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1 Introduzione Orfeo e i Sabei di Harran _____________________________________________________________________________ Il presente lavoro sviluppa i contenuti dell’articolo “Una Nuova Evidenza sui Sabei di Harran” (2014), ed è stato concepito come studio preliminare a Il Mistero della Testa Parlante (di prossima pubblicazione). Il materiale di questo libro antologico è suddiviso in sei sezioni (testimonianze del mondo classico, ebraico, cristiano, celtico, di Harran, dei Templari), dove viene riprodotto e commentato volta per volta: mi è parso inutile perciò farvi riferimento anche in questa sede. Tanto le storie sulla testa di Orfeo che canta o profetizza accompagnato dal suono della lira, quanto quelle sui Sabei di Harran abili a trarre oracoli dalla testa mozzata di un uomo, sono dunque sostanzialmente assenti dal discorso. Eppure l’esigenza di approfondire il legame tra i due contesti sorge proprio in virtù del denominatore comune di questo sorprendente insieme di leggende: una testa senza il corpo in possesso di poteri divinatori, appunto. Analogie e differenze emergeranno spontaneamente dai documenti dell’antologia: qui si è cercato, piuttosto, di mettere a fuoco alcuni nuclei tematici (il Grande Anno, i budar/bughdariyyun di Sumatar/Harran e l’accadico [w]ardu, la phroura platonica, il symbolon ’Gazzella’, Bacchici-Orfici-‘Adoratori di Dio’ a Olbia Pontica, simbolismo del Centro e nome del Nord, Argonautika) e di analizzarne adeguatamente le interconnessioni. Davanti a un quadro dominato da interrogativi sia sul versante dell’Orfismo sia del Sabeismo, ho voluto scommettere sulla probabilità che le incognite, anziché raddoppiare gli ostacoli, fossero in grado quasi per magia di farsi luce a vicenda. * The present work develops the contents of the article “A New Piece of Evidence about the Sabians of Harran” (2014), and was conceived as a preliminary study to The Mystery of the Talking Head (forthcoming). The material of this anthological book is divided into six sections (testimonies of the Classical, Jewish, Christian and Celtic world, of Harran, of the Templars), where texts and comments are given each time: it seemed to me useless, therefore, to repeat these references once again here. So, almost nothing in the following discussion is told about Orpheus’ head singing or prophesying while his lyre is playing music by its own, nor about the Harranian Sabians’ skill in drawing oracles from a human head. And yet the need to explore the relations between both contexts does arise just when considering the common bulk which such an amazing corpus of legends share: a head cut off from its body being able to foretell future, indeed. Analogies and differences will appear spontaneously from the anthology’s documents: here I have tried, instead, to focus some relevant issues (the Great Year, the budar/bughdariyyun of Sumatar/Harran and the Akkadian noun [w]ardu, the platonic phroura, the symbolon ’Gazelle’, Bacchics Orphics God-worshippers at Olbia Pontica, Centre symbolism and the name of the North, Argonautika) and to analyze adequately their mutual connections. Dealing with a subject which raises so many unsolved questions both on the side of Orphism and of Sabianism, I trusted that uncertainties, rather than redoubling obstacles, could magically happen to shed light on each other. ______________________________________________________________________________

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Introduzione

Orfeo e i Sabei di Harran

_____________________________________________________________________________

Il presente lavoro sviluppa i contenuti dell’articolo “Una Nuova Evidenza sui Sabei di Harran” (2014), ed è

stato concepito come studio preliminare a Il Mistero della Testa Parlante (di prossima pubblicazione). Il

materiale di questo libro antologico è suddiviso in sei sezioni (testimonianze del mondo classico, ebraico,

cristiano, celtico, di Harran, dei Templari), dove viene riprodotto e commentato volta per volta: mi è parso

inutile perciò farvi riferimento anche in questa sede. Tanto le storie sulla testa di Orfeo che canta o

profetizza accompagnato dal suono della lira, quanto quelle sui Sabei di Harran abili a trarre oracoli dalla

testa mozzata di un uomo, sono dunque sostanzialmente assenti dal discorso. Eppure l’esigenza di

approfondire il legame tra i due contesti sorge proprio in virtù del denominatore comune di questo

sorprendente insieme di leggende: una testa senza il corpo in possesso di poteri divinatori, appunto.

Analogie e differenze emergeranno spontaneamente dai documenti dell’antologia: qui si è cercato,

piuttosto, di mettere a fuoco alcuni nuclei tematici (il Grande Anno, i budar/bughdariyyun di

Sumatar/Harran e l’accadico [w]ardu, la phroura platonica, il symbolon ’Gazzella’, Bacchici-Orfici-‘Adoratori

di Dio’ a Olbia Pontica, simbolismo del Centro e nome del Nord, Argonautika) e di analizzarne

adeguatamente le interconnessioni. Davanti a un quadro dominato da interrogativi sia sul versante

dell’Orfismo sia del Sabeismo, ho voluto scommettere sulla probabilità che le incognite, anziché

raddoppiare gli ostacoli, fossero in grado quasi per magia di farsi luce a vicenda.

*

The present work develops the contents of the article “A New Piece of Evidence about the Sabians of

Harran” (2014), and was conceived as a preliminary study to The Mystery of the Talking Head

(forthcoming). The material of this anthological book is divided into six sections (testimonies of the

Classical, Jewish, Christian and Celtic world, of Harran, of the Templars), where texts and comments are

given each time: it seemed to me useless, therefore, to repeat these references once again here. So, almost

nothing in the following discussion is told about Orpheus’ head singing or prophesying while his lyre is

playing music by its own, nor about the Harranian Sabians’ skill in drawing oracles from a human head. And

yet the need to explore the relations between both contexts does arise just when considering the common

bulk which such an amazing corpus of legends share: a head cut off from its body being able to foretell

future, indeed. Analogies and differences will appear spontaneously from the anthology’s documents: here

I have tried, instead, to focus some relevant issues (the Great Year, the budar/bughdariyyun of

Sumatar/Harran and the Akkadian noun [w]ardu, the platonic phroura, the symbolon ’Gazelle’, Bacchics –

Orphics – God-worshippers at Olbia Pontica, Centre symbolism and the name of the North, Argonautika)

and to analyze adequately their mutual connections. Dealing with a subject which raises so many unsolved

questions both on the side of Orphism and of Sabianism, I trusted that uncertainties, rather than

redoubling obstacles, could magically happen to shed light on each other.

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Orfeo … introdusse per primo tra i Greci le iniziazioni e i culti misterici (Diod. Sic., V, 64, 4).1

E’ Orfeo ad inaugurare la fantastica storia della Testa Parlante, e in grande stile per giunta.

Poteva essere altrimenti? Direi proprio di no, se bisogna credere alla testimonianza di Diodoro

Siculo (I sec. a.C.), citata nel frontespizio, secondo cui il primato di aver introdotto in Grecia le

pratiche iniziatiche e la religione dei misteri apparterrebbe proprio al leggendario cantore

d’origine tracia.2

Il senso della frase usata qui dallo storico appare in effetti piano e lineare, ma non sarà

inutile osservarla un po’ più da vicino onde evitare fastidiosi fraintendimenti.

Partiamo, intanto, dal termine ‘Greci’: la parola è da prendere alla lettera, non per una

formula di comodo per i popoli dell’Occidente in generale. Come vedremo nel corso della nostra

indagine, la Sapienza della quale Orfeo si fa per primo portavoce in Grecia trova espressione

anche in altre aree del nostro continente, attraverso forme e modalità tali da escludere però ogni

legame di dipendenza da lui e da quanto la sua persona comunemente rappresenta. Ciò, anche

solo in considerazione della cronologia: sebbene molti fra i Greci amassero consegnare il

personaggio di Orfeo ad un passato quanto mai lontano, remoto, primordiale (certo di molto

anteriore a Omero ed Esiodo, i due poeti-teologi per antonomasia3), le evidenze archeologiche e

letterarie raccontano una verità ben diversa, perché basta risalire all’indietro del VI secolo a.C. per

perdere bruscamente le sue tracce.4 Si tratterebbe dunque di un mito abbastanza recente, ma non

è tanto questo che importa. E’ il particolare momento storico in cui l’eroe entra da protagonista

nell’immaginario collettivo degli antichi che merita attenzione. La scansione temporale

dell’evento, infatti, è decisiva.5

1 Seguo la trad. di Scarpi, ‘Orfismo’ D 1 (OF, T 42; Colli, 4 [B 22]; OF

2, 519): la fonte è Eforo (IV sec. a.C.), FGrH 70 F 104.

2 In diversi passaggi precedenti (I, 23, 2-3; 6-7; I, 96, 4-6; IV, 25, 1-4 = OF, T 95 [1 e 2], 96, 97; Colli, 4 [B 23-25]; OF

2, 48

III, II, IV) Diodoro precisa che O. avrebbe appreso tali segreti religiosi in Egitto, limitandosi ad operare qualche aggiustamento in funzione della sensibilità dei Greci: “Infatti, il rito iniziatico di Osiride è lo stesso di quello dionisiaco, invece quello di Iside è molto simile a quello di Demetra, visto che solo i nomi sono cambiati”. Benché anche altri autori antichi sottoscrivano l’origine egizia dei misteri orfici (Eusebio, Praep. ev. I, 6; Teodoreto, Graec. affect. cur. I, 114 = OF, T 98 [1], 100; OF

2, 52 III, 51 III), la questione rimane controversa (infra, n.96).

3 Proclo, Vit. Hom. 19 Seve.; Certam. Hom. et Hes. 4 (36, 8 Wilam.); Carace ap. Suida, s.v. ‘Omeros’; Porfirio ap.

Eusebio, Praep. ev. X, 4 (= OF, T 7, 8, 9, 17; OF2, 871 I, 873, 872, 888 II). C’era tuttavia pure chi, come Erodoto, II, 53,

metteva in forse la cronologia comunemente condivisa: “i poeti che si dice siano vissuti anteriormente a questi uomini [Om. ed E.] a parer mio vissero più tardi”: cf. Masaracchia, 183 e n.28; Cosi, 151-2; West (1993), 52. Il carattere sapienziale della poesia nel mondo antico è sottolineato con forza da Vernant, 95-101; Graf (1986), 100-1, chiama esplicitamente in causa anche la musica; Ildestraut Hadot, 436-41, fa rientrare l’esercizio di queste due arti (accanto all’educatore, al saggio, al legislatore, al re, al filosofo) tra i profili canonici della ‘guida spirituale’. Su parola e magia/magia della parola, Versnel, 105-58, soprattutto 152 ss.; su nonsense e voces magicae, Cox Miller, 481-505. 4 Il più antico reperto iconografico è una metopa del Tesoro dei Sicioni a Delfi raffigurante il citaredo Orphas sulla nave

Argo (infra, 43 e n.173); e al VI sec. risale parimenti la prima menzione dell’eroe in un testo letterario (Ibico di Regio, PMG fr. 25: onomaklyton Orphen = OF, T 2; Colli, 4 [A 1] a; OF

2, 864 II). Occorre invece attendere fino alle Rane di

Aristofane (1032: teletas … katedeixe) o al Reso pseudeuripideo (943: mysterion te ton aporreton phanas edeixen) per incontrare O. nelle vesti di fondatore di riti di iniziazione: OF, T 90-1; Colli, 4 [A 25] e [B 5]; OF

2, 510-1; cf. Pugliese

Carratelli (1990), 392; Adorno, 24-5; Graf-Johnston, 245-7. 5 La rivoluzione spirituale che investì la Grecia durante il VI sec. a.C. corre come si sa in parallelo alla predicazione del

Budda in India, nonché all’opera di riforma condotta da Zoroastro in Iran nell’ambito del Mazdeismo, almeno stando alla cronologia tradizionale (per una datazione fors’ anche precedente il 1000, si pronunciano fra gli altri M. Boyce, A

3

I manuali di storia della filosofia riservano da sempre un angolino all’Orfismo o agli Orfici

prima di celebrare la nascita della Filosofia vera e propria, della Filosofia con la effe maiuscola,

ossia del pensiero dei Presocratici. Ma l’immagine è ingenua, anzi di più. Fuorviante. Ad essere

sinceri certi strumenti per correggerla sono stati messi in campo da tempo, grazie già alla ventata

di aria nuova suscitata dalla rilettura dello spirito della tragedia da parte di Nietzsche o alla

denuncia della catastrofe abbattutasi sul pensiero occidentale in seguito all’ ‘Oblio dell’Essere’ di

Martin Heidegger. Così anche qui da noi, in Italia, un maestro come Giorgio Colli ha speso una

quarantina di anni or sono le sue ultime energie per costruire un paradigma alternativo e più

aderente alla realtà della presunta linea evolutiva che, dalle goffaggini della mitologia e delle sue

fantasticherie, approderebbe non senza fatica al pensiero consapevole di se stesso. Esiste una

sorta di limbo, di terra di nessuno, che viene a frapporsi tra modi tanto diversi se non opposti di

sentire, tra visioni del mondo tanto divaricate e distanti. Ed è questa zona morta intermedia, in cui

i confini tra mito, scienza, religione, magia, pensiero razionale, poesia diventano improvvisamente

aleatori e incerti, che Colli ha voluto innanzitutto restituirci. La Sapienza Greca.6 Massime di

saggezza appartenenti a personaggi di favola come Orfeo e Museo, a venerabili santuari come

Eleusi, a oracoli pronunciati nel nome di Apollo e di Dioniso, o degli Iperborei. Ma non solo. Pure il

verbo dei cosiddetti ‘filosofi’, o quantomeno di alcuni di essi, va a gettarsi dentro le acque di

questo fiume d’ intramontabili sentenze di verità: primi fra tutti i pionieri della scuola di Mileto,

Talete, Anassimandro, Anassimene, poi Eraclito di Efeso, poi …

Purtroppo il destino ha troncato la vita dello studioso italiano prima che il suo lavoro

potesse giungere alla fine. Sennò non avrebbero mancato di occupare il loro posto anche Pitagora,

Empedocle, o lo scoliarca di Elea, Parmenide, che era forse l’ultimo quadro da apporre affinché la

galleria dei Giganti fosse al completo. Quanto a Platone invece, no, niente da fare. La sua presenza

non era prevista nella casa chiamata a dare ospitalità alla Sapienza dei Greci. Perché no? Per due

semplici ragioni: la prima, scolastica, è che l’opera del fondatore dell’Accademia viene a cadere

all’indomani della stagione presocratica e non risponde dunque al suo presunto carattere

History of Zoroastrianism, Leiden-Koln 1975, I, 3-7, 190-1; G. Gnoli, Zoroaster’s time and homeland: a study of the origins of Mazdeism and related problems, Napoli 1980, 10-1, 159-79): lo scopo per cui i Greci furono spinti a fissare la vita e l’attività del profeta persiano proprio in questo periodo sarebbe stato quello di accreditarlo quale maestro di Pitagora, sostiene P. Kingsley, “The Greek origin of the sixth-century dating of Zoroaster”, BSOAS 53 (1990), 245-65. Sul ruolo cruciale della fase compresa fra sei e cinquecento fa leva ugualmente van der Waerden (1953), 482-3 (cf. id. [1952], 145-9; West (1993], 115-7), per spiegare le influenze della Persia sulla Grecia sul piano teologico-dottrinario, in particolare riguardo alla preminenza di Chronos ageraos (‘Tempo senza vecchiaia’ = Zurvan Akarana) nelle teogonie orfiche (OF, F 66; Colli, 4 [B 43]; OF

2, 111); per una trattazione più ampia e dettagliata, id. (c.1974), II, cap.V (‘Cosmic

Religion, Astrology and Astronomy’), 126-202, specialmente 161-72; ulteriori indicazioni infra, n.121. E’ immediatamente dopo (principio V sec.) che Sarah Iles Johnston (1999), 83-102, constata la diffusione in Grecia di un’idea della morte e del rapporto vivi-morti di matrice vicino-orientale, di cui O. è per certi versi l’emblema: “We often translate ‘goes’ as ‘magician’, but … I will suggest that the goes, like Orpheus, combined within a single person the talents of magic, music, mystery religions, and – most importantly – the ability to interact with souls of the dead” (84); di grande interesse il ricorso al verbo anago (‘guidare su, [far] risalire [dall’Ade]’) dall’epoca classica in poi per l’evocazione delle anime dell’Oltretomba (ibid. 85 e n.6). 6 Colli, I (Dioniso, Apollo, Eleusi, Orfeo, Museo, Iperborei, Enigma), II (Epimenide, Ferecide, Talete, Anassimandro,

Anassimene, Onomacrito, Teofrasto: Opinioni di Fisici 1), III (Eraclito). L’inadeguatezza dell’opposizione mythos-logos è ben centrata da Kingsley, 80: “What to a superficial person is just a ‘myth’ may have all the decisive attributes of a logos for someone whose perception runs deeper”.

4

romantico-informale; l’altra, più impegnativa, riguarda la circostanza che con Platone e con il

Platonismo venga a spalancarsi quel fatidico allontanamento dalle sorgenti vive, palpitanti

dell’Essere, oggetto del richiamo levato a voce alta da Heidegger, di cui si diceva.

Cancellare Platone dal popolo degli antichi sapienti è una forzatura che lascia onestamente

interdetti, tant’è vero che nessuno prima del secolo appena trascorso e delle aberrazioni a cui ci

ha fatto fare l’abitudine si era mai sognato di azzardare un passo pari a questo.7 Per capire tutta la

portata di un’espulsione che – è forse il caso di battere su questo punto – opera non soltanto

contro la verità ma pure contro il più elementare buon senso, basterà ricordare per esempio che la

catena aurea dei Prisci Theologi o, che è lo stesso, dei cultori della Pia Philosophia certificata da

Marsilio Ficino prende avvio con Zoroastro, per proseguire quindi con Ermete Trismegisto, Orfeo,

Aglaofemo, Pitagora e Filolao. L’uomo deputato alla fine ad assumersi in Europa il compito di

raccogliere, riordinare e trasmettere l’eredità di una Scienza della cui natura universale fanno fede

i paesi d’origine delle sei autorità accettate da Ficino (i quali comprendono, in aggiunta all’Ellade,

la Persia, la Mesopotamia e l’Egitto, ossia tutti i principali Centri di Conoscenza del mondo antico)

non era ai suoi occhi nient’altri che il divino autore dei Dialoghi.8 Del resto, senza andare a

scomodare gli umanisti della Firenze medicea, la convinzione che il pensiero di Platone andasse ad

innestarsi nel solco di non meglio precisate dottrine ‘orfico-pitagoriche’, tanto da fare in definitiva

un tutt’uno con esse, era diffusa già fra quei Greci dell’epoca classica che individuavano una

tradizione unitaria e coerente alle spalle del suo insegnamento. Per Plotino e i tardi epigoni del

Neoplatonismo, poi, si tratta addirittura di un dato scontato: secondo Olimpiodoro,

Platone parafrasa Orfeo in tutta la sua opera (in Phaed. 10, 3), 9

mentre a detta di Proclo

l’intera teologia dei Greci è derivazione dalla dottrina segreta orfica, [da cui] Platone ebbe ad accogliere …

la perfetta scienza su tali argomenti (Theol. Plat. I, 5).10

7 Del resto, quanto precisato supra, n. 6, è in generale valido pure per Platone: W.K.C. Guthrie, A History of Greek

Philosophy, IV, Cambridge 1975, 362: “In Plato’s time no firm line could be drawn between myth (or religious belief) and what was taken for scientific fact”, anche soprattutto perché la moderna categoria occidentale di ‘scienza’ non coincide affatto con quel che è incluso nel termine greco logos. 8 Marsilio Ficino, Teologia Platonica, ed. Vitale, 427 (VI, 1), 1073 (XII, 1), 1697 (XVII, 1). Una genealogia degli antichi

teologi si trova già nel proemio alla versione da lui redatta del Corpus Hermeticum (1463), dove però Ficino fa partire la serie con Hermes/Mercurio (“Merchurio […] fu chiamato adunque primo auctore della teologia”); “in seguito, probabilmente sotto l’influenza del dotto bizantino Gemisto Pletone, il Ficino riconsidera il ruolo della tradizione dei Magi persiani … collocando Zoroastro all’origine della tradizione dei prisci theologi”: Vitale, ibid., ‘Saggio Introduttivo’, XLVII-XLVIII, a cui rimando anche per la discussione e la bibliografia relative. 9 Pantachou gar ho Platon paroidei ta tou Orpheos; cf. in Phaed. 7, 10 (paroidei gar pantachou ta Orpheos) (OF

2, 338 II;

576 IV). 10

OF2, 507 IV; cf. in Tim. III, 161, 1 Diehl (OF

2, 507 III). Sull’affidabilità di Olimpiodoro e di Proclo circa i rapporti di

continuità/dipendenza tra Platone e l’Orfismo, Kingsley, 120-1; Uzdavinys (2011), 42. Secondo l’atteggiamento finora dominante, rappresentato p. es. da Pugliese Carratelli (1990), 408, o da Bernabé (1998), 89, la bontà del materiale in possesso di Platone sarebbe viziata dalle distorsioni prodotte principalmente dai neoplatonici, rei di “magnificare l’apporto orfico, ritenendolo il grande motore della filosofia platonica … , salvo poi deformarlo immediatamente nel commento” (ciò che non impedisce allo stesso Bernabé (2002), 401-33, di fare comunque appello a queste tarde testimonianze). L’ articolo di Brisson, “Orphée, Pythagore et Platon. Le mythe qui établit cette lignée” (2002), 15-27, non si discosta dalla medesima cifra interpretativa.

5

La distanza sussistente tra la teoria divulgata per iscritto nei Dialoghi e quella professata

oralmente ad esclusivo uso e consumo degli adepti 11 - che ricalca, per inciso, la distinzione tra

piano essoterico e piano esoterico di una dottrina - non è comunque il fattore di massimo spicco

nella partita in gioco. L’interesse del ruolo di Platone nell’ambito del tema discusso in queste

pagine consiste nell’insolita chiave di lettura da lui fornita a un certo punto del concetto stesso di

Filosofia. Dichiara infatti l’autore in un passaggio-chiave del Fedone:

E forse anche coloro che ci prescrissero le iniziazioni non erano uomini da poco, ma già dall’antichità forse

alludevano a cose vere, affermando che … ci sono … molti che portano il tirso [narthekophoroi], ma pochi

veramente posseduti dal dio [bakchoi]. Costoro, secondo il mio parere, non sono altri se non coloro che

hanno filosofato rettamente (Phaed., 69c). 12

Si tratta di un brano molto noto, ma l’attenzione dei commentatori si è sempre focalizzata

sulla sequenza centrale (evidenziata qui in corsivo dal curatore del testo), forse per il patente

parallelismo con l’ammonimento evangelico: “Molti sono i chiamati ecc.”. Sono finite per passare

così in second’ ordine sia la conclusione del discorso sia, soprattutto, le conseguenze estreme che,

a valutarne appieno la portata, essa irrimediabilmente comporta. Perché quanto comunica qui

Platone è di un’enormità davvero sconcertante. Senza girarci troppo intorno, il Padre della filosofia

occidentale ci rivela all’improvviso che il filosofo autentico è per lui indistinguibile da chi ha non

semplicemente preso parte ai Misteri, ma è stato anche capace di portare avanti il proprio viaggio

spirituale fino al suo prodigioso compimento, fino all’incontro finale con il dio, con l’Altro, con la

morte. Filosofo e mystes sono in realtà una cosa sola; la pratica della filosofia si sovrappone e si

confonde così con l’esperienza di un percorso iniziatico.

Il fenomeno magari non sorprenderà quanti hanno familiarità con il Greco e sono

consapevoli perciò dell’idea di ‘completezza, perfezione, perfezionamento’ che la radice tele-

abitualmente esprime in questa lingua: a differenza, anzi addirittura all’opposto delle simmetriche

voci latine (e italiane) generate da una base verbale indicante l’ ‘inizio, il principio, il

cominciamento’ di qualche cosa, telete (‘iniziazione’) è il processo in virtù del quale si ottiene il

raggiungimento di se stessi, il proprio agognato ‘compimento’, cosicché un iniziato (teletes) non

sarà altri alla lettera se non un individuo oramai ‘compiuto’ o, ancor meglio, ‘perfetto’. Beninteso,

non è che l’uomo giunto a godere di questo privilegio sia diventato da un giorno all’altro una sorta

di Superman o di Supereroe, chiunque lo comprende da sé. Ma il paradosso linguistico per cui i

Greci vedevano una ‘fine’ laddove i Romani viceversa scorgevano un ‘principio’, pur parlando

entrambi della medesima cosa, ne rappresenta forse la prova più schiacciante. E’ solo questione di

accento posto ora sull’una, ora sull’altra faccia della medaglia: come insegna ancora Dante ne La

Vita Nova (XLII), la fine per esaurimento dell’uomo vecchio coincide con la “mirabile visione”

11

Ai fini del discorso portato avanti qui, non è purtroppo d’aiuto il lavoro pubblicato circa trent’anni or sono dal compianto Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce delle ‘dottrine non scritte’ (Milano 2010

22).

12 Seguo la trad. di Arrighetti, 21 (OF, F 5; Colli, 7 [A 21]; OF

2, 576). Il concetto di ‘retto filosofare’ compare anche in

Phaed., 67d (in quanto aspirazione al “discioglimento e [al]la separazione dell’anima dal corpo”) e 81a (in quanto “meditazione della morte”).

6

grazie alla quale sboccia la totale rinascita del nuovo.13 La beatitudine guadagnata a caro prezzo da

quest’ultimo non è tuttavia alcunché di permanente, e tantomeno una conquista destinata a

risolversi in uno stato di quiete o di pacioso appagamento. Al contrario. Il dramma della discesa

agli inferi, la pena amara delle espiazioni e la dolcezza dell’ ascesa verso le Luci del Cielo avranno

ancora da ripetersi per lui non una, ma dieci, mille, infinite volte. La legge implacabile del Ritorno

impressa per l’eternità sopra l’ordine del cosmo non fa sconti a nessuno, ma non c’è speranza per

gli umani né salute né vita senza la vertigine dell’ Essere e la sua gioiosa accoglienza nella mente

e nel cuore.

A molti un discorso del genere non mancherà di evocare la celeberrima teoria nietzscheana

dell’Eterno Ritorno, nonché le parole di entusiasmo con cui il filosofo dava pubblicamente

annuncio della folgorazione suscitata in lui dalla scoperta dell’arcana dottrina. Penso però sia

opportuno in questa sede prendere visione dei testi originali, perlomeno di alcuni, poiché, pur

risalendo all’ età tardo-antica, si rifanno tutti senza eccezione ad idee antecedenti legate da vicino

con il nostro contesto. La credenza nei Ricorsi ciclici dell’universo è ovviamente dipendente dalla

teoria del Grande Anno (ne tralascio le differenti versioni e i vari criteri utilizzati per il calcolo della

durata),14 il cui grande successo in età ellenistica e imperiale deve meno alle ragioni della

cosmologia e della scienza - le quali pure ne sono all’ origine - che non a quelle della mistica

celeste e del determinismo astrale tipici del periodo.15 Nella sua forma più radicale l’idea veniva

attribuita di solito dagli antichi alla scuola del Portico ed era pertanto così riassunta dal

neoplatonico cristiano Nemesio alla fine del IV secolo d.C.:

Gli Stoici affermano che i pianeti si ristabiliscono identici, sia in latitudine sia in longitudine, nella medesima

zona dello zodiaco che ciascuno occupava alle origini della costituzione del cosmo; e questi pianeti in tempi

prefissati determinano la conflagrazione e la distruzione della realtà. Poi, di nuovo, il cosmo si riformerà

così com’era all’origine: gli astri seguiranno la loro consueta orbita, e la condurranno a termine allo stesso

identico modo che nel precedente periodo. E torneranno ad esserci Socrate e Platone ed ogni uomo, con i

loro amici e concittadini: le medesime cose ci convinceranno e delle medesime cose ci serviremo; e ogni

città, ogni villaggio e ogni campo risorgerà uguale. La rigenerazione [apokatastasis] del tutto non sarà un

caso unico, ma si ripeterà più volte: o meglio, le stesse cose torneranno ad essere indefinitamente e senza

fine (de Nat. homin., 38). 16

Ma la tesi che ogni cosa abbia a riprodursi così com’è fin nei minimi dettagli nel corso di

cicli innumerevoli di tempo sembra non esser stata un’innovazione dello Stoicismo. Uno dei più

13

“No one can reach heaven without having first gone down to hell”, Kingsley, 252 n.6, che così continua: “Particularly worth noting in other-world journeys is the importance of arriving at a place which simultaneously gives access to the lowest depths of the cosmos and to the greatest heights of heaven, plus the fact that this place is invariably arrived at through an initial descent or ‘death’ ”; cf. Eliade, 224-5, 428-32. Sulla famiglia lessicale telein, telete ecc. (e gli equivalenti latini) in relazione ai mysteria si sofferma Burkert (1987), 7 ss.; per il rapporto con la teurgia, Graf (2011), 61 e nn.44-5 (a proposito di Plat., Resp. 364d5-365a2 e di Agost., de Trinit., 28; Civ. D.,10, 9). 14

Un’eccellente messa a punto sull’argomento è fornita da De Callatay (1996), soprattutto capp. I-IV (in Appendix 2, 253-7, rassegna completa dei ‘Grandi Cicli’ secondo gli autori classici e arabo-medievali, calcolati in anni solari). 15

Per un quadro complessivo, Festugière, II (1949), resta ancora oggi un punto di riferimento obbligato; per una presentazione schematica, Pepin (1989), 408-35. 16

= SVF (II), fr.625, con lievi modifiche della trad. it (sottol. d. curat.); de Callatay (1996), 59; van der Waerden (1952), 131.

7

attivi e più brillanti epigoni dell’Accademia Platonica di Atene, Simplicio (VI sec. della nostra èra),

ha conservato ad esempio un passaggio dell’allievo di Aristotele Eudemo che rispecchia

nell’essenziale l’immagine appena scorsa, se non per il fatto di ascriverne la matrice ai seguaci di

Pitagora:

Ora, se dobbiamo credere ai Pitagorici, le stesse cose (avranno luogo) numericamente [arithmo] di nuovo.

Io insegnerò a voi la stessa storia, con la stessa bacchetta nella mano, e voi sarete seduti come lo siete

adesso, e ogni cosa sarà la stessa, cosicché possiamo dire che pure il tempo è lo stesso (in Phys., IV, 12). 17

In effetti, che la Stoa si fosse limitata a recuperare una dottrina espressa già in precedenza,

donandole però universale risonanza, era nell’antichità un dato largamente condiviso. E’ quanto

emerge da altre due testimonianze dello stesso Simplicio che, a proposito del perenne processo di

distruzione e rigenerazione del mondo, fa riferimento nel suo Commento al De Coelo (I, 10) ad

Empedocle ed Eraclito,18 mentre nel Commentario alla Fisica (VIII, 1) menziona in aggiunta i nomi

di Anassimene e di Diogene.19 E’ tuttavia soprattutto una pagina del Contro Celso che mi pare

istruttiva. Al pari di tanti polemisti cristiani e Padri della Chiesa, Origene non evita di scagliarsi

contro una concezione del universo e dell’uomo che comprometteva l’unicità irripetibile

dell’incarnazione di Gesù, svuotando di senso la sua missione salvifica e la sua opera redentrice. In

questo caso però l’attacco del dottore di Alessandria non investe soltanto come in altre occasioni

gli Stoici e la loro inquietante cosmologia; chiamata in causa è infatti pure stavolta la scuola

pitagorica, cui vanno ad affiancarsi – guarda un po’! – anche i discepoli di Platone:

Inoltre, sebbene i Pitagorici e i Platonici sostengano che … quando, dopo un lungo periodo di tempo, le

stelle entrano nelle stesse relazioni reciproche che esse avevano [per esempio] al tempo di Socrate, Socrate

nascerà di nuovo dagli stessi genitori e patirà gli stessi attacchi, e sarà messo sotto accusa da Anito e

Meleto, e verrà condannato dal concilio dell’Areopago (C. Cels. V, 21). 20

Il bilancio che è lecito trarre da questa rapida rassegna comporta senza dubbio dei

problemi. La serie di rinascite e di immani catastrofi (per mezzo, alternativamente, dell’acqua e del

fuoco), da cui il mondo sarebbe ciclicamente affetto a scadenze fisse, non implica la necessità che

esso ad ogni sua nuova stagione ripercorra attimo per attimo i medesimi eventi a causa

dell’identica configurazione astrale. Non è dunque possibile procedere ad un’automatica

inclusione dei sostenitori della teoria del Grande Anno nella categoria di coloro che sottoscrivono

a spada tratta quest’ultima, iperbolica conseguenza. Così come non è dato di sapere con sicurezza

se, quando si parla di ‘Pitagorici’ e di ‘Platonici’, ci si riferisca in realtà a tarde rielaborazioni

maturate in seno al Neopitagorismo e al Neoplatonismo o se viceversa si intenda parlare di

modelli di pensiero sviluppati davvero nell’ambito dei circoli originari.

Sono difficoltà serie, ma non bisogna sopravvalutarne il peso. Nessuno pensa di negare che

una precisa visione del cosmo, insieme alla metafisica da essa presupposta, si arricchì col tempo

17

De Callatay (1996), 60; van der Waerden (1952), 130. 18

= SVF (II), fr. 617b; de Callatay (1996), 61; van der Waerden (1952), 132-3 (per Eraclito e Ippaso pitagorico). 19

= SVF (II), fr.576; de Callatay (1996), 61. 20

De Callatay, 94.

8

grazie a novità culturali alla moda quali la raffinata astrologia dei Caldei e le suggestive

misteriosofie della Gnosi o dell’Ermetismo. Ma non si può negare nemmeno che l’idea

dell’eternità del mondo assuma in Grecia fin dai Presocratici, o ancor da prima, la figura di un Ciclo

votato in perpetuo ad un’indefinita ricorrenza; né che una tale concezione del Tempo – ‘immagine

mobile dell’eternità’ stando alla formula memorabile del Timeo - si coniughi da presso con l’idea

dell’immortalità dell’anima e delle sue reincarnazioni/trasmigrazioni trasmessa da Platone, da

Pitagora e, primo fra tutti, da Orfeo.21 Non fa meraviglia dunque se questi compare tra le autorità

garanti dell’esistenza del Macroperiodo in oggetto che lo stoico romano Censorino registra

all’interno della sua opera consacrata per l’appunto alla cosmologia (238 d.C.):

Per quanto riguarda la lunghezza di questo Grande Anno, Aristarco [le] assegnava 2.484 anni, Arete di

Dirrachio 5.552 anni, Eraclito e Lino 10.800 anni, Dione 10.884 anni, Orfeo 120.000 anni, e Cassandro

3.600.000 anni; ma altri autori hanno pensato che la sua durata è infinita e che esso non ritorna mai

indietro [al punto di partenza] (de Die nat., 18, 11).22

Con ciò, credo anche di aver esposto l’essenziale di quanto mi stava a cuore dire intorno

alle ‘iniziazioni e i misteri’ del breve testo di Diodoro da cui si era partiti, ed al loro presunto

‘svelamento’ primordiale da parte dell’eroe tracio.23

*****

Resta un nodo ancora da scogliere, il più delicato. Sì, proprio lui, Orfeo! Ma che cosa c’è da

discutere, cosa c’è di irrisolto? Qual è insomma il problema? Niente, mi piacerebbe rispondere;

nessuno. E invece no. Perché a dispetto della letteratura davvero sconfinata prodotta nel corso dei

secoli sull’argomento (e dei contributi preziosi apportati dagli studi e dalle scoperte degli ultimi

21

Che gli Orfici credessero nell’immortalità dell’anima è un fatto scontato; non altrettanto si può dire invece per la metempsicosi, la cui individuazione nell’ impianto dottrinario della setta è stata a lungo oggetto di dibattito. Tra i favorevoli, si contano i nomi di Rohde, Nilsson, Dodds; tra i contrari, non poteva certo mancare in primis quello di Wilamowitz (“eine orphische Seelenlehre soll erst einer nachweisen”, Glaub., II, 194): Burkert (1972), 126 e n.32. Analisi del tema sulla base delle testimonianze antiche in Casadio (1991), 119-55. 22

De Callatay (1996), 33 e 68-9; van der Waerden (1952), 134; West (1993), 69-70, anche per le altre fonti citate supra, 6-7. Sulla durata del Grande Anno di O., van der Waerden (1953), 481-3. 23

Spero di mostrare meglio nelle prossime pagine la congruenza del taglio che si è voluto dare (seguendo fra gli altri Burkert [1987], 90; Pepin, 424-9; Obbink [1997], 35-54) alla sezione d’apertura. Non occorre enfatizzare i debiti nei confronti di un classico come Il Mulino di Amleto di De Santillana-von Dechend, il cui orizzonte di ricerca si raccoglie bene nel giudizio: “Questo tipo di pensiero [il cosiddetto ‘p. mitico’] può essere definito in un modo solo: essenzialmente cosmologico” (74). Purtroppo i due autori tralasciano elementi come il konos (‘pigna, trottola’), il rhombos (‘rombo, ruota magica, disco per incantesimi, trottola’), o la sphaira (‘palla, sfera’) - ossia di alcuni almeno dei ‘giocattoli di Dioniso’ studiati da Tortorelli Ghidini (2000), 257-63; ead. (2006), 268-77; cf. Burkert (1993), 166-70) – la cui ragion d’essere in quanto oggetti mistici riposa forse, non da ultimo, proprio sul piano dell’uranografia e/o della cosmologia: Eraclito insegna: aion pais esti paizon, pesseuon, “il tempo è come un fanciullo che gioca, lanciando i dadi” (DK, 22 B 52; cf. H. Jeanmaire, Dioniso, trad. it. Torino 1972, 410-1); per il dodecaedro platonico e la palla simbolo della terra, West (1993), 43 e n.99.

9

decenni),24 il personaggio continua a mostrarsi per tanti aspetti sfuggente, enigmatico,

impenetrabile, non riuscendo a perdere quell’alone di inafferrabilità e di mistero che in

permanenza lo avvolge e che oggi come ieri, è alla base del suo fascino. Eppure di lui sappiamo

praticamente tutto. Conosciamo i suoi genitori, i suoi maestri e i suoi discepoli, la sua patria. Lo

scopriamo altrettanto a proprio agio nei panni del cantore, del citaredo, del poeta, nonché in

quelli di argonauta, di mago, di indovino, di teologo, e perfino di profeta. Lo accompagniamo nel

tenebroso regno di Persefone mentre ne scioglie i suggelli a favore dell’amata con la forza del suo

canto, solo per doverla cedere poi di nuovo e per sempre all’abbraccio gelido della morte. Lo

sorprendiamo sui monti solitari intento a comporre melodie dolcissime, tali da indurre in incanto

gli animali, le piante, gli alberi ed addirittura le rocce, felici di raccogliersi docili e ubbidienti

attorno a lui per ascoltarlo. Lo osserviamo, infine, cadere sotto i colpi delle donne invasate dal

furore sacro di Dioniso (?), le Menadi, per le quali egli è divenuto ormai un nemico da distruggere

e da fare orrendamente a pezzi: più tardi, il pietoso ufficio di raccogliere e di seppellire quelle

povere membra disperse sarà assolto dalle Muse (una di esse, Calliope, era la madre), mentre la

testa e la lira verranno trascinate via lontano dalle acque senza smettere di far risuonare però né

la voce né le sette corde dello strumento.

I molti, moltissimi tasselli della saga di Orfeo (mi sono limitato qui a ricordare soltanto i

blocchi principali) non riserbano in fin dei conti alcun segreto. Certo, come in ogni saga che si

rispetti le vicende e i personaggi della leggenda, provenendo da tradizioni disparate, non

obbediscono a un unico copione e rivelano quindi aspetti contrastanti quando non totalmente in

contraddizione fra loro. Ma non è comunque da questo versante che nascono le perplessità. Lo

scoglio sta altrove. Sta, banalmente, nel … nome! A tutt’oggi, infatti, nessuno è riuscito a stabilire

con esattezza il significato del nome di ‘Orfeo’, e non è un dettaglio trascurabile. In assenza di un’

etimologia ragionevole, in mancanza cioè di prove convincenti circa la reale origine della parola,

non si fa secondo me molta strada. Quando non ci sono fatti, non rimangono che le

interpretazioni, e va benissimo. Ma si può dire lo stesso se ad apparire incerto, confuso e

vacillante è, come stavolta, proprio il punto di partenza? Basta consultare l’eccellente articolo

redatto a suo tempo da Konrat Ziegler per l’ Enciclopedia delle Antichità Classiche di Pauly per

capacitarsene: dopo aver passato coscienziosamente in rassegna le opinioni di antichi e moderni in

merito alla questione, l’autore è costretto in tutta onestà ad ammettere che nessuna di esse è da

giudicarsi davvero credibile o tale da trascendere il piano delle pure e semplici congetture.25 A

prescindere dalle ipotesi più curiose, ciò vale anche per le poche che parrebbero “da prendere più

sul serio”, come per esempio quella relativa al legame semantico di ‘Orfeo’ con i termini greci

24

Il repertorio bibliografico più completo è in Bernabé (2004-7), Fasc.1, XII-LXXXIII, Fasc.2, XI-XXV; di più agile consultazione le bibliog. di Scarpi, LXXVI-LXXXII; Tortorelli Ghidini (2006), 307-20; Graf-Johnston, 313-30. Un sintetico rendiconto delle posizioni degli studiosi, nel secolo e mezzo circa intercorrente tra il celebre Aglaophamus, sive de theologiae mysticae Graecorum causis libri tres di Christian Lobeck (1829) e gli Orphic Poems di Martin West (1983), lo offre Masaracchia introducendo gli Atti del Seminario Nazionale su Orfeo e l’Orfismo (1993), 14-8; Edmonds, 3-15, copre anche il periodo successivo, così come Graf(-Johnston), 73-97, che in più ricorda qualche simpatico pettegolezzo. Dei ritrovamenti archeologici ‘sensazionali’ (Riedweg, 1267) occorsi fra il 1962 e il 1985, e cioè il Papiro di Derveni, le placchette in osso di Olbia e le lamine auree di Pelinna, ci si tornerà a occupare infra, n.27, 22-4 e nn.95-101, 41 n.171. 25

Ziegler, 1204.

10

orphnos (‘buio’), orphne (‘oscurità’), orphnaios (‘notte’) e, soprattutto, con erebos:26 la posizione

di preminenza che quest’entità insieme a Notte occupa all’ interno delle teogonie orfiche27 e lo

stretto rapporto di Orfeo con l’oscuro reame di Ade non sono sufficienti a trasformare una sia pur

forte suggestione in realtà. Né migliora granché le cose rinviare in alternativa all’accadico erebu

(‘tramonto’, ‘declino [del sole]’, ‘ovest’),28 poiché se per un verso il lemma fornisce un’etimologia

impeccabile dell’esotico Erebo, non altrettanto riesce a fare per l’altro nei riguardi del mitico

cantore, incorrendo nelle medesime difficoltà sollevate dalla presunta derivazione del suo nome

dal Greco. Dispiace dover riconoscere un passo falso del genere perfino in uno degli studiosi per

cui personalmente nutro maggior stima, Giovanni Semerano; sebbene ciò non implichi in alcun

modo sminuire il valore di quell’autentica pietra miliare che è il suo Le Origini della Cultura

Europea, né le dimensioni dello straordinario orizzonte che quest’opera ha saputo aprire nel

campo della linguistica storica, dando prova del ruolo-chiave giocato dall’Accadico (e, più in

generale, dal Semitico) ai fini della formazione del lessico delle lingue occidentali. D’altro canto, a

scusante dello studioso fiorentino c’è la circostanza che ‘Orfeo’ era giusto una fra le circa ventimila

voci da lui vagliate nel corso della sua pluridecennale ricerca, e si capisce dunque senza fatica

perché egli abbia finito per assecondare in quest’occasione un’idea in grado di attrarre,

quantomeno, il consenso parziale degli specialisti.29

Forse mi sono dilungato un po’ su questo punto, ma credo ne valesse la pena. Per parte

mia, mantengo il fermo convincimento che l’ambito da esplorare per venire a capo delle domande

tuttora irrisolte intorno ad Orfeo siano proprio le risorse di vocabolario delle lingue semitiche, per

troppo tempo cancellate dallo spazio di riferimento degli studi classici in virtù di un modello

ideologico-culturale, risalente ai filologi tedeschi di epoca romantica, viziato a priori da una

smaccata forma di razzismo. Non è il caso di avanzare in questa sede nuove, inedite soluzioni sul

piano etimologico che non farebbero altro che accrescere il numero delle già eccessive proposte

formulate in tal senso. Solo pochi, veloci spunti di riflessione.

Dal punto di vista fonetico è interessante seguire ad esempio l’evoluzione subita dal nome

aramaico dell’antica Edessa (furono i Seleucidi a ribattezzarla in Greco così), città situata nella

provincia alto-mesopotamica dell’Osrhoene di cui divenne peraltro a partire dal periodo ellenistico

anche la capitale: l’aramaico Orhay (Orrha) diviene in Arabo (al-)Ruha per assumere infine in Turco

26

Ibid., 1204-5; cf. OF, T 4; OF2, Fasc. 2, pp.388-9 (nomen).

27 In particolare nella versione più antica, a cui si richiamano Aristofane, Av. 693-702 (“In principio c’erano il Caos e la

N. e il buio Erebo e il vasto Tartaro ecc.”: OF, F 1; Colli, 4 [A 24]; OF2, 64), Aristotele, Metaph. 1071b27 (OF, F 24; Colli,

4 [A 57]; OF2, 20 II; cf. Metaph. 1072a8 e 1091b4), il peripatetico Eudemo ap. Damascio, de Princ. 124, Westerink (“La

teologia trasmessa da Eudemo … fa discendere il principio da N., dalla quale comincia anche Omero ecc.”: OF, F 28; Colli, 4 [B 9] a; OF

2, 20 I), nonché la Teogonia di Derveni (“Canterò … di Zeus … le opere prodigiose, quante ne portò a

termine per consiglio della nera N.”: Tortorelli Ghidini [2006], 177 linn.1-3; Scarpi, ‘Orfismo’ A7, linn.8-9) ricostruita congetturalmente da West (1993), soprattutto 81-149, su cui vd. le giustificate critiche di Brisson (1995), 389 ss., Ricciardelli (1993), 27-51, Burkert (2005), 49, che non incidono però sul punto essenziale. Le peculiarità e le movimentate vicende editoriali del Papiro di Derveni, del quale è apparsa solo dieci anni fa la sospirata pubblicazione ufficiale di Kouremenos-Paràssoglu-Tsantsanoglu, sono esposte da Tortorelli Ghidini (2006), 163-73; testo, trad. e comm., 180-254; cf. OF

2, fasc.3, pp.169-269 (teogonia: fasc.1, pp.2-18). Quanto alla teogonia delle Argonautiche

Orfiche, dove com’è naturale N. spicca similmente in primo piano, infra n.179. 28

CAD, vol.4 (1958), s.v. ‘erebu’, 258: ‘setting (of the sun), west’. 29

Semerano, II, i (Dizionario Etimologico della Lingua Greca), s.v. ‘Orpheus’, 213.

11

la forma (Sanli-)Urfa, che è poi quella in uso ancora adesso.30 Sfortunatamente, non si conosce il

significato del termine Orhay, e questo di certo non aiuta.31 In compenso però altri fattori

meritano di essere tenuti a mente. Uno di essi è la scoperta, avvenuta proprio qui sul pavimento di

una grotta alla metà degli anni Cinquanta, di un pregevole mosaico del 227-8 d.C. raffigurante

Orfeo in una delle pose più familiari: il cantore è al centro della scena, seduto, circondato da una

capra, da un leone e da tre uccelli il cui “atteggiamento di docilità festosa” è senza dubbio indotto

dal suono magico della lira che l’uomo ha con sé; due angeli, più in basso, recano un’iscrizione in

caratteri siriaci.32 Ora, Edessa è una località nota fin dall’inizio della nostra èra per essere stata il

primo regno della storia ad adottare il Cristianesimo, in accordo a una leggenda secondo cui uno

scambio di lettere intercorso fra Gesù in persona e Abgar il Grande, gravemente ammalato,

avrebbe avuto per effetto la guarigione del re nonché la sua immediata conversione; 33 e si sa pure

quanto l’immagine di Orfeo, colta nell’atto di ammansire le fiere con la sua musica, sia stata

sfruttata dall’iconografia cristiana dei primi secoli per i tanti attributi che essa ha in comune con il

Salvatore.34 Ma uno dei maggiori esperti della cultura e delle credenze religiose tipiche dell’area,

Judah Benzion Segal, invita a guardare in un’altra direzione:

Non dobbiamo meravigliarci di imbatterci in Orfeo a Edessa, perché … nel III secolo il tema di Orfeo aveva

conquistato un seguito considerevole nelle province orientali dell’Impero romano … [L]a biografia

dell’imperatore romano Alessandro Severo, siriaco di origine, ci informa che nella sua cappella privata si

trovavano insieme i busti di Abramo, di Gesù, del filosofo Apollonio di Tiana e di Orfeo. Alessandro fu

proclamato imperatore nel 222, cinque anni prima che venisse realizzato a Edessa il mosaico sopra citato;

egli passò per questa stessa zona nel 231, sulla via dell’Oriente.35

La presenza del bardo tracio nella ‘Città benedetta’ sarebbe dunque giustificata dal

paesaggio ideale per certi versi unico di questa regione, attraversata da sempre da correnti

culturali della più varia provenienza e segnata perciò sul terreno filosofico e religioso da un

marcato se non esasperato sincretismo. Si può tentare tuttavia una messa a fuoco più precisa,

almeno per quanto concerne le coordinate generali della nostra inchiesta.

Anche se Segal omette con diplomazia di pronunciarsi su ciò in maniera esplicita, dal suo

discorso si evince che Orfeo potrebbe avere tutte le carte in regola per rientrare nel numero delle

figure che i Sabei di Harran annoveravano fra i loro profeti. Come sanno bene gli addetti ai lavori,

la questione è controversa: la massima autorità di sempre in materia di Sabei e di Sabeismo,

l’orientalista russo Daniel Chwolsohn, era incline a riconoscere ‘Orfeo’ in un nome trasmesso

malamente da alcune fonti arabe medievali;36 è anche vero però che lo stato corrotto dei

manoscritti non è tale da permettere una scelta netta, consentendo parimenti la lettura Urani o

30

Segal (1970), 1-8 e 255 (vd. pure 298, General Index, s.v. ‘Edessa, names of’); RAC, vol.4 (1959), s.v. ‘Edessa’, 552-97 (E. Kirsten). 31

Ibid., 552-3. Segal (1970), 2 e nn. 4-5, 3 e n.1, prende in esame varie etimologie fra cui quella dell’eventuale legame con ‘O.’, ma nessuna gli sembra tanto forte da imporsi. 32

Segal (1963), 214 e fig. 18; id. (1970), 52 e tav. 44. 33

Segal (1970), cap. III, soprattutto 62-71; RAC [n.30], 568 ss. e 588-9. 34

LIMC, vol.7 (1994), s.v. ‘Orpheus’: i, 96-7 e 104; ii, 75-6 tavv.164-8 (Maria-Xeni Garezou); Ziegler, 1311-6. 35 Segal (1963), 214 (con lievi modifiche della trad. it.); id. (1970), 52. 36

Chwolsohn I, 780-1 e 800-2.

12

Arani per la quale qualche altro autore ha invece preferito optare, senza produrre tuttavia

argomenti risolutivi a favore di queste alternative.37 Al di là delle problematiche inerenti alla

trascrizione grafica, comunque, c’è un dato di fatto, la vicinanza di Edessa a una capitale religiosa

del Vicino Oriente Antico del calibro di Harran e da un sito certo meno noto, ma non per questo

meno importante, ai fini della devozione prestata dagli abitanti del luogo alla Luna e, più in

generale, a tutti e sette i pianeti: Sumatar Harabesi!

Non si esagera affatto dicendo che Sumatar è un posto davvero lunare. Sperduta com’è fra

le brulle colline del Tek-Tek, nonostante la breve distanza (trenta, quaranta chilometri) che la

separa da Edessa e da Harran, essa non è ancora ai nostri giorni una meta facilmente raggiungibile;

la particolare atmosfera che vi si respira, poi, è come fuori dal tempo. Ma occorre arrivare fin qui,

in questo spettacolare santuario a cielo aperto, per cogliere e toccare con mano l’essenza più

autentica della pietà sabea.38

Un colle centrale domina il panorama. Alla sua sommità, una spianata e la prova materiale

della funzione liturgica svolta lungamente dall’altura: anche se oggi non vi è più traccia del tronco

di colonna e dello scanno (uno degli emblemi del dio-Luna più caratteristici in questa regione39)

che vi si ergevano un tempo, si richiamano infatti espressamente a questa coppia di oggetti votivi

le iscrizioni in lingua siriaca scolpite sulla superficie rocciosa della vetta. I documenti risalgono al

165 d.C. (= 476 del calendario seleucide), ma sono stati decifrati e pubblicati soltanto da una

sessantina d’anni, col risultato che non si è avuto modo finora di metabolizzare appieno tutte le

notizie in essi contenute. Per stimarne in pieno il valore, sarà sufficiente esaminare almeno le due

seguenti:

Nel mese di Shebat (Febbraio/Marzo) dell’anno 476, io, Tiridate, figlio di Adona, comandante degli Arabi,

ho costruito questo altare ed eretto una colonna a Maralahe per la vita del mio signore il re e dei suoi figli e

per la vita di Adona, mio padre …40

In Shebat dell’anno 476, in quel mese … abbiamo innalzato questa colonna su questo monte benedetto ed

eretto uno scanno per colui che lo mantiene in piedi. Il comandante sarà budar dopo Tiridate il

37

Efficace sintesi della questione in van Bladel, 188-9 n.102. Tra le figure comprese nella Collezione di Profezie dei Filosofi Pagani, uno scritto siriaco del VI-VII sec. redatto apparentemente allo scopo di convertire la gente di H. al Cristianesimo, è presente - accanto ad Ermete Trismegisto, Platone, Pitagora, Porfirio e gli Oracoli Sibillini (ossia di alcune almeno delle autorità ricorrenti di regola fra i profeti dei Sabei harraniani) - anche O. (Brock, 228, 230; cf. Rosenthal [1962], 221): la cosa non è sfuggita a Tamara Green, 172 e n.30. 38

La circostanza che i monumenti eretti attorno alla montagna sacra abbiano ciascuno una struttura geometrica differente suggeriva a Segal (1953), 97-119, la possibilità di identificare queste costruzioni con famosi i templi planetari dei Sabei descritti da al-Mas’udi (metà X sec.). Le obiezioni sollevate da Drijvers (1980), 139-40, hanno a mio avviso il difetto di porre come incompatibili fra di loro la destinazione funeraria degli edifici (“the buildings with grottos below … clearly are tombs”) e la funzione di templi celesti da essi simultaneamente assolta: l’isomorfismo tra questi ultimi e i sepolcri destinati ad accogliere i budar del dio-Luna (vd. oltre nel testo) è infatti un fattore che rispecchia perfettamente il senso del rituale sabeo, come si evince dalla magistrale analisi di Corbin (1983), 11-31. Per una pagina di sapore letterario, mi permetto di rinviare all’estratto su Sumatar Harabesi del mio La Città della Luna (disponibile in questo stesso sito). 39

Il motivo è riprodotto p. es. su diverse monete di Edessa di epoca imperiale: Hill, 91-2, nrr. 2, 3 (“temple with pediment, seen in three quarters perspective; two columns in front, and steps leading up to it; within, a cubic cult-object on a base supported by two curved legs”) e tav. XIII, 7, 8; 103, nr.79 e tav. XV, 8; vd. anche Segal (1953), 213; Drijvers (1980), tav. XXIII, 1, 4; Drijvers-Healey, tav.75, Co 2. 40

Seguo la trad. di Drijvers-Healey, nr. As36, 104; commento: 104-7.

13

comandante, e darà lo scanno a colui che sarà pronto a mantenerlo in piedi. La ricompensa gli verrà da

Maralahe. Ma se ritirerà lo scanno o la colonna crollerà, egli, il dio, ne sarà giudice.41

Non mi soffermo sul titolo Maralahe (‘Signore degli dèi’) attribuito senz’altro al dio lunare

Sin,42 in quanto l’ epiteto è in linea con l’orientamento monoteistico che durante questa fase

storica, e talvolta anche prima, investì a largo raggio le religioni del mondo antico favorendo

sovente l’assunzione di un patrono di enorme prestigio - com’era sicuramente il dio-Luna di

Harran - al rango di divinità superiore. Ciò verso cui occorre volgere ora l’attenzione è altro. Il

secondo scritto associa strettamente l’incarico politico-militare di ‘comandante (degli Arabi)’43 a

un termine intrigante ed enigmatico al contempo: budar. Come interpretare la cosa? Già dai primi

del ‘900, quando il console francese Henry Pognon scoprì qui un ipogeo adibito chiaramente a

cerimonie d’iniziazione, la comunità scientifica era al corrente di un tale aspetto della fisionomia

spirituale di Sumatar.44 Ma le epigrafi della Montagna Sacra integravano il quadro con un nuovo

elemento di grandissimo interesse, e cioè che qualcuno degli iniziati ai misteri promosso al grado

di “comandante degli Arabi” (la regione era popolata in prevalenza, allora come adesso, da genti di

etnia araba) era insignito, simultaneamente, dell’ufficio di budar del dio Sin. Ora, che budar

corrisponda ad un’alta carica sacerdotale, è evidente.45 Non altrettanto si può dire però del suo

esatto valore letterale, mostratosi fino ad oggi resistente a ogni tentativo di penetrazione: a

differenza del composto Maralahe, il sostantivo, certo di natura tecnica, non è riconducibile al

Siriaco, non trovandosene alcuno nel Thesaurus di Payne-Smith che sia pur vagamente gli

assomigli.46 Dove cercare allora? Forse a Harran? Per la verità, sul fronte dell’antichissima capitale

lunare sembrava aprirsi uno spiraglio abbastanza promettente. Nella testimonianza di prima mano

sui misteri dei Sabei harraniani raccolta quasi novecento anni dopo dal Fihrist di ibn al-Nadim, ci si

imbatte a più riprese nello strano vocabolo bughdariyyin,47 il quale altro non è se non la versione

41

Drijvers-Healey, nr. As37, 108; commento: 108-14. 42

Per la lettura Maralahe (‘Signore degli dèi’) del titolo divino presente nel testo, Drijvers (1980), 127-8; Drijvers-Healey, nr. As20, 80. Segal proponeva invece la forma Marilaha (‘Signore dio’), argomentando in (1954), 22, e in (1970), 59-61, la sua scelta. 43

Sir. Shallyta de ‘Arab = gr. Arabarchos: per le competenze territoriali di quest’alto ufficiale, Drijvers-Healey, nr. As36, 105-6. 44

Pognon, 23 ss., visitò Sumatar nel 1903 e nel 1905, ma si concentrò unicamente sulle iscrizioni e i rilievi (fra cui il sacro emblema del dio-Luna di H., il betile sormontato dalla mezzaluna con la stella a quattro punte nel mezzo), scolpiti lungo le pareti della grotta da lui esplorata. 45 Al di fuori del contesto di Sumatar, bdr è attestato con questo valore nell’iscrizione siriaca di Serrin del 73 d.C. (dove

l’artefice della torre sepolcrale si qualifica come “Ma’nu l’ ‘anziano’, bdr d[ella divinità] Nahai”) e, forse, in quella datata 125 d.C. di Sa’adiya (dove un giardino e un altare di Maralahe di Qarqabesh sono stati “fatti da ‘ZN il BDR [?] che assiste coloro che vedono [visioni] nei sogni”): per i riferimenti, Segal (1970), 58 e n.7; Drijvers (1980), 128-9 e n.16; Drijvers-Healey, nr. Bs2, 193-6. 46

Drijvers-Healey, nr. As37, 112, segnalano una radice verbale siriaca BDR (‘spruzzare, spargere’, metaf. ‘ungere’), valutando un suo eventuale rapporto con cerimonie iniziatiche accompagnate da un’unzione sacra, nonché con una corrispondente forma nominale (“an extension of the meaning might produce the name of a cultic funcionary: ‘sprinkler’?”). L’ipotesi è anche suggestiva, ma non è confortata dal minimo riscontro, anche perché si conosce un unico caso, per di più nebuloso, di unzioni rituali al di fuori del Giudaismo, e cioè Firmico Materno, de Err., 22: Burkert (1987) 102 e n.76, cf. 156 n.50. 47 Kitab al-Fihrist, ed. Tajaddod, 390-1: ‘bayt al-bughdariyyin’ (‘casa dei b.’), ‘banu b.’ (‘figli dei b.’); testo arabo anche

in Chwolsohn, II, 45-51, con discussione ibid., 352-4, dove tuttavia, in difetto delle testimonianze epigrafiche di Sumatar, era impossibile all’autore pervenire a risultati soddisfacenti; Dodge, II, 769-72, mantiene nella sua trad. il

14

arabizzata (al plurale obliquo) e lievemente distorta di budar: come si è compreso da tempo, la

circostanza che sia l’uno sia l’altro termine vengano impiegati per designare gli iniziati al culto

segreto di Sin porta senza ombra di dubbio a concludere che la parola è la stessa.48

E c’ è di più. La completa latitanza della voce bughdariyyun/bughdariyyn all’interno dei

dizionari arabi, in parallelo alla lacuna sopra riscontrata per il Siriaco, è un dato che colpisce. Se

non si tratta di un puro caso - ed è difficile che lo sia - questa ulteriore coincidenza rappresentava

un indizio forse prezioso per la soluzione del puzzle. Si profilava infatti la concreta probabilità di un

prestito, che i due lemmi cioè attingessero a una medesima matrice appartenente a una lingua

estranea all’Arabo e al Siriaco, ma verosimilmente assai prossima ad entrambi. Una lingua

scomparsa?

L’ipotesi era tutt’altro che peregrina, tenuto conto dello spirito conservatore ad oltranza

degli Harraniani. Le fonti islamiche medievali, agli occhi delle quali gli arcani costumi religiosi di

questo popolo erano una sorta di curiosità esotica e stravagante da studiare però con attenzione,

provano che a Harran ancora nel corso dell’ XI-XII secolo si mantenevano in vita gli originari nomi

mesopotamici di alcune divinità – a cominciare dal dio Sin – oltre ad epiteti divini come bel Harran

o festività come l’ akitu (nelle varianti dialettali kadi, kadha) tipici di Babilonia, il cui utilizzo nella

città del dio-Luna è ampiamente testato fin dalla fase neo-assira e neo-babilonese.49

Ora, alla voce (w)ardu, il Chicago Assyrian Dictionary elenca la seguente serie di significati:

‘schiavo’, ‘servo’, ‘soldato’, ‘soggetto [di un re]’, ‘fedele [di una divinità]’.50 E’ impossibile non

apprezzare subito la sbalorditiva aderenza di queste valenze con il contesto militare/religioso

appena richiamato. A chi scorgesse un ostacolo nella trasformazione di (w)ardu in budar basterà

ricordare che il termine (modellato su una base equivalente alla universale radice semitica ‘ b d :

vd. p. es. l’arabo Abdallah, Abdullah, Abdul ecc.)51 ricorre pure nelle varianti urdu, aradu e,

soprattutto, bardu, forma nella quale la parola si presenta in (Neo-)Assiro grazie alla sistematica

resa della w accadica nella labiale b;52 il passaggio per metatesi da bardu a budar è, infatti,

automatico. Diverso è il discorso circa l’equazione bardu–‘bardo’ - pure eccezionalmente

pregnante in rapporto ad Orfeo - poiché né l’ Akkadische Handworterbuch di von Soden né l’

termine originale (bughadhariyin). La caratterizzazione degli iniziandi in termini di ‘figli’ è canonica nel mondo antico (e non solo), Chwolsohn, II, 370 ss.; sul titolo ‘figlio/bambino/servo di Dio’ nel giudaismo e nella letteratura neotestamentaria (gr. pais theou, ebr. ‘ebed yhwh), GLNT, vol.9 (1974), 275-440 (W. Zimmerli; Joach. Jeremias); sull’utilizzo della formula nel Corpus Hermeticum e nei misteri, RAC, vol.11 (1981), 1161 (G. Delling); vol.1 (1950), 105 ss. (A. Oepke). Per un quadro d’insieme, Moreau, specialmente vol. I (Les Rites d’adolescence et les mystères). 48 Sostenuta con convinzione da Segal, (1954) 27, (1963) 217, (1970), 58-9, la sovrapponibilità delle due espressioni ha

ricevuto ampio consenso: non capisco perciò bene le perplessità di Drijvers-Healey, 112-3 (“widely accepted, though not very probable, is the suggestion of Segal ecc.”). Già le note linguistiche apposte dallo stesso al-Nadim alla sezione sui misteri (“The translator [dal Siriaco] of the five mysteries was awkward, lacking good Arabic diction. Or, by translating in this corrupt and wretched style ecc.”: Dodge, II, 772) dovrebbero bastare a spiegare il barbarismo; forse addirittura più eloquente è però il fatto che l’inserimento della gutturale ghayn dopo al prima sillaba di budar (tale da generare l’arabo bughdar[iyyun]) torni specularmente a proporsi nella forma corrotta Soghmatar (per Sumatar) impiegata ancora da Pognon, 23, e derivante con ogni evidenza dalla singolare inflessione degli Arabi del posto. 49 Green, 153 (al-Nadim, al-Biruni) e 155-7; Gunduz, 202 ss.; Fratini-Prato (1997), 9 e nn.30-2. 50 CAD, vol.1, ii (1968), s.v. ‘ardu’, 243-51; cf. Fratini (2014), 290 n.50; Fratini-Prato (2014), 5. 51

CAD, ibid.; di sicuro interesse, a questo proposito, l’espressione ‘bdnhy = ‘servo di Nahai’ sul Mosaico ‘Ritratto di Famiglia’ di Edessa, che Drijvers (1980), 129 n.17, registra a commento della formula ‘bdr di Nahai’ contenuta nell’iscrizione di Serrin [n.45], pur senza giungere alle mie stesse conseguenze. 52

Semerano, II, i, XCIV.

15

Assyrian Dictionary dell’ Università di Chicago contemplano quest’ accezione. Il fatto che ‘bardo’

sia in genere incluso fra i termini europei di origine celtica, non deve tuttavia far spavento. La

memoria storica della lingua travalica di gran lunga le relazioni cronologiche di causa-effetto con le

quali si ha abitualmente a che fare. E’ una forza possente, titanica, formidabile, che resta latente e

silenziosa magari per secoli per prorompere poi di colpo alla superficie, rendendosi visibile e

sparigliando i giochi a sorpresa. Non ci sarebbe così nulla da eccepire se i Celti si scoprissero un

giorno in debito nei confronti della Mesopotamia e dei geniali inventori della Scrittura per quel che

attiene alla voce lessicale in questione, in barba ai ritornelli del senso comune, del tempo lineare,

della Storia e alle loro stanche pretese. Per quanto attraente sia la tentazione di battere questa

strada, è meglio tuttavia per il momento lasciar perdere. L’evidenza venuta alla luce è un forziere

già stracolmo di ricchezze, anche senza tirarci dentro di prepotenza la maschera del ‘bardo’ Orfeo

e dei suoi innumerevoli avatar.53

E’ la prima volta che emerge un riscontro di simile portata in merito all’identità dei Sabei di

Harran: un mistero su cui ci si interroga a vuoto da ben oltre un millennio, a partire cioè da quando

il famoso ‘incidente’ occorso all’epoca del califfo abbaside al-Ma’mun (833 d.C.) avrebbe spinto gli

ostinati pagani di questa città a proclamarsi ‘Sabei’ per pure ragioni di calcolo e di convenienza.

Contro il parere di diversi esperti, secondo cui questa ricostruzione della vicenda - trasmessa di

nuovo dal Fihrist di al-Nadim ma pure da altri autori arabi – va giudicata in sostanza degna di

credito,54 devo confessare che invece a me non ha mai persuaso troppo.55 Non è tanto l’apparato

romanzato e pittoresco con il quale il racconto viene opportunamente condito a dar da pensare;

né l’attendibilità dell’individuo citato in questo caso da al-Nadim anche se, trattandosi di un

Cristiano, solo con molta buona volontà si può scambiare la notizia per oro colato e non sospettare

viceversa una bufala; e neppure, infine, la cornice storica entro cui è inserito l’episodio, benché a

conti fatti poco in armonia col dialogo interconfessionale sviluppatosi sotto il suo regno e, ancor

meno, con la proverbiale tolleranza del califfo.56 Certo però quando si cumula il tutto …

La prima persona nota per aver adottato la nisba (il soprannome) di al-Sabi’ è Thabit ibn al-

Qurra, patriarca di una stirpe distintasi a Baghdad in ogni ramo del sapere per circa un secolo e

53 Fra gli ultimi dei quali, vale magari la pena di citare un personaggio a tutti ben noto dopo l’uscita nelle sale del

kolossal tratto da Il Signore degli Anelli di Tolkien: il nome del giovane protagonista della saga, Frodo, altro non è che il greco rodon (evoluzione di brodon, Frodon: Levesque, 1201-3, a cui si deve inoltre la segnalazione del bisticcio ‘rose’-‘[coi] rami’/ wardim - [bi-]‘anfe, nella versione ebraica del Siracide, piuttosto accattivante per la vicenda dei Sabei/Hanpe di H.), modellato a sua volta su una base semitica di ‘rosa’ omofona/grafa o quasi all’ accadico (w)ardu or ora osservato (infra, 17 e n.64). Con l’occasione si può pure richiamare il caso dell’ ‘agrimensore’ K. de Il Castello di Kafka: che il soggetto faccia parte anch’esso della medesima, esoterica famiglia è irresistibilmente suggerito dall’accostamento fra il primo dei significati registrati nell’ AH di von Soden, vol.3 (1974), 1415, alla voce ‘umm(i)anu’ (‘Landmesser’!), e gli altri elencati da CAD, vol.20 (2010), s.v. ‘ummanu [2b]’, 114-5: ‘scholar, sage’, ‘expert in secret knowledge’; il rapporto di stretta sinonimia di questo lemma con ‘sabu’ [infra, 16-7 e n.61] viene discusso in Fratini-Prato (2014). 54

A cominciare da Chwolsohn, I, 139 ss. e passim, che fa della notizia del Fihrist (Dodge, II, 751-3) il proprio cavallo di battaglia ai fini dell’interpretazione del Sabeismo da lui avanzata; meraviglia invece un po’ scoprire fra gli studiosi inclini tutto sommato a sottoscrivere la verosimiglianza del racconto ancora di recente Pingree (2002), 23 (“the general outline of the story seems plausible”). 55 Fratini-Prato (1997), 5-6 e nn.16-8. A un utile riepilogo delle critiche mosse alla tesi di Chwolsohn provvede Green,

101-23. 56 EI

2, vol.6 (1991), s.v. ‘Ma’mun (al-)’, 336-7 (M. Rekaya).

16

mezzo.57 Ora, la data di nascita dell’illustre matematico e astronomo cade all’indomani della

morte di al-Ma’mun, ma ciò non implica affatto che gli Harraniani, sua comunità d’origine,

avessero assunto già in precedenza il titolo di ‘Sabei’ per godere della tolleranza che la legge

islamica accorda agli altri Monoteisti e quindi pure a quest’ignoto gruppo religioso.58 Anzi, la mia

idea di fondo è che si debba proprio a Thabit non solo l’impianto teologico-filosofico, ma una

consapevolezza circa il significato autentico del ‘Sabeismo’ inaccessibile ai suoi amici musulmani e

tale da produrre il clamoroso quanto inopinato rilancio pubblico della dottrina durante il

Medioevo.

E’ superfluo ripetere qui gli argomenti di cui mi sono valso in passato per proporre un

approccio e un quadro di riferimento alternativi al modello tradizionale. Dirò soltanto che essi

ridimensionano drasticamente il valore dei tre passi coranici relativi ai Sabei59 ai sensi della

comprensione della storia dei Sabei di Harran e, più in generale, del fenomeno del Sabeismo. Il

plurale regolare Sabi’un (Sabi’yyin allo stato costrutto) presente nel Corano discorda per esempio

dal plurale collettivo Sabi’a, Sabia, Saba, che gli osservatori arabi usano di preferenza quando sono

alle prese con gli Harraniani; 60 e Sabi’a è per altro verso il nome della dinastia fondata da Thabit a

Baghdad. Se lo scopo era spacciarsi per la sconosciuta religione monoteista indicata dal Profeta,

perché non servirsi di una parola in tutto e per tutto identica a quella prescelta da lui?

La si può prendere per una questione marginale o irrilevante, ma non lo è. La forma

nominale Sabi’a, Sabia ecc. ricalca molto più fedelmente di quanto non faccia il termine coranico

la matrice lessicale che ne è alla base che, ancora una volta, affonda le sue radici nel primitivo

sostrato semitico comune ad entrambi. In Ebraico si è conservata in qualche modo traccia del

singolare snodo semantico a cui alludo, come attestano il “Dio degli eserciti” (Yahwe Sabaoth) e le

“armate celesti” (saba hash-shamayyim) di biblica memoria; ma per chi voglia seguirne da vicino

l’articolazione interna occorre risalire più indietro, alle civiltà della Terra dei Due Fiumi e ai segreti

della loro lingua.

Ecco allora che questo largo giro torna a portarci, non senza malizia, al punto di partenza.

Balza subito agli occhi la sovrapponibilità della voce accadica sabu/sabiu (‘gruppo di persone’,

57 Chwolsohn, I, 546-623; EI

2, vol. 10 (2000), s.v. ‘Thabit b. Kurra’, 428-9 (R. Rashed - R. Morelon); EI

2, vol.8 (1995), s.v.

‘ Sabi’ ’, 672-5 (Ch. de Blois). Ad eccezione dei lavori di astronomia, pubblicati da tempo grazie a Carmody (1960) e a Morelon (1987), i contributi scientifici e filosofici di Th. sono stati parzialmente editi da Roshdi Rashed, Thabit ibn Qurra. Science and Philosophy in Ninth Century Baghdad, Berlin – New York 2009. Fra le opere di carattere teologico-dottrinario (vd. la lista in Chwolsohn, II, II-III, da Barebreo), il Trattato sui Talismani, tradotto in latino da Giovanni di Siviglia e da Adelardo di Bath col titolo de Imaginibus (Fratini [2014], 287 e nn.34-5, per i riferimenti), è degno del massimo riguardo: “Aristotele disse che chiunque legga di filosofia, geometria e di ogni altra scienza – dichiara qui Th. - e sia privo di esperienza in astrologia incontrerà ostacoli e difficoltà, poiché la scienza dei talismani [= teurgia] è molto più preziosa della geometria e molto più profonda della filosofia”. In effetti, come rilevava Pingree (1987), 59, le liturgie astrali degli Harraniani sono sicuramente “the highest forms of magic, intellectually, that were devoloped in the Middle Ages”. 58 Sul tema, si rinvia a A.S. Tritton, The Caliphs and their non-Muslim Subjects, London 1930; A. Fattal, Le statut legal

des non-musulmans en pays d’Islam, Beirut 1958; per una sintesi, EI2, vol.2 (1991), s.v. ‘dhimma’, 234-8 (Cl. Cahen).

59 Sura 2, 62; 5, 69; 22, 17.

60 Chwolsohn, II, passim. La somiglianza dell’ar. sabi (pl. sib’iya, sub’iyan), ‘bambino, ragazzo, giovane’ (Lane’s Arabic-

English Lexicon, vol. I, 4, 1650; supra, n.47, per l’impiego della figura nei misteri), con il titolo assunto da Thabit e dai suoi correligionari è verosimilmente all’origine della strana indicazione - presente in quel monumento della magia del Medioevo che è il Ghayat al-Hakim (infra, 35 e n.137) - di pregare la Luna indossando l’abito bianco “dei ragazzi e dei giovani” (al-sub’iyan wa-l-ahdath, ed. Ritter, 223 lin.14; transl. Ritter-Plessner, 235; cf. Fratini-Prato [1997], 32 n.108).

17

‘contingente di lavoratori’, ‘truppa di soldati’, ‘esercito’, ‘gente’, ‘popolazione’, ma pure ‘personale

del tempio’)61 con l’ ebraico saba appena osservato;62 ancor più eloquente, però, il rapporto di

sostanziale convergenza che è dato scorgere tra essa e i budar di Sumatar Harabesi e di Harran. Il

nucleo connotativo sottostante a tutte queste espressioni si incentra sull’idea di ‘servizio’,

prestato indifferentemente in un contesto di tipo lavorativo, militare o religioso da un certo

numero di ‘uomini’, non importa se liberi oppure no. Ne fanno fede i successivi esiti linguistici di

(w)ardu, agevoli da rinvenire per esempio negli italiani guardia, guardiano; negli inglesi guard,

guardian, warden, wor(shipper) (ma anche Arthur/Artù!); negli arabi murid, ‘novizio [sufi],

aspirante alla conoscenza di Dio’,63 e, soprattutto, ward, termine dove l’intreccio dei significati di

‘persona coraggiosa, intrepida’, ‘membro maschile’ (abu ward), con un simbolo dalle eccezionali

risonanze mistiche e letterarie qual è la ‘Rosa’ 64 credo non necessiti di commenti.

Dovrebbe essere chiara ormai la natura proteiforme, tentacolare della creatura linguistica

al centro delle nostre attenzioni, come pure d’altronde i suoi caratteri incredibilmente stabili e

costanti. Uno stemma che si dispiega con inaudita ampiezza nel tempo e nello spazio, veicolando

una rete di valori quali ‘umanità’, ‘pietà’, ‘saggezza’, ‘subalternità’, ‘servizio’, ‘servizio militare’ (per

citarne solo alcuni), dove ogni elemento può arrivare a stagliarsi con maggiore o minore nitidezza

sulla scena a seconda delle contingenze, senza smarrire però l’ intima coesione che lo tiene legato

agli altri.65 Né, d’altro canto, questo paradigma sembra vincolato in maniera tassativa al

vocabolario dei “popoli della scrittura” del Vicino Oriente Antico, che pure per primi l’hanno

elaborato. Nel mondo latino, il verbo colere e le relative forme sostantivali vanno a coprire

all’incirca la medesima famiglia di accezioni,66 e ciò spiega pertanto il loro sistematico impiego per

designare tecnicamente certi specifici gruppi di credenti (Colentes Deum, Deicolae, Coelicolae

ecc.). E tuttavia da qualche indizio traspare che, anche in quest’occasione, l’impronta delle origini

61

CAD, vol. 16 (1962) s.v. ‘sabu’, 46-55. Nel Ghayat al-Hakim, le notizie sulle cerimonie ai sette pianeti comunicate da “Tabari l’astrologo” provengono direttamente dai “capi dei Sabei ed i servitori del tempio” (ed. Ritter, 195 lin.3: rusa’ al-Sabi’yyin wa khadamat al-hayakil; transl. Ritter-Plessner, 206); forse ancor più rilevante però la qualificazione dei Sabei come “servi nabatei dei Caldei” data in precedenza nel manuale (ed. Ritter, 80 lin.4: al-Sabi’a wa hum mamalik al-nabt min al-kasdaniyyin; transl. Ritter-Plessner, 83; cf. Picatrix, ed. Pingree 46: Zabii = servi capti Chaldaeroum). 62 Ringgren, 479-80 e 482, dove tra l’altro si richiama l’attenzione sullo stretto rapporto saba-‘ebed (dalla medesima

base ‘ b d menzionata supra, 14; cf. n.47) intercorrente in Ebraico. 63

Margoliouth, 519-20; EI1, vol.3 (1936), s.v. ‘murid’, 785 (M. Plessner).

64 Lane’s Arab.-Engl. Lex., vol. I, 8, 2935. Da non perdere di vista l’ulteriore effetto di risonanza con wird (pl. awrad:

‘atti di devozione personale supplementari, da prestarsi in precisi momenti del giorno e della notte’), per il cui impiego tecnico nell’ambito del Sufismo vd. Massignon (1922), 176 (o anche id., EI

1, vol.4 [1924], s.v., 1201); EI

2, vol.11 (2002),

s.v., 209-10: “There is much traditional wordplay concerning the term, because of the root w-r-d ’s range of meanings and associations, e.g. ‘watering place’, ‘access, arrival’ at specified times for devotion to God, and ‘rose’ ” (F.M. Denny). Per il nome proprio siriaco wrdw a Sumatar Harabesi, Drijvers (1973), 9-10 nr.4; Drijvers-Healey, nr. As42, 121-2, cf. 92. Per le espressioni anthos nou e anthos pases tes psiches (il ‘fiore’ come potere unificante ‘della mente’ e ‘dell’ anima’; infra n.75 per il ‘loto’) nel Neoplatonismo e negli Oracoli Caldaici, Mejercik, 41-2, 43; fr. 1, 49-50, e 138 (Commentary). 65

Fratini-Prato (2014), soprattutto 6-8. 66

Semerano, II, i, LIV-V, dove, a prescindere dal latino ‘cliens’ (e *cola), è curioso incontrare il napoletano ‘guaglione’ e perfino il ‘clone’ dei nostri giorni. L’ idea di ‘movimento dall’alto verso il basso’, contemplata dalla matrice etrusco/latina, si ritrova puntualmente nell’accadico (w)aradu (ossia nella forma verbale corrispondente a [w]ardu): per la rilevanza dei valori ‘scendere’, ‘far discendere (una divinità)’ (CAD, vol.1, ii [1968], s.v., 212 e 219: ‘to bring down from heaven, to make descent in the netherworld’) nel contesto particolare della teurgia, Albanese-Mander, 41-9; Fratini-Prato (2014), 5-6.

18

non è stata rimpiazzata o spazzata via del tutto e lascia sentire ancora la sua voce, sebbene

flebilmente e ormai quasi in sussurro. Come spiegare altrimenti la scelta di ascrivere la paternità

delle leggi della religione di Roma proprio ad un uomo appartenente al ‘religioso’ popolo dei

Sabini? Quali spiccate doti di spiritualità e di pietà avrebbero permesso a una nazione di rudi

montanari di eccellere sulle altre,67 all’infuori della prerogativa di aver dato i natali a Numa? 68 Un

bel circolo vizioso, non c’è che dire. A meno di fare appello ai Sabei e al sabu/sabiu accadico con

cui abbiamo ormai dimistichezza …69

*****

67 “Perché i cultori della tradizione hanno scelto i Sabini, piuttosto che i Volsci o gli Equi?”, si domandava Poucet, 291,

finendo problematicamente per concludere: “Perché, suggerivamo sopra, nel VI-V secolo i Sabini si sono rivelati nella storia più minacciosi degli altri ‘popoli della montagna’. Ma non siamo sicuri di questa risposta, e non lo saremo probabilmente mai”. La sentenza di Livio, I, 18, secondo il quale i Sabini sono “il popolo ‘più puro di costumi’ (incorruptius, da intendere innanzitutto in senso religioso, visto il legame con Numa) di tutta l’antichità”, riflette semplicemente un luogo comune (vd. n.68): non esiste infatti alcuna evidenza archeologica o di altro genere a supporto di una così altisonante affermazione, come mostrava già lo studio della Evans, 28: “Yet, though tradition describe the people as preeminently devout, knowledge regarding their early religious practices is disappointingly small”. 68 The strongly religious character of the Sabines finds expression in the stories of the second of the Roman kings, the

Sabine Numa Pompilius, a wise and pious man” (Evans, 30). Quanto alla leggenda di Numa discepolo di Pitagora, contestata già da Livio (I, 18) e da Cicerone (Rep. II, 24; cf. Plutarco, Num., 8 e 14), se ne può certo ricondurre l’origine all’orgoglio nazionale romano al seguito di P. Boyancé, La Religion de Virgile, Paris 1963, 69 (“Il (Virgil) se place dans le fil de cette pensée qui prétendait que Numa avait été instruit par Pythagore, ou, tout au moins, chez ceux que révoltait l’invraisemblance chronologique de cette légende … que le pythagorisme était un phénomène italien, dont, en face des Grecs, il était permis de revendiquer le merite”). Per una messa a punto sulla questione, Deschamps, 167 ss.; A. Storchi Marino, “Il Pitagorismo Romano. Per un rilancio di studi recenti”, in Tortorelli Ghidini et alii 2000, 335-66, specialmente 339-51; P. Poccetti, “La diffusione delle culture misteriche e sapienziali nelle culture indigene dell’Italia antica: appunti per un dossier”, ibid., 91 ss.; M. Humm, ”Numa et Pythagore: vie et mort d’un mythe”, in P.A. Deproost – A. Meurant (éd. par), Images d’origines, origines d’une image: hommages à Jacques Poucet, Louvain-la-Neuve 2004, 125-37. L’assimilazione di Numa a Manu, il legislatore primordiale dell’attuale ciclo cosmico (nelle varianti egizia di Menes, celtica di Menu, greca di Minos, ebraica di Emmanuel ecc.), si giustifica a giudizio di Guenon (1977), 28 n.30, mediante un’elementare inversione sillabica. Non c’è lo spazio per approfondire il rapporto di Numa con il molto dibattuto tema lessicale nom-/nem-/nam- (da cui vocaboli a prima vista tanto eterogenei come i greci nomos, nomas, Nemesis, i latini numerus, nemus ecc.): il saggio di E. Laroche (Histoire de la Racine Nem- en Grec Ancien, Paris 1949: 255-63, per le conclusioni), come pure il cenno precedente di A. Schott sul sumerico NAM (“Indogermanisch-Semitisch-Sumerisch”, in H. Arntz [hrsg.], Germanen und Indogermanen. Festschrift Herman Hirt, 2 voll., Heidelberg 1936, II, 85, nr.202 e n.7), sono compromessi in partenza da ciò che Semerano, I, i, 7 ss., stigmatizza nei termini di “miraggio indoeuropeo”. 69

La pseudo-etimologia di Sabini dal greco sebein, sebesthai (‘adorare, venerare’) è utilizzata talvolta dagli scrittori romani per spiegare la particolare religiosità di questo popolo (supra, n.67): Varrone ap. Festo, Epit. a de Verb. signif. di V. Flacco, 464, 18 L (Paulus): “Sabini dicti, ut ait Varro … quod ea gens praecipue colat de(os, id est apo tou) sebestai”; Plinio, Nat. Hist. III, 108: “Sabini, ut quidam extimavere, a religione et deum cultu Sebini appellati …” (si noti il neologismo Sebini, funzionale alla derivazione dal Greco). In realtà, a dispetto di quanto propone non senza fatica C. De Simone, “Sudpiceno Safino- /Lat. Sabino- : il nome dei Sabini”, AION (sez. ling.) 14 (1992), 223-39 (S.= ‘popolo del sé’ [!], recepito comunque in Der Neue Pauly, vol.10 [2001], s.v., 1185 [G. Vanotti], e da A. Carandini, La Nascita di Roma, Torino 2003

2, 222 n.16), ‘Sabini’ significa semplicemente ‘popoli vicini, al confine’ (accadico sabu + in-iti), come

ha chiarito una volta per tutte Semerano, I, ii, 814. Ma il processo di interferenza e/o di contaminazione che ha investito questi termini in età antica mi pare difficilmente contestabile (ho sviluppato l’argomento in Sabei e Sabini: materiali per la rilettura di un mito alle origini della storia di Roma [sinossi su questo stesso sito], anche se il lavoro attende ancora una revisione definitiva).

19

All’interno di un tale, grandioso scenario, a risaltare in primo piano adesso è un motivo in

particolare, ovvero il connubio venuto poc’anzi alla luce sul terreno dei Misteri grazie a cui

conoscenza e pietà si incontrano con le virtù belliche del guerriero. Inaspettatamente. O forse no,

forse non del tutto. Sulla medesima lunghezza d’onda si sintonizza infatti un passaggio del Fedone

quanto mai familiare, ma che penso non molti siano più in grado di riconoscere nella versione in

cui esso compare nella raccolta dei Frammenti Orfici pubblicata a suo tempo da Boringhieri:

La formula che viene recitata nei misteri riguardo a queste cose, cioè che noi uomini siamo come sentinelle

[hos en tini phrourai] e non dobbiamo scioglierci da questo impegno né lasciare il posto, mi pare grande e

non è facile scorgerne la profondità (Phaed., 62b).70

L’impatto straniante di queste poche righe è garantito. Per valutare la distanza siderale che

le separa dal messaggio comunicato regolarmente dalla vulgata, basta prendere a caso una delle

traduzioni del testo attualmente disponibili sul mercato:

Il discorso poi che al riguardo viene pronunciato nei riti segreti, che noi uomini siamo in una prigione, e

soprattutto che non bisogna liberare se stessi da questa né evadere, mi sembra importante e non è facile

abbracciarlo totalmente con lo sguardo.71

Che l’autore dell’edizione torinese del 1959, Graziano Arrighetti, sia stato vittima di una

svista grossolana è fuori causa. La metafora platonica della ‘prigione’ è arcinota, anche perché

entra in risonanza con l’altra non meno famosa del corpo quale ‘tomba’ dell’anima, che lo stesso

curatore presenta del resto nel frammento successivo nella sua antologia.72 Sinceramente non so

abbastanza di Arrighetti per formulare una qualunque ipotesi sui fattori che l’ hanno indotto a

discostarsi dalla versione tradizionale tanto da capovolgerne il significato.73 In teoria, il sintagma

hos en tini phrourai consente sia la lettura attiva “come di sentinella”, sia quella passiva “(come) in

una prigione” adottata da Colli sulla scia della maggioranza degli interpreti:74 un qualunque

dizionario della lingua greca mostra che però la prima opzione ha una netta prevalenza sulla

seconda, anzi per dirla tutta l’unica esemplificazione o quasi che viene fornita spesso di 70

Arrighetti, 21-2, fr. 6 (corsivo del curatore). 71

Colli, 4 [A 31] (corsivo mio). 72

Arrighetti, 22, fr. 7. 73

C ’è da dire che, in quei medesimi anni, una lettura analoga della parola-chiave era per la verità in circolazione: vd. p. es. le riedizioni inglese e francese del Fedone apparse nei primi anni cinquanta a cura rispettivamente di H. Olderwelt (Plato, Phaedo, Groningen 1953

3) e di M. Meunier (Platon, Phédon, nouv. éd. Paris 1952); ma soprattutto l’articolo di

Jeanne e George Roux (1961), 207-10, per le ragioni della sua resa in tal senso. Non sono stato invece in grado di individuare a chi si riferisca di preciso de Vogel, 85, quando dichiara che “towards the end of the nineteenth century and at the beginning of the twentieth most scholars understood the phroura text as meaning ‘we are, so to speak, on guard-duty’ ”. 74

Vd. almeno Boyancé, 7-11; Courcelle, 406-43. In effetti l’ambiguità è presente nello stesso Platone, che sfrutta la valenza attiva di phroura p. es. in Leg., VI, 762c, mentre in Gorg., 525a, se ne serve al contrario per indicare il luogo dell’Oltretomba preposto all’espiazione delle anime malvagie. Una terza interpretazione è stata proposta a suo tempo da Espinas, 449-54, secondo cui phroura avrebbe piuttosto valore protettivo, designando “l’enceinte, l’enclos ou le clos où le troupeau [cioè il genere umano] est enfermé pour son bien” (452) (tesi ripresa da Chantraine, 5-11; cf. Bernabé [1995], 236: “[Platone] propone una alteratiòn sustancial de la interpretaciòn del papel del cuerpo. No es tanto sepultura o prisòn cuanto recinto en que el alma se mantien sana y salva”). Loriaux, 28-36, discute in breve le varie posizioni; Strachan, 216-20, ne esamina le conseguenze circa la problematica del suicidio.

20

quest’ultima è proprio il nostro testo, Fedone 62b, con evidente circolarità. Nel successivo

frammento ‘orfico’ di cui si parlava, tratto dal Cratilo, Platone ricorre a due termini differenti per

indicare il medesimo concetto:

tuttavia mi sembra che siano stati soprattutto i seguaci di Orfeo ad aver stabilito questo nome [‘tomba’],

quasi che l’anima espii le colpe che appunto deve espiare, e abbia intorno a sé, per essere custodita questo

‘recinto’ [peribolon], sembianza di una ‘prigione’ [desmoteriou] (Crat., 400c). 75

Senza tributare alla circostanza più peso di quanto non abbia, mi sento solo di osservare che le

figure claustrofobiche e punitive evocate in questo passaggio appaiono una diretta conseguenza

delle colpe commesse, di cui l’anima sarebbe chiamata a pagare il fio a prezzo della sua esistenza

terrena. Una ‘tomba’, un ‘recinto’ o un ‘carcere’ non sono tuttavia dei sinonimi a tutti gli effetti:76

dall’una non è possibile uscire nemmeno volendo, almeno nell’ordine normale delle cose; dagli

altri due invece sì. Se dunque dal punto di vista strettamente funzionale - ai fini cioè di dipingere

quel che rischia di essere la condizione umana qualora venga vissuta ai suoi livelli più bassi –

queste parole possono pure reputarsi equivalenti, così non è più non appena ci si ponga in

un’ottica più dinamica e operativa. Nel settimo libro della Repubblica (514a – 518b), il tema dello

schiavo in catene torna a riproporsi nel bellissimo mito platonico della Caverna, dove però il

precetto del Fedone di “non liberare se stessi … né evadere” prende una coloritura molto diversa

75

OF, F 8 [1]; Colli, 4 [A 34]; OF2, 430 I. Il passaggio è espunto da una delle pagine più tormentate dell’intero corpus

platonico, quella contenente la famosa equazione soma-sema: di entrambi i termini infatti non si dà significato univoco: da un lato sema è la ‘tomba’, ma solo in seconda istanza, giusto perché essa reca il nome del defunto ed è dunque ‘segno’ di lui; dall’altro soma è naturalmente nel IV sec. il ‘corpo’, ma in questo caso è pure al contempo la ‘custodia’ di cui l’anima ha bisogno ‘per essere salvata’ (hina soizethai). Attribuire con Bernabé (1998), 72-5 (cf. id. (1995), 211 e 235-6) l’ ultima parte del testo al pensiero originale di Platone, consegnando invece agli Orfici (hoi amphi Orphea) la paternità della dottrina del corpo-tomba/carcere, non vince lo smarrimento indotto dal discorso, a cui calzerebbe a pennello quel ou raidios diidein (“non è facile scorgerne la profondità”) di Phaed. 62b sopra richiamato. Un qualche aiuto proviene dalle ricerche di Uzdavinys, da cui si impara che sema (‘unione’) è, insieme a ib (‘cuore’), pet (‘cielo’), kheper (‘scarabeo’), seshen (‘loto’), enkh (‘vita, specchio’) ecc., uno dei simboli egizi di comune impiego nell’ambito della teurgia: “For the ancient Egypt initiates the ‘tomb’ means an entirely different thing to what the majority of modern scholars imagine … It is simbolically related with the royal conception of one’s immortalisation through the ascent to heaven and inclusion in the circuit of Ra. The ‘tomb’ is therefore sema in the sense of hieroglyph, the effective theurgic synthema” (Uzdavinys [2011], 96; cf. id. [2010], 213, per i symbola); “In the context of Hellenic Mysteries and Orphic-Pythagorean tradition … [the] symbols allow the initiate to pass into the realm of the gods, the Netherworld [and] to perceive the hidden divine ‘thoughts’, the immaterial archetypes, or ‘Ideas’ ” (ibid., 211). 76

Ragionevolmente Casadio (1987), 390, rilevava che “chi ha visitato i resti di qualche carcere dell’antichità sa che in esso i prigionieri erano veramente sepolti”; da parte mia sottoscrivo però l’obiezione di Cornelli, 115, per il quale “to say that the body is a coating and imprisonment of the soul is something much lighter [cors. dell’autore] than saying it is its tomb”. Nel suo importante articolo de Vogel, 79-95, mostra quanto poco l’immagine della ‘tomba’ sia adeguata a rendere il convincimento di Platone circa il rapporto fra anima e corpo: l’incorporazione va intesa, piuttosto, come una ‘sfida’ (ibid., 87), e ciò sfuma di molto la presunta distanza del pensiero del filosofo dalla visione del corpo umano come ‘tempio’, fatta propria in seguito dalla teologia cristiana. Una bella pagina del Somnium Scipionis (Rep. VI, 15), spesso riprodotta, permette di apprezzare la fedeltà di Cicerone a questi insegnamenti: “Gli uomini sono stati creati per compiere questa missione: essere i guardiani di questo globo, che tu vedi occupare il centro di questo tempio e che si chiama la terra. Essi hanno ricevuto un’anima fatta della sostanza di questi fuochi eterni, che voi chiamate costellazioni e stelle … Ecco perché, Publio [è Scipione l’Africano a parlare], tu e tutti gli uomini pii dovete tenere la vostra anima a guardia del corpo e non lasciare la vita umana senza l’ordine di chi vi ha dato quest’anima”. Da notare la stretta interdipendenza fra il piano cosmologico (la tutela del Centro, ossia qui della terra) e quello antropologico-esistenziale (la tutela del proprio involucro corporeo).

21

da quella che in prima battuta si è tentati di vederci. Si comprende subito che la frase non ha

affatto di mira la sortita dal luogo di reclusione, ‘recinto’, ‘carcere’ o ‘caverna’ che sia,77 in quanto

ciò si tradurrebbe nell’assurdo invito a contentarsi delle sue ombre e dei suoi vuoti simulacri senza

nemmeno tentare di fuggirne. L’ammonimento riguarda, al contrario, quanto il prigioniero riuscito

ad evadere, cioè il filosofo, ha il dovere di attuare una volta conquistata la propria libertà. Fare di

buon grado dietro-front, rinchiudersi di nuovo tra quelle pareti è un compito grave, ma necessario

per completare l’educazione alla filosofia e capire fino in fondo il valore morale di una simile

scelta:78 la bellezza e la verità non sono privilegio di pochi eletti, bensì un bene, anzi il Bene per

eccellenza, che ogni essere umano ha il sacrosanto diritto di raggiungere. Ma come riuscire

nell’impresa senza l’aiuto di chi ha già percorso in tutt’e due i versi la strada?

D’altro canto è logico che i codici di comportamento filosofico e militare trovino un punto

di convergenza. La responsabilità spettante nella Repubblica ideale ai cercatori della saggezza

implica la preventiva acquisizione, da parte loro, delle particolari qualità delle altre classi

subordinate all’azione giusta di governo, compresi la forza e il coraggio tipici dei guerrieri. E tale

aspetto è centrato perfettamente dalla consegna di “non scioglier[si] da questo impegno né

lasciare il posto” imposta a degli uomini di guardia, un messaggio che credo Platone ci tenesse ad

ogni costo a trasmettere, anche fra le righe, sfruttando magari il doppio senso offertogli nella sua

lingua da un’espressione come en … phrourai.79

*****

Le intersezioni fra Orfeo e i Sabei comunque non si esauriscono qui, e una piuttosto

intrigante è quella che ha a che fare con il nome proprio ebraico Orphah, riconducibile per

inversione sillabica a ophrah, ‘ornamento’, ‘diadema’ ma pure, in aggiunta, ‘gazzella’.80 La cosa

non sarebbe meritevole del minimo interesse se, sempre in Aramaico, non esistesse per l’identica

serie di oggetti una voce alternativa, a cui è difficile negare ormai un’aria decisamente di famiglia:

sebi! La vicinanza fonetica di sebi con sab’ – ‘soldato’ (sopra incontrato al plurale) non è sfuggita a

un biblista attento come Manfred Gorg, che vi fa espresso riferimento a proposito del dio

77

La similitudine dell’ ‘antro’ o della ‘caverna’ è commentata da Boyancé, 9-11; vd. anche Pepin, 422-3 e n.30, a proposito di Porfirio, de Antr. nimph. 6; su analogie e differenze tra caverna platonica e antro delle ninfe omerico (nella rielaborazione di Porfirio), si sofferma R. Turcan, Mithras Platonicus: Recherches sur l’héllenisation philosophique de Mithra, Leiden 1975, 65-7. Ulteriori riferimenti infra, n.117. 78

“Platone afferma che le anime dei teurghi non rimangono per sempre nella sfera intellegibile, ma che anche esse discendono nella generazione”: Olimpiodoro, in Phaed. 72b 1-3 = Oracoli Caldaici, fr.138. Nel suo Commentario al frammento, Mejercik, 193-4, spiega come ciò avvenga per una libera scelta, operata al fine di liberare le altre anime dalla prigionia della materia (anagoge); cf. Stang, 3. 79

Quanto già detto in Fratini-Prato (2014), 7, in merito all’ontologia della luce dei Sabei vale naturalmente pure per questo snodo: senza l’ausilio di una logica non-binaria e una semantica non-dualista, la speranza di inoltrarsi lungo le vie additate qui da Platone si condanna a priori allo scacco. 80

DB, vol.4 (1908), s. vv.: 1834 e 1898 nell’ordine; per il valore di ‘diadema’/‘corona’ nelle lamine orfiche, Bernabé – San Cristòbal (2008), 121-8. E’ possibile qui fare solo un cenno alla definizione di Orfismo come “religione del libro” avanzata a suo tempo da Bianchi (1974), 131 (= [1977], 189; cf. Bernabé – San Cristòbal [2011], 85 e n.101), un fattore forse decisivo per comprendere l’inclusione dei Sabei nel ‘popolo del libro’ (ahl al-kitab) operata dal Corano [supra, 16 e n.59]. Sugli scritti orfici quali hieroi logoi (‘storie sacre’, ‘testi s.’), e le difficoltà inerenti a qualunque rigida categorizzazione, Graf-Johnston, 249 ss.

22

extraisraelitico Reshef, del quale l’agile animale, immagine della rapidità del guerriero, è senz’altro

l’emblema.81 Ma l’assonanza, con tutto ciò che comporta, si fa valere altrettanto bene in altre

lingue semitiche, come ho avuto io stesso modo di appurare in più di un’occasione nelle mie

ricerche sul Sabeismo.

All’interno della Collana delle Perle Ricreative, una raccolta di favole e leggende arabe

medievali, è riportata una storia curiosa intorno alla Regina di Saba che, a guardar meglio, ha tutte

le caratteristiche di un racconto iniziatico.82 Nel corso di una battuta di caccia, il re del Yemen

avvistò a un certo punto una gazzella (ar. zhabi) braccata da un lupo (ar. dhabi), e si mise senza

esitazioni all’inseguimento; neutralizzato il pericolo, si accorse di essersi spinto però in un luogo

strano, inquietante, mai visto prima. Dove diavolo era capitato? Spuntò allora un personaggio

quasi dal nulla, di nome al-Yalab ibn Sa’b, svelandogli che era finito nel paese incantato dei jinn (i

demoni del deserto cari alla tradizione araba), e che sotto le sembianze della preda da lui tratta in

salvo si celava in realtà la Signora di quella terra, una fanciulla stupenda della quale il re si

innamorò manco a dirlo all’istante. Fu quest’ inedita unione fra un mortale e una jinniyya’ –

tramanda la leggenda – a generare la donna saldamente alla guida della nazione di Saba al tempo

di Salomone: 83 le doti di seduzione, di astuzia e di saggezza per cui è rimasta celebre la Regina

sono dunque frutto dell’umanità e della nobiltà d’animo del padre, ma attingono pure, in ugual

misura, al mondo parallelo degli spiriti e della magia proprio della natura non umana della madre.

Nel capitolo nono degli Atti degli Apostoli si narra dei miracoli compiuti da san Pietro in

Giudea. L’episodio è ritratto da Masolino in uno degli affreschi della Cappella Brancacci in Santa

Maria del Carmine a Firenze, ed è perciò solitamente noto anche a chi non frequenta con assiduità

le Sacre Scritture:

A Giaffa c’era una discepola chiamata Tabitha’, nome che significa ‘Gazzella’, la quale abbondava in opere

buone e faceva molte elemosine. Proprio in quei giorni si ammalò e morì. La lavarono e la deposero in una

stanza al piano superiore. E poiché Lidda era vicino a Giaffa i discepoli, udito che Pietro si trovava là,

mandarono due uomini ad invitarlo … . Appena arrivato … Pietro fece uscire tutti e si inginocchiò a pregare;

poi, rivolto alla salma, disse: “Tabitha’, alzati!”. Ed essa aprì gli occhi, vide Pietro e si mise a sedere. Egli le

diede la mano e la fece alzare, poi chiamò i credenti e le vedove, e la presentò loro viva (Atti, IX, 36-43).

Tabitha’ è solo una variante di Sebiya’, forma in cui suona al femminile il sebi ebraico di

nostra conoscenza: niente di più naturale d’altronde, se si tiene conto che per gli Ebrei, non meno

che per gli Arabi, l’elegante cervide delle pianure è simbolo per antonomasia di bellezza.84

Tuttavia, la presenza di ‘Gazzella’ in questo passo degli Atti ha poco a che spartire con l’estetica e

la grazia spontanea delle donne. Nell’economia generale dell’opera, la ragazza riconsegnata alla

vita da Pietro si situa infatti in una posizione strategica, cruciale. Una resurrezione! Non sono poi

tanti gli interventi soprannaturali di questo genere menzionati nel Nuovo Testamento, e se ne

81

M. Gorg, “Die Bildsprache in Jes. 28, 1”, Biblische Notizen 3 (1977), 19-20 (cit. da H. Madl, GLAT, vol.7 [2007], s.v. ‘sebi’, 504). 82

La Collana narra dei sovrani del Yemen in età preislamica: riferimenti in Ansaldi, 259, da cui attingo pure per la mitica genealogia della Regina (ibid., 57-9). 83

Ansaldi, 67-76. 84

DB, vol.5, s.v. ‘Tabithe’, 1966-7.

23

capisce bene il perché. Un conto è strappare un individuo agli artigli della morte, un altro sanarlo

dalle sue infermità, come era accaduto in precedenza a Pietro con il paralitico bloccato da otto

anni nel suo lettuccio a Lidda, a cui bastò ingiungere in nome di Gesù Cristo “Alzati e rifatti il

letto!” per ottenerne la subitanea guarigione.85 No, non ci siamo. Nonostante le somiglianze

apparenti del quadro, qui c’è molto, molto di più. Il miracolo di Tabitha’ fa in qualche misura da

prologo alla storia del centurione Cornelio, il primo pagano convertitosi al Vangelo insieme

all’intera sua famiglia che la Scrittura ricordi.86 Un evento epocale, se è vero che fu proprio esso a

sciogliere i pregiudizi dei discepoli di Gesù nei confronti degli ‘stranieri’, dando così il via

all’annuncio e alla conseguente propagazione della Buona Novella nel mondo ad opera di Paolo,

l’apostolo delle ‘genti’.

Negli Atti Cornelio è un uomo eusebes kai phoboumenos ton Theon, ‘pio e timorato di

Dio’;87 nei capitoli successivi, per parlare delle persone come lui disposte in linea di principio ad

abbracciare il Cristianesimo, lo scritto si servirà invece per lo più del sinonimo oi sebomenoi (ton

Theon), ‘gli adoratori (di Dio)’, un’espressione la cui consonanza con il refrain intercettato ed

accarezzato fin qui appare evidente.88 Alla luce di tutto ciò, non dovrebbero esserci ostacoli a

individuare in Tabitha’/’Gazzella’ la funzione anagogica che occorre riconoscerle oramai di diritto:

comunque venga pronunciata o trascritta, la parola quando ricorre in determinati contesti si

trasforma in qualcos’ altro, in un Segno volto a imprimere una traccia inconfondibile entro il suo

raggio d’azione, nella Marca identificativa di un territorio, in un vero e proprio Symbolon

insomma.

Un discorso circa i ‘Timorati’ o gli ‘Adoratori (di Dio)’ porterebbe troppo lontano. Vale però

la pena di segnalare almeno che queste associazioni di Gentili ‘pii’, talvolta contigue ma comunque

estranee al Giudaismo, avevano raggiunto proporzioni tali durante i primi secoli della nostra èra da

competere seriamente con le grandi religioni monoteiste.89 Diffusi a macchia di leopardo un po’ in

tutte le regioni dell’Impero, i gruppi in oggetto si fregiavano di varie etichettature (Sebomenoi,

Theosebeis, Sabbatistai, Hypsistarii, Massaliani, Euphemitai, Coelicolae), ma ciò non incide sulla

sostanziale omogeneità delle credenze e delle pratiche liturgiche, gravitanti principalmente

attorno a una coppia di aspetti qualificanti: la fede nel Dio Altissimo e il culto degli Angeli.90 Si

deve a Emil Schurer e al suo “Gli Ebrei nel Regno del Bosforo e le comunità dei sebomenoi …” il

merito di aver aperto il dibattito più di cent’anni or sono intorno a una realtà su cui sembrava

caduto senza rimedio il velo dell’oblio,91 e che comunque anche in seguito ha corso il rischio di

dissolversi di nuovo sotto il fuoco di fila degli scettici a oltranza, prima di guadagnare pieno diritto

di cittadinanza fra le manifestazioni più originali e stimolanti della religiosità degli Antichi.92

85

Atti, X, 32-4. 86

Atti, X, 1-43. 87

Foerster, 1477. Assai opportunamente Pines, 147, sottolineava come “according to the Acts of Apostles, the first Gentile converted to Christianity was one of the ‘God-Fearers’ ”. 88 Fratini-Prato (1997), 19-20 e nn. 66-7, 70, 72; eid. (2002), 23 n.214. 89

Athanassiadi-Frede (1999); Mitchell - van Nuffelen, in particolare 167-208 (‘Further Thoughts on the Cult of Theos Hypsistos’, di Stephen Mitchell). 90

Fratini-Prato (2002), 23-6; 30 e nn.273, 275. 91 Schurer, 199-225. 92

Un taglio netto alle polemiche è stato dato dalla scoperta nel 1977 di una stele a Afrodisia con su incisi i nomi di 54 hosioi theosebis (‘pii timorati di Dio’): Reynolds- Tannenbaum, soprattutto 48-67; Fratini-Prato (2002), 1 e nn.6-9.

24

Come hanno messo in chiaro le ricerche posteriori sull’argomento, il rapporto stabilito da

Schurer tra gli ‘adoratori’ del Dio Altissimo e gli ambienti giudaici della Diaspora è assai più

sfumato e articolato di quanto egli supponesse. Le comunità di sebomenoi stanziate nei centri

rivieraschi della Crimea presi in esame dal suo studio, al pari delle altre simili sorte in Anatolia, in

Siria, in Palestina, in Nord Africa, in Italia, spesso e volentieri intrattenevano con la Sinagoga un

legame morbido, allentato, quando non del tutto inesistente.93 Venendo a mancare una chiave di

lettura universale, ogni situazione costituisce per così dire un caso a sé, e le colonie greche della

costa nordoccidentale del Mar Nero - divenute poi parte per lo più del Regno del Bosforo - non

fanno dal canto loro eccezione alla regola.94 E’ però su una di esse in particolare che conviene

focalizzare ora l’attenzione: Olbia Pontica. Proprio qui, infatti, sono stati rinvenuti i documenti che

“rappresentano non solo la più recente, ma anche la più antica testimonianza autentica della

dottrina e della pratica orfiche”:95 le tre placchette in osso con incisioni decifrate dall’archeologa

sovietica Anna Rusjaeva alla fine degli anni ’70 del secolo scorso. Se si prescinde dalle ceramiche e

dalle gemme, il materiale di prima mano sull’Orfismo oggi in nostro possesso, come pure la

schiacciante maggioranza delle fonti indirette, è tutto cronologicamente successivo a questi

reperti, risalenti alla prima metà del V secolo a.C. Prima del loro ritrovamento, l’unica attestazione

degli Orfici in una fase storica così precoce era Erodoto, che accenna in modo esplicito alla setta

in un passo del suo capolavoro relativo al rituale funebre proprio degli Egizi:

(Gli Egiziani) non introducono vesti di lana nei santuari, né si fanno seppellire con esse, perché non è

conforme all’ordine religioso. Concordano in ciò con le pratiche chiamate orfiche e bacchiche, che sono in

realtà egiziane e pitagoriche. Infatti non è conforme all’ordine religioso farsi seppellire in vesti di lana per

chi partecipa a questi riti sacri. Su ciò vi è un discorso che è detto ‘sacro’ [hiros logos](II, 81).96

Ebbene, le tavolette di Olbia sono in un certo senso “la materializzazione fisica delle parole

dello storico greco”.97 Senza entrare nel merito delle tante questioni sollevate dai testi, basterà

osservare che il termine Orphikoi è stato in questo caso scolpito sopra un manufatto (Tav. 1,

93 Per una panoramica completa, Levinskaya, capp. IV-VII, 51-126, con i distinguo di Bowersock, 362: “Theos

Hypsistos, in his anonymous guise and in his various incarnations, such as Zeus, Helios, or Sarapis, was not one god. Hellenophone Jews and Christians knew that their God was Hypsistos, but they can have been in no doubt that many of the cults dedicated to the deity of that name had nothing to do with them”. 94

Levinskaya, 105-16; Ustinova, 203-39. 95 Vinogradov, 77. 96 Seguo la trad. di Scarpi, ‘Orfismo’ C7 (OF, T 216; Colli, 4 [A 12]; OF

2, 650). “E’ opportuno qui richiamare la

qualificazione di ‘pitagoriche’ data da Erodoto alle regole ‘orfiche’ e ‘bacchiche’, e rilevare l’analogia che le norme del vivere proprie dei Pitagorici presentano con quelle che caratterizzano la ‘vita orfica’, l’Orphikos bios descritto da Platone nelle Leggi” (Pugliese Carratelli [1990], 413): discussione del passaggio in Burkert (1972), 126 ss. (cf. id. [1975], 87 e n.14), da integrare con le riserve di Cosi, 143 ss., o di Graf(-Johnston), 200-2, 218-9 (“che queste prescrizioni ‘in realtà’ siano egizie e pitagoriche, ovvero che siano state importate dall’Egitto ad opera di Pitagora, costituisce una teoria personale di Erodoto”). Per il rapporto del “tabu della lana … con l’evitazione degli empsycha, a sua volta collegato con la dottrina della migrazione delle anime”, Casadio (1991), 128 n.22; per il vegetarianismo (e la sua carica anti-istituzionale), Detienne (1975), 57-70. Evito di addentrarmi nel ginepraio delle differenze che separerebbero i fedeli di Dioniso, i seguaci di O. e i discepoli di Pitagora; quanto all’altra vexata quaestio, l’esistenza di gruppi organizzati in seno all’Orfismo, ci si augura abbia cessato di essere un problema dopo i ritrovamenti di Olbia (vd. oltre nel testo). 97 Alessandro Coscia, “Gli Orfici del Mar Nero”, sito web.

25

Recto) e non semplicemente riprodotto dentro un’opera filosofica o letteraria. E’ la prova che una

comunità fedele agli insegnamenti del poeta tracio, o tramandati comunque sotto il suo nome,

esisteva quaggiù già in un’epoca remota e sicuramente pre-classica: i suoi membri veneravano

Dioniso, il cui nome compare nella forma abbreviata Dio[n] in questi rozzi graffiti; credevano

inoltre nella legge di rinascita delle anime, ineluttabile per tutti tranne per chi come loro fosse un

iniziato ai misteri, e illustrata magnificamente dallo stretto legame della sequenza bios-thanatos-

bios (‘vita’-‘morte’-‘vita’) con la parola aletheia (‘verità’) in uno dei documenti.98 Sembra di

leggere Platone quando, riesponendo quasi alla lettera una simile idea, afferma:

l’abbiamo già ricordata l’antica dottrina [palaios logos] che nell’al di là esistono le anime giuntevi di qui e

che dall’al di là nuovamente qui ritornano e dai morti si rigenerano nuovi esseri (Phaed., 70c),

perché se la morte non si convertisse ancora nella vita

sarebbe alla fine necessario che tutto fosse morto e che non vivesse più niente (Phaed., 72a).

Questi seguaci di Orfeo erano, non diversamente dagli altri, inclini a identificare il corpo

con la ‘menzogna’, cioè con “un ingannevole velo di Maya”, 99 e l’anima per contro con la ‘verità’,

ossia con l’unica realtà degna di questo nome: le coppie di opposti pseudos/aletheia -

soma/psyche esibite in parallelo sul Recto della Tavoletta 3 sono nella loro stringatezza la

dimostrazione più efficace di un tale profondo convincimento.

Se alcuni dei dogmi e degli articoli di fede peculiari dello stile di vita orfico (l’ophikos bios

cui fa cenno ancora Platone nel sesto libro delle Leggi, 782 c-d) trapelano da esse nitidamente, lo

scopo per il quale queste piccole tessere furono prodotte resta purtroppo ignoto. All’opposto di

quanto si era creduto in un primo momento, i bordi smussati degli angoli non sono per nulla

effetto di usura, e riesce così problematico avvalorarne la funzione di “segni distintivi di

appartenenza a un gruppo” ipotizzata a suo tempo da Martin West;100 l’assenza di fori per il

passaggio di una cordicella e di parole d’ordine o di formule convenzionali sulla superficie rende

d’altro canto arduo assimilarle a un salvacondotto capace di spianare al defunto la via

dell’Oltretomba, come accade invece con le famose lamine d’oro scoperte nelle regioni della

Magna Grecia, in Sicilia, sull’isola di Creta, o in Tessaglia.101

Va da sé che un fenomeno quale l’Orfismo, al pari di analoghe manifestazioni religiose di

carattere non istituzionale, abbia fatto presa in territori ai margini della Grecia continentale o 98

Vinogradov, 78-80; cf. Burkert (1987), 46 e n.88; Levèque, 82; West (1993), 28-31; OF2, 463-5; Tortorelli Ghidini

(2006), 156-61; Graf-Johnston (2015), 307-10. 99

Casadio (1991), 125. 100 West (1982), 25 (“membership tokens - bone chips symbolizing participation in common sacrifices”); id. (1993),

29. Tortorelli Ghidini (2000), 27-9, considera in breve le diverse ipotesi sul tappeto; ead. (2006), 149-61 e 267-8, per la presentazione generale e la copia fotografica dei documenti. Una riproduzione a disegno, comprensiva degli enigmatici segni iscritti sul Verso, è in Graf-Johnston, 307-9. 101

Vinogradov, 81. Fra gli studi sulle lamine apparsi negli ultimi anni, occorre segnalare Bernabé – Jiménez San Cristòbal, Instrucciones para el Màs Allà: las laminillas òrficas de oro, Madrid 2001, tradotto in Inglese per Brill nel 2008; Graf–Johnston (2007); Edmonds (2011). Una nuova versione in Italiano, dopo quella storica di Pugliese Carratelli (1993), è stata pubblicata nel 2006 da Marisa Tortorelli Ghidini, all’interno del suo Figli della Terra e del Cielo stellato; dall’anno scorso è inoltre disponibile la trad. it. del lavoro di Gr.-J. (vd. bibliog).

26

addirittura di frontiera, come le stazioni commerciali elleniche sul Mar Nero. Un po’ meno ovvio è

però scoprire, a distanza di mezzo millennio circa, un’associazione di ‘adoratori del Dio Altissimo’

insediata ancora una volta qui, nella città di Olbia. L’iscrizione, del II secolo d.C., recita quanto

segue:

Al Dio Altissimo [Theoi Hypsistoi] … i membri della sacra gilda sotto la presidenza di Pothos il figlio di

Theodores II – Pourthaios il figlio di Pourthaios, Achilleus il figlio di Demetrios, Dionisodoros il figlio di

Erotos, Zobeis il figlio di Zobeis, Archon il figlio di Pothos, hanno restaurato a loro spese la casa di preghiera

[proseuche] da … , avendone riparato il tetto.102

La restituzione appena proposta è altamente congetturale, inutile nasconderselo. Le

sezioni mutile o corrotte dell’epigrafe sono consistenti ed hanno perciò fin dall’ editio princeps

alimentato vivaci discussioni, anche perché le variabili investono anzitutto le due espressioni da

cui dipende l’interpretazione complessiva del documento: Theos Hypsistos e proseuche. Come

regolarsi? Per quanto riguarda quest’ultima, pare sia oramai da escludere categoricamente

l’eventualità che il termine indichi un tempio pagano o qualcosa di simile, e tanto basta;103 quanto

a Theos Hypsistos, si tratta invece di un’integrazione paleografica che va presa per quel che è, ma

la buona percentuale di studiosi mostratasi favorevole ad accoglierla incoraggia senz’altro a fare lo

stesso e a riconoscere perciò in questa Divinità delle Massime Altezze il Dio Unico di Israele.104 I

contorni dello scenario apertosi in base alle scelte appena operate, quanto mai ragionevoli del

resto, sono abbastanza precisi: cinque personalità cittadine (gli arconti), più una sesta (con

l’incarico di presidente), dichiarano pubblicamente la propria devozione nei confronti dell’

Altissimo e si fanno quindi carico delle spese necessarie per il restauro della locale Sinagoga. Per

spiegare il perché di un’ iniziativa che esula dalla normale sfera di competenze dei magistrati, non

occorre affatto postulare che il Giudaismo fosse divenuto allora la religione ufficiale di Olbia: un

gesto di gratitudine per un qualche aiuto prestato in precedenza dalla minoranza ebraica alla

municipalità sarebbe già una motivazione plausibile,105 sebbene personalmente la giudichi

piuttosto forzata e, in ultima analisi, superflua.

Anche senza fare appello a dei ruoli di governo sui quali le condizioni deteriorate del testo

non consentono di pronunciarsi con sicurezza, il fatto che alcuni degli abitanti del luogo, dai nomi

tutt’altro che semitici, non soltanto fossero devoti dell’Altissimo ma spendessero pure del denaro

per la casa di preghiera dei Giudei è infatti una notizia preziosa di per sé. Viene però da chiedersi:

102

Levinskaya, 221, che riprende qui la vecchia ricostruzione di I.I. Tolstoj: “Tolstoj did not insist that his restoration was correct; he suggested it exempli gratia. What was important for him was to mark a possible parallel between this inscription and the ones from the Bosporan Kingdom, where Jewish prayer houses – and he did not doubt that meaning of proseuché – attracted Gentile Jewish sympathizers, some of whom organized the cult associations venerating the Most High God”. Testo e commento anche in L.I. Levine, The Ancient Synagogue, New Haven-London 2000, 120 n.201; A. Runesson-D.B. Binder-B. Olsson (eds.), The Ancient Synagogue from its Origins to 200 c.e., Leiden 2008, 155; ma innanzitutto Noy-Panayotov-Bloedhorn, 254-9, che forniscono un’analisi circostanziata della storia e della letteratura relative a quest’iscrizione, oggi sfortunatamente perduta. 103

Ustinova, 236 (con Karishkovskii, Kiev 1989) propendeva ancora poco tempo fa per la natura pagana dell’edificio (“… the Olbian house of prayer was presumably pagan”), ma i suoi argomenti non sono stringenti. Per un’analisi di proseuche, Levinskaya, Appendix 2, 207-25. 104

Documentazione in Levinskaya, 221-2. 105 Ibid., 222.

27

questi Gentili così vicini alla comunità ebraica erano o no riconosciuti dalla gente di cui si

prendevano cura? Godevano, in altri termini, di un status particolare in quanto gruppo organizzato

o erano dei semplici ‘simpatizzanti’ che agivano a titolo personale?106 Purtroppo, a differenza di

molte altre iscrizioni del Corpus Regni Bosporani, i soggetti dell’epigrafe non sono connotati qui

dalla formula sebomenoi ton theon hypsiston né da quella equivalente di theosebeis che, come

insegna la stele di Afrodisia, diviene talvolta uno speciale titolo d’onore conferito ai pagani in

ragione della loro fede e delle loro opere di carità nei confronti della stirpe d’Israele dispersa per i

vari angoli della terra.107 Ma la circostanza è nel nostro caso poco rilevante. Il quadro d’insieme

(nel quale inserirei anche il Zobeis figlio di Zobeis di uno dei benefattori!108) porta comunque a

concludere che i Gentili di Olbia rientrino nella medesima categoria di individui di Gorgippa, di

Penticapeo, di Paflagonia, di Tanais nonché appunto di Afrodisia, e che siano dunque da ritenere

degli ‘adoratori di Dio’ a tutti gli effetti, vale a dire, dal mio punto di vista, dei Sabei.

So bene di prestare il fianco all’accusa di Pansabeismo che può con disinvoltura muoversi a

una posizione del genere. Vedere ovunque dei Sabei non è certo saggio, anzi direi che è

sinceramente assurdo. Non meno assurdo è tuttavia restringere il fenomeno entro i limiti imposti

da una Filologia che, a dispetto del suo statuto, fa invece acqua da tutte le parti: il maldestro

tentativo di Chwolsohn di imporre coloro che gli Arabi chiamano Subba (ossia la sparuta setta

battista dei Mandei tutt’oggi in vita fra le paludi dell’Iraq meridionale) nella veste di ‘autentici’

Sabei è un buon esempio di come il gigante del Metodo e del Rigore Scientifico possa partorire alla

fine un topolino o, peggio ancora, un fantasma.109 Se si perde di vista come egli fa la madre del

Battista, Elisabeth – nome che i biblisti hanno sempre preferito ricondurre ad etimologie a dir

poco criptiche (‘Dio è sette’, ‘Colei il cui giuramento è Dio’110) piuttosto che sottoscrivere la sua

perfetta corrispondenza con il greco theosebes – si salta infatti a piè pari un anello decisivo,

condannando la catena di trasmissione della Scienza Sacra e i suoi portavoce legittimi a

scomparire senza lasciare più traccia.

Prima di partire definitivamente da Olbia, vale forse la pena di effettuare un ultimo

sopralluogo. Sarebbe un peccato dimenticarsi di chi gettò le fondamenta di questo scalo marittimo

nel VII secolo a.C., dal momento che erano dei coloni venuti da Mileto.111 Sì, proprio lei, Mileto, la

culla della Filosofia! Una metropoli florida, esuberante, grazie alla vocazione naturale per i traffici

che fin dalle origini l’aveva spinta a tenere una fitta rete di contatti con i porti del Vicino Oriente

affacciati sul Mediterraneo; e ricca soprattutto di cultura, se è vero che gli scambi di merci non

106

Siegert, 109-62 discute la distinzione ‘timorati (di Dio)’ - ‘simpatizzanti’, che resta comunque malcerta: Fratini-Prato (2002), 10 e nn.69-71. La prudenza di Wander (2002) nella gestione del tema si rivela alla fine paralizzante. 107

Per i riferimenti, supra n.92. 108

Fratini-Prato (2002), 14 e nn. 103-9. 109

Chwolsohn, I, 100-38, su cui vd. le puntuali obiezioni di Hjarpe, 1-34. Gunduz, 1-124, ha provato una ventina di anni fa a dare nuova linfa alla tesi dello studioso russo, ma con scarso successo. 110

DB, vol.2 (1899), s.v., 1688-9 (B. Levesque); Lexikon fur Theologie und Kirke, vol.3 (1959), s.v., 816 (M. Meinertz). Almeno per quanto riguarda la donna dei Vangeli (Luca, I, 5-23; 57 ss.; l’altra E. delle Scritture è la sposa di Aronne di Esodo, VI, 23), la esse di E. corrisponde all’enfatica ebraica sadé (come dimostra la trascrizione ‘Elizabeth’, con la zeta, in molte moderne lingue europee), ciò che mette fuori causa sia l’una sia l’altra etimologia: Fratini-Prato (2002), n.339. 111

N. Ehrhardt, Milet und seine Kolonien, 2 voll., Frankfurt am Main – Bern – New York 1988, I, 75-9; G. Vinogradov – S. D. Kryzickij, Olbia: eine altgriechische Stadt im nordwestlichen Schwarzmeerraum, Leiden - New York - Koln 1995, 1-2 e 127 ss.; A. J. Graham, ‘The colonial expansion of Greece: VI) Pontus’, CAH, vol.3, iii (1982

2), 124-9; G.R.

Tsetskhladze, ‘La colonizzazione greca nel Ponto Eusino’, in S. Settis (a c. di), I Greci, vol.2, i, Torino 1996, 957-66.

28

mancano mai di accompagnarsi ai movimenti degli uomini e delle idee. All’epoca della fondazione

di Olbia Pontica la scuola di Talete, Anassimandro e Anassimene non era forse ancora sorta: ma mi

piace immaginare che le correnti di pensiero di cui questi uomini seppero farsi magistralmente

interpreti abbiano toccato per qualche via anche le colonie più distanti dalla madrepatria e che ciò

non sia estraneo a quel singolare intreccio di eusebeia e gnosis, del quale le manifestazioni

misteriosofico-religiose emerse più tardi in quest’ insediamento recano chiara testimonianza.112

Del resto la cosa torna a proporsi negli stessi termini o quasi presso le maggiori scuole

presocratiche della Magna Grecia: a Crotone, a Elea, a Agrigento, è difficile se non impossibile

operare una netta linea di separazione fra pietà e conoscenza, fede e sapere, religione e filosofia.

La Sapienza è Una: se si dividesse in due, se si sdoppiasse, non sarebbe quello che è.

Ancora un appunto, un episodio registrato pure stavolta da Erodoto nelle sue Storie. Il

grande scrittore conosce Olbia col nome di ‘Boristene’, e la ricorda per aver dato ospitalità a un

‘fattaccio’ di cui furono protagonisti il sovrano degli Sciti e la sua curiosità per i riti dionisiaci

consumati regolarmente sul posto, ma destinati a risolversi in quest’occasione per lui con un esito

funesto:

Dopo che [il re] Scile … fu iniziato [etelesthe] ai misteri di bacchici, uno degli abitanti di Boristene si recò

furtivamente presso gli Sciti: “Ci deridete, o Sciti, perché celebriamo le orge bacchiche [bakcheuomen] e il

dio si impadronisce di noi; ora questo dio si è impadronito anche del vostro re, ed egli celebra le orge

bacchiche [bakcheuei] e delira [mainetai] per opera del dio … ”. Quando Scile passò con il tiaso e videro che

celebrava le orge bacchiche [bakcheuei], gli Sciti ne rimasero profondamente addolorati, come per una

grave sciagura (IV, 79). 113

Si noti il vocabolario, rigorosamente ancorato alla sfera dei misteri, come pure la presenza

del ‘tiaso’, l’ associazione di cultori di Dioniso, nel racconto. E’ un ulteriore frammento utile a

comporre il profilo ideale della città e magari a comprendere meglio il funzionamento di alcuni

meccanismi. Il centro edificato in età arcaica da uomini provenienti dalla futura patria della

filosofia è lo stesso dove vede in seguito la luce un tiaso dedito alle celebrazioni di Dioniso

Bacchico, dove nasce una confraternita di iniziati alle dottrine di Orfeo, e dove infine prendono

vita circoli di Gentili ‘adoratori’ del Dio Altissimo. Esiste un filo conduttore in grado di dare a tutto

112 Per l’età classica e preclassica, il collegamento tra Mileto e le colonie greche del Mar Nero viene operato

espressamente da Burkert (1983), 259-60, in relazione ai misteri di Dioniso: “We find evidence for Bacchic mysteries from the sixth to the fourth century, with centers at Miletus and the Black Sea, in Thessaly and in Macedonia ecc.” (per Olbia in particolare, id., Da Omero ai Magi, Venezia 1999, 71-2). Sui rapporti della città ionica con i centri pitagorici del Mezzogiorno d’Italia, in specie Taranto, insiste a ragione Kingsley, 150-3; cf. Adorno, 25. 113 Seguo la trad. di Scarpi, ‘Dionisismo’ E9 (Colli, 1 [A 16]; OF

2, 563). Burkert (1987), 11, 33 n.14, 43, richiama il passo

per avvalorare la celebrazione di misteri di Bacco a Olbia in quest’epoca; non convincono invece le obiezioni di Turcan, 216-8, secondo cui questo e altri indizi (le placchette ossee) non basterebbero “a confirmer l’existence dans cette ville et à cette date de rituels mystériques”. La più antica testimonianza del grido bacchico euai (iscrizione su specchio bronzeo: Ehrhardt [n.111], II, 468 n.834; Vinogradov, 83; L. Dubois, Inscriptions grecques dialectales d’Olbia du Pont, Genève 1996, nr.92), risalente al VI sec. a.C., proviene da qui; di poco posteriore (fine VI) il frammento di skyphos con la stessa interiezione rituale (SEG 32 [1982], nr.779; E. Dettori, “Testi ‘Orfici’ dalla Magna Grecia al Mar Nero”, PP 51 [1996], 302), rinvenuto nella vicina Berezan. I dati a favore della convergenza tra Sabei e saboi, i seguaci di Dioniso Sabazio bersaglio delle ironie di Demostene (euoi saboi: de Cor., 18, 260 = OF, T 205; Colli 4 [B 7]; OF

2, 577 I), sono

velocemente presi in considerazione da Fratini-Prato (2002), 16-8.

29

ciò forma compiuta, saldando i vari pezzi in un insieme coerente? Beh, io credo onestamente

di sì, e spero che il sommario giro d’esplorazione appena condotto sia servito in certa misura a

mostrarlo.

*****

Il racconto erodoteo mi dà anche il pretesto per riesaminare una vecchia questione. Dopo

l’uscita di I Greci e l’Irrazionale di Eric Dodds, contemporanea a quella di Lo Sciamanismo e le

Tecniche Arcaiche dell’Estasi di Mircea Eliade (1951), è invalsa presso gli storici della religione

ellenica l’abitudine di rinvenire alle spalle della saga di Orfeo un’eco delle pratiche sciamaniche di

origine euroasiatica.114 La facoltà dello stregone di accedere a una dimensione parallela per mezzo

della trance e di viaggiare quindi senza impedimenti nel mondo degli spiriti calza apparentemente

a pennello con la figura di Orfeo, il primo a detenere poteri simili secondo la leggenda. L’idea

sembrava però trovare soprattutto conforto nella sua terra natale, la Tracia, perché confinante

con il paese degli Sciti e permeabile dunque agli arcaiche esperienze estatiche delle popolazioni

del Nord. In effetti, l’ipotesi ha perso di recente molto del credito di cui ha usufruito per un po’, 115

ma questo non significa che certi suggerimenti siano in toto da buttar via: c’è unicamente bisogno

di resettare il quadro. Il dato da tenere a mente non è lo sciamanismo che, come tutte le novità

intellettuali alla moda, lascia il tempo che trova; e non è nemmeno a rigore la Tracia in quanto

entità occupante un proprio spazio autonomo sulle carte geografiche. Balenata solo per un attimo

allo sguardo, l’indicazione davvero importante ha poco a che fare con l’etnologia e con la geografia

terrestre. E’ di natura mistica, metafisica. E’ l’Asse portante del Cosmo: è il Nord!

All’immagine di Orfeo-Sciamano penso sia così da preferire, almeno in prima battuta,

quella di Orfeo-Straniero. L’eroe arriva da lontananze cosmiche, abissali, ed è per questo che il

contatto con il Fuori - sia pur stemperato da filtri volti a parare la minaccia che l’irruzione

dell’alterità rischia di innescare entro l’ordine costituito - transita di necessità attraverso di lui.

Dire ‘Tracia’ non è come nominare l’Attica, la Laconia o la Beozia, ma il motivo per cui la regione

non ha nulla in comune con tali province non risiede nel fatto di essere situata oltre i confini

settentrionali della Grecia propriamente detta. Un brano di Strabone lascia intravedere bene il

perché della sua irriducibile diversità:

114

Dodds, 183-228; Eliade, 417: “Passando ora ad Orfeo, il suo mito comprende vari elementi ravvicinabili all’ideologia ed alla tecnica sciamanica. Il più importante è naturalmente la sua discesa agli Inferni per cercarvi l’anima della sua sposa Euridice … Ma Orfeo presenta anche altri tratti da ‘Grande Sciamano’: la sua arte di guaritore, il suo amore per la musica e per gli animali, i suoi ‘incantamenti’ e la sua fascinosità, il suo potere di divinazione. Persino il suo carattere di ‘eroe civilizzatore’ non contraddice la migliore tradizione sciamanica”. Largo spazio all’idea - ripresa non molto dopo da Walter Burkert, “Goes: zum griechischen ‘Schamanismus’ ”, RhM n.s. 105 (1962), 36-55 (cf. id. [1993], 155-61) - danno ancora West (1993), 16-9; Colpe-Habermehl, 490 ss. (O.: 509). 115

Come puntualizzava Colli, 45-6, l’escursione dell’anima fuori dal corpo si coniuga in Grecia con figure come Abari e Aristea, connesse intimamente con gli Iperborei, piuttosto che con O.: “L’estasi apollinea è un uscire fuori di sé … Ciò è testimoniato per Aristea, e della sua anima si dice che volasse. Ad Abari viene invece attribuita la freccia, trasparente simbolo di Apollo, e Platone fa cenno ai suoi incantamenti. Ricordando un altro passo platonico: ‘in verità Apollo scoprì l’arte del tiro con l’arco e la medicina e la divinazione’, si può ricostruire per questi personaggi uno sfondo favoloso, un quadro sciamanico”. Ulteriori elementi per una corretta impostazione del problema forniscono C. Fiore, “Aspetti sciamanici di Orfeo”, in Masaracchia 1993, 409-24; Graf-Johnston, 263 n.33.

30

La Pieria, l’Olimpo, la Pimplea, il Libetro sono delle regioni e delle montagne che sono appartenute nei

tempi antichi alla Tracia, prima di passare ai Macedoni che la occupano oggi. L’Elicona fu consacrato alle

Muse dai Traci che si erano stabiliti in Beozia e furono gli stessi che votarono alle Ninfe Libetriadi la grotta

che porta il loro nome. I promotori della musica antica passano per esser stati dei Traci: Orfeo, Museo,

Tamiri; il nome di Eumolpo verrebbe ugualmente da questo paese (X, 471).116

L’autore è alle prese con la musica, ed è senza dubbio istruttivo apprendere che il prestigio

di cui godeva la Tracia in questo ramo delle arti le deriva dalla peculiarità di aver abbracciato in

passato il territorio dove sorgevano le principali sedi del culto delle Muse, divenuto poi parte dello

stato macedone. Ancor più istruttivo è però scoprire, fra le località menzionate nell’elenco,

l’Olimpo. Perbacco! Il monte compare quasi di sfuggita – è vero - dato che se ne parla solo in

funzione della particolare materia affrontata qui dal geografo, ma la cosa suscita lo stesso un’

emozione potente. Nell’immaginario del popolo greco, che tende spesso e volentieri a confondere

o a sovrapporre (la precisazione è d’obbligo) la Macedonia e la Tracia, quest’ultima è, con ogni

evidenza, l’Altrove. Non esiste così altro luogo in grado di accogliere Orfeo, lo Straniero, se non

questo non-luogo; ed è unicamente sopra un non-luogo come questo che è possibile far poggiare il

Monte, la Torre, la Scala, da sempre slanciati fra la Terra e il Cielo allo scopo di mantenere aperta

la via per tutti gli uomini di buona volontà.

La Montagna Sacra, o Polare, è forse la figura più universale per mezzo della quale si

manifesta, sul piano dei simboli, l’idea che la comunicazione tra i due mondi è una realtà e che

essa in verità non si è mai interrotta. René Guenon ha saputo scrivere su ciò pagine di rara potenza

e non c’è ragione di ripetere dunque i suoi argomenti.117 Piuttosto, si può tentare di integrarli

continuando a battere la pista seguita finora, a proposito della quale lo stesso Guenon fornisce

un’informazione interessante. Venendo a trattare del simbolismo del Centro – di cui la Montagna

Polare, l’Olimpo, è una delle classiche icone - e del suo fatale nascondimento nell’era del Kali

Yuga, l’ ‘Età Nera’ (o ‘del Ferro’, come la chiama Esiodo) dell’umanità attuale, il guru d’Oltralpe a

un certo momento osserva:

nel Medioevo … quella che si potrebbe designare la ‘copertura esteriore’ del Centro in questione era

costituita, in buona parte, dai Nestoriani … e dai Sabei.118

Impeccabile. A prescindere dalla localizzazione temporale del Sabeismo, a mio giudizio

riduttiva e fuorviante, la notizia dirige l’attenzione su un aspetto decisivo, l’incarico che nel ciclo

della ierostoria (non della storia profana, come il Medioevo!) attualmente in corso i Sabei sono

deputati a svolgere. A loro spetta il compito di ergersi a difesa del Centro sacro, inviolabile del

116 Le tradizioni leggendarie circa il rapporto della Tracia e le altre località citate nel testo con O. (OF, T 38-41; OF

2,

919-38) sono commentate da Graf (1987), 86-90. Per l’ origine straniera di O., Graf-Johnston, 241-2, ed inoltre Versnel, 146-7: “the world of otherness … can be identified with foreign countries, or the land of barbarians … or a utopian/dustopian never-never-land, or a precultural mythical abode in the beginning, or an eschatological one in the end of time”. 117

Guenon (1975), 189-92; id. (1977), 86-7: l’autore evidenzia il rapporto di complementarità montagna-caverna, grazie a cui quest’ultima assolve le funzioni svolte in precedenza dall’altra nel periodo di oscuramento attuale, quando il “Centro del Mondo” non può più manifestarsi apertamente e diviene di necessità sotterraneo. 118 Guenon (1977), 20-1.

31

Cosmo, ad essi è stato affidato una volta per tutte il ‘servizio di guardia’. Le parole non si ritrovano

alla lettera nel passaggio, ma è difficile dubitare che il senso della nota sia esattamente

questo.

Nella cosmologia del pitagorico Filolao (V sec. a.C.) la terra è un corpo celeste che, al pari

degli altri pianeti e delle stelle, ruota per l’eternità attorno al Fuoco centrale chiamato a governare

i movimenti e l’attività dell’Universo.119 Secondo alcuni interpreti, il sistema anticipa per certi versi

il modello astronomico di Aristarco di Samo ripreso poi da Copernico,120 e la cosa potrebbe anche

stare in piedi, a patto però di non dimenticare la mistica e la teologia che ne sono alla base.

L’interlocutore a cui rispondono i seguaci della scuola di Pitagora è un’autorità, la Tradizione, poco

o nulla allineata con i parametri della scienza moderna, sicché l’eventuale corrispondenza tra le

dottrine degli Antichi e quelle (ri)proposte negli ultimi quattrocento anni si risolve non di rado in

un puro effetto di superficie o, addirittura, in un miraggio. Come giustificare sennò l’imperativo di

posizionare al Centro una sostanza perennemente occultata a noi terrestri, invece del Sole?121

Perché non ricorrere alla soluzione che, dal punto di vista dei moderni, appare la più

semplice?

Erano molti i nomi con cui i Pitagorici designavano il Cuore pulsante del Mondo: ‘Torre’ o

‘Torre di Guardia di Zeus’, ‘Trono di Zeus’, ‘Casa di Zeus’, ‘Madre degli Dèi’, ‘Vincolo e Metro della

Natura’.122 C’è tuttavia un’espressione che ritorna con particolare insistenza. Aristotele:

I Pitagorici, anche perché ritengono che sopra ogni altra deve essere custodita la parte più importante del

Tutto - e tale è per loro il Centro - chiamano ‘Posto di Guardia di Zeus’ [phylaken Dios], il Fuoco che occupa

questo luogo (de Coel. II, 13, 293 b 1); 123

Simplicio:

dunque il Fuoco è custodito [phylattetai] nel Mezzo, e per questo (i Pitagorici) lo chiamano ‘Posto di

Guardia di Zeus’ [Dios phylaken], affinché sia custodito [phylattomenon] nel Centro sotto la sorveglianza del

demiurgo [demiourgikes synoches] (in de Coel., 513, 21);

119

DK, 58 B 37; TC, II, ‘Filolao’, *16b. 120

Heath, 94 ss.; P. Duhem, Le Système du Monde, I, Paris 1913, 15-9; G.V. Schiaparelli, I Precursori di Copernico nell’Antichità. Memorie del R. Istituto Lombardo di Scienze e Lettere (classe di Sc. mat. e nat.), vol.12, Milano 1873, 381-91. Per un approccio in chiave più divulgativa, Lo Sardo, 59-63. 121

Heath, 23: “our emisphere is always turned away from the central fire, that is, it faces outwards from the orbit towards Olympus” (Aezio [n.122]: “Filolao … la parte più alta, quella dell’involucro, in cui risiedono gli elementi nella loro purezza, la chiama ‘Olimpo’ ”: la localizzazione dell’Ol. nello spazio al di fuori delle sfere celesti è difesa da R. Mondolfo, L’Infinito nel pensiero dell’antichità classica, Firenze 1956, 340 ss.; contra, TC, II, pp.151-9). Quanto all’equivalenza Olimpo - Tempo (Chronos), discussa nel Papiro di Derveni (col. XII), e alla possibile assimilazione di quest’ultima entità con il Chronos ageraos delle più tarde versioni della cosmogonia orfica [supra, n.5], rinvio a Tortorelli Ghidini (2006), 245: “Il problema del Tempo ha suscitato un vivace dibattito tra chi [come Brisson (1995), 37-55 e (1997), 149-65] sostiene che l’intuizione del Tempo come divinità originaria non possa essere anteriore al II secolo d.C. e chi [come l’autrice, a cui personalmente mi allineo] invece accetta che la concezione astratta del Tempo in Grecia esisteva già nel VI-V secolo a.C.”; ulteriore letteratura in OF

2, fasc.3, pp.214-6.

122 DK, 44, A 16 (Aet. II, 7, 7); TC, II, ‘Filolao’, 16; cf. Heath, 99.

123 DK, 58 B 37; TC, II, ‘Filolao’, *16b, con lievi modifiche della trad. it..

32

e per questo (i Pitagorici), chiamando il Fuoco ‘Posto di Guardia di Zeus’ [phylaken tou Dios], tendono a

porlo nel Centro (in de Coel., 514, 20).124

Senza attardarsi a rimarcare l’equivalenza di phylake con il phroura incontrato prima nel

Fedone, oltre che naturalmente con la funzione assolta dal (w)ardu-budar/bughdar di

Sumatar/Harran, il problema adesso è stabilire se sia sopravvissuta o meno traccia del motivo

ricorrente in queste testimonianze sul terreno specifico del lessico. E’ improbabile che un tema

dottrinale di tale magnitudo abbia omesso di lasciare il benché minimo segno di sé nella lingua, ma

rinvenirne la presenza non sembra un’operazione proprio a portata di mano, anche e soprattutto

perché la parola-chiave dell’indagine continua a restare avvolta dalla notte più nera. Su ‘Nord’ gli

etimologi non sono riusciti a fare niente di meglio che rinviare allo spagnolo medievale Nort(h)e,125

il che certo non è molto incoraggiante. Forse di più potrebbe esserlo però un sondaggio in

direzione della carta del cielo.

*****

Già Omero indica d’abitudine con Arktos, ‘Orsa’, la costellazione più nota del nostro

emisfero, pur non ignorando il sinonimo Hamaxa, ‘Carro’, del quale – dice il poeta – altri

preferiscono servirsi.126 La fortuna di cui ha sempre goduto l’immagine presso gli scrittori greci e

romani, che l’hanno trasmessa quindi alle altre genti dell’Occidente, è tuttavia in stridente

contrasto con due circostanze. Intanto, solo a prezzo di un notevole sforzo di fantasia un orso

arriva a rispecchiarsi nella figura celeste, dotata di una coda smisuratamente più lunga di quella

che la fiera possiede in realtà. In secondo luogo, nessuno ha mai fornito una spiegazione

soddisfacente circa l’ effettiva origine dell’idea, a meno di voler prendere sul serio il suggerimento

di Aristotele, a detta del quale l’associazione mentale tra il Settentrione e il plantigrado

nascerebbe dall’ attitudine della creatura di muoversi a proprio agio nelle gelide lande boreali:

essa è infatti contraddetta dal fatto che, nonostante l’animale giochi un ruolo di spicco nella loro

mitologia e nel folklore, le popolazioni teutoniche non ne hanno mai utilizzato l’icona in relazione

al meraviglioso raggruppamento circumpolare, o comunque non prima di entrare in contatto con

la civiltà classica e di assorbire i valori.127

124

Cf. in de Coelo, 511, 26 (phylaken Dios onomazousin); 513, 29 (Dios phylaken onomazousi); ed inoltre Proclo, in Tim. III, 105, 29 – 106, trad. Festugière (Paris 1967), 142-3 con n.2. 125

Vd. p. es. il Dizionario Etimologico della Lingua Italiana di M. Vortellazzo - P. Zolli, Bologna 1983, vol.3, s.v. Nulla di essenziale aggiunge la vasta ricognizione etnografica di Brown, 121-61, né la ricerca, limitata all’area linguistica tedesca, di Velten, 443-9. 126

“La (Grande) Orsa, da altri chiamata ‘il Carro’, che girando intorno … è la sola a non bagnarsi nelle acque del profondo Oceano” (Od., V, 275); la figura ritorna nel XVIII libro dell’Iliade, 487, fra le altre impresse sullo scudo di Achille, ma accompagnata anche qui da una nota di estraneità: “Là fu scolpita la ruotante Orsa, che essi chiamano il ‘Carro’ ”. E’ possibile che Omero stia pensando ai popoli siro-mesopotamici (cf. Semerano, II, i, s.v. ‘arktos’, 37), mentre è da escludere che egli si riferisca qui all’Orsa Minore, introdotta fra le costellazioni in Grecia soltanto nel 600 a.C. circa da Talete, sull’esempio dei marinai fenici: DK, 11 A 1 (= Diog. Laer., I, 23); DK, 11 A 3a (= Callim., Iamb., fr.94); cf. Allen, 448; Ideler, 4 n.1. ll nome di Harran (da charranu, ‘via, viaggio, carovana’: CAD, vol.6 [1956], s.v., 106 ss.), documentato fin dai tempi di Ebla (cha-ra-an[ki]: Pettinato, 52-4), ha certo molto a che fare con i carri; in qual misura ciò valga pure per il Carro celeste lascio al lettore decidere. 127

Allen, 419-20.

33

A guardar bene, il nome che gli Elleni davano al freddo vento del Nord, Borea, non cessa

ancora oggi di risuonare nella forma inglese Bear né in quella tedesca Bar per ‘orso’, ma nella

lingua greca il rapporto verbale – se rapporto c’è mai stato – non era in ogni caso più accessibile ai

comuni mortali fin dai tempi di Omero.128 Occorre perciò volgersi altrove. Nella cultura semitica,

l’Orsa Maggiore – o meglio le quattro stelle del suo corpo centrale – è conosciuta da tutti come la

‘Bara’ (un’altra assonanza!129) ed è dunque in tal modo che ci si aspetterebbe di veder restituito,

per esempio, il corrispondente termine ebraico nella Vulgata. Ma non è così: quando San

Girolamo si imbatte nei due passi del Libro di Giobbe concernenti la costellazione (IX, 9; XXXVIII, 32),

traduce, chissà perché, ‘Arturo’, alimentando senza volerlo la credenza popolare che la Scrittura

menzioni l’astro più brillante della limitrofa costellazione di Boote, diffusasi nei paesi anglosassoni

a partire dalla Bibbia stampata nel lontano 1611 in Inghilterra con il placet di re Giacomo e

modellata, ovviamente, sull’autorevole versione in Latino del santo.130

Ho commentato la traduzione di Girolamo con un ‘chissà perché’, sebbene non sia alla fin

dei conti una scelta felice. Arturo è la stella alpha di Boote, la più luminosa del gruppo come si

diceva, ma la confusione fra la lucida e la costellazione nel suo intero è frequente, come pure

quella fra essa e l’ Orsa (Maggiore e Minore), che sarebbe ingeneroso ascrivere alla miopia o alla

superficialità del santo. Così nell’ Odissea Boote, il ‘Bovaro’ o il ‘Guardiano dei Buoi’ (evocati,

questi ultimi, dalla formula latina septem triones per l’Orsa) denota unicamente Arturo, mentre

nelle Opere e i Giorni (VIII sec. a.C.), dove si affaccia per la prima volta nella storia Arktouros, è

impossibile decidere se Esiodo intenda riferirsi al singolo astro oppure alla più vasta formazione

siderale.131 A osservare le cose un po’ più da vicino, si capisce senza grande impegno che alla base

di tutto c’è un’ambiguità di fondo, un vizio strutturale, e che proprio a questa debolezza sono

dovute le fluttuazioni semantiche riscontrabili presso tanti poeti e uomini di scienza dei secoli

successivi.

Arturo è infatti, alla lettera, ‘Colui che guarda l’Orsa’ (Arkt-ouros), ma il composto

Arktophylax, con cui sempre i Greci chiamavano in alternativa Boote, non significa in ultima analisi

nulla di diverso, ossia il ‘Custode’ o ‘Guardiano’ (phylax) di Arktos. Per la verità nei Phainomena - il

poema forse più celebre dell’Antichità insieme all’Astronomicon di Manilio in materia di cose

celesti - Arato distingue con giudizio le due espressioni;132 non si può più dire lo stesso tuttavia con

128

“We find ourselves confronted with … the relic of some primeval association of ideas, long since extinct. Extinct even in Omer’s time” (Agnes M. Clerke, cit. in Allen, 425). 129

Parlo della forma occidentale della parola (ingl. ‘Bier’, ted. ‘Bahre’ ecc.); in Arabo, l’appellativo più comune dell’Orsa Maggiore e Minore (di cui esiste comunque il corrispondente letterale: al-dubb al-akbar, al-dubb al-asghar) è, rispettivamente, banat na’ash al-kubra e banat na’ash al-sughra (‘figlie della grande bara’ e ‘f. della piccola b.’, ossia ‘le addolorate, le prefiche’), ma nella pratica ci si serve soltanto di na’ash: Allen 432-3; Ideler, 19 e 21-2 n.2; 3 e 11-2 n.3. 130

Allen, 422. 131

Allen, 92-3; Ideler, 4 ss. n.1; 47-9 n.2. 132

“Dietro l’Orsa [Helike], come se la spingesse davanti a lui, marcia il Guardiano dell’Orsa [Arktophylax], che gli uomini chiamano anche il Bovaro [Boote], perché sembra toccare con il suo pungolo l’Orsa [Arktos]. Brilla tutt’intero di viva luce, e sotto la sua cintura ruota la stella Arturo stessa, più brillante di tutte” (Phain., 91); cf. Manilio (Astron., 313), di cui Cicerone si rivela lettore attento: “Arctophylax, vulgo qui dicitur esse Bootes”(de Nat. deor., II, 109). E’ il caso di ricordare che boukolos, altra forma per ‘bovaro’, designa un grado intermedio nei misteri di Dioniso (benché non del tutto spiegabile - come si pretende di solito - con l’epifania del dio in veste di toro, che è cosa diversa da un bue!): il termine è impiegato con questo valore negli Inni Orfici (ed. Ricciardelli, nr.1, lin.10; nr.31, lin.7; cf. XXVI n.1 e

34

gli imitatori che ne seguono le orme, a cui capita di pescare a caso ora l’una ora l’altra trattandole

come entità a tutti gli effetti interscambiabili. Da parte sua Isidoro da Siviglia, nell’ opera

enciclopedica da lui redatta intorno all’anno 630 della nostra èra, registra Boote sotto il nome di

Arcturus Minor, laddove riserva, assai meno prevedibilmente, quello di Arcturus Major alla

Grande Orsa. Nelle Tavole Alfonsine poi, redatte in Spagna alla metà del XIII secolo, il ‘Custode di

Arktos’ si trasforma addirittura nel ‘Custode di Arturo’ (Arcturi Custos) senza che nessuno si

disturbi nemmeno a denunciare il clamoroso controsenso.133

Niente impedisce di attribuire simili incertezze o - diciamola tutta - macroscopici errori, ai

capricci della sorte. Ma l’impressione, come già accennato, è che sia venuto a generarsi col tempo

una sorta di cortocircuito, anche se preferisco evitare di pronunciarmi sui fattori scatenanti

dell’ingorgo. In compenso, almeno una cosa mi sento di affermarla con sicurezza. Gli antichi Inglesi

localizzavano la casa dell’uomo al comando dei cavalieri della Tavola Rotonda proprio quassù,

nell’Orsa, e da ciò nasce il titolo di Arthur’s Chariot (‘Carro di Artù’) con il quale in Gran Bretagna è

conosciuto il Gran Carro, complementare all’altro non meno popolare di Charles’s Wain (‘Carro di

Carlo’). Quanto comunica in proposito il vecchio Speculum Hartwellianum dell’ammiraglio Smyth

(London 1860) appare per certi versi stimolante, ma è pur sempre solo una mezza verità:

Re Artù, il rinomato eroe del Mabinogion, incarna la Grande Orsa; come implica il suo nome – Arth, orso, e

Uthyr, meraviglioso – in lingua gallese; e la costellazione, che descrive chiaramente un cerchio nelle regioni

del Polo Nord celeste, può verosimilmente essere stata la vera origine della famosa Tavola Rotonda del

Figlio di Pendragon, la prima istituzione dell’ordine militare della cavalleria.134

L’etimologia suggerita dall’autore britannico non è affatto una novità: a prescindere dai

giochi di parole col Celtico, l’equazione Artù-Orso ha sempre trovato una parvenza di fondamento,

ben prima di queste tarde rielaborazioni, nel presunto legame linguistico tra il nome del sovrano e

il greco Arktos, tanto da diventare canonica. Ormai dovremmo aver compreso però che le cose

stanno altrimenti e che quella del plantigrado è una maschera appiccicata alla bell’ e meglio sul re

e destinata a travisarne così la natura. La poesia d’amore della Provenza e dello Stil Novo parla di

senhal, quando una figura ne sostituisce un’altra affinché il segno pervenga giusto a chi sia in

grado di recepirlo; ma nel nostro caso è difficile dire quanto di volontario ci sia stato nel processo

di trasmutazione di Artù in Orso, e fino a qual punto quest’ultimo rappresenti un termine in codice

237-8, nota); nell’iscrizione di Torre Nova (= Scarpi, ‘Dionisismo’ B 6, col. A, lin.27 [archiboukoloi], lin.32 [boukoloi hieroi], col. B, lin.29 [boukoloi]; cf. Burkert [1987], 34-5 e n.21); nel Papiro di Gurob, (Scarpi, ‘Orfismo’ C 8, lin.25; OF

2,

578, col. I lin.25; Tortorelli Ghidini [2006], 260-1, col. I lin.26; cf. ead. [2000], 260); nell’iscrizione di Perinthos (archiboukolos: Kaibel, Epigr. Gr. Suppl. 1036 a; cf. Bernabé [2002], 412 e 419 [T 14]); altri esempi in OF, T 209, OF

2

600; Liddell-Scott’s Lexicon, s.v., 324. Il più famoso degli avatar di Pitagora ricordati in Diogene Laerzio VIII, 4 (da Eraclide Pontico), Euforbo (‘colui che nutre bene [i suoi animali]’, ‘buon pastore/mandriano”, piuttosto di ‘colui che mangia il cibo giusto’ suggerito da M. Hendry, “Pythagoras previous parents: why Euphorbus?”, Mnemosyne 48 [1995], 210 [‘Euphorbos’ = bene pascens consente in teoria entrambe le letture, Thesaurus Graecae Linguae, vol. IV, s.v.]), è da inserire verosimilmente nel medesimo contesto; lo stesso dicasi per il dio egizio Anubis, che nei Papiri Magici è ‘the good oxherd’ (PDM XIV, 35, 400, 422, transl. J.H. Johnson): cf. F. Ll. Griffith – H. Thomson, The Demotic Magical Papyrus of London and Leiden in Translation, I, Chicago-London 1904 (= New York 1974), col. I, lin.17, nota pp. 23-4. 133

Allen, 93-4; Ideler, 47-9 n.2. 134

Cit. in Allen, 425-6.

35

decrittabile esclusivamente dai diretti interessati, oppure no. Dal canto mio, so che la sola veste

che riesco a concepire indosso ad un re-sacerdote-guerriero è l’abito, austero, dell’individuo

prescelto per montare il Servizio di Guardia del Divino, e mi auguro perciò che molti ravvisino

ormai insieme a me in ‘Artù’ un calco dall’accadico (w)ardu, l’unica chiave appropriata per

rispondere pienamente al contesto.

Per amore di completezza, vorrei aggiungere ancora un pezzo al discorso, chiudendolo con

un’autentica ‘chicca’. Secondo gli Arabi, gli astri che disegnano i piedi dell’Orsa sarebbero le

impronte – qualcuno l’avrà già indovinato - delle Gazzelle! La leggenda narra, in estrema sintesi,

così: poiché il leone batteva la coda lungo il suolo (la costellazione del Leone corre non lontano

dalle zampe dell’Orsa Maggiore), esse sono fuggite via spiccando non uno, ma ben tre balzi. Di qui

il nome di qafzat al-zhiba (‘Salto delle Gazzelle’) con cui, in ordine di coppia (ni e xi, lambda e mi,

iota e kappa), le sei piccole stelle sono state battezzate in Medio Oriente. E non basta. Il

medesimo orizzonte giunge ad includere pure le stelline corrispondenti ai sopraccigli, agli occhi,

all’orecchio e al muso dell’Orsa nella Cosmografia di Qazwini (XIII sec.), dove sono denominate

semplicemente al-zhiba, al pari dell’omonimo gruppuscolo posto al di sotto del ‘terzo salto’

(scorporabile poi a sua volta in zhiba e awlad al-zhiba, ‘Cuccioli delle Gazzelle’).135

*****

Il rapporto di Orfeo con il Nord sotto il particolare profilo della mantica è marcato una volta

per tutte dall’assistenza che Apollo - nume per eccellenza degli oracoli, nonché frequentatore a

scadenze fisse dell’immacolato paese degli Iperborei - presta non occasionalmente all’eroe: una

pittura vascolare del VI secolo a.C., spesso riprodotta, ritrae per esempio il dio mentre distende il

braccio destro al disopra del capo di Orfeo in segno di benevola protezione.136 Potrei addurre

diverse testimonianze supplementari, ma mi riprometto di illustrare meglio questo punto

nell’ambito della sezione sulla Testa Parlante consacrata nello specifico al musico di Tracia.

Le laboriose cerimonie grazie alle quali i Sabei di Harran si propiziavano il favore dei sette

pianeti ne prevedeva anche una per l’Orsa Maggiore. Lo scopo della liturgia, la formula della

preghiera, gli ingredienti dell’incenso da accendere in onore della costellazione sono descritti

minuziosamente dal trattato arabo-medievale di arti magiche Ghayat al-Hakim (‘Lo Scopo del

Saggio’),137 meglio noto in Europa con il titolo della versione latina (in compendio) attraverso cui

l’opera cominciò a circolare - con le dovute cautele, beninteso, trattandosi di un libro ‘diabolico’ -

dal Rinascimento in avanti: Picatrix!138 Il sortilegio si prefigge stavolta di arrecare il massimo danno

135

Allen, 442-4; Ideler, 20 e 26 n.7. 136

LIMC, vol.2 (1984), s.v. ‘Apollon’: ii, 261 tav.872; i, 290, per la descrizione del reperto (Olga Palagia). Faraone, 76, tende a identificare piuttosto il personaggio con “qualche sacerdote o profeta di Apollo”, confermando comunque il contesto apollineo della scena. 137

Ritter-Plessner, 226-7; l’unica traduzione esistente in Italiano del capitolo di Ghaya relativo al cerimoniale astrale dei Sabei è quella da me pubblicata nel 2005 con il titolo Preghiere Sabee (vd. la notizia su questo stesso sito), a cui mi permetto perciò di rinviare. Invocazioni all’Orsa sono ricorrenti nei Papiri Magici: PGM, IV, 1275-1322, 1323-30, 1331-89; VII, 686-702; XII, 190-2 ecc. 138

Pingree (1986); per una trad. it. del manuale, D. Arecco – I. Li Vigni – S. Zuffi, Picatrix: Ghayat al-Hakim, ‘Il Fine del Saggio’ dello Pseudo Maslama al-Magriti, Milano 1999. Ai fini dell’impianto teoretico del Picatrix Latinus, Perrone Compagni, 237-337, resta indispensabile; per le preghiere ai pianeti, vd. invece Pingree (1992), 105-17. L’ accusa di

36

possibile ad un eventuale nemico, ed è un fattore da non passare sotto silenzio visto che bisognerà

tornarci su al più presto. Più urgente ancora è però al momento un’altra domanda: per quale

motivo la sola eccezione nella lunga serie di preghiere e di atti rituali di omaggio nei confronti dei

Signori del cosmo (il manuale arriva a contarne fino a quattro per ciascuna delle divinità

planetarie) è costituita proprio dall’Orsa? In che cosa risiede mai l’ unicità della figura astrale,

tanto da conferirle uno status di pari dignità con Saturno, Giove, Marte, il Sole ecc. agli occhi degli

Harraniani?

Non c’è qui lo spazio per una disamina delle arcane convinzioni professate dai Sabei di

Harran, una complessa forma di sincretismo dove accanto a persone divine ed articoli di fede

appartenenti al sostrato religioso del Vicino Oriente Antico trovava posto una raffinata teologia di

stampo ermetico e neoplatonico. Una delle fonti forse più preziose sull’argomento giunta fino a

noi è il filosofo al-Sarakhsi, messo a morte nell’899 secondo una leggenda metropolitana dal califfo

al-Muhtadid per aver tentato di convincerlo a rinnegare l’Islam. Comunque sia, l’attendibilità del

personaggio gli proviene dall’ esser stato a scuola di al-Kindi, ossia dell’autore di quella vera e

propria summa nel campo della ‘scienza’ degli influssi astrali che è il De Radiis:139 ebbene, per

quanto concerne in particolare la qibla (il settore dello spazio verso cui orientare la preghiera, che

per i musulmani è come si sa La Mecca) in adozione presso gli Harraniani, Sarakhsi riferisce,

citando un passaggio autografo del maestro:

Essi hanno adottato una precisa direzione nella preghiera, l’orientamento verso il Polo Nord (celeste) … Lo

scopo di queste pratiche era la ricerca della sapienza.140

Si deve accettare con fiducia la notizia, intanto perché concorda con ciò che trasmettono

parecchi altri osservatori, ma soprattutto tenendo conto del ruolo che, a Harran, giocavano la

devozione per Shamal e la celebrazione periodica dei suoi misteri. Shamal in Arabo indica di

norma il lato sinistro, il Settentrione,141 ed è infatti proprio con ‘il Nord’ che il compianto Bayard

Dodge aveva alla fine deciso di rendere il nome del dio nella sua traduzione del Fihrist di ibn al-

Nadim apparsa a New York nel 1970.142 Questa tremenda forza della natura, occorre anticiparlo

subito, è un unicum del pantheon harraniano e ciò pone naturalmente dei problemi; al tempo

stesso, però, alcuni elementi si delineano con un accettabile grado di chiarezza.

Shamal è ‘il dio più grande’, ‘il dio più forte’: così viene dipinto a più riprese nel calendario

sacro in vigore a Harran secondo Nadim, o per dir meglio secondo il suo canale d’informazioni Abu

essere ‘opera del diavolo’ è scontata per un libro sospetto di negromanzia: Rabelais: “Il reverendo padre in diavoleria, Picatrix, rettore della facoltà diabologica, ci diceva che per loro natura i diavoli ecc.” (II, 23, trad. it. Roma 1925); Prosper Marchand, nel suo Dictionnaire Historique (1758-9), stempera appena un po’ i toni: “Picatrix: auteur d’un Recueil de Superstitions ridicules et criminelles, que les uns regardent simplement comme un Traité de Magie naturelle et les autres comme un ouvrage de Magie proprement dite” (cit. in Perrone Compagni, 237). 139

D’Alverny-Hudry, 139-260. 140

Rosenthal (1943), 43 e nn.11-13: la testimonianza di al-Sarakhsi è trasmessa dal Fihrist di ibn al-Nadim, transl. Dodge (1970), II, 746 (con lievi differenze da Rosenthal). 141

L’assimilazione della sinistra (di un individuo orientato virtualmente verso il sorgere del sole) con il Nord è molto comune: Brown, 121 ss.; Velten, 446. 142

Dodge (1970), II, 755-65 (ed inoltre Glossary, s.v.); id. (1967), 74-5.

37

Sayd Wahb ibn Ibrahim.143 La circostanza tuttavia che la divinità sia pure il ‘capo dei jinn’ e ‘dei

demoni’, dei quali appare regolarmente in compagnia, arricchisce la sua personalità di sfumature

minacciose e sinistre.144 Gli atti di culto rivolti al ‘Nord’ e alla galoppante masnada di esseri

infernali al suo seguito avevano una scansione quasi mensile (li si incontra in otto mesi su dodici,

talora due volte nello stesso mese) e si presentano sempre nella forma di ‘misteri’ o di strane

‘pratiche misteriose’, cosa che ci riporta subito alla memoria la ‘Casa dei Bughdariyyin’ e le

esperienze consumate in segreto al suo interno;145 malauguratamente, il dio sotto la cui ègida si

svolgevano queste cerimonie, dove “nessuna donna, né schiavo, figlio di schiava o lunatico” era

ammesso,146 rimane in questo caso nell’ombra: il testo si limita a salmodiare “il nostro Signore è il

Vittorioso, il Vincitore” (al-qahir) per concludersi con la sentenza, non meno sibillina, “questo è il

mistero del Sette, l’ Invincibile”, la quale non aggiunge granché di utile ai fini di una più precisa

identificazione.147

Ma Shamal intrattiene pure uno stretto rapporto con la Luna. Il 24 di Kanun II (dicembre-

gennaio) si festeggiava in città il genetliaco del ‘Signore che è la Luna’, e questo era,

simultaneamente, uno dei giorni previsti per le celebrazioni del “Mistero per il Nord”, in occasione

del quale si mandavano in fumo dei ramoscelli di pino (al-dadhi), simbolo assieme alla pigna di

immortalità e di vita eterna.148 Che non si tratti di una pura coincidenza, lo attestano le ricorrenze

del 27 Haziran e di fine settembre, perché questa frazione del mese, corrispondente alla fase di

occultamento o di ‘morte’ del nostro satellite, era in genere consacrata nell’antica religione

mesopotamica (e di conseguenza pure a Harran) al dio lunare Sin:

143

Per una selezione dei passi pertinenti, Green, 191-5. 144

Ibid.; Gunduz, 151, riassume le diverse identificazioni proposte dagli esperti. 145

Supra, 13 e n.47. 146

Fihrist, transl. Dodge (1970), II, 759. Il divieto si riferisce ad un rito raccapricciante (il sacrificio di un neonato) che si sarebbe consumato ogni anno a H. al principio di Ab (luglio-agosto) “per coloro i quali osservano il mistero del Nord”, e ciò lascia chiaramente intendere che le donne erano in generale escluse dalla celebrazione dei misteri; la successiva notizia per cui ai giovani della ‘Casa dei Bughdariyyin’ non doveva avvicinarsi “nessuna donna durante questi sette giorni” (tale la durata del ritiro iniziatico, ibid., 771-2) lo conferma. La cosa non manca di richiamare alla mente il proverbiale misoginismo degli Orfici, su cui vd. però Detienne (1975), 70-9, Burkert (1987), 42-3 e n.73, e soprattutto il lucido intervento di Bremmer, 18-23 (“the exclusion of the women points to ancient men’s associations with their ritual of initiation” [22]). Nelle lamine auree non si fa differenza tra uomini e donne: Graf (1993), 257 s.; Betz (2011), 104 n.11 ( i termini pais, ‘bambino’ o hyios ‘figlio’ [supra, n.47] possono valere per entrambi i sessi). 147

Ibid., 772; sulla formula pressoché identica (“Questo è il mistero dell’Ebdomade”) nelle Pseudoclementine (Hom. XVII, 10, 1 [234 Rehm]), Stroumsa, 76, così commenta: “the Hebdomas remain a cryptic reference to the nature of God”. Per il sette quale “numero che governa l’universo” nelle fonti antiche legate a O., West (1993), 70-1; per l’eptade e gli Orfici di Olbia, Levèque, 83-5. Ma aggiungi comunque Green, 196: “reference to the Seven may be an expression of the persistence of ancient Mesopotamian religion traditionally practiced, of a cult in which the planets endow the initiate with a secret knowledge”. La studiosa ricorda che ‘Il Vincitore’ è in Mesopotamia un epiteto del pianeta Marte, personificato dal dio Nergal, ma la circostanza che esso sia pure uno degli attributi di Mithra, a cui sembrano altresì rimandare alcuni particolari dell’iniziazione (gli animali nominati: cani, corvi e formiche; l’uso sacramentale del vino; il numero sette) lascia trasparire un probabile sincretismo: ibid., 196-204, anche per il rapporto di tutto ciò con il ‘Nord’; per gli elementi a favore di visione dualistica del cosmo a H., infra, 38-9 e nn.153-5. La migliore analisi sui misteri dei Sabei resta il lavoro di Marquet (1966), di cui vd. specialmente la seconda parte (‘Misteri greci o Mitraicismo?’), 77-109, con le osservazioni di de Callatay (2005), 76. La sezione della 52

a Epistola dei Fratelli

della Purezza relativa al tema è riprodotta per intero in de Callatay-Haflants, 126-46. 148

Dodge (1970), II, 763; Green, 197.

38

Il 27 Haziran (maggio-giugno), essi [gli Harraniani] compiono il Mistero per il Nord, per il dio che fa volare le

frecce.

Il 27° e 28° giorno [di Aylul: agosto-settembre] essi hanno misteri, offerte, sacrifici, e bruciano vittime per il

Nord, che è il dio più grande, come pure per i demoni e i jinn che egli ha tenuto sotto controllo e disperso,

dando loro buona fortuna.149

A complicare ulteriormente il quadro c’è poi l’ intreccio tra il Mistero per il Nord (o altre

generiche liturgie per il Nord tout-court) e l’adorazione del Sole, che si verifica anch’esso in vari

giorni dell’anno:

Il 15 di Nisan (marzo-aprile), essi celebrano il Mistero per il Nord con offerte, adorazione del Sole, vittime

sacrificali, fumigazioni, cibo e bevande.

Il 1° di Ayyar (aprile-maggio), essi fanno offerte per il Mistero del Nord, adorano il Sole, annusano le rose,

mangiano e bevono.

Il 9 di Shubat (gennaio-febbraio), essi cominciano un digiuno di sette giorni, il primo dei quali è dedicato al

Sole, il grande signore, il Signore della Benedizione … Durante questo mese, inoltre, essi pregano soltanto il

Nord, i jinn e i demoni.150

Certo Shamal non fa tutt’uno con il Sole, e nemmeno del resto con la Luna. Come valutare

allora tutto questo? René Dussaud, buon conoscitore delle singolari manifestazioni di pietà

prodottesi in seguito all’incontro dell’Islam con i culti pagani preesistenti in Siria e in Alta

Mesopotamia – una provincia dalla storia quanto mai ricca e variegata sotto il profilo religioso,

anche indipendentemente da Harran – annotava a suo tempo un dato che può divenire ora una

concreta ipotesi di lavoro. Nel suo saggio sulla setta radicale dei Nusayriti, lo studioso considera

fra l’altro una minoranza interna dal nome accattivante, gli Shamaliti: per costoro ‘Ali - quarto

successore di Muhammad nonché araldo della chiesa scismatica degli Sciiti - ha sostituito l’antico

Signore dei Cieli Ba’al Shamen, e fin qui ci siamo; ma venire a sapere che il principale oggetto

della loro venerazione, Shamal, altri non è che il sole nella sua corsa notturna ha un impatto

emotivo ben diverso.151 Quando mi capitò di ‘inciampare’ molti anni fa nella notizia, ebbi la

sensazione che ogni sigillo, chiavistello o lucchetto andasse all’improvviso in pezzi e che le porte

all’unisono come per miracolo si spalancassero. Un’ingenuità, non mi vergogno di ammetterlo,

anche perché Dussaud fa derivare la voce Shamal dall’ebraico Samael, lo spaventoso ‘dio del cielo’

principe e ‘capo dei satanassi’, piuttosto che dal ‘Nord’.152 E ciononostante l’idea serbava intatto

tutto il suo fascino ed era difficile togliersela ormai dalla mente: il sole nella sua corsa notturna …

Non ci vuole un genio per capacitarsi del nodo che siamo arrivati a smuovere e della posta

veramente sul tappeto. Il Sole della Notte! La Luna Nera! Mica bazzecole. Parafrasando il motto

149

Dodge (1970), II, 758 e 760; Green, 192. 150

Dodge (1970), II, 757 e 763-4; Green 192-3. Tubach, 129-209 (soprattutto 160-75), ha sostenuto la centralità del Sole nella religione di H., che non basta tuttavia a spiegare i molteplici aspetti del culto del Nord. 151

Dussaud, 82 ss. 152

Ibid., 86-7 e n.3 ; Chwolsohn, II, 220.

39

della saga cinematografica Guerre Stellari, verrebbe da dire ‘il Lato Oscuro della Luce’ e non si

sbaglierebbe di troppo. Una figura retorica serve di solito a donare un tocco di colore alla frase,

ma questi ossimori chiedono viceversa di scordarsi delle astuzie degli imbonitori con le quali

hanno poco o nulla in comune. Non sono qui per questo, bensì per incoraggiarci ad avanzare senza

paura entro la terra evanescente, rarefatta, e terribilmente reale al contempo, che stanno con

impazienza additando.

Il materiale che lascia intravedere una visione dualistica del mondo dietro i riti e le

credenze ancora in vita nella Harran del Medioevo non fa certo difetto: alcuni indizi puntano in

direzione della Persia,153 avvalorando dunque un paradigma ascrivibile in buona sostanza al

Mazdeismo, allo Zoroastrismo (esiste una tradizione consolidata su Zoroastro e H.154) o al parto

spontaneo di quest’ultimo, il Mitraismo; ma anche il paesaggio religioso indigeno della

Mesopotamia permetterebbe di interpretare senza sforzo gli elementi della pietà sabea connessi

allo scontro incessante tra il Bene e il Male o tra la Luce e le Tenebre, nonché alle armate celesti e

demoniache schierate sui rispettivi fronti.155 Meglio perciò non impegolarsi in un dibattito che

rischia di cacciarci in un vicolo cieco.

Un motivo almeno, però, esige un’analisi più circostanziata. Al principio della primavera

cadevano nella capitale del dio-Luna i festeggiamenti per il Nuovo Anno, destinati a chiudersi

ufficialmente con una cerimonia in tutto e per tutto conforme ad una delle più solenni liturgie in

uso un tempo a Babilonia, l’akitu. La gente scortava lungo il fiume il simulacro del beneamato

patrono, trasferito per la circostanza su di una barca, fino a un piccolo santuario al di fuori del

centro abitato, Dayr Kadhi (il ‘chiostro dell’akitu’: abbiamo già preso atto della deformazione

dialettale del termine).156 E qui, ad attenderci, c’è una sorpresa:

Il 20 di Nisan (marzo-aprile), essi sacrificano nove agnelli, sette per le sette divinità (planetarie), uno per il

dio dei jinn, e uno per il Signore delle Ore. Quest’offerta si ripete il 28 del mese.

La tentazione di riservare subito a questa nuova divinità un posto ai vertici dell’assise degli

dèi degli Harraniani - visto che essa può vantare senza dubbio un alto, se non altissimo, lignaggio –

è potente; ma la veste in incognito con la quale il soggetto ha scelto di irrompere sulla scena

costringe purtroppo l’ interprete ad armarsi di ogni cautela prima di procedere alla chiusura del

cerchio.

Riconoscere nel Signore delle Ore il persiano Zurvan sulla scia della lontana proposta di

Franz Cumont non sembra affatto una forzatura, anzi.157 Padre comune del principio del Bene

Ormazd (Ahura Mazda) e del principio del Male Ahriman, il dio del Tempo dominava in origine la

gerarchia divina dell’Iran antico e questo spiega almeno in parte la crescente fortuna che egli

incontrò pure nel mondo greco-romano, dopo che le speculazioni dei filosofi ebbero fissato la sua

153

Lewy (Hildegard), 139-61. 154

Per i riferimenti, Green, 80, 115, 171-2, 198. 155

Green, 195-6. 156

Dodge (1970), II, 757 e n.54, 767 e n.111; id. (1967), 78-9; Green, 156-7. 157

Cumont (1896-9), I, 74 ss.; II, 44; id. (1913), 106-7; 235 figg.26-7 (Zurvan=Kronos/Saturnus=Aion/Saeculum); sulla stessa linea Lewy (Hans), 99-105; per l’ambito harraniano, vd. ancora Green, 198-9: “The most likely identification of the Lord of the Hours is Zurvan … but what form his worship might have taken at H. is not indicated by our texts”.

40

equivalenza con Kronos (Chronos), Saturno, e soprattutto con Aion, l’Eterno, rilanciando così alla

grande il culto di un’entità che fino ad allora era stata poco più di un’idea astratta. Ne è prova

l’abbondante numero di reperti iconografici (statue, pitture, mosaici, rilievi, incisioni) dove il dio

compare in effige: il cosiddetto Aion-Chronos, cioè l’impressionante figura dalla testa di leone, due

paia di ali, il serpente avvoltolato a spire lungo il corpo, ed il contorno talvolta della ruota con i

segni dello zodiaco, è il modello più comunemente rappresentato nei mitrei; ma i due tipi

fondamentali attestati anche in precedenza erano l’adolescente glabro e il vecchio dalla lunga

barba, indice di una concezione del tempo quale giovane sovrano del mondo che coabita volentieri

con quella dell’anziano demiurgo degno di venerazione.158 Un’immagine fra le tante - si potrebbe

credere - se proprio un uomo avanti negli anni, con la testa barbuta e provvista di ali, non facesse

invece capolino su un coccio ritrovato in Apulia giusto frammezzo a Orfeo e Euridice, aiutandoci

così a non smarrire la distruttività ed il legame con gli Inferi e la morte congeniti allo scorrere del

tempo.159

Come insegna l’iscrizione sul basamento della statua eretta nella prima metà del I secolo

a.C. dal console Q(uinto?) Pompeo a Eleusi, dove insieme ai suoi fratelli era stato iniziato ai

misteri, questa Eternità immutabile,

che per la sua natura divina rimane sempre identicamente la stessa,

è al contempo

il mondo unico, tal quale esiste, è esistito e esisterà, che non ha né inizio né mezzo né fine, che non

partecipa al mutamento, che produce la natura divina assolutamente eterna.160

Circa cinquecento anni dopo l’infaticabile platonico allora a capo dell’Accademia, Proclo,

riprende quasi alla lettera la definizione allorché sottolinea come proprio questa fosse la divinità

più eminente per i Caldei e per quanti praticavano sul loro esempio l’arte ieratica della teurgia.161

Ma qui siamo dentro un orientamento di pensiero dove i confini tra le civiltà e le culture si sono

ormai dissolti, mentre le tradizionali barriere fra religione, filosofia, scienza, magia crollavano

anch’esse per sempre. Non altro accade con il Neoplatonismo della stagione del crepuscolo; e non

altro accade con una metafisica della Luce e un’angelologia che i Sabei di Harran amavano far

risalire a Hermes e Agathodaimon, i loro due massimi ‘profeti’.162 E dal momento che non c’è

158

LIMC, vol.1 (1981), s.v. ‘Aion’: i, 410-11; ii, 310-19 tavv. 1-55 (Marcel Le Glay). Per il ruolo di spicco svolto da Chronos/Zurvan nell’impianto teologico dell’Orfismo, supra, n.121. 159

Frammento di vaso a figure rosse del IV sec. a.C. (museo di Carlsruhe): ibid., i, 400 (Catalogo: nr. A1) e 409 (Commentario); ii, 310 tav.1, per la riproduzione del reperto. 160

SIG3 1125, cit. ibid., i, 409, cf. 401. Sulla figura di Aion, largamente sfruttata dall’ermetismo, Festugière IV (1954),

152-99; id. (1971), 254-71; RAC, vol. 1 (1950), s.v. ‘Aion’, 193-204 (H. Sasse). Il breve ma denso articolo di Silvia Lanzi, “Aion, Eros e Hades nei Frammenti Caldaici”, Kervan 3 (genn.2006), 35-49, rende fra l’altro conto della letteratura più recente. 161

In Tim. III, 20, 25; 40, 21; così Lewy (Hans), 101-2 e nn.149-51, non esita a qualificare Aion “chief numen of the Theurgists”, nonché “the Chaldean God par excellence” (158). 162 Per i riferimenti, Green 170 ss.; Gunduz, 157 ss.; van Bladel, 89, 92, 224-5; Fratini-Prato (2002), n.148.

41

nessuno più competente di Henry Corbin per guidarci attraverso un terreno zeppo di insidie e di

sentieri ingannevoli come questo, cedo con piacere la parola a lui:

Zurvan è la Saggezza eterna; Zurvan è il Destino [che] si presenta … come la Luce celeste di Gloria, il ‘Fuoco

vittoriale’ manifestatosi visibilmente come nimbo e fiamma cingente in forma di aureola i principi delle

dinastie sacre anteriori alle nostre cronologie; questa visibilità, essa la mantiene ancora nel nimbo stilizzato

che, dalla figura del Saoshyant mazdeo, la trasferisce in Occidente alle rappresentazioni del Cristo, in

Oriente alle figure dei Budda e dei Bodhisattva; essa è la potenza che costituisce e rende consustanziale

l’essere con un essere di Luce. In questo senso, [essa] significa l’Anima stessa in quanto preesistente al

corpo.

Ora, … questa Luce di Gloria, che è anche il Destino, … fu identificata con la Figura che domina l’orizzonte

della religione ermetica, quella di Agathos daimon, il quale appare simultaneamente come una divinità

dell’ermetismo e come il ‘buon daimon’ personale … vale a dire l’Angelo assistente e tutelare, dono

gratuito ottenuto grazie alla preghiera … Nel Corpus ermetico, Sophia [la Saggezza] è l’ Aion; essa è la madre

dell’Anthropos, ossia del miste rigenerato, avendo dato nascita al suo corpo immortale, athanaton soma;

ma inoltre l’assicurazione di immortalità è legata all’attesa e all’ottenimento dell’ … angelo o partenario

celeste.163

Troppo spesso una lettura frettolosa è stata complice di una prospettiva sul Sabeismo

gravemente distorta; la campagna denigratoria montata cinicamente ad arte dagli avversari ha poi

fatto il resto.164 La superba esegesi del luminare francese consente ora di rendere giustizia a un

fenomeno che solo a prezzo di stravolgerne da cima a fondo il senso può essere incasellato sotto

la targa di ‘culto degli astri’ o, peggio ancora, ridotto a una forma degenere di idolatria.165 Per i

Sabei, le stelle e i pianeti sono infatti le manifestazioni sensibili degli angeli chiamati a dirigerne le

attività e i movimenti, un po’ come succede – ma è un paragone buttato lì tanto per capirci – con

il rapporto dell’anima con il corpo. Il compito non è quindi prostrarsi al cospetto delle figure

scintillanti perennemente in cammino lungo la cupola del cielo, poiché queste sono e restano

comunque dei corpi, sia pur di una corporeità sottile, eterea, non terrestre. E’ al contrario,

l’applicazione rigorosa del precetto di Delfi, che non a caso riaffiora a distanza di secoli nel motto

scolpito dagli Harraniani sulla porta del loro ‘luogo di riunione’: “Colui che conosce se stesso è

divinizzato” (man ‘arafa dhatahu ta’allaha).166

163 Corbin (1982), 35-6. 164

Hjarpe, 101 ss. 165

Fratini (2014), 285-6; 288 e n.49. 166 Così intende il motto Corbin (1983), 52 n.7, in accordo alla lettura spiritualistico-ermetica del ‘Conosci te stesso’

(Betz [1970], 465-84), che io stesso ho ripreso perciò nel mio lavoro del 2014; altrettanto fa Tardieu, 14 ss., sebbene riconoscere nella frase Alcibiade I 133c, sia decisamente forzato: vd. le critiche di Genequand, 109-28, van Bladel, 70-9, Hudry, 75 n.61 e - circa l’effettiva ricezione di Platone a H. e nel mondo islamico medievale - De Smet (2010), 73-86; id. (2011), 87-133; de Callatay (2010), 55-62. L’interpretazione alternativa “Colui che conosce la sua (di Dio) essenza, (anche) lo adora”, adottata in precedenza da Chwolsohn II, 372-3, e quindi da Barbier de Meynard nella sua ed. delle Prairies d’Or di al-Mas’udi, IV, 64-5, ha il pregio di porre l’accento sull’ intreccio ‘conoscenza (di Dio)’ - ‘pietà’, uno dei tratti più peculiari della cultura (tardo-)antica: Reitzenstein, 166; Scott, 255 (“[la sentenza] may be taken to mean that true worship consists in learning to know God, or that gnosis brings with it eusebeia”); Fratini-Prato (1997), 53-4 n.173; eid. (2002), 15-6.

42

Vorrei tranquillizzare subito quanti, in nome di un sano pragmatismo, siano scettici o poco

smaniosi di assistere alla propria apoteosi. La promessa di gloria annunciata dalla massima è

senz’altro da prendere sul serio, e tuttavia sarebbe un errore cercare di comprenderla affidandosi

al filtro, deformante a priori, dei luoghi comuni. ‘Divenire dio’ (‘indiarsi’, direbbe Dante) e

ottenere l’immortalità sono evidentemente la stessa cosa, ma ciò non comporta affatto proiettare

l’evento in un futuro più o meno lontano o addirittura in un’esistenza di là da venire. Certo, è di

una vita ‘altra’, di una vita ‘nuova’ che si sta parlando, ma la novità e l’altrove non se ne stanno

rintanati in un nebuloso ‘chissà dove’ o ‘chissà quando’, perché è qui e ora che essi insistono.

Nessuna esitazione al riguardo. L’ esperienza cruciale transita di necessità attraverso l’incontro con

il ‘Buon Demone’ personale, con l’Angelo chiamato a dare assistenza e protezione, che non ha mai

cessato né cesserà mai di starti accanto.167

Uno dei vezzi degli studenti di liceo è fare sfoggio della particolare modalità con la quale il

Greco antico rende il concetto di ‘sapere, conoscere’, per mezzo dell’aoristo del verbo eidein,

‘vedere’ (anche il termine ‘idea’ deriva da qui). Ma è buffo e fa comunque un certo effetto

constatare che il severo monito ‘gnothi seauton’ dell’oracolo delfico, questa conoscenza di sé, che

è poi la capacità di guardare a viso aperto il versante ignoto o estraneo di se stessi, si risolve

davvero alla fin dei conti in un ‘vedere’. Perché ci sia incontro, c’è bisogno infatti che

l’intermediario celeste si renda visibile, manifesto davanti a te, che la creatura spirituale di cui

l’anima invoca struggentemente il soccorso discenda fino a lei e arrivi a rivelarsi in forma di

persona. Occorre beninteso un lungo e penoso apprendistato per sviluppare la facoltà di percepire

una presenza che – insieme a Gilles Deleuze e al suo concetto di Virtuale – potrebbe essere

abbracciata, ugualmente, con la brillante formula “reale senza essere attuale, ideale senza essere

astratta”.168 Prima di intraprendere il rito diretto a una delle sette divinità planetarie (che le si

chiamino dèi, angeli, intelligenze angeliche o spiriti non fa molta differenza) o all’Orsa, “rendi la

tua anima limpida e chiara” rammemora giustamente Ghaya/Picatrix al postulante,169 perché il

discrimine fra l’apprendista stregone di turno e il teurgo conscio della santità delle sue azioni

passa proprio di lì. Non è uno scherzo levigare il proprio essere tanto da espellerne ogni macchia

onde trasmutarlo in uno specchio, nel Tempio atto ad accogliere una sostanza fatta di luce

purissima e sfolgorante, ma non esistono scorciatoie per l’ uomo mosso dal desiderio sincero di

toccare con mano la sua più vera natura:

Solo da poco ho avuto la fortuna di rinvenire all’interno dell’antologia di Uzdavinys (2004), 41 nr.82, una massima di Pitagora perfettamente speculare - espressa cioè in forma negativa e in ordine inverso - alla sentenza registrata da al-Mas’udi: “Colui che non adora Dio non lo conosce”. Il fatto certifica l’esistenza di una solida tradizione pitagorica a H. (per P. in Siria, Giamblico, V.P., 3, 14, con le osservazioni di P.T. Struck, “Speech acts and the stakes of Hellenism in Late Antiquity”, in Mirechi-Meyer 2001, 395 ss.), anche se i primi fra i musulmani a raccoglierla e farla propria sono i Fratelli della Purezza, per i quali lo stesso P. (“uomo saggio, monoteista”) sarebbe “originario di Harran [!]”: Rasa’il, III, 300, dell’ ed. Beirut 1957, cit. da S. H. Nasr, An Introduction to Islamic Cosmological Doctrines, Cambridge Mass. 1964, 38 n.57; cf. de Callatay (2005), 75. Marquet, 61: “il est donc vraisemblable que les Ikhwan tenaient des Harraniens de nombreuses ‘traditions’ orales (akhbar) relatives à la pensée grecque, mais aussi que les Sabéens ont delibérément fourni aux premiers Ikhwan la traduction des ouvrages grecs qu’ils détenaient” (l’autore discute i passaggi ‘pitagorici’ delle Epistole in Les Frères de la pureté pythagoriciens de l’Islam, Paris-Milano 2006); vd. comunque anche la recente edizione dell’Epistola 52a (sulla Magia) di de Callatay-Halflants, 116 ss. 167

Per l’articolazione del tema, Corbin (1983), 15 ss. (‘Rituale sabeo e angelologia’). 168

G. Deleuze, Marcel Proust e i Segni, trad it. Torino 1973, 58. 169

Ritter-Plessner, 206; Fratini (2005), 10.

43

Troverai a sinistra delle case di Ade una fonte, /e accanto ad essa eretto un bianco cipresso:/a questa fonte

non avvicinarti neppure!/ Ma ne troverai un’altra, la fredda acqua che scorre/ dal lago di Mnemosyne: vi

stanno innanzi i custodi [phylakes]./ Di’ loro: “Sono figlio della Terra e del Cielo stellato; /celeste è la mia

stirpe, e ciò sapete anche voi./ Di sete sono arso e vengo meno: ma datemi presto/ la fredda acqua che

scorre dal lago di Mnemosyne”.170

Ecco quanto recita il testo della minuscola foglia d’ oro rinvenuta nella necropoli di Petelia,

poco lontano da Crotone, e risalente alla metà del IV sec. a.C.: non diversamente dalle altre

laminette orfiche già ricordate, questa sorta di viatico comprensivo di pass-word (“Sono figlio

ecc.”), aveva lo scopo di equipaggiare il defunto con le istruzioni indispensabili nel suo percorso

per l’aldilà, consentendogli di superare con successo la ferrea soglia di sbarramento dei phylakes,

dei ‘custodi’ o ‘guardiani’ che dir si voglia.171 Ed è precisamente in ciò che si annida il senso ultimo

del cerimoniale agli astri dei Sabei, dove il potere sulle forze occulte della natura per assoggettarle

ai propri voleri va retrocesso senza tentennamenti sullo sfondo o perfino dietro le quinte, a

dispetto dell’enorme attrazione che un simile aspetto ha sempre esercitato a livello di massa. In

gioco, infatti, c’è l’esatto opposto: non una dissennata volontà di potenza, quanto piuttosto la

disponibilità a concepire la vita come un servizio. L’enunciato “celeste è la mia stirpe” di primo

acchito afferma soltanto l’indipendenza dello spirito dalla materia, cosa che a qualcuno suonerà

forse come un noioso ritornello; in realtà esso ha di mira invece il piccolo ma decisivo passo da

compiere per incamminarsi sulle orme dei tanti compagni di strada di Orfeo e dei nostri Sabei di

cui Corbin, con pochi sobri gesti, ricompatta autorevolmente le fila. Una fulgida catena aurea172

che in Oriente annovera ad esempio i nomi dei Fratelli della Purezza, di Sohravardi e i cosiddetti

Platonici di Persia, dei Nusayriti, dei Sufi, degli Ismaeliti; mentre in Europa comprende mistici quali

Meister Eckart, Fedeli d’Amore come Dante, i Templari, i Platonici di Cambridge, i Cabalisti

cristiani, oltre naturalmente agli augusti esponenti della Prisca Theologia e della Pia Philosophia

care a Ficino. A uomini di tal calibro è stato affidato il compito di dar voce nei secoli e di

mantenere senza cedimenti in vita il Messaggio.

*****

170

Seguo con lievi modifiche la trad. di Pugliese Carratelli (1993), I A2 (= Scarpi, ‘Orfismo’, G2; Colli, 4 [A 63]; Tortorelli Ghidini [2006], nr. 2, 67; Benabé - Jiménez San Cristòbal [2008], L 3, 10-1; Graf-Johnston, nr.2, 28-9; Edmonds, 22-3). Il ruolo fondante di Mnemosyne nell’ambito della cultura greca, non solo arcaica, è al centro del memorabile (è il caso di dirlo!) saggio di Vernant “Aspetti mitici della memoria”, 93-143 (per O., 104 ss.); aggiungi M. Simondon, La Mémoire et l’Oubli dans la pensée grecque jusqu’à la fin du V

e siècle av. J.C., Paris 1982, utile anche per la bibliog.; Pugliese

Carratelli, (1990), 379-89. 171

Tortorelli Ghidini (2006), 62-111; Bernabé – Jiménez San Cristòbal (2008), 9-167; Graf-Johnston, 26-72; Edmonds, 15-50. Per un’analisi delle lamine, a partire dalle due scoperte a Pelinna, nel quadro dell’escatologia orfico-dionisiaca, Graf (1991), 87-102; id. (1993), 239-58; (Graf-)Johnston, 141-94. 172

L’ immagine della ‘catena aurea’ è omerica (Il. VIII, 19), ma a partire dal V sec. a.C. entra nel repertorio del discorso filosofico: vd. p. es. Eur., Or. 982-4; Pl., Tht. 153c-d, ma specialmente OF

2, 237 IV, VII-VIII, X-XI (OF, F 166 [1-3]), per le

ricorrenze nei Neoplatonici. L’espressione ha dato il titolo alla monografia di John Dillon, The Golden Chain, London 1990, nonché alla raccolta di Uzdavinys cit. supra, n.166.

44

La partecipazione di Orfeo nella temeraria impresa per la conquista del Vello d’Oro è

attestata circa 570 anni prima della nostra èra, grazie a una metopa appartenente al tesoro dei

Sicioni di Delfi che lo ritrae in piedi, la lira fra le mani, sulla prora della nave Argo:173 l’antichità del

reperto dimostra che le vesti di Argonauta non hanno nulla di casuale né di marginale e marcano

anzi un tratto della personalità dell’eroe degno della massima attenzione. Del resto, a fugare ogni

incertezza in proposito basterebbe già il fatto che egli sia il primo a comparire nel lungo elenco

degli ardimentosi membri della missione stilato da Apollonio Rodio nelle Argonautiche (III sec.

d.C.),174 il testo più bello e anche più completo mai scritto intorno allo straordinario viaggio ai

confini del mondo compiuto da Giasone e dai suoi.

Questa posizione di preminenza accordata all’inizio al personaggio trova però poi scarso

riscontro nel poema, visto che la funzione principale assolta da Orfeo nel prosieguo degli eventi

sembra non andare oltre il miracoloso potere incantatorio o taumaturgico della sua musica. E’

quanto accade al momento del varo della nave, sulla spiaggia di Iolco in Tessaglia, dove la contesa

scoppiata all’improvviso fra due componenti della spedizione per futili motivi viene da lui sedata

con un canto teso a celebrare la nascita dell’universo dalla materia informe ad opera giustappunto

della Discordia;175 ed è quanto avviene, nel quarto libro, durante il passaggio dell’imbarcazione

presso l’isola delle Sirene, quando la malìa mortifera di queste ultime è neutralizzata con

prontezza dal bardo pure stavolta per mezzo della cetra, il cui suono ritmato e assordante riesce a

coprire la voce delle fanciulle-uccello e a mettere così riparo alla minaccia.176 E’ vero che negli

episodi di carattere più propriamente religioso – ad esempio la sosta a Samotracia per prender

parte ai ‘misteri segreti’ dei Cabiri o l’approdo in Frigia per rendere omaggio alla Grande Madre

Cibele - Orfeo è sempre attivo e presente;177 ma è come se Apollonio ci tenga a non calcare la

mano su questo lato della sua identità, e preferisca non allontanarsi troppo dal modello consueto

del cantore tracio che era d’altronde quello più familiare al suo pubblico.

Per apprezzare in pieno il ruolo di guida spirituale esercitato da Orfeo in seno

all’eterogeneo consesso degli Argonauti è giocoforza perciò guardare ad altro. Le Argonautiche

Orfiche sono un poema composto quasi due secoli dopo il capolavoro del bibliotecario di

Alessandria, con il quale non hanno tuttavia l’ambizione di competere sul piano delle belles lettres.

L’opera si basa a grandi linee sul canovaccio di Apollonio, ma l’impressione è che le avventure di

Giasone e soci siano tutto sommato solo un pretesto di cui l’autore si serve per raccontare

qualcosa di affatto differente dalle storie con le quali i mitografi hanno abitualmente a che fare.178

173 LIMC, vol.2 (1984), s.v. ‘Argonautai’: i, 593 (Catalogo), 598 (Commentario); 2, ii, 430 tav.2, per la riproduzione del

reperto (Rolf Blatter). Ulteriori riferimenti in OF, T 78-80; OF2, 865; Graf-Johnston, 240 e nn.3-8.

174 I, 23-34. Le eventuali componenti orfiche delle Argonautiche sono prese in esame da Gabriella Iacobacci, 82-8, che

tuttavia da parte sua finisce per escluderle. 175 I, 494-515. La funzione strategica che Neikos/Discordia occupa nel sistema di Empedocle non basta secondo

Iacobacci, 88-90, a fare del filosofo-mago di Agrigento l’ispiratore della cosmogonia tratteggiata qui da Apollonio. 176 IV, 902-11; cf. Graf (1986), 95-7. Si ricorderà che le sirene della mitologia classica erano raffigurate in forma di

creature alate, non delle fanciulle a coda di pesce che tutti conosciamo. 177 I, 913-21; I, 1131-9. 178 Migotto, Argonautiche Orfiche (d’ora in avanti AO), Introduzione, XI-II; per un raffronto tra le AO e il testo di

Apollonio, vd. la ‘Notice’ di Francis Vian nell’ edizione francese dell’opera, 18 ss. Si accordano male con questo quadro le originali conclusioni di Luiselli, 305, secondo cui “l’intento primario della composizione delle AO è quello assolutamente letterario di conseguire la notorietà poetica”.

45

L’ itinerario via mare per la Colchide diventa infatti qui la descrizione di un viaggio iniziatico

o, che è lo stesso, di una catabasi, di una discesa agli inferi. Ecco perché Orfeo ne è il

protagonista.179 C’è bisogno di un prete, o piuttosto di uno ierofante, di un mistagogo, per uscire

sani e salvi da una sfida votata altrimenti alla sconfitta. Vediamo così l’eroe officiare prima della

partenza un sacrificio nel corso del quale gli Argonauti si impegnano gli uni verso gli altri con un

solenne giuramento; richiamare con le sue arie melodiose i compagni sedotti dalle delizie delle

donne di Lemno ai loro doveri; garantire il transito, subito dopo il Bosforo, attraverso le rupi

Chianee che con i loro moti sussultori non danno scampo ai naviganti; vietare l’approdo della nave

sull’isola di Demetra da cui nessun marinaio ha mai fatto ritorno. Oltre, naturalmente, a

presiedere i riti volti a pacificare l’anima di Cizico (il re frigio ucciso senza volerlo nella notte da

Eracle mentre infuriava la battaglia con i giganti), ad istituire al contempo il culto propiziatorio di

Rhea/Cibele e a scongiurare infine la fatale attrazione delle Sirene sull’equipaggio:180 fatti di cui

anche Apollonio, come si è visto, aveva avuto modo di occuparsi, pur in un’ottica e con accenti di

ben altro tenore.

E’ solo al momento della scena-clou, culminante della saga che le qualità operative

dell’eroe rifulgono comunque in tutto il loro splendore. Intanto, in occasione dello scontro con il

drago posto nel bosco sacro a difesa del Vello, è lui, e non Medea e le sua magie come di regola, a

risolvere la situazione: invocando a voce bassa e con i toni più bassi e gravi del suo strumento il

Sonno, “universale signore degli dèi e degli uomini”, infonde un subitaneo torpore sugli occhi del

mostro cui non resta che reclinare il capoccione a terra e addormentarsi buono buono

all’istante.181 Ma, prima ancora, era stata la prova di piegare le resistenze di ‘Artemide Munichia’ -

onde far schiudere le porte delle colossali mura da lei guardate ed aprirsi un varco verso

l’agognato premio, forse, di tante fatiche - ad esemplificare l’arte della quale Orfeo può vantare il

possesso, nonché la cultura e l’ambiente che egli rappresenta:

Quando fummo giunti alla sacra cinta e alla dimora divina/in un luogo pianeggiante io scavai una fossa

triangolare (o: a tre scomparti);/mi affrettai a portare rami di ginepro e di cedro secco/e di ramno spinoso e

di pioppi piangenti/ e li ammassai dentro la fossa./ La sapiente Medea mi recò molti farmachi/che ella

aveva presi dalle arche dei penetrali odorosi d’incenso./Subito modellai delle figure … /le gettai sulla pira e

compii il sacrificio/immolando tre neri cuccioli di cane … /(Quindi) rivestito d’un manto scuro rivolsi la mia

preghiera/percotendo il bronzo sonoro. E loro subito mi diedero ascolto/fendendo la cavità del triste

abisso:/Tisifone e Aletto e la divina Megera, scuotendo la fiamma di sangue sulle torce di pino

secco./Subito arse la fossa e crepitò il fuoco esiziale,/una fuligginosa vampa sprigionò immenso fumo [e]

dall’Ade attraverso la fiamma si levarono/terribili, tremende, le Erinni crudeli, orride./Una aveva il corpo di

ferro, che i mortali chiamano/Pandora. Insieme con lei ne giunse un’altra di forma cangiante/tricefala alla

vista, un mostro funesto, inimmaginabile,/Ecate figlia del Tartaro/ … E d’un tratto il simulacro d’Artemide

che era di guardia lasciò cadere al suolo/le torce dalle sue mani e volse lo sguardo al cielo./I cagnolini suoi

179

Sulla natura orfica del poema, Boulanger, 30-46; Vian, 5-18: per la teogonia, 6-13, e, per l’impresa degli Argonauti assimilata a una discesa agli inferi, 18. Quanto alla katabasis, si può ancora trarre profitto dall’eccellente articolo di Ganschinietz, RE, s.v. (per O.: 2400-01). 180

Nell’ordine: AO, 308-54; 476-83; 680-711; 1186-1206; 546-75; 552-617; 1264-90. 181

AO, 988-1015.

46

servi dimenavano la coda. Si ruppero le sbarre/delle serrature d’argento e s’aprirono le belle porte/delle

possenti mura e apparve il sacro bosco ben difeso.182

Eh sì, ce n’è di roba! A ragione è stato osservato che le Argonautiche Orfiche strizzano

l’occhio a “quei seguaci delle religioni antiche … non lontani dalle pratiche teurgiche”, a quei circoli

esoterici cioè sempre più diffusi dal IV secolo in poi di cui con ogni probabilità lo stesso autore

ignoto del poema faceva parte.183 Ma ‘teurgia’ è una parola grossa, difficile da gestire, soprattutto

in virtù della circostanza che la sua sfera d’applicazione è incapace di sottrarsi alla medesima aura

opaca di vaghezza, o per dirla altrimenti alla vera e propria ‘forchetta ermeneutica’ che segnalavo

poco fa commentando le cerimonie ai pianeti e ai corpi celesti dei Sabei. Per i suoi detrattori,

questo ‘agire sugli dèi’ è in ultima analisi indistinguibile dalla magia nera, ed è dunque da

condannare senza appello; secondo i suoi sostenitori, di contro, tale modalità d’approccio con il

divino esclude qualsiasi sfruttamento utilitaristico, poggiando da cima a fondo sulle risorse

spirituali dell’operatore.184 Ora, l’evocazione delle divinità dell’Oltretomba appena descritta

sembra la messa in atto di un rituale satanico, non si discute; ma se si guarda al comportamento di

Orfeo nel suo complesso, questo è alla fin fine meno vicino al negromante che non allo stile di un

Massimo d’ Efeso, il maestro per il quale l’imperatore Giuliano aveva perso letteralmente la testa

dopo aver assistito ai prodigi che il filosofo-mago era abile a produrre (muovere per esempio al

riso il simulacro di Ecate, o provocare l’accensione delle torce nelle mani della dèa) e che non si

discostano in effetti dalle specialità di repertorio tipiche della teurgia.185

Sembra sia stato Isaac Newton il primo ad intuire la componente astronomico-astrologica

rinvenibile fra le righe del mito, avendo identificato in molte delle stazioni di questa Mission

Impossible agli albori dei tempi altrettanti segni dello zodiaco.186 Rendiamo volentieri merito al

sommo scienziato della sua lungimiranza, ma la risoluzione del viaggio degli Argonauti in un

viaggio astrale, impostata in questi termini, getta solo qualche barlume di luce sulla vicenda.

Perché il suggerimento taglia fuori di netto, o relega comunque in una posizione del tutto

ininfluente, proprio il veicolo attorno a cui ruota dal principio alla fine l’intera impresa: Argo! La

nave è certo un manufatto fuori dal comune, sia perché per gli Elleni fu la prima in assoluto a

solcare le onde del mare, sia perché aveva in aggiunta il dono della parola, essendo stata almeno

182

AO, 950-87: seguo la trad. di Migotto, 73-4; per Artemide Munichia = Ecate, i particolari del rito descritti minuziosamente nel testo (la fossa triangolare, le piante medicinali, i pharmaka, le statuette, i cagnolini di colore nero ecc.) e i punti di contatto con i Papiri Magici, ibid., 135-9 nn.82-7; Vian, 187-8. 183

Keidell, 1337. 184

Le coordinate del dibattito sulla teurgia fino alla metà degli anni ’80 del secolo scorso sono delineate da Shaw, 6. Per alcuni sinonimi antichi (ieratike techne, teagogia, fotagogia ecc.), Luck, 186-7, e, per il significato dell’espressione (= ‘arte di operare con l’aiuto degli dèi’, ma pure ‘di creare gli dèi’), Eitrem, 49. La difesa di questa scienza sacra è come si sa l’oggetto del de Mysteriis di Giamblico (Clarke-Dillon-Hershbell, XXVI-XXXVII; Sodano, XXVI ss., cf. 679, Indice dei Concetti, per i passaggi sulla t. nel trattato), mentre dei tradizionali confini fra magia, stregoneria e t. rende bene conto Muscolino, soprattutto CXXVIII-CLXXXVIII. Secondo gli Oracoli Caldaici (fr. 153, Mejercik) “the theurgists do not fall into the herd which is subject to Destiny”: di qui alla brillante formula di ‘bodhisattvas of the Mediterranean world’ (Stang, 3), il passo è davvero breve. 185

Eunapio, Vit. soph. VII, 2, 7-10, cit. da Vian, 18 n.1. 186

Apprendo la notizia da R. Graves, I Miti greci, Milano 19884, 574 n.3, che non specifica la fonte: si tratta comunque

della Chronology of the Ancient Kindoms, tradotta a Venezia (ed. Giovanni Trevernin) nel 1757 ‘dal sig. Paolo Rolli’ con il titolo Cronologia degli Antichi Regni Emendata, opera postuma del cav. Isaac Neuton, dove il tema in questione è svolto 64 ss.

47

in parte costruita con il legno della quercia oracolare di Dodona.187 Per individuare le sue

peculiarità più nascoste, occorre tuttavia compiere ancora un passo. Un passo indietro o se si

preferisce al di là della frontiera, del confine con quel mondo semitico e le sue lingue in cui

purtroppo ben pochi ancora oggi riconoscono la culla culturale dell’Europa. I Grecisti sanno bene

che i vocaboli della famiglia di argos coprono un range oscillante fra il senso di ‘candido, bianco,

splendente, vivido’ da un lato, e quello di ‘rapido, celere, veloce’ dall’altro; nonostante poi per

render conto della leggendaria imbarcazione solo il secondo gruppo di valori paia di solito

pertinente.188 Argo, ‘la rapida’: niente di più naturale per un natante … Che io sappia, nessuno è

mai stato sfiorato dall’idea di una radice lessicale comune ad entrambe le aree di significato.

Eppure è la stessa da cui deriva anche il nome latino (e italiano, francese ecc.) dell’ argento, il

metallo ‘bianco-scintillante’ per eccellenza, corrispondente in astrologia al corpo celeste più

‘veloce’ nella sua orbita intorno alla terra: il luminare della notte!189

Non ci voleva poi molto per scoprire che ‘Argo’ è la trascrizione di archu, ossia della voce

esistente in Accadico per designare la luna e, simultaneamente, anche il mese (vd. l’ ingl.

moon/month o il ted. Mond/Monat), l’unità-base per il calcolo del tempo.190 Cose che capitano, si

dirà. Ma anche abbastanza inverosimili, visto e considerato che nel Paese dei Due Fiumi già

quattromila e passa anni or sono il religiosissimo popolo di Sumer amava raffigurare il patrono

lunare di Ur Nanna (il ‘Luminoso’, il ‘Lucente’) - di cui il dio Sin di Harran non è che la replica -

attraverso l’immagine della barca. Cantano gli Inni:

Nave sacra del cielo … /Padre Nanna, signore della città di Ur … /Padre Nanna, quando tu navighi verso il

santuario santo,/ Padre Nanna, quando tu navighi come una barca sulle acque profonde,/ Quando tu

navighi, quando tu navighi, quando tu navighi … 191

E a noi allora non dispiace prendere congedo a questo punto da Orfeo. Gli porgiamo il

saluto mentre, a bordo del vascello d’argento, prende il largo insieme ai compagni sul mare della

notte. Barra dritta verso Nord, verso l’Oceano settentrionale e la bianca terra degli Iperborei,

tappe obbligate lungo la spossante, accidentata, interminabile via per il Ritorno.

187

Per i riferimenti classici, Migotto, 123 n.34. 188 Vian, 175: “Les mots de la famille d’argos hésitent entre le sens de ‘blanc’ et de ‘rapide’. Ce dernier s’impose ici”. 189 Guenon (1977), 99 n.13, è consapevole dell’intimo rapporto fra il nome della nave, l’ aggettivo greco per

rapidità/bianchezza-luminosità, l’argento e la luna, ma non risale alla matrice linguistica originaria. 190 CAD, vol.1, ii (1968), s.v. ‘archu A’, 259-63; per una ricognizione ad ampio raggio sul Semitico, Krebernik, 364. 191 Cantico al dio-Luna, cit. da Lambert, 78.

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