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Intorno al '68. AI servizio del capitale o della rivoluzione? La Triennale occupata e altre considerazioni sul design in Italia tra anni sessanta e settanta* Leonardo Passarelli Nel decennio precedente il '68, era accaduto, come ricordava Ernesto Galli Della Loggia nel 1976, che nel nostro paese" per la prima volta crescenti masse del popolo italiano entrarono in contatto e si familiarizzarono con gli oggetti d'uso quotidiano della produzione capitalistica di serie"'. Tuttavia, se è vero che "questo fat- to significò per le classi popolari un'integrazio- ne senza precedenti nel corpo sociale del pae- se"2, - consentendo a una larghissima parte degli italiani di infrangere quell'orizzonte di in- digenza "fatto di povere cose sempre uguali" che ne avevano caratterizzato la storia secola- re, e a rispecchiarsi, finalmente come acqui- renti, nelle vetrine che l'industria continuava a rifornire a cavallo del 1960 -, è altrettanto in- negabile che nel 1968, in concomitanza con la sopraggiunta crisi economica, fosse ormai evi- dente che il design dovesse rispondere non più soltanto alle esigenze di un consumo che era spesso restato d'élite, ma anche a doman- de collettive, legate all'ambiente, a una pro- gettazione globale del contesto abitativo e la- vorativo, completamente rivoluzionato dall'ur- banizzazione che aveva caratterizzato gli anni precedenti. Nel gennaio del 1966 Tomas Maldonado, in un articolo che aveva come scopo precipuo quello di allargare alcuni orizzonti sul futuro dell'insegnamento superiore, e in particolare dell'insegnamento del design 3 , sottolineava quanto proprio una visione ristretta di design, inteso unicamente quale disciplina rivolta alla progettazione di "cose" non fosse pertinente per spiegare il degrado dell'ambiente circo- stante. Lo studioso si riferiva infatti a una con- cezione allargata che nell'analisi comprendes- se anche i comportamenti: un dato di fatto che esistono non solo 'agenti ambientali ina- nimati' ma anche 'agenti ambientali animati', che esiste non solo un ambiente fisico ma an- che un ambiente determinato dal comporta- mento. [... ) L'ambiente umano è composto sia di cose sia di persone ed anche di menti: non è una mera somma statica di cose e di persone; esistono conflitti fra gli oggetti ed esistono conflitti fra le persone. E cosa an- cor più singolare, molto spesso il conflitto fra gli oggetti è il riflesso di un conflitto esistente fra le persone"'. Il mondo dunque non si mi- gliora, continuava Maldonado, "migliorando gli oggetti che gli appartengono", poiché "Non è vero che gli oggetti mal concepiti so- no gli unici responsabili della corrosione del nostro ambiente. I modelli di comportamento individuale e collettivo prevalenti nella società contemporanea ne sono altrettanto responsa- bili, se non più"5. Il discorso di Maldonado andrebbe già letto nella direzione che avrà la sua docenza, come professore ordinario di Progettazione ambien- tale all'Università di Bologna dal 1976 al 19a4, e cioè di una proposta di allargamento di oriz- zonte in grado di comprendere una realtà più complessa di quella espressa da una visione parcellizzata e settoriale del design. Direzione che, nel suo corso, aveva avuto una tappa fon- damentale nel 1967, quando egli assunse la presidenza dell'lCSID (International Council of Societies of Industriai Design) e si era fatto so- stenitore di una progettualità intesa quale chia- ve di lettura della realtà prima che processo creativo individuale, non fondata, dunque, sul- l'autonomia del mestiere". 89

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Intorno al '68. AI servizio del capitale o della rivoluzione? La Triennale occupata e altre considerazioni sul design in Italia tra anni sessanta e settanta*

Leonardo Passarelli

Nel decennio precedente il '68, era accaduto, come ricordava Ernesto Galli Della Loggia nel 1976, che nel nostro paese" per la prima volta crescenti masse del popolo italiano entrarono in contatto e si familiarizzarono con gli oggetti d'uso quotidiano della produzione capitalistica di serie"'. Tuttavia, se è vero che "questo fat­to significò per le classi popolari un'integrazio­ne senza precedenti nel corpo sociale del pae­se"2, - consentendo a una larghissima parte degli italiani di infrangere quell'orizzonte di in­digenza "fatto di povere cose sempre uguali" che ne avevano caratterizzato la storia secola­re, e a rispecchiarsi, finalmente come acqui­renti, nelle vetrine che l'industria continuava a rifornire a cavallo del 1960 -, è altrettanto in­negabile che nel 1968, in concomitanza con la sopraggiunta crisi economica, fosse ormai evi­dente che il design dovesse rispondere non più soltanto alle esigenze di un consumo che era spesso restato d'élite, ma anche a doman­de collettive, legate all'ambiente, a una pro­gettazione globale del contesto abitativo e la­vorativo, completamente rivoluzionato dall'ur­banizzazione che aveva caratterizzato gli anni precedenti. Nel gennaio del 1966 Tomas Maldonado, in un articolo che aveva come scopo precipuo quello di allargare alcuni orizzonti sul futuro dell'insegnamento superiore, e in particolare dell'insegnamento del design3

, sottolineava quanto proprio una visione ristretta di design, inteso unicamente quale disciplina rivolta alla progettazione di "cose" non fosse pertinente per spiegare il degrado dell'ambiente circo­stante. Lo studioso si riferiva infatti a una con­cezione allargata che nell'analisi comprendes­

se anche i comportamenti: "È un dato di fatto che esistono non solo 'agenti ambientali ina­nimati' ma anche 'agenti ambientali animati', che esiste non solo un ambiente fisico ma an­che un ambiente determinato dal comporta­mento. [... ) L'ambiente umano è composto sia di cose sia di persone ed anche di a~veni­menti: non è una mera somma statica di cose e di persone; esistono conflitti fra gli oggetti ed esistono conflitti fra le persone. E cosa an­cor più singolare, molto spesso il conflitto fra gli oggetti è il riflesso di un conflitto esistente fra le persone"'. Il mondo dunque non si mi­gliora, continuava Maldonado, "migliorando gli oggetti che gli appartengono", poiché "Non è vero che gli oggetti mal concepiti so­no gli unici responsabili della corrosione del nostro ambiente. I modelli di comportamento individuale e collettivo prevalenti nella società contemporanea ne sono altrettanto responsa­bili, se non più"5.

Il discorso di Maldonado andrebbe già letto nella direzione che avrà la sua docenza, come professore ordinario di Progettazione ambien­tale all'Università di Bologna dal 1976 al 19a4, e cioè di una proposta di allargamento di oriz­zonte in grado di comprendere una realtà più complessa di quella espressa da una visione parcellizzata e settoriale del design. Direzione che, nel suo corso, aveva avuto una tappa fon­damentale nel 1967, quando egli assunse la presidenza dell'lCSID (International Council of Societies of Industriai Design) e si era fatto so­stenitore di una progettualità intesa quale chia­ve di lettura della realtà prima che processo creativo individuale, non fondata, dunque, sul­l'autonomia del mestiere".

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1. Designers are in lave with design ... , illustrazione pubblicata a tutta pagina su "Casabella", n. 354, novembre 1970

È indubbio che in Italia il design dell'arreda­mento, servendoci di un ternine riduttivo ma sufficientemente chiaro da includere tutte le tipologie di oggetti che costituiscono in nostro habitat, ha avuto sempre un ruolo centrale, per quanto non siano mancati a partire dagli anni trenta del Novecento esempi in settori più pro­priamente industriali (quali la progettazione di locomotive, macchine per scrivere, automobi­li, apparecchiature elettroniche)'. È in relazione a questa caratteristica innegabile che è risulta­to più facile per molti esponenti, sia dal punto dell'analisi critica sia progettuale, soffermarsi sul valore simbolico degli oggetti che si collo­cano nella nostra sfera esistenziale. In tale

senso non appare così fuori luogo o anti-stori­co il fatto che proprio a metà degli anni ses­santa si sia cominciato a guardare con interes­se da parte di alcuni progettisti alle sollecita­zioni che arrivavano dal mondo dell'arte, mag­giormente connessa alla sfera simbolica e, in quel periodo, a quella delle comunicazioni di massa. Come ha sottolineato Andrea Branzi, riferendosi alla XIII Triennale di Milano che ave­va per tema "II tempo libero": "il nuovo be­nessere aveva scatenato un'ondata di consu­mi e di comportamenti che realizzavano fuori dai luoghi di lavoro un'inattesa rivoluzione. Per la prima volta non erano la fabbrica e la produ­zione il nodo del contendere, e neppure la loro corretta applicazione dentro la società civile. Il tempo libero, rimasto fino ad allora un interval­lo neutro tra le fasi del lavoro, era diventato al­l'improvviso una sorta di contro-sistema pro­duttivo, un'energia di consumo, di conoscen­za, di trasformazione del mondo"a.

Irrompe la rivoluzione: la XIV Triennale di Milano del 1968

You say you want a revolution Well you know we ali want to change the world. (. .. )

But when you talk about destruction, Don 't you know that you can count me out. (J. Lennon, P. McCartney, Revolution, 19689

)

Gli anni sessanta del Novecento videro sicura­mente accanto al diffondersi di una cultura di massa il parallelo affacciarsi di quella giovanile che, per la prima volta nella storia in maniera

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2. Enrico D. Bona, Toni Nicolini, fotografia pubblicata per illustrare l'articolo di Carlo Guenzi, La Triennale occupata, in "Casabella", n. 325, aprile-maggio-giugno

così netta, cercava di differenziarsi da quella della generazione che l'aveva preceduta. A pa­rere di Branzi "Questo tipo di febbrile energia giovanile andava a coprire il vuoto creatosi con la crisi delle ideologie e del razionalismo mo­derno. 1. .. 1La liberazione sessuale, comporta­

mentale e politica, andava a occupare lo sce­nario problematico di un'Europa che entrava per la prima volta nella logica del consumismo di massa"'o. In tal senso si può facilmente comprendere la portata del messaggio cantato in Revolution

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3. Paolo Lomazzi, Renato D'Urbino, Jonathan De Pas, Tunnel semitrasparente, raccordo in PVC tra il Palazzo dell'Arte e il padiglione nel parco, XIV Triennale di Milano, 1968, in "Casabella", n. 333, febbraio 1969

dai Beatles, i quali, recependo un malessere che, come noto, era esteso a tutto il pianeta, rispondevano al desiderio di "rivoluzione" dif­fuso tra i giovani proponendo un modello di azione moderato e pacifista. In Italia, nel mese di marzo, sulle pagine di "Casabella", anticipando i Beatles, l'allora di­rettore Giovanni Klaus Koenig nell'editoriale di apertura del numero di marzo della rivista rico­nosceva "il motivo ben nobile delle rivolte de­gli studenti "", ma ammoniva anche che "Per un processo inconscio di 'identificazione con l'aggressore', sinceri antifascisti nati negli an­ni a cavallo della grande guerra hanno spesso assunto i caratteri psicologici del 'segretario

federale' da essi tanto fortemente odiato. Ana­logamente una parte dei giovani reagisce alla oppressione dei sistemi odierni con la violenza e l'intolleranza che furono tipiche di una gene­razione sciagurata"". La nota di Koenig, incen­trata principalmente sulla situazione universi­taria italiana ("lottare contro il 'potere accade­mico' per ottenere 'tutto il potere agli studen­ti' è, ripetiamolo, pura rissa fra violenti "'3),

esce allo scoperto e mette direttamente il dito nella piaga quando invita a riflettere sul "fatto che nelle facoltà di architettura italiane si guar­da oggi con estremo sospetto, se non con aperto disprezzo, all'industriai design. 1... 1 [Ploiché 'industria = capitale', se ne deduce che: 'designer = servo sciocco del capitale' "14.

Equazioni pesanti che il direttore di "Casabel­la" tenta di smentire ricordando come proprio in quei mesi la Hochschule fur Gestaltung di Ulm "si trova ad essere assassinata proprio dalle strutture capitalistiche che dovrebbero essere le tenere balie dell'industriai design"15. La situazione era diventata esplosiva in Italia e a dimostrazione di quanto fosse pensiero cor­rente quello racchiuso nelle equazioni citate da Koenig sta, nel numero successivo di "Casa­bella", l'immagine dei manifestanti davanti al­la Triennale di Milano occupata, con un cartel­lone che recita "Designers da contenitori di Napalm"'6. Per la XIV Triennale di Milano, dopo le due edi­zioni precedenti dedicate alla "casa e alla scuola" e al "tempo libero" 17, il Centro Studi e la Giunta esecutiva'8 avevano scelto come te­ma "II grande numero"'9. L'esposizione, aperta al pubblico il 30 maggio alle ore 18 per essere subito occupata alle

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18,30 da studenti, designer e artisti, divenne sede di assemblee autogestite, per essere in­fine sgomberata dalla polizia 1'8 giugno e final­

mente riaperta il 23, con una giunta parzial­mente dimissionaria'o Una delle conseguenze più tristi dell'occupazione fu che la program­

mata grande mostra "Nuovo Paesaggio" non venne più realizzata". Secondo Maurizio Vitta, l'irruzione da parte dei contestatori rappresentò il punto culminante di una crisi annunciata dell'istituzione, la quale,

non va dimenticato, negli anni si era trovata a occupare un territorio "al confine fra ipotesi teorica e proposta operativa immediatamente

verificabile nella realtà", una collocazione, dunque, "resa ancor più complessa dal conse­guente rapporto, in gran parte non mediato,

con cui tale materia è situata rispetto alla pro­

duzione e al consumo, e quindi a tutto il tes­suto socio-economico e politico caratteristico della nostra società "22. La riflessione di Vitta, tra l'altro, muoveva dalle stesse dichiarazioni

contenute nei Documenti dell'occupazione che il numero della rivista "L'uomo e l'arte",

su cui appunto si esprimeva lo studioso, ebbe il merito di raccogliere e pubblicare nell'estate del 19712'. In uno di essi, redatto la notte del 31 maggio 1968 dalla "Commissione politi­ca", si legge che gli occupanti, autodefinitisi

"operatori culturali", "hanno preso coscienza che la loro attività, finché si svolge nell'ambito di organizzazioni di lavoro capitalistiche, sog­giace sempre ai processi di mercificazione"'4; stabilito questo assunto, gli occupanti aggiun­

gono, inoltre, che "La Triennale, specificata­mente, è un istituto caratterisco il cui lavoro tecnico, artistico e intellettuale, è assunto e te­

nuto a proporre 'modelli' per la produzione di merci "'5, relegando così l'identità della Trien­

naie a esclusiva promotrice di modelli adatti al­la produzione e al consumo capitalistici. Come nella scuola in generale e in altri luoghi di pro­duzione e diffusione di cultura, quali la Bienna­

le di Venezia, che si sarebbe aperta quell'anno per essere anch'essa occupata, anche nella Triennale si riscontrava, secondo gli estensori del documento, "la dipendenza della ricerca dallo sviluppo tecnologico", sempre finalizzato

essenzialmente a una produzione che incre­menta i consumi a favore del capitale; in tal modo la ricerca stessa si trovava a essere ri­

dotta ad "area di scarico di cui il sistema ha bi­sogno per incrementare il livello produttivo e consumistico"'6. Per Carlo Guenzi, che ne die­de un'ampia lettura su "Casabella" nel feb­

braio del 1969'7, la crisi della Triennale era es­senzialmente legata da un lato allo statuto del­l'ente, che prevedeva che fossero i partiti poli­tici a nominare il Consiglio di amministrazione,

spesso composto da persone che intendeva­no il proprio mandato solo come momento di gloria personale e non come terreno di lavoro

concreto'·, e dall'altro alla sempre maggiore distanza che, dal dopoguerra, le rassegne ave­vano mostrato nei confronti delle reali proble­matiche legate alla società contemporanea,

mostrando al contrario, come nel caso della XIV edizione, "una ideologia basata sul consu­mo dell'immagine, metaforica, elusiva, anche superficiale e vanamente formalistica "'9. Que­

ste analisi, tuttavia, erano quanto di più distan­te dalle drastiche prese di posizione degli oc­cupanti, i quali in un altro documento redatto in

quei giorni scrivevano: "Gli operatori culturali

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realmente progressisti devono ridurre al mini­mo qualsiasi rapporto personale con le strut­ture economiche del sistema (gallerie private d'arte, critici di gallerie, mercanti, industrie del­l'edilizia e deII'arredamento, teatri stabili ... )"30.

La contestazione ai sistemi culturali vigenti, del resto, era inevitabile che risultasse più vi­rulenta proprio nell'ambito del design, il quale per sua natura, e ancor più della dimensione artistica tout court, si colloca a cavallo delle "istanze della ricerca e le esigenze del consu­mo, tra le necessità prioritarie della collettività e la loro incidenza nel momento progettuale e nell'insieme della produzione industriale "3'. Con queste parole provava a motivare la crisi dell'istituzione milanese Davide Boriani, solle­citato da una serie di domande che, pubblica­te sempre nel 1971 dalla rivista" L'uomo e l'ar­te", erano state poste ad alcuni personaggi connessi con la Triennale. Sempre Boriani, nel­la medesima intervista, affermava che il de­sign aveva disatteso molti problemi connessi a una progettazione integrale del microambien­te così come alla formazione estetica delle masse, preferendo misurarsi ancora su un ter­reno i cui frutti erano "prodotti di un artigiana­to in via di industrializzazione proliferante e miope, che si concreta in arredamenti fanta­scientifici, non commisurati alle dimensioni della quasi totalità delle abitazioni italiane, nel­le ennesime variazioni su lampade e poltrone, in mobili singoli il cui prezzo equivale a sei me­si del salario di un operaio"32 Se oggi siamo persuasi"che il benessere si pa­gava con la spirale perversa del consumismo, ma restava pur sempre un benessere, quan­tunque materiale"33 e che molti degli esempi

"alti" del disegno industriale italiano funziona­rono in qualche modo da modello, fornendo i "tipi" per tutta una serie di riprese formali spes­so a "bassa definizione", ma che ugualmente favorirono un rinnovamento stilistico dell'arre­damento delle case italiane e dello stile di vita dei loro occupanti, la lettura che si dava di que­sto fenomeno, nei giorni che videro l'occupa­zione della Triennale, era alquanto diversa. Sempre Boriani, infatti, in tal senso ammoniva che la linea maestra del design italiano si era concentrata "nell'esibizione ridondante di tut­ta una serie di oggetti simbolo di appartenen­za a strati di privilegio, proposti come emblemi irraggiungibili alla gran massa dei consumatori ai quali invece sono riservati tutti quei sotto­prodotti che attraverso stratificazioni successi­ve alimentano il mercato, giungendo fino alla infame paccottiglia del kitsch nostrano che il sistema destina alle classi meno abbienti"34. Nel frattempo era accaduto che, sia l'oggetto d'élite, sia la suddetta paccottiglia, si fossero sempre più caricati di valori simbolici che non si esaurivano unicamente nella validità funzio­nale dell'oggetto, bensì anche in quella forma­le, che divenne presto, col mutare delle mode, centrale. Vitta ha tracciato bene quel muta­mento di status, da funzionale a primariamen­te rappresentativo, occorso all'oggetto di de­sign a cominciare già dagli anni cinquanta del Novecento: "Questo arricchimento semanti­co dell'oggetto d'uso e la sua capillare diffu­sione in ogni strato sociale fecero sì che esso perdesse gran parte dell'eccezionalità in pre­cedenza attribuita alla sua sostanza tecnica"35. Il benessere economico maggiormente diffu­so nel paese ebbe come conseguenza che il

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concetto stesso di '''consumo' apparve muta­to: esso comprese non solo le modalità di frui­zione dell'oggetto, il suo esaurirsi nell'utilità della funzione, ma anche la sua accelerata ob­solescenza, dovuta non tanto al deperimento fisico delle componenti, quanto al venir meno della sua insostituibilità formale. [, ..1La quan­tità di 'cose' prodotte e immesse sul mercato fondò i criteri concorrenziali sulla loro identità formale, la quale si fece di necessità instabile; precaria, mutevole"36. Vitta ricorda che fu Gilio

Dorfles per primo a dar conto dell'accentuata funzione simbolica che l'oggetto andava sem­pre più reclamando37

: "l'idolo tecnologico si è in certo senso istituzionalizzato, ha perduto il carattere di 'totem' e anche quello di tabù, è sceso dal piedistallo magico su cui troneggia­va agli albori del nostro secolo ed è divenuto familiare e quotidiano; ha perduto alcune delle sue connotazioni magiche e awenieristiche,

senza peraltro perdere le sue qualità mitopoie­tiche"38. Alle peculiarità tecniche e di uso, dun­que, si era affiancata, fino a prevalere, tutta una serie di connotati simbolici, altrettanto pe­culiari deII'oggetto, che lo presentavano al mondo e ne costituivano una rappresentazio­ne che si estendeva sino al possessore che, con esse, esprimeva la sua identità. C'erano, allora, i presupposti affinché l'artista e il designer si considerassero ancora capaci di trasformare l'esistenza collettiva? Era possibi­le individuare, non solo teoricamente ma an­che, e soprattutto, nei fatti, una strada percor­ribile che portasse ad agire nella società? E quale ruolo poteva avere la tecnologia che per­meava i processi economici che regolavano una società che aveva superato il periodo del­la ricostruzione bellica e si era awiata verso uno sviluppo nella direzione del neocapitali­smo dei paesi occidentali?

4. The Studio Marconi at Eurodomus 2, copertina di "Domus", n. 463, giugno 1968. In evidenza la poltrona Blow di Paolo Lomazzi, Roberto D'Urbino, Jonathan De Pas, Carla Scolari

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5. Archizoom Associati, Superonda, divano componibile in due pezzi, poliuretano rivestito in sky, poltronova, 1967. in "Domus", n. 455, ottobre 1967

Tornando, per l'ultima volta, all'intervento di Boriani, questi interpretava come velleitario il tema del "Grande numero" poiché scorgeva nelle motivazioni che ne avevano portato alla scelta l'assenza di qualsiasi implicazione politi­ca, presupposto essenziale secondo l'artista per" dare una base ideologica comune alla se­rie eterogenea degli interventi, rimasti, nella quasi totalità, a livello di metafora spettacolare e di allusione generica ai problemi del 'grande numero', considerato evidentemente un pre­testo cui adeguarsi frettolosamente"39.

Eppure l'edizione del 1968 della Triennale, al di là della generale contestazione politica che era in atto in Italia e delle indubbie inefficienze ge­stionali e di programmazione dell'ente, ospitò alcune proposte estremamente interessanti e anticipatrici della riflessione architettonica che sarebbe seguita proprio dopo il '68. In partico­lare, si vuole ricordare la presenza degli inglesi Archigram40

, così come del gruppo costituito da Paolo Lomazzi, Renato D'Urbino e Jonathan De Pas, autori del Tunnel in PVC semitrasparente, lungo 60 metri e prodotto da Zanotta4

', che ser­viva da raccordo tra il Palazzo dell'Arte e il padi­glione del Parco, nel quale "pur nel disordine, idee e invenzioni, c'era persino la contestazio­ne più pertinente e diretta (nel 'centro di cospi­razione eclettica' degli Archizoom) "4'. Il "cen­tro", appena citato, era costituito da una tenda che serviva a recintare e proteggere un "luo­go" più che uno spazio, nel quale più che pre­sentare nuovi oggetti d'uso, progettati con lo scopo di modificare l'ambiente, gli Archizoom intendevano fare leva principalmente sulla sfe­ra immaginativa dell'uomo, riattivando le sue facoltà percettive e sensoriali. In tale senso si possono interpretare le questioni da essi solle­vate sulla "capacità di un oggetto di porsi all'in­terno dell'ambiente, naturale o manufatto, e di stabilire con questo un rapporto di continuità o di crisi", sul "grado di tolleranza con cui un og­getto si offre all'uso, ed esaurisce o meno in esso le ragioni della propria esistenza"43. La so­luzione praticata dal gruppo è allora quella di portare "tali tipi di rapporto al limite, eliminando da una parte qualsiasi tipo di correlazione am­bientale (sia di omogeneità che di frattura) e dal­l'altra sospendendo la individuazione di un uso

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specifico, in pratica" non facendo "altro che in­terrompere intenzionalmente lo scambio delle idee" fra loro "e l'utente, creando nel flusso della cultura un bacino chiuso dove cessano i controlli critici e linguistici abituali, le verifiche democratiche. AI concetto di spazio, come struttura dello scambio reciproco, del contatto, si sostituisce quello di un 'luogo' appartato e ben recintato, possibilmente fresco, dove più agevole risulta coltivare gli atti dell'intelletto, tramare le co­spirazioni: qui sedimentano e prendono forma le componenti eclettiche della nostra cultura, le grandi stratificazioni dell'lmpero"44. Anche Joe Colombo collaborò attivamente al­la Triennale del 1968; non solo vi presentò i suoi ultimi progetti - dei quali si segnalano la poltrona Sandwich, per Cassina, che in pochi semplici gesti si tasforma in sdraio, e il "siste­ma" di contenitori, sedili imbottiti, poltrona, di­vano, letto e apparecchi per l'illuminazione dis­tribuito da La Rinascente -, ma soprattutto di­segnò per Cassina gli elementi componibili che combinati davano vita a sedili o a piani d'appoggio neWarea ristoro e relax (allestita con Giorgio Ceretti e Pietro Derossi), creando "un paesaggio che non è mai inerte, deserto o popolato"·5 che fosse. Appare quindi chiaro che anche nel caso di Colombo, pur con la no­ta ispirazione "fantascientifica", la ricerca si in­dirizzasse verso ipotesi di progetto non stati­che, non fissate da un rigore fine a sé stesso, bensì nella direzione di un continuo adegua­mento alle nuove esigenze e occorrenze del­l'abitare, allo spostamento e alla mutazione. Aspetti che alimentavano la ricerca anche di Superstudio (Adolfo Natalini, Cristiano Toraldo

6. Archizoom Associati, Superonda, divano componibile in due pezzi, poliuretano rivestito in sky, poltronova, 1967, in "Domus", n. 455, ottobre 1967

di Francia, Piero Frassinelli, Roberto Magrisl. formatosi a Firenze nel 1966, e parimenti ad Archizoom distintosi per l'attività teorica. La fuoriuscita dal sentiero tracciato da una pro­gettazione principalmente segnata dalle logi­che dell'industria favorì la nascita di un design che si associava all'invenzione e persino all'e­vasione: "Design d'evasione, al di sopra dei giochi di parole e di facili assonanze con politi­che di disimpegno, e l'attività progettante e operativa nel campo della produzione indu­striale che assume a metodo la poesia e l'irra­zionale, e che cerca di istituzionalizzare la con­tinua evasione dall'orrido quotidiano proposto dagli equivoci del razionalismo e funzionali­tà"46. Se un oggetto si caratterizza per la com­presenza di una funzione pratica e una con-

GLI ARCHIZOOM SOno mollo conlento che lOCchl. dagli eftal1 oomplic:uj dlllli••1... me di 'a,. Il discorso per qUMU 51- ma:Joru. dagli appl8usl che polretJ.. gnori ArchlZDOlD e ptI', I loro pro- ben> Inc.he IlIccoglierli con '.c.Jltl1

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templativa, il design d'evasione intende porre l'accento sul secondo aspetto: "Così finiscono i miti ottocenteschi della ragione che spiega tutto e le mille variazioni sul tema della seg­giola a quattro gambe, e i profili aereodinamici e le stilizzazioni dei sogni"". Per sollecitare l'a­spetto contemplativo, Superstudio propone di progettare "oggetti a funzionamento poetico [... 1plurisignificanti (ambigui), oggetti a funzio­namento universale, e ogni fruitore li usa co­me vuole"4S, quindi, quanto di più distante da un artefatto che dichiari in maniera inequivo­cabile, attraverso la sua forma, la sua funzione. In tal modo l'oggetto, inserito in un contesto

7. Superstudio, Sofo, seduta componibile in poliuretano tagliato e rivestito in tessuto, base in resina, Poltronova, 1968

qualsiasi, si caricherebbe di molteplici possibi­lità di utilizzo, forzando chi se ne servisse esclusivamente per le sue funzioni pratiche a un confronto anche fenomenologico con es­so, in quanto dotato del "maggior numero possibile di proprietà sensoriali (cromatiche, tattili, ecc.), Icaricol di figuratività e immagini, nell'intento di destare l'attenzione, di richia­mare l'interesse, di costituire una dimostrazio­ne e di ispirare azioni e comportamenti "49. Su­perstudio non aspirava, allora, a "fornire e mo­dellare tutto l'ambiente umano", ma a indica­re "solo un modo di agire 'ora e qui! su una si­tuazione esistente "50.

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Oggi, dopo che son passati più di quarant'anni

e il '68 è stato debitamente celebrato, si può affermare che tra le diverse vie che il design

italiano, pesantemente messo sotto accusa

dalla contestazione, seppe percorrere, quelle che sembrarono porsi in maniera meno setta­

ria e alla fine risultarono, se non vincenti, per lo

meno più interessanti, furono quelle che die­

dero vita ali'esperienza del radica/ desigt1". I cui protagonisti, curiosamente, provenivano

proprio da quell'ambito che faceva maggior­

mente riferimento a linguaggi "elitari", com­

promessi con l'artigianato e la storia dell'arte.

"Già nel 1966 - come scrive Branzi - si erano formati in varie città d'Italia (Firenze, Torino,

Milano, Napoli) dei gruppi di giovani e meno

giovani architetti che operavano una sorta di

pop design; soprattutto a Firenze il Superstu­dio, gli Ufo e gli Archizoom Associati, attorno

alla presenza in città di Ettore Sottsass, di Fer­

nanda Pivano (traduttrice della beat generation americana) e di Umberto Eco 1... 1. stavano for­

mando un'area di ricerca di avanguardia che

più tardi, nel 1969, Germano Celant chiamò ra­

dica/ design. 1.. :J Tra il 1966 e il 1968 ciascuno

operò su linee di ricerca mosse da una sensi­bilità che nasceva fuori dai contesti tradiziona­

li della disciplina, e più vicina ai fronti più avan­

zati dell'arte, della nuova musica, della moda, cercando di introdurre in maniera critica il de­

sign nella civiltà dei mercati di massa.

Il movimento radicale si poneva come una so­glia, come un passaggio epocale, che vedeva la

fine del contesto nel quale avevano operato le

avanguardie storiche, e l'aprirsi di un'epoca nella

quale è l'intera società ad adottare una logica di avanguardia, bruciando definitivamente ogni sua

norma, ogni radice, vivendo di scandali e di tec­nologie avanzate"52. Nella sua analisi, Branzi av­

verte giustamente come molti dei gruppi citati, così come personalità singole nel caso di Joe

Colombo, awertissero la necessità di uscire dal­

le regole della disciplina per aprirsi con i loro pro­

getti al contesto urbano, anche se la difficoltà di

agire sulla realtà concreta li spinse a utopie irrea­lizzabili.

Branzi, come è noto, è stato un testimone diret­

to di quella fase storica che lo vide fondare a Fi­renze nel 1966, insieme a Gilberto Corretti, Pao­

lo Deganello e Massimo Morozzi, Archizoom As­

sociati (nel 1968 si aggiunsero Lucia e Dario Bar­tolini). Se si va a rileggere la breve introduzione

che Sottsass scrisse in apertura del servizio che

"Domus", nell'ottobre del 1967, dedicava al

gruppo fiorentino, si scorge già una posizione più

articolata e chiaroveggente rispetto agli slogan contro il design che si sentiranno durante l'occu­

pazione della Triennale. Con la chiarezza esposi­

tiva che lo ha sempre distinto Sottsass scrive: "i loro prodotti mi sembrano molto efficaci nel get­

tare il panico tra gli interessati, in questo paese

di cose della cultura e delle ideologie, ben orga­

nizzate, stratificate, sedimentate e stereotipate. Qualcuno deve sempre gettare il panico se si

vuole che il senso delle cose sia continuamente

rivelato, se si vuole che le ore trascorrano in pre­

sa diretta con noi stessi o con quello che ci cir­conda, e anche se si vogliono rompere e rime­

scolare un po' gli organismi del potere, quelli che si sistemano pian piano, velenosamente, nei

momenti di calma, come il grasso si infiltra in

mezzo ai muscoli e intorno al cuore quando uno

sta seduto troppo tempo e prende la macchina

anche per andare dal tabaccaio, ecc., ecc.

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8. Piero Gatti, Cesare Paolini, Franco Teodoro, Sacco, poltrona, involucro in PVC, palline di polistirolo, rivestimento sfoderabile in nailpelle. Zanotta, 1968

Guesta volta il panico lo getteranno gli Archi­zoom che sono dei bravi ragazzi abbastanza cat­tivi per non lasciarsi inibire dai vecchi discorsi,

dagli affari complicati, dalle sistemazioni, dagli

applausi che potrebbero anche accoglierli con facilità: cattivi al punto da cercare altri applausi e

altro pubblico e da sopportare le inevitabili risa­

te, le scrollate di spalle, gli occhi perplessi, i 'non ci capisco niente' oppure i 'sono degli esibizio­

nisti' e questo genere di cose"". L'articolo di Sottsass era seguito dalla riprodu­

zione di alcuni lavori del gruppo, accompagnati da una dichiarazione il cui tenore, tra il goliardi­co e l'iconoclasta, ben esprime una nuova vi­

sione del design. A cominciare dalle illustrazio­

ni che mostrano il divano Superonda collocato in diversi contesti, persino all'aperto su un pra­to verde. Da cui si scorge subito che l'orizzonte

di riferimento, e i valori semantici che ne con­

seguono, sono notevolmente diversi da quelli

che avevano caratterizzato la generazione di designer che li aveva preceduti. Nei loro ogget­

ti appaiono evidenti i riferimenti al mondo del­l'arte contemporanea di quegli anni, piuttosto

che a un orizzonte idealizzante che mirasse a ri­costruire il mondo partendo da un'impostazio­

ne razionalista, senza lasciarsi minimamente

scalfire dai residui non addomesticabili del mondo. L'ironia sottesa al divano componibile Superonda, prodotto da Poltronova nel 1967, ri­

manda direttamente alle tele bianche tirate su

centine di legno del Mare e dei Dinosauri e ret­tili realizzati nel 1966 da Pino Pascali e alla li­bertà con cui l'artista italiano faceva riferimento

alla tradizione, all'antropologia, all'immaginario popolare della tecnologia; così come esso sem­

bra non essere distante da suggestioni prove­

nienti dalla minimal art americana (in particolare dalle Travi a L di Robert Morris del 1965-1966).

non a caso evocata dagli Archizoom nel loro te­sto Le stanze vuote e i Gazebo: "Esistono dei

momenti in cui la cultura si trova impegnata a scoprire il significato della propria presenza al­

"interno di fenomeni più generali, ed a studiare la connessione dei rapporti logici o intuitivi che essa è capace di mettere in movimento con un

proprio atto. Esiste inoltre il problema della qualità e della

direzione eroica in cui questi fenomeni si muo­

vono, ed il rapporto esistente tra questi atti e la strategia di una possibile cultura.

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9. Joe Colombo, prototipi del Progetto sperimentale di habitat integrato, costituito da abitacoli contenenti tutte le funzioni abitative, realizzato da Bayer e presentato alla rassegna Visiona 1 di Francoforte, 1969

In architettura questo significa compiere, su tutte le scale q'intervento (dal design all'urba­nistica), operazioni compositive 'elementad, in cui però tutti i rapporti e le connessioni, per il limite minimo raggiunto divengono leggibili e scoperte. In questo senso potremmo paragonare tali operazioni minime alle'strutture primarie', co­me atti tesi a ritrovare un significato elemen­tare concluso in sé stesso, alla stessa presen­za del fare architettonico"54. Fu naturale, dunque, come nota Matteo Ver­celloni, nella sua Breve storia del design italia­no, che "II design radicale in ultima analisi fa­

vorì e sviluppò un dialogo tra progetto e sensi­bilità artistica: nelle sue diverse individualità af­frontò, nei limiti di una produzione elitaria, o meglio in gran parte 'autoprodotta' o 'pratica­ta' (mostre, performance, pubblicazioni). i pro­blemi legati alla necessità di un rinnovamento linguistico e formale rispetto alle esigenze di un mercato che cambiava sempre più veloce­mente il proprio gusto"ss. Che si trattasse di una produzione elitaria, di un '''design caldo', fatto da pochi, con pochi mezzi e destinato al­la fruizione artistico-eulturale di pochi soggetti sociali"56, che si ricollocava di fatto in un terri­torio artigianale preindustriale, fu polemica­

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1971

10. Gruppo Strum, Pratone, divano formato da steli d'erba in poliuretano morbido, Gufram,

mente subito segnalato da Maldonado, il qua­le, se da un lato ne accettava la legittimità in qualità di prodotto di lusso, dall'altro ne evi­denziava i limiti in un confronto inevitabile con la "natura altamente tecnologica di molti set­tori della produzione industriale moderna e della destinazione al consumo di massa dei suoi prodotti"57. Un punto che sfuggiva a Mal­donado, il quale è sempre stato un assertore della inevitabile connessione tra il progetto e i

sistemi tecnologici ed economici complessi del capitalismo58

, era sicuramente che i fautori della "rivoluzione" in atto non si sentivano più in grado, o non desideravano più, ragionare in termini di sistema, preferendo soffermarsi su altri aspetti che non fossero, necessariamen­te, l'unità stilistica e progettuale, bensì sulle componenti simboliche e antropologiche59

.

Non a caso sempre Branzi, nella sua Introdu­zione al design italiano una modernità incom­

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pleta del 1999, narra del rapporto tra Ettore Sottsass e l'Olivetti, mettendolo dialettica­mente a confronto con quello di Dieter Rams con la Braun. Come è noto, dopo la progetta­zione nel 1959 del primo grande computer elettronico in Italia, l'Elea 9003, venne chiesto a Sottsass di collaborare stabilmente con l'a­zienda di Ivrea. Tuttavia egli, invece di optare per una scelta di integrazione totale con "indu­stria, divenendo parte integrante del processo produttivo, offrì la sua disponibilità come colla­boratore esterno a coordinamento di un atelier di design da lui costituito, stipendiato dall'Oli­vetti, ma i cui partecipanti restavano totalmen­te indipendenti, relativamente alle scelte lega­te alla produttività. Questo modello incentrato sull'autonomia tra l'industria e il progettista era fondato su un'idea di design inteso non come "una funzione industriale, impegnata a risolve­re problemi produttivi, ma una attività stategi­ca, una cultura civile, immersa nel cambia­mento della società, e quindi in grado di forni­re alla grande industria attraverso il progetto, una sua identità dentro di questa. I... J La for­mula del rapporto Olivetti-Sottsass prevedeva infatti non solo un ruolo nuovo per il designer, che conservava tutta intera la sua autonomia in­tellettuale, ma prefigurava un ruolo nuovo an­che per l'industria, chiamata ad aprirsi a una cul­tura civile, senza integrarla o devastarla. Era l'industria che doveva cambiare di fronte al mondo, alla storia, alla cultura, e non viceversa. Se Dieter Rahms Isicl voleva trasformare il mondo sul modello della Braun, Sottsass vole­va cambiare l'Olivetti sul modello del mondo; si trattava quindi di due modi diversi di inten­dere il design "50.

1972: Italy: the New Domestic Landscape Se non tutte, alcune delle molteplici istanze di contestazione che erano riuscite, anche a se­guito dell'occupazione della Triennale del '68, a porsi propositivamente, instaurando rapporti con alcune piccole realtà industriali del paese, trovarono un primo riconoscimento e. vetrina internazionale nella mostra Italy: the New 00­mestic Landscape. Achievements and Pro­blems of Italian Design, organizzata nel 1972 da Emilio Ambasz al Museum of Modern Art di New York61

. Il curatore, all'interno di una scelta non antologica, individuava nel design italiano tre diversi approcci, "il primo è conformista, il secondo riformista e il terzo è piuttosto un at­teggiamento di contestazione, che compren­de sia la ricerca che l'azione"62. All'interno di quest'ultimo gruppo Ambasz evidenziava la presenza di due tendenze, una che vede nel­l'azione politica e nella riflessione filosofica l'u­nica possibilità di impegno, l'altra che prospet­ta al contrario una partecipazione critica attiva. Proprio questi ultimi "Sono giunti così a con­cepire gli oggetti e i loro utenti come insieme di progetti interrelati, la cui interrelazione con­siste nel cambiare continuamente i modelli di relazione. I... J Questo approccio olistico si ma­nifesta nel progetto di oggetti che sono flessi­bili nella funzione, permettendo così moltepli­ci modi d'uso e sistemazione I. .. Iln contrasto con l'oggetto tradizionale, questi oggetti in qualche modo assumono forme che diventa­no quelle che l'utente vuole che abbiano, for­nendo un modo d'uso senza limiti. Oggetti di questo tipo sono concepiti come insiemi am­bientali e permettono modi diversi di interazio­ne sociale, mentre allo stesso tempo consen­

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tono all'utente di compiere la propria definizio­ne del privato e del pubblico"63. In catalogo è presente il lungo e articolato intervento di Manfredo Tafuri Design and Technological

UtopiéfA, nel quale lo storico afferma che già in Franco Albini e nel gruppo BBPR, tra anni tren­ta e quaranta, era tracciata "la via a un tipo di design in cui l'allusione potrebbe diventare uno strumento indipendente di comunicazio­ne, e in cui il valore dell'immagine si dissolve­rebbe nella smaterializzazione deII'oggetto", aggiungendo dunque, forse pensando agli ulti­mi sviluppi del design in Italia, che "questa sorta di alienazione irreale del design si è già radicata negli avamposti più avanzati dell'ar­chitettura italiana, in un campo in cui c'era l'in­clinazione a trasformare le condizioni causate dal sistema di produzione arretrato in una ideo­logia"65.

Ciò che emerse con l'esposizione fu sicura­mente l'assenza di uno stile caratterizzante il design italiano, nel senso di facilmente ricono­scibile e collocabile in una precisa categoria (come per quello scandinavo ad esempio). a vantaggio di una ricchezza di proposte spesso eterogenee, se non opposte tra loro. I desi­gner invitati - Mario Bellini, Alberto Rosselli, Marco Zanuso e Richard Sapper, Joe Colom­bo, Gae Aulenti, Ettore Sottsass, Gaetano Pe­sce, Archizoom, Superstudio, Ugo La Pietra, Gruppo Strum (Giorgio Ceretti, Piero Derossi, Riccardo Rosso) e 9999 (Giorgio Birelli, Carlo Caldini, Fabrizio Fiumi, Paolo Galli) ed Enzo Mari66

-, indicavano bene la singolarità del pa­norama italiano, per molti aspetti ancora in ri­tardo nello sviluppo economico e industriale. Questa peculiarità era sicuramente connatura­

11. Day-Night. presentazione del divano-Ietto Day-Night (1971) di Enzo Mari, in collaborazione con Elio Mari, Driade 1973, in "Casabella", n. 379, luglio 1973

ta al terreno sconnesso entro il quale il design italiano continuava a dare frutti, coesistendo allo stesso tempo nel medesimo settore pro­getti scaturiti dalla grande produzione di serie insieme a risultati ancora artigianali e speri­mentali67.

Enzo Mari e " .. .il progetto del progetto, anzi il progetto del progetto del progetto"68 All'interno di questo parziale scorcio su alcune vicende del design italiano negli anni intorno al 1968, due figure sono rimaste in controluce. Mi riferisco a Ettore Sottsass e a Enzo Mari. Se per Sottsass si può tranquillamente affer­mare che era di una generazione precedente quella dei protagonisti gia citati, egli era nato nel 1917 a Innsbruck, per Mari, che è nato nel

Drt·....'

~I __ ,.'

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12. Do-it-Yourself. Design povero mobili povefl~ presentazione di Proposte per un 'autoprogettazione di Enzo Mari, in "Domus", n. 535, giugno 1974

1932, lo scarto generazionale è assente, an­

che se il suo orizzonte di riferimento metodo­

logico è sempre rimasto, con una coerenza de­gna di grande stima, quello che, prese le mos­se dall'illuminismo, si è successivamente co­

agulato nella lettura socialista della realtà in ambito politico e in una metodologia proget­

tuale razionale e scevra di qualsivoglia orpello

superfluo. Sottsass e Mari, artisti, designer e felici saggi­sti69

, costituiscono in qualche modo i due poli

estremi e per certi versi opposti del design ita­liano. Se il primo può essere visto come l'anti­

cipatore, il sostenitore e spesso l'artefice di quel mutamento di prospettiva progettuale

che si produsse in Italia negli anni sessanta del Novecento, il secondo si è sempre posto co­

me il custode di una sapienza costruttiva deri­vata dalla ragione. Con ciò non si intende as­

solutamente negare la presenza nel lavoro di Mari di molteplici sollecitazioni per un cambia­

mento radicale del modo di intendere la pro­gettazione industriale. Per fare luce sulla sua

personalità, iniziamo col dire che, invitato nel 1968 alla Triennale di Milano'o, alla Biennale di

Venezia e a Documenta 4 a Kassel, nel clima di contestazione globale, egli ritirò i suoi lavori,

sollevando costantemente la questione dei compromessi cui deve sottostare l'artista in­

tegrato al sistema capitalistico; condizione an­cora più scottante, in termini economici e di

sviluppo della democrazia, se osseNata dalla prospettiva del designer, il quale a differenza dell'artista non si limiterebbe, almeno ideal­

mente, a realizzare "prodotti" tradizionalmen­

te rivolti a un mercato privilegiato, bensì a un pubblico più allargato, spesso inconsapevole

dei meccanismi sottesi alla programmazione industriale". In maniera lucida, all'età di trentasette anni,

Mari awertì la necessità di fare il punto sulla

sua condizione di artista e designer in relazione al momento storico che si stava attraversando. I risultati di questa profonda autoanalisi furono

raccolti e pubblicati nel 1970 in Funzione della ricerca estetica, un volume fondamentale per

awicinarsi al suo lavoro che non andrebbe mai scisso dalla sua parallela attività di saggista. Nel

libro Mari afferma con risolutezza che se è ve­ro che il lavoro dell'artista è quello che offre

maggiori possibilità di libertà, tuttavia, questa condizione privilegiata non pare accettabile in­

dividualmente "là dove non esiste una libertà collettiva"n Proprio questa riflessione sembra

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essere stata fondamentale (siamo nel 1970) a convincere Mari a vedere nel design una via per raggiungere una condizione di libertà diffusa; a patto che il designer sia sempre mosso dall'im­perativo di individuare "chiaramente una fun­zione e un'utilità tangibile per la collettività, sia pur nell'ambito della nostra civiltà dei consumi; e poiché questo è un ambito obiettivamente definito, si potrà cooperare al rinnovamento con modi meno mistificati di quelli con cui si co­munica facendo 'arte' "73.

Già nel testo Divulgation des exemplaires de recherches, pubblicato nel catalogo della mo­stra Nova Tendencija 3, che egli coordinò a Za­gabria nel 1965, si trovava un passo che, sep­pure riferito alla ricerca artistica che egli aveva in atto in quegli anni, appare significativo sul suo atteggiamento di fronte alla possibilità di progettare per l'industria: "Esite un ultimo mo­do di utilizzare gli strumenti industriali: quello di riprodurre non tanto le copie nel loro insie­me ma di prefabbricare i singoli elementi mo­dulari (a basso costo) in modo da permettere al ricercatore una facile e libera composizione dei prototipi, delle loro varianti e copie"". L'intento di verificare pragmaticamente le sue ricerche artistiche nel campo del design si può scorgere nella libreria, a elementi modulari di plastica bianca, Glifo, progettata nel 1966 e presentata da Gavina nel novembre del 1968; costituita da celle cubiche liberamente com­ponibili in diverse configurazioni, attraverso pannelli a incastro tutti uguali, essa si caratte­rizza per l'economicità della produzione e la fa­cilità di montaggio da parte dell'utente. Il ten­tativo di eliminare la ridondanza e di allonta­narsi dal sistema "perverso" dell'immissione

sul mercato di sempre nuovi oggetti, aventi tutti la medesima funzione, aveva dato già i suoi frutti esemplari nei due calendari perpe­tui, progettati per Danese, Formosa del 1963 e Ttmordel1966, i quali non divennero mai ob­soleti con il trascorrere degli anni, poiché in es­si, come ha scritto Germano Celant, "l'idea del tempo è la dominante più evidente"75. La vicenda del divano-Ietto Day-Night. ideato con la collaborazione di Elio Mari, resta emble­matica del suo modo di affrontare un progetto, del suo rapporto con il produttore e col desti­natario finale, l'acquirente, e infine della saga­ce ironia con cui egli ha spesso commentato la validità o meno delle sue proposte. Narrata in più di una variante, la storia vuole che nel 1971 Mari abbia progettato il divano-Ietto su invito di Maddalena De Padova la quale, pur apprez­zando il risultato, decise di non realizzarlo per­ché invendibile; ci pensò allora Enrico Astori, fondatore di Driade, a produrlo ma la profezia della De Padova risultò comunque corretta. Anche se elogiato per la validità dell'idea e per la sua economicità, costava la metà degli altri modelli sul mercato, i negozianti non lo com­pravan076

, forse proprio per il costo contenuto, non compatibile, nell'immaginario dei compra­tori, con l'essere un prodotto di design. A for­nirci la possibile spiegazione dell'insuccesso è lo stesso Mari, il cui studio in quegli anni era frequentato da "diversi intellettuali che face­vano parte dei gruppi di sinistra (come Servire il popolo) "n: "Uno di questi, vedendo il divano letto nella stanza dove lavoro e ignorandone la paternità mi chiede ragione della presenza di un oggeto 'così brutto'. Dichiara di preferire i letti rotondi di trine, marmi e cristalli che, in

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quegli anni artigiani italiani vendevano agli sceicchi del Golfo Persico arricchiti dal petro­lio. Nei mesi successivi ho voluto verificare quelle preferenze con altri giovani 'rivoluziona­ri'. Ne ho sempre avuto conferma"7B. L'insuccesso di Day-Night agì sicuramente da propellente per quella che resta, a parere di chi scrive, una delle proposte più provocatorie ed essenziali del lavoro di Mari, esposta al pubbli­co ne/1974 nella Galleria Milano e presentata nel relativo libretto Proposta per un'autopro­gettazione79

. Si trattava di una vera e propria proposta di schemi e fotografie per realizzare, con semplici tavole di legno, acquistabili da parte di chiunque intendesse farlo eccettuati industrie e commerciantiBO

, di alcuni compo­nenti essenziali di arredo (tavoli, sedie, armadi, letti, librerie). Ma la "proposta" più provocato­ria sta nel fatto che Mari invitasse chi avesse provato a costruire i mobili a inviargli foto e schemi di eventuali modifiche e variazioni. Co­me commentò su "L'Espresso" Giulio Carlo Argan: "Mari ha ragione, tutti debbono pro­gettare: in fondo è il modo migliore per non es­sere progettatj"B'. Da questa sottolineatura di Argan potrebbe anche essere scaturito lo sti­molante confronto, per quanto mi risulta in se­guito mai più indagato, che Filiberto Menna avanzò, nel 1988, tra Mari e Joseph Beuys, la

cui "fortuna è dovuta anche alla sua vocazione messianica, alla sua capacità di coinvolgimen­to, alla semplicità persino dei suoi messaggi, di volta in volta ricondotti a contenuti di imme­diata evidenza"B2. "Mari - prosegue Menna­ha seguito un itinerario tutto diverso, anche se le intenzioni di fondo e, talvolta, gli stessi con­testi comunicativi, non sono così lontani da quelli dell'artista tedesco. Se Beuys si apre in maniera confidente ed estroversa nei confron­ti degli altri, con quel suo spirito tra romantico ed evangelico, Mari si chiude in sé stesso, si arrovella e si arrabbia se lo stato delle cose è quello che è e se la sua volontà di cambia­mento si scontra contro ostacoli che appaiono insormontabili. Non per questo Mari ha muta­to il suo atteggiamento o ha addomesticato le proprie proposte progettuali e ideologiche"B3. Ci piace allora chiudere con un passo della let­tera pubblica che apriva il numero di giugno del 1980 di "Domus", scritta dal direttore Ales­sandro Mendini a Enzo Mari: "Mari non è un designer, se non ci fossero i suoi oggetti mi importerebbe poco. Mari è invece la coscien­za di tutti noi, è la coscienza dei designers, questo importa [... 1A te interessa il progetto del progetto, anzi il progetto del progetto del progetto. Ovvero tu cerchi, proponi e mediti solo sul 'progetto dell'uomo'''B4.

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· Questo testo non ha lo scopo, né l'ambizione, di fornire un panorama esaustivo della storia del de­sign italiano negli anni presi in considerazione. In esso sono presenti molte omissioni che potranno apparire, a chi conosce l'argomento, inspiegabili. Si è scelto di concentrarsi solo su alcune emergenze poiché sono sembrate, a chi scrive, quelle portatri­ci, in quegli anni. di un nuovo modo di pensare e progettare gli oggetti che il nostro sentire percepi­sce come appartenenti al design. Per una maggio­re informazione sull'argomento, tra le numerose "storie" e le innumerevoli monografie, si rimanda alla bibliografia inserita alla fine del volume. I E. Galli Della Loggia, Ideologie, classi e costume, in V. Castronovo (a cura di), L'Italia contemporanea: 1945-1975, Einaudi, Torino 1976, p. 417.

2 Ibidem. 3 T. Maldonado, Verso un nuovo design, in "Casa­bella", n. 301, gennaio 1966, pp. 14-15. È utile ri­cordare che in quegli anni, dal 1955 al 1967, Mal­donado insegnò alla Hochschule fur Gestaltung (Scuola.superiore di progettazione) di Ulm, di cui fu rettore nel periodo 1964-1966. 4 Ivi, p. 14. 'Ibidem. • I molteplici ambiti di interesse di Maldonado sono stati recentemente indagati nella mostra e nel rela­tivo catalogo: Tomés Maldonado, catalogo della mostra (Milano, Triennale Design Museum, 19 feb­braio - 5 aprile 2009), Skira, Milano 2009. 7 Su questo punto è utile la riflessione proposta da Maldonado, sia a livello culturale, sia industriale e sia economico, nel capitolo Disegno industriale e italian design, in T. Maldonado, Disegno industriale: un riesame, Feltrinelli, Milano 2008 (I" ed. 1976, I· ed. riveduta e ampliata 1991), pp. 81-86. • A. Branzi, Il design italiano 1964-2000, Electa, Mi­lano 2008, p. 104. 9 J. Lennon, P. McCartney, Revolution, in Hey Jude, lato B, Appie Records, London 28 agosto 1968: "Tu dici che vuoi la rivoluzione, / ebbene, sappi, / che tutti noi vogliamo cambiare il mondo. / (... J / Ma quando parli di distruzione, / non sai che non puoi contare su di noi". Una versione leggermente dif­ferente del brano, intitolata Revolution l, verrà in­serita in The Beatles, noto comunemente come

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White Album per la copertina completamente bian­ca, con il nome del gruppo stampato in rilievo, idea­ta da Richard Hamilton, registrato da maggio a ot­tobre e pubblicato il 22 novembre del 1968. IO A. Branzi, Introduzione al design italiano una mo­dernità incompleta, Baldini & Castoldi, Milano 1999, p. 125. In attesa della pubblicazione del volu­me di Renato De Fusco, I cinquant'anni dell'Adi (Franco Angeli, Milano), è possibile leggere alcuni brani del testo dello studioso, contenenti alcune ri­flessioni interessanti su questo periodo della storia del design in Italia, in Le pagine dell'ADI. Associa­zione per il Disegno Industriale, appendice a "Op. Cit. Selezione della critica d'arte contemporanea", n. 134, gennaio 2009. 11 G.K. Koenig, Le ombre del tempio, in "Casabel­la", n. 324, marzo 1968, p. 3. 12 Ibidem. 13 Ibidem. "Ibidem. " Ibidem. Nello stesso numero della rivista, a se­guire l'editoriale di Koenig, viene pubblicato un lun­go reportage sulla scuola tedesca, inteso a fare il punto sulla difficile situazione che essa sta attra­versando. Introdotto da Enrico D. Bona, il dossier si compone di dichiarazioni, relazioni, risoluzioni fir­mate da studenti e docenti, elenco dei programmi didattici e da una serie di risposte a tre domande poste dalla rivista a studenti e professori (tra essi Herbert Ohi, Gui Bonsiepe, Martin Krampen). Cfr. ED. Bona, Inchiesta a Vlm, in "Casabella", n. 324, marzo 1968, pp. 4-15.1. La foto, insieme ad altre, illustrava l'articolo di C. Guenzi, La Triennale occupata, in "Casabella", n. 325, aprile-maggio-giugno 1968, pp. 82-85. 17 128 Triennale di Milano. La casa e la scuola. Espo­sizione internazionale delle arti decorative e indu­striali moderne e dell'architettura moderna, catalo­go della mostra (Milano, Palazzo dell'Arte), Arti Gra­fiche Crespi, Milano 1960; Tredicesima Triennale di Milano. Tempo libero. Esposizione internazionale delle arti decorative e industriali moderne e dell'ar­chitettura moderna, catalogo della mostra (Milano, Palazzo dell'Arte al Parco, 12 giugno - 27 settembre 1964), Arti Grafiche Crespi, Milano 1964. ,. Composta quell'anno da Giancarlo De Carlo, Tom­

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maso Ferraris, Carlo Ramous, Alberto Rosselli, Al­be Steiner, Vittoriano Viganò, Marcello Vittorini, Marco Zanuso. l' 14' Triennale di Milano. 1/ Grande numero. Espo­sizione internazionale del/e arti decorative e indu­striali moderne e dell'architettura moderna, catalo­go della mostra (Milano, Palazzo dell'Arte al Parco, 30 maggio - 28 luglio 1968). Crespi & Occhipinti, Milano 1968. 2ll "Domus", n. 464, luglio 1964, pp. n.n. (le notizie sull'occupazione, lo sgombero e la riapertura della rassegna sono riassunte in una nota pubblicata nel­la pagina della rubrica "Calendario dei congressi"). Ironia della Storia, proprio all'interno della Triennale Giancarlo De Carlo, Marco Bellocchio e Bruno Ca­ruso avevano ordinato lo scenografico ali'allesti­mento della "Protesta dei giovani".

La mostra, curata da due artisti, Enrico Castellani e Gino Marotta, e due architetti, Cesare Casati ed Emanuele Ponzio, era programmata per il 15 giu­gno e aveva come tema il "nuovo paesaggio" ur­bano e naturale. Opere su grande scala, ma effi­mere perché destinate ali'usura, sarebbero state dislocate in siti di particolare significato lungo tutta la penisola. Gli artisti invitati furono: Alviani, Angeli, Anselmo, Boetti, Boriani, Castellani, Ceroli, Colom­bo, De Vecchi, Fabro, Festa, Fini, Grisi, Icaro, Kou­nellis, Lombardo, Mambor, Mari, Marotta, Mattiac­ci, Mauri, Merz, Mondino, Nanni, Paolini, Pascali, Pistoletto, Piacentino, Prini, Scheggi, Schifano, Si­meti, Tacchi, Vigo, Zorio. Cfr. Milano 14 Triennale, in "Domus", n. 466, settembre 1968, p. 16: "Si pen­si alla striscia [ideata da Mamborl. larga metri, lun­ga Chilometri. da dipingere in un colore violento sul greto del fiume Reno: dopo due mesi sarebbe spa­rita ma nel periodo della sua esistenza tutti gli au­tomobilisti che transitavano sulla Autostrada del Sole avrebbero goduto di una immagine sorpren­dente. Si pensi alle siepi di plexiglas verde (ideate da Marottal. lunghe quaranta metri, e altre tre o quattro metri, che dovevano riempire il Campo S. Stefano a Venezia; o alla collina coperta di enormi "bachi da setola" (di Pascali] coloratissimi, in ma­teriale plastico, che si potevan veder da lontano, passando sull'Autostrada". Interessanti, e ricche di altri dettagli, risultano le notazioni che Pierre Re­

stany, in un lungo articolo sulla nuove possibili pro­spettive dell'arte contemporanea, dedicò alla mo­stra che non si tenne sul "Nuovo Paesaggio": P Restany, Le livre blanc de l'art total. Pour une éste­tique prospective, in "Domus", n. 469, dicembre 1968, pp. 41-50, in particolare p. 45. :n M. Vitta, La Triennale di Milano, in "L'uomo e l'ar­te", n. 5-6, agosto-settembre 1971, p. 46. A testi­monianza del clima incandescente che regnava in quei giorni a Milano, come riporta Vitta nella nota 1 a p. 49 del suo scritto, la stessa mattina dell'8 giu­gno la polizia sgomberò, oltre alla Triennale, l'Uni­versità Cattolica, l'Università Statale e il Politecnico. 23 Documenti dell'occupazione, in "L'uomo e l'ar­te", n. 5-6, agosto-settembre 1971, pp. 60-62. " Documento n. 4 (31 maggio 1968). in "L'uomo e l'arte", n. 5-6, agosto-settembre 1971, p. 61. 25 Ibidem. 26 Documento n. 8 (4 giugno 1968). in "L'uomo e l'arte", n. 5-6, agosto- settembre 1971, p. 62. 27 C. Guenzi, La Triennale del re, in "Casabella", n. 333, febbraio 1969, pp. 34-40. 28 Significative la parole di Giancarlo De Carlo, mem­bro della giunta esecutiva della Triennale del 1968: "Salvo alcune radicali eccezioni, gli uomini scelti [dai politici per il consiglio di amministrazione] po­trebbero rivestire la stessa carica nella centrale del latte, dove con identica competenza sarebbero chiamati a manovrare capitali cospicui e ad assu­mere impegni con maggiore soddisfazione e più potere", in Dibattito sulla Triennale, in "Casabella", n. 333, febbraio 1969, p. 42. 29 Guenzi, La Triennale del re cit., p. 36. 30 Un documento dell'assemblea d'occupazione, pubblicato in apertura di Dibattito sulla Triennale, in "Casabella", n. 333, febbraio 1969, p. 41. 31 D. Boriani, [Interventol. in Dall'esposizione chiusa al/'intervento diretto nella società, in "L'uomo e l'ar­te", n. 5-6, agosto-settembre 1971, p. 52. 32 Ibidem. 3:l M. Vitta, Il progetto della bellezza. 1/ design fra ar­te e tecnica, 1851-2001, Einaudi, Torino 2001, p. 260. 34 Boriani. (Interventol cit., p. 52. 3S Vitta, 1/ progetto del/a bel/ezza cit., p. 258. 36 Ivi, p. 257.

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37 G. Dorfles, Il divenire delle arti (Einaudi 1959), Bompiani, Milano 1996, p. 161: "Si tratta cioè di quel simbolismo per cui l'oggetto è destinato a si­gnificare la sua funzione in maniera evidente attra­verso la semantizzazione d'un elemento plastico che ne sottolinei la figuralità e che valga a indicarci un'altra parentela dell'oggetto industriale con quel­lo artistico vero e proprio" . 3. G. Dorfles, Nuovi riti nuovi miti (1965), Einaudi, Torino 1979, p. 271. 39 Boriani, Iintervento] cit., p. 52. 'o Il gruppo Archigram era stato fondato dagli ingle­si Peter Cook, Dennis Crompton, David Greene e Ron Herron, cui si erano aggiunti gli americani War­ren Chalk e Michael Webb. Milano 14 Triennale cit., p. 21: '''Milanogram', il fantastico cilindro, o 'dirigi­bile' IBig Bagl, trasparente e sospeso (lungo 18 m) che doveva portare alla Triennale, condensato in scritti, oggetti e proiezioni, il messaggio degli Ar­chigram di Londra, la loro profezia sulla robotizza­zione e mobile città del futuro (tema: la mutazione dell'ambiente nell'epoca del Grande Numero), è stato in realtà danneggiato da inconvenienti tecnici che hanno aumentato le difficoltà della comunica­zione". Una descrizione più dettagliata del progetto si trova in Il "Milanogram" alla Triennale, in "Do­mus", n. 468, novembre 1968, pp. 40-44. 41 Il tunnel era composto da quattro tubi, di cui quel­li centrali appesi a un cavo d'acciaio, collegati da un telo a capanna e gonfiati. così come le cornici degli oblò, da un piccolo generatore d'aria. Si vuole qui ri­cordare che il 3 agosto del 1968, durante l'esposi­zione Documenta 4 a Kassel, l'artista bulgaro Chri­sto faceva librare nel cielo della città tedesca un Pacco pneumatico di 5600 metri Gubi e 85 metri d'altezza. 42 Milano 14 Triennale cit., p. 15. 4J Archizoom, in Milano 14 Triennale cit., p. 35. 44 Ibidem. 45 Milano 14 Triennale cit., p. 29. .. Superstudio, Design d'invenzione e design d'e­vasione, in "Domus", n. 475, giugno 1969, p. 28. 47 Ibidem. "Ibidem. '9 Ibidem. 50 Ibidem.

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51 F. Raggi, RadicalStory, in "Casabella", n. 383, ot­tobre 1973, pp. 37-45; per una lettura a posteriori del "movimento si rimanda a G. Pettena (a cura di), Radical design, M&M, Firenze 2004. " Branzi, Il design italiano 1964-2000 cit., pp. 109-110. 53 E. Sottsass, Gli Archizoom, in "Domus", n. 455, ottobre 1967, p. 37. 54 Archizoom, Le stanze vuote e i Gazebo, in "Do­mus", n. 462, maggio 1968, p. 51 li corsivi nel te­sto sono miei). I disegni che illustrano il testo, reim­paginati, sono tratti dalla rivista "Pianeta Fresco", n. 1, 1967, condiretta da Allen Ginsberg, Fernanda Pivano ed Ettore Sottsass. 55 M. Vercelloni, Breve storia del design italiano, Ca­rocci, Roma 2008, p. 130. ,. Maldonado, Disegno industriale: un riesame cit., p.78. 5'lbidem. .. Ivi, p. 12. 59 Maldonado riconosce tuttavia la compresenza, accanto a quelli tecnico-economici, tecnico-costrut­tivi, tecnico-sistemici, tecnico-produttivi e tecnico­distributivi, di fattori simbolici e culturali nella com­plessa articolazione e coordinazione che porta alla nascita di un prodotto di design: cfr. ibidem. 50 Branzi, Introduzione al design italiano cit. , p. 128. 61 Italv: the New Domestic Landscape. Achieve­ments and Problems of Italian Design, a cura di E. Ambasz, catalogo della mostra (New York, Mu­seum of Modern Art, 23 maggio - 11 settembre 1972), Centro Di, Firenze 1972. Una lunga recen­sione-presentazione della mostra si trova in F. Raggi, M.D.M.A. N. Y. Italv: New Domestic Land­scape, in "Casabella" , n. 366, giugno 1972, pp. 12-26. Dal 13 aprile all'8 maggio 2009, presso la Arthur Ross Gallery della Columbia University di New York, si è tenuta l'esposizione Enviroments and Counter Experimental Media in ItalV: The new Domestic Landscape - MoMA 1972, curata da Lu­ca Molinari, Peter Lang e Mark Wasiuta. Con lo scopo di riconsiderare la mostra del 1972, sono stati presentati documenti originali dell'epoca e sono intervenuti, in dibattiti e conferenze, alcuni protagonisti di allora. 62 E. Ambasz, Introduction, in ItalV: the New Dome­stic Landscape cit., p. 19, ripubblicato in italiano col

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titolo Conquiste e problemi del design italiano in Branzi, Il design italiano 1964-2000 cit., p. 467. 63 E. Ambasz, Introduction cit., p. 21, ripubblicato in italiano col titolo Conquiste e problemi del design italiano in Branzi, Il design italiano 1964-2000cit., p. 467. 64 M. Tafuri, Design and Technological Utopia, in Italy: the New Domestic Landscape cit., pp. 388­404, ripubblicato in italiano col titolo /I design e l'u­topia tecnologica in Branzi, Il design italiano 1964­2000 cit., pp. 468-474. 65 Tafuri, Design and Technological Utopia cit. , p. 388, ripubblicato in italiano col titolo /I design e l'u­topia tecnologica in Branzi, /I design italiano 1964­2000 cit., p. 468. 66 Mari partecipò alla mostra inviando esclusiva­mente il suo testo Proposta di comportamento (Proposal for Behavior), già pubblicato in "NAC", n. 8-9, agosto-settembre 1971, pp. 4-6, anticipato da una Premessa (Foreword): E. Mari, in Italy: the New Domestic Landscape cit., pp. 262-265. 67 Branzi, Introduzione al design italiano cit., p. 131: "II design italiano vi emergeva come un fenomeno profondamente radicato dentro le contraddizioni di un paese che non era mai stato vero protagonista della modernità, un design non definibile in uno sti­le 1. .. 1. privo di una metodologia unitaria, costituito da tendenze, personalità e politiche opposte, e pro­dotto da un'industria debole ma rampante; dati che nel loro insieme ne definivano non solo l'originalità e l'attualità, ma la sostanziale unità strategica". Cfr. anche Branzi, Il design italiano 1964-2000 cit., pp.138-143. 68 A. Mendini, Caro Enzo Mari, in "Domus", n. 607, giugno 1980, p. 1. 69 Per la comprensione di tutta l'attività di Sottsass e di molti aspetti della cultura del XX secolo è mol­to utile la lettura dei suoi scritti: M. Carboni, B. Ra­dice (a cura di), Ettore Sottsass. Scritti, Neri Pozza Editore, Milano 2002. 70 La posizione di Mari nei confronti dell'occupazio­ne della Triennale è esposta nell'intervento, firmato insieme a E. Castellani, M. Massironi, R. Pieraccini, M. Spinella, P. Valesio e L. Vergine, pubblicato in Di­battito sulla Triennale, in "Casabella", n. 333, feb­braio 1969, pp. 47-48. Un'esposizione sistematica

e fortemente ideologica del pensiero politico del designer troverà espressione in E. Mari, F. Leonet­ti, Atlante secondo Lenin. Carte dello scontro di li­nea oggi, Edizioni l'Erba Voglio, Milano 1976. 7l A Kassel, Mari si schierò nella protesta al fianco di Julio Le Pare, François Morellet. Vassilakis Takis. Cfr. J. Le Pare, E. Mari, comunicato stampa (in lin­gua francese) diffuso durante Documenta IVa Kas­sei il 26 giugno 1968; riportato e tradotto in L. Ver­gine, Le ceneri calde, in "Almanacco letterario Bompiani 1969", Bompiani, Milano novembre 1968, p. 176. 72 E. Mari, Funzione della ricerca estetica, Edizioni di Comunità, Milano 1970, p. 7: "Finiscono col fa­re gli artisti solo coloro che, più degli altri, sono in una condizione conflittuale esasperata (più o meno consapevole) nei riguardi della società: tentano al­lora l'avventura dell'arte-libertà. Ma ben presto si rendono conto che la prevista libertà implicita nel­l'arte va interpretata secondo un 'angolazione dif­ferente: da una interpretazione di tipo socio-eco­nomico, attività non connessa alle leggi della pro­duzione, si passa, con le prime esperienze, a capi­re che l'arte oggi può essere fatta solo nell'ambito della ricerca. L'attività di ricerca, che in assoluto è la più libera e liberatoria, per quanto ci concerne, si svolge in condizioni competitive e mistificate (... ! tali da divenire ulteriore elemento di conflitto che va a sovrapporsi a quello iniziale, raddoppiando lo stato di insoddisfazione e di nevrosi". 73 Mari, Funzione della ricerca estetica cit., p. 11. 74 Cit. in Mari, Funzione della ricerca estetica cit., p. 57; il testo venne originariamente pubblicato in francese col titolo Divulgation des exemplaires de recherches, in Nova Tendencija, catalogo della mo­stra (Zagabria, Galerija Suvremene Umietnosti), Zagreb 1965, e quindi tradotto in Divulgazione del­le esemplificazioni di ricerche, in "Marcatré", n. 11-12-13, 1965, pp. 344-345. 75 G. Celant. Cronache di disegno industriale, in "Casabella", n. 344, gennaio 1970, p. 29. 76 F. G. IF. Giacomellil, Note biografiche, in Enzo Mari. L'arte del design, catalogo della mostra (Tori­no, Galleria Civica d'Arte Moderna e Contempora­nea, 29 ottobre 2008 - 6 gennaio 2009), Federico Motta Editore, Milano 2008, p. 148.

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77 E. Mari, cit. in F. G. IF. Giacomellil. Note biografi­che cit. , p. 148. 78 E. Mari, Progetto e passione, Bollati Boringhieri, Torino 2001, p. 56, nota 6. 89 E. Mari, Proposte per un'autoprogettazione, ca­talogo della mostra (Milano, Galleria Milano, 8-20 aprile 1974). Centro Duchamp, Milano 1974. BO Va tuttavia ricordato che alcuni pezzi vennero realizzati dalla ditta Simon International di San Laz­zaro di Savena (Bologna) e che, inoltre, il 16 no­vembre del 2004 a Milano la Casa d'Aste Pandolfi­ni propose il "Tavolo Effe", presente in Proposte per un'autoprogettazione, con una valutazione di 3600-4000 € (Design 1930-1990. Arte moderna e

contemporanea, Pandolfini Casa d'Aste, Firenze 2004, lotto 103, pp. 72-73). a testimonianza di quanto il mercato si dimostri, nel corso del tempo, sempre più invincibile. 81 G.C. Argan, Tanti mobili fatti in casa, in "L'E­spresso", n. 18,5 maggio 1974, p. 87. 82 F. Menna, L'eredità del moderno, in F. Leonetti, F. Menna, R. Pedio, Enzo Mari. Modelli del reale, catalogo della mostra (Repubblica San Marino, Gal­leria d'Arte Moderna, Palazzo dei Congressi ed Esposizioni, 11 giugno - 24 agosto 1988). Mazzot­ta, Milano 1988, p. 130. 8J Menna, L'eredità del moderno cit., p. 130. .. Mendini, Caro Enzo Mari cit., p.l.

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