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Istituto MEME
associato a
Université Européenne Jean Monnet A.I.S.B.L. Bruxelles
La componente femminile all’interno delle organizzazioni criminali di stampo mafioso in Italia
Scuola di Specializzazione: Scienze Criminologiche
Relatore: Roberta Frison
Tesista Specializzando: Gabriella Ferrari
Anno di corso: Secondo
Modena: 2 settembre 2017 Anno Accademico: 2016-2017
ISTITUTO MEME S.R.L. - MODENA ASSOCIATO A UNIVERSITÉ EUROPÉENNE JEAN MONNET A.I.S.B.L. BRUXELLES Gabriella Ferrari - SST in Scienze Criminologiche (Secondo anno) A.A. 2016/2017
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Indice dei Contenuti
1. Introduzione ...................................................................................................... 3
2. Mafia e mafie ……...……………..….………….............................................. 9
2.1. Il modus operandi e l’agire mafioso …………..…………………...…... 9
2.2. L’espansione delle mafie ..……………………………………….……. 15
2.3 Le mafie storiche …………………………………………………...….. 19
2.4 Le organizzazioni di tipo mafioso secondarie …………………………. 30
3. Le donne nelle mafie ……………………………………………...………... 37
3.1 L’agire criminale femminile ……………………………………..………. 37
3.2 Il sistema della famiglia nelle organizzazioni criminali di stampo mafioso 40
3.3. Donna e mafia: il reale rapporto ………………………..………...……... 45
4. Conclusioni …………………………………………………………………. 52
5. Bibliografia …………………………………………………………………. 55
6. Filmografia …………………………………………………………………. 56
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1. INTRODUZIONE
Di riflessioni, saggi e studi inerenti al mondo della Mafia in Italia
il mondo è pieno. Forse troppo.
Relativamente a questo tema, per essere estremamente onesta,
come persona immersa per studio e per lavoro, nel mondo del
“sociale”, sono stata sempre molto attratta dal micro-cosmo
(nemmeno troppo micro) della Mafia, o meglio, delle Mafie.
Le domande che mi sorgono in modo più spontaneo sono: come
hanno fatto a tramandarsi? Cosa le distingue dal mero
brigantaggio? Come si mantengono? Come sono diventate così
potenti? Chi, ad oggi, la tiene in piedi?
In realtà, al di fuori di tali questioni, predomina una domanda che
per me fatica molto a trovare risposta: quanto ci è concesso sapere
delle Mafie? Onestamente, anche di fronte ai diversi contenuti
deducibili da analisi e studi dei materiali a disposizione, nulla
riesce a smentire la questione personale per cui, a mio parere,
delle Mafie ci è concesso sapere esattamente quello che le Mafie
vogliono far sapere di loro stesse.
Basti pensare a quanti elementi sarebbero rimasti ignoti ai
magistrati e alle Forze dell’Ordine senza l’aiuto dei collaboratori
di giustizia, o più volgarmente noti come “i pentiti”.
È possibile sostenere che tutte queste informazioni siano state
ottenute da parte di non facenti parte di questa criminalità
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organizzata? A mio parere, no. Soprattutto in virtù del segno
indelebile che le mafie rilasciano nelle persone, che queste siano
vittime, carnefici o anche entrambi delle mafie stesse.
In realtà, prendendo visione dell’esubero di informazioni presenti
su questa realtà, la mia prerogativa è stata quella di effettuare un
confronto tra i due tipi di persone direttamente coinvolte in queste
organizzazioni criminali: gli uomini, le donne.
Inutile far presente che per quanto riguarda gli uomini le fonti si
dimostrano pressoché infinite, i nomi sono innumerevoli. Ma le
donne?
Volendo ridurre leggermente il cerchio di azione, anche
relativamente alle donne i materiali si dimostrano presenti seppur,
per la grande maggioranza, in un’ottica vittimistica di gran lunga
superiore alla parte vittimistica degli uomini. Per quale motivo?
Siamo di fronte a una particolarità criminale talmente rigida da
congelare gli uomini dalla parte del carnefice e inevitabilmente le
donne da quella delle vittime? Non proprio. La realtà è che,
ancora una volta, la teoria preferisce escludere un reale
coinvolgimento criminale della donna, probabilmente in virtù di
una percentuale statisticamente meno rilevante di donne
“mafiose” e ponendo come metro di ragionamento sugli eventi il
principio del infirmitas sexus.
Personalmente, in qualità di persona estremamente curiosa, ho
rifiutato l’idea di essere di fronte all’assenza di un
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coinvolgimento, seppur minimo, delle donne all’interno delle
organizzazioni criminali; non tanto per protesta o per polemica di
fronte agli importantissimi scritti presenti, quanto per il profondo
credo personale per cui nella mente di una donna non vi siano
elementi escludenti l’agire criminale, anche in questo campo.
Il lavoro seguente rappresenta quanto ho potuto verificare, senza
escludere nessuna tipologia di fonte (riviste, documentari, testi),
in merito a questa realtà criminale che tanto “marchia” lo Stato
Italiano dal suo confine in poi; le donne hanno incidenza dal
punto di vista criminale nelle organizzazioni italiane di stampo
mafioso?
Nota: Tramite l’analisi del materiale a disposizione ho notato
diverse visioni del fenomeno “Mafia”; la cosa che tuttavia mi ha
colpito maggiormente e in modo negativo è che in molte
produzioni, scritte e non, l’operato di mafiosi siciliani, camorristi
e ‘ndranghetisti viene raccontato in un modo che, seppur
velatamente, rasenta l’ammirazione.
Indubbiamente il mondo delle mafie ha compiuto gesta di portata
enorme, ma quello che vorrei preoccuparmi di precisare è che si è
sempre trattato di azioni criminali, connotate da crudeltà, ferocia e
scarsa considerazione della vita umana; per questo motivo ho
scelto all’interno del mio lavoro di non citare il nome di alcuna
donna o uomo che con le proprie azioni abbia favorito, divulgato,
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trasmesso la morale della Mafia nella sua accezione più grande.
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A te, cuoricino mio,
che sei sempre lì dove non puoi morire.
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<<Che ruolo hanno le donne?>>
<<Vuoi che ti dica che ruolo hanno gli uomini…?
Nessuno.>>
(testimonianza di una collaboratrice di giustizia, 2013)
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2. MAFIA E MAFIE
Per introdurre in modo completo il discorso che si sta andando ad
affrontare si è ritenuto utile svolgere prima di tutto
un’introduzione al tema della Mafia e delle mafie, soffermandosi
in modo particolare su quelli che sono i tratti distintivi, le finalità
e la sua espansione.
2.1. Il modus operandi e l’agire mafioso
Il comune esprimersi parlando di “Mafie” piuttosto che di Mafia
trova ragione nell’esigenza di conferire complessità a questo
fenomeno, alla sua organizzazione e al suo operare.
Iniziando dalle basi è possibile sostenere che questo carattere di
pluralità si realizzi tramite dei tratti distintivi:
Stabilità della struttura associativa;
Esercizio di sovranità su di un determinato territorio;
Consenso sociale diffuso;
Ingente accumulazione economica;
Interazione con la politica.
Questi tratti specifici oltre a definire meglio un fenomeno dotato
di significativa complessità permettono di diversificare la
criminalità organizzata tout-court (Pepino, 2011) da altri
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fenomeni devianti che si possono radicare in un territorio, come
può essere ad esempio il brigantaggio.
Altro motivo per cui è corretto parlare di mafie piuttosto che di
mafia consiste nella presenza di un considerevole numero di
mafie diverse; è possibile distinguerne alcune definite “storiche”,
come ad esempio Cosa Nostra siciliana (principalmente fondata
su di un’organizzazione unitaria e gerarchica, la Camorra
campana (caratterizzata da costellazioni di associazioni spesso in
lotta tra di loro), ‘Ndrangheta calabrese (basata su un modello di
riferimento orizzontale del potere), e altre più “secondarie”
(stidda siciliana, sacra corona unita pugliese, mafia russa, mafia
balcanica, triadi cinesi, etc.).
Scendendo nel particolare è utile elaborare una sintesi di quelli
che sono i punti di maggiori distinzione delle organizzazioni
mafiose; è possibile infatti, seppur di fronte a delle diversità
strutturali, individuare delle affinità seriamente significative
quantomeno per quanto riguarda le mafie più storiche.
1. L’intreccio con il potere pubblico e privato, specialmente
nell’ambito della politica;
Questo tipo di caratteristica viene riconosciuta sin dalla
prima relazione della Commissione parlamentare antimafia
del 1972, in cui la Mafia stessa viene definita come
<<soggetto dedito all’esercizio autonomo di potere extra-
large e compenetrato nelle strutture di potere, soprattutto
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pubblico>> (Pepino, 2011).
2. L’uso di forza e/o della violenza;
In questa accezione è bene specificare che l’uso della forza
svolge una funzione doppia: si tratta infatti di uno
strumento utilizzato per raggiungere obiettivi di
arricchimento, nonché come segno di potere e di capacità di
governare un territorio.
3. Consenso dell’ambiente circostante;
Altra caratteristica che spiega la forza dell’agire delle mafie
è il profondo radicamento nel territorio, per cui l’efficacia
dell’azione mafiosa si realizzerà sia grazie alla presenza di
un clan potente nonché grazie ad una comunità di sostegno
circostante, dando vita a una sorta di “reticolo” di
criminalità. La questione dell’omertà nel sistema mafioso
gioca un ruolo di comprovata rilevanza, determinando
conseguenze nella composizione sociale delle mafie stesse.
All’interno di queste ultime le differenze di status, cultura e
collocazione sociale non si eliminano ma non si può dire
che i rapporti rispecchino in modo rigido le stratificazioni
sociali.
Si può quindi dire che le mafie rappresentino vere e proprie
costellazioni in cui coesistono e si relazionano tra di loro in modo
attivo personaggi di estrazione sociale, livello culturale e
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immagine esterna molto eterogenei (Pepino, 2011).
Nel corso degli ultimi decenni uno degli errori “preferiti” in tema
di mafie e delle relative possibilità di espansione è stato quello di
considerare queste ultime come fortemente contraddistinte da
arretratezza economica, sociale e politica. Tale considerazione ad
oggi non può di certo essere considerata corretta, vista la continua
capacità delle mafie di coniugare tradizione e modernità, nonché
quella di inserirsi nelle dinamiche dell’economia per piegarle e
controllarle a proprio vantaggio.
Quello che spicca, qualora si volesse seriamente ragionare su
come le organizzazioni di tipo criminale operano, è che
attualmente molti degli elementi simbolici tipici di queste
organizzazioni (i riti, il segreto, i vincoli di fedeltà al proprio
gruppo, etc.) sono diventati dei caratteri strutturali e comunque
riconoscibili della cultura diffusa e del sistema politico in
generale (Pepino, 2011); tutto questo si ribadisce esclusivamente
per prendere visione del fatto che la mafia non ha trasformato la
propria specificità e i propri caratteri strutturali in fattore di
chiusura e isolamento, qualificandosi invece come un modello
capace, e anche molto bene, di espandersi.
Ma come operano le organizzazioni criminali di tipo mafioso?
Che metodo utilizzano? Dal punto di vista teorico il metodo
mafioso viene descritto come una modalità di diffusione di
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principi, procedure nonché come la creazione e il radicamento di
valori e legittimità che dal crimine organizzato si espandono in
tutto ciò che si definisce “mondo ufficiale” (Ruggiero, 2011). Tale
riflessione rimanda a un quesito quindi piuttosto specifico: sono
le mafie a corrompere la sfera politica ed economica del paese o è
quest’ultimo, e la conseguente sfera politica ed economica, a
fornire alle mafie un ambiente idoneo alla sua corruzione?
Il difficoltoso nesso tra legale e illegale è esaminabile, secondo il
Dott. Ruggiero, tramite i parametri utilizzati per esaminare le
organizzazioni sociali; queste ultime infatti possono presentarsi
come una sorta di associazione, o meglio come una rete di
individui che costituiscono un gruppo di tipo omogeneo, oppure
può distinguersi per le pratiche e per la natura dei propri agiti in
cui la stessa si impegna. Quest’ultima dimensione predispone una
rete di soggetti che agiscono sì la medesima attività, ma in gruppi
separati, senza soddisfare un carattere di omogeneità culturale e
sociale. Tornando alla prima ipotesi è chiaro che qualora si
volesse osservare un’organizzazione sociale come un’associ-
azione si porrà l’enfasi sulla struttura e sulla coesione, mentre
qualora volessimo fare questo tipo di osservazione ponendo
l’attenzione sulle transazioni si andranno ad enfatizzare la logica e
le azioni che la distinguono.
Questa osservazione porta quindi a due descrizioni diverse: la
prima descrive i gruppi criminali come entità separate, dotate di
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elementi specifici e caratterizzanti, mentre la seconda descrizione
si concentrerà sull’analisi dei legami che questi gruppi realizzano
con l’esterno. Questa seconda prospettiva mette in luce il ricorso
continuo delle organizzazioni criminali alla violenza,
evidenziando l’emergere dei legami strutturali, le connivenze, lo
scambio di servizi e soprattutto la mutua promozione
imprenditoriale tra attori legali e illegali; tutto ciò viene definito
come “economia sporca” ed è esattamente il punto in cui illegale
e legale si incontrano. Qui infatti ciò che è lecito, ciò che lo è
parzialmente e ciò che è illecito determinano la sovrapposizione
di delle diverse fattispecie criminali, miscelandosi. Questo stesso
amalgama determina l’investimento dei proventi illegali nelle
economie legali, procedimento abbracciato in modo massiccio
dalle moderne forme di criminalità organizzata (esempio:
apprendimento da parte delle mafie delle modalità criminali dei
colletti bianchi).
A questo proposito è più utile parlare di rete criminale, struttura
flessibile e non gerarchica risultata come meno permeabile
all’investigazione e meno vulnerabile allo smantellamento.
Per tirare le somme di questo complesso ragionamento è possibile
sostenere che il metodo mafioso e le reti criminali vedono la
partecipazione di entità molto diverse tra di loro, impegnate nel
conseguire fini specifici; la potenzialità della rete risiede nel fatto
per cui ognuno all’interno di essa trova valori coerenti alla propria
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struttura e al proprio credo culturale. È la rete ad offrire a
ciascuno libertà di azione senza richiedere uniformità di
convinzione per partecipare ed agire.
2.2. L’espansione delle mafie
Storicamente, e coerentemente a quanto noto nella coscienza
comune, le mafie traggono origine in aree specifiche del
Mezzogiorno italiano: Cosa Nostra nella Sicilia orientale, la
‘Ndrangheta nella Calabria meridionale, e la Camorra nel
napoletano; questo non indica che il fenomeno mafioso sia tipico
nella sua logica della società meridionale, ma solo che
storicamente si è sviluppato in questa zona. A conferma di ciò è
utile precisare uno dei tratti principali delle organizzazioni
criminali di tipo mafioso, ovvero la loro capacità di espandersi
territorialmente, economicamente e finanziariamente. Le prime
espansioni realizzate si sono sviluppate nelle aree più prossime a
quelle della nascita effettiva delle mafie, senza privarsi poi
un’espansione ben al di là delle singole regioni, nazioni e
continenti (esempio: Cosa Nostra in America, ‘Ndrangheta nel
nord Europa). Spesso e volentieri i vettori dell’espansione
mafiosa sono stati i commerci illegali, o comunque occasioni di
guadagno e crescita.
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A livello formale la Commissione parlamentare antimafia
all’interno di una relazione del 1994 inerente agli insediamenti
mafiosi in aree non tradizionali individua alcune cause di
diffusione del fenomeno:
1. Utilizzo incauto dell’istituto del “soggiorno obbligato”;
2. Le fughe di alcuni soggetti mafiosi dalle zone di origine
per sfuggire a vendette di gruppi rivali o per evitare
controlli eccessivamente rigorosi da parte delle autorità;
3. I movimenti migratori dal sud al centro-nord;
4. Appetibilità di alcune zone di destinazione.
Stando a quanto riportato da Sciarrone (2011), tuttavia,
probabilmente in aggiunta alle cause individuate si insinua in
modo prepotente la complessiva sottovalutazione del fenomeno
prima dell’ultimo decennio del 2000.
In merito a ciò, attualmente sulla presenza di mafie in territori non
tradizionali si realizzano due possibili versioni: la prima si
caratterizza per un forte allarmismo che “vede la mafia ovunque”,
mentre la seconda per una minimizzazione del fenomeno. In
sostanza, partendo da ciascuna delle due versioni il problema non
viene correttamente analizzato e indagato.
Partendo dalla minimizzazione del problema una delle circostanze
che ha alimentato questa visione è che la Mafie e le mafie sono
per tanto tempo state considerate un fenomeno non esportabile.
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Questa visione si caratterizza in quanto il problema non viene
individuato all’interno degli individui o dei gruppi, focalizzando
l’attenzione sul fatto che fosse il contesto ad essere mafioso e non
le persone; non essendo un contesto “esportabile” la Mafia non
potrebbe lasciare nessuna zona di origine.
L’altra faccia del problema, ovvero quella dell’allarmismo nei
confronti della mafie, si collega in modo molto stretto alla
cosiddetta “tesi del contagio”. Questa prospettiva indica la
diffusione appunto come una malattia contagiosa, ben esportata
dai numerosi flussi migratori avvenuti durante il secolo scorso e
ancora in atto. La prima deduzione realizzata in seguito a questa
teoria sostiene quindi che la Mafia, in generale, si sia diffusa
laddove si è verificata una concentrazione di immigrati
meridionali, in modo automatico. Questa versione considera i
cittadini del Sud Italia come veicolo patogeno del fenomeno
mafioso, in quanto in grado di riprodurre contesti di emigrazione
che generano e fanno prosperare le mafie.
È bene specificare che gli effetti dell’incremento della criminalità
organizzata si manifestano in modo vero e proprio solo negli anni
’70, in presenza cioè della maturazione di determinate condizioni
interne in grado di favorire tale incremento. Esempi ne sono
l’aumento del traffico di stupefacenti e l’espansione della sezione
finanziaria e speculativa del capitalismo settentrionale (Sciarrone,
2011). È questo scenario a incalzare poi il subentro delle
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organizzazioni mafiose. Questa realtà rende inappropriata la
teoria del contagio, evidenziando come sia maggiormente utile
prendere in considerazione il terreno di coltura che permette ad un
ipotetico “agente infettivo” di svilupparsi.
Ciò che poi è importante avere chiaro è anche che il passaggio
dalla diffusione di un fenomeno al suo radicamento non è certo
automatico; questo infatti per realizzarsi necessita di diversi
processi di colonizzazione ed imitazione di modelli trasferibili.
Nello scenario attuale il principale elemento su cui concentrarsi
per comprendere le espansioni è sicuramente la trasformazione
dei traffici illeciti; questi infatti non scompaiono ma mutano in
modo continuo per attori, funzionamento e regole interne.
Dal punto di vista interno le organizzazioni attualmente cercano
di ricompattare le proprie organizzazioni, specialmente la
‘Ndrangheta, per recuperare competitività sui mercati illegali.
All’esterno invece l’intento è quello di estendersi e ramificare le
reti relazionali ai fini di intrecciare rapporti solidi con la politica e
l’economia locale; la novità risiede proprio nel voler allargare la
propria presenza nelle attività di tipo legale.
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2.3. Le mafie “storiche”
Ai fini del discorso intrapreso si ritiene fondamentale svolgere un
approfondimento in merito alle cosiddette “mafie storiche” nella
situazione italiana, ovvero relativamente a quelle organizzazioni
mafiose che maggiormente hanno influito nella strutturazione di
un pensiero mafioso condiviso sul territorio italiano;
Cosa Nostra
Quando parliamo di Cosa Nostra intendiamo un complesso di
organizzazioni criminali nata in Sicilia nel corso del XIX secolo,
organizzate su base territoriale e rette da leggi, codici e
regolamenti interni altamente distintivi (Università Treccani,
2017).
La Mafia, spesso considerata d’eccellenza, nasce formalmente
alla fine dell’800 come braccio della nobiltà feudale finalizzato a
reprimere le rivolte dei contadini. Con al fine dell’800 poi si
rafforzano i legami mafia-politica permettendo l’ascesa dei primi
“boss” al potere locale tramite un continuo scambio di voti e
favori con la classe politica. Nel corso di questo susseguirsi ogni
azione favorisce il consolidamento della Mafia siciliana sul
proprio territorio di radicamento.
Con la fine della II Guerra Mondiale la Sicilia svolge un ruolo
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importante per gli Alleati con cui vengono stretti rapporti
significativi, inevitabilmente con alcuni benefici.
A partire dal 1970 la cellula, ormai non troppo più cellula, di Cosa
Nostra diviene protagonista di narcotraffico, appalti e mercati
edili intrattenendo anche rapporti con l’estero.
La parola “mafia” nasce in ambito teatrale, tra ‘800 e ‘900, e
viene immediatamente “incollata” a tutto il Sud Italia; si
caratterizza per essere una società di stampo segreto con rigidi riti
di affiliazione perpetrati nel tempo (Civitelli, 2009). Con la
dicitura “cosa Nostra” si è voluto inizialmente intendere la Mafia
siciliana trasportata negli Stati Uniti d’America nel corso dei
movimenti migratori del Sud Italia, arrivando tuttavia a usare tale
termine in modo generalizzato per tutta la Mafia presente in
Sicilia.
Il “soggetto” mafioso rispecchia un ruolo abbastanza preciso, non
tanto per caratteristiche peculiari quanto per il tipo di
comportamento e di ruolo rivestito; il che spiega l’eterogeneità
dei soggetti mafiosi.
I cardini che nascono con l’organizzazione mafiosa siciliana sono,
tendenzialmente, quelli delle altre organizzazioni criminali di
stampo mafioso (anche se in Sicilia appaiono più fondanti) sono:
segretezza, l’obbedienza, l’omertà, la vendetta (che, insieme
all’omertà, costituisce la radice del cosiddetto “onore”), il terrore
(che è il mezzo che consente il potere del capo e del gruppo), la
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mascolinità. Questi valori si perpetuano in tutta la struttura della
Mafia siciliana, organizzata in piccoli gruppi di diversi elementi
rappresentanti il “braccio” armato di un capo, il cosiddetto
“boss”; a quest’ultimo si deve rispetto e obbedienza in modo
assoluto. Dall’apparenza in cui questa obbedienza si realizza
dipende l’apparenza di rispettabilità del boss.
N’Drangheta
È possibile presumere che il termine “N’Drangheta” tragga
origine da una derivazione di tipo grecanico, indicando in modo
abbastanza specifico l’organizzazione mafiosa calabrese. Insieme
a Cosa Nostra e alla Camorra la N’Drangheta rappresenta una
delle aggregazioni mafiose principali del sud Italia.
Questo tipo di organizzazione trae la propria forza nel territorio,
punto focale e da cui nasce il potere stesso di questa importante,
ma spesso trascurata, organizzazione criminale. Il considerare
spesso la ’Ndrangheta come mafia di secondo piano (punto di
vista adottato spesso nel corso degli anni 2000 e prima di essi) è
probabilmente dovuto al carattere attribuito alla ‘Ndrangheta
stessa, un carattere agricolo, pastorale e di conseguenza residuale
(Parini, 2011); nonostante ben prima di questi anni la
‘Ndrangheta abbia iniziato a dilettarsi in degne attività di stampo
criminoso, quali ad esempio i sequestri di persona degli anni ’70 e
’80 dello scorso secolo.
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Si può sostenere che la reale presa di coscienza dell’agire
mafioso calabrese sia avvenuta ad Agosto 2007, a seguito di un
sanguinoso regolamento di conti avvenuto a Duisburg (città
tedesca del Nord-Reno) per mano di due famiglie originarie
dell’entroterra calabrese. A seguito di questo avvenimento
sanguinario che tolse la vita a sette persone all’uscita di un
ristorante la Commissione parlamentare Antimafia dedico una
relazione specifica alla ‘Ndrangheta, definendola tra le
organizzazioni criminali più moderne, potenti sul piano del
traffico di stupefacenti (nello specifico, cocaina) e maggiormente
radicate in tutta Italia oltre che in Europa e altri paesi stranieri
(Forgione, 2009).
Questo percorso che porta la ‘Ndrangheta ai vertici del potere è
frutto di un percorso piuttosto lungo, iniziato negli anni ’70 del
900 concentrandosi dapprima nel traffico internazionale di
stupefacenti, in cui la ‘Ndrangheta decise di investire cifre non
irrisorie in quegli anni (provenienti in grande parte dai profitti
ottenuti dai sequestri di persona degli anni precedenti).
Parallelamente la mafia calabrese si è inoltre impegnata nella
costruzione di alleanze significative e strategiche nei settori di
maggior rilevanza della Regione, facilitandone l’inserimento in
ambito economico e politico.
Nel secolo corrente di conseguenza la mafia calabrese viene
considerata con il ruolo di leadership all’interno del mercato del
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traffico di stupefacenti, essendo stata individuata come soggetto
affidabile da parte degli altri gruppi criminali nelle
intermediazioni, sia grazie al controllo esercitabile dalla stessa
sulla propria manovalanza, sia grazie alla presenza di
rappresentanti negli snodi internazionali dei traffici.
Storicamente i primi cenni di questa organizzazione criminosa
provengono, stando a quanto riscontrato da Enzo Ciconte nel
1992, da alcuni atti giudiziari del Tribunale di Lamezia Terme e
della Corte di appello delle Calabrie del 1877 e del 1884, atti in
cui si fa preciso riferimento a camorristi e mafiosi. Sharo
Gambino sostiene poi che <<la preistoria della mafia calabrese va
cercata nelle vicende della proprietà terriera che vanno dal XVII
secolo all’Unità d’Italia, in quelle lotte che videro il baronaggio, il
galantomismo e infine la borghesia liberale opposti […] alla
classe contadina […] per affermare la propria posizione di
dominio e consolidarla con l’appoggio della cosiddetta legalità >>
(Gambino, 1975). È possibile poi sostenere che in anni colmi di
malcontento del popolo e istanze ribelli dei cittadini stessi nei
confronti di uno Stato oppressivo delle libertà ma assente nel
colmare i bisogni dei singoli, la ‘Ndrangheta ha svolto il ruolo di
strumento del controllo sociale al servizio dei potenti.
Tra le peculiarità del fenomeno ‘Ndrangheta si ritrovano specifici
documenti scritti, noti come “codici”, rinvenuti nel corso di
indagini da parte delle Forze dell’Ordine; i codici consistono
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sostanzialmente in precetti che regolano il funzionamento della
società mafiosa rappresentandone al contempo la sua
glorificazione simbolica. I codici rinvenuti si riferiscono alla
famosa leggenda di Osso, Mastrosso, Carcagnosso, i tre cavalieri
fuggiti dalla Spagna per fondare la mafia in Sicilia, la Camorra in
Campagna e la ‘Ndrangheta in Calabria (il primo codice risulta
rinvenuto ad opera dal Maresciallo Giuseppe Delfino negli anni
’30, nei pressi di San Luca; Malafarina, 1978).
<<La società è una palla che va girando per il mondo, fredda
come il ghiaccio, calda come il fuoco e sottile come la seta. Chi la
tradirà, giuriamo bei compagni che la pagherà con cinque o sei
colpi di pugnale nel petto, per come prescrivono le regole sociali.
Calice d’argento, ostia consacrata, con parole d’umiltà formo la
società>> (codice rinvenuto da Castagna, 1967).
Il linguaggio utilizzato all’interno di questi codici sottende
un’illusione d’appartenenza a un mondo esclusivo e iniziatico
squisitamente diffusa e che permette alla ‘Ndrangheta di usufruire
di un folto numero di adepti e potenziali nuovi affiliati. Il
carattere illusorio di questi codici e del loro linguaggio risiede
nella realtà dei fatti per cui la gerarchia della ‘Ndrangheta è
aperta a pochissimi. La gerarchia attiva, secondo Gratteri e Nicaso
(2006) è paragonabile a una sorta di “albero della scienza”, dalle
dimensioni e importanza simbolica della quercia. La base
dell’albero rappresenta il “capo bastone” o “mammasantissima”,
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ovvero il capo, il tronco rappresenta gli “sgarristi”, ovvero le
colonne portanti della ‘Ndrangheta; successivamente si trovano i
rami più spessi e solidi, i ramoscelli (detti comunemente
“picciotti”) che ricoprono il ruolo di soldati. In più vi sono poi i
“contrasti”, quelli che non appartengono in modo diretto
all’organizzazione ma che forniscono comunque un contributo
importante; tra questi vi sono i “contrasti onorati”
(sostanzialmente i fiancheggiatori delle attività mafiose) e le
“foglie”, destinate a cadere in quanto “infami”.
Al proprio interno la ‘Ndrangheta ha subito nel corso degli anni
notevoli trasformazioni interne che ne hanno aumentato la
complessità strutturale, ai fini di far fronte a contesti criminali
nonché mafiosi sempre più complicati e difficili da gestire sia in
Italia che all’estero. Di base e tradizionalmente la ‘Ndrangheta si
basa sul legame di sangue della famiglia, organizzata in ‘ndrine
che ne sono sostanzialmente la cellula fondamentale. L’accesso
alle ‘ndrine è successivo ad un processo di affiliazione, realizzata
tramite un rituale, che segue un primo processo di selezione
nell’ambito dei diversi gruppi familiari. (Ciconte, 1992). Di base,
come potrebbe essere deducibile, le ‘ndrine più vecchie
dispongono di un “capitale simbolico” che conferisce un potere di
maggiore influenza sulle ‘ndrine più “giovani” o meno radicate
nel territorio. A livello verticale poi si esercita il controllo da parte
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delle famiglie dotate delle migliori risorse e dei maggiori capitali
e, soprattutto, meglio inserite a livello logistico e strategico
(Parini, 2011).
Geograficamente le singole ‘ndrine sono organizzate in base ai
Comuni (piuttosto dei quartieri se si parla di grandi città); al
vertice del sistema locale si trova poi la “copiata”, ossia l’unione
dei rappresentanti delle famiglie (Parini, 2011).
Coerentemente a quanto riportato precedentemente è piuttosto
chiaro quanto sul successo delle azioni della ‘Ndrangheta incida
la capacità della stessa di integrare in modo funzionale i luoghi di
tradizionale insediamento con i traffici internazionali e
transazionali.
Camorra
A livello storico la Camorra si organizza nella sua dimensione
“urbana” a seguito del fallimento della rivoluzione partenopea del
1799 (nello specifico attorno al 1820). Prova di un’esistenza tanto
antica è di certo l’esprimersi, a seguito dell’unità d’Italia,
riferendosi alla ‘Ndrangheta e a Cosa Nostra come alla “camorra
calabrese” e la “camorra siciliana”.
Nel 1863, la famosa Legge Pica identifica la Camorra come
forma delinquenziale da reprimere assieme al brigantaggio,
identificandola quindi come entità separata e autonoma (Sales,
2011). Ai suoi albori la Camorra trae la propria origine da
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un’organizzazione delinquenziale nota come “Bella società
riformata”, caratterizzata dalla ricerca della segretezza, di cui già
si parlava nel 1842 (statuto storico ad opera di Francesco
Scorticelli) nella zona di Napoli per garantire l’ordine pubblico
fino all’arrivo di Garibaldi in Campania nel 1860.
La storia del termine invece è riconducibile in diverse versioni:
dal nome di un tipo particolare di tessuto alla definizione di uno
stile di vita legato al gioco e all’eccesso in genere.
La prima caratteristica della Camorra risiede nella sua struttura; a
differenza di altre organizzazioni criminali infatti quest’ultima
non consiste in un unico “ceppo criminale” cui fanno riferimento i
diversi gruppi presenti in una regione, quanto piuttosto in una
vera e propria attività, prima di essere organizzazione. La
Camorra si distingue infatti per il proprio consistere in un
miscuglio, che nella sua natura ha anche il proprio punto di forza.
Già dal proprio nome la Camorra fa intendere la propria naturale
tendenza criminale; l’estorsione. La differenza con le altre mafie è
proprio nel fatto che queste ultime scelgono di non identificarsi
con un “reato specifico”, spaziando negli ambienti e nei mercati
che di volta in volta possono portare a maggiori guadagni.
Per questi motivi anche in questo caso parlare di Camorra è
riduttivo, consistendo tale termine in un insieme di clan e bande
uniti solo dalla specificità delle proprie azioni criminali e dal
contesto comune in cui tutti operano; sarebbe probabilmente più
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corretto parlare di “Camorre”.
La frammentazione della Camorra, condizione in cui nei tempi si
è cercato di intervenire tramite unificazioni sempre fallite, è quel
dato che ne rappresenta la pericolosità sociale. La framment-
azione infatti rallenta ogni tentativo di smantellamento, essendo
particolarmente difficile arrivare ad ogni cellula.
Altro tratto distintivo della Camorra è il ricorrere in modo totale
alla violenza: <<non c’è una razionale convergenza tra affari e
violenza, nel senso che non sono in grado di tutelare gli affari
senza ricorrere permanentemente agli omicidi […] Se nella mafia
la brutalità si accompagna alla normalità, nelle bande di camorra
la brutalità è la normalità>> (Sales, 2011).
A livello geografico la Camorra si sviluppa a Napoli e,
indicativamente, nei 40 chilometri circostanti; la mafia “di città” e
quella “di campagna” sono sempre state distinte. La criminalità di
tipo rubano si è nel tempo specializzata nei mercati illegali.
Secondo lo studioso L. Franchetti la Camorra di Napoli ha
propria origine nel mancato riassorbimento della modernizzazione
urbana dei ceti meno abbienti; in poche parole questa origine può
essere ricercata nella mancata integrazione delle classi urbane
pericolose.
All’interno della città la Camorra agisce tramite gruppi
“gangsteristici” ricercando protezione negli organi politici e
nelleistituzione; fatto importante tuttavia è che, a differenza di
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altre organizzazioni criminali di stampo mafioso, la Camorra
ricerca si una collaborazione con le classi politiche, senza tuttavia
ritenere questo rapporto necessario per raggiungere i propri
obiettivi e perseguire i propri fini. Questo perché l’identità della
Camorra stessa risiede principalmente nel mercato illegale,
piuttosto che in quello legale.
Nei propri rapporti con istituzioni e forze dell’ordine la Camorra
si trova sempre in uno stato di guerriglia che non mira ad
un’integrazione tra mercato legale e illegale; lo Stato è
semplicemente un’autorità che regola questo confine, rilegando
molte persone a vivere nell’illegalità senza quindi poter
pretendere un rispetto delle leggi.
La dimensione in cui opera questo macro-gruppo criminale è
unica nel suo genere; Napoli è un luogo a bassissima promozione
sociale in cui tutti gli istinti più violenti si aizzano senza essere
controllati e dove, sul mercato, si confrontano solo due scelte: la
possibilità di fatica senza guadagno e opportunità di ricchezza
senza grande fatica. Sales parla di tutto ciò come di un vero
“autismo criminale” ben contento di non varcare i confini della
propria illegalità in quanto dimensione perfettamente in
equilibrio.
A livello normativo interno la Camorra gode di una notevole
democraticità; non esistono “capi clan” assoluti e la ricchezza
viene redistribuita in modo equo dei redditi illeciti su una molto
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ampia platea di famiglie che vivono con ogni tipo di mercato
illegale in grado di fornire guadagno. La segretezza qui non è un
obiettivo, la dimostrazione del potere e del successo è ovunque e
ognuno desidera il proprio luogo e il proprio momento sia per
mostrarla che per dimostrarla.
2.4 Le organizzazioni di tipo mafioso secondarie
Parallelamente allo sviluppo delle mafie storiche in Italia altre
organizzazioni di stampo mafioso hanno avuto un terreno fertile
per nascere e svilupparsi; se ne riportano di seguito alcune per
conoscenza.
Sacra Corona Unita
Con tale dicitura si va a intendere una conglomerazione di gruppi
criminali che inizia ad operare in Puglia a partire dagli anni ’70
del secolo passato (Massari, 2011). Volendo indagare su un inizio
“formale” del fenomeno la Sacra Corona Unita si sarebbe
costituita nel 1983 all’interno di un carcere pugliese, ai fini di
regolare alcune controversie insorte tra detenuti.
Questo tipo di organizzazione criminale sorge all’interno
dell’ambiente carcerario inizialmente come mezzo di
contenimento dello strapotere esercitato sia sul territorio delle
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carceri che in quello “libero” da parte di altre mafie, storicamente
più incidenti e radicate; prima fra tutti la “nuova camorra”.
A livello strategico ed organizzativo la Sacra Corona Unita è un
ottimo esempio di come le caratteristiche delle mafie più storiche
siano un ottimo punto di riferimento di un modello trasferibile in
altri luoghi per mano di altri gruppi criminali emergenti, anche
più inseriti in dimensioni devianti di modernità.
Analizzando in modo storico i fattori che hanno determinato
nascita e sviluppo è necessario avere ben chiaro la zona di
collocamento della regione Puglia, particolarmente prestante ai
rapporti marittimi dell’Adriatico. Si può dire che il punto di svolta
atto allo sviluppo delle maggiori attività criminali coincide con la
chiusura del porto di Tangeri alla fine degli anni ’60; tale evento
ha determinato lo spostamento dei traffici illeciti dalla “via
tirrenica” a quella adriatica, che identificava la Puglia come luogo
di sbarco ideale per il traffico illecito delle sigarette destinate al
mercato nazionale. L’assenza di un sistema di criminalità
organizzata ben insediato ha scatenato le altre mafie storiche che
sin da subito, dopo aver percepito l’importanza di un mercato
simile, hanno cercato di insediarsi. Prima tra tutti è stata
probabilmente la Nuova Camorra, a causa dei numerosi
trasferimenti dei camorristi campani nelle carceri pugliesi, ai fini
di scongiurare l’insorgere di facili conflitti all’interno delle
carceri campane. Parallelamente a questa presenza tuttavia, hanno
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iniziato a “farsi sentire” le conseguenze di alcuni contatti con
alcune famiglie della zona di Reggio Calabria; gli stessi
trarrebbero le proprie radici da alcuni scambi di favore tra alcune
cellule del panorama delinquenziale pugliese e alcuni tra i
principali esponenti della ‘Ndrangheta avvenuti precedentemente
nel campo dei sequestri di persona. È possibile sostenere quindi
che in questa prima fase il processo di assimilazione della
delinquenza pugliese si è svolto con consenso delle prime mafie
storiche. Questo “background” ha di conseguenza portato nel
1981 alla costituzione formale della Nuova Camorra Pugliese
nella zona del foggiano; la stessa si struttura sulla base del
modello camorrista, inserendo tuttavia una propria gerarchia di
comando. Questa costituzione formale nasce come riunione dei
gruppi già attivi in regione in modo autonomo e parallelo alla
Camorra campana, pur se sottomessa da quest’ultima dal punto di
vista economico. Quest’ultima condizione inevitabilmente
determina un clima di tensione, sempre più crescente, sino alla
ribellione definitiva finalizzata alla piena e totale autonomia
raggiunta infine grazie all’appoggio dei capi-bastone
‘Ndranghetisti, arrivando infine all’obiettivo della vera Sacra
Corona Unita.
Il periodo di massima espansione di questo gruppo criminale si
realizza nel corso degli anni ’70 e ’80, pur essendo avvenuta in
modo formale (cioè in un aula di Tribunale) solo nel 1990.
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La stessa Sacra Corona Unita si caratterizza per: uso molto attivo
della violenza, basso grado di coesione interna, orientamento
utilitaristico e incline alla competizione, scarso rispetto delle
norme interne e dalla ricerca costante dell’arricchimento. Nel
corso del su sviluppo inoltre, la V ha subito diversi cambiamenti
interni transitando da un’originaria posizione di schieramento ad
una più specificatamente commerciale. Peculiarità risulta inoltre il
sospetto di rapporti commerciali con le associazioni criminali
balcaniche, nello specifico albanesi, specialmente per quanto
riguarda il traffico di esseri umani (prostituzione, immigrazione
clandestina).
La strategia adottata dalla Sacra Corona Unita mira ed ha sempre
mirato ad una condizione di scarsa visibilità (vedi ‘Ndrangheta),
soprattutto nell’era più moderna in cui l’organizzazione criminale
pugliese mira al coinvolgimento delle famiglie in una serie di
attività commerciali di tipo lecito. Le attività criminali illegali
invece (stupefacenti, traffici di armi, rapine ed estorsioni) si
mantengono grazie al coinvolgimento delle mafie di tipo
balcanico.
Stidda siciliana:
La Stidda siciliana nasce dal desiderio di alcuni giovani ragazzi
siciliani, provenienti in particolare dalla provincia di Agrigento, di
dare vita a un’organizzazione criminale alternativa a Cosa Nostra,
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in quanto stanchi di prendere ordini dalla Mafia dominante in
Sicilia. Nel corso del suo agire si è contraddistinta per la sua
particolare ferocia agita per mano di giovanissimi criminali.
Il suo sviluppo è avvenuto in modo parallelo alla Mafia regina in
Sicilia, scegliendo obiettivi d’azione che non andassero a
disturbare quest’ultima (astenendosi ad esempio dalle estorsioni).
Ai suoi albori la Stidda siciliana non presentava una rigida
struttura gerarchica e si basava su regole molto semplici ma non
discutibili. Il momento di svolta di questa organizzazione
criminale interviene con il 1986, anno di effettiva volontà di
rottura con Cosa Nostra; la Stidda siciliana non vuole più essere
tenuto fuori da grandi giri criminali che attraversano la Sicilia.
I componenti della Stidda siciliana, affiliati tramite apposita
cerimonia di affiliazione con diverse figure religiose, si
differenziano non poco dagli “uomini d’onore” della storica
Mafia siciliana; si tratta di ragazzi giovani abituati ad effettuare
rapine, a fare uso di stupefacenti prima che a venderli, e già solo
questo ultimo tipo di comportamento li distanzia molto
nettamente dagli uomini di Mafia.
La loro organizzazione trasuda debolezza, impedendo alla Stidda
siciliana stessa di arrivare a competere nei grandi mercati
internazionali con le altre mafie storiche e soprattutto di arrivare a
contatti e rapporti con centri di potere politico ed economico che
vadano oltre l’impresa locale.
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La vera svolta di questo gruppo criminale si realizza nel 1983,
tramite l’omicidio di un vecchio esponente della Mafia siciliana;
già da questa prima azione, più simbolica che effettivamente
dannosa per Cosa Nostra, si palesa in modo chiaro la strategia che
gli stiddari scelgono di utilizzare per seminare il panico nella
prepotente mafia siciliana: l’uso di ragazzi giovani per
commettere stragi. È questa infatti la caratterizzazione e la
strategia scelta dalla Stidda siciliana; assoldare ragazzi di 11-12
anni per addestrarli alla violenza e alla ferocia. Tale scelta pare
essere stata fatta per non destare sospetti. Questo allarme negli
anni ’80 gettò sicuramente un certo grado di paura nei vecchi boss
di Cosa Nostra, che si sentono latitanti dello Stato e possibili
obiettivi della Stidda.
Questa “avanzata” della Stidda siciliana determina non poche
paure all’interno di Cosa Nostra, inizialmente ignara della
provenienza di tali omicidi. Il maggior consolidarsi della Stidda
siciliana ha determinato però la necessità di ri-organizzarsi da
parte di Cosa Nostra; questo progredire di entrambe le
organizzazioni ha ad oggi consentito la presenza di una sorta di
equilibrio tra le due ed una coesistenza delle stesse in Sicilia,
magari, seppur con settori di azione distinti.
Banda della Magliana
Con tale gruppo si intende un soggetto criminale autoctono nato
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in territorio romano circa alla fine degli anni ’60 del secolo
scorso. Quei magistrati che in passato hanno affrontato questa
realtà criminale ne parlano come di un <<sodalizio criminale
operante in Roma sul finire degli anni settanta>>; con Banda
della magliana si intende poi l’unico gruppo criminale di stampo
laziale riuscito, nel corso dei suoi agiti, a procurarsi un assetto
tale da soddisfare i canoni di stampo mafioso utili a costituirsi
come associazione a delinquere (Fiasco, 2011).
La sua organizzazione si contraddistingue per flessibilità,
adattabilità e disponibilità ad alleanze in continua trasformazione
all’interno di una vera e propria “rete”, ottenuta rinunciando
all’autonomia decisionale dei singoli e piccoli gruppi malavitosi
della capitale, per favorire un sistema più unificato e stabile.
L’alba della Banda della magliana infatti si è caratterizzata per i
suoi piccoli gruppi di criminali informali dediti ai sequestri di
persona e alle rapine prima di effettuare quel “salto di qualità” che
ha determinato un’unificazione dei maggiori esponenti,
finalizzata ad ottenere il traffico di stupefacenti dell’intera città.
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3. LE DONNE NELLE MAFIE
3.1 L’agire criminale femminile
Il ragionare in termini di genetica relativamente ai comportamenti
violenti è un argomento che interessa i nostri studi dalla fine del
1800, grazie al massiccio lavoro di Cesare Lombroso che
sviluppò la teoria del “criminale nato” ai fini di dare una
spiegazione il più possibile scientifica all’agire criminale
dell’uomo. Dopo Lombroso altri hanno continuato a perseguire
tale intento (Jacobs, Brunton, Melville, Brittain & McClemont,
1965, Rhee & Waldman 2002; Brendgen, Vitaro, Dionnen &
Pérusse, 2006), tentando anche una riflessione su quello che
cambia nella distinzione tra sessi; prodotto di queste riflessioni
sono state le teorie di genere. Queste ultime si dividono in teorie
di genere e teorie di genere neutro e mirano alla spiegazione delle
variazioni di comportamento negli uomini e nelle donne, tramite
una complessa valutazione degli effetti dell’interazione genetico-
ambientale. Le ricerche più rilevanti avviate in questo ambito
(Farrington, Barnes, & Lambert, 1996; Farrington, Jolliffe,
Loeber, Stouthhamer- Loeber, & Kalb, 2001; Frisell, Lichtenstein,
& Langstrom, 2011) sono state svolte all’interno del gruppo
familiare, evidenziando per l’appunto quanto i comportamenti
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violenti siano facilmente tramandabili. Il limite di questi studi si è
rivelato però il coesistere in questa dimensione sia dei fattori
genetici che di quelli ambientali, senza quindi avere la possibilità
di osservare quale dei due tipi di fattori sia predominante nel
determinare lo sviluppo di uno o più comportamenti violenti.
A livello storico gli studi e le ricerche inerenti alla violenza nelle
donne, nelle ragazze e nelle bambine è stato un ambito
sicuramente trascurato, vista la peculiarità maschile dell’agire
violento. Maggiore attenzione al fenomeno criminale femminile,
che nel passato è stato “semplificato” ad eventi isolati dovuti a
malattie mentali o come esito di eventi traumatici, è stata data a
seguito dell’incremento di tali eventi.
I primi ad ammettere una “parità”, ovvero che donne e uomini
agiscano in modo violento nelle stesse frequenze, sono Crick and
Grotpeter (1995); a tale proposito gli stessi sostengono che
semplicemente cambino nelle manifestazioni, evidenziando come
le donne <<tendono a produrre manifestazioni di violenza che si
celerebbero nelle relazioni interpersonali, come ad esempio
sparlare di qualcuno ed escludere alcuni membri dal gruppo,
mentre i maschi hanno un comportamento violento manifesto,
espresso attraverso espressioni di esternalizzazione>> (Di Cosimo
e Ferracuti, 2013).
Restringendo di un poco il raggio di analisi, cercando di
soffermarsi sullo stato italiano, ragionare in termini di violenza al
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femminile deve partire da un presupposto che mette comunque in
difficoltà una possibile analisi, ovvero che in Italia il tasso di
criminalità femminile è piuttosto basso, soprattutto quando si
parla e si vuole parlare di crimini violenti. A livello italiano questa
differenza tra uomini e donne è stata analizzata tramite due
assunti (Siebert, 2009):
L’ipotesi emancipativa: secondo questa prima ipotesi la
disparità delle condotte violente tra uomini e donne è da
attribuire ad una subordinazione delle donne in contesti di
tipo patriarcale sommata alle arretratezze legate ai relativi
contesti di vita. La base di questa teoria tuttavia è che non
vi sia un metodo diverso di spiegare la criminalità
femminile rispetto a quella maschile.
L’ipotesi di genere: questo tipo di analisi invece, a differente
della prima, parte sostenendo la necessità di analizzare
l’agire femminile nella sua conduzione di costruzione
sociale, quindi, in un modo specifico, diverso. Questo non
vuole certo intendere che la criminalità femminile vada
intesa come una sottospecie di una più consolidata
maschile, ma piuttosto che debba essere vista come un
modo di essere e di agire che deriva da eventi storici, psico-
sociali e di socializzazione delle donne in genere.
Semplicemente, nell’ottica di questa ipotesi teorica, non si
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può analizzare una criminalità femminile tramite un metro
di valutazione di tipo maschile.
Al di là delle diverse teorie e percezione è utile svolgere una
breve ma fondamentale digressione che ha inevitabilmente
influenzato ogni tentativo di analisi di azioni criminali commesse
da donne; ovvero il fatto che quasi nella totalità dei casi ogni
azione femminile anche solo ”deviante” è stata, nei tempi passati
psichiatrizzata. Quella che è l’imputabilità femminile infatti per
anni è stata attenuata e/o impedita con il riferimento all’antico
principio del infirmitas sexus, principio giuridico
dell’impedimento dovuto al sesso definitivamente debellato dalla
legge 17 luglio 1919, n. 1176 (legge di otto articoli, rubricata
“Norme circa la capacità giuridica della donna” e firmata
dall’allora Guardasigilli Ludovico Mortara ma passata alla storia
come legge Sacchi).
3.2 Il sistema della famiglia nelle organizzazioni criminali di
stampo mafioso
Tra i primi passi per comprendere, o quantomeno cercare di
comprendere, il ruolo delle donne nelle organizzazioni criminali
di stampo mafioso in Italia è utile concentrarsi sul ruolo che,
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prima della donna, ricopre la famiglia.
L’importanza di cui gode il sistema famiglia si basa
principalmente sull’enorme potenziale dello stesso nel sistema
sociale del Sud Italia, dove le maggiori organizzazione di tipo
criminale nascono. Già solo soffermandosi alla realtà italiana, e
non direttamente mafiosa, è noto quanto il gruppo sociale della
famiglia, noto in pedagogia come la prima agenzia di
socializzazione della persona, sia particolarmente significativo.
Volendo essere maggiormente specifici invece, e andando quindi
a interrogarsi su cosa significhi il sistema famiglia nell’ambito
delle mafie, appare in modo piuttosto nitido quanto il ruolo di
questa “agenzia di socializzazione” soddisfi sia il ruolo primario,
e naturalmente attribuitole, che quello secondario, di educazione e
formazione.
Maschi come femmine quindi, in ambienti di Mafia, nascono in
realtà familiari in cui si concentrano l’educazione e la formazione;
o quantomeno l’educazione e la formazione degli argomenti più
importanti. In poche parole, è a partire dalla famiglia che si
radicano in modo irremovibile quelle consuetudini e quei valori di
cui ogni realtà mafiosa si nutre (testimonianza a una
collaboratrice di giustizia riportata da O. Ingrascì, 2007).
Relativamente a Cosa Nostra il sistema della “famiglia di sangue”
svolge un ruolo fondamentale, pur potendo essere scavalcata per
gli interessi della “famiglia di Mafia”; con la prima si intende la
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famiglia naturale dell’associato, mentre con la seconda il “gruppo
di base” dell’organizzazione criminale (Ingrascì, 2007).
In tutte le organizzazioni poi la famiglia consiste prima di tutto in
un luogo di apprendimento, trasmissione e perpetuazione dei
codici culturali, comunicativi e comportamentali (De Leo, Strano,
Pezzuto, De Lisi, 1995) su cui la Mafia in genere basa la propria
solidità; è con questi stessi codici tramandati e assimilati che le
organizzazioni mafiose riescono a mantenere il potere di presa e
di influenza nei rapporti interpersonali, chiarendo sin dalla più
tenera età l’importanza di onore, vergogna e vendetta.
Questo stretto rapporto, che arriva a simulare una sorta di osmosi
tra nucleo famigliare di sangue e famiglia mafiosa, assume forme
differente nelle diverse mafie, pur ambendo ad un obiettivo
comune.
Concentrandosi sulle tre mafie storiche ad esempio, sappiamo che
la ‘Ndrangheta calabrese si intreccia fortemente con le relazioni
parentali, che grazie a questa condizione gode di una solidità
fortissima; non è un caso infatti che il numero di collaboratori di
giustizia della ‘Ndrangheta sia molto più basso di quello delle
altre mafie italiane, principalmente in quanto <<un mafioso
calabrese che dovesse decidere di collaborare dovrebbe per prima
cosa chiamare in causa i propri familiari più diretti>>
(Commissione parlamentare d’inchiesta, Relazione sullo stato
della lotta alla criminalità organizzata in Calabria, XIII
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legislatura, Roma , 2000) , donne e bambini compresi.
La studiosa A. Dino definisce tuttavia come il più complesso dei
rapporti quello esistente tra la famiglia parentale e quella mafiosa
in Cosa Nostra; la Mafia siciliana infatti si distingue per
l’articolato intreccio di rapporti di parentela tra gli uomini d’onore
e le loro compagne. Questi stessi rapporti perseguono il fine d
costruire una solida e potente struttura trasversale che rende il
confine tra famiglia di sangue e famiglia d’onore molto sottile. Di
questa condizione da sempre gli affiliati hanno tratto i propri
vantaggi; soprattutto in virtù del fatto che una discreta “fetta” di
reati configurati come favoreggiamento personale non potevano
essere legalmente puniti.
Ma, infine, quanto è determinante il sistema famigliare? Basta
essere sottoposti a uno specifico sistema educativo impartito in
ambito famigliare per essere mafiosi?
È possibile precisare che il discorso è decisamente più ampio e
complesso, prima di tutto perché l’”educazione mafiosa” non è di
per se sufficiente, ma determinante è l’inserire le singole storie
dentro gli specifici contesti in cui queste si originano. Importante
è avere chiaro poi che in nessun gruppo mafioso, in Sicilia,
Campania o Calabria che sia, l’appartenenza familiare costituisce
fattore esclusivo per l’accesso al sodalizio mafioso per cui i fattori
ereditari avranno sì un’incidenza, non in grado però di superare
per priorità capacità personali e carisma dimostrato sul campo.
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La motivazione di questa circostanza risiede nel fatto per cui
nessuna organizzazione criminale, al di là della profonda
importanza attribuita ai legami di sangue, si prenderebbe mai il
rischio di “ingaggiare” soggetti poco inclini ai ruoli criminali o
non sufficientemente abili da ricoprirli; nessun affiliato di Cosa
Nostra, Camorra o ‘Ndrangheta rischierebbe l’affiliazione di un
parente potenzialmente inadatto pronto a fuoriuscire da tali
ambienti criminali alla prima “difficoltà”, unicamente una virtù di
un vincolo di sangue.
Il principale strumento in grado di garantire la continuità del
valore della famiglia è il matrimonio, in cui le donne rivestono
uno tra i primi dei loro ruoli “storici” nelle organizzazioni
criminali di tipo mafioso; nel matrimonio le femmine infatti
rappresentano l’oggetto di scambio suggellando patti segreti di
appartenenza, fermando rivalità e controversie e, soprattutto,
dimostrandosi disponibili all’impegno nella perpetuazione della
tradizione di “morale mafiosa” (Dino, 2011).
Il fatto che i matrimoni in ambiente mafioso avvengano
combinando coppie in cui i singoli componenti provengano da un
ambiente mafioso non trova ragione in un semplice disprezzo per
chi non è naturalmente affiliato, quanto in ragioni più
“logistiche”; <<una donna che proviene da un ambiente di Mafia
non sarà portata a chiedere spiegazioni su quanto agito dal marito,
avendo già ben interiorizzato quali sono le regole e i codici
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dell’ambiente in questione>> (Dino, 2011). La presenza di un
vero e proprio innamoramento in queste unioni non è
determinante, soprattutto in quanto al marito sono concesse
relazioni extra-coniugali; tutto a patto che avvengano in segreto e
che non vadano a intaccare o danneggiare l’integrità del gruppo
familiare, in virtù del fatto che ciò che importa è che venga
rispettata la morale dell’esteriorità.
Nell’ambiente familiare la gestione del “Sacro” è attribuita alle
donne, che si mantengono a corta distanza da tutto ciò che
concerne le funzioni di culto religioso, di confessione e di
trasmissione di un modello di religione, chiaramente rapportato
all’agire di Mafia.
3.3 Donna e mafie: il reale rapporto
Il primo ruolo in virtù del quale la donna ricopre delle funzioni
nelle realtà criminali mafiose è quello biologico; il ruolo di figlia,
di moglie e di madre. L’elemento sulla quale la maggior parte
degli studiosi convengono relativamente al ruolo della donna
nelle mafie è quello che le attribuisce la funzione di divulgazione
e trasmissione del codice etico, comportamentale e idealistico del
mondo mafioso, prima come moglie (il cui matrimonio, come
spesso accade nella ‘Ndrangheta, può avere funzione mafiosa).
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Alla donna/madre è attribuito il compito di educare la mentalità
dei figli, soprattutto dei maschi.
Ragionando sul coinvolgimento criminale femminile nelle
situazioni di Mafia poi è utile capire come questa si esprime; la
donna fornisce un supporto? ha una delega del potere
temporanea? È un’articolazione del potere stessa?
Innanzitutto quando si parla di mafia, è necessario ragionare sul
discorso “violenza”, che anche nella sua connotazione di violenza
agita non è mai completamente separata da quella subita. A
differenza degli uomini le donne sono portatrici di una
inconsapevole memoria storica dell’intrinseca vulnerabilità del
proprio corpo (Siebert, 2003), che le collocano in modo specifico
nel contesto criminale violento, che manipola la violenza stessa in
un modo straordinariamente freddo e distaccato. Siamo quindi di
fronte a una differenza non da poco tra donna e uomo; la donna
vive la violenza, e non per forza quella subita ma anche solo
quella agita, in modo molto più intimo rispetto a un uomo. Basti
pensare a quante collaboratrici di giustizia hanno lasciato il
mondo delle mafie non tanto per sfuggire alle violenze agite su di
loro, quanto per l’essere andate in crisi dopo aver agito tanta
violenza nei confronti degli altri.
Ragionare in termini di ruolo attivo e ruolo passivo si dimostra, a
mio parere, un approccio forviante allo studio dei ruoli femminili
nelle mafie. Anche solo parlare dell’educazione dei figli è di una
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portata spesso sottovalutata, che in realtà risponde a una delle
questioni poste nelle domande dell’introduzione di questo lavoro
di analisi, ovvero: come fanno le mafie a tramandarsi? La risposta
non emerge in modo complicato venendo a conoscenza del fatto
che bambini e bambine crescono con la priorità di salvaguardare
davanti a qualsiasi altra aspirazione l’onore, la vendetta del
proprio sangue e il mantenimento dell’omertà a qualunque prezzo.
Non sconvolge di certo come possa essere nata tra le mura di casa
la famosa “pedagogia della vendetta” (Siebert, 2003), trasmessa
di madre in figlio senza eccezioni e senza filtri. Le donne sono, in
questa circostanza, le custodi di questa educazione particolare.
Si può quindi sostenere che la trasmissione del modello culturale
mafioso tra le mura domestiche rivesta un ruolo criminale
secondario? Dati gli esiti, a mio parere no.
<< […] quindi la donna non è un soggetto passivo nella faida, la
donna è un soggetto attivo, è un soggetto che chiede anch’essa, e
con grande forza, la vendetta e verrà ascoltata, perché rispettata
pur se non fa parte dell’organizzazione>> (intervista al Magistrato
Boemi, 2003).
Volendo soffermarsi sulle mafie storiche in Italia il ruolo della
donna riveste confini leggermente differenti; la più importante tra
le realtà comuni è che le forze di Polizia hanno iniziato ad
occuparsene molto tardi:
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- In Cosa Nostra, la tardività delle analisi del coinvolgimento
femminile ha comportato per molto tempo l’esclusione di tale
genere dalla fattispecie criminale, senza perseguire nemmeno
le donne coinvolte anche direttamente in attività cosiddette di
“favoreggiamento personale”, giudiziariamente non
perseguibili.
Tutto ciò ha inevitabilmente portato a una lettura molto
sottodimensionata del contributo femminile. In questo
universo mafioso le donne sono apparse come figure straniere,
connotate da una “doppia assenza”: di appartenenza e di
visibilità: << quella femminile è una diversità che inquieta;
una diversità che somiglia ad un abitare sul confine>> (Dino,
2011). Questo perché ogni donna, nell’inserirsi in un sistema
mafioso, nel trovare un proprio ruolo condivide con le altre la
difficoltà di trovare uno spazio di espressione per la propria
soggettività. Si tratta di figure marginali, che per essere
considerate normali, non possono che essere eccezionali;
questo è il prezzo. Quello che tuttavia è importante avere
chiaro parlando di nucleo matrimoniale mafioso è che, ad
oggi, non è più possibile parlare di favoreggiamento: la moglie
non può che essere coinvolta al 100% nelle attività del marito
(Magistrato Facciolla, intervista del 2003).
Nella zona siciliana generalmente il ruolo femminile abbraccia
in pieno quello di essere educatrici e detentrici della memoria
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familiare. La quotidianità vissuta è ricca di confronti diretti
con la morte e la paura, che alla propria prole va
contestualizzata e spiegata nel modo più affine all’educazione
mafiosa. Qui la maggiore inferiorità espressa dalle donne è
quella legata ai sentimenti, e la colpa non risiede tanto
nell’esprimerli quanto anche solo nel “provarli”.
Il maggior cambiamento che ha investito la figura femminile
nelle organizzazioni mafiose siciliane si è realizzato nella
seconda metà degli anni ’90, quando la donna entra nella
professionalizzazione, fornendo quindi delle competenze
specifiche che con i nuovi interessi dei clan si dimostrano
particolarmente utili. I ruoli iniziano a confondersi anche se la
parte maschile non è ancora pronta a riconoscere una effettiva
parità tra sessi.
- Internamente alla ‘Ndrangheta i ruoli delle donne si sono
differenziati molto di più rispetto alla sorella siciliana; in
Calabria oltre a rivestire il tradizionale ruolo di educatrice la
donna ha quasi da sempre rivestito ruoli finanziari, di gestione
delle risorse, e, soprattutto, di “vice” in assenza del marito.
Anche qui il riconoscimento tuttavia non è formale;
soprattutto in quanto in ogni sua azione la donna è sempre
schiacciata dal controllo maschile, avendo perpetuato essa
stessa per molto tempo un sistema criminale maschilista. Gli
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studi più recenti tuttavia evidenziano una particolarità, ovvero
che in realtà spesso il comando dell’uomo (magari un figlio) si
sia realizzato solo nella “facciata” dell’agire mafioso,
nascondendo tra le mura domestiche madri e mogli molto ben
inquadrate nel proprio ruolo di leader (Siebert, 2003). In questi
casi, realmente verificatesi e venuti alla luce solo a seguito di
dichiarazioni di pentiti, sono state appunto le donne a tenere le
redini di intere ‘ndrine calabresi detenendone le casse,
ordinando omicidi, smistando armi, organizzando piazze di
spaccio anche fuori dalla Calabria. La mutazione di questi
ultimi tempi ha dato da pensare che si fosse realizzando in
Calabria una pseudo-emancipazione della donna nella
‘Ndrangheta; tale visione tuttavia è scoraggiata, a mio parere e
coerentemente a quanto sostenuto da O. Ingrascì, dall’effettiva
adesione da parte delle donne ad un ordine materiale e
simbolico comunque maschile che non può ad ora determinare
una vera emancipazione. Spesso e volentieri le donne dell’
‘Ndrangheta vengono introdotte in un mondo malavitoso, o
vengono mantenute all’interno di esso, più per convenienza
che per considerazione (Ursetta, 2016); un esempio ne sono i
matrimoni.
- Nella Camorra campana la situazione delle donne veste abiti
decisamente diversi; principalmente in quanto i clan camorristi
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non prevedono rituali d’affiliazione rigidi e/o un reclutamento
esclusivamente maschile, ponendo di conseguenza ruoli
pressoché paritari per uomini e donne (Gribaudi, 2011).
Storicamente, nel loro ruolo più attivo e “materiale”
all’interno della Camorra alle donne sono state affidate più
specifiche categorie di condotta criminale: usura,
contrabbando, spaccio di sostanze, taglio delle sostanze, etc.
Questo ha generato una divisione dei ruoli, seppur mai troppo
rigida; agli uomini viene riservato il canale dell’esercitazione
della violenza, mentre alle donne quello del “commercio”. Il
modello femminile in Campania quindi, parlando di mafie,
non è di certo quello dei tradizionali “codici d’onore”, ma
quello che esige il rispetto.
Anche in Campania comunque la parità uomo-donna non si
può definire “conquistata”, essendo le donne di Camorra salite
al potere in gran parte per un rapporto specifico con affiliati
dei clan.
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4. CONCLUSIONI
Senza particolari dubbi posso sostenere che scegliere una tesi con
l’obiettivo di dimostrare la reale incidenza del mondo femminile
all’interno delle organizzazioni criminali di tipo mafioso sia stato
un compito non poco difficoltoso. Il mio lavoro di ricerca si è
infatti scontrato con punti di vista maschilisti, fonti improntate sul
vittimismo, miriadi di esperti concentrati su cosa faccia venire
voglia alle donne, inserite nel clima criminale della mafia, la
voglia di diventare collaboratrici di giustizia, di pentirsi, di
“cantare” (per usare il gergo specifico).
Ancora una volta la donna è prima di tutto vittima, prima di
essere reo colpevole e consapevole del proprio agito.
A questo punto, di norma, ci si ripropone la domanda iniziale: le
donne hanno incidenza dal punto di vista criminale nelle
organizzazioni italiane di stampo mafioso? A quanto ho potuto
osservare, studiare ed analizzare si, vi è un rapporto seppur
decisamente particolare.
Il rapporto che lega una donna ad una mafia è decisamente
particolare, è chiaro, ma non tanto perché “valga meno” di quello
che ha un uomo con la mafia, quanto perché si connota di
particolari diversi, che vanno a connotare tutta la vita di una
donna, dallo stato di figlia a quello di madre, passando da quelli
di fidanzata, amante, moglie, etc.
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Sia chiaro: qualora si voglia mettere in campo un’analisi, che
mira a confrontare numericamente le donne, che nel corso dei loro
rapporti con la mafia abbiano preso in mano una pistola per
compiere un omicidio, le teste sono sicuramente minori rispetto a
quelle degli uomini. Tuttavia avrei trovato un’analisi di questo
tipo eccessivamente semplicistica e scientificamente inutile,
soprattutto in quanto <<ci si dimentica che, in strutture
gerarchizzate come le organizzazioni criminali mafiose, le figure
apicali non possono che essere poche, ed è normale che fra di loro
le donne siano ancora di meno>> (Dino, 2011).
In realtà, quello che appare il nocciolo della questione, è piuttosto
il rivestire da parte delle donne ruoli passivi, evidenziando gli
stessi come minoritari. Personalmente non oserei definire un
ruolo “educativo” (ruolo tradizionalmente assegnato alle donne di
Mafia) come minoritario, rispetto a quello legato alla riscossione
del “pizzo” (tipica mansione più facilmente attribuibile ad un
uomo); soprattutto alla luce del fatto che più fonti sono concordi
nell’affermare che solo ed esclusivamente le donne, siano in
grado di educare alla “pedagogia della vendetta” mafiosa, che
solo le donne siano in grado di “caricare i propri uomini come
sveglie” (Gratteri, Magistrato, 2013) esigendo come nessun altro
il rispetto dei fondamenti irrinunciabili delle mafie. Di contro,
seppur in numeri meno significativi, alle cronache è noto come le
donne di Mafia siano in grado di adempiere ad ognuna delle
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funzioni possibili concernenti l’agire mafioso: dall’estorcere il
pizzo, a mantenere una cassa fino a sparare a comando. Di
conseguenza, secondo un ragionamento logico, se vi è un genere
sessuale superfluo, non possiamo dire di certo che si tratti di
quello femminile.
Alla luce degli elementi emersi, secondo il mio modesto parere di
studentessa curiosa, l’unica caratteristica da soddisfare, per essere
accusate/i di partecipare alla criminalità che contraddistingue e
rende unico l’agire criminoso delle mafie, è una sola: la presenza
della consapevolezza da parte di un soggetto, donna o uomo che
sia, di volere far parte di un sodalizio criminoso, condividendone
la sorte e gli scopi (Pasculli, 2009).
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Bibliografia
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- De Leo G., De Lisi L. C., Pezzuto G., Strano M., Evoluzione mafiosa e
tecnologie criminali, A. Giuffrè Editore, Milano, 1995.
- Di Cosimo D., Ferracuti S., Le differenze di genere nella genetica dei
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vol 3 – 2013>>.
- Ingrascì O., Donne d’onore. Storie di mafia al femminile, Bruno Mondadori,
Milano, 2007.
- Mareso M., Pepino L., Dizionario enciclopedico di mafie e antimafia,
Gruppo Abele, Torino, 2011.
- Pasculli A., Il ruolo della donna nell’organizzazione criminale: il caso
barese, in <<Rivista di criminologia, vittimologia e sicurezza Vol. III – N.2 –
Maggio-Agosto 2009>>.
- Siebert R., Le donne, la Mafia, Il Saggiatore, Milano, 1994.
- Siebert R., Donne di mafia: affermazione di un pseudo soggetto femminile,
Pubblicazione per l’Università degli Studi di Palermo, 2003
- Ursetta U., Vittime e ribelli. Donne di ‘Ndrangheta, Luigi Pellegrini Editore,
Cosenza, 2016.
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Filmografia
- Lady ‘Ndrangheta: speciale di Beatrice Borromeo, L. Mieli – M. Gianiani,
Italia, 2013.
- Camorriste, P. Colangeli, Italia, 2016.