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CENTRO ALTI STUDI PER LA DIFESA CENTRO MILITARE DI STUDI STRATEGICI D.ssa Francesca Citossi Intervento umanitario e responsibility to protect (Codice AL-SA-25)

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Page 1: Intervento umanitario e responsibility to protect€¦ · L’analisi verte sul concetto di responsibility to protect (R2P)-dalla sua nascita con l’elaborazione da parte di Bettati

CENTRO ALTI STUDI PER LA DIFESA

CENTRO MILITARE DI STUDI STRATEGICI

D.ssa Francesca Citossi

Intervento umanitario e

responsibility to protect

(Codice AL-SA-25)

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Il Centro Militare di Studi Strategici (Ce.Mi.S.S.) è un organismo istituito nel 1987 che

gestisce, nell’ambito e per conto della Difesa, la ricerca su temi di carattere strategico. Tale

attività permette di accedere, valorizzandoli, a strumenti di conoscenza ed a metodologie di

analisi indispensabili per dominare la complessità degli attuali scenari e necessari per il

raggiungimento degli obiettivi che le Forze Armate, e più in generale la collettività nazionale,

si pongono in tema di sicurezza e difesa.

La mission del Centro, infatti, nasce dalla ineludibile necessità del Ministero della Difesa di

svolgere un ruolo di soggetto attivo all’interno del mondo della cultura e della conoscenza

scientifica interagendo efficacemente con tale realtà, contribuendo quindi a plasmare un

contesto culturale favorevole, agevolando la conoscenza e la comprensione delle

problematiche di difesa e sicurezza, sia presso il vasto pubblico che verso opinion leader di

riferimento.

Più in dettaglio, il Centro:

● effettua studi e ricerche di carattere strategico politico-militare;

● sviluppa la collaborazione tra le Forze Armate e le Università, centri di ricerca italiani,

stranieri ed Amministrazioni Pubbliche;

● forma ricercatori scientifici militari;

● promuove la specializzazione dei giovani nel settore della ricerca;

● pubblica e diffonde gli studi di maggiore interesse.

Le attività di studio e di ricerca sono prioritariamente orientate al soddisfacimento delle

esigenze conoscitive e decisionali dei Vertici istituzionali della Difesa, riferendosi

principalmente a situazioni il cui sviluppo può determinare significative conseguenze anche

nella sfera della sicurezza e difesa.

Il Ce.Mi.S.S. svolge la propria opera avvalendosi di esperti civili e militari, italiani e stranieri,

che sono lasciati liberi di esprimere il proprio pensiero sugli argomenti trattati.

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D.ssa Francesca Citossi

Intervento umanitario e

responsability to protect

(Codice AL-SA-25)

CENTRO ALTI STUDI PER LA DIFESA

CENTRO MILITARE DI STUDI STRATEGICI

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Intervento umanitario e responsibility to protect

NOTA DI SALVAGUARDIA

Quanto contenuto in questo volume riflette esclusivamente il pensiero dell’autore, e non quello del Ministero della Difesa né delle eventuali Istituzioni militari e/o civili alle quali l’autore stesso appartiene.

NOTE Le analisi sono sviluppate utilizzando informazioni disponibili su fonti aperte. Questo volume è stato curato dal Centro Militare di Studi Strategici Direttore Amm. Div. Mario Caruso Vice Direttore – Capo Dipartimento Sociologia Militare Col. c (li.) s.SM Andrea Carrino Progetto grafico Massimo Bilotta – Roberto Bagnato Autore Francesca Citossi Stampato dalla tipografia del Centro Alti Studi per la Difesa

Centro Militare di Studi Strategici Dipartimento Sociologia Militare

Palazzo Salviati Piazza della Rovere, 83 - 00165 – Roma

tel. 06 4691 3203 - fax 06 6879779 e-mail [email protected]

Chiusa a maggio 2017

ISBN 978-88-99468-48-4

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INTERVENTO UMANITARIO E RESPONSIBILITY TO PROTECT

1. SOMMARIO p. 6

2. INTRODUZIONE p. 9

3. INTERVENTO UMANITARIO: DILEMMI ETICI, LEGALI, POLITICI E LA STORIA DEGLI INTERVENTI

p. 12

4. EFFETTI COLLATERALI DEGLI INTERVENTI UMANITARI p. 21

5. RESPONSIBILITY TO PROTECT-R2P: FRA DIRITTI UMANI E

COLONIZZAZIONE, STORIA, PRINCIPI, DEFINIZIONI E QUADRO LEGALE

p. 34

6. IL CASO-STUDIO: LA LIBIA p . 66

7. CONCLUSIONI p. 100

8. CARTINE p. 104

9. ACRONIMI p. 108

10. BIBLIOGRAFIA p. 110 NOTA SUL Ce.Mi.S.S. e NOTA SUGLI AUTORI

p. 140

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1. SOMMARIO La ricerca presenta la teoria dell’intervento umanitario- storia, definizioni, casi storici-

analizzandola dal punto di vista sia del Diritto Internazionale che delle Relazioni

Internazionali.

L’analisi verte sul concetto di responsibility to protect (R2P)-dalla sua nascita con

l’elaborazione da parte di Bettati e Kouschner, e la successiva codificazione che ha poi

costituito il fondamento dell’intervento in Kosovo nel 1999, le evoluzioni con riguardo al

Diritto Internazionale e all’impatto sulle Relazioni Internazionali e, più nello specifico,

sull’evoluzione delle Peace Operations, in particolar modo sulle operazioni a guida

Nazioni Unite e operazioni NATO autorizzate dal Consiglio di Sicurezza.

Il caso-studio analizzato è quello libico, con brevi cenni alla situazione pre-esistente

all’intervento NATO del 2011-sulla base della Risoluzione del Consiglio di Sicurezza n.

1973, in cui per la prima volta il Consiglio di Sicurezza autorizzava l’uso della forza a

scopo di protezione umanitaria senza il consenso dello stato, nonostante vi fosse un

governo funzionante de jure- e una disamina della successiva situazione umanitaria.

Gli interventi umanitari e la Responsibility to Protect non sono entrati a far parte del Diritto

Internazionale propriamente detto. La ragione è la discrezionalità e l’arbitrarietà che sono

state applicate nella prassi.

I principali oppositori di questa teoria ricordano come il diritto all’auto-determinazione, i

maltrattamenti, le torture, il numero di rifugiati-fossero richiamati in una lettera al Primo

Ministro Chamberlain dal Cancelliere del Reich Hitler, giustificazioni addotte per

l’intervento in Austria e Cecoslovacchia. Dalla parte opposta teorici come Bettati e

Kouschner pongono il quesito “dovremmo lasciarli morire così?”.

Questo tipo di interventi si basa su un pretesto univoco che può essere servente a

molteplici usi: stabilizzare la sicurezza regionale, assicurarsi il continuo flusso di materie

prime e risorse energetiche, mantenere la credibilità dell’organizzazione che interviene,

fronteggiare un’opinione pubblica che richiede un intervento a ridosso di un periodo

elettorale incerto per il governo in carica. Si intrecciano, infatti, manipolazione politica,

internalizzazione sociale, burocrazie politicizzate, lobbies economico-finanziarie.

Il problema non è la giustificazione all’intervento umanitario e la sostenibilità legale del

R2P, bensì cosa succede dopo: il “durante” che spesso confonde la protezione dei civili

con il l’implicito scopo politico di rovesciare il governo, questione che si riflette in maniera

drammatica sul “dopo”.

Il pericolo maggiore, in termini di effetti collaterali politico-strategici, rimane in capo agli

stati e all’organizzazione militare che interviene. Cosa farne, poi, di quel territorio? Per

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quanto la cessazione dei crimini più intollerabili appaia urgente, la mancata elaborazione

di una exit strategy sostenibile si trasformerà sicuramente in una cluster bomb a lento

rilascio. In un sistema internazionale basato ancora sul principio di sovranità nazionale,

per quanto possa suonare obsoleto data la prevalenza, e la potenza, ormai, di numerosi

non-state actors, l’intervento umanitario si confronta ancora con la questione della

sovranità, elemento fondante sul quale si basano tutti i trattati che includono i pretesti per

il R2P: la convenzione sulla tortura, sul genocidio, il rispetto dei diritti umani.

Le sfide principali negli interventi umanitari quando si invoca R2P sono molteplici: la

legittimità dell’organizzazione che interviene; il fatto che ormai gli interventi siano

percepiti come un confronto tra nord e sud del mondo-sia le Nazioni Unite che la NATO

sono state accusate in questi casi di imporre un neo-colonialismo; il paradosso del

bombardamento umanitario che rappresenta una contraddizione in termini; il

“doppiopesismo”, cioè la discrezionalità nel decidere d’intervenire o meno, ed infine

l’aspetto più deflagrante: se in un paese si commettono atti così gravi come genocidio,

pulizia etnica, crimini di guerra e crimini contro l’umanità, fermare semplicemente le

violenze contro i civili non è sufficiente per ristabilire la pace.

I paesi BRICS- Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica -a seguito dell’approvazione della

risoluzione n. 1973 per l’intervento in Libia, fecero notare che l’applicazione della stessa

era estensiva e aggressiva. Il governo del Brasile propose, infatti, la teoria della

Responsibility While Protecting, sostanzialmente: bombardare per fermare i massacri

potrebbe andar bene, ma poi? Chi avrà il controllo effettivo del territorio dopo l’intervento?

Da questo punto di vista il caso libico, che tecnicamente ha rappresentato un successo

della R2P, è emblematico.

Gli interventi umanitari dovrebbero essere rari, guidati da interessi precisi, non da intenti

moralizzatori, e avere scopi e limiti operativi e temporali ben precisi. La capacità militare

ha il ruolo ambiguo in politica internazionale di essere una minaccia alla vita e all’ordine,

ma è anche lo strumento per proteggerli entrambi.

L’esperienza maturata sinora dalla comunità internazionale indica chiaramente la

necessità di un policy framework che includa istituzioni internazionali, stati e NGOs: è

necessaria una risposta sistemica coerente- politica, legale ed etica. Non si può

rovesciare solo sull’intervento militare la responsabilità di risolvere situazioni politiche

che, con la sola arma diplomatica, non possono assicurare protezione fisica ai civili.

Nel caso la comunità internazionale decidesse per un secondo intervento in Libia alcuni

elementi fondamentali dovrebbero essere tenuti in seria considerazione:

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- la teoria dell’intervento umanitario e della responsibility to protect non sono affermate

in diritto internazionale, un solidissimo e inattaccabile quadro legale è una condizione

imprescindibile: una risoluzione del Consiglio di Sicurezza a seguito della richiesta del

Government of National Accord; un SOFA-Status of Force Agreement- dettagliato e

negoziato con tutte le parti in causa; un Memorandum of Understanding con l’autorità

in effettivo controllo del territorio; un accordo-quadro con le principali organizzazioni

internazionali coinvolte- UNSMIL, OSCE, EU, agenzie UN e maggiori NGOs che

prevedono un dispiegamento; regole d’ingaggio attagliate alla situazione sul terreno;

- in secondo luogo l’intervento in un paese africano e a prevalenza islamico da parte di

una coalizione occidentale non sarebbe ben visto né dalla popolazione né da altri

paesi: il coinvolgimento della Lega Araba e dell’Unione Africana è fondamentale per la

sostenibilità dell’intervento stesso;

- se tra gli scopi dell’intervento vi fosse quello di limitare la partenza di immigrati dalle

coste libiche, questo si potrebbe scontrare con il diritto internazionale; l’Italia è stata

condannata il 23 febbraio 2012 dalla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo per aver

respinto illegalmente dei migranti in Libia nel 2009: un attento esame del quadro legale

in merito al Diritto dei Rifugiati, al Diritto Internazionale Umanitario e al sistema dei

Diritti Umani è essenziale;

- infine, la questione fondamentale da affrontare è l’exit strategy, quali sono gli obiettivi-

anche temporali-che tale missione si proporrebbe.

L’End State dell’intervento è il punto di partenza e deve essere adamantino per tutte le

parti coinvolte.

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2. INTRODUZIONE1 Un aspetto comune nella grande maggioranza delle crisi umanitarie sono i crimini contro

i civili e il conseguente grande flusso di rifugiati e sfollati interni che ne deriva. Il sistema

di protezione e di assistenza di questi soggetti si è sviluppato soprattutto negli ultimi

cinquanta anni e attualmente, sulla carta, esistono strumenti idonei per garantire loro una

protezione adeguata. La definizione di un quadro giuridico di riferimento è un elemento

fondamentale e sarà esaminato riguardo alle sue applicazioni reali per studiare, nello

specifico, limiti e potenzialità degli strumenti esistenti e per valutare l’effettività e l’efficacia

della tutela giuridica disponibile.

Dal punto di vista operativo, agenzie specializzate che hanno a disposizione ingenti

risorse cercano di assicurare la buona gestione delle crisi, ma negli ultimi anni

l’inadeguatezza del settore a farvi fronte è emersa sempre di più, dopo la grande

espansione degli Anni Novanta ha attraversato un profondo controllo - l’Humanitarian

Reform approvata nel 2005 ed implementata per la prima volta nel 2006 in Pakistan2-

senza però che venissero affrontate le questioni fondamentali che ne regolano il

funzionamento.

La comunità umanitaria internazionale – agenzie, governi, organizzazioni internazionali

non governative, donatori - si sposta da una crisi all’altra senza essere in grado di

risolvere sostanzialmente i problemi causando spesso gravi effetti collaterali; la presenza

di missioni militari, a seguito di interventi per fermare le violenze sui civili, impone un

ripensamento e una revisione dei principi base dell’organizzazione tra attori che vede una

sempre maggiore interconnessione tra sistemi differenti. I principi umanitari che guidano

l’azione delle agenzie internazionali spesso sono solo enunciati senza che segua

un'efficace azione per applicarli; nella pratica gli operatori, sia civili che militari, sono

chiamati a mediare costantemente tra i principi etici generali e le complesse realtà socio-

culturali in cui si trovano ad operare.

Alla luce degli strumenti normativi vigenti nel Diritto Internazionale, della letteratura

riguardo le emergenze umanitarie e di esperienza diretta, sarà effettuato un esame del

sistema attuale di intervento umanitario e responsibility to protect- d’ora in poi indicato

1 In alcune parti questo elaborato riprende elementi di una ricerca che avevo effettuato per la

mia Tesi di Dottorato in Cooperazione Internazionale e Politiche per lo Sviluppo Sostenibile,“L’assistenza internazionale nelle emergenze umanitarie. La questione dei rifugiati e degli sfollati in Kosovo e Kashmir”, Università degli Studi di Bologna, Francesca Citossi, maggio 2008.

2 Osservazione personale, missione ONG “ALISEI”, Bagh City, Pakistan, gennaio 2006.

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con l’acronimo internazionalmente utilizzato R2P- con particolare riguardo alla situazione

di rifugiati e sfollati.

L’assistenza umanitaria della comunità internazionale è fondata e dipende da due grandi

pilastri: il Diritto Internazionale e la Politica Internazionale. La giustificazione

dell’intervento posa su regole giuridiche - quali, per esempio, il principio di sovranità

previsto dalla Carta delle Nazioni Unite - che disciplinano il complesso delle attività ad

esso collegate. Gli strumenti legali attualmente esistenti non garantiscono però,

nemmeno nel caso di piena e corretta applicazione, la tutela di rifugiati e sfollati. Troppo

spesso, infatti, l’applicazione del Diritto si scontra con le necessità proprie della Politica

Internazionale che non solo non sono coerenti con i principi giuridici, ma che da questi

divergono profondamente. Mentre il Diritto ha strumenti che per loro natura devono

essere imparziali e neutrali a prescindere dalla situazione, le esigenze di equilibrio

politico-strategico fanno variare attenzione, risorse, impegno e decisione d’intervenire o

meno da parte della comunità internazionale rispetto alle diverse situazioni.

Le organizzazioni umanitarie hanno una spiccata predilezione per le ricostruzioni fisiche

e infrastrutturali (la visibilità è spesso confusa con la accountability nei confronti dei

donatori), lasciando da parte la ricostruzione del tessuto sociale; l’assistenza effettiva a

profughi e rifugiati passa spesso in secondo piano, è data per scontato come

conseguenza della cessazione delle ostilità e della ricostruzione fisica, marginalizzando

il principale problema collegato alla sovranità: il rientro e reintegro pieno e sostenibile.

Poiché Diritto e Politica Internazionale sono sia componenti essenziali dell’assistenza

umanitaria internazionale sia i principali interlocutori, si è voluto verificare se gli strumenti

legali vigenti fossero adeguati alla tutela della popolazione civile, di rifugiati e profughi –

la responsabilità di proteggere, appunto. Inoltre si è voluto analizzare quali fossero gli

attuali strumenti – codici, standard di condotta, strutture organizzative e sistemi di

coordinamento civile-militare– della comunità umanitaria per far fronte alle emergenze.

Esaminando come, nella pratica, la comunità internazionale fornisce assistenza, emerge

la questione dell’uso delle risorse locali. La capacità di individuare e utilizzare queste

risorse implica una buona conoscenza del contesto per non aggravare divisioni e

meccanismi che coinvolgono poteri non legittimi; la comunità internazionale in genere si

limita ad individuare grossolanamente vittime ed oppressori condizionando su queste

basi la decisione d’intervenire e la successiva allocazione delle risorse. Spesso gli

studiosi richiamano le agenzie al potenziamento delle capacità locali e i policy maker

fanno riferimento all’”empowerment”. Nella pratica questo o non avviene oppure avviene

in maniera controproducente.

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Spesso quando si decide un intervento umanitario la riflessione in merito alla sostenibilità

non è sufficiente, accurata o veritiera. Il termine “sostenibile” è utilizzato soprattutto per

questioni attinenti allo sviluppo; è possibile dare protezione ai civili e assistenza

umanitaria in maniera sostenibile?

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3. INTERVENTO UMANITARIO: DILEMMI ETICI, LEGALI, POLITICI E LA STORIA DEGLI INTERVENTI L’intervento umanitario si definisce3 come l’azione militare da parte di uno stato o un

gruppo di stati-una coalizione o un’organizzazione internazionale- contro uno stato in una

situazione di gravi, persistenti e sistematiche violazioni dei diritti umani, con riferimento

specifico a genocidio, pulizia etnica, torture, crimini commessi su larga scala in maniera

sistematica e indirizzati ad un gruppo sociale specifico per appartenenza etnica, religiosa,

o di altro genere. Implica quindi l’intervento senza il consenso dello stato perpetrante tali

atti. Storicamente le reazioni non sono mai riconducibili ad una fattispecie precisa, e la

decisione dell’intervento non presenta caratteristiche di coerenza, dipendendo infatti dalla

logica degli schieramenti politico-ideologici e da questioni di opportunità -il caso della

Cecenia ad esempio presentava tutte le caratteristiche.

Gli Anni Novanta sono stati una decade di interventi umanitari. Quel periodo iniziò con

grandi speranze di porre fine ad abusi massicci dei diritti umani, in particolar modo pulizie

etniche e genocidi, attraverso l’intervento delle Nazioni Unite. Quelle speranze si

infransero in Bosnia, Somalia e Rwanda, ma furono più tardi riesumate dal Kosovo4, Haiti,

East Timor.

All’inizio del 2001 in un documento internazionale, The Responsibility to Protect5 si

concretizzarono le impressioni di un nuovo paradigma che regolasse le Relazioni

Internazionali tra stati sovrani qualora avvenissero dei massacri. Da allora il dibattito è

continuato a livello politico-legale in merito alle limitazioni della sovranità nazionale che

darebbero alla comunità internazionale- senza una ben chiara definizione-o a specifiche

organizzazioni internazionali non solo il diritto, ma la responsabilità e quindi l’obbligo di

proteggere mediante interventi militari da governi accusati di violare i diritti umani dei

propri cittadini (unwilling or unable to intervene). Nella pratica, però, gli anni successivi

hanno visto invece un declino degli interventi umanitari. Gli interventi in Afghanistan e in

Iraq erano politicamente motivati, il primo dagli eventi dell’11 settembre, il secondo da

esigenze in merito alla distruzione di armi di distruzione di massa- a fronte di una tenace

opposizione del Segretario Generale delle Nazioni Unite.

Più chiaro, invece, dal punto di vista politico-legale, l’intervento a protezione di cittadini in

caso di massicce violazioni dei diritti umani, pulizia etnica e genocidio.

3 Enciclopedia del Diritto, Annali V, Giuffrè Editore, Milano 2012, p.1419. 4 Kurth, J., “Humanitarian Intervention After Iraq: Legal Ideals vs. Military Realities”, Orbis,

Volume 50, Number 1, Winter 2006, p.87-101. 5 International Commission on Intervention and State Sovereignty, The Responsibility to

Protect, Ottawa, Ontario: International Development Research Centre, December 2001.

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Questi ultimi due casi, nella fattispecie, sono spesso ricollegati ad atavici e radicati

conflitti: in tal caso un intervento esterno non può certo risolvere la questione. Dietro

questi eventi vi sono sempre organizzazioni burocratiche che pianificano l’esecuzione6: il

regime di Milosevic con lo stato serbo e le organizzazioni para-statali che hanno agito in

Bosnia e Kosovo ne sono un esempio. Se, quindi, questi eventi sono il prodotto di

apparati burocratici organizzati, solo l’intervento di un’entità esterna potrà ostacolarne e

farne cessare l’attività.

La questione fondamentale è, ovviamente, la capacità militare e la volontà politica:

organizzazioni regionali o Nazioni Unite che autorizzano l’intervento delineando il quadro

legale per uno stato, una coalizione, il braccio armato dell’organizzazione stessa- come

la NATO- o forze multinazionali ad hoc- come avviene per le peacekeeping operations

sotto egida UN. La correlazione tra l’entità politica e il tipo di dispositivo militare è

fondamentale per la legittimità e l’efficacia dell’intervento.

L’autorità politica che gode della maggiore legittimità-data dal vasto numero dei facenti

parte del trattato-sono le Nazioni Unite. Il problema, però, risiede nella struttura del

Consiglio di Sicurezza: le opposte visioni tra i membri permanenti furono la ragione

dell’immobilismo perpetuatosi sino agli Novanta. L’intervento, invece, da parte di un

singolo stato o di una coalizione si scontra con il passato coloniale di molti paesi. Accade,

così, che l’intervento militarmente più efficace spesso sia quello che incontra maggiori

controversie dal punto di vista politico-la scarsa efficacia è l’accusa più ricorrente per le

missioni di PK delle Nazioni Unite.

L’opzione che ha provocato meno danni sia dal punto di vista politico che militare è in

genere quella dell’intervento dell’organizzazione regionale. Il dilemma di chi dovrebbe

intervenire ha attanagliato i consessi internazionali confrontati tra un’opinione pubblica

che richiedeva un’azione di qualche tipo e governi schiacciati tra elezioni e leggi

finanziarie. Con il collasso dell’Unione Sovietica sembrò che il Consiglio di Sicurezza

fosse la sede adatta per la risposta. Bosnia, Somalia e Rwanda nei primi Anni Novanta,

tuttavia, non possono dirsi esperimenti riusciti7. Va sottolineato come An Agenda for

Peace dell’allora Segretario Generale Boutrous Boutrous Ghali e il Brahimi Report poi,

abbiano introdotto significativi mutamenti che hanno portato alla bicefalizzazione delle

6 S. Totten, W. S. Parsons, and Israel W. Charny, eds., Century of Genocide: Eyewitnesses

Accounts and Critical Views, New York, Garland, 1997; R. Melson, Revolution and Genocide: On the Origins of the Armenian Genocide and the Holocaust, Chicago, University of Chicago Pre ss, 1996; S. Power, A Problem from Hell: America and the Age of Genocide, New York, Basic Books, 2002.

7 S. Power, cap. 9-11.

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missioni – Kosovo, East Timor, Afghanistan - che hanno ridotto gli effetti collaterali:

separare l’entità politica da quella militare ha rappresentato un notevole miglioramento8.

I casi storicamente ricordati come interventi di successo furono la Bosnia nel 1995, il

Kosovo nel 1999, East Timor nello stesso anno da parte delle Forze Armate Australiane,

Haiti nel 1994 e l’intervento britannico in Sierra Leone nel 20009. I casi di non intervento

di nessun genere pesano sulla bilancia a favore degli insuccessi.

Dopo il documento del 2001 della International Commission on Intervention and State

Sovereignty (ICISS), The Responsibility to Protect, fu adottato il concetto di “responsibility

to protect populations from genocide, war crimes, ethnic cleansing and crimes against

humanity” nella World Summit Declaration del 2005 da parte dell’Assemblea Generale

delle Nazioni Unite. Le raccomandazioni del report ICISS del 2001 furono incorporate in

due importanti report UN: High-Level Panel on Threats, Challenges and Change “A More

Secure World: Our Shared Responsibility”10e nel report del Segretario Generale “In

Larger Freedom: Towards Development, Security and Human Rights for All”11. Infine,

nell’aprile 2006 il concetto fu riaffermato nella risoluzione dell’Assemblea Generale delle

Nazioni Unite n. 1674 sulla protezione dei civili nei conflitti armati12.

Nonostante l’adozione del R2P nei paragrafi 138 e 139 nella World Summit Declaration

e il riferimento esplicito che fa la UNGAR n. 1674, al momento non può essere

considerato legalmente vincolante13 nel diritto internazionale ai sensi dell’articolo 38 dello

Statuto della Corte Internazionale di Giustizia. Alcuni aspetti, va sottolineato, sono

tutt’altro che nuovi: la Convenzione sul Genocidio del 1948, le Convenzioni di Ginevra

del 1949 e lo Statuto della Corte Penale Internazionale del 2002, ma la nozione di

responsabilità collettiva implicante il dovere di agire in presenza di determinate fattispecie

è stata senza dubbio innovativa. Inoltre, il testo finale della World Summit Declaration

rivela le caratteristiche di un compromesso che tenta di riconciliare le differenti posizioni

su R2P. Mentre il paragrafo 138 contiene impegni forti in merito alla responsabilità di ogni

singolo stato di proteggere la propria popolazione da genocidio, crimini di guerra, pulizia

etnica e crimini contro l’umanità, il paragrafo 139 è meno stringente sulle responsabilità

8 R. Dallaire, Shake Hands with the Devil, Arrow Books, Croydon, 2003. 9 Anche questi interventi sono tuttavia visti come fallimentari da alcuni studiosi: G.T. Dempsey,

R. W. Fontaine, Fool’s Errands: America’s Recent Encounters with Nation Building, Washington D.C., Cato Institute, 2001; D. Rieff, A Bed for the Night: Humanitarianism in Crisis, New York, Simon and Shuster, 2002, capitoli 2 e 4.

10 UN GA A/59/565 (2004). 11 UN GA A/59/2005 (2005). 12 UN SCR 1674 (2006). 13 S. Carsten, “Responsibility to Protect: Political Rethoric or Emerging Legal Norm?”, American

Journal of International Law, 101 (1), 2007, p. 99-120.

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della comunità internazionale non fa riferimento specifico all’uso della forza, non presenta

criteri-guida, non indica quale possa essere l’autorità legittima alternativa nel caso in cui

il Consiglio di Sicurezza non riesca ad approvare una risoluzione.

Da tempo ormai le Nazioni Unite devono affrontare un military overstretch, oltre

all’indubbio problema posto dalla sostanziale modifica nella composizione delle truppe:

dopo gli insuccessi degli Anni Novanta in Bosnia, Somalia e Rwanda i paesi occidentali

hanno sostanzialmente diminuito il loro contributo in termini di risorse umane, non

potendo più fronteggiare un’opinione pubblica sempre più ostile alle immagini di body

bags provenienti da paesi lontani per i quali era difficile riuscire ad immaginare un effettivo

interesse strategico ed un effettivo rientro in termini economici o politici tali da giustificare

perdite sostanziali, feriti e mutilati.

Al momento i maggiori contributori in termini di truppe per le operazioni sotto egida UN

sono Bangladesh, Etiopia, India, Pakistan, Rwanda, Nepal, Senegal, Ghana e Cina14.

L’origine nazionale delle truppe eventualmente inviate in caso di intervento umanitario

pone dei seri problemi in termini di cultura, e in special modo per quando riguarda i Diritti

Umani15.

Poiché il Consiglio di Sicurezza è stato più volte immobilizzato dal veto dei membri

permanenti, l’intervento umanitario è più probabilmente delegato alle organizzazioni

regionali16: nei casi di KFOR e ISAF il modello applicato era quello bicefalo, che separa

l’amministrazione politica dalle operazioni militari- UNMIK e UNAMA, nonostante

quest’ultima sia una missione del Department of Political Affairs invece che del

Department of PeaceKeeping Operations. La prassi, quindi, ha prevalso sull’elaborazione

teorica: l’Unione Africana, la Comunità Economica del West Africa, l’Unione Europea e

la NATO; solo queste ultime due agiscono al di fuori della loro regione.

La NATO, in particolar modo, vanta un un’esperienza ormai ventennale in merito ad R2P.

Il primo coinvolgimento, infatti, si verificò in Bosnia nel 1992-1995. In questo periodo

l’Alleanza atlantica monitorò, e successivamente costrinse all’applicazione delle sanzioni

economiche previste dalle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza contro Serbia e

14 http://www.un.org/en/peacekeeping/resources/statistics/contributors.shtml 15 S. Hungtinton, “The Clash of Civilizations?”, Foreign Affairs, 75, no. 6 (1996) 16 In realtà il termine peacekeeping operation non compare nella Carta delle Nazioni Unite, fu

semplicemente inventato in corso d’opera a seguito del fallimento del sistema collettivo di sicurezza poiché l’articolo 43 della Carta non fu mai realizzato (“All Members of the United Nations, in order to contribute to the maintenance of international peace and security, under take to make available to the Security Council, on its call and in accordance with a special agreement or agreements, armed forces, assistance, and facilities…”) .

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16

Montenegro e l’embargo sulle armi nel Mare Adriatico contro l’allora Repubblica Federale

Socialista della Yugoslavia17.

A seguito della richiesta del Consiglio di Sicurezza, la NATO pose in essere anche la no-

fly zone sui cieli della Bosnia. Inoltre, fu dato supporto alla missione UNPROFOR con

attacchi aerei contro i Serbo-Bosniaci che violavano le Risoluzioni- in relazione alle Safe

Areas che erano state stabilite18. Per queste attività il Consiglio di Sicurezza autorizzò

l’uso della forza ai sensi del Capitolo VII della Carta, in stretto coordinamento con

UNPROFOR (dual-key). In breve divenne chiaro che sia il Segretario Generale che il suo

Special Representative fossero riluttanti alle richieste di attacchi aerei poiché temevano

di minare l’imparzialità di UNPROFOR e delle altre agenzie UN sul terreno.

Dopo la caduta di Srebrenica e Zepa –quindi il clamoroso fallimento del R2P-il legame fu

progressivamente allentato e gli attacchi NATO portarono la fine della guerra in Bosnia19.

A seguito degli Accordi di pace di Dayton, il Consiglio di Sicurezza autorizzò la missione

IFOR sotto comando NATO, la prima missione di peacekeeping completamente

autonoma della NATO20. Lo scopo di IFOR21 era di verificare l’implementazione militare

degli Accordi di Dayton, ai sensi del Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite con

l’autorizzazione all’uso della forza. Alla fine del 1996 IFOR fu sostituita da SFOR22, che

doveva contribuire al ristabilimento della sicurezza ma con un ampio ruolo civile in merito

al mantenimento di legge e ordine, l’arresto di criminali di guerra e la creazione di

istituzioni legittime e forze armate locali. Poiché la situazione progressivamente si

stabilizzò, il numero delle truppe fu diminuito e nel 2004 SFOR fu sostituita da EUFOR.

Uno dei principali problemi delle missioni fu il poco coordinamento tra le diverse

organizzazioni coinvolte nell’implementazione degli Accordi di Dayton, poiché erano

presenti UNMIBH-United Nations Mission in Bosnia and Hercegovina, OSCE-

Organization for Security and Cooperation in Europe e l’Unione Europea; IFOR aveva un

comando separato che non ricadeva sotto il controllo UN, così come OSCE e EU.

17 UN SCR 713 (1991); UN SCR 757 (1992); UN SCR 787 (1992). 18 UN SCR 824 (1993) e UN SCR 836 (1993). 19 Gli Stati Uniti, in particolar modo, fecero pressioni sulla NATO perchè fossero adottate misure

più stringenti: A. Abass, Regional Organizations and the Development of Collective Security. Beyond Chapter VIII of the UN Charter, Oxford, Hart Publishing, 2004, p. 146-147; J. A. Moore& J. Pubantz, The New United Nations. International Organizations in the Twenty-First Century, London, Pearson, 2006, p. 210-211; R. Thakur, The United Nations, Peace and Security, Cambridge University Press, 2006, p. 59-60.

20 UN SCR 1031 (1995). 21 A. J. Bellamy, P. Williams&S. Griffin, Understanding Peacekeeping, Cambridge Polity, 2004,

p. 175. 22 UN SCR 1088 (1996).

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17

Il problema del coordinamento in effetti riemerge e rimane irrisolto in ogni caso di

intervento umanitario.

Fu il Kosovo a divenire l’operazione di intervento umanitario basata su R2P più

controversa nella storia della NATO23. Già verso la fine degli Anni Ottanta Bettati e

Kouschner avevano elaborato il concetto di diritto/dovere d’ingerenza a fronte di gravi

crimini24. Kouschner, profondamente colpito dall’esperienza nella Guerra del Biafra nel

1967 dove operò come medico di ICRC, aveva non solo contestato uno dei principi

dell’organizzazione-non testimoniare per continuare a lavorare - ma aveva poi fondato

sul pilastro della necessità di esporre pubblicamente gli eventi criminosi l’organizzazione

Médecins sans Frontières, perseguendo anche il concetto di dovere d’ingerenza.

Il professor Bettati riprese poi il concetto nel corso degli Anni Novanta25 precedentemente

all’intervento internazionale in Kosovo. La dottrina, quindi, era pronta per essere

utilizzata: trent’anni dopo l’esperienza in Nigeria, Kouschner, che aveva rapidamente

slittato la sua carriera da medico a politico, si preparava ad essere il primo SRSG in

Kosovo, forte dell’elaborazione della sua teoria sul droit d’ingerence.

Nel 1999 il Consiglio di Sicurezza approvò la risoluzione 1199, ai sensi del capitolo VII

della Carta, che ordinava al governo Yugoslavo di ritirare le proprie forze utilizzate sino a

quel momento nella repressione della popolazione kosovara; fu, quindi, stabilita una

missione di monitoraggio. Si attivò anche il Consiglio Atlantico per autorizzare attacchi

aerei, questo costrinse la Repubblica Federale di Yugoslavia a firmare due accordi:

il primo per la NATO Air Surveillance Mission26, e il secondo per la OSCE Kosovo

Verification Mission27 (KVM riporterà poi il massacro di Racak28del gennaio 1999 che

convincerà definitivamente la comunità internazionale per un intervento umanitario).

Dopo alcune settimane di sforzi diplomatici che portarono ad un nulla di fatto, nel marzo

1999 la NATO iniziò gli attacchi aerei contro il regime del Presidente Milosevic per

fermare la pulizia etnica con l’operazione Allied Force, senza autorizzazione da parte del

Consiglio di Sicurezza. Solo a posteriori il Consiglio legittimò l’operazione e la NATO e,

ad operazione in corso, fece riferimento alle Risoluzioni precedenti come giustificazione

23 N. Chomsky, The New Military Humanism, lessons from Kosovo, Pluto Press, London, 1999. 24 M. Bettati, B. Kouschner, Le Devoir d’ingérence : Peut-on les laisser mourir ? Denoel,

Broché, 1987. 25 M. Bettati, Le droit d’ingérence. Mutation de l’ordre international, Decaux, Politique

étrangère, Année 1996, Volume 61, numéro 2, p. 432. 26 UN SCS/1998/991 (1998) Annex, Kosovo Verification Mission Agreement between NATO

and the Federal Republlic of Yugoslavia. 27 UN SC S/1998/978 (1998), Agreement on the Kosovo Verification Mission. 28 N. Chomsky, p. 40

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legale (una risoluzione presentata da Mosca per fermare i bombardamenti fu respinta dal

Consiglio).

Nel giugno del 1999, a seguito di una fitta attività diplomatica fra Russia ed EU, fu

raggiunto l’accordo su un Military Technical Agreement tra la NATO e la Repubblica

Federale che aprì il varco alla risoluzione 1244 e alla sospensione degli attacchi aerei.

La risoluzione autorizzava il dispiegamento di KFOR, a comando NATO e ai sensi del

capitolo VII della Carta, e la creazione di un’amministrazione civile guidata dalle Nazioni

Unite, UNMIK. A seguito della dichiarazione d’indipendenza del Kosovo nel 2008, KFOR

permane ancora sul territorio kosovaro sulla base della risoluzione 1244, seppure con un

numero inferiore di truppe.

La NATO fu successivamente coinvolta anche in FYROM- Former Yugoslav Republic Of

Macedonia-nel 2001. La regione fu altamente destabilizzata dagli eventi in Kosovo e

richiese l’intervento dell’Alleanza Atlantica; fu inviata una forza di peacekeeping di 4.000

uomini- Operation Essential Harvest -per de-militarizzare il National Liberation Army che

chiedeva più diritti per la minoranza albanese, nel 2003 EU prese in carico la missione.

L’Afghanistan è divenuto per la NATO la missione al di fuori della regione più rilevante.

L’operazione dell’organizzazione regionale, tuttavia, non ha un fondamento in R2P, bensì

sulla clausola del Trattato di sicurezza collettiva ai sensi dell’articolo 5. Successivamente

gli Stati Uniti, ai sensi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, lanciarono invece

una coalizione multinazionale da loro guidata, Operation Enduring Freedom29. Più tardi

fu creata ISAF30, ai sensi del capitolo VII della Carta, per assistere l’Afghan Interim

Administration allo scopo inizialmente di mantenere la sicurezza a Kabul e poi fu estesa

al di fuori della capitale31.

Poiché la genesi di ISAF non deriva strettamente da un R2P non verrà trattata oltre,

anche se la menzione dell’operazione era necessaria, dato l’impegno temporale

dell’organizzazione al di fuori della regione e il know how acquisito che si rifletterà sugli

impegni futuri32.

Sino all’intervento in Libia nel 2011 il Kosovo rimane, quindi, il caso più emblematico e

completo di R2P con il coinvolgimento dell’Alleanza.

29 K. Graham, Regional Security and Global Governance. A Study of Interaction between

regional Agencies and the UN Security Council, Bruges, UNU, 2005, p. 101. 30 UN SCR 1386 (2001). 31 UN SCR 1510 (2003). 32 Gallis, NATO in Afghanistan: A Test for the Transatlantic Alliance, Washington DC,

Congress, 2007, p.8-11, 15,19; M. W. Doyle & N. Sambanis, Peacekeeping Operations, in T. G. Weiss&S. Daws, Oxford Handbook on the United Nations, Oxford University Press, 2007, p. 323-348.

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La NATO, infatti, non fu coinvolta nell’operazione in Iraq nel 2003, anche se furono inviate

alcune centinaia di uomini per una missione di training. Dal 2005 la NATO è attiva in

Africa, fornendo assistenza logistica e training ai contingenti di peacekeeping dell’Unione

Africana in Darfur e Somalia.

Come già discusso nei casi di IFOR, SFOR e KFOR, la missione militare era solo uno

degli attori sul terreno, ma la genesi stessa della missione, nata in concomitanza con

UNMIK, ne favorì il migliore inserimento-argomento che non può ritenersi valido nel caso

ISAF.

E’ ormai chiaro che, dati i frequenti impedimenti in seno al Consiglio di Sicurezza,

eventuali azioni motivate da R2P, operazioni di intervento umanitario potrebbero ricadere

sempre più spesso sull’Alleanza. A parte i casi di copertura legale offerta dal capitolo VII

della Carta delle Nazioni Unite, in altre fattispecie le operazioni si rivelano più

controverse. La NATO può portare a termine compiti, o supportare altre organizzazioni

che ne sono incaricate in maniera prioritaria, operazioni a scopo umanitario- ad esempio

il supporto a UNPROFOR- o fornire la componente militare in operazioni di peacekeeping

multi-dimensionali, come nel caso di IFOR, SFOR e KFOR- definite peacekeeping di

terza generazione, poi mutate dati i risultati negativi in Bosnia e Somalia.

Il dibattito interno all’operazione di intervento umanitario per eccellenza, KFOR, è stato

originato essenzialmente dalla questione di legittimità a causa della mancanza

dell’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza al momento dell’inizio dei bombardamenti.

Nel tempo la NATO ha posto in essere alcuni accordi con le Nazioni Unite che possono

essere ricondotti principalmente a diverse categorie: il primo prevede la partecipazione

della NATO a operazioni sotto egida UN, lo stand-by model, come il supporto ad

UNPROFOR-ma alla luce della difficoltà di relazioni tra i comandi questo modello è

caduto in disuso.

La seconda opzione è il dispiegamento di una operazione guidata dalla NATO con

approvazione del Consiglio di Sicurezza ma al di fuori di comando e controllo UN: le forze

impiegate operano nell’ambito della catena di comando NATO, come IFOR, SFOR,

KFOR e ISAF.

L’ultimo caso è il dispiegamento delle forze senza autorizzazione da parte del Consiglio

di Sicurezza: Operation Essential Harvest, Amber Fox e Allied Harmony in FYROM

(l’autorizzazione non era necessaria) e Operation Allied Force in Kosovo.

Il crescente coinvolgimento della NATO in operazioni condotte al di fuori dell’articolo 5

del Trattato crea opportunità e possibilità per un sempre maggiore coinvolgimento in

interventi umanitari sulla base di R2P, prima di tutto perché l’organizzazione regionale

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offre la migliore soluzione al problema di capacità del Consiglio di Sicurezza; in secondo

luogo perché possiede l’apparato amministrativo, logistico e strutture di comando

necessarie per dispiegare e gestire una robusta componente militare in caso di R2P.

Nonostante dal punto di vista pratico la NATO sia senza dubbio l’organizzazione che si

presta meglio ad interventi efficaci in casi di R2P, rimangono limiti sostanziali di legittimità,

evidenziati nel seguito della trattazione, e alle difficoltà di relazione con l’ambito civile: lo

stabilimento di un quadro ben delineato di relazioni e compiti, ben prima del

dispiegamento della missione, con gli altri attori-agenzie UN, EU, OSCE- è essenziale

per la riuscita della missione. Le capacità dell’organizzazione regionale, infatti, non sono

illimitate, né dal punto di vista numerico in relazione alle truppe, né per quel che riguarda

competenze e conoscenze in ambito civile. Un maggiore coinvolgimento dell’Alleanza nel

regime di protezione internazionale può erodere e minare in maniera definitiva la

responsabilità primaria del Consiglio di Sicurezza: la relazione istituzionale tra la NATO

e il sistema UN necessita quindi di una revisione. L’Alleanza ha reso chiaro di non

considerarsi semplicemente un ente regionale33 nell’ambito del capitolo VIII della Carta e

di riservarsi il diritto di agire qualora i suoi membri lo ritengano necessario, pur

riaffermando la volontà di agire di concerto con il Consiglio34. A seguito dell’intervento in

Kosovo il dibattito su R2P è continuato in particolar modo in ambito Nazioni Unite. Il

documento che rimane più rilevante come criteri-guida è il Rapporto del Segretario

Generale del 2009 Implementing the Responsibility to Protect che individua tre pilastri

fondamentali: la responsabilità principale (di proteggere i propri cittadini) è dello stato;

devono essere contemplati tutti i mezzi possibili di assistenza internazionale (diplomatica,

economico-finanziaria), ed infine le misure coercitive devono essere impiegate come last

resort.Negli anni successivi il dibattito in seno all’ Assemblea Generale delle Nazioni

Unite in merito a R2P continuò35, ma la risoluzione 1973 del 2011, che autorizzava tutti i

mezzi necessari per la protezione dei civili in Libia, rimane un caso di scuola poiché primo

e unico riferimento specifico, oltre al fatto che le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza

sono legalmente vincolanti, al contrario di quelle dell’Assemblea Generale.

33 NATO: The Alliance’s Strategic Concept, Brussels, NATO, 1999, par. 10,24,31. 34 Abass, Regional Organizations and the Development of Collective Security. Beyond Chapter

VIII of the UN Charter, pp. 168-169; R. Durward, “Security Council Authorization for Regional Peace Operations”, International Peacekeeping, 13 (3), 2006, p. 350-365.

35 UN GAR, Implementing the Responsibility to Protect, UN General Assembly, 64th session, Early Warning, Assessment, and the Responsibility to Protect, A/64/864, New York, July 14, 2010; UN GA, 65th session, The Role of Regional and Subregional Arrangements in Implementing the Responsibility to Protect, A/65/877-S/2011/393, New York, June 28, 2011; UN GA, 66th session, Timely and Decisive Response, A/66/874-S2012/578, New York, July 25, 2012.

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4. EFFETTI COLLATERALI DEGLI INTERVENTI UMANITARI Le parti che hanno provocato la crisi umanitaria ed eventualmente un intervento militare

possono avvantaggiarsi in vari modi. I combattenti traggono benefici dall’istituzione di campi rifugiati, dagli “safe haven” e dalle

zone protette. La loro presenza viola il diritto ma inavvertitamente li protegge – le

Convenzioni di Ginevra e i Protocolli addizionali, infatti, distinguono tra combattenti e

persone protette36.

Secondo l’articolo 3 comune alle Convenzioni e il Protocollo Addizionale II, il Diritto

Internazionale Umanitario è applicabile in conflitti internazionali e interni37 e si estende

ai rifugiati fintantoché questi non migrino verso un paese belligerante, occupato o colpito

da conflitto interno - la protezione, infatti, cessa con la migrazione verso un paese che

non prenda parte al conflitto armato38, ma la protezione offerta dagli strumenti

internazionali ai rifugiati è essenzialmente teorico-legale piuttosto che fisica, facendo

sorgere così la vera questione della R2P. La distinzione tra combattenti e non combattenti

risale a de Vattel, Grozio e Rousseau ed è centrale nella protezione dei rifugiati.

La garanzia del diritto d’asilo è stata dichiarata “a peaceful and humanitarian act and […]

as such it cannot be regarded as unfriendly by another state”39 .

Le sofferenze dei civili non sono una novità dei conflitti post-Guerra Fredda o “nuovi

conflitti” come definiti da Mary Kaldor40 e nemmeno le violenze nei confronti degli

operatori umanitari.

Negli Anni Novanta sono state create le safety zones nelle aree di conflitto per proteggere

i civili e facilitare l’accesso umanitario alle agenzie. Altri strumenti di protezione sono le

security zones e i corridori umanitari che non si sono dimostrati di grande efficacia: a

seguito del conflitto bosniaco le safe areas hanno assunto un’infausta connotazione.

Furono costituite ne1993 a Srebrenica, Sarajevo, Tuzla, Zepa, Gorazde e Bihac, situate

in territorio serbo-bosniaco e circondato da artiglieria serba, sotto la protezione di

UNPROFOR41 che doveva promuovere il ritiro di unità militari e paramilitari serbe, ma i

36 Additional Protocol I, art. 51 para. 2, 5, 7. 37 Plattner, D. “The Protection of Displaced Persons in Non-international Armed Conflicts”,

International Review of the Red Cross 291, Nov-Dec 1992, p. 567-580. 38 Lavoyer, J. P.“Refugees and Internally Displaced Persons: International Humanitarian Law

and the Role of the ICRC”, International Review of the Red Cross 305, March-April 1995, p. 162-180.

39 Preambolo di United Nations Declaration on Territorial Asylum, UN General Assembly res. 2312 (XXII) 14 December 1967, art. 2 Organisation for African Unity Convention Governing the Specific Aspects of the Refugee Problems in Africa, 1969.

40 Kaldor, M. New and Old Wars: Organized Violence in a Global Era, Polity, Cambridge, 1999. 41 UN SC res. no.863/93 che autorizzava “to use force in self-defense or in deterring attacks”.

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peacekeepers non avevano né la capacità di demilitarizzare né quella di difendere le safe

areas. Il comandante aveva richiesto 34,000 soldati ma dopo un anno ce n’erano solo

7,600. Il problema della protezione fisica di questi safe haven è essenzialmente di

percezione della propria sicurezza in relazione all’organizzazione che sta svolgendo

l’operazione di peacekeeping42. Le safe areas potrebbero effettivamente dirsi tali se

fossero il risultato dell’accordo delle parti: nel caso della Bosnia ed Erzegovina erano

invece un’imposizione esterna, oltre a non rispettare i requisiti del Diritto Internazionale

Umanitario. L’Executive Committee di UNHCR aveva concluso già nel 1987 che gli

attacchi contro i campi rifugiati non sono giustificabili, basandosi però sull’assunto che i

campi rifugiati avessero un carattere esclusivamente civile e umanitario.

L’infiltrazione nei campi rifugiati da parte di elementi armati - come nel caso degli

Interhamwe in Rwanda - e l’illegalità hanno una lunga storia: sono insediamenti che

promuovono l’attrazione e la creazione di criminalità, con danni conseguenti sia per i

rifugiati genuini che per il paese ospitante. I campi rifugiati, inoltre, hanno provato nel

corso degli anni di non essere affatto la meta prescelta per chi fugge che preferisce, come

prima opzione, cercare appoggio presso conoscenti e solo in ultima istanza si adegua al

campo. Nelle valutazioni - ancora troppo poche e non avulse da interessi di parte - fatte

dalle agenzie umanitarie a seguito dei loro interventi questo aspetto emerge raramente.

Per le agenzie, i governi e i donatori, i campi profughi rivestono un’attrattiva, legata alla

tangibilità, che va oltre gli evidenti risvolti negativi43. Permettono, infatti, di riunire

fisicamente i “beneficiari” con vantaggi tecnico-logistici e danno visibilità, sia in termini di

accountability per l’agenzia che li realizza sia per la soddisfazione del donatore in termini

di immagine e comunicazione.

Il campo rifugiati diventa prima di tutto motivo d’attrazione per le forze militari e

paramilitari per il reclutamento, o semplicemente sfruttando la presenza di civili che

assicura lo spazio umanitario con quel che ne consegue quanto a forniture di beni di

prima necessità e logistica44.

42 Woodward, S. Balkan Tragedy: Chaos and Dissolution after the Cold War, Brookings

Institution, Washington DC 1995, p. 320 e 321; Report of the Secretary General pursuant to the General Assembly Resolution 53/35: The Fall of Srebrenica, UN General Assembly Document A/54/549, United Nations, New York 1999; Ramsbotham, O. Woodhouse, T. Humanitarian Intervention in Contemporary Conflict: A Reconceptualization, Polity Press, Cambridge, 1996, p. 185.

43 Luciano Carrino, Ministero Affari Esteri, lezione al Master in Diritti Umani e Interventi Umanitari presso l’Università di Bologna, anno accademico 2000/2001.

44 “The factions were opening the doors to humanitarian aid, up to the point where all sophisticated logistics had entered the zones: cars, radios, computers, telephones. When all

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Inoltre, gli spostamenti delle popolazioni e l’alterazione delle strutture sociali creano

nuove gerarchie all’interno dei campi. I rifugiati sono incoraggiati ad eleggere o

concordare i propri rappresentanti e portavoce e la competizione per tali ruoli può essere

dura, creando nuove strutture prima sconosciute, attribuendo legittimità e potere. Voutira

e Harrell-Bond45 sostengono che vi sia raramente solidarietà politica tra le popolazioni

rifugiate, nonostante l’apparente comunanza di esperienze nel paese d’origine. I rifugiati

sono spesso divisi in fazioni e il controllo dei canali d’aiuto rafforza una fazione rispetto

all’altra. Infine, alcuni governi donatori usano attivamente l’azione umanitaria nei campi

per influenzare politicamente la popolazione o per incoraggiarla al rimpatrio. I metodi

utilizzati sono vari: le razioni alimentari vengono ridotte, le strutture tecniche e sanitarie

vengono smantellate, vengono offerti pacchetti assistenziali come incentivi per il ritorno

nel paese d’origine, la protezione fisica offerta dai militari viene ridotta o azzerata.

A livello pratico è estremamente difficile conciliare il desiderio legittimo di rifugiati e sfollati

di lottare per i propri diritti con la necessità di provvedere alla loro sicurezza fisica. Gli

stati ospitanti i rifugiati, UNHCR, IOM e tutte le agenzie partner sono vincolati da precisi

parametri46: i campi profughi devono essere ad una certa distanza dal confine

internazionale o dalle zone fisicamente pericolose, ma i costi dell’installazione e di

spostamento del campo, la resistenza degli sfollati e il timore di installazioni permanenti

da parte dei governi ospiti rendono difficile il rispetto di questi criteri.

Le attività di assistenza umanitaria hanno rilevanti effetti sull’economia di guerra in caso

di conflitto e modificano profondamente il sistema economico.

Ad esempio in Kosovo nel 2004, quindi 5 anni dopo l’inizio della missione, venivano

importati beni per un valore del 54% del Prodotto Interno Lordo, le esportazioni erano il

4% con tasse sulle importazioni che finanziavano il 70% del budget statale; il PIL

continuava decrescere47 e il deficit ad aumentare48, l’economia era gonfiata dalla

presenza internazionale con un’enorme quota di attività informali, grigie e in nero49.

the stuff was there, then the looting would start in a quite systematic way” in ICRC, “ICRC Conditionality: Doctrine, Dilemma, and Dialogue”, 2000, op. cit. p. 25.

45 Voutira E. Harrell-Bond B. “In Search of the Locus of Trust: The Social World of the Refugee Camp” in Valentine D. Knudsen J. (eds) Mistrusting Refugees, University of California Press, Berkeley, 1995, p. 207-224 a p. 209 e 210.

46 Le NGOs si attengono soprattutto allo Sphere Project che ha parametri e costi più bassi rispetto ai requisiti richiesti da UNHCR, vedi UNHCR e Agenzia di Protezione Civile, Manuale per le Emergenze, Roma, 2001.

47 Con una fetta d’illegalità che copre circa l’80% del totale, Marzo Magno, A., 2005, op. cit. p. 488.

48 Limes no.6/2006, op. cit. p. 75. 49 UNDP-Kosovo, “Kosovo Mosaic”, op. cit. p. 12.

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In Pakistan nel 2006 gli stipendi dello staff locale erano completamente fuori controllo

verso l’alto provocando continue richieste di aumenti – e migrazioni da un’agenzia all’altra

verso il migliore offerente - oltre al fatto che persone già occupate localmente

abbandonavano il loro impiego precedente preferendo le remunerazioni più alte delle

organizzazioni internazionali50 agli impieghi statali.

Gli elementi di perturbazione sono principalmente di tre tipi: legali, ricadono in un’area

grigia oppure sono completamente illegali. Le interferenze delle agenzie si distribuiscono

a livello macro, cioè sul governo, a livello locale e direttamente sui singoli.

Il governo centrale beneficia del pagamento delle tasse d’importazione e dei visti

d’entrata degli operatori umanitari, di affitti di strutture alle organizzazioni internazionali,

della tassazione dei salari, dei proventi tassabili derivanti da acquisti in loco di beni e

servizi -forniture di acqua, elettricità e telefonia, e si scivola nell’illegalità con la “dovuta”

assunzione di una certa quota di personale locale. Nel caso non siano stilati accordi

precisi o manchi un sistema efficace di monitoraggio, il governo ricevente può utilizzare

a sua discrezione gli aiuti fino ad arrivare alla corruzione e al mercato nero o

semplicemente ad una gestione che sfugge completamente al controllo del donatore.

Nel caso del Pakistan, che ha visto la presenza di truppe NATO richieste dal governo

centrale in occasione del terremoto del 2005, il governo ha gestito in maniera diretta

l’assistenza umanitaria ai profughi sin dai primi Anni Ottanta, nonostante il carico

finanziario gravasse prevalentemente sulle agenzie che venivano relegate ad un ruolo di

consulenza51.

A livello regionale e locale gli affitti di terreni per le basi militari, case, automobili, camion,

acquisto di beni alimentari e prodotti locali da parte del personale internazionale e i

contratti con entità militari gonfiano notevolmente l’economia; si rende poi necessario

assumere determinate persone nel proprio staff, diventano frequenti le estorsioni ai

check-point illegali, furti, saccheggi e prospera il racket della protezione delle strutture

che ospitano beni e persone.

Spesso i numeri della popolazione locale in situazione di bisogno vengono alterati - le

morti è sufficiente non riportarle - per continuare a ricevere le razioni alimentari, sorgono

50 Susan Busch, United Nations Joint Logistic Center, Bagh City, marzo 2006. UNJLC condusse

una ricerca nel 2005-2006 tra tutte le agenzie internazionali governative e non attive nell’area rilevando l’esplosione del mercato del lavoro e l’afflusso di personale dalle altre regioni del Pakistan.

51 Nel 1982 solo UNHCR spese 77 milioni di dollari nel paese per fornire tende, assistenza sanitaria, acqua, vestiario, beni alimentari e carburante. Successivamente la spesa lievitò fino a 400 milioni di dollari l’anno, vedi Kenyon Lischer, S. “Collateral Damage” op. cit. p. 95.

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servizi paralleli per rispondere ai bisogni della comunità internazionale come ristoranti,

bar, locali e attività di prostituzione.

Anche l’utilizzo di strutture e organizzazioni locali per la distribuzione dell’aiuto può essere

fuorviante, rafforzando le divisioni e incrementando le percezioni di ostilità delle

popolazioni locali. A causa della mancanza di conoscenza del contesto, l’assunzione

dello staff locale è spesso frutto di casualità e riproduce discriminazioni e sperequazioni;

la comunità internazionale nella maggioranza dei casi fatica a sfuggire alle logiche locali

di divisione politica, religiosa o di altre affiliazioni quando non riesce a stabilire criteri equi

nella selezione del personale.

Negli Anni Ottanta in Eritrea, ad esempio, un consorzio di agenzie, Emergency Relief

Desk, stabilì un rapporto estremamente positivo con la Relief Society of Tigray e la

Eritrean Relief Association che erano affiliate al Tigrayan People’s Liberation Front e

all’Eritrean People’s Liberation Front. Entrambe le formazioni erano seriamente

impegnate nell’assistenza sanitaria ai civili nelle aree rispettivamente controllate.

Nel caso del Sudan, SPLA-Sudan People’s Liberation Army - il suo braccio umanitario, il

Sudan Relief and Rehabilitation Agency, aveva negli Anni Novanta un atteggiamento

chiaramente predatorio. SRRA fu ufficialmente incaricata dalle Nazioni Unite nell’ambito

di Operation Lifeline Sudan di coordinare la distribuzione degli aiuti, ma si appropriò di

massicce quantità di beni e utilizzò pratiche di impiego fortemente discriminatorie52.

Oxfam in Liberia nel 1996 subì tanti e tali furti di materiale ed equipaggiamento da arrivare

ad affermare che il conflitto era stato così fomentato che sarebbe stato meglio non

intervenire in nessun modo53: la protezione dalla violenza in casi estremi diventa più

importante dell’alleviamento delle sofferenze. In seguito Oxfam e altre dodici agenzie

decisero di ritirarsi dal paese poiché la loro attività produceva più danni che benefici alla

popolazione.

Rony Brauman fu molto critico a proposito dei lanci di razioni alimentari in Afghanistan

da parte dell’esercito degli Stati Uniti nel 200154 poiché confondeva le popolazioni

annullando i confini tra l’intervento militare e l’azione umanitaria, compromettendo

l’immagine e la posizione delle NGOs e delle Organizzazioni Internazionali.

52 Duffield, M. Prendergast, J. Without Troops and Tanks, p. 164-167 e MSF A Review of the

Famine in Southern Sudan and the Organization of Relief Assistance, Médecins sans Frontières, Paris, January 1999.

53 Weissman, L’aide humanitaire dans la dynamique du conflit libérien, p. 48 ; Atkinson, The War Economy in Liberia, p. 21 ; Tauxe, J.D. « Libéria, la logistique humanitaire en question » Revue Internationale de la Croix Rouge no. 819, Mai-Juin 1996, p. 379-381.

54 Berkeley, B. “Sending Help; International Agencies Give Aid, While Trying to Avoid the War”, New York Times, 12 November 2001, p. 6.

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Nel 2004 i donatori istituzionali condizionarono il proseguimento dell’aiuto umanitario

nella Repubblica Democratica del Congo alle negoziazioni per un accordo di pace,

rendendo così la popolazione ostaggio della comunità internazionale55.

Il condizionamento dell’assistenza umanitaria non è ristretto ad ambiti istituzionali e

governativi: World Vision era nota in passato per condizionare l’aiuto nelle Filippine alle

conversioni al cattolicesimo56.

I governi, particolarmente in periodi elettorali, e le agenzie internazionali sono spesso

vittime della sindrome da intervento: spinti dall’opinione pubblica, per giustificare apparati

interni rigidi e dai costi estremamente gravosi, per reperire fondi privati o guadagnare

visibilità, anche se provocano danni ingenti, pur di essere presenti a volte anche le entità

ispirate da principi umanitari non li rispettano tanto che il non-intervento diviene

un’opzione nettamente migliore.

Nella preparazione dell’azione umanitaria e allo scopo di proteggere civili inermi due

elementi sono fondamentali: considerare l’opzione di non intervenire e le condizioni di

sicurezza. La non azione non è assenza, bensì una scelta precisa di non provocare danni

ulteriori. La decisione di non intervenire può essere una strategia precisa, che rispetta i

principi umanitari e permette di agire con coerenza e soprattutto con modalità sostenibili.

L’importanza del secondo elemento, la sicurezza, è ben illustrata dalla valutazione post-

intervento dell’ufficio di Parigi di Médecins sans Frontières-MSF-sul periodo 1991-199357.

La Somalia, un caso che ha fatto scuola, è stato il primo in cui l’agenzia ha lavorato con

guardie armate, sebbene altre missioni clandestine in Afghanistan si siano svolte con

l’assistenza di appartenenti alla resistenza. Il dibattito tra le NGOs sull’utilizzo o meno di

guardie e scorte armate fu argomento di grande discordia. Poiché si identificavano come

“non governative” - sono i governi tradizionalmente a disporre di forze armate - l’utilizzo

di organizzazioni private o di ali armate di organizzazioni politiche inficia la neutralità e

l’imparzialità di queste organizzazioni. Nel caso somalo il rapporto di MSF evidenziò

come i pazienti negli ospedali fossero armati, sui veicoli che entravano fin dentro gli

ospedali erano montate armi, il personale di MSF era tenuto sotto tiro per curare

determinati pazienti invece di altri e veniva richiesta la protezione armata

55 Dachy, E. “An Ethical Perspective”, Carnegie Council on Ethics and International Affairs,

2001; Brauman, R. “Questioning Health and Human Rights” Series 2, no. 6, Human Rights Dialogue 7, Spring/Summer 2001, p. 7 e 8.

56 Bell, D. Carens J. 2004, op. cit. p. 304, nota no. 9. 57 Raisson, V. Manoncourt, S. MSF –France en Somalie, janvier 1991-mai 1993 : Evaluation

de la mission, Médecins sans Frontières, Paris, 1994.

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alternativamente all’uno o all’altro clan: Siad Barre, Hawiye, Ali Madhi o Aidid a seconda

di quale fosse la fazione prevalente in quel momento.

Anche le altre agenzie presenti, ICRC e SOS-Kinderdorf International, trovarono

impossibile proseguire l’opera umanitaria senza ricorrere a guardie armate. Quello che

cominciò come un’eccezione divenne la regola e uno stravolgimento dei principi

umanitari; si contribuì massicciamente all’industria della sicurezza (o meglio della

violenza tra fazioni), aumentando l’economia di guerra e creando un circolo vizioso di

dipendenza, così i proventi della sicurezza andavano a rafforzare l’economia distorta.

Quando un’agenzia tentava di organizzare attività e movimenti senza scorta armata il

personale internazionale veniva attaccato dalle sue stesse guardie e le agenzie si

trasformavano da complici in ostaggi. Poiché le guardie chiedevano aumenti continui e

non c’erano alternative, la mancanza di coordinamento sulle tabelle salariali con le altre

agenzie nel frattempo insediatesi portò a compensi esorbitanti per le guardie reclutate:

nel periodo ottobre-dicembre 1991, ad esempio, MSF pagò ad Osman Ato circa 400.000

dollari58.

La questione sicurezza non coinvolge solamente i civili che tradizionalmente non hanno

protezione fisica armata. Le missioni di peacekeeping fronteggiano problemi legati alle

regole d’ingaggio che stabiliscono la tipologia delle armi e l’ambito di utilizzo. La stessa

UNOSOM - United Nations Operation in Somalia - ha scontato la mancanza di chiarezza

nella catena di comando e le ambiguità politiche della missione concretizzatesi in un

doppione tra la missione UN e il comando americano che agivano parallelamente, spesso

senza coordinamento.

L’assistenza da parte di civili, NGOs o Organizzazioni Internazionali e l’intervento

umanitario da parte di forze armate senza adeguate condizioni di sicurezza ha spesso

conseguenze negative poiché il lavoro non può essere portato a termine, gli operatori

internazionali, lo staff locale e la popolazione civile vengono messi in pericolo e si violano

i principi d’intervento che garantiscono lo spazio umanitario confondendo i confini con

l’ambito militare.

L’assistenza umanitaria internazionale conferisce legittimità ad individui, organizzazioni,

fazioni, partiti, movimenti di liberazione nazionale o ribelli e governi di dubbia legittimità59.

58 Raisson, V. Manoncourt, S. MSF en Somalie, janvier 1991-mai 1993, Evaluation de la

mission Médecins sans Frontiéres, Paris 1994. 59 Terry, F, 2002, op. cit. p. 42.

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Per questo motivo i canali attraverso i quali si stabiliscono contatti a livello governativo,

locale e con agenzie umanitarie di varia natura è estremamente rilevante tanto da

divenire un atto politico.

L’aspetto più rilevante, e pericoloso, è che il conferimento di legittimazione spesso non è

intenzionale, passa inosservato alle stesse agenzie mentre per la società civile e le

organizzazioni locali - di qualsiasi matrice - divengono determinanti.

La legittimazione internazionale o nazionale è importante per qualsiasi movimento

politico, sia che si trovi al potere o, a maggior ragione, che ambisca conquistarlo. Quando

le agenzie umanitarie negoziano con i leader delle fazioni o i comandanti locali,

riconoscono implicitamente un’autorità sul territorio o sulla popolazione60. Nell’ex

Yugoslavia i Serbo-bosniaci avevano poche altre fonti di legittimazione se non negoziare

con le agenzie il passaggio dei convogli umanitari.

Robert Oakley - US Special Envoy to Somalia – nel 1993 strinse la mano ad Aidid e ad

Ali Mahdi di fronte alla stampa internazionale come rappresentanti del popolo somalo.

Per mesi, nel periodo precedente, Mohamed Sahnoun - precedente rappresentante del

Segretario Generale delle Nazioni Unite - aveva cercato di promuovere la leadership dei

leader tradizionali e delle associazioni come fonti alternative di autorità61. Personalità

locali, politici o meno, possono vantare credito per aver attratto e quindi fornito strutture

e servizi - sanità, educazione, acqua - in una particolare area che diviene bacino di voti

e per consolidare il proprio potere politico62 fino a distorcere, deviare e alterare i progetti.

La presenza internazionale accorda legittimazione ad una fazione o ad un regime e

attribuisce le etichette di vittime e carnefici. Col silenzio su atrocità o pratiche abusive si

manipola l’immagine del sistema politico di quell’area nei confronti dell’esterno. Ogni

agenzia ha politiche differenti in merito e le organizzazioni sul campo si scontrano tra di

loro: riconoscere una parte come carnefice e l’altra come vittima può compromettere

seriamente il processo di riconciliazione-come hanno dimostrato i moti del marzo 2004 in

Kosovo.

ICRC, visto il suo statuto, preferisce l’intervento alla testimonianza pubblica: tra il 1969 e

il 1987 in Sudafrica, per avere accesso ai prigionieri tra i quali Nelson Mandela, conferì

60 Destexhe, A. L’humanitaire impossibile, ou Deux siècles d’ambiguité, Armand Colin, Paris,

1993. 61 Sahnoun, M. Somalia: The Missed Opportunities, United States Institute of Peace Press,

Washington DC, 1994, p. 40. 62 Smith G. “Relief Operations and Military Startegy” in Weiss T. and Minear L. (eds)

Humanitarianism Across Borders: Sustaining Civilians in Times of War, Lynne Rienner, Boulder, 1993, p. 97-116.

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implicitamente una sorta di rispettabilità riconoscendo una minima adesione del regime

di Pretoria agli standard internazionali. Mandela ricorda nella sua autobiografia come

poco tempo prima delle ispezioni fosse trasferito ad un’altra cella, gli fossero cambiati gli

abiti e migliorato il vitto che all’indomani della visita tornavano agli standard precedenti63.

Fu solo nel 1987 che ICRC decise il ritiro dal Sudafrica ritenendo che le limitazioni

imposte dal regime fossero maggiori dei vantaggi di mantenere la presenza a scopo

umanitario.

L’azione umanitaria, civile o militare, svolge anche un distorto effetto di supplenza

fornendo servizi che normalmente vengono assicurati dalle strutture statali o dalle

autorità che hanno il controllo del territorio: permette quindi che queste impieghino le loro

risorse in altro modo invece di farsi carico del benessere dei propri cittadini. Questo

problema sostanziale - soprattutto in fase di capacity building che fu particolarmente

evidente in Kosovo - fu riconosciuto agli albori dell’azione umanitaria da Florence

Nightingale che dissentiva da Henri Dunant nella sua proposta di creazione di un corpo

medico civile. Nightinghale sosteneva che questo tipo di servizio avrebbe liberato risorse

- che altrimenti gli stati avrebbero utilizzato per governare - verso attività belliche64 e

questo aspetto è strettamente legato all’importanza del contratto sociale. Mark Duffield65

ha definito l’“internazionalizzazione del welfare pubblico” come un trasferimento di

responsabilità del benessere dei cittadini verso la comunità internazionale contribuendo

alla dipendenza cronica, un processo che ha gravi ripercussioni nella fase di post-

emergenza. Si può supporre che senza i servizi forniti massicciamente dai governi e dalle

agenzie, su base giornaliera, ad ampie fasce di popolazione, alcuni regimi autoritari

avrebbero potuto trovarsi a fronteggiare un’opposizione più dura o prima di quanto sia

poi accaduto.

La legittimazione che l’azione umanitaria può inavvertitamente attribuire a gruppi clanici,

entità tribali, signori della guerra, trafficanti, guerriglieri, politicanti o aspiranti tali

rappresenta l’aspetto negativo della nozione di empowerment.

Mary Anderson66 richiama costantemente l’empowerment degli attori locali nelle

operazioni di intervento umanitario criticando la diffusa abitudine di imporre progetti

dall’alto ai riceventi senza adeguate conoscenze del contesto sociale.

63 Mandela, N. Long Walk to Freedom, Little Brown, London 1994, p. 396. 64 Moorehead, C. Dunant’s Dream: War, Switzerland, and the History of the Red Cross, Harper

Collins, London, 1998, p. 29-32. 65 Duffield, M. “The Political Economy of Internal War: Asset Transfer, Complex Emergencies

and International Aid” in Macrae J. Zwi (eds) War and Hunger p. 50-69, p. 57. 66 Anderson, M. 1996, op. cit.

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L’altro aspetto, però, è rappresentato dalla trappola della legittimazione di entità o

persone lontane dall’assumersi la responsabilità morale che implica il contratto sociale

tra cittadini e governanti. La valorizzazione delle capacità locali e la legittimazione

rappresentano i due estremi tra i quali si dibattono le entità che intervengono: imporre

integralmente i loro progetti o appoggiarsi a organizzazioni locali delle quali non sanno

nulla?

Quando si arriva nella zona di operazioni domina l’anarchia e la scelta dei referenti è

quasi sempre per le NGOs del tutto casuale, mentre le Organizzazioni Internazionali e gli

stati sono vincolate dalle autorità governative.

La legittimazione delle autorità in carica è strettamente collegata al controllo della

popolazione attraverso la gestione di beni e servizi forniti dall’intervento umanitario: la

distruzione delle riserve alimentari o il rifiuto di provvedere assistenza influiscono sul

movimento delle popolazioni, così come mantenere una popolazione affamata attrae

l’assistenza internazionale servendo interessi strategici, politici ed economici dei poteri

locali.

In Liberia, ad esempio, il Presidente Charles Taylor aveva invitato le NGOs internazionali

nel 1996 a verificare la malnutrizione di vasti segmenti della popolazione sotto il suo

controllo per poi richiedere una tangente del 15% sugli aiuti umanitari che varcavano i

confini del paese67. In Etiopia durante la carestia del 1983-1985 i punti di distribuzione

dei beni alimentari divennero trappole del governo per il reclutamento forzato o per il

trasferimento della popolazione a sud del paese. Mentre l’aiuto serviva da esca, la

presenza di NGOs internazionali dava un senso di legittimità e di sicurezza alla

popolazione che fu deportata: molti morirono durante il trasporto ed altri nei luoghi di

destinazione per carenza di assistenza medica e diffusione delle malattie tropicali68.

Lo spostamento di popolazioni era l’obiettivo primario del conflitto nell’ex Yugoslavia: la

fornitura di aiuti incoraggiava gli occupanti un territorio a rimanere mentre la scarsità li

incoraggiava a spostarsi altrove. Le organizzazioni umanitarie erano confrontate con un

dilemma morale ricorrente: assistere i residenti che restavano fino a rischiare l’incolumità

fisica, oppure incoraggiarli ad andarsene sostenendo così la politica di espulsione etnica:

67 Civilians Trapped in Hunger Camp: Abuse of Humanitarian Aid by Liberian Warlords Must

Stop, MSF press release, Monrovia, 10 July 1996. 68 De Waal, A. Famine Crimes : Politics and the Disaster Relief Industry in Africa, African Rights

and the International Africa Institute in association with James Currey and Indiana University Press, Oxford, 1997, p. 115; Jean, F. Ethiopie: Du bon usage de la famine, MSF, Paris 1986, p. 57; Clay, J. “Ethiopian Famine and the Relief Agencies” in Nichols B. and Loescher G. (eds) The Moral Nation: Humanitarianism and US Foreign Policy Today, University of Notre Dame Press, Notre Dame, 1989, p. 264.

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non solo le politiche di ICRC e UNHCR si scontrarono su questo punto, ma anche

all’interno dello stesso Alto Commissariato le visioni del field staff divergevano

ampiamente da quelle dell’Head Quarter. Durante il conflitto in Bosnia il field staff di

UNHCR si mostrò riluttante alle evacuazioni da zone di guerra, se non nel caso di malattie

o ferite gravi, per evitare di contribuire agli obiettivi di espulsione etnica dei belligeranti

portando salvezza alla popolazione civile invece di portarla in salvo69. Al contrario, ICRC

riteneva che questo fosse un problema secondario riguardo alla priorità di salvare vite

umane. UNHCR era accusato di mettere in pericolo la popolazione dando un falso senso

di sicurezza - in special modo nelle safe areas dichiarate dalle Nazioni Unite - mentre

ICRC di contribuire alla politica delle parti in causa. Considerando che l’obiettivo dei

belligeranti era chiaramente l’espulsione etnica70 e le safe areas non erano a tutti gli effetti

tali, entrambe le posizioni rappresentavano un dilemma. Era necessaria l’effettiva

realizzazione delle zone di sicurezza con strumenti adeguati, ma bisognava evitare di

divenire ostaggi dell’imperativo umanitario a tutti i costi adeguandolo al contesto.

Il filosofo Thomas Pogge71 sostiene che l’aiuto dovrebbe esser distribuito sulla base di

dove effettivamente apporti sollievo umanitario. Con questo criterio si dovrebbe deviare,

ad esempio, lo sforzo umanitario verso India o Bangladesh e abbandonare le missioni in

Liberia e in Somalia. Misurare il “successo” dell’assistenza umanitaria è indubbiamente

complesso e fuorviante. La corsa alla sofferenza, ai numeri, alle immagini più truci, è

l’espediente cui ricorrono molte agenzie negli appelli ai donatori e alcuni governi per

ottenere il sostegno dell’opinione pubblica nel far accettare missioni militari: la

competizione per i fondi finisce per stravolgere e condizionare completamente la ragion

d’essere e le azioni delle organizzazioni72 mentre i governi utilizzano l’intervento

umanitario come strumento di politica estera.

Le conseguenze negative di vari interventi umanitari negli ultimi anni hanno originato una

serie di iniziative volte a sanare gli errori del passato per incrementare l’accountability

delle agenzie e migliorare gli interventi in cerca di una nuova legittimazione73 soprattutto

perché la proliferazione di NGOs e l’aumento del personale impiegato – spesso non

69 Newland, K. « Ethnic Conflict and Refugees » Survival 35, no.1, 1993, p. 81-101, p. 98. 70 Jean, F. (ed) Populations in Danger 1995, A Médecins sans Frontières Report, La

Découverte, London 1995, p.80. 71 Carnegie Council on Ethics and International Affairs, February 2001 riportato in Bell D.

Carens J. 2004, op. cit. p. 329 nota no. 82. 72 Rieff, D. “The Humanitarian Trap”, 1996 op. cit. p. 4 e 5. 73 Stockton, N. Performance Standards and Accountability in Releasing Rights: The

Humanitarian Case, ODI, 17 March 1999, London, disponibile su http://odi.org.uk/speeches/sumstockton.html

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adeguatamente preparato - ha prodotto negligenze e pratiche dannose che hanno fatto

diminuire le donazioni.

Focalizzare l’attenzione su parametri numerici, però - come fa prevalentemente lo Sphere

Project74 realizzato da un consorzio di Organizzazioni Non Governative - distrae

l’attenzione dal quadro generale: le linee guida non si riferiscono alla protezione legale o

fisica dei civili, ma mettono sullo stesso piano il diritto ad un certo livello di assistenza

tecnica con la protezione fisica effettiva: far fronte ai bisogni biologici non significa

sicurezza. Lo Sphere Project – richiesto anche dalle agenzie delle Nazioni Unite nei

confronti dei partner implementatori - sembra ignorare l’importanza dell’impatto generale

dell’aiuto. Mentre gli standard tecnici possono essere raggiunti, diventano

controproducenti se lavorano contro i beneficiari di tali standard. Il manuale Sphere riduce

l’azione umanitaria ai componenti numerici per dimostrare l’efficienza ai donatori senza

considerare la valutazione che i “beneficiari” stessi fanno quotidianamente

dell’intervento75.

Lo Humanitarian Accountability Project76 presenta limiti molto simili a cominciare dalla

terminologia: “beneficiario” implica che l’aiuto sia per il suo beneficio. Anche il termine

“cliente” sarebbe fuorviante in quanto dipingerebbe quella umanitaria come un’impresa

commerciale dove i consumatori non sono tali e non hanno modo di manifestare il loro

dissenso nei confronti delle persone che li soccorrono. Una necessità fondamentale del

sistema umanitario è stabilire dei meccanismi per raccogliere le esigenze e le richieste

dei destinatari perché abbiano conseguenze significative sulla pianificazione

dell’assistenza futura. I tecnicismi attraggono maggiori energie ed attenzioni delle

soluzioni politiche: non sono le preferenze nella dieta o gli aspetti tecnico-logistici a

rappresentare una sfida nelle emergenze umanitarie, bensì gli equilibri e la distribuzione

dei poteri di chi ha l’effettivo controllo del paese.

La riforma umanitaria che è stata applicata da UNOCHA dal 2006, pur introducendo

elementi di novità, propone una rigida divisione tra emergenze da conflitto ed emergenze

naturali sulla base, appunto, di tecnicismi. Avvinghiandosi a parametri numerici di

nutrizione e igiene, rimangono sullo sfondo le necessità di protezione fisica e di soluzioni

accettabili per i civili in situazione di necessità, mentre l’arrivo del carrozzone

74 www.sphereproject.org 75 ALNAP Meeting 6 dicembre 2006, FAO, Roma. 76 Humanitarian Ombudsman Project Meeting: Outcome and Next Steps, March 2000, Geneva,

hhttp://www.oneworld.org/ombudsman/outcome-en.html.

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umanitario77che si verifica ogni volta prova ancora una volta di non aver recepito le

lessons learned.

L’azione umanitaria occasionale condizionata dalla disponibilità dei fondi a seconda della

politica estera dei paesi sostituisce la presa di posizione politica più costosa e di lungo

termine: prevale la scelta di un “quick fix” limitato nel tempo e nei risultati che tacita

l’opinione pubblica e fornisce un immediato ritorno d’immagine contenendo i costi.

77 Rieff, D, 2003 op. cit p. 204 a proposito dell’intervento in Kosovo.

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5. RESPONSIBILITY TO PROTECT-R2P: FRA DIRITTI UMANI E COLONIZZAZIONE, LO STATUS DI RIFUGIATI E IDPS Il problema di rifugiati e IDPs è essenzialmente una questione di sicurezza78: per i rifugiati

stessi, per il personale delle agenzie che intervengono, per lo staff locale reclutato dalle

agenzie, per gli stati ospitanti, per i governi che intervengono militarmente.

L’utilizzo strumentale e la loro manipolazione in politica internazionale ha attratto meno

l’attenzione degli studiosi79 rispetto all’impulso umanitario che provocano80. Vista l’attività

delle agenzie, da tempo guidata da reazioni emotive e orientata quasi esclusivamente

sui bisogni fisiologici dei rifugiati, si può dire che l’attività umanitaria sia prevalentemente

frutto di impulsi più che di una strategia e molto spesso con il termine “umanitario”

vengono coperte questioni ben più ampie81. Adelman individua nella gestione dei conflitti

e dei rifugiati specifiche responsabilità per i problemi di sicurezza che provocano82.

Secondo Kenyon Lischer83 nel caso dell’ex Yugoslavia gli ostacoli al ristabilimento dei

rifugiati e l’aiuto umanitario distorto sono stati il prodotto delle politiche estere dei paesi

più forti.

L’assistenza ai rifugiati ricade in primo luogo sugli stati ospitanti84 che nella maggioranza

dei casi non hanno né le risorse né le capacità per occuparsene causando, come la

definisce McNamara, capo della Division of International Protection di UNHCR85, una

minaccia al sistema.

78 Stedman, S. Tanner F. (eds) Refugee Manipulation, Brookings Institution Press, Washington

DC 2003, p.3. 79 Jacobsen, K. (ed) Security in Refugee Populated Areas, special issue Refugee Survey

Quarterly, vol.19 no.1 (2000); Loescher, G. Refugee Movements and International Security, Adelphi Paper 268 Brasseys, London 1992; Weiner, M. (ed) International Migration and Security, Westview, Boulder, 1993; Brown M. International Dimensions of Internal Conflicts, MIT, Cambridge 1996; Posen, B. “Military Responses to Refugee Disasters” International Security, vol.21, Summer 1996.

80 Terry, F. ”The Humanitarian Impulse: Imperatives versus Consequences” in Adelman H. e Rao G. (eds) Humanitarian Intervention in Zaire/Congo 1996-1997, Red Sea Press, Laurenceville, 2002.

81 Stedman, S. Tanner F. op. cit. xi. 82 Adelman, H. “Why Refugee Warriors are Threats”, Journal of Conflict Studies vol.18, no.1,

1998 p. 49-69. 83 Kenyon Lischer, S. “Militarized Refugee Populations: Humanitarian Challenges in the Former

Yugoslavia” Rosemarie Rogers Working Paper 5 MIT, Cambridge, August 1999. 84 UN SC res. 1208/1998 “the primary responsibility of states hosting refugees to ensure the

security and civilian and humanitarian character of refugee camps and settlements in accordance with international refugee, human rights, and humanitarian law”.

85 McNamara, D. “The Protection of Refugees and the Responsibilities of States: Engagement or Abdication?” Harvard Human Rights Journal, vol.11, Spring 1998, p. 355.

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Le agenzie umanitarie hanno tentato di risolvere la questione con degli escamotages

tecnici che non hanno affrontato il problema alla radice. Unger86 suggerisce che le

agenzie dovrebbero porsi il problema fra “treat the geo political context as a given and

interpret their mission within the constraints imposed by that context? Or should they

instead follow their legal mandate as closely as possible, even if that might diminish their

capacity, at least in the near term, to assist those in need?” .

McGuinness evidenzia a questo proposito uno scontro sulla questione dei rifugiati tra chi

applica una visone strettamente legalistica - che Weiner87 ha identificato come monisti -

e chi preferisce un’interpretazione più strumentale e duttile a seconda della situazione88,

ma essendo tre i regimi legali che competono in materia - Diritto dei Rifugiati, Diritto

Internazionale Umanitario e Diritto Internazionale dei Diritti Umani - la distinzione si

confonde poiché nella normativa internazionale quel che si richiede agli stati ospitanti è

poco chiaro89.

Weiner90, che ha presieduto l’External Research and Advisory Council di UNHCR, nota

come le agenzie umanitarie che operano sul terreno si trovino ad affrontare problemi che

vanno ben al di là della semplice applicazione delle norme elaborate dai policymaker e

dai giuristi.

In Bosnia UNHCR assisteva i musulmani bosniaci che dovevano lasciare le proprie case

per non subire la pulizia etnica - assolvendo così il principio di salvare vite umane,

contribuendo al disegno di pulizia etnica e violando la norma secondo la quale nessun

individuo può essere forzatamente espulso dalla propria residenza. La scelta è quindi tra

l’essere intransigenti e applicare rigidamente la normativa - ignorando la realtà sul terreno

- oppure piegare la normativa fino ad infrangerla cercando di rispondere ai bisogni delle

persone assistite.

UNHCR ha progressivamente indirizzato i propri interventi verso un approccio pragmatico

mentre le NGOs, soprattutto quelle che hanno come missione la tutela dei diritti umani,

sono rimaste su posizioni più integraliste91.

86 Unger, D. “Ain’t Enough Blanket: International Humanitarian Assistance and Cambodian

Political Resistance” in Stedman, S. Tanner F. op. cit., cap. 2, p.19. 87 Weiner, M. (ed), International Migration and Security, Westview, Boulder 1993. 88 Mc Guinness, M. “Legal and Normative Dimensions of the Manipulation of Refugees” in

Stedman, S. Tanner F. op. cit. cap. 5. 89 Mc Guinness, M. in Stedman S. Tanner F. op. cit. p.136. 90 Weiner M. “The Clash of Norms: Dilemmas in Refugees Policies” Journal of Refugee Studies,

vol.11, December 1998. 91 M. in Stedman S. Tanner F. op. cit, p. 137.

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Solo dagli Anni Ottanta il fenomeno delle migrazioni forzate è stato riconosciuto come un

problema internazionale e posto nell’agenda della comunità internazionale: una massa

crescente di sfollati che fuggiva dalle proprie abitazioni a causa di conflitti, tumulti,

violazioni dei diritti umani, disastri umanitari e povertà diffusa. La percezione che la fine

della Guerra Fredda abbia portato alla proliferazione di “nuovi” tipi di conflitto92, basati

sull’identità, la religione, l’“etnia” e abbia creato nuove emergenze umanitarie complesse

mai viste prima è fuorviante. Se da una parte è vero che la popolazione civile è

massicciamente coinvolta negli scontri rispetto ad un secolo fa, le rivendicazioni

localistiche erano presenti anche in precedenza.

Secondo il rapporto annuale di UNHCR Global Trends93 le persone attualmente costrette

a fuggire dalle loro case sono 59,5 milioni, di cui 19,5 rifugiati-la metà sono minori, 38,2

IDPs e 1,8 i richiedenti asilo.

Il numero degli IDPs, quindi, non solo supera quello dei rifugiati ma continua ad

aumentare, e solleva uno dei più gravi problemi umanitari e di violazione dei Diritti

dell’Uomo. Proprio per i limiti e l’inadeguatezza degli strumenti legali internazionali la

condizione degli IDPs rimane grave e suscettibile di generare ulteriori complicazioni nello

spazio umanitario: rimanendo all’interno dei confini nazionali è lo stato sovrano, spesso

non in controllo del territorio, failed o failing state, oppure è il perpetratore delle violenze,

ad essere in carico per la loro sicurezza e benessere.

UNHCR, dovendo fronteggiare problemi pratici sempre più pressanti che ne limitavano

la funzionalità, ha dilatato nel tempo la sua azione e plasmato i compiti originari sulla

nuova realtà che ha portato ad includere nella definizione classica di rifugiato tutte le

persone che cercano rifugio in un paese diverso dal proprio o, più in generale, tutte le

persone of concern94, dando così la possibilità all’agenzia di occuparsi anche degli IDPs.

La comunità internazionale è intervenuta in materia con la creazione di un regime

normativo redigendo i Principi Guida sugli Sfollati Interni e un sistema istituzionale,

nominando un Rappresentante Speciale per gli IDPs. Masse di rifugiati e di IDPs possono

92 Kaldor, M. New and Old Wars: Organized Violence in a Global Era Polity Press, Cambridge

1999 cui è seguito un ampio dibattito: questo tipo di conflitti possono essere considerati “nuovi” in un’ottica che vede al centro solo l’Europa (come i conflitti nei Balcani).

93 http://www.unhcr.org/2014trends. 94 Statute of the Office of the United Nations High Commission for Refugees, UNGA res.

no.428, 1950. UNHCR deriva la propria autorità dall’art. 22 della Carta UN agendo per conto dell’Assemblea Generale attraverso il Comitato Economico e Sociale; nel tempo sono stati creati comitati e sottocomitati per la formazione di nuova normativa, vedi Guy S. e Goodwin-Gill G. The Refugee International Law, Oxford University Press, Oxford 1998, p.214-215; le competenze sono state allargate col Protocollo del 1967 a chiunque abbia “well-founded fear of persecution”.

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destabilizzare profondamente l’economia, le società, le strutture sanitarie e previdenziali

con il rischio di causare a livello regionale quel che la Carta delle Nazioni Unite definisce

una minaccia alla pace.

In merito a rifugiati e IDPs nel Diritto Internazionale vigono tre sistemi di tutela: il Diritto

dei Rifugiati (Refugees Law), il Diritto Internazionale Umanitario (International

Humanitarian Law-IHL - Convenzioni di Ginevra e Protocolli addizionali) e il Diritto

Internazionale dei Diritti Umani (International Human Rights Law-IHRL - Bill of Rights e

trattati seguenti)95. I tre sistemi talvolta si completano, sovrappongono, o differiscono

nell’applicazione in base al tempo e al luogo, ma lasciano anche ampi spazi vuoti.

Nel Diritto Internazionale il concetto di rifugiato ha una definizione precisa, la sua

evoluzione risponde alle necessità manifestate dalla comunità internazionale, tenendo

conto al tempo stesso della realtà politica.

Storicamente i rifugiati e i migranti ricevevano il medesimo trattamento e gli Stati non

prevedevano restrizioni al loro ingresso; nei secoli scorsi non sembravano attirare

l’attenzione dei governi a ragione del numero ridotto. Solo a partire dalla Rivoluzione

Francese quando accettare dei rifugiati (ad esempio la famiglia reale di Francia) poteva

avere un significato politico, la normativa in materia cominciò ad assumere rilevanza e a

metà del diciannovesimo secolo l’aumentare del numero dei migranti rese più difficoltosa

l’entrata nei paesi limitrofi.

Il XX secolo fu in Europa un periodo di importanti movimenti e l’esodo di grandi masse fu

un problema pressante: milioni di Russi e centinaia di migliaia di Armeni, che scapparono

alle persecuzioni e ai massacri, ne sono un esempio. Quando la situazione si rivelò troppo

gravosa per le capacità delle associazioni caritatevoli la Società delle Nazioni nominò nel

1921 l’Alto Commissariato per i rifugiati russi, che in seguito avrebbe visto allargare il

proprio mandato per soccorrere i numerosi rifugiati provenienti da altri Stati.

Nel 1933 fu sottoscritta la Convenzione sullo status dei rifugiati che proteggeva, però,

solo quelli già riconosciuti come tali; quando nel 1938 il numero di persone in fuga dalla

Germania aumentò significativamente, la Società delle Nazioni dovette adottare un

trattato e nominare un commissario ad hoc. Nel medesimo anno fu creato un unico Alto

Commissariato per i rifugiati. Lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale segnò la fine

della Società delle Nazioni e, ancor prima dell’istituzione formale delle Nazioni Unite, fu

creata UNRRA, United Nations Relief and Rehabilitation Administration, allo scopo di

95 Professor Marco Balboni, lezione al Master Diritti Umani e Intervento Umanitario, Università

degli Studi di Bologna, a.a. 2000/01.

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assistere non solo i rifugiati, ma tutti gli individui costretti dalla guerra ad abbandonare le

proprie case. In seguito UNRRA si occupò principalmente del rimpatrio di queste persone,

ma, a causa del rifiuto di alcuni rifugiati di rientrare, vari stati sollevarono il problema e il

clima politico della guerra fredda limitò molto il lavoro dell’agenzia che ebbe vita breve,

tra il 1944 e il 1947, con un supporto finanziario al 70% da parte degli Stati Uniti.

Washington utilizzò ampiamente l’agenzia per scopi politici e quando ritirò l’appoggio

questa terminò le sue attività.

Nel 1947 fu creata un’agenzia intergovernativa temporanea, l’Organizzazione

Internazionale per i Rifugiati (IRO), allo scopo di trovare una soluzione per il milione e

mezzo di rifugiati presente in Europa. Era il primo organismo internazionale che si

occupava di tutti gli aspetti di questo fenomeno. Tale molteplicità di funzioni mostrava un

chiaro mutamento d’indirizzo: da una politica di rimpatrio ad una di re-insediamento.

L’IRO era composta da pochi stati membri, ma molti paesi contribuirono al suo lavoro.

Faceva eccezione l’URSS, che non solo non vi partecipò, ma si oppose al lavoro

dell’agenzia, così come aveva già fatto con l’UNRRA, poiché entrambe le agenzie,

secondo la policy governativa, supportavano i dissidenti. Questo fu uno dei fattori che

ostacolò il lavoro dell’IRO e determinò il mancato rinnovo del suo mandato.

Il numero dei rifugiati continuò ad aumentare negli anni successivi, mostrando di non

essere solo un problema temporaneo post-bellico96, emerse quindi la necessità di un

comune accordo tra gli Stati sulle modalità d’intervento.

Nel 1950 - con la Risoluzione 428 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite - venne

fondato l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. UNHCR fu il risultato del

compromesso tra gli Stati Uniti, desiderosi di creare un’agenzia temporanea con un

mandato rigido e modesti finanziamenti, e l’Europa che ospitava milioni di rifugiati, e

quindi a favore di un’istituzione forte, permanente e con la possibilità di raccogliere fondi

cospicui per sollevare gli stati da quell’incombenza che nel corso dei decenni sarebbe

divenuta sempre più gravosa.

96 Per la parte storica relativa al regime pre-Convenzione del 1951 vedi Barnett L., Global

governance and the evolution of the international refugee regime, Working paper n°54, UNHCR, Evaluation and Policy analysis Unit, Toronto 2002; Kushner T. Knox K., Refugees in an age of genocide, Frank Cass, London, 1999; Hathaway J. C., The law of the refugee status, Butterworth, Toronto, 1991; Grahl-Madsen A., The land beyond – Collected essay on refugee law and policy, Macalister-Smith & Gudmundur Alfredson (eds), Kluwer Law International, The Hague, 2001; UNHCR Rifugiati nel Mondo 2000 – Cinquant’anni di azione umanitaria, UNHCR 2000, www.unhcr.org; Marrus M. R., The Unwanted: European refugees in the twentieth century, Oxford University Press, New York, 1985.

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Inizialmente l’agenzia ricevette un mandato triennale, che fu poi rinnovato ogni cinque

anni, fino a che, nel dicembre 2003, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite rimosse

tale limitazione temporale. Parallelamente alla creazione di UNHCR furono portati avanti

i negoziati per la Convezione del 1951 relativa allo status dei rifugiati, che sarà poi il

pilastro normativo dell’attività del Commissariato97.

L’elaborazione delle prime dottrine relative i rifugiati viene collocata tra il 1920 e il 1935:

era considerato rifugiato chi si trovava al di fuori del proprio paese d’origine e mancava

della protezione di quest’ultimo. Secondo il diritto internazionale la persona non era

titolare di diritti, era lo stato ad esercitare la sovranità ed essere quindi responsabile delle

azioni dell’individuo. Le nazioni erano riluttanti ad ammettere nel proprio territorio i rifugiati

per i quali nessuno stato era legalmente responsabile. La Società delle Nazioni accordò

a questi migranti senza passaporto un certificato riconosciuto dagli Stati contraenti.

Non erano inclusi nel provvedimento quei soggetti che, pur mancanti di protezione (quindi

IDPs), si trovavano ancora nel proprio paese. Si colloca in questo periodo la definizione

dei rifugiati russi del 1926, che erano indicati come “qualsiasi persona di origine russa

che non gode più o non ha mai goduto della protezione del governo dell’URSS e che non

ha acquistato un’altra nazionalità”98.

La fase sociale della normativa viene individuata tra il 1935 e il 1939. L’assistenza ai

profughi non è più finalizzata alla correzione di un’anomalia del sistema internazionale,

ma ad assicurare il benessere dei rifugiati. In tal modo si assistevano non solo le persone

mancanti una protezione legale de jure, ma anche le vittime di eventi sociali e politici che

avevano perso la protezione statale de facto. Questa visione si collega alla situazione

storica del tempo e alla Convenzione - in favore delle persone che fuggivano dalla

Germania nazionalsocialista - firmata nel 193899. Essenziale è il riferimento agli eventi

politici che si ripercuotono sulla definizione di rifugiato: era considerato tale chi ha cercato

protezione presso un territorio diverso da quello in cui risiedeva precedentemente, a

causa di eventi politici che rendevano la residenza impossibile o intollerabile.

La terza fase, individualista, è quella dal 1938 al 1950, quando si afferma il rifiuto della

determinazione dello status di rifugiato per gruppi e se ne preferisce uno ad personam. Il

riconoscimento dello status viene visto come uno strumento per facilitare i movimenti

97 https://www.unhcr.it/chi-siamo/storia. 98 Arrangament relating to the issue of identity certificates to Russian and Armenian refugees,

12 May 1926, Geneva, 84 L.N.T.S. no. 2004. 99 Convention concerning the Status of Refugees coming from Germany, February 10, 1938,

4461 L.N.T.S. 61; Council Resolution on Refugees from Sudetenland, 17 January 1939, (1939) 20 (2) League of Nations, O.J. 73, Geneva.

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internazionali di chi cerca la propria libertà personale, non si determina più in base alle

categorie politiche o sociali, ma su base individuale.

A questo punto la definizione diventa universalista: la qualità essenziale per l’attribuzione

di status di rifugiato non è più l’evento politico, ma il contrasto tra le caratteristiche

personali del richiedente e il sistema politico del paese di cui ha la nazionalità. Per questa

ragione la definizione utilizzata dall’IRO riconosceva come rifugiati quelle persone che “in

completa libertà e dopo aver avuto piena conoscenza dei fatti esprimono la valida

obiezione di ritornare nel proprio paese d’origine”100.

Questa definizione è stata fortemente criticata dai paesi socialisti, i quali ritenevano che

un emigrante politico, che non avesse sofferto danni personali, non avrebbe dovuto

cercare protezione presso la comunità internazionale, ma solo negli stati ideologicamente

simpatizzanti.

Secondo la Convenzione del 1951 e il Protocollo Addizionale del 1967101, il termine

"rifugiato" si applicherà a chi “1) sia stato considerato rifugiato [da accordi internazionali

precedenti] 2) che, a seguito di avvenimenti verificatisi anteriormente al 1° gennaio 1951,

temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità,

appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trovi

fuori del paese di cui è cittadino e non può o, a causa di questo timore, non vuole avvalersi

della protezione di questo paese; oppure che, non avendo una cittadinanza e trovandosi

fuori del paese in cui aveva residenza abituale a seguito di siffatti avvenimenti, non può

o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra.

La Convenzione definisce quando lo status di rifugiato cessa e gli standard minimi per il

trattamento. Per alcune materie questo deve essere il medesimo riservato ai cittadini

dello stato firmatario (libertà di religione) mentre per altre sono parificati agli stranieri

residenti nel paese (diritto di proprietà o d’associazione). I rifugiati hanno il dovere di

conformarsi alle leggi ed ai regolamenti dello stato ospitante. Altre norme sanciscono i

criteri per emettere i documenti d’identificazione, si chiede inoltre clemenza (art. 27 e 31

della Convenzione) per i rifugiati che siano entrati illegalmente nel paese. Si enuncia,

inoltre, il principio fondamentale che vieta di espellere o di far tornare un rifugiato in un

paese nel quale rischi la persecuzione, il principio di non refoulement che è ormai parte

del diritto consuetudinario.

100 United Nations General Assembly res no.1454, 67° riunione plenaria, 1950. 101 Art. 1 Convenzione UN relativa allo status di rifugiati, risoluzione n° 2198 (XXI) 1951

adottata da UNGA, www.unhcr.org.

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La messa in pratica della Convenzione è lasciata ai paesi contraenti che la applicano

attraverso il diritto nazionale, sono però tenuti a comunicare le norme di attuazione al

Segretario Generale102. L’applicazione della Convenzione è monitorata da UNHCR

attraverso le relazioni che i paesi devono periodicamente presentare103.

La definizione del termine “rifugiato” sollevò le maggiori discussioni durante i lavori

preparatori; la Convenzione creava nuovi obblighi e gli Stati partecipanti temevano che

una enunciazione troppo estensiva li avrebbe sottoposti ad ingenti oneri, quindi miravano

a restringere il concetto. La definizione finale su cui l’accordo convergeva è basata sul

“fondato timore di persecuzione”, limitata temporalmente e, nel caso in cui il paese lo

avesse voluto, anche territorialmente.

L’articolo 1 della Convenzione è il compromesso tra il metodo che riconosceva lo status

al singolo, poiché appartenente ad un gruppo determinato, come i rifugiati russi, e quello

su base individuale, utilizzato negli anni subito precedenti la Convenzione. Leggendo la

definizione si può notare che non sono inclusi solo i perseguitati per razza, religione,

nazionalità e pensiero, ma anche quelli per “appartenenza ad un determinato gruppo

sociale” inserendo una mediazione tra le due interpretazioni del passato.

Il “timore fondato di persecuzione” è suddiviso in soggettivo, l’avere timore, ed oggettivo,

la fondatezza. Il timore deve basarsi su una situazione che può essere oggettivamente

constatabile; in questa valutazione rientra la situazione del paese d’origine e

l’impossibilità di dimorarvi. Il termine “persecuzione” si può dedurre dall’articolo 33 della

Convenzione: una minaccia contro la vita o la libertà per motivi di razza, religione,

nazionalità, appartenenza ad un gruppo sociale o per un’opinione politica.

La persecuzione è generalmente considerata tale se viene compiuta dalle autorità di un

paese. Nella realtà i motivi di razza, religione, nazionalità, gruppo sociale e opinione

pubblica si combinano tra loro.

La Convenzione del 1951 ha forti limiti strategici ed un focus eurocentrico, dovuti

all’epoca storica in cui è stata stilata e alle limitazioni politiche. E’, infatti, il risultato degli

sforzi dei paesi occidentali per proteggere tutte le persone che fuggivano dall’est Europa

per perseguire valori simili a quelli occidentali. Il “fondato timore di persecuzione”

facilitava la condanna del blocco sovietico, massimizzando la visibilità del flusso

migratorio e permettendo agli Stati occidentali di continuare ad ammettere nei propri

territori i dissidenti politici.

102 Convenzione 1951, art. 36. 103 Ibid., art. 35.

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Questa definizione non poteva essere utilizzata dai paesi dell’est contro quelli occidentali,

poiché la maggiore vulnerabilità di questi ultimi era il rispetto non dei diritti civili e politici,

ma di quelli sociali104, contestati dall’URSS, che non rientravano nella normativa del diritto

dei rifugiati.

Durante i lavori preparatori della Convenzione la maggior parte dei paesi partecipanti

mirava ad ottenere un regime di Diritto dei Rifugiati - che gravavano al momento solo sui

paesi europei - che favorisse la loro redistribuzione nel dopoguerra. Il carattere

eurocentrico si può ritrovare nella clausola che limita i fattori di riconoscimento della

migrazione a tutti quegli avvenimenti precedenti il gennaio del 1951 ignorando, in tal

modo, le proteste dei Paesi in Via di Sviluppo: questi obiettarono infatti che tale

definizione fosse adatta solo al caso europeo105. Gli stati avevano la possibilità di

scegliere se limitare ai soli rifugiati europei gli obblighi derivanti dalla Convenzione.

Tale opzione dava la possibilità all’Europa di ottenere l’assistenza per i propri rifugiati,

ma di non obbligarsi nei confronti di tutti gli altri.

Nell’atto finale della Conferenza si esprime la speranza che la Convenzione relativa allo

status dei rifugiati possa avere valore di esempio e che incoraggi tutti gli stati ad

accordare un trattamento il più simile possibile a quello previsto per i rifugiati a tutte le

persone che si trovino sul loro territorio in una situazione simile a questi. Tale paragrafo

apriva quindi uno spiraglio all’allargamento degli scopi della Convenzione.

Ci sarà poi una dilatazione di tale definizione con il Protocollo relativo allo status di

rifugiato del 1967, dove venne infatti eliminata la delimitazione temporale e territoriale. Il

Protocollo fu un’espansione positiva della definizione di rifugiato, comunque non

adeguata ai tempi106, infatti la dimensione dei gruppi rendeva inapplicabile il requisito

della verifica della persecuzione individuale. La maggior parte dei rifugiati, specialmente

quelli provenienti dai PVS, rimaneva de facto esclusa, poiché la loro fuga era dovuta più

spesso a disastri naturali, a guerre, disordini politici e povertà, ipotesi che non rientravano

nella definizione convenzionale.

Robertson107 commenta così l’inadeguatezza della Convenzione e l’attuale situazione

degli IDPs: “The 1951 Convention was a Cold War device to give sanctuary to those

fleeing from the onset of Stalinism in Eastern Europe. In today’s world, the people most

104 Jackson J., “Measuring Human Rights and Development by one Yardstick”, California

Western International Law Journal vol 15, no.453, 1985. 105 Calendron P., Mexico, Statement, U.N. doc E/AC.7/SR.160, 18 August 1950. 106 Gunning I.R., “Expanding the international definition of Refugee: a multicultural view”,

Fordham International Law Journal, vol. 13, no. 1, 1989-1990. 107 Robertson, G. Crimes Against Humanity, Penguin Books, London 2002, p.107.

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in need of succor are those the refugees leave behind, who lack the money, health or

connections to seek a better and less brutal life abroad. It is illogical to make successful

escape a precondition for protection: in a sense, those who get away are less deserving,

precisely because they have managed to leave”

Il concetto di rifugiato della Convenzione del 1951 è stato allargato negli anni non solo in

modo formale, attraverso il Protocollo Addizionale del 1967, ma anche con l’espansione

de facto e l’evoluzione delle competenze di UNHCR e degli accordi regionali a favore dei

rifugiati. Questo ha comportato una maggior copertura della protezione concessa ad

alcune categorie di persone non rientranti tecnicamente nella definizione della

Convenzione.

Con l’introduzione della “protezione temporanea” si è ulteriormente ampliata la protezione

verso gli sfollati, ma non ha però comportato la revisione del concetto di rifugiato.

UNHCR è un organo sussidiario all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il cui scopo

è fornire protezione internazionale e assistenza materiale ai rifugiati e perseguire

soluzioni durevoli. Il mandato prevede che assuma in modo apolitico, umanitario e sociale

le funzioni di protezione internazionale - sotto gli auspici delle Nazioni Unite per quanto

concerne i rifugiati che rientrino nella definizione del suo statuto - e di ricerca di soluzioni

permanenti del problema, aiutando i governi, previo accordo con gli stessi, a facilitare il

libero rimpatrio o la loro assimilazione in nuove comunità108.

L’art. 6A dello Statuto definisce nel dettaglio le persone rientranti nel mandato UNHCR:

- i) le persone che sono state considerate quali rifugiati ai sensi degli Accordi del 12

maggio 1926 e 30 giugno 1928, o ai sensi delle convenzioni del 28 ottobre 1933 e del

febbraio 1938, o del protocollo del 14 settembre 1939, oppure ai sensi della

costituzione dell’Organizzazione Internazionale per i Rifugiati (IRO);

- ii) le persone che a seguito di avvenimenti sopravvenuti prima del 1° gennaio 1951, e

temendo con ragione di essere perseguitati per motivi di razza, religione, nazionalità

od opinioni politiche, si trovino fuori del paese di loro nazionalità, e che non possano

o non vogliano, a ragione di tale timore o per altri motivi che non siano di convenienza

personale, reclamare la protezione di tale paese, o su coloro i quali, essendo senza

nazionalità e trovandosi fuori del paese di loro abituale residenza, non possano o non

vogliano, a causa del sopraddetto timore o per ragioni che non siano di convenienza

personale, ritornarvi.

108 Statuto UNHCR, risoluzione no. 428 UNGA, 14 dicembre 1950, art. 1.

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Questa definizione assomiglia a quella della Convenzione del 1951, con delle differenze:

quest’ultima aggiunge alle cause di persecuzione l’appartenenza ad un determinato

gruppo sociale. La Convenzione, inoltre, si applica solo alle persone che hanno lasciato

il proprio paese per un fondato timore di persecuzione per fatti precedenti il primo gennaio

1951; l’art. 1B stabilisce una clausola limitativa territoriale, nessuna di queste limitazioni

si ritrova nello statuto UNHCR. Questo fu il motivo che condusse ad una disparità tra le

categorie di persone per le quali l’Alto Commissariato doveva fornire protezione

internazionale in nome delle Nazioni Unite e le obbligazioni giuridiche accettate da ogni

stato attraverso la firma e la ratifica della Convenzione del 1951; le differenze furono poi

attenuate con l’entrata in vigore del Protocollo Addizionale del 1967109.

La definizione individualista del mandato rese difficile all’inizio l’intervento

dell’organizzazione al di fuori dell’Europa, infatti in Africa ed in Asia i rifugiati si

costituivano prevalentemente in gruppi e ciò rendeva difficile l’assegnazione dello status

di rifugiato caso per caso. In quei paesi era importante non identificare gli individui

singolarmente, ma riconoscere l’esistenza di una situazione eccezionale e porvi rimedio

attraverso azioni concrete, che rimpiazzassero la mancanza di servizi vitali, come la

sicurezza, l’assistenza medica e alimentare110.

L’iniziale competenza rationae personae del Commissariato si estese nella pratica grazie

alla nozione di “gruppo e categorie di rifugiati” che figura nel suo statuto all’art. 2 e il

concetto di “buoni uffici” introdotto dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

L’espansione del mandato, quindi, si ebbe grazie alle richieste fatte a UNHCR

dall’Assemblea Generale e dal Segretario Generale per estenderlo a gruppi o ad alcune

problematiche particolari, come previsto dall’art. 9: nel 1956, quando fu richiesto

l’intervento di UNHCR durante l’esodo in massa degli ungheresi; nel 1957 ci fu la prima

di una lunga serie di risoluzioni, che estendevano i buoni uffici di UNHCR ai profughi

cinesi che si trovavano ad Hong Kong; nel corso degli Anni Sessanta il fulcro

dell’intervento del Commissariato si spostò a causa dei forti flussi migratori dovuti ai

processi di decolonizzazione e UNHCR intervenne per assistere i rifugiati algerini in

Marocco e Tunisia; nei primi Anni Settanta, durante la crisi dell’Asia Meridionale, l’Alto

Commissariato fu chiamato dal Segretario Generale a svolgere il ruolo di coordinamento

degli aiuti umanitari internazionali.

109 Ponte Iglesias M.T., Conflictos armados, refugiados y desplazados internos en el derecho

internacional actual, Colección Estudios Internacionales, Santiago de Compostela, 2000. 110 Marquez Carrasco M.C., “La acción del Consejo de Seguridad por razones humanitarias:

El caso de los refugiados kurdos”, Refugiados: Derecho y Solidaridad, Sevilla, 1994.

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Alla fine degli Anni Ottanta l’organizzazione aveva non solo il compito di assistere

materialmente i rifugiati durante il rimpatrio, ma anche quello di provvedere soluzioni

effettivamente durature, ampliandone e complicandone i compiti. I paesi che

accoglievano i rifugiati erano generalmente instabili sia dal punto di vista politico che

economico, necessitavano quindi di un aiuto a livello nazionale, regionale ed

internazionale per garantire una pace duratura.

UNHCR ha esteso il suo mandato a questioni e soggetti che, sebbene non inclusi

tecnicamente ed esplicitamente nello statuto, hanno un’ovvia relazione con le cause

oggettive che provocano migrazioni di popolazioni. L’agenzia non si occupa più solo dei

rifugiati ereditati dalle organizzazioni precedenti, o di persone che si trovino al di fuori del

proprio paese a causa di un fondato timore di persecuzione, ma interviene anche a favore

di persone costrette a lasciare il proprio paese a causa di guerre o conflitti interni, delle

vittime di disastri naturali e di quelli causati dall’uomo. UNHCR, inoltre, monitora le

condizioni di rimpatrio volontario e, se necessario, fornisce assistenza ai rimpatriati,

anche se tecnicamente non sono più rifugiati ma persons of concern.

Più recentemente UNHCR ha cominciato ad occuparsi anche degli IDPs. Tutte le

risoluzioni finora adottate dall’Assemblea Generale indicano una chiara volontà politica

di rimettere all’agenzia tutte le questioni che riguardino - al di là di definizioni rigide -

persone e gruppi di cui il proprio stato nazionale non sia in grado o non voglia occuparsi.

La maggioranza degli stati contraenti la Convenzione del 1951 ne auspica una revisione.

Tuttavia, l’allargamento del concetto di rifugiato attraverso il mandato di UNHCR rimane

tale solo sul piano pratico e non su quello formale. La definizione accettata a livello

internazionale ha dimostrato la propria inadeguatezza nell’affrontare i problemi posti da

milioni di profughi111. Dagli Anni Sessanta i paesi africani e dell’America Centrale

affrontarono esodi di externally displaced persons, coloro che scappavano dal proprio

paese a causa di guerre, instabilità politiche, rivolte civili, disastri naturali e che si

trovavano in una situazione molto simile a quella dei rifugiati, ma non riconosciuta come

tale, poiché queste cause non rientravano in quelle previste dalla Convenzione112.

111 Arboleda E., “Refugee definition in Africa and Latin America: the lessons of pragmatism”,

International Journal of Refugee Law, vol. 3 no.2, 1991. 112 Alex de Waal utilizza lo stesso termine-EDPs-per indicare l’illegittimità dello status di

rifugiato per molte persone i cui requisiti non corrispondano pienamente a quelli richiesti dalla Convenzione 1951, de Waal A. Famine Crimes: Politics and the Disaster Relief Industry in Africa, James Currey, Oxford, 1997, p. 204.

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Per questo motivo a livello regionale furono proposte delle definizioni più ampie pensate

come complementari e non per sostituire quella classica113.

La prima di queste definizioni si ritrova nella “Convenzione che regola gli aspetti specifici

dei problemi dei rifugiati in Africa” elaborata nel 1969 dall’Organizzazione per l’Unità

Africana (OAU), l’altra nella “Dichiarazione di Cartagena”, del 1984.

A seguito dell’ondata dei processi di decolonizzazione, in Africa il problema dei rifugiati

divenne particolarmente grave e attrasse l’attenzione della comunità internazionale.

L’esodo all’interno del continente africano spinse la comunità internazionale a rivedere il

concetto di rifugiato fino a quel momento utilizzato, proponendo un allargamento

attraverso la Convenzione OAU del 1969. La nuova definizione doveva includere gli

individui che erano costretti a lasciare il proprio paese a causa di un’aggressione esterna,

occupazione, dominio straniero o gravi turbamenti dell'ordine pubblico e dar loro, ipso

facto, lo status di rifugiato. L’art. 1 del trattato OAU incorpora la definizione della

Convenzione del 1951 ed aggiunge che il termine rifugiato si applica ugualmente ad ogni

persona che, a causa di aggressione esterna, occupazione, dominio straniero o gravi

turbamenti dell'ordine pubblico in tutto o in una parte del paese di origine o di cittadinanza,

sia obbligata ad abbandonare la propria residenza abituale per cercare rifugio in un altro

luogo fuori del paese di origine o di cittadinanza (comprende anche i casi di epidemie e

carestie). Per determinare lo status di rifugiato non serviva più un’analisi degli elementi

soggettivi come il timore fondato, richiesto dalla Convenzione, ma era sufficiente

analizzare la situazione politica del paese d’origine del richiedente e accertare quindi i

soli fatti oggettivi rendendo più spedito il processo e accelerando l’estensione della

protezione con ovvi vantaggi rispetto al regime precedente114.

Una particolarità della Convenzione è la terminologia innovativa utilizzata, che stabilisce

un precedente nel diritto internazionale. I termini “aggressione esterna”, “occupazione” e

“dominazione straniera” sono generali e non furono definiti esattamente nella pratica

giuridica internazionale (la stessa International Criminal Court nello statuto rimandò la

definizione del termine “aggressione”, articolo 5 par. 2115).

I redattori hanno dato secondaria importanza al significato prettamente legale dei termini,

spinti dalla necessità di rispondere alle esigenze immediate delle migrazioni forzate -

113 Jackson I., “The 1951 Convention relating to the status of refugees: a universal basis for

protection”, International Journal of Refugee Law, vol. 3, no.3, 1991, p. 411. 114 Rwelamira M., “The 1969 OAU Convention the specific aspects of refugees problem in

Africa” International Journal of Refugee Law, no. 1, 557, 1989. 115 Bélanger, M. Droit international humanitaire, Gualino éditeur, Paris 2002, p. 134 e 138.

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qualsiasi fossero le cause, all’interno o fuori dai confini nazionali - per far fronte

immediatamente alle gravi emergenze umanitarie.

Diversamente dal continente africano, in America Latina la pratica dell’asilo diplomatico

e del concetto di asiliado è consueta. Gli eventi politici degli Anni Ottanta spinsero alcuni

Stati ad incontrarsi a Cartagena per un “Colloquio riguardante la protezione

internazionale dei rifugiati in America Centrale, Messico e Panama: problemi giuridici ed

umanitari”, sponsorizzato anche da UNHCR. Da quest’incontro nacque nel 1984 la

Dichiarazione di Cartagena, approvata l’anno seguente dall’Assemblea Generale

dell’Organizzazione degli Stati Americani (OAS).

La Dichiarazione tiene in considerazione la situazione dei profughi e dei loro paesi

d’origine, dichiara l’esigenza di una definizione che includa “le persone fuggite dal loro

paese perché la loro vita, la loro sicurezza e la loro libertà erano minacciate da una

violenza generalizzata, un’aggressione straniera, conflitti interni, una violazione

massiccia dei Diritti dell’Uomo o altre circostanze che abbiano gravemente turbato

l’ordine pubblico”116.

La Dichiarazione di Cartagena è un compromesso tra la classica, obsoleta e inadatta

definizione della Convenzione del 1951 e quella molto ampia della Convenzione OAU del

1969.

L’espressione “protezione temporanea” - utilizzata per la prima volta nel caso dell’esodo

ungherese - indicava che gli stati riceventi ospitavano temporaneamente un gruppo di

persone con la prospettiva di un futuro ristabilimento in un paese terzo. Questa

definizione fu utilizzata anche negli Anni Settanta e Ottanta durante gli esodi in Asia

meridionale ed è stata poi ripresa negli Anni Novanta. Nel 1992 l’Alto Commissariato

richiese formalmente ai governi di accordare una protezione temporanea alle persone

provenienti dall’ex Yugoslavia che fuggivano a causa del conflitto e delle violazioni dei

diritti umani. Gli Stati dovevano garantire il non-refoulement, li avrebbero trattati secondo

gli standard internazionali umanitari ed ospitati fino a quando non fosse stato possibile il

ritorno. La protezione temporanea ha permesso di garantire una sicurezza immediata,

infatti per ottenerla non erano necessarie le lunghe procedure richieste per il

riconoscimento dello status di rifugiato-che è in definitiva il problema principale per

assicurare la protezione. L’accertamento individuale per un numero così consistente di

profughi avrebbe richiesto non solo molto tempo, ma anche ingenti risorse. Questo

sistema garantiva protezione anche alle persone che, secondo l’interpretazione classica

116 Dichiarazione di Cartagena sui Rifugiati, 1984, sezione III.3.

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della Convenzione del 1951, non avrebbero potuto ottenere il riconoscimento dello status

poiché dimostrare il timore individuale di persecuzione non sarebbe stato semplice.

I governi hanno reso nel tempo più difficili le pratiche per la concessione dell’asilo per il

timore che la maggioranza dei rifugiati, una volta insediata, non voglia rimpatriare,

nemmeno quando la situazione lo consenta. La misura della protezione temporanea è

stata quindi accolta favorevolmente perché garantiva il ritorno in patria dei beneficiari di

tale regime una volta finita l’emergenza117. Non esistendo una Convenzione o dei principi

guida sulla protezione temporanea ogni governo nazionale ha elaborato una propria

normativa specifica nella quale sancisce i diritti attribuiti. La protezione temporanea

differisce da quella concessa ai rifugiati non solo per la limitazione temporale ma anche

nei diritti garantiti. Attraverso la protezione temporanea gli Stati hanno sì riconosciuto la

necessità di tutelare le persone che fuggono da conflitti armati o da violazioni dei diritti

umani e che non rientrano nella definizione convenzionale di rifugiato, ma diversamente

dalla Convenzione OAU e dalla Dichiarazione di Cartagena, non hanno contribuito in

materia giuridica all’allargamento del concetto poiché non hanno parificato i diritti di questi

gruppi con quelli dei rifugiati rientranti nella Convenzione del 1951118.

L’evoluzione del termine “rifugiato” è andata adattandosi nella pratica alle trasformazioni

e alle necessità della società internazionale attuale, fino ad acquisire una portata più

ampia, grazie agli sviluppi regionali e alla prassi di UNHCR.

La Convenzione del 1951 e il Protocollo del 1967 sono strumenti largamente inadatti alle

situazioni contemporanee e l’Europa tende ancora ad applicarli con interpretazioni

restrittive119 limitandosi a garantire una protezione temporanea ai profughi come quelli

provenienti dall’ex Yugoslavia o dall’Iraq. In tal modo viene conservata la separazione tra

la categoria dei beneficiari di tutele a titolo temporaneo rispetto a quella dei rifugiati

previsti dalla Convenzione 1951, mantenendo così la garanzia del ritorno dei profughi in

patria una volta cessate le motivazioni della migrazione forzata e potendo conservare il

controllo e la discrezionalità sulla concessione dell’asilo.

Il progressivo allargamento nella pratica del concetto di rifugiato, l’espansione del

mandato di UNHCR sommati all’aggravamento della situazione degli IDPs e la similarità

di questi con i primi hanno generato una linea di pensiero favorevole all’inclusione della

categoria degli sfollati all’interno di quella dei rifugiati.

117 UNHCR, The State of the World's Refugees 1995 - In Search of Solutions, Oxford, 1995. 118 Fitzpatrick J., “Temporary protection of refugees: elements of a formalized regime”, The

American Journal of International Law, vol. 94, no.2, Washington DC, April 2000. 119 Arboleda E., Hoy I, “The Convention refugee definition in the West: disharmony of

interpretation and application”, International Journal of Refugee Law, vol. 5 no.1, 1993.

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Il problema degli sfollati alla fine del 2015 riguarda 40,8 milioni di persone nel mondo120,

il doppio dei rifugiati, dovuti sia a conflitti che a disastri naturali, concentrati maggiormente

in Medio Oriente e Africa. Le migrazioni interne non sono un fenomeno nuovo, ma recente

è l’attenzione a questo riservata ed ha raggiunto un livello di particolare gravità dalla fine

degli Anni Ottanta: i civili spesso vengono colpiti intenzionalmente come obiettivo per

strategie militari e di conquista come è accaduto nella ex Yugoslavia.

L’indebolimento dell’istituto dell’asilo ha ulteriormente contribuito al crescente numero

degli IDPs: se i migranti forzati vengono respinti alle frontiere o il principio di non-

refoulement non è applicato estensivamente, questi gruppi rimangono intrappolati

all’interno dei loro confini nazionali dove lo stato non può o non vuole occuparsi della loro

sicurezza.

La migrazione interna è un fenomeno spesso a lungo termine, che compromette le

strutture sociali di intere comunità. A partire dagli Anni Ottanta, trenta paesi su circa

sessanta coinvolti in un conflitto armato hanno avuto il 10% della popolazione sfollata,

dieci di questi invece ne hanno avuto il 40%121 ma i numeri e le statistiche reperibili sugli

sfollati sono generalmente imprecisi. E’ particolarmente difficile raccogliere i dati sia a

causa del continuo movimento degli sfollati che della difficoltà nel riconoscerli o della loro

volontà di rimanere nell’anonimato. Un’ulteriore causa che rende difficile l’ottenimento di

una stima precisa del numero degli sfollati e generalmente condivisa, è la mancanza di

consenso sulla definizione di sfollato e sulle cause che ne determinano la decadenza.

Governi, gruppi ribelli, organizzazioni internazionali e non governative hanno criteri

diversi per valutare la numerosità della stessa popolazione e soprattutto interessi politici

divergenti e strumentali che si ripercuotono sulla metodologia applicata.

La prima situazione che richiamò l’attenzione della comunità internazionale a causa

dell’enorme flusso di persone sfollate fu il Sudan all’inizio degli Anni Settanta. In

quell’occasione ECOSOC (Comitato Economico e Sociale, UN) richiese a UNHCR di

coordinare l’assistenza umanitaria per il rimpatrio volontario, la riabilitazione e il re-

insediamento dei rifugiati e degli sfollati all’interno del paese122.

Un altro evento che accentuò l’interesse al problema fu l’intervento intrapreso nella

primavera del 1991 da alcuni stati, col comando militare degli Stati Uniti e con

l’approvazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, per proteggere i Curdi nel

120 http://www.acnur.org/t3/fileadmin/Documentos/Publicaciones/2016/10449.pdf, pag. 9. 121 Cohen R., Deng F., Masses in flight: the global crisis of Internal Displacement, Brookings

Institution Press, Washington DC, 1998. 122 ECOSOC Res. 1705 (LIII), 27 July 1972.

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nord dell’Iraq. Seguirono altre crisi umanitarie nella regione dei Grandi Laghi, nell’ex

Yugoslavia e di nuovo in Sudan.

Nel 1992, con la nomina del Rappresentante Speciale del Segretario Generale per gli

IDPs (SRSG), Francis Deng, le Nazioni Unite hanno completato un lungo processo di

riconoscimento dell’importanza del fenomeno e la sua influenza a livello internazionale.

Il Rappresentante del Segretario Generale per gli IDPs è l’unica posizione all’interno del

sistema UN con un mandato specifico.

Il Rappresentante è autorizzato dal mandato a monitorare la situazione degli sfollati,

intraprendere missioni, stabilire tavoli negoziali con i governi, coordinarsi con le istituzioni

per il Diritto Umanitario Internazionale, formulare proposte per aumentare la protezione

legale ed istituzionale e pubblicare rapporti da presentare alla Commissione per i Diritti

Umani e all’Assemblea Generale; la posizione è volontaria, part-time e ha un budget

ristretto. L’ufficio inoltre non ha autorità operativa ed ha un gruppo di supporto limitato.

Le risorse a disposizione del Rappresentante non permettono di intraprendere un

monitoraggio sistematico della situazione degli sfollati. Non esiste alcun tipo di

meccanismo sanzionatorio e di verifica per assicurare che le raccomandazioni di SR

vengano implementate e che i paesi visitati ottemperino i punti concordati123.

Il problema è di natura politica. Poiché gli IDPs ricadono nella sfera della sovranità

nazionale, nessun governo accoglie con favore periodiche missioni di monitoraggio sul

proprio territorio; il lavoro di SR dipende in larga parte dalla volontà di cooperazione degli

Stati. Il mandato del Rappresentante è inoltre limitato dalla mancanza di una specifica

autorizzazione ad avere contatti con attori non statuali che in caso di scontri interni al

paese hanno ruolo essenziale: contatti diretti rimanderebbero ai problemi di legittimità e

legittimazione già trattati.

Alcuni autori definiscono gli IDPs come persone nella medesima situazione dei rifugiati

ma che non hanno attraversato un confine internazionale124. Altri ritengono invece che la

definizione di rifugiato non sia sufficientemente estesa e che anche i criteri basati sul

timore di essere perseguitati, della violazione dei diritti umani derivanti da conflitti armati

o da tensioni interne debbano essere inclusi125.

123 Deng F., Internally displaced persons: an interim report to the United Nations Secretary

General on Protection and Assistance, UN Department of Humanitarian Affairs and Refugee Policy Group, New York, December 1994.

124 Cassan H., “Les organisation internationales et le réfugiés. Les nouvelle politique juridique institutionnelle”, Droit d’Asile et des Réfugiés. Colloque du Caen. Société Française pour le Droit International, Paris, 1997.

125 Plender. R., “The legal basis of International Jurisdiction to act with regard to the internally displaced”, International Journal of Refugee Law, vol.6, no. 3 1999.

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ECOSOC ha richiesto nel 1990 che il Segretario Generale presentasse un rapporto sulle

capacità ed esperienza delle organizzazioni che si occupavano dell’assistenza ai rifugiati,

agli sfollati e su un sistema di cooperazione126. Jacques Cuénod presentò una relazione

nella quale si concludeva che all’interno del sistema UN non c’era un’organizzazione che

potesse coordinare gli aiuti agli sfollati, le agenzie esistenti procedevano ad hoc in ogni

emergenza127.

Per rinforzare e coordinare i meccanismi per l’assistenza umanitaria, inclusi quelli a

favore degli sfollati interni, negli Anni Novanta l’Assemblea Generale prima assegnò il

compito di coordinare l’assistenza degli sfollati ai propri Resident Representative che si

trovavano sul campo, poi fu creato il Department of Humanitarian Affairs (UNDHA) poi

trasformato in Office for Coordination of Humanitarian Affairs, OCHA, e IASC, Inter-

Agency Standing Committee che raccoglie le agenzie governative, internazionali ed

NGOs che operano in casi di emergenza umanitaria fornendo rapporti integrati e completi

sulle principali materie d’intervento. La mancanza di coordinamento e di scambio di

informazioni su assessment, zone e ambito d’intervento ha provocato gravi mancanze,

ridondanze e scontri fra le agenzie coinvolte.

Nel 2004 è stata intrapresa la revisione delle policies della Internally Displaced Persons

Unit di OCHA e la creazione di IDD, Inter-Agency Division for Displaced Persons, per

rendere più efficace la risposta delle agenzie. Nel luglio 2005 IASC ha concordato le linee

di principio per suddividere i compiti tra le agenzie affinché ogni organizzazione potesse

essere ritenuta responsabile per un determinato ambito. Su questa base la leading

agency per gli IDPs è UNHCR: l’ufficializzazione del ruolo di UNHCR sollevò critiche

riconducibili alla missione tradizionale dell’agenzia in merito alla protezione dei rifugiati.

L’elaborazione di una univoca definizione di sfollato interno che potesse essere utilizzata

dalla comunità internazionale fu il primo passo del Rappresentate Speciale per gli IDPs.

Deng definì gli sfollati come quelle persone che, pur rimanendo nel proprio paese, erano

state obbligate a fuggire in gran numero dalle proprie case immediatamente o

inaspettatamente, a causa di un conflitto armato, sovversioni, violazione sistematica dei

diritti umani, disastri naturali o provocati dall’uomo128.

126 ECOSOC Res. 1990778, 27 July 1990. 127 Cuénod J., Report on Refugees, displaced persons and returnees, report to ECOSOC, UN

Doc. E/1991/109/Add.1, par. 117. 128 Deng F., Internally displaced persons: an interim report to the United Nations Secretary

General on Protection and Assistance, UN Department of Humanitarian Affairs and Refugee Policy Group, December 1994, New York.

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Questa definizione individuava gli elementi essenziali delle migrazioni interne forzate: il

trasferimento arbitrario e la permanenza all’interno del paese. I criteri temporali e

quantitativi “immediatamente o inaspettatamente” e “in gran numero” inclusi in tale

definizione erano particolarmente restrittivi ed escludevano alcuni casi gravi.

Deng insieme ad una task force di esperti perfezionò l’iniziale definizione operativa delle

Nazioni Unite eliminando le limitazioni temporali e quantitative ed includendo anche chi

è stato forzato a fuggire senza obbligo materiale imminente. Questa doveva essere una

mediazione tra una terminologia troppo ristretta, che avrebbe escluso alcune categorie

di persone, ed una troppo ampia che avrebbe invece comportato difficoltà di applicazione

nella pratica129.

La nuova definizione fu inserita nei Guiding Principles on Internal Displacement130 che

definiscono lo sfollato come chi “è stato costretto con la forza a fuggire, o obbligato a

lasciare o abbandonare la propria casa o la zona di abituale residenza, per evitare o

prevenire gli effetti di conflitti armati, situazioni di violenza generalizzata, violazione dei

Diritti Umani131 o disastri sia di origine naturale che provocati dall'uomo, e che non hanno

attraversato confini riconosciuti come tali dalla comunità internazionale”.

Questa definizione è ovviamente solo descrittiva e non implica di per sé l’intervento della

comunità internazionale che necessita una richiesta dallo stato o qualora la situazione

degli sfollati sia aggravata da persecuzioni, discriminazioni o altre violazioni cui fanno

riferimento altri trattati internazionali, potendo invocare così la R2P.

Deng intraprese uno studio al fine di determinare se le migrazioni interne avvenissero a

causa dell’incapacità o della negligenza degli Stati a proteggere i propri cittadini o per la

non adeguata protezione offerta dal diritto internazionale132.

Il risultato fu la “Compilazione e Analisi delle Norme Legali”, presentata dalla

Commissione per i Diritti dell’Uomo, che esaminava la normativa vigente in materia di

Diritto Internazionale Umanitario, Diritti Umani, Diritto dei Rifugiati e il grado di protezione

offerto da questi a favore degli sfollati. La normativa esistente offriva un buon livello di

protezione, ma vi erano delle aree dove era carente.

129 Deng, F., Report of the Special Representative for IDPs, E/CN.4/1998/53, 11 February

1998, New York. 130 E/CN.4/1998/53/Add.2, 11 February 1998, New York. 131 Cohen R., “Protecting the Internally Displaced”, World Refugee Survey, Washington DC,

1996. 132 Cohen R., “The development of international standards to protect internally displaced

persons”, in Human Rights and Forced Displacement, Bayerfsky, A. Fitzpatrick, J.(eds), Martinus Nijhoff Publisher, The Hague, 2000.

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La prima area, normativa, era quella in cui il diritto internazionale non copriva in alcun

modo determinate esigenze. Ad esempio non ci sono norme sulla restituzione della

proprietà persa a causa della migrazione forzata durante un conflitto interno o

internazionale, o la sua compensazione.

Un’altra area è quella dell’applicazione: in questo caso la norma esiste ma non è

applicabile in tutte le circostanze; durante periodi di tensione o di tumulti il Diritto

Internazionale Umanitario non sempre viene applicato e i Diritti dell’Uomo possono subire

deroghe arbitrarie133.

La terza area viene definita del “consensus”, in questo caso esiste il principio generale

ma non è stata creata una normativa specifica; ad esempio esiste il principio che

proibisce i trattamenti crudeli ed inumani (Convention against Torture and Other Cruel,

Inhuman and Degrading Treatment or Punishment, 1984, art. 5), ma non vi è una norma

che sancisca il diritto degli sfollati di non essere rimandati in aree dove rischierebbero di

subire tali trattamenti.

L’ultima area è quella delle ratifiche: quando gli stati non sono parti contraenti di un

trattato la protezione non sussiste.

Alcune organizzazioni, tra le quali ICRC, espressero contrarietà per il timore che un'altra

convenzione potesse far passare in secondo piano l’importanza delle attuali Convenzioni

di Diritto Internazionale Umanitario. Le norme per la protezione degli sfollati già

esistevano all’interno del diritto internazionale, disseminate nei numerosi strumenti

esistenti, era solo necessario raccoglierle e adattarle ai bisogni specifici degli IDPs134.

Furono necessari due anni per stilare i Guiding Principles: viene sancita una serie di diritti

derivanti da quelli civili, politici, sociali, economici e culturali, da applicarsi nel periodo

della migrazione forzata, durante il ritorno, il re-insediamento e la reintegrazione e si

basano sul principio che la sovranità comporti responsabilità.

Solo nel caso in cui lo Stato non sia in grado di far fronte alle necessità dei propri cittadini

la comunità internazionale ha l’obbligo di provvedere sia l’assistenza umanitaria che la

protezione, ma solo su richiesta dello Stato interessato.

133 Report of the UN Commission on Human Rights on Guantanamo prisoners, UN Doc. E/CN.

4/2006/120, 15 February 2006 sect. D para 12 “Article 4 (1) of ICCPR sets…derogation measures: the State must have officially proclaimed a state of emergency; the derogation measures must be limited to those strictly required by the exigencies of the situation; they must not be inconsistent with other international obligations of the State; and they must not be discriminatory” para 13 “Derogation measures must be lifted as soon as the public emergency or armed conflict ceases to exist”.

134 Cohen R., “The Guiding Principles on Internal Displacement: an innovation in international standard setting”, in Global Governance, Boulder, no. 10, 2004.

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Nel caso in cui il governo sia “unwilling or unable” ad agire a favore degli sfollati la

comunità internazionale può intervenire, da qui deriva il fondamento normativo della R2P.

I Guiding Principles si riferiscono a tensioni interne e tumulti, dove già trovano

applicazione le convenzioni sui Diritti dell’Uomo, ai conflitti armati interni e internazionali

che ricadono nell’ambito del Diritto Internazionale Umanitario. Nella seconda sezione del

documento viene sancito il diritto di ogni individuo ad essere protetto dallo sfollamento

arbitrario, vengono inoltre indicati i casi in cui la migrazione forzata sia da considerarsi

illecita e gli standard minimi da applicare nel caso in cui si verifichi l’evento.

UNHCR, ICRC, UNICEF e WFP dichiararono il proprio supporto e molte NGOs

internazionali si impegnarono in una campagna di pressione politica di sostegno. In un

rapporto al Consiglio di Sicurezza del 1999, il Segretario Generale raccomandò agli Stati

di osservare i Principi in caso di migrazioni interne forzate, all’Assemblea Generale e al

Comitato Economico e Sociale di incoraggiare gli Stati membri a sviluppare una

legislazione nazionale e delle politiche conformi.

I Principi non furono quindi né stilati ex novo né approvati formalmente, ma molti governi,

agenzie UN, organizzazioni regionali ed NGOs cominciarono subito a citarli o ad utilizzarli

nei loro progetti. La loro attuazione rimane problematica e in fase iniziale, infatti poche

sono state le azioni intraprese concretamente per migliorare la situazione degli IDPs135.

Il timore comune è chiaramente l’erosione della sovranità statale poiché spesso

motivazioni umanitarie vengono addotte per interferenze della comunità internazionale in

situazioni ritenute esclusivamente domestic affairs.

Talvolta la tutela dell’incolumità fisica dei profughi assume un ruolo secondario rispetto

alla fornitura di assistenza umanitaria136. Il focus delle agenzie umanitarie è spesso

incentrato sui bisogni biologici degli sfollati mentre la questione sicurezza, col corollario

di soluzioni politiche, viene rimandata o pende irrisolta. Nel caso degli IDPs la tutela della

sicurezza è affidata al governo nazionale sul quale le agenzie non hanno né potere

sanzionatorio né capacità di pressione. E’ questo un caso in cui l’imperativo umanitario

si scontra con il principio di neutralità e imparzialità: o le agenzie si limitano a soccorrere

le popolazioni bisognose, oppure prendono posizione - come fa Médecins Sans

Frontières - nei confronti di un governo che non rispetti i propri compiti di protezione.

135 Deng F., Report of the Representative of the Secretary General on Internally Displaced

Persons to the Commission on Human Rights, UN Doc. E/CN.4/2002/95, 16 January 2002, New York, par.98

136 UNOCHA IDP Unit, IDP Response Matrix - Methodolody, Data, Analysis and Issues for consideration, Preliminary Report, 24 October 2002, New York.

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Alla fine degli Anni Ottanta, a parte UNHCR nessuna agenzia si occupava nello specifico

di IDPs e molte organizzazioni si rifiutavano di distinguere gli IDPs dagli altri beneficiari

dei loro progetti (attualmente se ne occupano anche ICRC, UNDP, WFP, UNICEF, WHO,

IOM e alcune NGOs internazionali).

Per UNHCR fu inevitabile occuparsi degli IDPs le cui esigenze e spostamenti si

incrociavano spesso con quelli dei rifugiati. Solo perché lo Statuto lo permette è stato

possibile al Commissario impegnarsi, oltre che in favore dei rifugiati, anche in attività

addizionali, autorizzato dell’Assemblea Generale secondo l’articolo 9. In base a questo

articolo UNGA ha chiesto a UNHCR di utilizzare i propri “buoni uffici” in varie occasioni

per assistere o proteggere persone che si trovavano al di fuori della propria residenza

usuale ma che non rientravano nella definizione di rifugiato.

Nel 2000137 l’Alto Commissariato ha rivisto e ridefinito le proprie politiche e il proprio ruolo

nei confronti degli IDPs. L’agenzia ha interesse ad intervenire quando il collegamento tra

sfollati e rifugiati sia “chiaro e diretto”, cioè quando le ragioni dei flussi dei due gruppi

(distinti su base legale) siano le medesime e provengano dalle stesse aree, abbiano le

stesse esigenze e sia impossibile trovare soluzioni per gli uni senza occuparsi degli altri.

UNHCR per intervenire necessita non solo di una specifica richiesta del Segretariato

Generale, o di un organo competente delle Nazioni Unite, e il consenso dello Stato, ma

anche del libero accesso alle popolazioni138. La normativa del diritto dei rifugiati, infatti, si

scontra spesso con le policies nazionali: rimane di competenza dei singoli stati nazionali

l’accettazione o meno dei rifugiati. Il principio di non-refoulement, cioè non espellere o

respingere un rifugiato verso i territori in cui la vita o la libertà siano in pericolo, viene

aggirato, manipolato o più semplicemente violato a seconda delle agende dei governi con

vari meccanismi di non entrée139.

Il diritto di richiedere asilo è incompleto poiché lo stato ricevente non ha il dovere

corrispondente di concedere l’asilo140. Lo stesso diritto alla protezione è minato

dall’interpretazione del principio di non-refoulement che è il punto di partenza per

l’obbligazione legale dello stato ricevente.

137 UNHCR Executive Committee, Internally Displaced Persons: the role of the United Nations

High Commissioner for Refugees, EC/50/SC/INF.2, New York 20 June 2000. 138 UNHCR, Executive Committee 2000 op. cit. 139 Hathaway C. The Rights of Refugees, Cambridge University Press, Cambridge 2005, p.

291-302 fa un’ampia carrellata degli escamotages utilizzati dagli stati (ad esempio l’istituzione di no man’s land negli aeroporti internazionali a p. 298); vedi Hathaway, J. “The Emerging Politics of Non-Entrée”, Refugees 40 (91), 1992.

140 Henkin, L. “Refugees and Their Human Rights”, Fordham International Law Journal, vol.18, 1995. p.1079

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Il diritto di non essere rimpatriati verso un paese dove si possa essere soggetti a

persecuzione è un diritto individuale strettamente collegato al diritto di movimento e di

lasciare il proprio paese d’origine come contemplato dalla Universal Declaration of

Human Rights141.

La Convenzione 1951, art. 33 para.1 prevede “No contracting state shall expel or return

(“refouler”) a refugee in any manner whatsoever to the frontiers of territories where his

life or freedom would be threatened on account of his race, religion, nationality,

membership of a particular social group or political opinion”142. Il principio è stato

rinforzato come diritto degli IDPs in vari trattati internazionali: la Convenzione UN contro

la Tortura143, la Convenzione sui rifugiati OAU144, la Carta africana dei diritti dell’uomo e

dei popoli145 e la Convenzione americana dei diritti umani146. Inoltre, la Convenzione di

Ginevra del 1949 relativa alla protezione dei civili in tempo di guerra prevede il non-

refoulement di civili che abbiano timore per la propria vita, per credo politico o religioso147.

Il principio di non-refoulement non è stato interpretato come la richiesta ad uno Stato di

accettare sul proprio territorio le persone in fuga, ma il dovere di garantire protezione che,

secondo un’interpretazione restrittiva, sorgerebbe solo qualora il rifugiato - secondo i

requisiti della Convenzione 1951 - si trovi già sul territorio dello stato148. Questo punto fu

sostenuto dalla delegazione svizzera alla conferenza plenaria della Convenzione del

1951: il paese era particolarmente preoccupato, come lo sarebbe stata poi tutta la

comunità internazionale negli anni a venire, che creare un dovere per lo stato ospitante

di accettare massicci flussi di rifugiati avrebbe costituito un enorme peso sociale,

141 UNGA res. 217 A (III) 1948, artt. 13 e 14. 142 Le parti contraenti intendevano includere il non ritorno sia nel paese d’origine che in altri

territori ove la vita e la libertà del rifugiato fossero in pericolo, vedi Guy S. Goodwin-Gill G. op. cit. p.120.

143 United Nations Convention against Torture and Other Cruel, Inhuman or Degrading Treatment or Punishment, UNGA res. 39/46, 1984, art. 1, 2, 3.

144 Organization for African Unity Convention, 1969, art. 2 para. 3. 145 Banjul Charter, 1981, art. 12 para. 3. 146 American Convention on Human Rights, 1969, art. 22 para.8. 147 IV Geneva Convention Relative to the Protection of Civilian Persons in Time of War, 1949,

art.45; secondo il diritto dei rifugiati potrebbe non esserci il dovere di non-refoulement poiché il civile non combattente non ha i requisiti di rifugiato ma lo stato può esservi obbligato invece secondo la Convenzione di Ginevra; Mc Guinness, M. in Stedman S. Tanner F. op. cit. p.141.

148 Per questo motivo la Corte Suprema degli Stati Uniti ha dichiarato che l’interdizione ai boat people haitiani non costituisse una violazione del principio di non-refoulement e fosse coerente con gli obblighi secondo la Convenzione 1951, vedi Sale, Acting Commissioner, Immigration and Naturalization Service, et al., Petitioners v. Haitian Centers Council, Inc., et al., 21 June 1993 in Hathaway C. 2005, op. cit. p. 336-337.

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economico e ambientale prima ancora della determinazione dello status di rifugiato dei

singoli149. Con un’interpretazione restrittiva rientra nei diritti della sovranità nazionale di

ogni stato la non accettazione del rifugiato al confine e lo Stato agisce illegalmente solo

quando espelle o compie un rimpatrio forzato dei rifugiati che si trovino già sul suo

territorio.

Secondo, invece, un’interpretazione più estensiva vi è un’obbligazione legale degli Stati

a ricevere i rifugiati prima della conclusione del processo formale che porta alla

determinazione dello status150. Secondo questa visione uno stato non potrebbe, secondo

le obbligazioni del diritto internazionale, bloccare l’ammissione dei rifugiati o respingerli

al confine perché non c’è ancora stata determinazione dello status. Questa

interpretazione è stata applicata nella prassi dal 1951 permettendo massicci afflussi di

rifugiati oltre confine senza pre-determinazione del loro status. Più spesso - come nel

caso degli afflussi di rifugiati dall’ex Yugoslavia - gli Stati hanno utilizzato la “permanenza

temporanea” fino alla definizione dello status per bilanciare da una parte gli obblighi

internazionali e dall’altra per non farsi carico a tempo indefinito di un rilevante problema

economico e sociale. Come risultato di questa prassi il principio di non-refoulement si

considera dal momento in cui i rifugiati si presentano al confine, e non dopo averlo

oltrepassato151, interpretazione accettata da UNHCR.

L’esistenza di due interpretazioni conflittuali ha prodotto risultati non omogenei nella

pratica internazionale. Alcuni stati chiudono i loro confini per impedire i flussi di rifugiati e

le considerazioni pratiche hanno la priorità su quelle umanitarie: la Turchia ha chiuso i

propri confini con l’Iraq ai Curdi nel 1991152 e gli Stati Uniti hanno deciso di interdire

l’ingresso ai boat people provenienti da Haiti nel 1992153.

Gli stati che si trovano a fronteggiare flussi di rifugiati devono affrontare varie

problematiche: paesi che si trovino nelle vicinanze di un’area di conflitto possono non

disporre degli strumenti giuridici e delle risorse sufficienti per portare avanti i procedimenti

di determinazione dello status, oppure non avere i mezzi economici per far fronte al

sostentamento e ai bisogni primari dei rifugiati.

149 Goodwin-Gill, G. 1998, op.cit., p. 121-122. 150 Goodwin-Gill G. 1998, op. cit. p. 121: sarebbe discordante con considerazioni di buona fede

da parte dello stato cercare di evitare il principio di non-refoulement negando il processo di determinazione dello status.

151 Goodwin-Gill, G, 1998, op. cit. p. 124 Bierman, G. e Lowther W. “A Mountain Terror” MacLean’s, 22 April 1991, p.24.

152 Bierman, G. e Lowther W. “A Mountain Terror” MacLean’s, 22 April 1991, p. 24. 153 Regensburg, K. “Refugee Law Reconsidered: Reconciling Humanitarian Objectives with the

Protectionist Agendas of Western Europe and the United States”, Cornell International Law Journal, vol. 29, no. 1, 1996, p. 225-240.

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La Convenzione del 1951 non prevedeva un regime di “protezione temporanea” - come

invece fa la Convenzione OAU - quindi UNHCR ha previsto il “rifugio temporaneo” in caso

di massiccia affluenza154 riconoscendo che i flussi rappresentano un notevole fardello

soprattutto per i PVS.

UNHCR ha l’obbligo di realizzare le proprie attività di protezione (assistenza allo sviluppo,

sanità e istruzione) in maniera apolitica, imparziale e umanitaria. Nel 1981 ha stabilito

delle linee-guida155 per permettere agli Stati ospitanti, spesso PVS, maggiore flessibilità

- in contemporanea con due dei maggiori movimenti di popolazioni, dall’Afghanistan e

dalla Cambogia, con relativa realizzazione e mantenimento per lungo tempo di grandi

campi di sfollati. UNHCR sostanzialmente richiedeva agli Stati di ammettere prima facie

i rifugiati in situazioni di afflusso di massa soprassedendo alla determinazione dello status

almeno in via temporanea; richiedeva inoltre un’applicazione più estensiva del principio

di non-refoulement e richiamava in particolar modo l’art. 31 della Convenzione del 1951

che proibisce agli stati di imporre penalità ai rifugiati che si sono introdotti illegalmente

fintantoché si presentino alle autorità per la richiesta d’asilo156. Lo stesso articolo fornisce

poi un dettagliato elenco dei diritti fondamentali di cui devono godere i rifugiati nello stato

ospitante157.

La gran parte di queste linee-guida - se applicate integralmente e in maniera estensiva -

rappresenterebbero una violazione della sovranità dello Stato e prevedono l’adesione ad

un regime di Diritto Umanitario Internazionale (Bill of Rights) sviluppatosi dopo il 1951.

Inoltre, le linee-guida ignorano che, per molti Stati ospitanti, la sola presenza di masse di

rifugiati in prossimità di zone di conflitto crea notevoli problemi politici, sociali, ambientali

ed economici. In teoria è la legge nazionale dello Stato ad essere applicabile nei campi,

ma in pratica gli insediamenti di profughi creano sistemi informali e anarchie

organizzate158 talvolta illegali.

Oltre al Diritto dei Rifugiati l’altro sistema normativo applicabile dove vi sia un conflitto

armato è il Diritto Internazionale Umanitario- International Humanitarian Law (IHL).

La Convenzione dell’Aja del 1899, le quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 e i

Protocolli del 1977 e del 1994 ne sono la base e ICRC ne è custode.

154 UNHCR ExCom 19 (XXXI), 1980, Temporary Refuge. 155 Report of the 32th Session, UN Doc. A/AC. 96/601, para. 57. 156 Convenzione del 1951, art. 31, para. 2. 157 Mc Guinness, M. 2003, op. cit. p. 145-146. 158 Mc Guinness, M. 2003 op. cit. p. 147.

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Il Diritto Internazionale Umanitario è la fonte primaria di diritto per l’assistenza umanitaria

quando i civili richiedano protezione all’interno del proprio stato in caso di conflitto.

Quando vi sia attraversamento di confine il rifugiato - se riconosciuto tale - ricade sotto il

Diritto dei Rifugiati e l’agenzia di riferimento è UNHCR. ICRC mantiene un importante

ruolo, inclusa la protezione dei rifugiati, anche quando vi sia l’attraversamento di un

confine in un contesto di conflitto internazionale o interno; si riserva inoltre di prendere

iniziative umanitarie come istituzione neutrale ed indipendente.

La protezione dei rifugiati è espressamente menzionata nelle Convenzioni di Ginevra ma

le disposizioni sono più complesse rispetto a quelle della Convenzione del 1951. Il tipo di

trattamento da accordare dipende da vari fattori: la neutralità o meno dello Stato di origine

del rifugiato, la presenza di relazioni diplomatiche tra il paese d’origine e lo Stato ospitante

e l’eventuale mancanza di cittadinanza del rifugiato (che è quindi apolide).

Le quattro Convenzioni adottano il principio di non-refoulement per prevenire il ritorno del

rifugiato in qualsiasi stato dove possa essere perseguito per il suo credo politico o

religioso. E’ prevista la protezione nel caso in cui il paese d’origine del rifugiato occupi lo

stato che lo ospita con la proibizione di deportare, perseguire o arrestare il rifugiato

stesso.

Poiché IHL riguarda la protezione dei civili in tempo di guerra, non è estesa ai civili che

fuggano e si trovino sul territorio di uno stato che non prenda parte alle ostilità. L’unica

eccezione si verifica qualora il rifugiato fugga da un conflitto e si ritrovi in un paese in

Stato di guerra civile. L’articolo 3 comune alle Convenzioni di Ginevra e al Protocollo II

conferisce protezione ai rifugiati poiché in quel caso sono considerati vittime di due

guerre.

Il fatto che IHL protegga i civili in tempo di guerra implica che i requisiti della Convenzione

del 1951 non siano più una discriminante, offrendo così maggiore protezione a chi non

attraversa un confine internazionale, cioè gli IDPs. D’altro canto la non esistenza di un

conflitto, anche in presenza di attraversamento di un confine internazionale, fa decadere

la protezione di IHL obbligando chi è in cerca di protezione a dimostrare di possedere i

requisiti previsti dalla Convenzione.

A livello operativo, ICRC incoraggia le parti nei conflitti ad applicare le disposizioni delle

Convenzioni e persegue l’accesso ai civili per portare assistenza e protezione. Nel caso

in cui gli aspiranti rifugiati o IDPs non ricadano sotto le categorie considerate dal Diritto

Internazionale Umanitario, ICRC agisce come agenzia sussidiaria di UNHCR in sua

assenza. Il Comitato, inoltre, fornisce supporto nelle operazioni di ricerca e

ricongiungimento familiare.

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Quando i campi rifugiati e gli insediamenti sono vittime di attacchi militari ICRC si

considera in competenza concorrente con UNHCR. Se la violenza è causata da

combattenti tra la popolazione civile, il Diritto Internazionale Umanitario differenzia il

trattamento tra combattenti e non combattenti, quindi tra assistenza umanitaria ed

eventuale tutela come prigioniero di guerra, oppure combattente in uno Stato che non è

parte nel conflitto.

La competenza tradizionale di UNHCR è estesa a chi abbia abbandonato il proprio paese

d’origine, gli IDPs ricadono invece nell’ambito del Diritto Internazionale Umanitario poiché

contempla la protezione anche in caso di conflitto interno ad uno stato per i civili non

combattenti. Al contrario della normativa sui rifugiati, IHL si occupa della questione della

militarizzazione proteggendo gli IDPs civili non combattenti. Per i civili che non prendano

parte alle ostilità, il Diritto Internazionale Umanitario richiede che siano trattati con

umanità, i reclusi protetti e godano di garanzie giudiziarie. In particolare, il Protocollo II

implica la protezione per i civili dagli effetti del conflitto e per gli IDPs prevede “The civilian

population …shall enjoy general protection against the ranger arising from military

operations”; il Protocollo include protezione non solo dagli attacchi alle persone ma anche

ai beni essenziali come acqua, cibo, coltivazioni e animali d’allevamento.

Gli spostamenti forzosi di popolazioni sono espressamente proibiti dallo stesso Protocollo

II che autorizza operazioni di aiuto “of an exclusively humanitarian and impartial nature

and which are conducted without any diverse distinction” che siano realizzate col

consenso dello Stato. Laddove lo Stato non dia il proprio consenso l’assistenza

umanitaria è bloccata: il requisito del consenso può compromettere gli scopi del Diritto

Internazionale Umanitario poiché o i civili sfollati continueranno a subire gli effetti del

conflitto, oppure saranno costretti ad una migrazione forzata, senza ricevere alcun

supporto, fintantoché le parti in controllo del territorio non acconsentano.

ICRC non distingue tra attività di protezione ed assistenza e ciò ha fatto ottenere più volte

il consenso e l’accettazione da parte dei governi e dei gruppi di opposizione -

secessionisti, nazionalisti o insorti – perseguendo il principio della riservatezza sulle

informazioni acquisite. La riservatezza il maggiore punto di forza dell’organizzazione che,

assicurando alle parti in conflitto di non denunciare pubblicamente gli eventuali abusi

registrati, si vede garantito l’accesso a tutto il territorio, per questo motivo ICRC è spesso

l’unica organizzazione che riesca a mantenere una presenza costante, nonostante le

difficili condizioni politiche, grazie al principio di neutralità.

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La rigida applicazione dei principi umanitari cui si attiene ICRC complica a volte la

cooperazione con le altre organizzazioni, in particolar modo con le agenzie UN, le cui

operazioni spesso vengono percepite dagli stati come non neutrali.

Inizialmente ICRC era restio ad occuparsi del problema degli IDPs e ad utilizzare il

termine, inoltre è sempre stato riluttante ad operare una distinzione tra i residenti e gli

sfollati, dato che questi ultimi non rientrano, per il Diritto Internazionale Umanitario, in una

categoria separata.

Solo nel 1981 la Federazione Internazionale delle Società Nazionali di Croce Rossa e di

Mezzaluna Rossa (IFRC) adottò la Risoluzione XXI a favore dell’assistenza e della

protezione di tutti i rifugiati, sfollati interni o i rimpatriati, specialmente quando questi non

possano beneficiare di nessun’altra protezione od assistenza.

Nel 2000 ICRC ha esaminato le attività svolte in favore degli sfollati, concludendo che

non si può adottare una strategia univoca poichè i casi di migrazioni interne forzate sono

spesso molto diversi tra di loro. Il Comitato ha affermato la propria responsabilità verso

quei civili che siano anche sfollati interni e colpiti dai conflitti armati. In questo differisce

da UNHCR che ha un ruolo preponderante per gli IDPs solo nella fase successiva al

conflitto e specialmente in quella del ritorno dei rifugiati, mentre ICRC si concentra sulla

ricerca e sul ricongiungimento familiare a conflitto ancora in corso.

Il Comitato ha capacità reattive più rapide rispetto a UNHCR (che necessita

dell’autorizzazione del Segretario Generale delle Nazioni Unite o dell’Assemblea

Generale e quindi il consenso da parte della maggioranza degli stati membri). Le Nazioni

Unite sono condizionate dalla volontà dei membri mentre ICRC, pur con uno status

privilegiato che conferisce immunità diplomatica, è a tutti gli effetti una NGO

internazionale ed agisce con assoluta indipendenza dagli stati.

Le differenze tra il regime legislativo del Diritto dei Rifugiati, quindi la Convenzione del

1951 e normativa seguente, e il Diritto Internazionale Umanitario in termini di autorità

istituzionali e competenze è considerevole.

Uno dei vantaggi indubbi di IHL rispetto al Diritto dei Rifugiati è che per la sua

applicazione non necessita l’esame caso per caso ma deriva dalle circostanze specifiche

- cioè l’esistenza di un conflitto interno o internazionale. Il Diritto Internazionale

Umanitario viene inoltre invocato in tutte quelle situazioni in cui debba supplire il diritto

dei rifugiati perché soggetto ad interpretazioni controverse su non-refoulement e

protezione, in particolar modo riguardo all’interpretazione che ne fa ogni Stato in merito

ai propri doveri. Secondo IHL non è necessaria nessuna determinazione giuridica sul

timore di persecuzione di ogni rifugiato che fugga da una situazione di conflitto.

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Vista la necessità di dimostrare il possesso dei requisiti prescritti dalla Convenzione, il

diritto dei rifugiati sotto molti aspetti è una normativa piuttosto rigida e quindi più debole

quando si tratti di protezione di civili in tempo di guerra. IHL, inoltre, si basa sulla neutralità

e non ha le implicazioni politiche del Diritto dei Rifugiati - la concessione di tale status

rappresenta per lo Stato accogliente una netta presa di posizione nei confronti dello Stato

nazionale di chi richiede asilo.

Poiché si considera neutrale, ICRC non pone condizioni all’assistenza umanitaria pur

richiedendo l’assenso del paese. Questa combinazione può tuttavia compromettere

l’imparzialità rispetto ad un conflitto - in particolar modo quando una sola delle parti nel

conflitto consenta l’intervento umanitario.

Queste sono senza dubbio debolezze del regime di IHL che, nonostante ciò, fornisce un

innegabile fondamento per l’assistenza umanitaria ai non combattenti, soprattutto a chi

non attraversi un confine. La questione della distinzione tra combattenti e non

combattenti, che il Diritto dei Rifugiati non si pone, implica delle controversie riguardo la

neutralità. La questione del disarmo dei combattenti ha poi delle ripercussioni

sull’evolversi del conflitto facendo risaltare il problema principale di chi interviene nel

conflitto: l’inevitabile interferenza.

La terza branca del diritto internazionale che si occupa di rifugiati e sfollati è il Diritto

Internazionale dei Diritti Umani- International Human Rights Law, IHRsL.

I testi fondamentali sui cui si basa sono il Bill of Rights - Dichiarazione Internazionale dei

Diritti dell’Uomo del 1948 e i due Covenant sui Diritti Civili e Politici e quelli Economici,

Sociali e Culturali del 1966, più le Convenzioni internazionali che si sono aggiunte nel

tempo.

In determinati casi i Diritti Umani possono subire una sospensione ed essere

momentaneamente disapplicati, come prevede l’art. 4 del Covenant on Civil and Political

Rights, cioè la deroga di alcuni articoli in caso di emergenza pubblica. Solo poche norme

sono assolutamente inderogabili: il diritto alla vita, il divieto di trattamenti e punizioni

crudeli, inumani o degradanti, il divieto di schiavitù e quello della non retroattività del diritto

penale.

La normativa sui diritti umani ha come scopo ultimo quello di proteggere gli individui dagli

abusi dello Stato che ha non solo obbligazioni negative (non sfollare), ma anche positive

(provvedere alle cure mediche o alla nutrizione).

Il regime dei rifugiati prevede una ristretta normativa applicabile in situazioni limitate, il

Diritto Internazionale Umanitario prevede una più ampia normativa applicabile solo in

contesti di conflitto, il Diritto Internazionale dei Diritti Umani è più ampio di entrambi poiché

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comprende norme universali si applica a tutte le persone senza limitazioni riguardo al

luogo ove si trovino, in zona di conflitto o meno, in possesso o meno dei requisiti richiesti

dalla Convenzione del 1951.

IHRsL si occupa della protezione dei rifugiati in due modi: prevede una normativa con

una serie di diritti individuali espressi dal diritto dei rifugiati e da IHL e una normativa

applicabile agli individui che si trovino temporaneamente sotto protezione internazionale.

I principi del Diritto dei Rifugiati - diritto allo spostamento, autonomia e libertà, ricadono

nel regime dei Diritti Umani. La normativa delle Convenzioni di Ginevra ricade nel regime

di protezione previsto dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, dai due Patti del 1966 e

dalle altre Convenzioni. Le norme create dalla Convention on the Prevention and

Punishment of the Crime of Genocide del 1948 rientrano nella normativa sui Diritti

dell’Uomo, ma hanno anche un impatto sulla giurisprudenza applicabile nei crimini di

guerra (lo stupro è stato incluso come crimine di guerra o crimine contro l’umanità nello

Statuto del Tribunale Penale Internazionale per l’ex Yugoslavia, International Criminal

Tribunal for the Former Yugoslavia, ICTFY ).

Nel 2002 la costituzione della Corte Penale Internazionale, International Criminal Court

(ICC), ha rappresentato un’istituzionalizzazione della giurisprudenza in materia di crimini

di guerra a partire dai Tribunali di Norimberga e Tokyo fino ad ICTFY e all’International

Criminal Tribunal for Rwanda, ICTR .

Henkin159 suggerisce che se il diritto dei rifugiati e la normativa sui Diritti dell’Uomo

potessero concettualmente integrarsi, l’assistenza umanitaria ai profughi basata su un

sistema di diritti garantiti si potrebbe intervenire non solo sulle conseguenze dell’essere

rifugiato o sfollato ma anche sulle cause - e i numeri quindi diminuirebbero. Questo

permetterebbe alla comunità internazionale di rispondere ai bisogni delle popolazioni

sfollate non più col fardello pesante e compassionevole della donor fadigue160 ma con

responsabilità politica, riconoscendo che i flussi di rifugiati derivano da massicce

violazioni dei diritti umani. Il bisogno di protezione dei rifugiati deriva dalle mancanze del

sistema internazionale nel prevenire o nel far cessare le violazioni massicce dei diritti

umani; lo stesso fallimento si individua nel non punire i governi colpevoli di tali violazioni

che non si assumono la responsabilità di quei flussi di rifugiati e minacciano la stabilità

regionale.

159 Henkin, L. “Refugees and their Human Rights”, Fordham International Law Journal, vol. 18,

Isssue 4, 1994, article 1. 160 https://www.theguardian.com/world/2016/dec/04/un-biggest-aid-appeal-fears-of-

compassion-fatigue.

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Allo stesso modo, Robertson afferma che “The only long-term solution to the refugee

problem is for the international community to put an end to the persecution which causes

the exodus in the first place”161 applicabile anche agli IDPs.

Invece di dedicare sempre maggiori risorse nella costituzione e mantenimento di agenzie

umanitarie che si occupano di rifugiati e sfollati sarebbe più efficace per la comunità

internazionale essere più decisa con posizioni diplomatico-politiche coerenti nei confronti

dei governi colpevoli e risolvere il problema alla radice.

Le agenzie umanitarie non hanno né il mandato né le capacità per far fronte a questi

obblighi che appartengono alla comunità internazionale, e ad ogni stato in particolare: la

loro opera può e deve essere limitata nel tempo e negli ambiti. Gestire campi di rifugiati

e di sfollati in situazioni di protezione temporanea coinvolge una moltitudine di agenzie

internazionali, NGOs e governi, ognuno con la sua agenda, interessi, limitazioni e

valutazioni.

Le considerazioni pratiche (lessons learned), e le implicazioni derivanti, hanno raramente

riflessi sulla normativa vigente; sembra esserci un senso unico dagli Head Quarter delle

agenzie che producono le policies e difficilmente prestano attenzione alle esigenze e ai

dilemmi sollevati dagli operatori sul campo: il cambiamento istituzionale in questo modo

avviene con difficoltà per diversità di percezione, visione, priorità. Spesso si concludono

sul campo accordi informali per risolvere nell’immediato questioni di gestione che portano

a comportamenti dubbi violando diritti fondamentali come la partecipazione, i diritti delle

donne, i diritti all’istruzione e alla salute.

In Kosovo, ad esempio, nell’estate del 1999 molti campi sfollati Rom furono costituiti

sull’onda dell’emergenza in zone malsane con l’intenzione di smantellarli di lì a pochi

mesi. A causa di difficoltà logistiche, economiche e di comunicazione con la comunità

Rom i campi si trovavano ancora nella stessa posizione nel 2005 provocando accuse a

UNMIK di violazione del diritto alla salute.

Gli operatori umanitari sanno bene che finora le considerazioni legate al diritto

internazionale hanno avuto un ruolo marginale nella gerarchia degli scopi nella gestione

delle emergenze.

Le agenzie UN, in particolare, cercano di realizzare i progetti di assistenza umanitaria

rispettando la normativa relativa ai diritti umani.

161 Robertson, G., “Crimes Against Humanity: the struggle for global justice”, Penguin Books,

London, 2012.

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Il fatto che le agenzie falliscano non diminuisce l’effetto che la normativa vigente ha nel

delineare i termini d’intervento sulla gestione dei campi e dei flussi di sfollati. Anche

quando sembra che gli operatori umanitari svendano un diritto per un altro - ad esempio

negando il diritto all’associazione politica nei campi per evitare la disordini - il fatto che

vengano forniti beni e assistenza umanitaria è la prova della realizzazione pratica, seppur

parziale, dei diritti dell’uomo.

Il sistema delle Nazioni Unite impone una serie di obiettivi che nella pratica non sono

sempre compatibili l’uno con l’altro - come dimostrano le linee-guida per il trattamento dei

rifugiati sotto protezione temporanea.

Le Nazioni Unite, così come tutte le NGOs e le altre agenzie che si occupano di

emergenze umanitarie, si richiamano ai principi mutuati da ICRC e a questi possono

tendere in via di principio: “Humanity: human suffering should be relieved whwrever it is

found. The inherent dignity [see the 1948 Universal Declaration of Human Rights] and

other human rights of individuals and groups must be respected and protected.

Impartiality: humanitarian assistance should be provided without discrimination. Relief

must address the needs of all individuals and groups who are suffering, without regard to

nationality, political or ideological beliefs, race, religion, sex or ethnicity. Needs

assessment and relief activities should be geared toward priority for the most urgent

cases. Neutrality: humanitarian relief should be provided without bias toward or against

one or more of the parties to the political, military, religious, ideological or ethnic

controversy which has given rise to the suffering. Humanitarian actors must not allow

themselves to become allied with a party to a conflict” ma la loro applicazione è tutt’altro

che scontata e sicuramente non facile.

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6. IL CASO-STUDIO: LA LIBIA La Libia è un caso estremamente interessante per i suoi legami con l’Italia che ne hanno

fatto storicamente in maniera alterna una sfida e un’opportunità; un elemento è

rappresentato dal consistente flusso migratorio in corso da ormai più di dieci anni, e l’altro

dal legame storico stabilito sin dagli Anni Trenta162: gli idrocarburi rappresentano il 75%

delle entrate dello stato e il 90% delle esportazioni del paese, da Desio a Mattei al

Greenstream, la special relationship non si è mai interrotta, rafforzata da partecipazioni

libiche in altre società a maggioranza italiane. Le vicende della Tripolitania, Cirenaica, dei senussi si riflettono nella storia

contemporanea del paese. Dopo una lunga dominazione prima ottomana e poi turca, nel

1911 con il Trattato di Ouchy viene riconosciuta la sovranità italiana sul territorio163.

A seguito degli eventi della Seconda Guerra mondiale, Tripolitania e Cirenaica ricadono

sotto il dominio britannico, mentre il Fezzan sotto quello francese sino alla dichiarazione

di indipendenza della monarchia del 1951.

La vera svolta per il paese, trascurato e povero, avviene alla fine degli Anni Cinquanta

con l‘avvio dello sfruttamento dei giacimenti petroliferi. Il re, ex Emiro della Cirenaica,

Muhammad Idris al Senussi, viene deposto nel 1969 da un colpo di stato militare164.

Da allora la storia del paese coincide con le vicende del Colonnello Gheddafi e della sua

famiglia, guida della Rivoluzione che abolisce partiti politici ed elezioni: il popolo libico

eserciterà la sovranità attraverso 2.700 rappresentanti scelti dai Congressi Popolari di

Base riuniti nel Congresso Generale Popolare.

La nuova Libia sin dall’inizio difende ad oltranza la causa palestinese contro Israele,

applica in maniera intransigente l’islamismo, nazionalizza le banche straniere ed infine

espelle gli Italiani e ne confisca i beni nel 1970. La riforma costituzionale del 1977

trasforma lo stato in una Repubblica Socialista Popolare. Gli Anni Ottanta sono segnati

dalla contrapposizione con il Ciad, a causa di una disputa territoriale che si concluderà

con il definitivo ritiro dal territorio ciadiano: il tentativo di fusione del 1981 fallirà

miseramente e nel 1994 la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia riconsegnerà

il territorio di Aouzou al Ciad.

Il Colonnello Gheddafi nel 1985 si avvicinò all’URSS, crebbe quindi la tensione con gli

Stati Uniti che porterà agli scontri navali nel Golfo della Sirte e al bombardamento di

162 S. Romano, “Libia e ENI: storia di una relazione senza rotture”, Corriere della Sera, 8

dicembre 2008; Il Sole 24 Ore, 23 febbraio 2011 su Enrico Mattei, l’ENI e il tentativo di penetrazione sul mercato libico.

163 L’Enciclopedia della Storia universale, De Agostini, Novara, 1995, p. 749. 164 The Statesman’s Yearbook, Palgrave, New York, 2002, p. 1043.

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Tripoli e Bengasi nel 1987. Il paese soffrirà degli embarghi posti da Washington e nel

1992 anche da parte delle Nazioni Unite a causa del rifiuto di consegnare i sospettati

dell’attacco terroristico al volo Pan Am precipitato a Lockerbie nel 1988.

L’embargo statunitense sarà rimosso solo nel 2004, dopo che il paese accettò l’ispezione

diretta dei siti e la rimozione delle armi chimiche e dei missili Scud; nello stesso anno

anche l’Unione Europea revocò l’embargo su armi e materiali. La rimozione dell’embargo

fu dovuta all’intervento del governo italiano che aveva interesse a fornire

equipaggiamenti165 a Tripoli perché fronteggiasse l’immigrazione diretta principalmente

verso l’Italia e nel corso degli anni estesasi verso l’Europa.

Gli Anni Novanta rappresentarono senza dubbio il periodo più difficile per il paese166,

quando il Colonnello Gheddafi cominciò a sperimentare i primi segnali di una crepa

profonda nel consenso167 che porterà poi alla rivoluzione e alla sua morte nel 2011:

l’appoggio ai gruppi terroristici che si discostava dal nazionalismo arabo, una lettura

“eretica” dell’Islam, il conflitto con il Ciad168, le tensioni con altri paesi africani e le faide

interne alla famiglia.

Il malcontento iniziò a causa del supporto ad organizzazioni quali Abu Nidal e il Fronte

Popolare per la Liberazione della Palestina, unito all’isolamento provocato dalla

Risoluzione 748/1992 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Iniziò quindi un

programma di riforme169: la garanzia di alcuni diritti e libertà fondamentali, la proprietà

privata, l’indipendenza del potere giudiziario, ma non vi era traccia dei diritti civili e politici

previsti dal diritto internazionale170. Le sanzioni internazionali intaccarono pesantemente

il tessuto economico del paese e vi fu un ritorno ai sistemi tribali, ritenuti più affidabili, il

ruolo dell’esercito fu indebolito e cominciò a crescere il risentimento popolare. Il

Colonnello quindi si risolse a stipulare alleanze con i capi tribù: l’opposizione in esilio

denunciò questo sistema di privilegi in cambio di lealtà e alcuni fecero riferimento al

pericolo di cadere in una situazione simile a quella della Somalia171. La stabilità del

regime si fondava sulla stretta alleanza fra le tre principali tribù: Qadhadhfa, da cui

165 Calendario Atlante de Agostini, Novara, 2006, p. 716. 166 F. Cresti, M. Cricco, Storia della Libia Contemporanea, Carocci editore, Roma, 2012, p.

255-279. 167 Vanderwalle, Libya since 1969: Qadafi’s revolution Revisited, Palgrave, New York, 2009,

p. 140. 168 A. Del Boca, Gheddafi. Una sfida del deserto, Laterza, Bari, 1998, p. 117-126. 169 K. Mezran, Libia, la fine di un’era? In Mezran, Colombo, Van Genugten, New York, 2011,

p. 51-77. 170 Vanderwalle, 2009, p. 144-145. 171 M. Djaziri, Clivages partisans et partis politiques en Libye in « Revue des mondes

musulmanes et de la Méditerranée », 111-112, p 119-137.

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proveniva il Colonnello, nella regione di Surt, con circa 100.000 membri; Maqariha, nel

nord del Fezzan e in tutta la Tripolitania, che conta circa un milione di persone; Warfalla,

la più grande tribù con un milione di persone, diffusa in tutto il paese, i cui esponenti

erano tradizionalmente ai vertici del sistema di sicurezza172. Esautorato l’esercito, la

difesa e l’apparato di potere erano affidati a relazioni personali e familiari e forze

paramilitari.

Nonostante un apparato imponente di sicurezza, l’opposizione interna continuò a portare

a termine diversi attentati al leader che reagiva in maniera durissima: un esempio ne fu il

massacro nel carcere di Abu Salim a Tripoli - circa 1.200 detenuti appartenenti ai Fratelli

Musulmani e militanti del gruppo combattente islamico libico, la maggior parte in carcere

per reati politici173.

L’effetto degli attentati non fu altro che una spirale di punizioni collettive, intimidazioni,

distruzioni di villaggi che facevano aumentare risentimento, conflittualità, desiderio di

vendetta sfociati poi negli eventi che si sono verificati dal 2011174. Fu solo la consegna

dei presunti attentatori di Lockerbie, l’espulsione dell’organizzazione di Abu Nidal dal

paese e il riconoscimento dell’Autorità Nazionale Palestinese che permisero alla Libia di

rientrare nel consesso internazionale175.

Gli Anni Duemila videro il rilancio dell’economia con un aumento del 50% del PIL e del

97% delle esportazioni176. Il paese si allontanò sempre più dalla Lega Araba a causa della

crescente opposizione islamica, per prendere le distanze dal terrorismo di stampo

islamico-radicale e per riprendere la vocazione africanista. In questo periodo

cominciarono i sempre più massicci flussi migratori provenienti da paesi africani afflitti da

crisi umanitarie.

Il tentativo del Colonnello di ridare alla Libia una dimensione panafricana culminò nella

sua elezione alla presidenza dell’Unione Africana nel 2009, suscitando però l’ostilità di

vari leader177.

172 International Crisis Group, Africa report n. 107, 2011, Popular Protest in North Africa and

the Middle East: Making sense of Libya, Crisis Group Middle East/North Africa report, 6 June 2011, Bruxelles.

173 G. Resta, Libia: quale verità sul massacro nel carcere di Abu Salim nel 1996? La Stampa, 23 luglio 2010.

174 R. F. Worth, “Giustizia e vendetta in Libia”, The New York Times Magazine, in Internazionale 954, 22 giugno 2012, p. 34-41.

175 M. Frendo, “Underestimating Libya: the folly of the ignorant”, The Daily Star, September 8, 2008.

176 R. B. St. John, The Changing Libyan Economy: Causes and Consequences, in Middle East Journal, 62,1, p. 78-79.

177 R. Barlaam, Gheddafi divide l’Unione Africana (e anche la Lega Araba), Il Sole 24 Ore, 20 marzo 2009.

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In seguito il governo di Tripoli favorì gli Stati Uniti, Francia, Italia e Gran Bretagna;

l’Unione Europea doveva affrontare il problema dei flussi migratori, e la cooperazione

libica era necessaria.

L’Italia firmò inoltre un trattato di amicizia nel 2008178che includeva la realizzazione di

infrastrutture, interventi nell’edilizia civile, restituzione di opere archeologiche e borse di

studio: il tutto in cambio del blocco dell’afflusso di immigrati, con buona pace del principio

di non refoulement179 e la questione delle extraordinary rendition180.

Oltre alla strumentale conclusione del trattato, rimanevano lati estremamente oscuri del

regime del Colonnello Gheddafi: non certo una democrazia, con un record significativo di

violazione dei diritti umani e la gestione esclusiva del potere della famiglia che diedero il

via al dibattito sulla successione. Tutti i figli del Colonnello, infatti, erano piazzati nei posti-

chiave nell’amministrazione del paese che permise loro smisurati arricchimenti181.

Lo scoppio della rivoluzione in Libia si ricollega agli eventi dei primi mesi del 2011 in Nord

Africa ed in altri paesi, una rivolta etica e morale, il rifiuto di autoritarismo, corruzione,

nepotismo, favoritismo, dell’illegalità e illegittimità dei quali questi regimi si erano resi

colpevoli nel corso di decenni182. L’ultimo Gheddafi ha lasciato una pesante eredità,

avendo cancellato qualsiasi possibilità di dissenso, impadronendosi e sperperando le

ricchezze del paese, alleandosi in maniera strumentale con capi tribù che favorivano la

frammentazione e la conflittualità nel paese.

La caduta del regime è stata un grave colpo per gli interessi europei,

l’approvvigionamento energetico, la repressione dei movimenti islamici radicali e il

contenimento dei flussi migratori. La visone distorta che l’Europa aveva del paese183-

tutto sommato il consenso popolare dovuto ad un notevole reddito pro-capite - si ritorse

contro gli ex alleati.

Human Rights Watch aveva più volte testimoniato la continua e massiccia violazione dei

diritti umani da parte del regime, le limitazioni alla libertà di stampa e di associazione184.

178 G. Pelosi, “Via libera al trattato Italia-Libia ma resta il nodo della copertura”, Il Sole 24 Ore,

20 novembre 2008. 179 N. Ronzitti, Il trattato Italia-Libia di amicizia, partenariato e cooperazione, Contributi di istituti

di ricerca specializzati n. 108, Servizio Studi affari internazionali del Senato della repubblica, Roma, 2009.

180 C. Jakob, “Europa condannata”, Die Tageszeitung, in Internazionale 938, 2 marzo 2012, p. 33.

181 Cresti, Cricco, 2011, op. cit., p.268-269. 182 T. B. Jelloun, La rivoluzione dei gelsomini. Il risveglio della dignità araba, Bompiani, Milano,

2011, p. 15. 183 D. Kawczynski, Seeking Gaddafi. Libya, the West and the Arab Spring, Bitebank Publishing,

London, 2011, p. 206-207. 184 http://hrw.org/search/apachesolr_search/Libya .

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Il materiale esplosivo era disponibile da molti anni, l’innesco furono i giovedì della collera

a seguito dell’arresto dell’avvocato difensore delle famiglie dei prigionieri trucidati ad Abu

Salim nel 1996185. Gli eventi successivi s’inanellarono sul filo logico del risentimento

popolare, con manifestazioni di protesta sempre più numerose e affollate con gli scontri

tra i lealisti e i ribelli. La repressione feroce del regime non fece che accelerarne la caduta:

Misurata fu presa dai ribelli a febbraio 2011186. Si creò un Consiglio Nazionale di

Transizione (CNT), ma ormai la guerra civile era iniziata e gli interessi di fazioni e tribù si

sovrapponevano a quelli personali e agli interessi economici: la “marcia” per la liberazione

del paese pose particolare attenzione alla dislocazione e al controllo di pozzi petroliferi,

porti, oleodotti, e arrivarono anche combattenti islamici radicali.

Il CNT lanciò appelli alle Nazioni Unite per ottenere una no-fly zone e protezione dei civili

che erano bombardati dalle forze ancora fedeli al Colonnello.

Riguardo ad un possibile intervento, britannici e francesi erano pronti a prendere

l’iniziativa, desiderosi di rimediare all’esitazione nei confronti della primavera araba; il

Segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Robert Gates, era estremamente dubbioso

temendo che una no-fly zone da sola non fosse sufficiente, ricordando la strage degli

sciiti compiuta da Saddam Hussein dopo la prima Guerra del Golfo. Quando si ebbe

l’impressione che il Colonnello Gheddafi riuscisse a respingere i ribelli, il Segretario di

Stato Hillary Clinton, Samantha Power del Consiglio per la Sicurezza Nazionale e Susan

Rice, Ambasciatore alle Nazioni Unite, convinsero il Presidente Obama.

La Risoluzione n.1973187, promossa da Stati Uniti, Francia, Libano e Gran Bretagna con

le sollecitazioni della Lega Araba, fu approvata a marzo, escludendo, però, l’impiego di

truppe di terra. Formulata in maniera piuttosto elastica, lo scopo era autorizzare l’uso

della forza per proteggere i civili, aprendo però la porta alla possibilità di far cadere il

dittatore (se lo scopo fosse stato solo la protezione dei civili il bombardamento sarebbe

cessato non appena finito l’attacco delle forze governative a Bengasi). La Risoluzione

1973 è storicamente il primo caso in cui il Consiglio invoca la R2P con specifico

riferimento ad un paese188con un governo de jure.

185 C. Hogens, “La centrale dei ribelli”, Der Spiegel, in Internazionale 888, 11 marzo 2011, p.

16-19. 186 Crresti, Cricco, 2011, op. cit. p. 274-279. 187 R. Thakur, “R2P after Libya and Syria: Engaging Emerging Powers”, The Washington

Quarterly, 36:2, p. 61-76. 188 E. Greppi, “Recent Developments in Arab Mediterranenan Countries: A Case of

Responsibility to Protect?”, in L’ingerenza umanitaria tra protezione dei diritti e realismo, ISPI Quaderni di Relazioni Internazionali n. 15, novembre 2011, p. 56.

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Il comando dell’operazione per bombardare le postazioni del Colonnello fu affidato alla

NATO-Unified Protector-dietro pressione francese e britannica189. I bombardamenti si

fecero sempre più intensi sino ad aprile, mentre continuano le trattative diplomatiche con

il leader libico. A luglio, durante la riunione a Istanbul del gruppo di contatto, il CNT

ottenne il riconoscimento come autorità politica- questo permise l’accesso a 30 miliardi

di dollari di fondi libici custoditi negli Stati Uniti. In quella sede si determinò inoltre la

centralità delle Nazioni Unite per porre le basi dello stato di diritto, ma non tutti erano

d’accordo sul cambio di regime. La questione si complicò poi quando il Procuratore della

Corte Penale Internazionale, Luis Moreno Ocampo, emise mandati d’arresto contro

Muhammar Gheddafi, il figlio Saif al Islam e il capo dei servizi segreti libici Abdallah al

Senussi190.

Studiosi come David Rieff e Richard Haass, Presidente del Council on Foreign Relations

degli Stati Uniti, hanno sostenuto che l’intervento umanitario, così come era stata

concepita la risoluzione 1973, si è trasformato in un intervento politico, i bombardamenti

NATO si sono spinti troppo oltre e la comunità internazionale avrebbe dovuto assumersi

la responsabilità di assistere la transizione perché i libici non erano in grado di gestire da

soli l’immediato futuro191. Per quarantadue anni il Colonnello ha proibito qualsiasi tipo di

associazione, espressione di pensiero libero, organizzazione alternativa: era ovvio che

sarebbe prevalsa l’anarchia e, a parte volersi liberare del dittatore, le varie fazioni non

avevano progettualità politica condivisa o almeno negoziabile tra le varie istanze; il

cambiamento politico, sociale e psicologico dopo due generazioni di repressione è stato

traumatico192. Non va dimenticato, inoltre, che molti leader ribelli sono stati a lungo

fedelissimi del Colonnello e hanno goduto dei suoi favori prima di passare all’altra fazione.

I ribelli, sostenuti dai bombardamenti NATO, ad agosto conquistarono la capitale. Il leader

in fuga fu catturato e giustiziato sommariamente dai ribelli nell’ottobre del 2011 a Sirte193.

189 Boffey, Black, MacAskill, Townsend e Helm, “Tutti contro Gheddafi”, The Observer, in

Internazionale 890, 25 marzo 2011, p. 16-21. 190 R. Wearly, “La Libia è un rompicapo per le Nazioni Unite”, Le Temps, in Internazionale 907,

22 luglio 2011, p. 24. 191 I. el Amrani, “La battaglia di Tripoli”, The Arabist, in Internazionale 912, 26 agosto 2011, p.

14-17. 192 G. Gheblawi, “Quarant’anni di silenzio e tradimenti”, Imtidad, in Internazionale 913, 2

settembre 2011, p. 17. 193 D. Hirst, “Vita e morte di Gheddafi”, The Guardian, in Internazionale 921, 28 ottobre 2011,

p. 26-32.

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Come già successo in Bosnia, Rwanda e Kosovo, iniziò subito la stagione della resa dei

conti, nel totale vuoto di potere, non solo tra lealisti e ribelli, ma anche fra province,

municipalità, tribù, in un proliferare incontrollato di violenza e armi194.

Il CNT si è trovato a fronteggiare le proteste per l’incapacità gestionale del dopo-Gheddafi

dal gennaio 2012, evidenziando la precarietà della compagine formata perlopiù da ex-

ribelli195che semplicemente si opponevano al regime ma non avevano un piano a lungo

termine.

Il paese ha votato per la prima volta in cinquant’anni nel luglio 2012; nonostante il

processo sia stato sostanzialmente pacifico - nulla a che vedere con le prime elezioni ad

esempio in Iraq - il governo che ne è uscito si è dovuto confrontare con problemi

sostanziali: la mancanza di controllo su buona parte del territorio, gli scontri tribali a sud,

le rivendicazioni regionalistiche a est e la diffidenza dei rivoluzionari che non si sentono

adeguatamente ricompensati per il loro ruolo nelle rivolte196.

La mancanza di controllo del territorio e il proliferare delle milizie e gruppi religiosi

estremisti è divenuto particolarmente evidente per la comunità internazionale a seguito

dell’assalto al Consolato degli Stati Uniti a Bengasi l’11 settembre 2012197.

L’Ambasciatore Stevens, ucciso con altri tre diplomatici, era molto popolare in Libia, e

soprattutto nella città. Senza dubbio era ormai molto diffusa la rabbia nei confronti di un

nuovo governo che non riusciva ad assicurare i servizi minimi essenziali alla popolazione

e il consumo di stupefacenti e alcohol si era molto diffuso tra i giovani libici.

Mentre è stato relativamente facile liberarsi di Gheddafi, il seguito della rivoluzione libica

è più complesso: i giovani libici sono impazienti, arrabbiati e pieni di risentimento perché

le grandi aspettative della primavera del 2011 sono state disattese. Disarmare le milizie

e far fronte agli attacchi dei fanatici religiosi sembra quasi impossibile in una situazione

di anarchia, con il paese spaccato in più fazioni che sembrano essere inconciliabili198.

La spaccatura principale nel paese si è consumata nel giugno 2014, quando la House of

Representatives ha votato e si è poi spostata a Tobruk col Primo Ministro Al Thinni.

194 E. Bertacin, propaganda e disinformazione nella crisi libica, in “OMeGANews. Giornale

dell’Osservatorio Mediterraneo Geopolitica Antropologia”, http://www.omeganews.info/ , p. 416.

195 L. Stack, “Il governo libico in equilibrio precario”, The New York Times, in Internazionale 933, 27 gennaio 2012, p. 20.

196 S. Joshi, “Una sorpresa dalle urne”, The Daily Telegraph, in Internazionale 957, 13 luglio 2012, p. 20-21.

197 H. Matar, “Bengasi si sente abbandonata”, The New Yorker, in Internazionale 967, 21 settembre 2012, p. 23-24.

198 M. Frykberg, “Il difficile compito di disarmare le milizie”, Ips Africa, in Internazionale 968, 28 settembre 2012.

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UNSMIL, United Nations Support Mission in Libya, istituita nel settembre 2011 con la

Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite n. 2009 a seguito della richiesta

delle autorità libiche, ha fra i suoi compiti la transizione democratica, l’applicazione di

Rule of Law e Diritti Umani, la realizzazione della riforma del settore sicurezza e il

coordinamento dell’assistenza internazionale199.

Lo Special Representative of the Secretary General ha lavorato per molti mesi a diverse

bozze di un accordo tra le varie fazioni per giungere ad un governo di unità nazionale: il

governo di Tobruk (House of Representatives, supportata dal Generale Haftar a capo di

Operation Dignity-Libyan National Army), non riconosciuto dalla comunità internazionale

e il governo di Tripoli (General National Congress, supportati da un’alleanza di vari gruppi,

Libya Dawn) con orientamento moderato, erano i principali contendenti, cui si aggiungono

tutte le milizie e i gruppi tribali nel sud ovest del paese, Daesh e altri gruppi jihadisti200.

La Libia non ha più forze di polizia e di sicurezza, un governo unitario, nessuno ha il pieno

controllo sul territorio201, l’unica cosa che va avanti è l’estrazione del petrolio anche se

ridotta a 1/3 rispetto a giugno 2014. I migranti che arrivano sulla costa (in particolare a

Sabratha) sono preda di milizie, gruppi armati, trafficanti di esseri umani che li detengono

a volte anche come schiavi sottoponendoli a violenze, uccisioni, maltrattamenti: non

essendo la Libia parte della Convenzione sullo stato dei rifugiati del 1951 non hanno

alcuna tutela: la Corte Penale Internazionale ha fatto della situazione in Libia una priorità

per il 2017202.

Le milizie sono svariate decine, katiba, brigate, e i membri, thuwar, rivoluzionari. Ogni

brigata controlla la sua porzione di territorio, ogni katiba fa quel che vuole dei suoi

prigionieri203. Si stima che i gruppi armati siano tra 1.000 e 1.700204. Il deficit fiscale del

paese per il 2016 è del 69% rispetto al PIL, il dinaro continua a perdere valore e le banche

hanno scarsa liquidità. I ripetuti tentativi di revisione della Costituzione da parte della

commissione dell’assemblea costituente hanno portato ad un documento fragile,

discriminatorio - nei confronti dei gruppi sociali che in questo momento hanno meno

potere negoziale205 - e contraddittorio nei principi enunciati.

199 UN SCR 2144, 14 March 2014. 200 A. Napoli, “La missione impossibile di Leon in una Libia spaccata in tre dall’anarchia”,

Huffington Post, 21 ottobre 2015. 201 International New York Times, “EU enlists Libya to stem flow”, 23/02/2017, pag. 6. 202 United Nations Security Council, 7827th meeting, Report of the Secretary General on the

United Nations Mission in Libya, 6 December 2016, pag. 4. 203 R. F. Worth, 2012, op. cit. p. 36. 204 ACAPS, Global Emergency Overview, 27 October 2015, p. 15-19. 205 http://www.internazionale.it/notizie/khalifa-abo-khraisse-2/2017/05/10/costituzione-libica-

fragile

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UNSMIL ha ridotto sensibilmente lo staff dal gennaio 2015 – la maggior parte è rilocati a

Tunisi - poiché gli attacchi al personale internazionale del luglio 2014 (anche nei confronti

di rappresentati della Croce Rossa Internazionale) hanno evidenziato che al momento

non sussistono le necessarie condizioni di sicurezza per poter operare nel paese206.

A parte la Mezzaluna Libica e alcune ONG locali non rimangono sul terreno altre

organizzazioni207. Il mandato di SRSG di Martin Kobler scadeva ad aprile 2017: la

proposta del Segretario Generale Guterrez, l’ex premier dell’Autorità palestinese Salam

Fayyad, è stata scartata dagli Stati Uniti208 (in quanto ritenuto ostile ad Israele).

La missione è stata rinnovata dal Consiglio di Sicurezza sino al 15 dicembre 2017 ai sensi

della Risoluzione n. 2323 del 13 dicembre 2016.

Attualmente209 il paese potrebbe apparire con solo tre principali centri di potere, ma in

realtà è profondamente frammentato e polarizzato tra attori di diversa origine, levatura ed

interessi210.

Il Presidential Council (PC), inizialmente situato a Tripoli nella base navale Abu Sittah,

dal 30 marzo 2016, si è poi spostato negli uffici del centro della città211, è guidato da

Fayez al-Sarraj (precedentemente membro del Parlamento di Tobruk), nato in seguito al

Libyan Political Agreement (LPA) del dicembre 2015212, promosso dalle Nazioni Unite.

Secondo tale accordo il PC presiede il Government of National Accord (GNA) che

dovrebbe essere riconosciuto dalla House of Representatives (HoR) ma che non lo ha

votato213. Il Primo Ministro al-Sarraj non è di per sé una figura forte, ma alcuni dei suoi

collaboratori hanno legami influenti.

206 Report of the Secretary General on the United Nations Support Mission in Libya, S/205/144-

2015, 26 February 2015. 207 ACAPS, 27 October 2015. 208 http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Usa-bloccano-nomina-Fayyad-a-inviato-speciale-

per-la-missione-Onu-in-Libia-15a2ddb4-b431-4499-86a2-a152ac033375.html 209 European Council on Foreign Relations, “A quick guide to Libya’s main players”,

http://www.ecfr.eu/mena/mapping_libya_conflict 210 N. Missaglia, “Chaos in Libya: A Background, Who is Who in Libya”, 2 febbraio 2017, ISPI,

http://www.ispionline.it/it/articles/article/sicurezza-mediterraneo-medio-oriente/chaos-libya-background-16290

211 United Nations Security Council, Report of the Secretary General on the United Nations Support Mission in Libya, 1 December 2016, S/2016/1011, pag. 3.

212 “Skhirat Agreement”: https://unsmil.unmissions.org/LinkClick.aspx?fileticket=miXuJYkQAQg%3D&tabid=3559&mid=6187&language=fr

213 International Crisis Group, “The Libyan Political Agreement: Time for a Reset”, Middle East and North Africa Report N. 170, 4 November 2016, pag. 6: “…the outcome was quite different from the plan. Rather than forging consensus on a political roadmap between the parliaments and other constituencies, it empowered politicians willing to use the UN framework to identify common ground with foes and left out those who disagreed on key aspects, including a unity government’s composition and a security roadmap.”

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Il vice Ahmed Maiteeq, che ha servito per breve tempo come Primo Ministro, rappresenta

la città di Misurata, il più grande supporter del GNA: le milizie della città furono un

componente cruciale per la caduta di Gheddafi e rappresentano tutt’ora una delle

componenti militari più importanti del paese. Ali Faraj al-Qatrani rappresenta il Generale

Haftar: sta boicottando gli incontri del Presidential Council, è un alleato di Omar Ahmed

al-Aswad che rappresenta la città di Zintan (che intrattiene ottimi rapporti con gli Emirati

Arabi Uniti). Abdessalam Kajman è allineato con il partito Justice and Construction del

quale i Fratelli Musulmani sono la componente più rilevante. Mohammed Ammari

rappresenta la fazione pro-GNA all’interno del General National Congress (la fazione di

Khalifa Ghwell); Fathi al-Majburi è un alleato di Ibrahim Jadhran che guidava le Petroleum

Facilities Guards (PFG) fino a quando è stato soppiantato da Idris Bukhamda, indicato

dal GNA214. Un tempo le PFG erano presenti in molte regioni del paese, nel 2013 presero

il controllo dei principali terminal di esportazione petrolifera tentando di vendere il

prodotto. Jadhran era alleato alternativamente con la HoR e gli oppositori. PFG ha

respinto numerosi attacchi di Daesh alle infrastrutture petrolifere e al momento sostiene

GNA. La base di supporto di al-Sarraj è concentrata nell’ovest e nel sud del paese e il

suo alleato più forte è sicuramente Ibrahim Jadhran. Figura controversa, ha combattuto

contro le milizie di Misurata ed è stato molto criticato per il blocco dei pozzi petroliferi nel

2013-2014. Supporta il PC principalmente per disaccordi personali, scoppiati nel 2015,

con il Generale Haftar.

Il consolidamento della posizione di al-Sarraj deriva dalla dichiarazione di lealtà della

Central Bank, della National Oil Corporation (guidata da Mustafa Sanalla) e dal supporto

di molte municipalità nell’ovest e nel sud del paese. Il Ministro degli Interni Al-Aref al-

Khuja (un passato in polizia) è in contatto con le milizie di Tripoli. Il Ministro della Difesa

Mahdi al-Barghathi (Colonnello dell’Esercito del LNA) ha preso le distanze da Haftar.

Vi è, inoltre, un Temporary Security Committee che ha condotto i negoziati per permettere

l’insediamento del PC: secondo il LPA dovrebbe essere sostituito da un National Security

Council.

I gruppi armati presenti a Tripoli215 si suddividono tra i supporter (la maggioranza) di al-

Sarraj e gli oppositori. Una delle più importanti figure a favore del PC è Abdel Rauf Kara,

leader di Rada, Special Deterrent Force, basato nel complesso aeroportuale di Maitiga

214 https://www.acaps.org/country/libya/crisis-analysis. 215 Si stima che I gruppi armati rivali presenti nella sola capitale siano più di 40, Home Office,

January 2017, op. cit. pag. 29.

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con forze salafite di circa 1.500 uomini che si sono arrogate il ruolo di polizia della città,

perseguendo spacciatori di stupefacenti e alcohol.

Attualmente vanno alla ricerca di simpatizzanti di Daesh e stanno formando un’unità di

contro-terrorismo. In città nell’area Suq al-Jumaa è presente anche la brigata Nawasi.

Un’altra figura importante è Haitham Tajouri, a capo della milizia più forte, il cui scopo

principale è tutelare gli interessi acquisiti, schierandosi secondo convenienza. I più

scettici a Tripoli su al-Sarraj sono le milizie islamiste con legami col defunto Libyan Islamic

Fighting Group.

La città di Misurata ospita le milizie più forti (che hanno tentato di contenere Daesh), ma

è dilaniata da rivalità locali in una costellazione di gruppi armati. A seguito della cacciata

di Daesh da Sirte si è verificata una spaccatura tra le forze di Misurata: alcune danno la

priorità al controllo di Tripoli e al supporto al GNA, altre, orami prevalenti, preferiscono

uno scontro con l’LNA di Haftar216. Le DBB, Defend Benghazi Brigades, hanno legami

sempre più stretti con le milizie di Misurata e condividono il controllo di Jufra.

Prominenti figure politiche ed economiche supportano il PC, tra i quali Ahmed Maiteeq,

che ricopre la carica di vice primo ministro. I due gruppi armati più rilevanti sono Halbous

e Mahjoub (brigate). Salah Badi, ex parlamentare, è una figura controversa e fu elemento

di spicco della scomparsa coalizione Libya Dawn, si oppone al GNA.

Le forze di Zintan furono cacciate fuori Tripoli da Libya Dawn (persero il controllo

dell’aeroporto internazionale) e alcuni si unirono al cosiddetto Tribal Army: buona parte

di questi gruppi presero poi le distanze da Haftar. A Benghazi continuano i combattimenti

tra le forze di Haftar e gli oppositori, tra i quali prevale il Benghazi Revolutionary Shura

Council (BRSC), un raggruppamento-ombrello che raduna islamisti, fazioni rivoluzionare

e Ansar al-Sharia. BRSC combatte contro Daesh con molti giovani radicalizzati contro

Haftar che vuole non solo sradicare l’islamismo (inclusi i Fratelli Musulmani) ma ha anche

assunto notazioni etniche prendendo di mira famiglie originarie dell’ovest del paese.

All’interno di BRSC sono cresciute le tensioni in merito ai rapporti con Daesh con spinte

centrifughe. Nel mese di marzo 2017 il premier Sarraj si è recato a Mosca per un lungo

colloquio col Ministro degli Esteri Lavrov217 allo scopo di riavvicinare le posizioni del

216 ACAPS, “More widespread and intense fighting between Misratan militias and the LNA in

western Libya reignites a conflict for control of the country and opens windows of opportunity for IS to regroup”, 23/02/2017.

217 Corriere della Sera, “La Russia e il caso Libia, l’Italia deve tenere gli occhi aperti”, 03/03/2017, pag. 26.

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governo promosso dalle Nazioni Unite e il suo più grande oppositore, il Generale Haftar.

Sarraj è appoggiato da Qatar e Turchia218.

Il secondo centro di potere è il Government of National Salvation, guidato dal Primo

Ministro Khalifa Ghwell, che si appoggia al (General National Congress GNC), il

parlamento originariamente votato nel 2012, basato a Tripoli: la maggioranza dei membri

ha ormai aderito allo State Council, un organo consultivo creato a seguito del LPA.

Lo speaker del GNC Nouri Abusahmain e il Primo Ministro del GNC vengono dalla città

di Zwara e Misurata. Il loro supporto militare è Jabhat al-Samud (Steadfastness Front) di

Salah Badi. In passato hanno ricevuto armi dalla Turchia219. Inizialmente hanno

rappresentato la scomparsa coalizione Libya Dawn che coinvolgeva islamisti, Misurata,

altre città dell’ovest e parte della minoranza Amazigh. Ghwell e Abbusahmain erano ostili

al GNA e sono stati oggetto di sanzioni da parte dell’Unione Europea; la loro base di

supporto si è rapidamente erosa, pur mantenendo la capacità di danneggiare le attività

di al-Sarraj. L’alleanza delle milizie Libya Dawn si formò anche per rispondere alla

Operation Dignity (maggio 2014) del Generale Haftar: ormai scomparsa, crollò ben prima

dell’intervento delle Nazioni Unite. Khalifa Ghwell ha tentato due colpi di stato contro al-

Sarraj a ottobre 2016, all’inizio di gennaio 2017220e un attentato il 20 febbraio221,

stabilendosi poi all’hotel Rixos che è divenuto il suo quartier generale a Tripoli222.

Ghwell gode dell’appoggio di Turchia e Qatar, per spodestare al-Sarraj è disposto anche

a scendere a compromessi con il Generale Haftar223. A favore di Ghwell sono le milizie

di Misurata di Salah Badi, il Gran Muftì Sadek Al Ghariani, alcune milizie berbere e gruppi

armati in precedenza legati all’ex presidente del GNC Nuri Busahmein: ora controllano

buona parte della zona ovest di Tripoli224. Ghwell è sottoposto a regime sanzionatorio

internazionale da parte dell’Unione Europea e degli Stati Uniti225.

218 Internazionale, “I due governi libici sono ancora più lontani”, 24/03/2017, pag. 20. 219 E’ in corso un’inchiesta da parte del GICO (Gruppo Investigazione Criminalità Organizzata)

della Guardia di Finanza di Venezia per appurare una supposta vendita di armi da parte di Annamaria Fontana e Mario Di Leva (hanno ricevuto un avviso di garanzia per traffico di armi internazionale il 12 novembre 2015 e successivamente arrestati il 31 gennaio 2017) a Khalifa Ghwell:

http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/cronaca/17_febbraio_23/traffico-d-armi-libia-tre-mail-inchiodano-dama-nera-0420d534-f9f4-11e6-978e-4d426519ea03.shtml.

220 La Stampa, “Violenti scontri a Tripoli. Le milizie si autoproclamano Guardia nazionale libica”, 10/02/2017, pag. 17.

221 Il Tempo, “Agguato contro Sarraj, Libia nel caos”, 21/02/2017, pag.14 222 Il Foglio, “Piano russo a Tripoli”, 23/02/2017, pag 4. 223 Il Foglio, “Asfaltare Tripoli”, 28/02/2017, pag. 8. 224 Il Messaggero, “Libia unita, Serraj e Haftar trattano”, 14/02/2017, pag. 12. 225 ICG, 2016, op. cit., pag. 27: “On 1 April 2016, the EU imposed a travel ban and asset freeze

on HoR President Saleh, Ghwell, head of the unrecognised Tripoli-based government that

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Il terzo centro di potere sono le autorità di Tobruk e al-Bayda: la House of Representatives

(HoR) a Tobruk è l’autorità legislativa legittima sotto LPA, mentre il governo di Abdullah

al-Thinni opera da al-Bayda (la HoR ha rigettato il GNA portando alla paralisi di molti

aspetti del LPA): la HoR non ha incorporato il LPA nella Dichiarazione Costituzionale226

e non ha approvato diverse liste presentate per comporre il Gabinetto governativo e

l’LPA.

Sono entrambe sotto il controllo del Generale Khalifa Haftar, che guida il Libyan National

Army (LNA), allineato con l’Egitto (sostenuto anche da Russia e Francia) e che si dichiara

anti-islamisti. Il legame tra Haftar e lo speaker del parlamento di Tobruk Aguila Saleh è

molto forte: il Generale comanda dal suo quartier generale di Marj e ha il controllo militare

sul governo di al-Bayda e la HoR di Tobruk. Le forze di Haftar sono avanzate verso

Benghazi contro Daesh227 (Al Dawla Al Islamiya fi al Iraq wa al Sham) e il gruppo islamista

Benghazi Revolutionary Shura Council. Haftar è riconosciuto dalla HoR quale

comandante delle forze armate in Cirenaica, il suo Libyan National Army (LNA) è un mix

di unità militari e gruppi armati tribali, ultimamente ha stretto alleanza con le milizie di

Zintan228. Molti senior officer dell’Esercito hanno rifiutato di unirsi alla sua Operation

Dignity lanciata contro gli islamisti. All’interno di questo fronte vi sono attualmente diverse

unità militari, milizie, civili armati; i più importanti sono Saiqa, unità di forze speciali

guidate da Wanis Bukhamada; alcuni leader tribali dell’est, soprattutto a Jalo, Awjeda e

Marada, supportano il Generale al solo scopo di opporsi alle PFG229: il risentimento

condiviso nei confronti delle formazioni di Misurata come il potere militare dominante

nell’ovest ha portato a riconciliazioni con gli ex ufficiali del regime di Gheddafi, alcuni dei

quali sono rientrati dall’esilio nel 2016 con il consenso delle tribù dell’est. Alcuni

comandanti a Benghazi hanno criticato Haftar, tra questi Mahdi al-Barghati (Ministro della

Difesa in pectore). Altro motivo di preoccupazione sono i combattenti salafiti che si sono

uniti al fronte nel 2014.

pre-dated Serraj’s arrival, and GNC President Sahmein. On 19 April, U.S. President Barack Obama signed Executive Order 13726, “Blocking Property and Suspending Entry Into the United States of Persons Contributing to the Situation in Libya”. These measures were applied to Ghwell on 20 April and Saleh on 13 May. Crisis Group interview, Russian official, March 2016.”

226 United Nations Security Council, Report of the Secretary-General on the United Nations Support Mission in Libya, S/2017/283, 4 April 2017.

227 http://www.huffingtonpost.it/2014/09/15/isis-chiamatelo-daesh-e-non-stato-islamico_n_5823248.html

228 Corriere della Sera, “Libia, il dialogo continui”, 14/02/2017, pag. 32. 229 International Crisis Group, “The Libyan Political Agreement: Time for a Reset”, Middle East

and North Africa Report n. 170, 4 November 206, pag. 22.

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Avendo l’Italia promosso il processo sponsorizzato dalle Nazioni Unite che ha portato il

governo al-Sarraj a Tripoli, i rapporti con il Generale Haftar non sono buoni230. Nel

febbraio 2017 il Generale ha rifiutato un incontro al Cairo con il Premier Serraj,

provocando non poco imbarazzo diplomatico231 e deludendo le aspettative del Presidente

egiziano al Sisi (Haftar sperava di poter prendere con le armi Tripoli grazie alle armi

egiziane all’appoggio politico russo). All’inizio del mese di marzo, ad opera delle BDB, ha

perso per breve tempo il controllo di Ras Lanuf e Al Sidr232, ad opera di una milizia

jihadista di Bengasi233, i più importanti terminal petroliferi nella sua zona: l’incertezza in

merito alle risorse energetiche potrebbe farlo scendere a compromessi. Il Justice and

Equality Movement (JEM), gruppo di opposizione sudanese, supporta le forze LNA in

territorio libico234.

Essendo il sistema tribale storicamente rilevantissimo, lo schieramento di questi gruppi

si rivela vitale per le parti in causa: buona parte delle tribù dell’est del paese sono ostili

alle milizie islamiste; con il Generale si erano già schierate le tribù Mshait, Obeid,

Fwakher, Drasa e Warfalla, la più numerosa; recentemente si è unita anche la tribù dei

Gharyan235. Lo schieramento a favore del Generale pare sia dovuto all’ostilità nei

confronti del Gran Muftì di Tripoli, Sadiq Abdelrahman Ali al Ghariani che sostiene i gruppi

islamisti legati ai Fratelli Musulmani e sospettato di supportare le Brigate di Difesa di

Benghazi (BDB) che nel mese di marzo per pochi giorni avevano conquistato i terminal

petroliferi di Ras Lanuf e Sidra.

Daesh inizialmente aveva una forte componente libica, la Brigata Battar, i veterani di Siria

e Iraq. Il centro delle attività erano Derna e Sirte. Ora la leadership è prevalentemente

estera, e la manovalanza viene dalla Tunisia.

In Libia il gruppo ha assunto il nome Tandim ad-Dawla, ha controllato Sirte e attaccato

molte città, inclusa Tripoli, Derna, Benghazi e Sabratha, ma negli ultimi mesi ha subito

molte perdite in termini di terreno e uomini. La sconfitta di Sirte ha significato una ritirata

di circa 300 km a seguito della Operation Bunyan Marsus, con il supporto degli airstrike

230 https://www.libyaherald.com/2017/02/16/italians-hungry-for-libyan-business-but-not-at-the-

cost-of-their-lives/ 231 Il Manifesto, “Vertice incompiuto tra Haftar e Sarraj, senza Italia né intesa”, 15/02/2017, pag

7. 232 Corriere della Sera, “Le difficoltà di Haftar che favoriscono l’unità libica”, 06/02/2017, pag.

12. 233 http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/ContentItem-3eb590c1-361e-4531-9813-

43add964f0e0.html 234 https://www.acaps.org/country/libya/crisis-analysis. 235 Analisi Difesa, “Haftar conquista l’appoggio di importanti tribù libiche”, 31/03/2017.

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degli Stati Uniti: dei circa 6.500236 combattenti stimati in Libia circa 2.500 sono morti nella

sconfitta di Sirte237. In Libia trovano rifugio molti gruppi jihadisti, alcuni legati ad al

Quaeda, altri a gruppi salafiti. Il network jihadista in Libia è emerso a partire dagli Anni

Ottanta con i veterani della lotta contro l’Unione Sovietica che aveva invaso l’Afghanistan;

in seguito costituirono l’opposizione a Gheddafi, il più importante fu il Libyan Islamic

Fighting Group (LIFG) oramai scomparso; alcune delle figure più importanti (tra i quali

Abdelhakim Belhadj) riemersero con la ribellione del 2011 formando partiti politici,

correndo per le elezioni e ricoprendo incarichi di governo. La seconda generazione di

jihadisti comprende i combattenti della guerra in Iraq del 2003 e la terza i guerriglieri in

Siria a partire dal 2011 che hanno espresso ideologie più radicali e rigettato le forme

democratiche di stato come non-islamiche: da queste due compagini derivano i libici che

hanno aderito a Daesh. I guerriglieri rientrati dalla Siria hanno creato la base per

l’affiliazione nella città di Derna nel 2014: la leadership è sempre stata dominata da non

libici, attualmente ne è a capo Abd al-Qadir al-Najdi (per il quale la presa di Roma238è

prossima). La presenza di Daesh in Libia è stata riconosciuta da Abu Bakr al Baghdadi

alla fine del 2014 dichiarando tre wilayat (province): Barqa (est Libia) con Derna come

capitale; Tarablus (Tripoli) con capitale Sirte e il Fezzan (sudovest). Daesh è stato

cacciato da Derna da una coalizione di forze che includeva Derna Mujahideen Shura

Council (un gruppo-ombrello comprendente jihadisti locali, veterani di LIFG e disertori

dell’esercito di Haftar). Sirte è stata la roccaforte dove il gruppo si è imposto con

esecuzioni pubbliche - instillando paura nella popolazione che comunque ha cominciato

a ribellarsi nell’estate 2015 – ma la varietà di gruppi armati e le rivalità avevano reso

difficile l’espansione e il rafforzamento; Daesh era presente anche a Sabratha sino agli

attacchi aerei degli Stati Uniti e le azioni offensive di forze locali. Il gruppo ha perso anche

il controllo delle aree di Abu Quaryn, Abu Najm, Washkah ad opera delle milizie di

Misurata e di piccoli contingenti da città quali Jufrah, Sabha e Tripoli; le PFG hanno

ricacciato Daesh dalle città di Bin Jawwad, Nawfaliyah e Harawah. Infine, a Benghazi gli

opponenti di Haftar includono combattenti di Daesh.

Il Pentagono stima che vi siano circa 6.000 combattenti nel paese con cellule dormienti

a Tripoli e in altre città.

236 UK Home Office, “Country Policy and Information Note, Libya: Security and humanitarian

situation”, version 2, January 2017, pag. 23. 237 https://www.acaps.org/country/libya/crisis-analysis. 238 http://www.lastampa.it/2016/03/09/esteri/lisis-ha-un-nuovo-emiro-in-libia-possiamo-

conquistare-roma-K6OgJwf2jFGm4VZMEBaCqJ/pagina.html.

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Ai primi mesi del 2017 la situazione di Daesh in Libia è nettamente peggiorata239: si è

verificato un sostanziale ritiro nell’entroterra, infiltrazione nei traffici illeciti, organizzazione

di campi di addestramento, rimescolamento con Al Qaeda a seguito di quattro mesi di

raid aerei che hanno indotto i combattenti a fuggire a sud a Bani Walid (circa 200 uomini),

Skihir, Ghariyat, Ghirza. Sono tunisini, algerini, yemeniti, sauditi, bahreniti, somali,

nigeriani, chadiani, cinesi ed europei. Nelle località di Ghirza e Zellah sono presenti

mercenari sudanesi del Justice and Equality Party provenienti dal Darfur. Daesh

sequestra infermieri e medici indiani, filippini, pachistani. Dopo la cacciata da Sirte ad

agosto 2016 la leadership è stata decimata; il fallimento a Sabratha, Derna e Sirte è stato

un duro colpo ma ha ridato vigore ad Al Qaeda nella regione. Il gruppo si è spostato verso

sud, nell’area di Bani Walid e ha attaccato il sistema centrale di irrigazione che controlla

la fornitura d’acqua del paese, il Great Man-Made River (GMMR) con l’evidente intento,

già applicato in Siria e Iraq, di usare il controllo dell’acqua come arma di guerra240.

Per quanto vi sia stata senza dubbio una massiccia ritirata, il pericolo Daesh in Libia non

è scomparso: il gruppo mantiene un basso profilo mentre organizza attacchi mirati – come

l’attentato a Manchester del 22 maggio241.

Ansar al-Sharia è stata l’organizzazione jihadista più forte in territorio libico, il gruppo si è

stabilito a Benghazi nel 2012 con affiliazioni a Derna, Sirte e Ajdabiya; listato dalle Nazioni

Unite con al Qaeda nella lista dei gruppi sottoposti a sanzioni, è associato con al Qaeda

in the Islamic Maghreb (AQUIM) e Al-Mourabitoun. L’attacco al consolato statunitense di

Benghazi del 2012 comprendeva elementi legati ad Ansar al-Sharia che organizza campi

di addestramento per combattenti in viaggio verso Siria, Iraq e Mali. Il gruppo ha

organizzato un sistema di supporto alla popolazione con servizi essenziali per

guadagnarne la fiducia (metodo già utilizzato da Hamas nei Territori Palestinesi ed

Hezbollah nel sud del Libano), divenendo così il gruppo jihadista più grande nel paese.

In risposta agli attacchi del Generale Haftar l’unità di Benghazi si è fusa con altre milizie

per formare il Benghazi Revolutionary Shura Council (BRSC) nell’estate 2014242, con le

milizie locali a Derna formando il Mujahideen Shura Council of Derna (MSCD) ed è parte

del Ajdabiya Revolutionary Shura Council nella città omonima243.

239 La Stampa, “Libia, la cellula tunisina guida la riscossa dell’Isis”, 23 febbraio 2017, pag. 13. 240 ACAPS, “More widespread and intense fighting between Misratan militias and the LNA in

western Libya reignites a conflict for control of the country and opens windows of opportunity for IS to regroup”, 23/02/2017.

241 The Economist, “How Islamic State clings on in Libya”, May 27th 2017. 242 https://www.criticalthreats.org/analysis/backgrounder-fighting-forces-in-libya. 243 https://www.criticalthreats.org/analysis/backgrounder-fighting-forces-in-libya

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La morte del fondatore, Mohammed Zahawi, ha indebolito la posizione di AS con

defezioni a favore di Daesh, anche se a Benghazi le due formazioni continuano a

combattere Haftar. La strategia di Ansar al Sharia segue la visione dei gruppi legati ad al

Qaeda di lavorare attraverso milizie islamiche locali: la rivalità tra Daesh e i gruppi

associati ad aQ definirà il profilo del panorama jihadista nel paese. Tra il 2012 e il 2014 il

gruppo contava circa 10.000 militanti. Alla fine del mese di maggio 2017, AS ha dichiarato

ufficialmente il proprio scioglimento244, poiché la leadership è stata decimata negli scontri

con il Generale Haftar. Molti combattenti si sono uniti a Daesh che si sta riorganizzando

nelle zone desertiche a sud di Misurata, Bani Walid, Sirte e Jufra.

Al di là della sloganistica che ricade nelle strategie comunicative estremamente efficaci

di questi gruppi, il rischio di attacchi all’Italia è stato riportato dal DIS, Dipartimento

Informazioni e Sicurezza245: individua, fra gli altri, contaminazioni nel sud della Libia tra

network criminali e terrorismo.

Così la Relazione 2016 al Parlamento246 descrive la situazione dei gruppi jihadisti in Libia:

“La confusione istituzionale e i problemi dell’ordine pubblico hanno, dunque, offerto

spazio alla pianificazione di azioni ostili da parte delle organizzazioni terroristiche attive

nel Paese – tra cui al Qaida nel Maghreb Islamico (AQMI), al Murabitun (AM), Ansar al

Sharia e lo stesso DAESH – che hanno goduto di ampi margini di agibilità per l’ap-

provvigionamento di armi, il reclutamento di nuove leve e lo svolgimento di attività

addestrative. La libertà di movimento ha anche favorito le sinergie tra i vari gruppi e

l’interscambio di equipaggiamento e di personale, nonché il coinvolgimento delle citate

organizzazioni nei traffici illeciti. L’intervento militare messo in atto all’inizio di agosto 2016

dalle milizie di Misurata con il supporto della Comunità internazionale per debellare la

presenza di DAESH a Sirte (operazione “al Bonyan al Marsous”, “Edificio solido”) ha

causato un deflusso dalla città e una ricollocazione di jihadisti, perlopiù stranieri, i quali,

scappati dalla città, si sono diretti ad Ovest (verso la Tripolitania), ad Est (verso Bengasi) e verso Sud (nel Fezzan). Quest’ultima area geografica era già caratterizzata dalla

compresenza di etnie locali storicamente in conflitto tra loro (i Tebu e i Tuareg), di focolai

di elementi riconducibili ad AQMI e, ancora, di gruppi criminali transazionali legati al

traffico illegale di esseri umani. Più in generale – anche per la mancanza di efficaci

controlli – il Paese è risultato segnato, in numerose aree strategiche, da focolai più o

244 La Stampa, “Bengasi, si scioglie il gruppo che uccise l’Ambasciatore USA”, 28/05/2017. 245 http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2017-02-28/allarme-servizi-piu-concreto-rischio-

jihad-italia-063700.shtml?uuid=AE5NYue . 246 Presidenza del Consiglio dei Ministri, Sistema di informazione per la sicurezza della

Repubblica, Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza 2016, pag. 40.

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meno consistenti di realtà jihadiste spesso eterogenee tra loro, in taluni casi alleate, in

altri in conflitto.” Supportati da Tunisia, Egitto, Turchia e Qatar, dal 2011 al 2014 i Fratelli Musulmani si

sono affermati in Libia con l’islamismo riformista, preoccupando Arabia Saudita ed

Emirati Arabi Uniti. Con la caduta del Presidente Morsi, nel 2013 la posizione del Cairo

si è rovesciata, dando il via alla persecuzione della Fratellanza. In questa regione la

spaccatura è tra regimi conservatori sunniti e movimenti rivoluzionari sunniti; in Libia gli

islamisti sostenuti da Turchia e Qatar si oppongono ai non islamisti di Tobruk e del

Generale Haftar alleati con Egitto ed EAU. Il governo al-Sarraj aprendo all’islamismo

riformista pone un rischio per gli stati conservatori. Tunisia, Marocco e Algeria supportano

il processo di mediazione delle Nazioni Unite, come anche Russia e Cina che vedono

nell’islamismo una forza sovversiva da combattere. La lotta dei paesi occidentali a Daesh

è complicata dal fatto che in Medio Oriente vi sono anche altri fronti aperti: il regime di

Assad, l’Iran, gli sciiti.

L’Egitto è l’attore internazionale più influente in Libia (i leader libici viaggiano spesso al

Cairo): Tobruk riceve molte armi anche allo scopo di sradicare l’islamismo e promuovere

l’autonomia della Cirenaica (ambizione di Haftar) per creare una buffer zone tra Daesh e

il territorio egiziano. Nonostante ciò le contraddizioni non mancano: i diplomatici egiziani

hanno assicurato il supporto al processo politico promosso dalle Nazioni Unite pur

continuando a spalleggiare Haftar quando questi ha cominciato ad opporvisi.

La situazione libica è percepita dal Cairo come una diretta minaccia alla sicurezza

nazionale: gli attacchi jihadisti, il traffico illegale di armi, stupefacenti ed esseri umani

minacciano la stabilità interna del paese e la legittimità politica di al Sisi, infatti stabilire

un protettorato in Cirenaica sarebbe la soluzione preferita. Vi sono, poi, conseguenze

economiche di forte impatto: alla caduta del Colonnello Gheddafi nel 2011 i lavoratori

egiziani impiegati in Libia e che inviavano le loro rimesse erano un milione e mezzo, ora

sono drammaticamente diminuiti, e così il flusso di liquidità; l’Egitto importa energia dalla

Libia247.

Gli Emirati Arabi Uniti hanno espresso supporto ai negoziati delle Nazioni Unite ma

dall’inizio dell’intervento in Yemen248 (2015) si sono defilati. Ciononostante, armi vengono

ancora recapitate regolarmente sia al Generale Haftar che alle milizie di Zintan.

247 G. Dentice, “Egypt’s Security and Haftar: al-Sisi’s Strategy in Libya”, 2 Febbraio 2017, ISPI,

http://www.ispionline.it/it/pubblicazione/egypts-security-and-haftar-al-sisis-strategy-libya-16284

248 http://www.internazionale.it/tag/paesi/yemen .

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L’Ambasciatore libico ad Abu Dhabi, Aref al-Nayed, è una delle figure più rilevanti dalla

parte di Tobruk.

La Turchia (unico paese insieme all’Italia ad avere riaperto un’Ambasciata249), come il Qatar, ha inviato armi alla defunta coalizione Libya Dawn di Ghwell. Il Qatar vanta legami

con Abdelhakim Belhadj, politico libico in vista e con un passato jihadista: né Ankara né

Doha possono però vantare l’influenza che ha il Cairo su Tobruk.

La Russia, forte di un accordo militare firmato da Haftar a gennaio 2017 a bordo della

portaerei Kuznetsov e di un accordo economico, parteggia per un avvicinamento tra

Khalifa Ghwell e il Generale Haftar. Il 21 febbraio 2017 la compagnia statale russa

Rosneft (dal 2013 la più grande al mondo nel settore petrolifero) ha siglato un accordo

con la NOC libica250 (che lavora con ENI e la francese TOTAL) per l’acquisto del greggio

la cui estrazione Mustafa Sanalla vorrebbe riportare ai tempi di Gheddafi (1,6 milioni di

barili al giorno, ora ridotti a 700.000). Il Cremlino da tempo ha supportato il Generale

Haftar - con forniture di armamenti251 - che controlla la zona con i pozzi petroliferi, ma ha

anche avvicinato il Premier al-Sarraj nel mese di marzo per favorire una riconciliazione.

La riprova del sempre maggiore coinvolgimento di Mosca è il frequente traffico di navi

russe nel porto egiziano di Sudi el-Barrani, a pochi chilometri dal confine libico, e la

presenza di velivoli nella base aerea di Marsa Matruh252. Infine, la Francia ha mantenuto

posizioni molto vicine al Generale Haftar253- inviando anche consiglieri militari - sino al

cambio di presidenza nel maggio 2017 quando si è schierata decisamente con al Sarraj.

La situazione umanitaria in Libia rimane critica254: su una popolazione di 6,3 milioni di

abitanti, 1,3 milioni sono in stato di necessità, 2,4 sono colpiti dagli effetti del conflitto255,

gli IDPs sono circa 313,200, i rifugiati 100,600, inoltre il paese ospita un milione di

migranti. A settembre 2016 erano 256.000 i migranti identificati in Libia, fra cui 28.031

donne (11%) e 23.102 bambini (9%), un terzo dei quali non accompagnati. Si ritiene che

le cifre reali siano almeno tre volte superiori256.

249 IOM, Libya: humanitarian support to migrants and IPDs, Situation report January 2017. 250 La Stampa “La Russia mette le mani sul petrolio della Libia”, 22/02/2017, pag. 14. 251 http://www.notiziegeopolitiche.net/libia-haftar-riceve-supporto-e-armi-da-mosca/. 252 http://www.analisidifesa.it/2017/03/al-sarraj-allo-sbando-haftar-riprende-i-terminal-

petroliferi/ 253 Il Foglio, “Europeisti in Libia”, 30/05/2017. 254 ACAPS, Crisis Overview 2016, humanitarian trends and risks for 2017, 255 European Commission Humanitarian Aid and Civil Protection, ECHO Factsheet Libya,

January 2017. 256 UNICEF Child Alert, “Un viaggio fatale per i bambini”, febbraio 2017,

http://www.unicef.it/Allegati/Un_viaggio_fatale_per_i_bambini.pdf, pag. 4: tre quarti dei bambini migranti intervistati hanno dichiarato di aver subito violenze, molestie o aggressioni

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Violazioni dei diritti umani, rapimenti, assassinii, giustizia sommaria, tortura, detenzioni

arbitrarie (soprattutto nelle prigioni di Benghazi Garnadah e Kuwayfiah, a Misurata le

prigioni Jawiya e Tarminah, a Tripoli le strutture Abu Salim, Fursan Janzur, Hadbah e

Mitiga257) e minacce rappresentano la normalità. Il paese è divenuto un mercato di esseri

umani, la Corte Penale Internazionale iniziato le indagini258per crimini contro l’umanità

commessi a partire dal 15 febbraio 2011. Nel report del Procuratore al Consiglio di

Sicurezza delle Nazioni Unite259, la situazione nel mese di maggio risulta nettamente

peggiorata rispetto a sei mesi prima: la Corte investigherà anche su reati migrant-related

data la gravità della situazione.

Mezzo milione di persone circa è priva di rifugio e non ha accesso ad acqua potabile e

strutture sanitarie260. World Health Organization ha condotto un assessment dei 98

ospedali ancora funzionanti e solo 4 operano al di sopra del 75% delle loro capacità261.

ICRC, Libyan Red Crescent Society mantengono una presenza262 con International

Medical Corps, CESVI (ONG italiana), ACTED, IMPACT Initiatives e Mercy Corps263.

Lo Human Development Index è calato di 27 punti dal 2009 al 2014264 e il paese è, come

riportato dal personale di International Organization for Migration nell’aprile 2017, un

mercato di schiavi265.

L’accesso alla popolazione bisognosa di assistenza è estremamente limitato a causa

delle violenze e della frammentazione dei gruppi armati, al momento la presenza più

estesa e radicata sul terreno è Red Crescent Libya e Red Crescent Bahrein, mentre la

maggioranza delle agenzie e Organizzazioni Non Governative sono dislocate e Tunisi.

Le infrastrutture sono gravemente danneggiate, scarseggia la liquidità monetaria e i

prezzi degli alimentari sono in continuo rialzo. Il deficit della Libia è il 70% del PIL.

da parte di adulti. Quasi la metà delle donne intervistate ha detto di aver subito violenze sessuali o abusi durante il viaggio.

257 United Nations Security Council, Report of the Secretary-General on the United Nations Support Mission to Libya, 1 December 2016, S/2016/1011, pag. 8.

258 United Nations Security Council, “The situation in Libya. Report of the Secretary General on the United Nations Support Mission in Libya (S/2016/1011)”, 7827th meeting, 6 December 2016, New York, S/PV.7827.

259 Thirteenth Report of the Prosecutor of the International Criminal Court to the United Nations Security Council pursuant to UNSCR 1970 (2011), 9 May 2017, https://www.icc-cpi.int/Pages/item.aspx?name=170509-otp-stat-lib.

260 https://www.acaps.org/country/libya. 261 www.who.int. 262 https://icrc.org/sites/default/files/document/file_list/libya_facts_figures_-_2016.pdf. 263 UNHCR, Libya: Dashboard of key activities 2016; UNHCR, Libya factsheet, April 2017. 264 Rome 2016, Mediterranean Dialogues, “Leaving the storm behind: ideas for a new

Mediterranean” Report, ISPI, 1-3 dicembre 2016. 265 http://www.iom.int/news/iom-learns-slave-market-conditions-endangering-migrants-north-

africa.

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Dal punto di vista del diritto internazionale il caso della Libia presenta diversi aspetti

interessanti266. La prima questione è la mancanza di un governo effettivo, ne consegue

quindi il problema del consenso ad operazioni militari sul territorio, e la seconda la lotta

all’immigrazione illegale. Poiché il paese è un failed state, i governi sopra descritti sono

in competizione tra di loro per la rappresentanza. E’ importante individuare l’entità

legittima anche per la gestione delle risorse: la Banca centrale libica, la Libyan

Investments Authority e la National Oil Corporation. La famiglia Gheddafi deteneva

all’estero molti fondi, congelati a seguito delle sanzioni internazionali. Il governo legittimo

è il GNA di al-Sarraj, ai sensi delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza n. 2259 del 2015

e della risoluzione n. 2278 del 2016. Il supporto al GNA è stato assicurato dal gruppo

informale di supporto, costituito da una ventina di paesi tra i quali Russia, Stati Uniti,

Francia, Germania, Regno Unito e Italia; l’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno

approvato sanzioni individuali nei confronti dei rappresentanti dei governi concorrenti.

Il GNA è assimilabile ad un Comitato nazionale all’estero, simile al caso della Namibia

(1967-1990): è un ente fiduciario che manca di effettività; la sua legittimità deriva

dall’endorsement del Consiglio di Sicurezza e dai paesi che partecipano al processo di

pacificazione riunitisi a Roma il 13 dicembre 2015 e a Vienna il 16 maggio 2016267.

In caso di un eventuale intervento in Libia, una prima opzione prevede la richiesta del

governo legittimo, mancando l’effettività sarebbe necessaria una risoluzione del Consiglio

di Sicurezza; il Consiglio potrebbe autorizzare un intervento da parte di un’organizzazione

regionale, oppure una missione di Peace Keeping robusto, così come definito nei Principi

e Linee Guida del 2008268; infine, si potrebbe verificare il caso della legittima difesa –

individuale o collettiva – in caso di un attacco da parte di Daesh, se si ammette la reazione

nei confronti di un ente non statuale. L’Egitto è già intervenuto in territorio libico contro

Daesh invocando un right of response come legittima difesa: in realtà sono state

rappresaglie armate, non ammesse dal diritto. Anche gli Stati Uniti hanno effettuato

missioni in Libia contro Daesh utilizzando la base di Sigonella. Roma e Washington

hanno siglato un accordo nel febbraio 2016, per lo stoccaggio e l’uso di droni, che ha

seguito accordi precedenti: il Bilateral Infrastructure Agreement, (BIA, 1954), il

266 IAI, Istituto Affari Internazionali, Osservatorio di Politica Internazionale, “La crisi libica,

situazione attuale e prospettive di soluzione”, Approfondimenti, n. 120 – giugno 2016, pag. 17-24.

267 Algeria, Arabia Saudita, Chad, Cina, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Francia, Germania, Giordania, Italia, Malta, Marocco, Niger, Qatar, Russia, Spagna, Sudan, Turchia, USA, Lega degli Stati Arabi, Unione Africana, Unione Europea.

268 United Nations Department of Peace Keeping Operations, Department of Field Support, “United Nations Peace Keeping Operations, Principles and Guidelines”, 2008.

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Memorandum of Understanding (Shell Agreement, 1995), e il Technical Agreement of

Sigonella (2006): il comando della base è italiano, gli Sati Uniti comandano il personale

e le operazioni US. Le operazioni non di routine devono essere notificate al comandante

della base che può, quindi, bloccare un’operazione non conforme al nostro ordinamento

(art. 10, comma 1 della Costituzione e Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo,

CEDU). Qualora l’Italia autorizzi il decollo di droni armati diretti in Libia non è necessaria

un’autorizzazione parlamentare o una comunicazione al Parlamento. Le operazioni più

ricorrenti tramite droni sono il targeted killing di esponenti di gruppi terroristici. Nel caso

di esecuzioni extragiudiziali queste sono contrarie al diritto internazionale (art. 2 CEDU)

fatta salva la deroga in caso di decesso risultante da legittimi atti di guerra269. Il targeted

killing è considerato legittimo se esercitato per legittima difesa come previsto dall’art. 51

della Carta delle Nazioni Unite. Eventuali azioni militari italiane contro obiettivi in territorio

libico dovrebbero tener conto del Trattato italo-libico del 2008 poiché l’art. 4 par. 2 vieta

atti ostili. La permanenza in vigore di tale Trattato dopo il 2011 è però in dubbio poiché la

guerra è una causa di estinzione dei trattati.

Oltre alla minaccia terroristica, gli altri punti d’interesse principali nei rapporti Italia - Libia

sono rappresentati dal consistente flusso di migranti270 e dall’approvvigionamento

energetico. Entrambi gli argomenti sono questioni di lungo termine non facilmente

risolvibili e con implicazioni politiche ed economiche decisamente sostanziali in un quadro

normativo internazionale complicato dalla mancanza di un governo che abbia l’effettivo

controllo sul territorio.

Da settembre 2016 l’Italia è impegnata nell’Operazione Ippocrate271, un ospedale da

campo nella città di Misurata, con 300 militari: 60 tra medici e infermieri, 135 per supporto

logistico, 100 unità a costituire una force protection; prevede inoltre la presenza al largo

delle coste libiche di una nave distaccata dall’operazione Mare Sicuro ed un vettore aereo

C-27J dell’Aeronautica Militare di base a Misurata per eventuali evacuazioni di

emergenza. La richiesta di una struttura ospedaliera per curare i feriti è stata formalizzata

dal premier libico Serraj con una lettera l'8 agosto 2016 (oltre ad aver richiesto alla NATO

consiglieri nel campo difesa e sicurezza272, acuendo il disaccordo con la Russia).

269 IAI, op. cit., 2016, pag. 22. 270 Il termine “migranti” viene qui utilizzato per praticità ma è tecnicamente fuorviante e

riduttivo: si distinguono, infatti, a livello internazionale, nove categorie: displaced person, refugee, evacuee, stateless person, war victim, internally displaced person, returnee, resettler e migrant.

271 http://www.analisidifesa.it/2016/09/gia-in-libia-il-contingente-delloperazione-ippocrate/. 272 Askanews, “Pinotti: bene richiesta al Sarraj per consiglieri NATO in Libia”, 16/02/2017.

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L’Operazione è a sostegno politico e umanitario del governo al Sarraj, incontra infatti

l’ostilità di Khalifa Ghwell che accusa Roma di colonialismo fascista273 oltre alle

rimostranze per la riapertura dell’Ambasciata italiana a Tripoli il 10 gennaio 2017. A metà

marzo il governo italiano ha inviato un C-130 a Benghazi, nella base aerea di Benina, per

imbarcare feriti delle truppe di Haftar da curare presso l’ospedale militare del Celio274.

Il 2 febbraio 2017275 il governo italiano ha siglato un Memorandum di validità triennale

con il Premier al-Sarraj allo scopo di fermare l’immigrazione illegale276 (181.000 sbarchi

nel 2016 in Italia277, previsti gli stessi numeri per il 2017 da Frontex278), il traffico di esseri

umani e il contrabbando che sono affari estremamente redditizi per le organizzazioni

criminali. L’Italia con questo accordo si impegna a sostenere le istituzioni libiche con

training, equipaggiamento, assistenza alla guardia costiera libica, supporto per energie

rinnovabili, infrastrutture, sanità, trasporti e sviluppo delle risorse umane279. Il Ministero

dell’Interno, inoltre, ha siglato un accordo con dieci sindaci delle principali città del Fezzan

per il completamento del sistema di controllo dei confini terrestri e l’adeguamento e il

finanziamento dei centri d’accoglienza. Il governo al-Sarraj si impegna a garantire la

sicurezza dei confini libici, terrestri e marittimi e di combattere il traffico di esseri umani.

La difficoltà principale è ormai che l’obiettivo dei trafficanti è far arrivare le imbarcazioni

dove si trovano le unità navali di Sophia: la missione paradossalmente ha l’effetto

perverso di essere un incentivo ad usare mezzi sempre più precari280. La missione

Eunavfor Med ha inoltre riportato le difficoltà in merito alla guardia costiera libica, che

appare localmente frammentata ma soprattutto connivente se non infiltrata da

273 http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/01/13/libia-il-discorso-dellislamista-ghwell-via-le-

truppe-italiane-da-misurata-noi-venduti-ai-colonizzatori/3314106/. 274 http://www.analisidifesa.it/2017/03/al-sarraj-allo-sbando-haftar-riprende-i-terminal-

petroliferi/. 275 La Stampa, “Le domande”, 27/02/2017, pag 3. 276 http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2017-02-03/accordo-italia-libia-migranti-

063853.shtml?uuid=AEJP1RN. 277 La Stampa, “Sarraj: decisivo il patto con l’Italia”, 27/02/2017, pag. 4. 278 Il Messaggero, “Migranti, l’allarme di Frontex per l’Italia: dalla Libia ne arriveranno altri

180mila”, 16/02/2017, pag. 15. 279 La Libia avrebbe richiesto 10 navi per ricerca e soccorso, 10 motovedette, 4 elicotteri, 24

gommoni, 10 ambulanze, 30 jeep, 15 automobili, 30 telefoni satellitari, mute da sub, bombole per l’ossigeno, binocoli notturni e diurni, piano di consegna in 24 mesi, per un totale di 800 milioni di Euro, con uno stanziamento da Bruxelles di 200 milioni, Corriere della Sera, “Libia, i segreti dell’accordo”, 20/03/2017, pag.3.

280 La Stampa, “Tra I guardacoste libici pochi mezzi, ma proviamo a fermare i migranti”, 13/02/2017, pagg. 8-10,

http://www.difesa.it/OperazioniMilitari/op_intern_corso/eunavfor_med/Pagine/default.aspx.

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organizzazioni illegali281. Eunavfor Med, sotto comando italiano, combatte il traffico

illegale di migranti con identificazione, cattura e distruzione dei natanti, a seguito del

salvataggio delle persone a bordo che, per il principio di non-refoulement, non possono

essere respinte verso territori ove sia in vigore la pena di morte, rischino la tortura o altri

trattamenti inumani e degradanti, così come previsto dalla Convenzione del 1951 sui

rifugiati, dal Protocollo del Consiglio d’Europa sul divieto delle espulsioni collettive e dal

Regolamento UE 656/2014. La missione si basa sulla risoluzione del Consiglio di

Sicurezza n. 2240 del 2015 ai sensi del Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite:

consente, in deroga al diritto internazionale del mare, di fermare una nave in alto mare

sospettata di traffico illegale di migranti pur senza il consenso dello stato della bandiera.

Eunavfor Med opera solo in alto mare, per entrare nelle acque libiche è necessario il

consenso dello stato territoriale o una risoluzione del Consiglio di Sicurezza. In merito al

Golfo della Sirte, che la Libia considera una baia storica, quindi soggetta alla sovranità

territoriale, in realtà è alto mare, quindi aperto alla libera navigazione: le accuse di Tobruk

di invasione italiana nel novembre 2015 per la presenza di navi italiane erano quindi

infondate.

L’accordo Roma - Tripoli ha suscitato perplessità fra alcuni giuristi e intellettuali libici che

hanno presentato un ricorso alla Corte d’Appello di Tripoli282: l’istanza è stata accolta

bloccando qualsiasi ulteriore negoziazione283. I ricorrenti hanno sostenuto che il

Memorandum sia incostituzionale poiché non è stato approvato dal parlamento e dal

governo all’unanimità.

281 “In the framework of Operation Eunavfor Med, sufficient information has been gathered

concerning the role of the Coast Guard of Zawiya –a city 50 km west of Tripoli –in migrant smuggling. Abdurahman Milad Aka Al Bija, currently the captain of Zawiya’s Coast Guard, has been controlling the migrant smuggling business from the West of Tripoli to the border with Tunisia since 2015.”, Porsia, N., “Stuck in Libya. Migrants and (our) political responsibilities, ISPI Commentary, February 2, 2017, pag. 2, http://www.ispionline.it/sites/default/files/pubblicazioni/commentary_porsia_02_02.2017.pdf.

282 Internazionale, “Perché l’accordo tra l’Italia e la Libia sui migranti potrebbe essere illegale”, 20/02/2017, http://www.internazionale.it/notizie/annalisa-camilli/2017/02/20/italia-libia-migranti-accordo-illegale.

283 Libya Herald, “Tripoli court blocks Serraj’s migrant deal with Italy: effect unclear”, 22/03/2017: “The case was brought by six individuals including former justice minister Salah Al-Marghani and lawyer Azza Maghur. Their petition did not simply deal with the controversial plans outlined in the memorandum, which included for the return of migrants to camps in Libya. They also disputed the ability of Serraj to make such a deal on behalf of the Government of National Accord (GNA). This is because according to the Libyan Political Agreement, until it is approved by the House of Representatives, the GNA along with the State Council, has no legal standing.”

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Secondo l’avvocata Azza Maghur, l’accordo viola i regolamenti europei sull’asilo poiché

permette il respingimento dei profughi in un paese che non riconosce la Convenzione di

Ginevra sui Rifugiati del 1951. Secondo il professore di diritto costituzionale (Università

di Milano Bicocca) Paolo Bonetti, il memorandum non rispetta l’articolo 80 della

Costituzione - che prevede la ratifica da parte del parlamento – e viola la Convenzione

Europea sui Diritti dell’Uomo (CEDU), in particolare l’articolo 3, in merito al divieto di

inviare migranti verso stati dove subirebbero trattamenti inumani e degradanti.

Il professore emerito di diritto internazionale (LUISS Guido Carli e Istituto Affari

Internazionali) Natalino Ronzitti ravvisa la necessità di verificare l’aderenza ai Diritti

Umani, riconoscendo che il governo ad interim non controlla il paese284. La professoressa

di diritto europeo (Università degli Studi di Firenze) Chiara Favilli solleva inoltre la

questione della sostenibilità economica e l’origine dei finanziamenti poiché l’accordo

rinvia all’articolo 19 del Trattato di amicizia del 2008285 che prevedeva oneri ripartiti a

metà tra il bilancio italiano e l’Unione Europea. L’Italia è stata accusata da giornalisti e

leader politici libici286 di voler istituire in Libia un centro che impedisca l’immigrazione

irregolare istituendo una Guantanamo libica287. Il Direttore generale di Médecins sans

Frontières, Arjan Hehenkamp, teme che si possa configurare una complicità delle

violazioni dei diritti umani commesse in Libia288. La HoR di Tobruk ritiene “nullo e privo di

valore” il memorandum d’intesa. Secondo i parlamentari, la questione non “è soggetta a

interessi individuali né agli interessi dei paesi europei, in particolare della repubblica

italiana”. In particolare: “L’Italia sta cercando di sbarazzarsi del peso e dei pericoli

dell’immigrazione clandestina per la sicurezza, l’economia e la società in cambio di un

po’ di sostegno materiale alla Libia, che è peraltro già obbligata a fornire”.

I migranti sono trattenuti arbitrariamente in centri di detenzione gestiti dal Department for

Combating Illegal Migration, sotto il controllo di gruppi armati, reti di trafficanti e

contrabbandieri. Non vi sono né formulazione delle accuse né procedimenti giudiziari, le

condizioni igienico-sanitarie sono estremamente degradate, sono diffusi malnutrizione,

pestaggi, violenze sessuali e lavoro forzato.

284 International New York Times, “EU enlists Libya to stem flow”, 23/02/2017, pag 1. 285 Quel trattato comprendeva un risarcimento per le vittime libiche delle mine seminate

dall’Italia per impedire l’ingresso delle truppe dell’Asse in Libia e un risarcimento per il periodo coloniale sotto forma di investimenti per un valore stimato di cinque miliardi di dollari (4,7 miliardi di euro).

286 http://www.libya-analysis.com/italy-eu-agree-disasterous-migration-deals-with-libya/ 287 Internazionale, “L’accordo sui migranti con l’Italia crea una Guantanamo in Libia”,

10/03/2017,http://www.internazionale.it/notizie/khalifa-abo-khraisse-2/2017/03/10/accordo-migranti-libia-guantanamo

288 http://www.internazionale.it/video/2017/05/04/ong-libia-migranti.

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Minori, donne, giornalisti sono spesso oggetto di aggressioni289. UNICEF290 ha

ufficialmente riportato le condizioni di degrado per i migranti libici trattenuti nei centri di

detenzione confermando le informazioni di UNSMIL.

Il problema è, come definito da EUBAM- European Union Border Assistance Mission in

Libya291, istituita nel 2013 – la necessità “to review and update the current Libyan law in

regard to the detention/treatment of illegal migrants and to adopt a National Refugee and

Asylum law as well as a policy according to international standards”292. Nel mese di

giugno 2016 l’Unione Europea ha esteso il mandato di Operation Sophia aggiungendo

due compiti: “training of the Libyan coastguards and navy; and contributing to the

implementation of the UN arms embargo on the high seas off the coast of Libya”293.

La questione dei migranti coinvolge diverse parti: la missione Eunavfor Med, le ONG che

soccorrono i naufraghi, le organizzazioni criminali che organizzano i viaggi e la vendita al

mercato degli schiavi e la Guardia Costiera Libica294. Nella fattispecie un dossier

dell’intelligence austriaca (Agenzia HNA) riporta gli accordi e i traffici tra la Guardia

289 United Nations Security Council, Report of the Secretary-General on the United Nations

Support Mission to Libya, 1 December 2016, S/2016/1011, pag. 8. 290 UNICEF, “Un viaggio fatale per i bambini”, 28/02/2017,

http://www.unicef.it/Allegati/Un_viaggio_fatale_per_i_bambini.pdf. 291 https://eeas.europa.eu/csdp-missions-operations/eubam-libya/3859/about-eu-border-

assistance-mission-lybia-eubam_en; il mandato della missione prevede: “EUBAM Libya supports the Libyan authorities in developing border management and security at the country’s land, sea and air borders. As a civilian crisis management mission with a capacity-building mandate, EUBAM assists Libyan authorities at strategic and operational level. The work is carried out through advising, training and mentoring Libyan counterparts in strengthening the border services in accordance with international standards and best practices, and by advising the Libyan authorities on the development of a national Integrated Border Management (IBM) strategy.” Il Capo Missione dal 1 settembre 2016 è Vincenzo Tagliaferri, dirigente proveniente dalla Polizia di Stato.

292 EUBAM Libya Initial Mapping Report Executive Summary, 25 January 2017, 5616/17, EU RESTRICTED.

293 ICG, op. cit., 2016, pag. 28. 294 “(…) un rapporto dell’operazione navale europea EunavforMed (…) denuncia la collusione

tra la guardia costiera di Zawiya e i trafficanti di esseri umani. In un articolo, pubblicato sull’Espresso, i giornalisti Francesca Mannocchi e Alessio Romenzi hanno descritto un fenomeno simile: la guardia costiera libica vende le persone recuperate in mare alle milizie, che gestiscono dei centri di detenzione illegali. Nell’agosto del 2016 una nave dell’ong Medici senza frontiere, che soccorreva i migranti in mare, è stata attaccata da un’imbarcazione della guardia costiera libica; il 21 ottobre del 2016 una nave dell’ong tedesca Sea-watch ha denunciato che la guardia costiera libica ha picchiato i profughi imbarcati su un gommone al largo della Libia. Un video pubblicato dal Times nel febbraio del 2017 mostra, infine, percosse e maltrattamenti dei guardacoste libici ai migranti (...) L’Oim ha recentemente denunciato un mercato degli schiavi in cui una persona può essere venduta per duecento dollari. Da anni i migranti ci raccontano che in Libia vengono sequestrati da miliziani che chiedono un riscatto alle famiglie per liberarli oppure li vendono ad altri trafficanti” http://www.internazionale.it/notizie/annalisa-camilli/2017/04/29/italia-libia-migranti-guardia-costiera.

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Costiera e le organizzazioni di Ahmed Dabbashi, Mussab Abu Ghrein (a Sabratah) e

Abdurahman Milad (a Ez Zuia) per lo sfruttamento del business dei migranti295 provenienti

da Nigeria, Gambia, Somalia ed Eritrea, a conferma di quanto già riportato a dicembre

2016 dall’Ufficio dell’Alto Commissario per i Diritti Umani e da UNSMIL in un rapporto

congiunto296.

Nel mese di aprile 2017297 è stato siglato a Roma un accordo di pace tra le tribù del sud

della Libia allo scopo di bloccare il flusso di migranti che arriva da Ciad, Algeria e

Nigeria298in cambio di opportunità di sviluppo alternative ai profitti dei traffici illeciti299,

trattato denunciato poi dall’Assemblea Nazionale dei Toubou300in merito alle relazioni con

i gli Awlad Suleiman. I Tebu301, Tuareg e Awlad Suleiman che si contrappongono agli Al-

Qadhadfha302. I Tebu controllano la parte meridionale, alle frontiere con Niger e Ciad, si

sono schierati con al-Sarraj. I Tuareg, che godevano di un rapporto privilegiato con Tripoli

295 Il Messaggero, “Gli 007: la Guardia costiera libica favorisce il traffico di migranti”,

10/05/2017. 296 United Nations Security Council, Report of the Secretary-General on the United Nations

Support Mission in Libya, S/2017/283, 4 April 2017, pag. 8; pag. 16: “I also call on destination countries beyond Libya to ensure that any training provided to Libyan institutions that engage with migrants be accompanied by comprehensive efforts to stop the arbitrary detention of migrants and to improve their treatment in detention. I also reiterate that there is a need for a comprehensive approach to address the root causes in the countries of origin that drive so many people to take this dangerous journey.”.

297 Huffington Post, “Libia, firmato al Viminale l’accordo di pace tra 60 tribù”, 02/04/2017. 298 “Virginie Colombier, esperta di Libia e ricercatrice dell’Istituto universitario europeo di

Fiesole: “Soprattutto dopo il 2011 tutti i traffici illegali sono diventati la principale fonte di guadagno delle popolazioni locali del sud e dell’ovest della Libia”. Questa regione è il principale punto d’ingresso in Libia dei migranti che arrivano dall’area del Sahel e, più in generale, dall’Africa subsahariana. Si tratta di una zona isolata, dove non ci sono infrastrutture, reti di comunicazione, strutture sanitarie. In quella regione, inoltre, sono in gioco importanti interessi economici internazionali: passano i principali traffici illeciti diretti in Europa e in Nordafrica (commercio di droga e di armi) e ci sono pozzi petroliferi. “L’Italia ha tutto l’interesse a ristabilire la sicurezza nel sud e nell’ovest del paese, perché in quel territorio sono presenti alcune grandi aziende italiane attive nel settore del petrolio e del gas”, spiega Colombier.” http://www.internazionale.it/notizie/annalisa-camilli/2017/04/29/italia-libia-migranti-guardia-costiera.

299 Il Mattino, Di Giacomo, V. “Minniti: intesa fra le tribù della Libia per fermare i trafficanti di migranti”, 3 aprile 2017, pag. 13.

300 “L’accordo, firmato in presenza dei leader tuareg e del vicepresidente libico del Consiglio presidenziale (CP), riconosciuto dall’ONU, Abdelsalam Kajman, è stato giudicato una palese interferenza del nostro Paese negli affari interni dell’ex Jamahiriya. Chi ha partecipato ai colloqui in Italia non poteva rappresentare la comunità dei toubou, in quanto residente a Qatrun, un villaggio nel sud della Libia e loro non hanno partecipato agli scontri tra i toubou e gli awlad suleiman tra il 2011 e il 2015, che hanno avuto luogo a Obari, Sebha and Murzuk.”, http://www.africa-express.info/2017/04/09/salta-libia-laccordo-tra-italia-e-tribu-del-sud-per-il-controllo-dei-migranti/.

301 Corriere della Sera, Fubini F., “Se l’Italia aiuta la mia tribù, fermiamo il traffico di uomini”, 4 aprile 2017, pag. 12 e 13.

302 La Stampa, G. Stabile, 02/04/2017.

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a scapito dei Tebu, hanno la loro roccaforte nella zona di Ghat, crocevia di traffici illeciti.

E’ stato raggiunto un accordo con la tribù rivale e quindi il supporto agli accordi di Skhirat.

Il Generale Haftar ha quindi cercato appoggio negli Al- Qadhadfha che da Sirte, città di

origine del Colonnello Gheddafi e tradizionalmente suo sostegno tribale, si sono spostati

verso il Fezzan. La rivalità con la tribù degli Awlad Suleiman per il controllo di Sebha è

scoppiata da alcuni mesi.

Un ulteriore accordo303 è stato siglato a fine maggio 2017 a Roma tra i rappresentanti di

Niger, Ciad e le tribù del sud del paese, già firmatarie il mese precedente, per la

realizzazione di centri di accoglienza temporanea nelle zone di confine fra i paesi coinvolti

per la gestione del rimpatrio dei profughi.

Eni è presente in Libia dal 1959304. L’attività è condotta nell’offshore mediterraneo di

fronte a Tripoli e nel deserto libico per una superficie complessiva sviluppata e non

sviluppata di 26.635 chilometri quadrati (13.294 chilometri quadrati in quota Eni). L’attività

di esplorazione e sviluppo è raggruppata in 6 contratti.

Onshore:

- Area A, comprendente l’ex Concessione 82 (Eni 50%);

- Area B, ex-Concessione 100 (Bu Attifel) e il giacimento NC 125 (Eni 50%);

- Area E, con il giacimento El Feel (Elephant) (Eni 33,3%);

- Area F con il Blocco 118 (Eni 50%);

Offshore:

- Area C con il giacimento di Bouri (Eni 50%);

- Area D con i Blocchi NC 41 e NC 169 (onshore), parte del Western Libyan Gas Project

(Eni 50%).

Nella fase esplorativa, Eni è operatore nell’area di Kufra (186/1,2,3 e 4 onshore) e nelle

Aree Contrattuali onshore A e B e offshore D.

Dopo la rivoluzione del 2011 e la caduta del regime, la frammentarietà del quadro politico

che è seguita e le conseguenti tensioni sociali sfociate in disordini, scioperi, proteste e il

ritorno del conflitto interno, hanno talvolta comportato interruzioni precauzionali delle

attività. Nel 2015 l’attività produttiva in Libia è stata regolare e ha erogato 365 mila barili

al giorno, il livello più elevato dal 2010. Nell’ipotesi di sviluppi geopolitici di maggiore

rilevanza quali la ripresa del conflitto interno, atti di guerra, sabotaggi, tensioni sociali,

303 Il Fatto Quotidiano, “Minniti firma l’accordo con le tribù ai confini tra Libia, Ciad e Niger”, 23

maggio 2017. 304 https://www.eni.com/enipedia/it_IT/presenza-internazionale/africa/le-attivita-di-eni-in-

libia.page

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proteste di massa e altri disordini civili Eni potrebbe essere costretta, per il venir meno

delle condizioni di sicurezza, ad interrompere in parte o in tutto le attività produttive.

Le attività Eni in Libia sono regolate da contratti di Exploration and Production Sharing

(EPSA) che hanno durata fino al 2042 per le produzioni a olio e al 2047 per quelle a gas.

Nel gennaio 2015 Eni e la compagnia di Stato NOC hanno firmato un accordo che

sancisce la vendita durante il quadriennio 2015-2018 del gas associato alla produzione

di petrolio del giacimento Bu Attifel nell’area contrattuale B. Le attività di sviluppo

dell’area D hanno riguardato il campo di Wafa e il giacimento Bahr Essalam con l’inizio

della campagna di perforazione e l’assegnazione del contratto EPC per la realizzazione

del sistema sottomarino di collegamento agli impianti di trattamento onshore.

L’attività esplorativa near-field ha avuto esito positivo nell’area contrattuale D con

scoperte a gas e condensati305, a 5 chilometri a nord ovest del campo di Bahr Essalam a

15 chilometri a sud ovest chilometri dal campo di Bouri (140 km al largo di Tripoli):

attraverso la consociata ENI North Africa BV è operatore dell’area contrattuale D con un

interesse partecipativo del 100%nella fase esplorativa. Questi ritrovamenti confermano il

grande potenziale di risorse di gas naturale ancora presenti nel Paese. L’attività di gas si

esplica attraverso il gasdotto Green Stream per l’importazione del gas libico prodotto dai

giacimenti di Wafa e Bahr Essalam operati da Eni. Il gasdotto, composto da una linea di 520 chilometri, realizza l’attraversamento sottomarino del Mar Mediterraneo

collegando l’impianto di trattamento di Mellitah sulla costa libica con Gela in Sicilia, punto

di ingresso nella rete nazionale di gasdotti. La capacità del gasdotto ammonta a circa 8

miliardi di metri cubi/anno. L’approvvigionamento di gas naturale in Libia nel 2015 è stato

pari a 7,25 miliardi di metri cubi (+0,59 miliardi di metri cubi rispetto al 2014).

Eni è l’unica azienda straniera completamente operativa nel paese e che ha risentito di

meno dei disordini poiché la produzione deriva per la maggior parte dai pozzi offshore306.

Attualmente la produzione nazionale è di 800.000 barili di olio al giorno (la metà rispetto

al 2011), grazie alla riattivazione dei giacimenti di Sharara, el-Fil e al-Bayda307.

La contesa per le risorse energetiche è probabilmente la più aspra. Nel mese di maggio

2017 la situazione sul territorio libico così si configura: il Generale Haftar308 ha perso e

305 Askanews, “ENI: nuova scoperta a gas e condensati nell’offshore della Libia”, 05/04/2017. 306 https://www.libyaherald.com/2017/02/16/italians-hungry-for-libyan-business-but-not-at-the-

cost-of-their-lives/ 307 La Stampa, “Libia, il petrolio riparte: produzione a 800 mila barili al giorno”, 11/05/2017. 308 Nel mese di settembre 2016 le forze LNA avevano preso il controllo di Sidrah, Ra’s Lanuf,

Burayaqah e Zuwaytinah col supporto dei leader tribali.

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poi ripreso il controllo309 dei terminal petroliferi di Ras Lanuf e Sidra310, ricorrendo

all’appoggio della Russia311 e dell’Egitto - mezzi militari russi sono stati individuati al

confine egiziano312 - infatti Aguila Saleh Issa, Presidente della HoR di Tobruk, aveva già

dichiarato di avere richiesto alla federazione russa di contribuire militarmente313. Questo

significa che il Generale, forte di tale appoggio, potrebbe non fermarsi e considerare

l’opzione di marciare su Tripoli314. I disaccordi tra Presidency Council e House of

Representatives sono profondi315: il 7 marzo le autorità di Tobruk hanno sconfessato

l’accordo di Skhirat, questo perché nel settembre 2016 l’LNA aveva preso il controllo della

“mezzaluna del petrolio” nel golfo della Sirte, comprendendo i quattro terminal principali

– Zuweitina, Brega, Ras Lanuf e al Sidra, questi ultimi due brevemente riconquistati dalla

Brigata di Difesa di Benghazi, portando così alla rottura dell’accordo316.

Il figlio del Colonnello Gheddafi, Saif Al Islam, era stato liberato a luglio 2016317 dalle

milizie di Zintan318 in violazione alle ripetute richieste della Corte Penale Internazionale319,

309 Avvenire, “Libia. Haftar si riprende il petroli. Truppe di Mosca al confine”, 15/03/2017, pag.

12; La Stampa, “Libia, truppe speciali russe inviate in soccorso di Haftar”, 15/03/2017, pag. 13.

310 Corriere della Sera, “Le difficoltà di Haftar che favoriscono l’unità libica”, 06/03/2017, pag. 12.

311 Oleg Krinitsyn, direttore della compagnia privata di guardie del corpo russe Rsb, ammette di aver impiegato alcuni suoi agenti nell’est libico in coordinamento con il governo di Mosca, Corriere della Sera, “La battaglia per i pozzi libici e la mano russa che agita la Nato”, 13/03/2017, pag. 17. Il Fatto Quotidiano, “Contractors russi in Libia e la strategia alla siriana”, 16/03/2017, pag. 14: all’inizio di febbraio il Generale Haftar ha firmato un accordo per ottenere aiuti da Mosca.

312 Ansa, “Libia: Cnn, mezzi militari russi a confine egiziano”, 14/03/2017. 313 Askanews, “Libia, Tobruk: abbiamo chiesto aiuto a Russia su armi”, 14/03/2017. Durante la

visita del Presidente russo Putin nell’aprile 2008, venne firmata una serie di accordi per cancellare il debito libico (4,5 miliardi di dollari) in cambio di contratti per l’industria della difesa russa; ai primi di febbraio circa 70 soldati del fronte Haftar sono stati inviati in Russia per cure mediche.

314 ACAPS, “More widespread and intense fighting between Misratan militias and the LNA in western Libya reignites a conflict for control of the country and opens windows of opportunity for IS to regroup”, 23/02/2017.

315 United Nations Security Council, Report of the Secretary-General on the United nations Support Mission to Libya, 1 December 2016, S/2016/1011.

316 Internazionale, “I due governi libici sono ancora più lontani”, 24/03/2017, pag. 20. 317 https://www.theguardian.com/world/2016/jul/07/gaddafi-son-saif-al-islam-freed-after-

death-sentence-quashed. 318 Il Mattino, “Sarraj, il premier di una polveriera”, 21/03/2017, pag. 47. 319 “Saif Al-Islam Gaddafi … the Council will recall that the Appeals Chamber of the ICC

affirmed the admissibility of the case against Saif Al-Islam Gaddafi on 21 May 2014…To date, despite repeated demands by my Office, Saif Al-Islam Gaddafi has not been surrendered to the custody of the ICC. The Libyan authorities must heed the Council’s calls for cooperation and comply with the Court’s request to immediately surrender Saif Al-Islam Gaddafi to the ICC. The Libyan authorities are under a clear legal obligation to do so, and remain non-compliant by failing to surrender him into ICC custody.” Tenth report of the Prosecutor of the International Criminal Court to the UN Security Council pursuant to

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e aveva creato un proprio movimento, il “Partito Repubblicano per la Liberazione della

Libia”, sostenuto dalla comunità libica in Egitto. Rinchiuso poi nella prigione di Al-Habada

di Tripoli, controllata dagli islamisti che minacciavano di giustiziarlo, il carcere è stato

attaccato da una milizia fedele a Sarraj, e Saif è stato trasferito altrove320 e poi liberato

ancora dalle milizie di Zintan321il 30 maggio. Gli scontri si inseriscono nel quadro delle

reazioni all’incontro Sarraj-Haftar del 2 maggio 2017: le milizie islamiste legate al Gran

Muftì al-Ghariani e all’ex premier Khalifa Ghwell avevano minacciato di attaccare il

quartier generale di Serraj, sono state contrastate dalla milizia Raqa e dalle Brigate

Rivoluzionarie di Tripoli che quindi hanno assaltato la prigione.

Tripoli è contesa322 tra gruppi armati locali (Brigata Rivoluzionaria di Tripoli nelle zone di

Qarqarish, Burji, Hay al-Islamiya e Ghut Shaal; Brigata Salah al-Burki, gruppo Abu

Salim323) e quelli provenienti da fuori, in particolare le milizie di Misurata, che sostengono

Khalifa Ghwell324. A favore di Ghwell (appoggiato da Turchia e Qatar) è infatti il nuovo e

potente raggruppamento di Salah Badi (Misurata), il Gran Muftì Sadek Al Ghariani, alcune

milizie berbere e altri gruppi legati all’ex presidente del GNC Nuri Busahmein325, in

controllo della zona ovest di Tripoli. Le milizie di Misurata si sono scontrate a fine marzo

con il LNA nella base di Tamanhint, nella Libia centrale326.

La posizione di al-Sarraj è sempre più fragile327, ha subito più di un attentato328 e non

riesce a controllare nemmeno Tripoli, nonostante la legittimità internazionale che il

Generale Haftar non può vantare. Ghwell potrebbe, pur di eliminare Sarraj, consegnare

Tripoli ad Haftar che non accetta un ruolo se non di primo piano329, infastidito dal tentativo

di negoziato a fine aprile 2017 a Roma dove si sono trovati il presidente della Camera dei

Rappresentanti di Tobruk, Aghila Saleh (nonostante sia sottoposto a sanzioni da parte

UNSCR 1970 (2011) 5th November 2015, Mrs Fatou Bensouda, Prosecutor of the International Criminal Court, http://www.haguejusticeportal.net/index.php?id=13377.

320 La Stampa, “Tripoli: assalto al carcere dove è detenuto il figlio di Gheddafi”, 27/05/2017. 321 http://www.repubblica.it/esteri/2017/05/30/news/libia_rappresentante_tobruk_saif_

gheddafi_e_stato_liberato-166840708/. 322 Adnkronos, “Libia: media, scontri a Tripoli, carri armati in strada”, 14/03/2017. 323 United Nations Security Council, Report of the Secretary-General on the United Nations

Support Mission to Libya, 1 December 2016, S/2016/1011, pag. 3. 324 AFP, “Libye: troisième jour de combats à Tripoli: une chaîne de télévision attaquée”,

15/03/2017. 325 Il Messaggero, “Serraj e Haftar, trattativa per unire la Libia”, 14/02/2017, pag. 12. 326 https://www.acaps.org/country/libya. 327 International New York Times, “EU enlists Libya to stem flow”, 23/02/2017, pag 1. 328 Il Tempo, “Agguato contro Sarraj, Libia nel caos”, 21/02/2017, pag 14; Il Messaggero, “Spari

al convoglio di Serraj, la Libia sempre più nel caos”, 21/02/2017, pag 13. 329 http://www.repubblica.it/esteri/2017/04/21/news/libia_incontro_tripoli-tobruk_a_roma-

163589014/

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delle Nazioni Unite, tra cui il divieto di viaggiare330), e il presidente dell'Alto Consiglio di

Stato di Tripoli, Abderrahman al-Swehli. Il Generale ha infatti respinto la proposta algerina

per una soluzione alla crisi libica, illustrata da Abdelkader Messahel, ministro per il

Maghreb, l'Unione africana e la Lega araba, che a Tripoli ha incontrato il premier al-Serraj

al termine di un viaggio che lo ha portato anche a Baida e a Bengasi, nell'Est, quindi a

Zintan, Misurata e appunto Tripoli, nell'ovest. La proposta illustrata da Messahel

prevedeva la creazione di un "Consiglio supremo" composto per Tobruk dal presidente

del Parlamento Aghila Saleh e dallo stesso Haftar, per Tripoli dal premier al-Serraj e dal

presidente dell'Alto consiglio di Stato Abderrahman al-Swehli, con il compito di

sovrintendere un governo di unità nazionale rappresentativo di tutte le regioni e di tutte

le parti politiche.

Al di là degli schieramenti politici riconosciuti, la questione fondamentale è che i gruppi

armati sono tra i 1.000 e i 1.700331: comprendono milizie, sottogruppi politici con

affiliazioni variabili e di varia natura, jihadisti, signori della guerra locali, gruppi tribali arabi,

berberi, tuareg, tebu332 organizzati su linee tribali e geografiche, ideologiche, sulla base

di agende politiche, convenienza congiunturale o semplicemente a tutela di attività

criminali, dando luogo a conflitti armati multipli333 rendendo la situazione della

popolazione civile ancor più pericolosa e incerta. Le milizie sono leali ai loro comandanti

animati dalle più diverse motivazioni tribali, politiche e finanziarie334. Costituire una milizia

tra il 2011 e 2013 è stato un affare redditizio poiché in quel periodo l’ex Ministro della

Giustizia, Mustafa Abdul Jalil, offriva ricompense ai combattenti per la libertà e ai

rivoluzionari, trasformando chiunque in mercenari o cacciatori di taglie legalizzati: era

sufficiente registrarsi presso i consigli locali militari per firmare i documenti necessari alla

registrazione.

330 http://www.internazionale.it/notizie/khalifa-abo-khraisse-2/2017/04/26/baby-sitter-politici-

libici 331 UK Home Office, “Country Policy and Information Note, Libya: Security and humanitarian

situation, version 2, January 2017, pag. 19-21. 332 https://www.acaps.org/country/libya/crisis-analysis 333 United Kingdom Home Office, “Country Policy and Information Note, Libya: security and

humanitarian situation” version 2, January 2017, pag. 7, 15, 16. 334 Internazionale, “In Libia la nostra vita ormai è in mano alle milizie”, Khraisse, A. K., 5 aprile

2017.

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Il supporto della Russia (con Egitto, Emirati Arabi e Francia335) al Generale Haftar, e al-

Sarraj appoggiato dalle Nazioni Unite e della NATO336 (con Stati Uniti, Regno Unito, Italia,

Algeria Qatar e Turchia)337 potrebbero ricordare i confronti delle war by proxy tipiche della

Guerra Fredda338 se non fosse per l’estrema frammentarietà dei fronti e le ambiguità degli

attori internazionali339.

In Libia si è ormai realizzata una somalizzazione del conflitto, esacerbato dalla contesa

per il petrolio e il timore di vari gruppi jihadisti -, Daesh, Ansar al Sharia (questi due in

competizione per la leadership in Libia340), al Qaeda, salafiti e Fratelli Musulmani –

paventati in particolar modo dall’Egitto341. L’inefficacia dell’utilizzo di proxy forces si è già

rivelata in Yemen, Somalia, Mali, Siria, Iraq342. Questo conflitto comprende sistemi

regionali e attori globali molto potenti che non potranno essere ricondotti a

contrapposizioni locali e localmente gestite.

Solo a seguito delle forti pressioni da parte di Washington, Mosca, degli Emirati Arabi e

dell’Egitto il Generale Haftar ai primi di maggio del 2017 ha incontrato al Sarraj proprio

ad Abu Dhabi343, per chiarire le sue posizioni negoziali: creazione di un consiglio

presidenziale, unificazione dell’esercito sotto il controllo del Generale, elezioni nel 2018

e lo scioglimento di tutte le milizie-curiosamente decisione e attività non in potere dei due

contendenti. Le rivelazioni della stampa hanno alterato gli equilibri a Tripoli e Misurata344,

che hanno visto nell’incontro un’intesa, e quindi reagito.

L’attacco del 18 maggio da parte di una milizia di Misurata (Misratan Third Force) contro

la base aerea di Brak Al-Shati345 – 600 km a sud di Tripoli – ha provocato almeno 60

335 International Crisis Group, 2016, op. cit., pag. 27 : “In the first half of 2016, France gave his

forces intelligence support in Benghazi, helping them regain near-complete control over the city. Covert and unacknowledged until late July 2016, when anti-Haftar forces downed an army helicopter carrying three French officers, France’s support for the general significantly weakened his Benghazi Revolutionaries Shura Council foes, thereby both strengthening his army’s claim in the east and his leadership credentials, even as he sought to undermine the Presidency Council.”

336 Avvenire, “La Libia chiede aiuto, la Nato interverrà”, 17/02/2017, pag. 20. 337 ICG, 2016, op. cit. pag. 34. 338 Generale Thomas D. Waldhauser, US AFRICOM, Senate Armed Services Committee,

March 9, 2017. 339 ICG, op. cit., pag. 28: “…far from showing unity on the way forward, international actors

pursue diverging objectives, including by giving or pledging military support to various forces only superficially tied to any national army or political oversight”.

340 https://www.criticalthreats.org/analysis/backgrounder-fighting-forces-in-libya. 341 https://www.criticalthreats.org/analysis/backgrounder-fighting-forces-in-libya . 342 https://www.criticalthreats.org/analysis/ignoring-history-americas-losing-strategy-in-libya. 343 http://www.lastampa.it/2017/05/02/esteri/al-serraj-incontra-il-generale-haftar-ad-abu-

dhabi-sgtiWnDGM7muclaebfpJeJ/pagina.html. 344 La Prealpina, “Libia di nuovo sull’orlo del precipizio”, 13 maggio 2017. 345 Il Messaggero, “Libia, è crisi Haftar-Sarraj. Roma pressa Ciad e Niger”, 20 maggio 2017.

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morti (134 secondo Sky News Arabiya), la dichiarazione di Haftar di vendetta per i martiri

del Battaglione 12, e ha dato inizio ad una nuova escalation di violenza346

compromettendo il risultato del difficile primo incontro Sarraj-Haftar al Cairo il 2 maggio,

che non ha ancora avuto alcun seguito concreto nel processo di pacificazione.

346 http://www.un.org/apps/news/story.asp?NewsId=56803#.WSa4BP7ouvE.

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7. CONCLUSIONI In breve il problema degli interventi umanitari e della Responsibility to Protect è che non

sono entrati a far parte del Diritto Internazionale propriamente detto. La ragione di questo

è la discrezionalità e l’arbitrarietà che nella prassi sono state applicate347. I principali oppositori di questa teoria ricordano come il diritto all’auto-determinazione, i

maltrattamenti, le torture, il numero di rifugiati-tutti argomenti ampiamente tuttora

utilizzati-fossero richiamati in una lettera al Primo Ministro Chamberlain dal Cancelliere

del Reich Hitler, giustificazioni addotte per l’intervento in Austria e Cecoslovacchia348.

Dalla parte opposta teorici come Bettati e Kouschner sollevano il quesito “dovremmo

lasciarli morire così?”. L’opportunismo della ragion di stato non è sfuggita alla Corte

Internazionale di Giustizia nel 1986 nel caso Nicaragua vs. United States che ha quindi

preso una posizione ben precisa349.

Questo tipo di interventi, in realtà, ha un pretesto univoco che è servente per molteplici

usi350: stabilizzare la sicurezza regionale, assicurarsi il continuo flusso di materie prime e

risorse energetiche, mantenere la credibilità dell’organizzazione che interviene,

fronteggiare un’opinione pubblica che richiede un intervento a ridosso di un periodo

elettorale incerto per il governo in carica, limitare il flusso migratorio. Si intrecciano, infatti,

manipolazione politica, internalizzazione sociale, burocrazie politicizzate, lobbies

economico-finanziarie.

Il problema reale, semmai, non è tanto la giustificazione all’intervento umanitario e la

sostenibilità legale del R2P, bensì cosa succede dopo.

Il Kosovo ha infine dichiarato l’indipendenza unilateralmente, quel che rimaneva della ex-

Yugoslavia si è completamente dissolto, Omar al Bashir è rimasto saldamente al potere

a Khartoum nonostante i crimini che gli sono stati contestati in merito al Darfur, la Libia

permane in uno stato di anarchia ancor più grave rispetto al periodo pre-2011.

Il problema del “durante” è che spesso si confonde la protezione dei civili con l’implicito

scopo politico di rovesciare il governo, questione che si riflette in maniera drammatica sul

“dopo”.

347 R. Goodman, “Humanitarian Intervention and Pretexts for War”, American Journal of

International Law, Vol. 100, no. 1, January 2006, p. 106-141. 348 Lettera dal Cancelliere del Reich Hitler al Primo Ministro Chamberlain (23 Settembre 1938)

in The Crisis in Czechoslovakia, April 24-October 13, 1938, International Conciliation 433, 433-435, 1938.

349 Military and Paramilitary Activities in and Against Nicaragua, ICJ, 1986, para 268. 350 R. Goodman, p. 131.

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Il pericolo maggiore, in termini di effetti collaterali politico-strategici, rimane in capo agli

stati e all’organizzazione militare che interviene. Cosa farne, dopo, di quel territorio351?

Per quanto la cessazione dei crimini più intollerabili appaia urgente, la mancata

elaborazione di una exit strategy sostenibile si trasformerà sicuramente in una cluster

bomb. In un sistema internazionale basato ancora sul principio di sovranità nazionale,

per quanto possa suonare obsoleto data la prevalenza, e la potenza, di numerosi non-

state actors, l’intervento umanitario si confronta ancora con la questione della

sovranità352, elemento fondamentale sul quale si basano tutti i trattati che includono i

pretesti per il R2P: la convenzione sulla tortura, sul genocidio, il rispetto dei diritti umani,

il diritto dei rifugiati.

Le sfide principali negli interventi umanitari quando si invoca la R2P sono molteplici353: le

legittimità dell’organizzazione che interviene; il fatto che ormai gli interventi siano

percepiti come un confronto tra nord e sud del mondo-sia le Nazioni Unite che la NATO

sono state accusate in questi casi di imporre un neo-colonialismo; il paradosso del

bombardamento umanitario che rappresenta una contraddizione in termini; quello che il

Professor Greppi ha definito “doppiopesismo”354, cioè la discrezionalità nel decidere

d’intervenire o meno ed infine l’aspetto più deflagrante: se in un paese si commettono atti

così gravi come genocidio, pulizia etnica, crimini di guerra e crimini contro l’umanità, è

evidente che fermare semplicemente le violenze contro i civili non sia sufficiente per

ristabilire la pace: nel Rapporto ICISS del 2001, infatti, si faceva esplicita menzione della

responsibility to rebuild, concetto che non è più stato ripreso in seguito.

I paesi BRICS - Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica - a seguito dell’approvazione della

risoluzione 1973 fecero notare che l’applicazione della stessa era estensiva e aggressiva,

nonostante fosse tecnicamente un successo per la teoria della R2P. Il governo del

Brasile355propose infatti la teoria della Responsibility While Protecting, sostanzialmente:

bombardare per fermare i massacri potrebbe andar bene, ma poi? Da questo punto di

vista il caso libico, che tecnicamente ha rappresentato un successo della R2P, è

emblematico.

351 P. Veya, “Libia, il dilemma dell’intervento”, Le Temps, in Internazionale 888, 11 marzo 2011,

p. 15. 352 J.B. Hehir, “Military Intervention and National Sovereignty, Recasting the Relationship”, in

J. Moore et al. Hard Choices. Moral Dilemmas in Humanitarian Intervention, Rowman&Littlefield, Lanham, Maryland, 1998.

353 R. Paris, 2014, op. cit. 354 ISPI, 2011, op. cit. 355 T. Benner, “Brazil as Norm Entrepreneur : The Responsibility While Protecting Initiative”,

Working paper, GPPi, Berlin, March 2013.

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102

Gli interventi umanitari dovrebbero essere rari, guidati da obiettivi precisi, non da crociate

morali, e avere scopi e limiti operativi e temporali definiti. La capacità militare ha il ruolo

ambiguo in politica internazionale di essere una minaccia alla vita e all’ordine ma anche

lo strumento per proteggerli entrambi, talvolta l’estremo e unico.

L’esperienza maturata sinora dalla comunità internazionale indica chiaramente la

necessità di un policy framework che includa istituzioni internazionali, stati e NGOs: è

necessaria una risposta sistemica coerente - politica, legale ed etica. Non si può

rovesciare sull’intervento militare la sola responsabilità di risolvere situazioni politiche

che, con la sola arma diplomatica, non possono assicurare a lungo termine protezione

fisica sostenibile ai civili356.

Nel caso la comunità internazionale decidesse per un secondo intervento in Libia alcuni

elementi fondamentali dovrebbero essere tenuti in seria considerazione:

- se tra gli scopi dell’intervento vi fosse quello di limitare l’approdo di immigrati che

partono dalle coste libiche, questo si può scontrare con il principio di non refoulment;

l’Italia è già stata condannata il 23 febbraio 2012 dalla Corte Europea per i Diritti

dell’Uomo per aver respinto illegalmente dei migranti in Libia nel 2009: il diritto

internazionale dei rifugiati, infatti, si applica anche in mare aperto e con tali pratiche

si è impedito ai migranti di far valere il loro diritto alla richiesta d’asilo; la Corte

d’Appello libica ha respinto la validità dell’accordo siglato con l’Italia il 2 febbraio 2017

e il paese non è parte della Convenzione sui Rifugiati del 1951: un attento esame del

quadro legale in merito al Diritto dei Rifugiati, al Diritto Internazionale Umanitario e al

sistema dei Diritti Umani è essenziale;

- l’intervento in un paese africano di religione prevalentemente islamica da parte di una

coalizione occidentale non sarebbe ben visto né dalla popolazione né da altri paesi: il

coinvolgimento della Lega Araba e dell’Unione Africana è fondamentale; inoltre le

Nazioni Unite tradizionalmente sono restie ad affidare missioni in territori a potenze

ex-coloniali;

- essendo la teoria dell’intervento umanitario e della responsibility to protect non

affermata in diritto internazionale, un solidissimo e inattaccabile quadro legale è una

condizione imprescindibile: una risoluzione del Consiglio di Sicurezza a seguito della

richiesta del Government of National Accord con il consenso delle altre parti; un

SOFA-Status of Force Agreement- dettagliato e negoziato con tutte le parti in causa;

356 J.B. Hehir, Military Intervention and National Sovereignty, in J. Moore, Hard Choices: Moral

Dilemmas in Humanitarian Intervention, Rowman&Littlefield, New York, 1998, p. 29-54.

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103

un Memorandum of Understanding con l’autorità in effettivo controllo del territorio ed

un Military Technical Agreement; un accordo-quadro con le Principali organizzazioni

internazionali coinvolte-UNSMIL, OSCE, EUBAM, agenzie UN e maggiori NGOs che

prevedono un dispiegamento; delle regole d’ingaggio attagliate alla situazione sul

terreno;

- la questione fondamentale da affrontare è l’exit strategy, quali sono gli obiettivi –

soprattutto in termini temporali - che tale missione si proporrebbe.

L’End State357 dell’intervento è il punto di partenza.

357 R. Paris, The Responsibility to Protect and the Structural Problems of Preventive

Humanitarian Intervention, International Peacekeeping, 21:5, 2014, p. 569-603

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104

8. CARTINE a. Risorse energetiche

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105

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106

b. Le forze in campo

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107

c. Centri di detenzione e situazione umanitaria

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108

9. ACRONIMI CCPRs Covenant on Civil and Political Rights, Trattato Internazionale sui Diritti Civili e

Politici

DPKO Department of Peacekeeping Operations, Dipartimento per le Operazioni del

Mantenimento della Pace

EU European Union

IASC Inter-Agency Standing Committee- Comitato Inter-agenzie

ICC International Criminal Court-Corte Penale Internazionale

ICRC International Committee of the Red Cross, Comitato Internazionale della Croce

Rossa

ICTFY International Criminal Tribunal for the Former Yugoslavia

IDP Displaced Person-sfollato

IFRCRC International Federation of Red Cross and Red Crescent Societies-Federazione

Internazionale della Croce e Mezzaluna Rossa

IHL International Humanitarian Law-Diritto Internazionale Umanitario (Convenzioni

di Ginevra e Protocolli addizionali)

IHRsL International Human Rights Law-Diritto Umanitario Internazionale (Bill of Rights

e Convenzioni seguenti)

IOM International Organization for Migration-Organizzazione Internazionale per la

Migrazione

MSF Médecins sans Frontières-Medici Senza Frontiere

NATO North Atlantic Treaty Organization

NGO Non Governmental Organization, Organizzazione Non Governativa

OAS Organization of American States-Organizzazione degli Stati Americani

OAU Organization for African Unity-Organizzazione per l’Unità Africana

OCHA Office for the Coordination of Humanitarian Affairs-Ufficio per il Coordinamento

degli Affari Umanitari

OHCHR Office of the High Commissioner for Human Rights-Ufficio dell’Alto Commissario

per i Diritti Umani

OSCE Organization for Security and Cooperation in Europe

SRSG Special Representative to the Secretary General, Rappresentante Speciale del

Segretario Generale

UDHRs Universal Declaration of Human Rights-Dichiarazione Universale dei Diritti

dell’Uomo

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109

UN United Nations

UNDP United Nations Development Program-Programma di Sviluppo delle Nazioni

Unite

UNGA United Nations General Assembly-Assemblea Generale delle Nazioni Unite

UNHCR United Nations Hugh Commissioner for Refugees, Alto Commissariato per i

Rifugiati delle Nazioni Unite

UNMIK United Nations Mission in Kosovo-Missione delle Nazioni Unite in Kosovo

UNSC United Nations Security Council-Consiglio di Sicurezza

WFP World Food Program-Programma Alimentare Mondiale

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NOTA SUL Ce.Mi.S.S. e NOTA SUGLI AUTORI

Ce.Mi.S.S.358

Il Centro Militare di Studi Strategici (Ce.Mi.S.S.) è l'Organismo che gestisce, nell'ambito e

per conto del Ministero della Difesa, la ricerca su temi di carattere strategico.

Costituito nel 1987 con Decreto del Ministro della Difesa, il Ce.Mi.S.S. svolge la propria

opera valendosi si esperti civili e militari, italiani ed esteri, in piena libertà di espressione di

pensiero.

Quanto contenuto negli studi pubblicati riflette quindi esclusivamente l'opinione dei

Ricercatori e non quella del Ministero della Difesa.

Francesca Citossi

Ufficiale dell’Esercito in Servizio Permanente Effettivo dal 2012,

proveniente dal bacino della Riserva Selezionata, ha

precedentemente conseguito un Dottorato di Ricerca presso

l’Università degli Studi di Bologna in Cooperazione Internazionale,

un Master in Intelligence and International Relations nel Regno

Unito di Gran Bretagna, un Master in Diritti Umani e Intervento

Umanitario. Ha studiato Peace, War and Defence presso la

University of North Carolina at Chapel Hill dopo la laurea in

Scienze Politiche. Ha svolto missioni in Sudafrica, Kosovo, Pakistan, Sudan, Togo, Libano

e Afghanistan con agenzie delle Nazioni Unite, Department of Peacekeeping Operations,

Ministero degli Affari Esteri, Dipartimento della Protezione Civile e ONG: le ultime due

missioni come Ufficiale dell’Esercito in qualità di Political Advisor e Political Analyst.

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