound engineering.

MusicaDal vivoOneohtrix Point NeverMilano, 29 aprile, centrosanfedele.net; Roma, 30 aprile, auditorium.com

Agnes ObelRoma, 5 maggio, auditorium.com; Torino, 6 maggio, lingottoiere.it; Milano, 7 maggio, alcatrazmilano.it

Dream SyndicateRoncade (Tv), 4 maggio, newageclub.it; Trezzo d’Adda (Mi), 5 maggio, liveclub.it; Ravenna, 6 maggio, bronsonproduzioni.com

Robbie WilliamsTorino, 1 maggio, palaolimpicotorino.it

TigaSegrate (Mi), 1 maggio, circolomagnolia.it

ViviamocilentoAntunzsmask, Sonatin For A Jazz Funeral, Joseph Martone and The Travellingsouls, The Lef, Lee Scratch Perry e altri, vari luoghi, 1-4 maggio, viviamocilento.it

Ravenna JazzTrilok Gurtu, Al Di Meola, Vincent Peirani & Ulf Wakenius, Stefano Bollani, Napoleon Maddox, Paolo Fresu e altri Ravenna, 3-13 maggio, erjn.it

Un tesoro sconosciuto della musica spagnola in una grande antologia

La rumba pop, in particolare la varietà chiamata rumba catala-na, è il grande tesoro nascosto della musica spagnola. Un ge-nere musicale che ha conosciu-to il suo periodo d’oro negli an-ni sessanta e settanta, ma che oggi è quasi completamente sconosciuto in Spagna. Per questo motivo è particolar-mente importante l’antologia The original rhythm of gipsy rhumba in Spain, appena pub-blicata dall’etichetta britanni-ca Soul Jazz, specializzata nelle ristampe di vecchi dischi reg-gae e soul. L’antologia com-

prende due cd (ma c’è anche in vinile) accompagnati da due li-bretti di spiegazioni sul genere e sulle canzoni.

Dietro questo lavoro c’è Da-vid García, alias El Indio, bat-terista dei Vetusta Morla, un gruppo spagnolo indie rock. Dopo aver inutilmente provato

per anni a pubblicare la raccol-ta in Spagna, El Indio è andato a Londra e ha convinto Stuart Baker, capo della Soul Jazz, delle qualità esplosive delle re-gistrazioni originali. Per chi li ascolta per la prima volta, que-sti pezzi sono davvero commo-venti. Sono registrazioni ele-mentari, il più delle volte fatte di fretta: chitarre, cori, palmas (il battito delle mani tipico del lamenco) e – in alcuni casi – percussioni e pianoforte. Ma sembrano alimentate da un’energia misteriosa. I pezzi sono macchine che producono ritmi irresistibili. Come la feroce Saradonga, di Antonio González. Diego Manrique, El País

Dalla Spagna

Il ritorno della rumba catalana

Playlist Pier Andrea Canei

Vita agravity

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Oneohtrix Point Never

Maruja Garrido,Barcellona, 1965

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Album

EelsThe cautionary tales of Mark Oliver Everett(E Works)●●●●●

È passato un anno da Wonder-ful, glorious, un album più di-vertente e meno intimo di quanto ci si aspettasse da Mark “E” Everett. Quattordici mesi dopo ecco un’opera più personale, in cui i fantasmi dei familiari scomparsi si aggirano per dare vita ai momenti più emotivi e riusciti. L’acustica Parallels è un’ode tenera al pa-dre e alle sue molteplici inter-pretazioni del mondo secondo la meccanica quantistica, im-maginando un universo in cui lui è ancora vivo. Le altre can-zoni si concentrano invece sul-la ine di relazioni sentimenta-li. Se i lavori passati degli Eels sono stati una specie di diario, quest’ultimo è uno sguardo di-retto nella mente e nel cuore dell’autore. Non c’è la ricerca di nuove side sul piano musi-cale ma emotivamente The cautionary tales è una rarità e sarebbe davvero un peccato se venisse apprezzato solo dai fan più accaniti.Christopher McBride,

Drowned in Sound

Mary LoveLay this burden down(Kent)●●●●● La prima volta che Mary Love, all’anagrafe Mary Ann Ellen, venne notata fu mentre canta-va un brano di Etta James in un talent show. Come Etta, anche la cantante di Sacramento ave-va vissuto un’infanzia segnata dalla violenza. Il suo stile voca-le, in cui si mescolano la strada e la chiesa, si sposava alla per-fezione con il materiale bluesy e soulful del suo team di auto-ri, che comprendeva Frank

ro, medicinali da banco, padri distrutti e televisori accesi. Ma tutta l’ordinarietà delle origini viene poi travolta da una vio-lenza e una rabbia che la fa esplodere, come nella migliore tradizione punk, lanciandola in un paesaggio di alienazione e umorismo nero. Jennifer Kelly, Blurt

Pixies Indie Cindy(Pixiesmusic)●●●●●

Dopo dieci anni passati a fare la cover band di se stessi, i Pixies hanno inalmente de-ciso di far uscire un album di pezzi nuovi, probabilmente per evitare l’imbarazzo di suo-nare sempre le stesse canzoni dal vivo. Far uscire un disco 23 anni dopo l’ultimo è un bel rischio: è impossibile che sia all’altezza dei leggendari Doolittle e Bossanova, e il sound surf-gaucho-punk-mu-tante della band è stato diluito da decine di altri gruppi meno validi spuntati nel frattempo. Dall’anno scorso nei Pixies non c’è più la bassista Kim Deal, e questo non rende più facile l’impresa. Ma i fan non devono preoccuparsi troppo: Indie Cindy gli riserva molte belle sorprese. Quasi tutti i pezzi sono già usciti nei tre sin-goli più recenti, quindi sì, il ri-sultato è un album decisamen-te frammentario. Ma i Pixies sono rimasti dei maestri nel

creare qualcosa di buono da un mucchio di frammenti. Kevin Courtney, Irish Times

Ben WattHendra(Unmade Road)●●●●●

Per il suo secondo album soli-sta, dopo North marine drive del 1983, Ben Watt ha chiama-to l’ex chitarrista dei Suede Bernard Butler e il produttore con base a Berlino Ewan Pear-son, realizzando dieci pezzi senza troppe pretese sulla vita, la perdita, il dolore e simili. Ispirato all’alt-folk inglese a cavallo degli anni sessanta e settanta, l’album ha come pun-to di forza la voce e i testi di Watt, come sempre spontanei e sinceri. La canzone d’apertu-ra Hendra e la bucolica The le-vels, che vede alla chitarra Da-vid Gilmour, sono davvero toc-canti. Altri pezzi in stile John Martyn come Golden ratio, con la meravigliosa chitarra di But-ler, sono bilanciati dai potenti rif della solenne Nathaniel. Molloy Woodcraft, The Observer

Louis MartiniCharpentier: Te DeumArtisti vari, direttore: Louis Martini (Erato)●●●●●

Il più grande catalogo disco-graico francese, quello della Erato, veniva usato solo per qualche ristampa poco curata. La fusione della Warner, che lo controlla, con la Emi fa sperare in un futuro migliore. E questo album è un inizio perfetto: uscito nel 1953, è stato il debut-to della casa, la sigla dell’Euro-visione e la riscoperta di un ge-nio dimenticato, Marc-Antoi-ne Charpentier. Ha più di mez-zo secolo e si sente, ma è un momento veramente storico. Ivan A. Alexandre, Diapason

Wilson e Ashford & Simpson. Canzoni da questo punto di vi-sta esemplari sono Lay this burden down, Let me know e You turned my bitter into sweet, registrate per la Modern alla metà degli anni sessanta e di-ventate classici della scena northern soul sin dai suoi inizi. Born to live, del 1969, anticipa il disco funk, mentre la ballata Loving you a tratti ricorda in modo spettacolare Aretha Franklin, Diana Ross e Millie Jackson. Lois Wilson, Mojo

Protomartyr

Under color of oicial right(Hardly Art)●●●●●

Il disco d’esordio dei Proto-martyr, No passion all technique (2013), ricordava il fragore e lo sferragliamento di un treno merci. Registrato in una sola giornata, era un debutto im-pressionante, ma se ve lo siete perso non vi preoccupate: Under color of oicial right è il miglior disco punk rock che possiate ascoltare quest’anno, e ha un suono più deinito del suo predecessore. I brani spa-ziano dall’annullamento ritmi-co di Tarpeian rock alla new wave ombrosa di Scum, rise (pensate ai B-52s con la siga più nera), ino alla furia melo-dica di Want remover, a metà tra i Clash e i Buzzcocks. Come i Tyvek, anche i Protomartyr sono di Detroit e nelle loro canzoni tornano tute da lavo- Pixies

DR

IndianaSolo dancing

Duke Dumont feat. Jax JonesI got U

Route 94 feat. Jess GlynneMy love (radio edit)

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DanceScelti da Claudio

Rossi Marcelli

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86 Internazionale 1048 | 24 aprile 2014

Cultura

Michelangelo. Il cuore e la pietraSabato 26 aprile, ore 23.00 Sky ArteLa voce di Giancarlo Giannini e il volto di Rutger Hauer rac-contano la passione e la dedi-zione dell’uomo e dell’artista attraverso i suoi scritti.

Il rosa e il neroDomenica 27 aprile, ore 22.15 RaiStoriaLe storie di quattro immigrati che con il loro lavoro contribu-iscono all’economia del nostro paese ma anche alla battaglia silenziosa in difesa dei diritti di tutti i nuovi italiani.

Viva gli antipodi!Domenica 27 aprile, ore 23.10 Rai5Probabilmente il più ampio schermo domestico non è co-munque suiciente a rendere giustizia alla bellezza del ilm di Victor Kossakovsky: un viaggio tra otto antipodi del pianeta. Una rivelazione.

Polvere. Il grande processo dell’amiantoLunedì 28 aprile, ore 21.10 LaefeNella giornata del ricordo del-le vittime dell’amianto, il do-cumentario ripercorre la terri-bile vicenda della comunità di Casale Monferrato, sede di uno stabilimento Eternit, dove negli anni si sono registrate ol-tre tremila vittime imputabili al pericoloso materiale.

Il mondo secondo Anish KapoorGiovedì 1 maggio, ore 1.35, LaefeL’universo artistico di Anish Kapoor è fatto di specchi, scul-ture monocromatiche, tessuti. Un viaggio tra Londra, Napoli, Parigi, Chicago, Mumbai e New Delhi in compagnia dell’artista nato in India e che dal 1970 vive in Inghilterra.

Video

congotales.comGiampaolo Musumeci è un giornalista italiano che spazia dalla fotograia al documen-tario ino alla carta stampata e alla radio. Con questo docu-mentario unisce mezzi diversi per raccontare l’attualità di un paese che conosce bene, uno dei tanti in cui ha spesso lavo-rato, occupandosi dell’attuali-tà del continente africano, di immigrazione e conlitti. Il progetto si concentra sulla re-gione del Kivu nella Repubbli-ca Democratica del Congo, un territorio complesso in ba-lia di bande armate, poteri stranieri e dell’impotenza del governo. Per anni Musumeci ha raccolto immagini, ilmati e registrazioni, che andranno a legarsi nelle pagine del sito, usando uno strumento nuovo per tentare di render conto della complessità geopolitica africana.

In rete

Spesso i mezzi d’informazio-ne riescono a elaborare poco più di un tema alla volta per ciascun paese. Sul fronte rus-so, le discusse Olimpiadi di Sochi sono andate in archivio. Ora sono alla ribalta le tensio-ni con l’Ucrania, e delle viola-zioni dei diritti di gay e lesbi-che non c’è più traccia. Cam-paign of hate di Michael Lucas

è un documentario militante che raccoglie le testimonian-ze di componenti e attivisti della comunità lgbt russa, e documenta l’omofobia cre-scente di cittadini, leader po-litici e religiosi, accusando il governo di alimentare violen-ti pregiudizi che sfociano in aggressioni ormai quotidiane.intern.az/1gP658qte

Dvd

Uno per volta

Congo tales

Contrariamente a una stampa francese unanimemente entu-siasta, non mi piace la retro-spettiva di Robert Mappel-thorpe del Grand palais di Pa-rigi. A diferenza di quanto è successo in Italia, in Germa-nia, nel Regno Unito e in Spa-gna, in Francia abbiamo dovu-to aspettare un quarto di seco-lo dalla morte dell’artista per-ché un museo presentasse il suo lavoro. Certo l’esposizione è prestigiosa, a partire dal luo-go che la ospita. Duecentocin-

quanta opere, magniici pezzi unici, stampe rainate, una scenograia elegante, un’illu-minazione soisticata. Insom-ma, bello, ben fatto, rispettabi-le. Anche troppo.

Cominciando (perché?) da-gli ultimi anni e disperdendo qua e là gli autoritratti (un en-semble in sé), l’insieme è scien-tiicamente poco serio. Questa celebrazione patinata fa di-menticare, nasconde o rende incomprensibile un lavoro che fu una continua sida alle con-

venzioni, una celebrazione dell’amore, del piacere, del sesso, della diferenza, del di-verso. Diventato un prodotto di consumo “benpensante” questa esposizione è quanto-meno un controsenso. Forse addirittura un’afermazione delle nuove forme di conven-zione, di una nuova era reazio-naria mascherata. Dando spa-zio esagerato ai iori a colori, si smorza l’elogio del sesso nero che avrebbe potuto ofendere i borghesi. Desolante. u

Fotograia Christian Caujolle

Mappelthorpe snaturato

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Croste presidenzialiThe art of leadership, Presi-dential library, Dallas, ino al 3 giugnoGeorge W. Bush ha scoperto la formula magica per il pubblico risarcimento che è sfuggita a Tony Blair. Inutile sprecare tempo con conferenze in giro per il mondo e opinioni di illu-stri e venerandi capi di stato, che non hanno nessun efetto sul pubblico, se non quello di convincerlo ancora di più che sei bugiardo e dovresti essere arrestato. E allora, diamoci al-la pittura. L’arte, gentile e civi-lizzata, può spazzar via ogni infamia. Da quando si è venu-to a sapere che Bush si dedica alla pittura e ha un insegnante per migliorare il suo stile, i sondaggi sulla sua popolarità sono in ripresa. Il comico auto-ritratto sotto la doccia emerso su Twitter ha aiutato a uma-nizzare il principale responsa-bile dell’invasione in Iraq nel 2003. Gli statunitensi tendono a essere indulgenti con i loro presidenti e questa generosità è una sorta di autodifesa. Così, la presidenza marziale di Bush è riscattata grazie ai dipinti svelati nel corso di un’intervi-sta tv con la iglia. Guardando i suoi dipinti, si diventa accon-discendenti come per l’ultima impresa artistica del iglio sce-mo. Che carino, George ha di-pinto i ritratti dei leader mon-diali e li sta esponendo nel suo piccolo museo privato. C’è chi dice che abbia saputo cogliere l’anima di Vladimir Putin. Il suo ritratto del leader russo potrebbe essere uno di quei pezzi che si comprano per be-neicienza nelle parrocchie. Bush cerca di dipingere le om-bre con ruvide chiazze nere e ha un’idea del volume simile a quella di un espressionista astratto pop. Il risultato è de-gno di Forrest Gump.The Guardian

Biennale di SydneyYou imagine what you desire, ino al 9 giugnoImmagina quello che vuoi è il ti-tolo scelto da Juliana Engberg, direttore artistico della di-ciannovesima edizione della Biennale di Sydney, che riuni-sce novanta artisti in quattro luoghi. Juliana è un personag-gio brillante e colorato, spriz-za ottimismo da tutti i pori. Lascia perdere le polemiche per far parlare gli artisti e le loro opere, meno politiche del previsto. Il posto d’onore ri-servato a Douglas Gordon, ge-niale autore di Zidane, ritratto

del XXI secolo e la presenza dei mosaici multicolore di Jim Lambie e del “geometra dello spazio” Martin Boyce, fanno pensare a un legame con la Scozia. Tutti e tre, infatti, so-no nati a Glasgow. Ma poi si spazia da Boltanski a Mircea Cantor a Wael Shawky, l’egi-ziano che ha ilmato la storia delle crociate attraverso gli occhi degli arabi, ispirandosi al romanzo di Amin Maalouf. Nel 2013 Shawky aveva strega-to la Biennale di Sharja con una performance dei cori pa-chistani. David Claebout ha fatto rivivere Dinard, il mirag-

gio di una spiaggia, sul pavi-mento dell’Mca di Sydney, mentre i gui befardi di Anne Lislegaard sono molto più ei-caci qui che alla Biennale di Lione. Gli artisti australiani sono i più giovani. Daniel McKewen, nato a Brisbane nel 1983, ha riversato la sua pas-sione per il cinema in un’in-stallazione rainata. Running men mette in ila 3 o 4 secondi della corsa di Cary Grant in Intrigo internazionale, Tom Cruise in Vanilla sky, Daniel Craig in Skyfall e li ripete in un ciclo continuo. Ipnotico. Le Figaro

Sydney

Largo alle opere

Cultura

Arte

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Douglas Gordon, Phantom

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88 Internazionale 1048 | 24 aprile 2014

Nell’agosto del 1991, ai tempi del fal-lito colpo di stato contro Gorbaciov, quando l’impero sovietico, ormai marcescente, ha cominciato a va-cillare e poi a crollare, mi sono ri-trovato con alcuni amici in piazza

della Lubjanka, di fronte al tetro e imponente ediicio del Kgb. La folla dagli umori rivoluzionari si preparava ad abbattere il simbolo di questa lugubre organizzazio-ne, il monumento al suo fondatore Dzeržinskij, “Felix l’inlessibile”, come lo chiamavano i colleghi bolscevi-chi. I più temerari avevano cominciato a prendere di mira la statua legandole del-le corde al collo, la folla aveva comincia-to a tirarle in mezzo a un crescere di gri-da. Ma all’improvviso dalla folla è emer-so uno stretto collaboratore di Eltsin che, parlando al megafono, ha chiesto di aspettare ad abbattere l’idolo, perché ca-dendo avrebbe potuto “rompere l’asfalto con la sua testa e rovinare importanti li-nee di telecomunicazione sotterranee”. L’uomo ha dichiarato che alla Lubjanka stava già arrivando una gru che avrebbe sollevato Dzeržinskij dalla base del monumento senza arrecare danni. E la folla dagli umori rivoluzionari per due lunghe ore ha atteso questa gru, gridando “abbas-so il Kgb” per darsi un tono. Durante quelle due ore, ho cominciato ad avere i primi dubbi riguardo alla rivolu-zione che sembrava sul punto di maturare. Mi è venuta in mente all’improvviso un’immagine, quella dei fran-cesi che il 16 maggio 1871 a Parigi aspettavano l’arrivo di un architetto e di un gruppo di operai per smontare in modo civile la colonna Vendôme. E mi è venuto da ridere. La gru alla fine è arrivata, hanno tirato giù Dzeržinskij, l’hanno messo su una piattaforma mobile e l’hanno portato via. La gente gli correva intorno e sputava su di lui. Adesso si trova in un parco di monu-menti smantellati vicino alla Nuova galleria Tretjakov. Non molto tempo fa un deputato della Duma ha propo-sto di riportare il monumento nel suo luogo originale. Visti gli avvenimenti in corso nel nostro paese, la pro-babilità che questo simbolo del terrore bolscevico torni alla Lubjanka è alta.

Il recente, precipitoso abbattimento dei monumen-ti sovietici in Ucraina mi ha riportato alla mente l’epi-sodio della statua di Dzeržinskij. Nelle città ucraine sono state abbattute decine di monumenti di Lenin e nessun esponente dell’opposizione ha invitato il popo-

Una rivoluzione che non abbatte i monumenti

In Russia nel 1991 non è accaduto quello che sta succedendo adesso in Ucraina. La rivoluzione di Eltsin non ha seppellito il passato sovietico e non ha condannato i suoi crimini

lo a smantellarli in modo “civile”, perché in un simile contesto uno smantellamento “delicato” avrebbe un solo e unico signiicato, quello di conservare un simbo-lo del potere sovietico. “Džugašvili lo custodiscono in una scatoletta da conserva”, ha scritto il poeta Iosif Brodskij nel 1968 pensando a Stalin. E questa conserva è la memoria del popolo, il suo inconscio collettivo. In Ucraina, nel 2014 Lenin l’hanno abbattuto e fatto a pezzi. Non si sono preoccupati di conservarlo. Questa “caduta di Lenin”, contemporanea agli scontri di Mai-dan e alla cacciata di Janukovič, ha dimostrato chiara-

mente che in Ucraina la vera rivoluzione antisovietica si è veriicata solo adesso. In Russia invece non c’è ancora stata.

Lenin, Stalin e i loro sanguinari com-pagni continuano come prima a popola-re la piazza Rossa, centinaia di monu-menti rimangono al loro posto non solo nell’intera Russia, ma anche nelle teste dei cittadini dello stato postsovietico. È eloquente la rabbia con cui i politici e i funzionari di Mosca hanno accolto la di-struzione in massa degli idoli sovietici avvenuta in Ucraina. Viene da doman-

darsi cosa mai ci sia da rimpiangere negli idoli del pas-sato. Di certo i funzionari russi hanno capito che in Ucraina con Lenin viene abbattuto anche quell’homo sovieticus che gli era così caro. “Distruggono i monu-menti a Lenin perché impersona la Russia”, ha escla-mato uno di loro. Sì, la Russia sovietica, l’Urss, l’impe-ro spietato costruito da Stalin, che ha ridotto in schia-vitù interi popoli, che in Ucraina ha fatto morire di fa-me milioni di persone e ha messo in atto repressioni di massa. La rivoluzione ucraina è stata fatta anche con-tro gli eredi di questo impero, Putin e Janukovič. Ed è eloquente anche il fatto che tutte le manifestazioni i-lorusse, in Crimea come nelle regioni orientali dell’Ucraina, si siano tenute senza eccezioni intorno a monumenti a Lenin.

Purtroppo in Russia nel 1991 non è andata come adesso in Ucraina. La rivoluzione di Eltsin si è rivelata una rivoluzione “di velluto”, non ha seppellito il passa-to sovietico, non ha condannato deinitivamente i suoi crimini come invece è stato fatto in Germania alla ine degli anni quaranta. I funzionari di partito sono diven-tati nel giro di un’ora dei “democratici”, hanno messo il cadavere sovietico in un angolino e l’hanno ricoperto di segatura dicendo: “Ci penserà da solo, a marcire!”. Purtroppo non è marcito: secondo i sondaggi quasi la

Vladimir Sorokin

VLADIMIR SOROKIN

è uno scrittore russo. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è La giornata di

un opricnik

(Atmosphere Libri 2014). Questo articolo è uscito su Die Zeit con il titolo Unsere Reise in die

Vergangenheit.

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metà dei russi ritiene che Stalin sia stato un “buon go-vernante”. Il nuovo manuale di storia lo deinisce un “manager eicace” e le sue repressioni sono descritte come semplici rotazioni di quadri, indispensabili per la modernizzazione dell’Urss. L’Unione Sovietica è crol-lata a livello geograico ed economico, ma a livello ide-ologico è sopravvissuta nelle anime di milioni di perso-ne. La mentalità sovietica si è rivelata dura a morire, si è adattata al capitalismo selvaggio degli anni novanta

e ha cominciato a subire una mutazione nello stato postsovietico. Questo, e solo questo, ha consentito di conservare il sistema di potere piramidale creato ai tempi di Ivan il Terribile e consolidato da Stalin.

Eltsin, salito rapidamente all’apice di questa pira-mide lasciandola del tutto intatta, ha portato con sé, tenendolo per mano, il suo erede Vladimir Putin, che come prima cosa ha annunciato alla popolazione che secondo lui il crollo dell’Urss è stato una catastrofe in

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Storie vereDwayne Yeager, 31 anni, ha chiamato la polizia dalla sua casa di Brandon, in Florida, per denunciare un furto. Quando gli agenti sono arrivati hanno trovato la porta aperta e l’appartamento devastato, ma nessun segno di scasso. Dopo che è emersa qualche altra incongruenza nella storia, gli agenti hanno interrogato nuovamente Yeager e lui ha confessato: sua moglie voleva che andasse al lavoro, lui voleva restare a casa, quindi ha inscenato il furto per avere una scusa. Yeager, hanno raccontato i poliziotti, non pensava che inventare un reato fosse illegale. È stato arrestato ed è inito in carcere.

termini geopolitici. Ha citato anche lo zar conservatore Alessandro III: la Russia ha due alleati, il suo esercito e la sua lotta. La macchina statale russa ha cominciato a regredire , verso il passato, diventando ogni anno sem-pre più sovietica. Questi quindici anni a ritroso nell’Unione Sovietica sotto il comando dell’ex tenente colonnello del Kgb a mio parere hanno reso evidente al mondo intero non tanto che Putin è “grande e terribi-le”, quanto piuttosto la depravazione e l’arcaicità del sistema della verticale del potere in Russia.

Grazie a questa struttura monarchica il paese è di-ventato automaticamente ostaggio delle malattie psi-cosomatiche del grande capo. Tutte le sue paure, le sue passioni, le sue debolezze e i suoi complessi sono di-ventati politica di stato. Se è paranoico, tutto il paese deve avere paura dei nemici e delle spie; se sofre di in-sonnia, tutti i ministeri devono lavorare anche di notte, se è sobrio, tutti devono smettere di bere; se invece è un ubriacone, tutti devono sbronzarsi; se non ama l’Ame-rica, la grande nemica del Kgb all’interno del quale è cresciuto, tutta la popolazione non deve amarla. In un tale paese non può esserci un futuro prevedibile, per-ché non ha alcuno spazio per svilupparsi.

L’imprevedibilità è sempre stata il marchio di fab-brica della Russia, ma dopo gli eventi ucraini è cresciu-ta in modo esponenziale: nessun abitante del nostro paese sa cosa gli succederà tra un mese, tra una setti-mana, tra un paio di giorni. Secondo me non lo sa nem-meno Putin, caduto ostaggio della sua stessa strategia che lo vede nel ruolo di bad guy dell’Occidente. Il vola-no dell’imprevedibilità è stato allentato, le regole del gioco sono state stabilite. Ma l’asso nella manica del primo decennio dell’era di Putin, quello della stabilità, da lui giocato sapientemente contro l’opposizione, og-gi viene sostituito da una perida dama di picche, quel-la dell’instabilità. E questa carta è in grado di battere ogni asso.

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L’espressione di Herbert G. Wells, “la Russia nelle tenebre”, diventata poi il titolo del suo libro sulla Rus-sia bolscevica, oggi è sulle labbra di molti russi. “Non sentiamo più la terra sotto i piedi”: in questi giorni sen-tiamo continuamente frasi del genere. La Russia, enor-me ghiacciaio creato dal gelo del regime di Putin, ha cominciato a spaccarsi dopo gli eventi di Crimea, si è staccata dal mondo europeo ed è scivolata in una dire-zione sconosciuta.

In periodi come questo bisogna aidarsi non alla sobria ragione, ma all’intuito. La maggior parte dei miei compatrioti più perspicaci si rende conto che la Crimea, inghiottita dalla Russia dopo essere stata sot-tratta all’Ucraina, potrebbe rivelarsi un boccone troppo grosso, che va rimasticato con attenzione e ricotto a fuoco lento.

I denti del nostro stato non sono più quelli di una volta, e perino lo stomaco non funziona più come in passato. Se si confronta l’attuale orso postsovietico con quello sovietico, l’unica cosa che hanno in comu-ne, purtroppo, è il ruggito imperiale. L’orso postsovie-tico è alitto da migliaia di parassiti corrotti che l’han-no contaminato già negli anni novanta e si sono molti-plicati in misura incredibile nell’ultimo decennio. Lo stanno divorando da dentro. Qualcuno considera la loro febbrile attività sotto la pelle dell’orso come il let-tersi di potenti muscoli. Ma in realtà è un’illusione. Non ci sono più muscoli, i denti stanno marcendo e nel cervello ci sono solo le convulsioni di impulsi neurali contraddittori: “arricchirsi!”, “modernizzarsi!”, “ru-bare!”, “pregare!”, “costruire una grande Russia!”, “ripristinare l’Urss!”, “temere l’occidente!”, “acqui-stare immobili occidentali!”, “tenere i risparmi in dol-lari e in euro!”, “andare in vacanza a Courchevel!”, “essere patrioti!”, “andare a caccia del nemico inter-no!”. O meglio, dei nemici interni.

Nel discorso pronunciato in occasione dell’unione

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Il prestigio delle università degli Stati Uniti è giustiicato? Certo che lo è, se si guarda a quello cui guardano le classiiche internazio-nali, laboratori, biblioteche, strut-ture, docenti con premi Nobel. Da anni, però, Washington Monthly, Cnn Money e altri organi utilizza-no le minuziose indagini annuali di Ccsse (Community college sur-vey of student engagement), che guardano alla didattica reale, a vi-ta e formazione efettiva degli stu-denti: le università in cima alla li-sta delle eccellenze nei soliti ran-

king internazionali, tranne Stan-ford, sono scavalcate da università poco note. Nelle università più ce-lebri la formazione costa molto e conta poco. Lo si ricava anche dall’indagine Telco presentata a ottobre da Fiorella Kostoris sui li-velli di competenze fondamentali dei laureandi italiani: risultano bassi a confronto con i livelli di studenti coreani, giapponesi e nordeuropei, ma all’incirca pari agli statunitensi.

L’Economist (5 aprile) e il giu-rista controcorrente Glenn Harald

Reynolds con il libro The higher education bubble toccano un altro punto ancora: in termini di retri-buzioni future laurearsi conviene, ma costa troppo. Nei casi migliori ci vogliono vent’anni per ripagare i sessantamila dollari all’anno degli studi universitari e portare a casa più dollari d’un diplomato. La bol-la educativa è prossima a esplode-re perché sempre di più i laureati non saranno in grado di ripagare i debiti contratti per studiare. Uni-versità ricche e celebri, studenti modesti alla bancarotta. u

Scuole Tullio De Mauro

Laureati nella bolla

E così brillarono, brillò ognuno di loro,

tutti folli, tutti un diamante brillante

come brillano le cose, diventando ognuno un bagliore

nei propri occhi, in fondo alla fodera di raso

delle loro giacche, e non era un sogno

solo un oblio momentaneo, un nulla

come nulla al mondo: il diadema di Apollinaire,

un muto, stellato, improvviso vaniloquio.

Ed erano lì, svaniti come per sempre.

Ed eravamo lì e li vedemmo nella carne

con i volti scheletrici, i capelli in lunghi iumi

di nero, gli occhi profondi ceneri e tizzoni,

e questo era ricordo o il suo immaginare,

noi stessi come luce come eterno vorticare.

George Szirtes

Poesia

Shine on you crazy diamond

GEORGE SZIRTES

è un poeta e traduttore di lingua inglese nato in Ungheria nel 1948. Vive in Inghilterra dal 1956. Questa poesia è uscita nel nuovo numero del trimestrale londinese The White Review (gennaio 2014). Traduzione di Francesca Spinelli.

della Crimea alla Russia il presidente Putin ha parlato di “quinta colonna” e di “traditori della nazione” che, secondo lui, ostacolano la marcia trionfale della Rus-sia. Come è stato già osservato da molti, l’espressione “traditori della nazione” è un triste ricordo lasciatoci in eredità dal Mein Kampf. Le parole del capo dello sta-to hanno suscitato in molti russi una forte preoccupa-zione e nell’intellighenzia un vero e proprio shock. L’intellighenzia russa, va detto, in questo momento è particolarmente preoccupata. Mentre durante le ma-nifestazioni statali la gente gridava “la Crimea è no-stra!”, i nostri intellettuali hanno intavolato le loro abituali conversazioni “disfattiste”: “Adesso comince-ranno le repressioni, come nel ’37”. “Non si fermerà all’Ucraina”. “Andrà ancora peggio, dovremo fuggire in massa dal paese”. “È diventato impossibile guarda-re la tv, trasmettono solo propaganda”. “L’occidente ci volterà le spalle”. “La Russia diventerà uno stato cana-glia”. “Presto torneranno i samizdat”. Devo ammet-terlo, questi discorsi mi fanno venire la nausea più dell’annessione della Crimea. E ai colleghi intellettua-li voglio dire: “Amici, il compagno Putin in questi anni è diventato quello che è solo grazie alle nostre e vostre debolezze”.

L’Ucraina ha dato alla Russia una lezione di amore per la libertà e d’insoferenza nei confronti di un pote-re vigliacco e criminale. L’Ucraina ha trovato in se stes-sa la forza di staccarsi dal ghiacciaio postsovietico e di cominciare a navigare verso l’Europa. Maidan ha di-mostrato a tutto il mondo cosa può fare un popolo quando lo vuole. Ma se guardo i reportage da Maidan devo ammettere che non riesco a immaginare qualco-sa di simile nella Mosca di oggi. È diicile pensare a un moscovita che lotta giorno e notte con le truppe spe-ciali sulla piazza Rossa e che sida con scudi rudimen-tali le pallottole dei cecchini. Perché possa veriicarsi qualcosa di simile deve succedere qualcosa non solo nel mondo intorno a noi, ma anche nelle nostre teste.

Succederà?Nell’agosto del 1991 sulla Lubjanka non bisognava

restare ad aspettare l’arrivo di una gru. Bisognava ab-battere l’idolo di ferro, lasciando che rompesse l’asfalto con la testa e danneggiasse le “importanti linee di tele-comunicazione sotterranee”.

Oggi vivremmo in un altro paese.A dimostrare quanto sia importante far cadere il

passato nel momento giusto. u af

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Internazionale 1048 | 24 aprile 2014 93

Quando leggo in italiano mi sento un’ospi-te, una viaggiatrice. Ciononostante, quello che faccio sembra un compito ra-gionevole, accettabile.

Quando scrivo in italiano mi sento un’intrusa, un’impostora. Sembra un

compito contrafatto, innaturale. Mi accorgo di aver oltrepassato un conine, di sentirmi persa, di essere in fuga. Di essere completamente straniera.

Quando rinuncio all’inglese rinuncio alla mia autorevolezza. Sono traballante anziché sicura. Sono debole.

Da dove viene l’impulso di allontanarmi dalla mia lingua dominante, la lingua da cui dipendo, da cui pro-vengo come scrittrice, per darmi all’italiano?

Prima di diventare una scrittrice mi mancava un’identità chiara, nitida. È stato attraverso la scrittura che sono riuscita a sentirmi realizzata. Ma quando scri-vo in italiano non mi sento così.

Cosa vuol dire, per una scrittrice, scrivere senza la propria autorevolezza? Posso deinirmi un’autrice, sen-za sentirmi autorevole?

Com’è possibile, quando scrivo in italiano, che mi senta sia più libera sia inchiodata, costretta?

Forse perché in italiano ho la libertà di essere imper-fetta.

Come mai mi attrae questa nuova voce, imperfetta, scarna? Come mai mi soddisfa la penuria? Cosa vuol dire rinunciare a un palazzo per abitare quasi per stra-da, sotto un riparo così fragile?

Forse perché dal punto di vista creativo non c’è nulla di tanto pericoloso quanto la sicurezza.

Mi chiedo quale sia il rapporto tra libertà e limitazio-ni. Mi chiedo come una prigione possa somigliare al paradiso.

Mi viene in mente qualche riga di Verga che ho sco-perto di recente: “Pensare che avrebbe potuto bastarmi quest’angolo di terra, uno spicchio di cielo, un vaso di iori, per godere tutte le felicità del mondo, se non aves-si provato la libertà e se non mi sentissi in cuore la febbre roditrice di tutte le gioie che son fuori di queste mura!”.

Chi parla è la protagonista di Storia di una capinera, una novizia di clausura che si sente intrappolata nel convento, che vagheggia la campagna, la luce, l’aria.

Io, in questo momento, preferisco il recinto. Quan-do scrivo in italiano, mi basta quello spicchio di cielo.

Mi rendo conto che la voglia di scrivere in una nuova lingua deriva da una specie di disperazione. Mi sento tormentata, come la capinera di Verga. Come lei, desi-dero altro: qualcosa che probabilmente non dovrei de-siderare. Ma penso che l’esigenza di scrivere derivi sempre dalla disperazione insieme alla speranza.

So che si dovrebbe conoscere a fondo la lingua in cui si scrive. So che mi manca una vera padronanza. So che la mia scrittura in italiano è qualcosa di prematuro, avventato, sempre approssimativo. Voglio chiedere scusa. Voglio spiegare la fonte di questo mio slancio.

Perché scrivo? Per indagare il mistero dell’esisten-za. Per tollerare me stessa. Per avvicinare tutto ciò che si trova al di fuori di me.

Se voglio capire quello che mi colpisce, quello che mi confonde, quello che mi angoscia, in breve, tutto ciò che mi fa reagire, devo metterlo in parole. La scrittura è il mio unico modo per assorbire e per sistemare la vi-ta. Altrimenti mi sgomenterebbe, mi sconvolgerebbe troppo.

Ciò che passa senza esser messo in parole, senza esser trasformato e, in un certo senso, puriicato dal crogiuolo dello scrivere, non signiica nulla per me. So-lo le parole che durano mi sembrano reali. Hanno un potere, un valore superiore a noi.

Visto che io provo a decifrare tutto tramite la scrittu-ra, forse scrivere in italiano è semplicemente il mio mo-do per apprendere la lingua nel modo più profondo, più stimolante.

Fin da ragazza appartengo soltanto alle mie parole. Non ho un paese, una cultura precisa. Se non scrivessi, se non lavorassi alle parole, non mi sentirei presente sulla terra.

Cosa signiica una parola? E una vita? Mi pare, alla ine, la stessa cosa. Come una parola può avere tante dimensioni, tante sfumature, una tale complessità, co-sì una persona, una vita. La lingua è lo specchio, la me-tafora principale. Perché in fondo il signiicato di una parola, così come quello di una persona, è qualcosa di smisurato, di inefabile. u� (11. Continua)

Il riparo fragile

Jhumpa Lahiri

JHUMPA LAHIRI

è una scrittrice statunitense di origine bengalese. Vive a Roma. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è La moglie

(Guanda 2013). Questo racconto è l’undicesimo di una serie che Jhumpa Lahiri scrive in italiano per Internazionale.

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Scienza

94 Internazionale 1048 | 24 aprile 2014

Dopo quattro anni di assenza, l’enfant terrible del Paciico po­trebbe essere di ritorno. Il 15 aprile 2014 l’Organizzazione

meteorologica mondiale (Omm) ha pubbli­cato un bollettino in cui si ritiene “probabi­le” il risveglio del Niño in giugno.

Famoso e temuto, questo fenomeno na­turale, che si manifesta a intervalli che van­no dai tre ai sette anni, è caratterizzato da un forte riscaldamento delle acque superi­ciali della zona centrorientale del Paciico equatoriale. Si accompagna a perturbazio­ni meteorologiche di grande portata un po’ ovunque nel mondo, spesso associate a de­vastazioni e a una forte impennata dei prez­zi di alcuni prodotti agricoli. Il nome (bam­bino, in spagnolo) gliel’hanno dato i pesca­tori ecuadoriani e peruviani riferendosi al bambin Gesù, visto che il fenomeno ha

spesso la sua fase più attiva durante il pe­riodo di Natale.

“Nel Paciico tropicale le temperature subsupericiali stanno raggiungendo livelli simili a quelli che annunciano l’arrivo del Niño, e i modelli climatici considerati dagli esperti dell’Omm prevedono un riscalda­mento costante nei prossimi mesi”, spiega nel suo bollettino l’agenzia delle Nazioni Unite. “Secondo la maggioranza dei mo­delli un’anomalia del Niño potrebbe arriva­re intorno a metà anno, ma è ancora presto per stabilirne l’intensità”.

Speculazioni sui raccoltiRilevato attraverso un aumento della tem­peratura del Paciico equatoriale, il Niño è in realtà il risultato di una delicata intera­zione tra l’oceano e l’atmosfera: indeboli­mento degli alisei che soiano sul Paciico, accumulo delle acque calde al largo delle coste peruviane dove il livello marino si ri­duce, innalzamento del livello delle acque lungo le coste australiane e così via.

Da settimane alcuni centri di ricerca pubblicano i risultati delle loro simulazioni, provocando i primi movimenti speculativi su alcune materie prime, come cacao, caf­fè, canna da zucchero, olio di palma. Tutta

la produzione primaria della zona tropica­le, e a volte anche oltre, è potenzialmente interessata dal fenomeno. A causa del Niño, spiega Matthieu Lengaigne, ricerca­tore dell’Istituto di ricerca per lo sviluppo (Ird) in Francia, “cambia l’intera circolazio­ne atmosferica”. E con essa le precipitazio­ni e le temperature locali. Caldo e forti piogge, alluvioni e smottamenti di terreno sono più frequenti sul versante paciico del Sudamerica, mentre la siccità colpisce l’Au­stralia e in misura minore l’Asia meridiona­le. “In India di solito il fenomeno del Niño riduce l’abbondanza delle piogge monsoni­che”, aggiunge Lengaigne.

Uno degli efetti più eclatanti è quello sulle zone di pesca del Paciico orientale, al largo di Ecuador, Perù e Cile. L’accumulo di acque calde lungo le coste impedisce la ri­salita in supericie delle acque profonde, molto ricche di nutrimento, le acque super­iciali impoverite non permettono al planc­ton di prosperare e questo provoca una dra­stica riduzione delle sardine e delle acciu­ghe, tra le principali fonti di cibo per i pesci di allevamento.

Tuttavia le ripercussioni del Niño non sono sempre e ovunque negative. A volte agisce anche a grande distanza, per esem­pio riducendo la formazione di cicloni nell’Atlantico.

Quale sarà l’intensità del prossimo Niño? Finora il più forte mai registrato è stato quello del 1997, continuato nel 1998. “La situazione attuale somiglia molto a quella osservata nel 1997”, dice Lengai­gne.

I legami tra il riscaldamento globale ed el Niño sono al centro di diverse ricerche. Uno studio recente condotto da Lengaigne e pubblicato su Nature Climate Change, suggerisce che nel ventunesimo secolo la frequenza degli episodi più intensi sarà doppia rispetto al passato a causa del cam­biamento climatico. Un’ipotesi ancora al centro di discussioni.

Ma di certo il monello del Paciico fa sa­lire il termometro. “El Niño ha un impor­tante efetto di riscaldamento sulla media mondiale delle temperature”, dichiara Mi­chel Jarraud, segretario generale dell’Omm. “Negli ultimi quindici anni solo due sono stati caratterizzati dal Niño, e sono stati più caldi della media. Il riscaldamento natura­le provocato da un episodio del Niño, asso­ciato a un riscaldamento di origine umana, può provocare un aumento molto forte del­le temperature globali”. u adr

Anomalie del livello della supericie del Paciico il 6 aprile 2014

Il ritorno del piccolo mostro

Porta alluvioni, siccità, riduzione dei raccolti e delle riserve ittiche: il fenomeno meteorologico chiamato el Niño potrebbe arrivare presto. E si annuncia piuttosto intenso

Stéphane Foucart, Le Monde, Francia

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Internazionale 1048 | 24 aprile 2014 95

IN BREVE

Ecologia Anche se il tasso di estinzione delle specie è in au-mento, non si registra una per-dita sostanziale di biodiversità, né negli habitat marini né in quelli terrestri. È invece eviden-te un cambiamento della com-posizione delle comunità di piante e animali. Il fenomeno, scrive Science, potrebbe essere dovuto alla rapida difusione delle specie invasive e allo spo-stamento delle specie causato del cambiamento climatico. Genetica È stato sequenziato il genoma della trota iridea, scrive Nature Communications. Si è scoperto che cento milioni di anni fa l’intero genoma si è du-plicato, producendo una secon-da copia di ogni gene. Questo evento è molto comune nel pro-cesso evolutivo, ma diicilmen-te osservabile in quanto i geni duplicati subiscono mutazioni o delezioni. La ricerca fornisce in-formazioni preziose sull’evolu-zione dei vertebrati.

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SALUTE

Nuovi farmaci per l’epatite C Nel mondo 185 milioni di perso-ne sofrono di epatite C e in otto casi su dieci vivono in paesi a basso e medio reddito. Se non trattata, questa malattia virale degenera in epatite cronica, cir-rosi e tumore del fegato. Le nuo-ve linee guida dell’organizza-zione mondiale della sanità mettono l’accento su due nuovi antivirali ad azione diretta: il so-fosbuvir e il simeprevir. Ben tol-lerati ed eicaci in quasi tutte le forme di epatite C, aumentano molto la probabilità di guarigio-ne in soli tre mesi di terapia e non richiedono l’uso di interfe-rone. Ma saranno un privilegio per pochi, scrive Nature. Un ci-clo di terapia costa tra i 66mila e gli 84mila dollari. Si stima che con un generico il prezzo scen-derebbe tra i 100 e i 250 dollari.

SALUTE

Il virus ebolaal microscopio Secondo un rapporto prelimina-re pubblicato sul New England Journal of Medicine, il virus ebola che ha causato l’epidemia di febbre all’inizio dell’anno in Guinea è molto simile al ceppo di ebola chiamato Zaire, difuso nella repubblica Democratica del Congo e in Gabon. I due ceppi deriverebbero da un re-cente antenato comune. Si sup-pone che il primo contagio uma-no sia avvenuto all’inizio di di-cembre o prima, probabilmente da una fonte animale, forse dai pipistrelli della frutta. Il tasso di mortalità tra i primi casi confer-mati è dell’86 per cento.

Genetica

I geni accesi dei Neandertal

La costituzione più robusta dell’uomo di Neandertal (a sinistra nella foto) rispetto all’Homo sapiens forse non dipende tanto dai suoi geni quanto da una loro diversa attivazione. Per la prima volta è stata confrontata la metilazione del genoma in neandertaliani e denisoviani, e in esseri umani moderni. La metilazione

è una trasformazione del dna in cui viene legato un componente chimico, un gruppo metile, ad alcune delle basi che compongono l’elica, in genere la citosina. La metilazione regola a livello individuale l’attività di pezzi di materiale genetico, accendendo e spegnendo i singoli geni, e mantenendo inalterata la sequenza. Finora sono stati esaminati solo i genomi di una denisoviana vissuta 50mila anni fa e quello ancora più antico di una neandertaliana. Poiché la metilazione varia da individuo a individuo, gli studi devono essere considerati preliminari ed è diicile trarre conclusioni valide per un intero gruppo umano. Comunque, paragonando i genomi antichi con quelli moderni, sono state trovate circa duemila regioni con una metilazione diversa. e sembra che siano coinvolti geni che regolano la struttura corporea. La diferente metilazione potrebbe anche inluenzare la predisposizione moderna ad alcune malattie neurologiche. u

Science, Stati Uniti

Un pianeta simile alla TerraÈ stato individuato un pianeta di dimensioni simili alla Terra a una distanza dal suo Sole tale da consentire la presenza di acqua allo sta-to liquido. Il pianeta potrebbe quindi ospitare la vita. Intorno alla stella Kepler-186 orbitano cinque pianeti, ma solo il più esterno, Ke-pler-186f (nel disegno), ha una dimensione e una distanza dalla stella paragonabili a quelle terrestri, scrive Science. u

AstronomiaPALEONTOLOGIA

La modernità dello squalo Gli squali moderni non sono dei “fossili viventi”, come fanno pensare alcune loro caratteristi-che anatomiche apparentemen-te primitive, come lo scheletro cartilagineo. In realtà sono il ri-sultato di un lungo processo evolutivo cominciato 400 milio-ni di anni fa, spiega Nature. I re-sti rinvenuti in Arkansas di un antico squalo vissuto 325 milioni di anni fa mostrano una struttu-ra complessa delle branchie che è più simile a quella dei pesci os-sei moderni che a quella dei pe-sci cartilaginei.

I casi di ebola in Guinea, al 17 aprile 2014.

Fonte: Oms

Mozambico

203 casi

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96 Internazionale 1048 | 24 aprile 2014

Il diario della Terra

Australia

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Stati Uniti5,1 M

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Stati Uniti4,6 M

-71,7°CVostok,

Antartide

Stati Uniti4,2 M

Messico

Messico Cina5,1 M

Pakistan6,8 M

Stati Uniti

NuovaZelanda

4,0 M

Taiwan5,4 MStati Uniti

4,4 M

Messico7,2 M

Stati Uniti4,4 M

45,6°CMatam,Senegal

Regno Unito3,2 M

Sudafrica

Zimbabwe

Australia

IsoleSalomone

Papua NuovaGuinea

7,5 M

Romania4,7 M

Nepal

Perù

Guinea

RussiaStati Uniti5,1 M

Il 24 aprile di un anno fa crolla-va il Rana Plaza, uno stabili-mento tessile di Dhaka, in Bangladesh. Nel disastro mo-rirono 1.133 lavoratori, soprat-tutto donne, e altri 2.500 rima-sero feriti. Nell’anno trascorso poco è cambiato nel mondo della “moda veloce”, conside-rato il principale responsabile della tragedia. “L’industria della moda di oggi si può rias-sumere con il motto: vai velo-ce o vai a casa”, scrive The Observer. Un capo di abbi-gliamento alla moda dura in media cinque settimane e per produrlo ci vogliono tra le sei e le otto settimane. Al posto del-le tradizionali collezioni au-tunno-inverno e primavera-estate, un marchio fast fashion può proporre due mini stagio-ni a settimana, con enormi co-sti umani e ambientali, dovuti tra l’altro alla produzione di cotone e alla tinteggiatura dei tessuti. Il modello industriale, basato sul rapido consumo di capi a basso prezzo, ha grande successo, perché questa sorta di “ipercapitalismo” garanti-sce ampi profitti ai marchi in-ternazionali. Nonostante il Rana Plaza, gli investitori sono ansiosi di farne parte.

Il boicottaggio ha poco sen-so: “Anche le organizzazioni sindacali lo sconsigliano, per-ché danneggia chi vorrebbe aiutare”, scrive il giornale bri-tannico. Un possibile punto di partenza è una campagna di sensibilizzazione, come l’ini-ziativa Fashion revolution day, che invita a chiedersi insieme ai propri figli adolescenti: “Chi ha fatto i miei vestiti?”. È un modo per riflettere sui mecca-nismi di produzione e fare pressione sui grandi marchi.

La moda troppo veloce

Ethical living

Vulcani Il vulcano Ubinas, in Perù, si è risvegliato, co-stringendo quattromila perso-ne a lasciare le loro case. Sono stati trasferiti anche 30mila ca-pi di bestiame.

Terremoti Un sisma di ma-gnitudo 7,2 ha colpito lo stato di Guerrero, in Messico, senza causare vittime. A Città del Messico alcuni ediici sono stati danneggiati. Altre scosse sono state registrate al largo della Papua Nuova Guinea, in Alaska e in Inghilterra.

Frane Sette persone sono morte travolte da una frana in una miniera d’oro illegale nella regione di Siguiri, nel nordest della Guinea. Altre otto perso-ne sono rimaste ferite.

Incendi Dall’inizio dell’anno in Russia sono stati distrutti negli incendi quasi 150mila ettari di vegetazione. Lo ha annunciato il ministro dell’ambiente Sergej Donskoj.

u Nel periodo tra il 1984 e il 2011 negli Stati Uniti occiden-tali sono aumentati il numero e la dimensione degli incendi maggiori. In media c’è stato un aumento di sette incendi all’anno, e l’area totale bruciata è cresciuta di 355 chilometri quadrati all’anno, scrive Geophysical Research Letters. La tendenza potrebbe continuare a causa dell’au-mento delle temperature e dei periodi di siccità.

Rinoceronti Almeno 293 rinoceronti sono stati uccisi dai bracconieri in Sudafrica dall’inizio dell’anno, la maggior parte nel parco nazionale Kruger. Lo ha rivelato la ministra dell’am-

biente Edna Molewa.

Uccelli Alcuni esperti di fauna selvatica dello Zimbab-we hanno segnalato l’arrivo nel paese del merlo indiano, che potrebbe mettere a rischio la sopravvivenza di alcune specie indigene. L’uccello, ori-ginario dell’Asia meridionale, ha cominciato a difondersi in Sudafrica all’inizio del novecento.

Petrolio L’amministrazione statunitense ha rimandato la decisione sul progetto Key-stone xl. L’oleodotto dovreb-be collegare i giacimenti di sabbie bituminose del Canada alle rainerie del Midwest e del Texas, negli Stati Uniti.

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Ubinas, Perù

Valanghe Sedici sherpa nepalesi sono morti travolti da una valanga sull’Everest, in Nepal, mentre preparavano il terreno per alcune spedizioni di alpinisti. La valanga si è staccata a quota 5.800 metri. Nella foto, i soccorsi.

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Internazionale 1048 | 24 aprile 2014 99

u Situato nell’India orientale, il lago Chilika è la principale lagu-na del paese e una delle più grandi al mondo. L’interazione tra acqua dolce – che aluisce nel lago poco profondo dai iu-mi a nord e a ovest – e acqua sa-lata – che arriva dal golfo del Bengala a sud – rende salmastre le acque del Chilika, con gradi di salinità molto variabili al suo interno. Queste diferenze dan-no origine a una grande varietà

di nicchie ecologiche e favori-scono la biodiversità.

Durante il picco della stagio-ne migratoria il lago ospita oltre un milione di uccelli di più di duecento specie (tra cui fenicot-teri, aironi, spatole, cicogne e pellicani). Circa la metà degli uccelli appartiene a specie mi-gratorie che arrivano da zone lontane dell’Asia, compresi il mar Caspio, il lago Bajkal e la Siberia.

L’Advanced land imager a bordo del satellite Eo-1 ha scat-tato questa foto del lago e del santuario degli uccelli di Nala-bana il 14 dicembre 2013. Alcu-ne parti dell’isola sono visibili, ma la maggior parte è sommer-sa. Le zone marroni in basso so-no vivai e villaggi.

Lungo la costa a sud di Nala-bana si succedono dei laghetti usati per l’allevamento dei gamberi.–Adam Voiland

L’abbondanza di pesci nel lago attira grandi quantità di uccelli, che durante la stagione migratoria sono più di un milione.

Il pianeta visto dallo spazio 14.12.2013

Il lago Chilika in India

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Il diario della Terra

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100 Internazionale 1048 | 24 aprile 2014

Economia e lavoro

Trent’anni fa, quando era un’ado-lescente un po’ matta cresciuta nella contea inglese di Kent, nel Regno Unito, Blythe Masters fe-

ce uno stage nel settore derivati della JP-Morgan Chase. Trovò quell’esperienza esaltante e nei ventisette anni successivi ha fatto carriera, guadagnandosi fama e consensi mentre si occupava dei derivati e dei crediti della banca. Ultimamente ha diretto il settore materie prime, ed è diven-tata una delle donne più celebri di Wall street.

Ma la sua storia d’amore con la JPMor-gan è inita il 2 aprile: Masters ha annuncia-to che si dimetterà subito dopo la vendita del settore materie prime alla società di trading svizzera Mercuria , per 3,5 miliardi di dollari. Da una parte, la notizia non stu-pisce: gli altri componenti della squadra di

Masters hanno lasciato la JPMorgan da tempo. Ma si tratta comunque di una noti-zia emblematica. La storia di Masters di-mostra che per il mondo della inanza sta cominciando una nuova era, nel bene e nel male.

Sono quattro gli elementi da considera-re. Il primo è che il sessismo non è ancora scomparso. Negli anni novanta Masters faceva parte, insieme a molti uomini, della squadra che ha sviluppato il mercato dei derivati di credito, uno strumento inan-ziario che è stato al centro dello scoppio della bolla del credito. Masters non ha mai lavorato ai derivati legati ai mutui immobi-liari, gli strumenti finanziari che hanno contribuito in modo decisivo ad alimenta-re la bolla creditizia. Anzi, ha smesso di occuparsi di questo settore della inanza ben prima che producesse gli abusi peggio-ri. Ma nel 2007, quando la crisi è scoppiata, lei è stata uno dei capri espiatori, anche perché era una donna e il suo volto era rico-noscibile in mezzo quello di tanti uomini.

In secondo luogo, questa storia dimo-stra che l’atteggiamento della società verso le innovazioni inanziarie è cambiato. I de-rivati esercitavano un enorme fascino sui banchieri e perino gli istituti di vigilanza

credevano che avrebbero portato dei van-taggi. A ripensarci oggi, quell’entusiasmo sembra ingenuo e pericoloso. Oggi gli isti-tuti di vigilanza e i banchieri guardano con più cinismo alle innovazioni della inanza. E gli studenti brillanti e ambiziosi sognano di usare algoritmi per creare app rivoluzio-narie più che derivati. Un terzo insegna-mento che si può trarre da questa storia è che le banche stanno perdendo il loro fa-scino. Masters non ha rivelato i suoi piani per il futuro, ma è molto probabile che il suo prossimo datore di lavoro non sarà una banca. Quasi tutti i suoi vecchi colleghi esperti di derivati collaborano con istitu-zioni inanziarie non bancarie, che al mo-mento rappresentano la vera punta di dia-mante del settore.

Dai derivati alle materie primeIl quarto aspetto di cui tenere conto è rap-presentato dal fatto che i derivati potranno aver fatto scalpore a livello politico cinque anni fa, ma oggi non è più così. Le dispute si sono spostate in settori come quello del-le materie prime. Masters lo sa in troppo bene: mentre era a capo del settore mate-rie prime, la JPMorgan è stata accusata di manipolare diversi mercati dell’energia e dei metalli preziosi. L’anno scorso, poi, la commissione federale statunitense di re-golamentazione dell’energia ha pubblicato un rapporto molto duro nei confronti della sua squadra.

La banca ha respinto le accuse con de-cisione e non sono state trovate prove con-tro Masters. Ma quell’episodio l’ha convin-ta ad allontanarsi dalla luce dei rilettori delle banche regolamentate e ha spinto la JPMorgan a vendere il suo settore materie prime: l’istituto non vuole giocarsi la repu-tazione in un campo che è sempre più vigi-lato da parte della politica e che deve sotto-stare a requisiti sul capitale sempre più re-strittivi. Il risultato è che un’altra serie di attività potenzialmente discutibili si sta staccando dagli istituti regolamentati e si sta trasferendo nel mondo più oscuro del sistema bancario collaterale, dove si rico-mincia ad abusare dei rischi dell’innova-zione.

Per la storia di Masters e della crisi i-nanziaria si tratta di un risvolto decisa-mente paradossale, che dovrebbe ricor-darci questo: i banchieri giovani e ambizio-si, così come gli istituti di vigilanza, do-vrebbero tenere a mente la legge delle conseguenze indesiderate. u fp

La donna che ha pagato per la crisi inanziaria

Blythe Masters si è dimessa da dirigente della JPMorgan. La sua storia dimostra che il sessismo è ancora presente nel mondo della inanza. E che la lezione della crisi non è stata assimilata

Gillian Tett, Financial Times, Regno Unito

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Blythe Masters nell’aprile del 2012

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Internazionale 1048 | 24 aprile 2014 101

Il numero Tito Boeri

35,9

Il deprezzamento medio della valuta nei 23 casi di maxisvalu-tazione che hanno coinvolto i paesi del G20 è del 35,9 per cento. Come dimostra France-sco Daveri su lavoce.info, i be-neici portati da queste svalu-tazioni sono stati annullati nel giro di un paio di anni dall’au-mento del diferenziale d’in-lazione con gli Stati Uniti.

I casi più eclatanti sono l’Argentina e la Turchia, che tra il 2001 e il 2002 hanno sva-lutato la propria moneta ri-spettivamente del 211 e del 144 per cento. Ma mentre il gover-no argentino si è limitato a

correggere uno squilibrio esi-stente (dovuto alla parità tra peso e dollaro, portata avanti forzosamente per quasi dieci anni), la Turchia si è vista di-vorare il potenziale guadagno di competitività dalla spirale inlazionistica.

In base a un calcolo appros-simativo, il beneicio competi-tivo che deriva da una svaluta-zione della moneta è pari alla metà del deprezzamento no-minale. Ma se la svalutazione è efettuata da vari paesi con-temporaneamente l’efetto è nullo. Questo è avvenuto, per esempio, all’indomani della

grande depressione, quando la strategia fu adottata da così tanti paesi che inì per non avere alcun efetto. A farne le spese fu l’intero commercio internazionale.

In Italia, grazie all’abolizio-ne della scala mobile (il mec-canismo di adeguamento dei salari all’inlazione) e a un’at-tenta politica dei redditi, la maxisvalutazione del 1992 non ha comportato una iam-mata inlazionistica. Le istitu-zioni che presiedono alla con-trattazione salariale hanno un ruolo fondamentale in questo ambito. u

RussIa

Gioco d’azzardoin Crimea Il 21 aprile il presidente russo Vladimir Putin ha presentato un progetto di legge che prevede la creazione di una zona speciale per il gioco d’azzardo in Crimea, una regione annessa il mese scorso dopo un referendum considerato illegale dall’Ucrai-na e da gran parte della comuni-tà internazionale. I conini della zona in cui sarà possibile aprire dei casinò saranno stabiliti dalle autorità ilorusse della Crimea, scrive l’agenzia Bloomberg. In Russia esistono già quattro zone speciali per il gioco d’azzardo: nel Primorskij Krai, nell’Altai Krai, nel Krasnodar Krai e a Ka-liningrad. Nel 2009 Putin ha or-dinato la chiusura dei casinò a Mosca per combattere la dipen-denza dal gioco d’azzardo.

afRICa

Immigrativessati Il 16 aprile l’ong Comic relief ha denunciato il prelievo eccessivo imposto agli immigrati che tra-sferiscono denaro alle loro fami-glie rimaste in Africa. I due ope-ratori principali, Western Union e Moneygram, trattengono in-fatti in media il 12 per cento, cir-ca il doppio del tasso medio mondiale. Secondo Comic re-lief, il problema è la scarsa tra-sparenza sugli accordi commer-ciali tra gli operatori inanziari e le banche. Il G20 ha posto come obiettivo globale per il 2014 di ridurre il prelievo al 5 per cento, conclude la Bbc.

statI unItI-CIna

Il debutto di Weibo Il 17 aprile il social network Wei-bo, considerato il Twitter cine-se, ha fatto registrare un rialzo del 19,06 per cento in occasione del suo debutto a Wall street, compensando un prezzo di col-locamento più basso rispetto al-le attese, scrive il Wall Street Journal. Nel dicembre scorso Weibo aveva 129,1 milioni di utenti, ma circa 28 milioni avrebbero lasciato a causa dell’aumento della censura. Al social network possono iscriver-si solo i cittadini cinesi che for-niscono un numero di cellulare e consentono alle autorità di ve-riicare la loro identità.

In bReve

Bolivia Il 21 aprile il presidente Evo Morales ha annunciato un aumento del reddito minimo del 20 per cento, dopo una lunga trattativa con i sindacati. Il rial-zo è superiore al tasso d’inla-zione, che nel 2013 è stato del 6,5 per cento.

Il 20 aprile il ministro del commercio e dell’industria britannico Vince Cable ha annunciato un piano che costringerà le aziende a rivelare i dettagli della loro struttura proprietaria in un registro pubblico. L’obiettivo è combattere l’evasione iscale e il riciclaggio, scrive il Guardian. Le nuove regole, che dovranno essere approvate dal parlamento, prevedono che le aziende rendano pubblici tutti i dati su chi detiene più del 25 per cento delle azioni o dei diritti di voto. Il registro sarà aggiornato ogni anno. u

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)Il ministro Vince Cable a Londra, il 1 aprile 2014

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“A QUESTO PUNTO ERO TUTTO PRESO DALLA MIA MISSIONE: AVREI CONDOTTO I POPOLI DEI MIEI FUTURI

REAMI VERSO LA BATTAGLIA DECISIVA”.“PER PREPARARMI ALL’IMPRESA, MI RECAI A BIRINTO, LA CITTÀ DEI MAGHI. QUI AVREI APPRESO LE ARTI CHE MI AVREBBERO SPIANATO LA STRADA VERSO

IL POTERE”.

“PURTROPPO IL PRIMO MAESTRO IN CUI MI IMBATTEI NON SEPPE SFRUTTARE AL MEGLIO I MIEI TALENTI”.

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L’oroscopo

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quello orgasmico, arriva quando un eccesso di tensione accumulato e compresso si scioglie all’improv­viso”. Questa è un’osservazione del ilosofo Alphonso Lingis. Te ne sto parlando, Bilancia, perché pre­vedo che presto vivrai una versio­ne psicospirituale di questo piace­re supremo. Hai raccolto molto materiale grezzo per la costruzio­ne della tua anima ed è arrivato il momento di lasciarlo esplodere con un guizzo creativo. Sei pronto a sciogliere il tuo accumulo di emozioni?

SCORPIONE

Le svolte decisive che po­trebbero avvenire nei pros­

simi giorni non si concretizzeran­no se non ti impegnerai con tutte le tue forze per attivarle. Saranno momenti brevi e quasi impercetti­bili, quindi dovrai stare molto at­tento a coglierli e agire subito pri­ma che iniscano. Ma c’è anche un’altra complicazione: questi mo­menti di svolta probabilmente non somiglieranno a quelli che hai già vissuto. Potrebbero arrivare sotto forma di un fortunato incidente, di un benedetto errore, di un felice cedimento, di una strana guarigio­ne, di un perido dono o di una per­fetta debolezza.

SAGITTARIO

Se sei un atleta, la prossima settimana non sarà un buon

momento per aggredire l’arbitro o per doparti. Se ti piace guidare solo sulla corsia di sorpasso, per un po’ farai bene a usare quella di marcia. Se di solito sei incline a saltare pas­saggi, prendere scorciatoie e cer­care scappatoie, ti consiglio invece di essere più metodico e di rispet­tare le regole. Hai capito cosa vo­glio dire? In questa fase del tuo ci­clo astrale avrai più possibilità di ottenere risultati positivi se sarai più prudente del solito. Ma come? Un Sagittario attento, discreto, strategico, giudizioso? Certo! Per­ché no?

CAPRICORNO

La mia interpretazione dei dati astrali di questa setti­

mana può sembrare eccentrica, perino assurda. Ma sai una cosa? A volte la vita è, o almeno dovreb­

be essere, imprevedibile. Dopo aver meditato a lungo, sono giunto alla conclusione che il messaggio più importante che puoi lanciare all’universo è appendere un paio di slip all’asta di una bandiera. Hai letto bene. Tira giù quella bandiera e issa le mutandine. Di chi? Quelle di una persona che adori, natural­mente. E qual è il signiicato pro­fondo di questo gesto apparente­mente irrazionale? Che devi smet­tere di comportarti sempre in mo­do sensato, soprattutto quando si tratta di coltivare il tuo amore e di esprimere la tua passione.

ACQUARIO

Devi prenderti un po’ di tempo per esplorare i pro­

fondi misteri degli abbracci e delle coccole. Penso proprio che tu ab­bia il sacrosanto dovere di farlo. Sono la tua ragion d’essere, il tuo non plus ultra, il tuo sine qua non. Devi coltivare la tua saggezza so­matica con quello che noi dell’in­dustria della coscienza chiamiamo un meraviglioso, godurioso, caldo momento d’amore. Come mini­mo, dovresti stare abbracciato a lungo con la persona alla quale ti senti più vicino. La tenerezza e il contatto isico non sono solo un lusso, sono una necessità.

PESCI

Nel tuo corpo ci sono circa quattro quadriliardi di ato­

mi. In pratica un 4 seguito da 27 zeri. Che tu ci creda o no, c’è la possibilità che un tempo 200 mi­liardi di quegli atomi fossero nel corpo di Martin Luther King. In media fanno parte di te 200 mi­liardi di atomi di tutti gli esseri che hanno mai vissuto. Non me lo sto inventando (puoi trovare l’analisi matematica all’indirizzo tinyurl.com/AtomsFromEveryone). Per quanto riguarda il tuo immediato futuro, Pesci, quello che mi interessa è il lascito di King. Se hai ereditato la sua gran­de capacità di comunicazione, fa­resti bene a sfruttarla. Per te è ar­rivato il momento di esprimere profonde verità che risanano frat­ture, colmano divari e promuovo­no l’unità. Parti dal presupposto che è tuo compito rivelare la verità con chiarezza, sincerità e grazia.

TOROMi fai venire in mente un’aiuola che è stata appena dis­sodata e sulla quale è piovuto di recente. Ora c’è il sole. L’aria è tiepida. La tua terra è umida e fertile. Provi una

strana sensazione perché quello che prima era sottoterra è ve­nuto alla luce, e perché la tua supericie è piena di solchi. Ma in generale il tuo stato d’animo è di grande aspettativa. C’è un’alle­gra magia nell’aria. Tra poco verrà il momento di dar vita a qual­cosa di nuovo. Resta solo una cosa da fare: gettare i semi.

COMPITI PER TUTTI

Qualcuno si chiede: “Cosa farebbe Gesù?”. Qualcun altro: “Cosa farebbe Budda?” E tu? Qual è la tua massima autorità?

ARIETE

Se per qualche inspiegabile motivo la tua mente non ri­

bolle di nuove idee su come fare più soldi, non so cosa dirti, tranne che forse tua madre ti ha mentito sulla tua vera data di nascita. I presagi astrali sono inequivocabi­li: se sei un vero Ariete, in questo momento sei invitato, stimolato e perino spinto ad aumentare il tuo lusso di cassa e ad ainare le tue competenze inanziarie. Se non ri­esci a trovare almeno un modo per diventare ricco al più presto, forse sei un Pesci o un Toro. E io sono Jay Z.

GEMELLI

Voglio citarti alcuni versi tratti dalla poesia Musica

celestiale, di Louise Gluck: “Sono come la bambina che afonda / la testa nel cuscino / per non vedere, la bambina che dice a se stessa / che la luce provoca tristezza”. Uno dei tuoi compiti principali per la prossima settimana, Gemelli, è non essere come quella bambina. È vero che la vista di quello che la luce rivela può infrangere qualche illusione, ma l’illuminazione che ne riceverai sarà più preziosa dell’oro.

CANCRO

Vorresti stringere nuove al­leanze, allargare la tua rete

di contatti e ottenere più sostegno per realizzare i tuoi sogni? Stai en­trando nella stagione dei collega­menti, quindi è il momento ideale per cercare di capire come ottene­re questo risultato. Per facilitare la tua ricerca, ti ricordo il consi­glio di Dale Carnegie: “Puoi farti più amici in due mesi interessan­doti agli altri che non in due anni cercando di convincerli a interes ­sarsi a te”.

LEONE

Usain Bolt è l’uomo più ve­loce del mondo? Sì, per

quanto ne sappiamo. Anche quan­do non è in piena forma, è sempre il migliore. Alle Olimpiadi di Pe­chino del 2008 ha stabilito il re­cord assoluto sui cento metri – 9,69 secondi – pur avendo una scarpa slacciata e con tutto che aveva ral­lentato per festeggiare prima an­cora di raggiungere il traguardo. Bolt è un Leone come te. Te lo pro­pongo sia come modello sia come antimodello di ruolo per il prossi­mo futuro. Nel tuo campo di attivi­tà, hai il potere di realizzare qual­cosa che si avvicina ai suoi livelli di eccellenza, soprattutto se ti accerti di non avere le scarpe slacciate e se non festeggi la vittoria in anticipo.

VERGINE

Nel suo libro The dictionary of obscure sorrows, John

Koe nig conia nuove parole per de­scrivere esperienze a cui la nostra lingua non ha ancora dato un no­me. Una di queste parole che pre­sto potrebbe applicarsi a te è trum-springa, deinita come “la tentazio­ne di rinunciare alla propria carrie­ra e andare a fare il pastore tra le montagne, seguire il gregge che si sposta da un pascolo all’altro con un cane da pastore e un fucile e guardare i temporali al crepuscolo dalla porta di una capanna”. Se sa­rai soprafatto da questa sensazio­ne, non signiica che fuggirai da tutto per fare il pastore. Ma conce­derti il lusso di abbandonarti a queste ipotesi strampalate potreb­be darti sollievo e aiutarti ad accet­tare la tua vita.

BILANCIA

“Secondo Freud, il piacere supremo che possiamo pro­

vare, e il modello di tutti i piaceri,

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L’ultima

Putin, l’aspirante Stalin.

“Mi sembra di intuire che la griglia è pronta”.

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Le regole Batman1 rispondi al telefono solo se chiama il sindaco in persona. 2 la tua tuta di lattice nera richiede una dose extra di deodorante. 3 ricorda che nessuna donna ti amerà mai quanto robin. 4 cerca di dire almeno una volta al giorno: “alla bat-mobile!”. 5 rassegnati: il Joker sarà sempre più simpatico di te. [email protected]

“Seguimi su Facebook”.

un robot sottomarino per ritrovare il boeing scomparso.

Kepler-186 f: un pianeta gemello della terra. “Forse scopriremo una civiltà più intelligente della nostra”. “Più stupida sarebbe

diicile”.

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