jules verne - i naufraghi del jonathan

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I VIAGGI STRAORDINARI GIULIO VERNE I NAUFRAGHI DEL "JONATHAN" con 52 illustrazioni di GIORGIO ROUX Traduzione italiana di MARIA BORCHETTA Titolo originale del 1909 En Magellanie CASA EDITRICE SONZOGNO - MILANO della Società Anonima ALBERTO MATARELLI Via Pasquirolo. 14 Stabilimento Grafico Matarelli della Società Anonima ALBERTO MATARELLI - Milano (2/14) - Via Passatella N. 15 - Printed in Italy. 3-32-4 Finito di stampare il 30 Marzo 1932.

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Page 1: Jules Verne - I Naufraghi Del Jonathan

I VIAGGI STRAORDINARI

GIULIO VERNE

I NAUFRAGHI DEL "JONATHAN"

con 52 illustrazioni di GIORGIO ROUX

Traduzione italiana di MARIA BORCHETTA Titolo originale del 1909

En Magellanie

CASA EDITRICE SONZOGNO - MILANO della Società Anonima ALBERTO MATARELLI

Via Pasquirolo. 14

Stabilimento Grafico Matarelli della Società Anonima ALBERTO MATARELLI - Milano (2/14) - Via Passatella N. 15 - Printed in Italy. 3-32-4

Finito di stampare il 30 Marzo 1932.

Page 2: Jules Verne - I Naufraghi Del Jonathan

INDICE

INDICE __________________________________________ 2

I NAUFRAGHI DEL "JONATHAN" __________________ 5

PARTE PRIMA____________________________________ 6 I. __________________________________________________ 6

Il "Kaw-djer". __________________________________________ 6 II. ________________________________________________ 13

Esistenza misteriosa. ____________________________________ 13 III. _______________________________________________ 22

La fine di un Paese libero.________________________________ 22 IV. _______________________________________________ 35

Sulla costa. ___________________________________________ 35 V. ________________________________________________ 45

I naufraghi. ___________________________________________ 45 PARTE SECONDA________________________________ 50

I. _________________________________________________ 50 A terra. ______________________________________________ 50

II. ________________________________________________ 79 La prima legge. ________________________________________ 79

III. _______________________________________________ 88 Nella baia Scotchwell.___________________________________ 88

IV. ______________________________________________ 103 Svernamento._________________________________________ 103

PARTE TERZA__________________________________ 155 I. ________________________________________________ 155

L'infanzia di un popolo._________________________________ 155 II. _______________________________________________ 183

Halg e Sirk. __________________________________________ 183

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III. ______________________________________________ 203 Il secondo inverno. ____________________________________ 203

IV. ______________________________________________ 214 Sangue! _____________________________________________ 214

V. _______________________________________________ 226 Un Capo. ____________________________________________ 226

PARTE QUARTA ________________________________ 238 I. ________________________________________________ 238

Prime misure. ________________________________________ 238 II. _______________________________________________ 252

La città nascente.______________________________________ 252 III. ______________________________________________ 274

L'attentato.___________________________________________ 274 IV. ______________________________________________ 289

Nelle grotte.__________________________________________ 289 V. _______________________________________________ 306

Un eroe._____________________________________________ 306 VI. ______________________________________________ 321

Durante diciotto mesi. __________________________________ 321 VII.______________________________________________ 340

L'invasione __________________________________________ 340 VIII. _____________________________________________ 355

Un traditore. _________________________________________ 355 IX. ______________________________________________ 369

La patria hostelliana. ___________________________________ 369 PARTE QUINTA ________________________________ 387

I. ________________________________________________ 387 Cinque anni dopo. _____________________________________ 387

II. _______________________________________________ 402 La febbre dell'oro. _____________________________________ 402

III. ______________________________________________ 417 L'Isola devastata.______________________________________ 417

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IV. ______________________________________________ 435 Una «giornata»._______________________________________ 435

V. _______________________________________________ 449 L'abdicazione. ________________________________________ 449

VI. ______________________________________________ 468 Solo! _______________________________________________ 468

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I NAUFRAGHI DEL "JONATHAN"

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PARTE PRIMA

I.

IL "KAW-DJER".

Era un animale grazioso, col collo lungo e di elegante curvatura, con la groppa gibbosa, le gambe nervose e sottili, i fianchi schiacciati, il mantello di un rosso fulvo chiazzato di bianco, la coda corta, a pennacchio, ricchissima di peli. Il suo nome nel paese: guanaco. Veduti da lontano, tali ruminanti hanno dato spesso l'illusione di cavalli montati e più di un viaggiatore, ingannato dalle apparenze, ha preso per un gruppo di cavalieri un branco di essi che passava di galoppo sul lontano orizzonte. Sola creatura visibile nella regione deserta, il guanaco si fermò sulla cresta di un monticello, in mezzo a una vasta prateria, ove i giunchi si agitavano rumorosamente, dardeggiando le punte aguzze fra cespugli di piante spinose. Col muso al vento, esso aspirava gli effluvi che una brezza leggera portava dall'Est: con l'occhio vigile, gli orecchi diritti, ascoltava, pronto a prendere la fuga al minimo rumore sospetto.. La pianura non presentava una superficie uniformemente liscia, ma bensì disseminata da avvallamenti e gibbosità, generati dalle grandi pioggie torrenziali. Protetto da uno di tali scoscendimenti, a breve distanza dal monticello, si inerpicava un indigeno, un Indiano, che il guanaco non poteva scorgere. Quasi interamente nudo, coperto solo dai lembi della pelle d'una bestia, costui avanzava senza far rumore, insinuandosi fra l'erba, in modo da avvicinarsi alla preda agognata senza spaventarla. La bestia però sentiva l'imminenza di un pericolo, e cominciava a dar segni di inquietudine.

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All'improvviso, un laccio fendè l'aria fischiando e si svolse verso l'animale, ma la lunga correggia non raggiunse la mèta; scivolò dalla groppa, e cadde per terra. Il colpo era fallito, e il guanaco si era dato alla fuga, cosicché quando l'Indiano raggiunse la sommità del monticello, esso era già scomparso dietro un gruppo di alberi. Ma, se il guanaco non correva più alcun pericolo, l'uomo invece era a sua volta minacciato. Dopo aver raccolto il laccio fissato per un capo alla sua cintura, stava per ridiscendere, quando un furioso ruggito scoppiò a qualche passo da lui e quasi subito una belva s'abbatté ai suoi piedi. Era un grosso giaguaro, dal pelame grigiastro chiazzato di nero a cerchi chiari, somiglianti alla pupilla d'un occhio. L'indigeno conosceva la ferocia dell'animale, capace di strangolarlo con un sol colpo di mascella. Con un salto indietreggiò. Per sua sventura, una pietra che rotolò sotto il suo piede gli fece perdere l'equilibrio. Levando la mano, tentò allora di difendersi con una specie di coltello affilatissimo, ricavato da un osso di foca, che era riuscito a togliersi dalla cintura. Per un momento, sperò anche di rialzarsi e di mettersi in posizione migliore; ma non ne ebbe il tempo, perchè il giaguaro, leggermente urtato, lo caricò con furore. Egli era perduto, giaceva a terra, e la belva con gli artigli gli straziava il petto. Proprio nel momento stesso risuonò la detonazione secca d'una carabina, e il giaguaro si abbatté fulminato, col cuore trafitto da una palla. A cento passi di distanza, un lieve fumo biancastro ondeggiava sopra una delle rocce della spiaggia, e sulla roccia stessa, stava ritto un uomo con la carabina ancora puntata. Di tipo ariano accentuatissimo, quell'uomo non era compatriotta del ferito. Non aveva la pelle scura, benché fosse assai abbronzato, né il naso schiacciato fra un profondo infossamento delle orbite, né gli zigomi sporgenti, né la fronte

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bassa sotto un angolo sfuggente, né i piccoli occhi della razza indigena. Il suo volto era invece intelligente, la fronte vasta e solcata dalle numerose rughe del pensatore. Il nuovo venuto portava, tagliati rasi, i capelli brizzolati come la barba. Tuttavia, non si sarebbe potuto precisarne l'età, compresa senza dubbio fra la quarantina e la cinquantina. Era alto e sembrava dotato di forza atletica, di costituzione robusta, di salute perfetta. I lineamenti del viso apparivano energici e serî, e tutta la persona denotava una fierezza, ben diversa dall'orgogliosa vanità degli sciocchi, che gli conferiva una vera nobiltà d'atteggiamenti e di gesti. Comprendendo che non avrebbe avuto bisogno di tirare un secondo colpo, egli abbassò la carabina, la disarmò, se la mise a tracolla, e si volse verso il Sud. In quella direzione, ai piedi del dirupo, appariva l'immensa vastità del mare. L'uomo, chinandosi, chiamò: «Kaw-djer!…» e aggiunse due o tre parole in linguaggio duro e gutturale. Dopo qualche minuto, da una fenditura del dirupo, apparve un adolescente di circa diciotto anni, seguito subito da un uomo in piena maturità. Erano, indubbiamente, Indiani, a giudicare dal tipo assai diverso da quello del bianco, che aveva mostrato tanta abilità con il brillante tiro di poco prima. Assai muscoloso, spalle larghe, tronco possente, una grossa testa quadra posata sopra un collo robusto, cinque piedi di altezza, brunissimo di pelle, nerissimo di capelli, piccoli occhi penetranti sotto l'arco poco tornito delle ciglia, barba ridotta a qualche pelo; tale era l'uomo che pareva avesse passata la quarantina. I caratteri dell'animalità, ma di un'animalità dolce e carezzevole, contendevano a quelli dell'umanità tale essere di razza inferiore, che si sarebbe potuto paragonare, piuttosto che a una belva, a un buon cane fedele, a uno di quei coraggiosi terranuova che possono diventare i compagni, e, più che i compagni, gli amici del proprio padrone.

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Ed appunto, come uno di quegli animali devoti, egli, udendosi chiamare, accorse. Quanto al giovane, probabilmente suo figlio, il cui corpo, quasi del tutto nudo, era agile quanto quello di un serpente, sembrava intellettualmente assai superiore al padre. La fronte più sviluppata, gli occhi pieni di fuoco esprimevano intelligenza, e ciò che meglio vale, onestà e franchezza.

Quando i tre individui furono riuniti, i due indigeni scambiarono alcune parole nel loro linguaggio, che è caratterizzato da una breve aspirazione a metà della maggior

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parte delle parole, e poi si diressero tutti verso il ferito, che giaceva a terra vicino al giaguaro morto. Il disgraziato era svenuto. Il sangue gli colava dal petto straziato dagli artigli della belva. Tuttavia riaperse gli occhi, quando una mano sollevò il suo rozzo vestimento e, scorgendo colui che gli veniva in aiuto, lo sguardo gli si illuminò di un tenue lampo di gioia, e le labbra scolorite balbettarono un nome: «Il Kaw-djer!…» Kaw-djer è una parola che in lingua indigena significa amico, benefattore, salvatore; e quel bel nome apparteneva evidentemente al bianco, perchè egli fece un cenno affermativo. Mentre l'uomo prodigava al ferito le prime cure, Karroly ridiscese attraverso il passaggio del dirupo, per ritornare subito con un carniere che conteneva un astuccio e alcune fiale piene del succo di certe piante del paese. Mentre l'Indiano reggeva sulle ginocchia la testa dell'indigeno, il cui petto era stato scoperto, il Kaw-djer lavò le ferite e stagnò il sangue. Poi ne riavvicinò le labbra, che ricoperse con tamponi di garza imbevuta del contenuto di una delle fialette e, togliendosi infine la sua cintura di lana, avvolse il petto dell'indigeno in modo da sostenere tutta la fasciatura. Sarebbe sopravvissuto quel disgraziato? Il Kaw-djer non lo credeva. Nessun rimedio avrebbe potuto provocare la cicatrizzazione di tali profonde ferite, che parevano ledere lo stomaco ed anche i polmoni. Approfittando del momento in cui quel disgraziato aveva riaperto gli occhi, Karroly gli disse: — Dov'è la tribù?… — Là… là… — mormorò l'indigeno, indicando con la mano in direzione dell'Est. — L'accampamento del quale abbiamo veduti i fuochi la notte scorsa — disse il Kaw-djer — deve essere a otto o dieci miglia di qui. Karroly assentì.

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— Sono appena le quattro — soggiunse il Kaw-djer — ma la marea sta per salire… Non potremo partire che all'alba… — Sì — disse Karroly. Il Kaw-djer riprese: — Tu e Halg trasporterete il ferito e lo stenderete nella barca. Non possiamo fare altro per lui. Karroly e il figlio obbedirono subito. Carichi del ferito, cominciarono a discendere verso la spiaggia. L'uno di essi doveva poi ritornare per prendere il giaguaro, la cui spoglia si sarebbe venduta a caro prezzo ai commercianti stranieri. Mentre i compagni eseguivano gli ordini ricevuti, il Kaw-djer si allontanò di qualche passo, salì sopra una delle rocce del dirupo, e di là il suo sguardo si irradiò sopra tutto l'orizzonte. Ai suoi piedi, si stendeva un litorale capricciosamente tracciato, che formava il limite nord di un canale largo parecchie leghe. La riva opposta, intersecata a perdita di vista da bracci di mare, sfumava, in linee confuse, una miriade di isole e isolotti che da lontano sembravano vapori. Né all'Est, né all'Ovest si vedevano le estremità del canale, lungo il quale correva l'alto e possente dirupo. Verso il Nord, si sviluppavano interminabili praterie e pianure, irrigate da numerosi ruscelli che riversavano le loro acque nel mare, sia in torrenti tumultuosi, sia in cascate rumoreggianti. Dalla superficie di tali sterminate praterie, emergevano qua e là isolotti di verzure. o folte foreste, fra cui, invano, si sarebbe cercato un villaggio, e le cui cime si indoravano ai raggi del sole morente. Più in là, si profilavano i pesanti massi d'una catena di montagne che limitavano l'orizzonte da quella parte, e che erano coronate dalla bianchezza immacolata dei ghiacciai. In direzione dell'Est, si accentuava anche di più il rilievo del paese. Il dirupo si alzava a piombo sul litorale, dapprima in piani susseguentisi, poi si rizzava improvvisamente in cime aguzze, che si sperdevano nelle altezze del cielo. La contrada pareva perfettamente deserta. La stessa solitudine anche sul canale. Non una barca in vista, fosse pure un canotto di scorza, o una piroga a vela. E infine, per quanto lontano si

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spingesse lo sguardo, né dalle isole del Sud, nè da nessun altro punto del litorale, né da alcuna altura del dirupo, non si innalzava una fumata, che testimoniasse la presenza di creature umane. Il giorno era giunto a quell'ora, sempre un poco malinconica, che precede immediatamente il crepuscolo. Grandi uccelli, in cerca del loro ricovero notturno, fendevano l'aria in stormi rumorosi. Il Kaw-djer, con le braccia incrociate, ritto sopra la roccia sulla quale era salito, stava immobile come statua. Ma un'estasi gli illuminava il volto, le palpebre gli battevano, e gli occhi rilucevano d'una specie di sacro entusiasmo; e intanto contemplava la prodigiosa distesa di terra e di mare, ultima particella del globo che non appartenesse ad alcuno, ultima regione che non fosse curva sotto il giogo delle leggi. Egli restò a lungo così, immerso nella luce, sferzato dalla brezza: poi aperse le braccia, le stese verso lo spazio, e un sospiro profondo gli gonfiò il petto, come se con una stretta avesse voluto abbracciare tutto l'infinito ed aspirarlo con un sospiro.

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II.

ESISTENZA MISTERIOSA.

I geografi designano col nome di Magellania l'insieme di isole e isolotti, raggruppati fra l'Atlantico e il Pacifico, alla punta Sud del continente americano. Le terre più australi di tale continente, vale a dire il territorio patagonese, prolungato dalle due vaste penisole del Re Guglielmo e di Brunswick, terminano con uno dei capi di quest'ultima, il capo Froward. Tutto ciò che è loro direttamente connesso, tutto ciò che ne è separato dallo stretto di Magellano, costituisce quel dominio, al quale fu giustamente dato il nome dell'illustre navigatore portoghese del secolo XVI. Conseguenza di tale disposizione geografica, fu che, fino al 1881, quella parte del Nuovo Mondo non era stata annessa ad alcun Stato civilizzato, neppure ai suoi più vicini, il Chili e la Repubblica Argentina, che si disputavano allora le pampas della Patagonia. La Magellania non apparteneva ad alcuno, e quindi vi si potevano formare colonie, conservanti la loro assoluta indipendenza. Questa contrada non è tuttavia di insignificante estensione, perchè sopra un'area di cinquantamila chilometri di superficie, comprende, oltre grande numero di altre isole di minore importanza, la Terra del Fuoco, la Terra della Desolazione, le isole Clarence, Hoste, Navarin, ed anche l'arcipelago del Capo Horn, formato dalle isole Grévy, Wollaston, Freycinet, Hermitte, e altri isolotti e scogli, coi quali termina, in piccoli frammenti, l'enorme massa del continente americano. Fra le varie parti della Magellania, la Terra del Fuoco è assai più vasta delle altre. Al Nord e all'Ovest, è limitata da un litorale molto frastagliato, dal promontorio d'Espiritu Santo

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fino al Magdalena Sund e, dopo essersi stesa verso l'Ovest in una penisola tutta sfaldata, si allunga, al Sud-Est, con la punta di San Diego, specie di sfinge accoccolata, la cui coda si tuffa nelle acque dello stretto di Lemaire. In questa grande isola, nell'aprile del 1880, avvennero i fatti che stanno per essere narrati. Il canale che scorreva ai piedi del Kaw-djer, durante la sua febbrile meditazione, si chiamava canale del Beagle, e scorreva a sud della Terra del Fuoco. L'opposta riva era formata dalle isole Gordon, Hoste, Navarin e Pieton. Ancora più a sud, si stendeva l'arcipelago capriccioso del Capo Horn. Circa dieci anni prima del giorno scelto come punto di partenza del presente racconto, colui che gl'Indiani dovevano chiamare, più tardi, il Kaw-djer, era stato veduto per la prima volta sul litorale fuegiano. Come vi era giunto? A bordo, senza dubbio, d'uno di quei numerosi velieri o steamers, che seguono le tortuosità del labirinto marittimo della Magellania e delle isole che la prolungano sull'Oceano Pacifico, facendo con gl'indigeni il commercio delle pelli di guanaco, di vigogna, di nandù e di lupi marini. La presenza dello straniero poteva adunque spiegarsi così; ma quanto a saperne il nome e a quale nazionalità appartenesse, se fosse originario dell'Antico o del Nuovo Mondo, erano domande alle quali riusciva difficile rispondere. Di lui non si sapeva nulla e conviene aggiungere del resto, che nessuno aveva mai cercato di informarsene. In quel paese, in cui non esisteva alcuna autorità, chi avrebbe potuto interrogarlo? Egli non si trovava in uno Stato organizzato, ove la Polizia fruga nel passato delle persone, e dove è impossibile restare ignorati a lungo. Qui, nessuno era depositario di un potere qualsiasi, e si poteva vivere fuori di ogni costumanza, fuori di tutte le leggi, nella più completa libertà. Durante i primi due anni che seguirono il suo arrivo nella Terra del Fuoco, il Kaw-djer non si curò di fissarsi in un punto piuttosto che nell'altro. Errando per la contrada, in corse vagabonde, si mise in rapporto con gl'Indigeni, ma senza mai

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avvicinare le poche fattorie, condotte, qua e là, da coloni di razza bianca. Se entrava in rapporti con una delle navi che si ancoravano in qualche punto dell'arcipelago, era. sempre intermediario un Fuegiano, e non aveva che l'unico scopo di rinnovare le sue munizioni e le sue sostanze farmaceutiche. Pagava le compere, sia a mezzo di scambio, sia in moneta spagnola o inglese, di cui non sembrava sprovvisto. Passava il resto del tempo, andando di tribù in tribù, d'accampamento in accampamento, e, al pari degli indigeni, viveva di caccia e di pesca, talvolta in mezzo alle famiglie del litorale, tal'altra fra le comunità interne, condividendo la loro ajupa o la tenda, curando gli ammalati, soccorrendo le vedove e gli orfani, adorato da quelle genti misere, che non tardarono a tributargli il glorioso soprannome, col quale era conosciuto da un capo all'altro dell'arcipelago. Che il Kaw-djer fosse un uomo istruito nessuno poteva dubitarne; egli aveva dovuto specialmente fare studi assai profondi in medicina. Conosceva anche parecchie lingue, e Francesi, Inglesi, Tedeschi, Spagnoli e Norvegesi avrebbero potuto scambiarlo per un loro compatriota: e al suo bagaglio da poliglotta, tale essere enigmatico non aveva tardato ad aggiungere anche l'yaghu, che parlava correntemente. Tale idioma è in grande uso nella Magellania, e di esso si sono serviti i Missionari per tradurre alcuni passaggi della Bibbia. Anziché essere inabitabile, come generalmente si crede, la Magellania è assai superiore alla riputazione che le hanno valso i racconti dei suoi primi esploratori. Sarebbe certo esagerazione trasformarla in paradiso terrestre, o contestare che la sua punta estrema, il capo Horn, non sia spazzata da tempeste, la cui frequenza è uguale al furore. Ma anche in Europa non fanno difetto regioni popolatissime, benché le condizioni d'esistenza vi siano molto più dure. Se il clima è umido al massimo grado, l'arcipelago, però, deve al mare che lo circonda una incontestabile regolarità di temperatura, e non soffre i freddi rigidi della Russia settentrionale, della Svezia e della Norvegia.

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La media termometrica non discende mai, in inverno, al disotto di cinque gradi centigradi, e non si alza, in estate, oltre i quindici. Il solo aspetto di tali isole avrebbe dovuto mettere in guardia contro certi apprezzamenti di pessimismo esagerato: la vegetazione vi raggiunge infatti un rigoglio che non sarebbe possibile nella zona glaciale. Vi esistono pascoli immensi, che basterebbero al nutrimento di mandrie innumeri, e vaste foreste ove crescono il faggio antiartico, la betulla, il larice rosso e la scorza di Winter. I nostri vegetali commestibili vi si acclimatizzerebbero indubbiamente, e molti fra essi, persino il frumento, potrebbero prosperarvi. Tuttavia, la contrada, che non è inabitabile, è quasi inabitata. La popolazione non comprende che un numero esiguo d'Indiani, conosciuti sotto il nome di Fuegiani o di Pescherecci, neri selvaggi relegati all'ultimo stadio dell'umanità, che vivono quasi completamente nudi e conducono, attraverso le vaste solitudini, vita errante e miserevole. Molto tempo prima dell'inizio del presente racconto, il Chili, fondando la stazione di Punta-Arenas, nello stretto di Magellano, sembrava volersi qualche poco occupare di tali regioni sconosciute. Ma il suo sforzo si era limitato lì, e, nonostante la prosperità della sua colonia, non aveva fatto nessun tentativo per prendere piede sull'arcipelago magellanico propriamente detto. Durante i primi tempi del suo soggiorno, due anni circa, il Kaw-djer non lasciò mai la grande isola in cui era sbarcato. La fiducia che inspirava agli indigeni, la sua influenza sulle loro tribù, non tardarono ad aumentare. Venivano per consultarlo dalle altre isole, percorse da Indiani Canoes, o Indiani a piroga, la cui razza è un po' differente da quella degli Yacanas che popolano la Terra del Fuoco, Quei miseri Pescherecci, che vivono come i loro confratelli di caccia e di pesca, si recavano essi dal loro «Benefattore», quando egli era ancora sul litorale del canale del Beagle. Il Kaw-djer non rifiutava a nessuno consigli e cure, e spesso anche, in talune circostanze gravi,

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quando infieriva qualche epidemia, arrischiò la vita senza mercanteggiarla, per combattere il flagello. La sua fama si sparse tosto in tutta la regione, ed oltrepassò lo stretto di Magellania. Si seppe che uno straniero, stabilitosi nella Terra del Fuoco, aveva ricevuto dagli Indigeni riconoscenti, il titolo di Kaw-djer, ed egli fu sollecitato a più riprese, d'andare a Punta-Arenas. Ma rispose invariabilmente con un rifiuto, sul quale non poté trionfare nessuna pressione. Sembrava che non volesse rimettere piede dove non sentiva più terreno libero. Verso la fine del secondo anno di soggiorno, accadde un fatto, le cui conseguenze dovevano avere una influenza sulla sua vita ulteriore. Se il Kaw-djer si ostinava a non andare alla borgata chilena di Punta-Arenas, che è situata nel territorio della Patagonia, i Patagonesi non stanno dall'invadere talvolta il territorio magellanico. Essi e i loro cavalli, trasportati in poche ore sulla riva Sud dello stretto di Magellano, compiono lunghe escursioni, ciò che in America si chiamano grandi raids, da una estremità all'altra della Terra del Fuoco, attaccando i Fuegiani, imponendo taglie, saccheggiando, impossessandosi dei fanciulli che conducono poi in schiavitù nelle tribù patagonesi. Fra i Patagonesi Snelti e i Fuegiani, esistono differenze etniche assai sensibili nei rapporti della razza e dei costumi, essendo i primi assai più temibili dei secondi. Questi vivono di pesce e non si riuniscono che in famiglie, mentre i Patagonesi sono cacciatori e formano tribù compatte, sotto l'autorità d'un capo. Inoltre, fisicamente i Fuegiani sono di statura inferiore ai loro vicini del continente. Si riconoscono dalla grossa testa quadra, dagli zigomi sporgenti, dalle sopracciglia rade, dalla depressione del cranio. Insomma sono considerati esseri piuttosto miserevoli, la cui razza però non è prossima a estinguersi, perchè il numero dei loro bambini è, si potrebbe dire, considerevole quanto quello dei cani che brulicano intorno agli accampamenti. I Patagonesi sono alti, robusti e ben proporzionati. Non hanno barba e lasciano liberi i lunghi capelli, che trattengono sulla

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fronte con un nastro. Il viso olivastro è più largo alle mascelle che non alle tempie, gli occhi, un poco lunghi, si avvicinano piuttosto al tipo mongolo e da una parte e dall'altra del naso assai camuso, brillano nel fondo di orbite profonde. Cavalieri intrepidi e infaticabili, abbisognano di vasti spazi da divorare sopra le loro non meno infaticabili cavalcature; pascoli immensi per il nutrimento dei cavalli, terreni di caccia dove inseguire il guanaco, la vigogna e il nandù. Il Kaw-djer li aveva incontrati parecchie volte durante le loro escursioni sulla Terra del Fuoco, ma fino allora non si era messo mai in contatto con tali feroci predoni, che il Chili e l'Argentina sono impotenti a contenere. Nel novembre del 1872, egli, condotto dalle sue peregrinazioni sulla costa ovest della Fuegia, nelle adiacenze dello stretto di Magellano, dovette intervenire per la prima volta contro di essi, in favore dei Pescherecci della baia Inutile. La baia, limitata da paludi al Nord, forma una profonda frastagliatura, quasi in faccia alla località dove Sarmiento aveva fondato la sua colonia di Port-Famine, di sinistra memoria. Un manipolo di Snelti, dopo essere sbarcato sulla riva Sud della baia Inutile, attaccò un accampamento di Yacanas, composto da una ventina di famiglie. La superiorità numerica stava dalla parte degli assalitori, che erano anche più robusti e meglio armati degli indigeni. Costoro tuttavia tentarono di lottare, sotto il comando di un Indiano Canoe, che era giunto all'accampamento con la sua piroga. Egli aveva nome Karroly, era pilota di professione e guidava i bastimenti di cabotaggio che si avventuravano nel canale del Beagle e fra le isole dell'arcipelago del capo Horn, ed appunto, ritornando dall'avere condotta una nave a Punta-Arenas, si era ancorato nella baia Inutile. Karroly organizzò la resistenza e, aiutato dagli Yacanas, tentò di respingere gli aggressori. Ma la partita era troppo ineguale. I Pescherecci non potevano opporre seria difesa.

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L'accampamento fu invaso, le tende rovesciate, il sangue colò. Le famiglie vennero disperse. Durante tutta la lotta, il figlio di Karroly, Halg, che aveva allora nove anni circa, era rimasto nella piroga, aspettando il padre, quando due Patagonesi si precipitarono dalla sua parte.

Il giovinetto non volle allontanarsi dalla spiaggia, cosa che lo avrebbe messo fuori di pericolo, ma che avrebbe anche impedito al padre di cercar rifugio a bordo della piroga.

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Uno dei due Snelti saltò nella barca, e lo afferrò. In quel momento Karroly fuggiva dall'accampamento, del quale gli aggressori si erano impossessati, e correva in aiuto del figlio che lo Snelto rapiva. Intanto, una freccia lanciata dall'altro Patogonese gli fischiava all'orecchio senza sfiorarlo. Ma prima che un'altra freccia fosse lanciata, risuonò lo sparo di un'arma da fuoco. Il rapitore cadde ferito mortalmente, mentre il compagno si dava alla fuga. La fucilata proveniva da un uomo di razza bianca, che il caso aveva guidato sul luogo del combattimento, il Kaw-djer. Non c'era tempo da perdere. La piroga fu vigorosamente attirata per la gomena. Il Kaw-djer e Karroly saltarono a bordo e si spinsero al largo. Essi erano già a buona distanza dalla riva, quando vennero ricoperti da un nugolo di frecce, una delle quali colpì Halg alla spalla. La ferita presentava una certa gravità, e il Kaw-djer non volle lasciare i compagni, finché le sue cure non dovessero più essere necessarie. Per cui rimase nella piroga che girò intorno alla Terra del Fuoco, seguì il canale del Beagle, e si fermò, infine, in una piccola insenatura ben riparata, ove Karroly aveva fissata la sua residenza. Allora, non ci fu più nulla da temere per il giovanetto, che appariva già in via di guarigione. Karroly non sapeva in qual modo esprimere la sua riconoscenza. L'Indiano, dopo aver ancorato la sua piroga in fondo a quella insenatura, pregò il Kaw-djer di seguirlo. — La mia casa è là — gli disse — ed io vi abito con mio figlio. Se tu ci vuoi restare solo pochi giorni, sarai il benvenuto, poi la mia piroga ti ricondurrà dall'altra parte del canale. Se tu vuoi restare sempre, la mia casa sarà la tua, ed io diverrò il tuo servo. Da quel giorno, il Kaw-djer non aveva più lasciato l'Isola Nuova, ne Karroly, né suo figlio. Grazie a lui, la casa dell'Indiano Canoe era divenuta più comoda, e Karroly fu presto in caso di esercitare il suo mestiere di pilota in condizioni migliori. Alla sua fragile piroga venne sostituita una

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solida scialuppa, la Wel-Kiej, comperata in seguito al naufragio d'una nave norvegese, nella quale era stato deposto l'uomo ferito dal giaguaro. Ma la nuova esistenza del Kaw-djer non lo distolse dalla sua opera umanitaria. Non furono soppresse le sue visite alle famiglie indigene, ed egli continuò a correre ovunque ci fosse un servizio da rendere, o un dolore da confortare. Trascorsero così parecchi anni, e tutto induceva a credere che il Kaw-djer avrebbe sempre continuato la sua vita libera in quella terra libera, quando un avvenimento imprevisto ne turbò profondamente il corso.

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III.

LA FINE DI UN PAESE LIBERO.

L'Isola Nuova domina dall'Est l'entrata del canale del Beagle. Lunga otto chilometri, larga quattro, ha quasi la forma di un pentagono irregolare. Non vi mancano le piante, e più particolarmente il faggio, il frassino, la scorza di Winter, le piante mirtacee e qualche cipresso di media altezza. Alla superficie delle praterie, crescono, molto stentatamente, agrifogli, larici e felci. In alcune località protette, si trova terreno fertile, adatto alla coltivazione dei legumi. In altre invece, nelle quali l'humus esiste in strati insufficenti, e più specialmente dove cominciano le spiagge, la natura si è ornata di tappeti di licheni, di muschi, di licopodi. In tale isola, contro a un alto dirupo, di fronte al mare, l'indiano Karroly abitava da dieci anni. Non avrebbe potuto scegliere posizione migliore. Tutte le navi, uscendo dallo stretto di Lemaire, passano in vista dell'Isola Nuova. Se vogliono raggiungere l'Oceano Pacifico superando il capo Horn, non hanno bisogno di nessuno. Ma se, desiderosi di trafficare attraverso l'arcipelago, ne vogliono seguire i vari canali, un pilota è loro indispensabile. Tuttavia, le navi che frequentano i paraggi della Magellania sono relativamente rare, e non sarebbero bastate ad assicurare l'esistenza di Karroly e di suo figlio. Si dedicava quindi alla pesca e alla caccia, onde procurarsi oggetti di scambio, che barattava con articoli di prima necessità. L'isola, di dimensioni limitate, non poteva rinchiudere che un numero ristretto di guanachi e di vigogne, la cui pelliccia è ricercata; ma nei dintorni vi sono altre isole di estensione maggiormente considerevole: Navarin, Hoste, Wollaston,

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Dawson, senza parlare della Terra del Fuoco, con le pianure immense e le foreste profonde, dove non mancano né ruminanti, né bestie feroci.

Karroly aveva vissuto nei primi tempi dentro una grotta naturale, scavata nel granito, sempre preferibile però alla capanna degli Yacanas; ma dopo l'arrivo del Kaw-djer la grotta aveva ceduto il posto a una casa, per la quale le foreste dell'isola avevano fornito il legname, le rocce le pietre, e le

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miriadi di conchiglie, tritoni, liocorni ed altre, disseminate sulla spiaggia, la calce. Nell'interno della casa tre stanze: in mezzo la sala comune con un grande camino, a destra la camera di Karroly e del figlio, a sinistra quella del Kaw-djer, il quale ritrovava là, disposti sopra scaffali, le sue carte e i suoi libri, opere quasi tutte di medicina, d'economia politica, e di sociologia. Un armadio conteneva l'assortimento delle fiale e degli istrumenti chirurgici. In quella casa, il Kaw-djer e i suoi due compagni ritornarono dopo l'escursione nella Terra del Fuoco, il cui episodio finale ha servito di tema alle prime righe della presente narrazione. La Wel-Kiej, però, si era diretta prima verso l'accampamento situato all'estremità occidentale del canale del Beagle. Intorno alle capanne, raggruppate capricciosamente sulla riva d'un ruscello, correvano innumerevoli cani, che, abbaiando, annunziavano l'arrivo della scialuppa. Lievi nuvole di fumo sfuggivano dal tetto di qualche ajupa. Non appena la Wel-Kiej fu segnalata, apparve una sessantina fra uomini e donne, che si riversarono verso la riva, seguiti da una folla di bambini nudi e quando il Kaw-djer pose piede a terra, lo circondarono premurosamente. Tutti volevano stringergli le mani, e 1'accoglienza dei poveri Indiani testimoniava la loro ardente gratitudine per tutto il bene che avevano ricevuto da lui. Egli ascoltò pazientemente gli uni e gli altri. Le madri lo conducevano dai loro figli ammalati, e lo ringraziavano con effusione, già mezzo confortate dalla sua sola presenza. Finalmente entrò in una capanna per uscirne subito seguito da due donne: una attempata, l'altra giovanissima, che conduceva a mano un bambino. Erano la madre, la moglie e il figlio dell'Indiano ferito dal giaguaro, già morto durante il tragitto, malgrado le cure prodigategli. Il suo cadavere fu deposto sulla spiaggia e tutti gli indigeni dell'accampamento lo circondarono. Il Kaw-djer raccontò allora le circostanze della morte, poi ritornò alla scialuppa, lasciando generosamente alla vedova la spoglia del giaguaro, la

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cui pelle, per quelle povere creature diseredate, rappresentava un valore immenso. Con la stagione invernale che si avvicinava, la vita riprese il suo corso abituale nella casa dell'Isola Nuova. Ricevettero la visita di alcuni cabottieri falklandesi, venuti per fare acquisti di pelliccerie, prima che le tormente di neve avessero reso impraticabili i paraggi. Le pelli vennero vendute o scambiate vantaggiosamente con provvigioni o munizioni, necessarie durante il periodo rigido che va da giugno a settembre. Nell'ultima settimana di maggio una nave richiese il servizio di Karroly, e Halg e il Kaw-djer rimasero soli all'Isola Nuova. Il giovinetto, che contava allora diciotto anni, aveva un affetto veramente filiale per il Kaw-djer, il quale da parte sua nutriva per lui i sentimenti di un padre. Egli si era sforzato di sviluppare l'intelligenza del fanciullo, per poi toglierlo allo stato selvaggio, e farne un essere assai diverso dai suoi compatrioti della Magellania, così al di fuori da ogni civilizzazione. Ai primi di giugno, l'inverno si stese sulla Magellania, e se il freddo non fu eccessivo, tutta la regione però venne spazzata da grandi raffiche. Tormente terribili imperversarono sopra quei paraggi, e l'Isola Nuova scomparve, coperta dalla massa delle nevi. Così trascorsero giugno, luglio, agosto. Verso la metà di settembre la temperatura si addolcì sensibilmente, e i cabottieri delle Falkland ricominciarono ad apparire sul canale. Il 19 settembre Karroly, lasciando all'Isola Nuova Halg e il Kaw-djer, partì a bordo d'uno steamer americano che aveva imbeccato il canale del Beagle, e che portava bandiera di pilota all'albero di trinchetto. Quando l'Indiano ritornò sulla sua scialuppa, il Kaw-djer gli chiese conto, come il solito, dei diversi incidenti del viaggio. — Non è accaduto niente — rispose Karroly. — Il mare era tranquillo e la brezza favorevole. — Dove lasciasti la nave?

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— Al Darwin Sund, alla punta dell'isola Stewart, dove ci siamo incrociati con un aviso che navigava in senso inverso. — Dove andava? — Alla Terra del Fuoco. Ritornando, l'ho ritrovato ancorato in una insenatura, dove aveva sbarcato un distaccamento di soldati. — Di soldati?… — esclamò il Kaw-djer. — Di quale nazionalità? — Chileni e Argentini. — E cosa facevano? — Secondo quello che mi hanno detto, accompagnavano due commissari in ricognizione nella Terra del Fuoco e nelle isole vicine. — Di dove venivano i commissari? — Da Punta-Arenas, ove il governatore aveva messo l'aviso a loro disposizione. Il Kaw-djer non fece altre domande e restò pensieroso. Che significava la presenza dei due commissari? Di quali operazioni si occupavano in tale parte della Magellania? Si trattava di esplorazioni geografiche, con lo scopo di precedere, per un interesse marittimo, ad una verifica più minuziosa dei rilievi? Il Kaw-djer si immerse nelle sue riflessioni, e non poteva togliersi di dosso una certa inquietudine. La ricognizione non poteva estendersi a tutto l'arcipelago magellanico? L'aviso sarebbe venuto ad ancorarsi fino nelle acque dell'Isola Nuova? Ma l'importanza reale della notizia stava nel fatto che la spedizione era inviata dai governi del Chili e dell'Argentina. Le due Repubbliche, che, fino allora, non avevano mai potuto intendersi, a proposito, di una regione sulla quale tutt'e due pretendevano, a torto del resto, di avere qualche diritto, si erano messe forse d'accordo? Dopo lo scambio di queste brevi domande e risposte, il Kaw-djer raggiunse la punta del picco, sul quale era fabbricata la casa. Di là, gli appariva una vasta distesa di mare, e i suoi sguardi si volsero istintivamente al Sud, nella direzione delle

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ultime cime della terra americana, che costituivano l'arcipelago del capo Horn. Avrebbe dovuto andar fin là, per trovare una terra libera?… E forse più lontano ancora?… Oltrepassava col pensiero il Circolo Polare, si perdeva attraverso le immense regioni dell'Antartico, il cui mistero impenetrabile sfida i più intrepidi esploratori… Come sarebbe stato grande il suo dolore, se avesse saputo a che punto erano giustificati i suoi timori! Il «Gracias a Dios» aviso della marina chilena, trasportava a bordo i due commissari, il signor Idiaste per il Chili, il signor Herrera per la Repubblica Argentina, i quali, per ordine dei rispettivi governi, dovevano preparare la divisione della Magellania fra i due Stati che ne reclamavano il possesso. Tale questione, che si trascinava da molto tempo, aveva causato discussioni interminabili, senza che fosse stato possibile risolverla con reciproca soddisfazione. Non soltanto dal punto di vista commerciale, ma altresì dal punto di vista politico, era tanto più necessario che fosse risolta, perchè l'assorbente Inghilterra, non stava lontana. Dal suo arcipelago di Falkland poteva stendere comodamente la mano fino alla Magellania. Già i suoi cabottieri ne frequentavano assiduamente i passi, e i missionari non cessavano di accrescere la loro influenza sulle popolazioni fuegiane. Un bel giorno, essa avrebbe piantato la sua bandiera in qualche posto, e nulla è più difficile che sradicare una bandiera inglese! Era tempo d'agire! I signori Idiaste e Herrera ritornavano uno a Santiago e l'altro a Buenos Ayres. Un mese dopo, il 17 gennaio 1881, un trattato firmato fra le due Repubbliche, in questa ultima città, mise fine all'irritante problema magellanico. In forza di tale trattato, la Patagonia era annessa alla Repubblica Argentina, ad eccezione dì un territorio limitato tra il 52° grado di latitudine, e il 70° meridiano Ovest di Greenwich. In compenso di quanto gli era attribuito, il Chili rinunziava da parte sua, all'Isola degli Stati e alla parte della

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Terra del Fuoco, posta all'est del 68° grado di longitudine. Tutte le altre isole, senza eccezione, appartenevano al Chili. Tale convenzione, che determinava i diritti dei due Stati, privava la Magellania della sua indipendenza. Cos'avrebbe fatto il Kaw-djer, il cui piede doveva ormai calpestare un suolo divenuto chileno?

Karroly, ritornando da un servizio di pilotaggio, portò all'Isola Nuova la notizia del trattato, il 25 febbraio. Il Kaw-djer non poté trattenere un movimento di collera. Non gli sfuggì una sola parola, ma gli occhi gli lampeggiarono di

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odio e la sua mano si stese verso il Nord con un gesto terribile e minaccioso. Incapace di padroneggiare la sua agitazione, mosse qualche passo disordinato. Si sarebbe detto che la terra gli sfuggisse sotto i piedi, che non gli offrisse più un punto d'appoggio sufficiente. Giunse infine a calmarsi. Il viso, convulso per un istante, riprese la freddezza abituale. Raggiunse Karroly e l'interrogò con voce tranquilla: — La notizia è sicura? — Sì, — rispose l'Indiano. — L'ho saputa a Punta-Arenas. Sembra che due bandiere siano issate all'entrata dello stretto sulla Terra del Fuoco: una chilena al capo Orange, l'altra argentina al capo Espiritu Santo. — E — chiese il Kaw-djer — tutte le isole a sud del canale del Beagle, dipendono dal Chili? — Tutte. — Anche l'Isola Nuova? — Sì. — Doveva accadere così — mormorò il Kaw-djer, con voce alterata da violenta emozione. Poi tornò a casa e si rinchiuse in camera sua. Chi era mai quest'uomo? Quali motivi l'avevano costretto ad abbandonare l'uno o l'altro continente per seppellirsi nella solitudine della Magellania? Perché per lui l'umanità sembrava essersi ridotta a poche tribù fuegiane, alle quali consacrava tutta l'esistenza e la devozione? Gli avvenimenti che stavano per accadere, e che formeranno l'argomento della nostra narrazione, si incaricheranno di informare sul primo punto. Alle altre due domande, la vita antecedente del Kaw-djer permette una risposta molto succinta. Uomo di grande valore, per avere profondamente sviscerate tanto le scienze politiche quanto le scienze naturali, uomo di coraggio e di azione, il Kaw-djer non era il primo scienziato che avesse commesso il doppio errore di considerare certi principi, i quali, dopo tutto, non sono che ipotesi, e di spingere quei principi fino alle loro estreme conseguenze. Il nome di

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alcuni fra tali temibili riformatori è ben vivo nella memoria di tutti. Il socialismo, dottrina che pretende, nientemeno, di rifare la società da capo a fondo, non ha il merito della novità. Dopo molti altri, che si perdono nella notte dei tempi, Saint-Simon, Fourier, Proudhon e molti altri, sono i precursori del collettivismo. Ideologi più moderni quali i Lassalle, i Marx, i Guesde, i Burns, non hanno fatto che riprendere le loro idee, modificandole più o meno, e appoggiandole sulla socializzazione dei mezzi di produzione, l'annientamento del capitale, l'abolizione della concorrenza, la sostituzione della proprietà sociale alla proprietà individuale. Nessuno, fra essi, vuole tener conto delle contingenze della vita. La loro dottrina reclama applicazione immediata e totale. Esigono l'espropriazione in massa, impongono il comunismo universale. Che si approvi o che si biasimi tale teoria, il meno che se ne possa dire è che essa è audace. Ma un'altra ce n'è più audace ancora: la teoria anarchica. Gli anarchici respingono i regolamenti tirannici che dovrebbero governare il funzionamento della società. Preconizzano invece l'individualismo assoluto, integrale. Essi vogliono la soppressione di ogni autorità, la distruzione di ogni vincolo sociale. Fra questi ultimi, si doveva porre il Kaw-djer, anima selvaggia, indomabile, intransigente, incapace di obbedienza, refrattaria a tutte le leggi, che sono senza dubbio imperfette, con le quali gli uomini tentano regolare i rapporti sociali. Certo, egli non aveva mai preso parte attiva alle violenze dei propagandisti di fatto. Non scacciato, né dalla Francia, né dalla Germania, né dall'Inghilterra o dagli Stati Uniti, ma disgustato dalla loro pretesa civilizzazione e bisognoso di scuotere il peso di un'autorità, qualunque essa fosse, aveva cercato un cantuccio della Terra ove un uomo potesse vivere in completa indipendenza. Ritenne averlo trovato in mezzo all'arcipelago dell'ultimo lembo del mondo abitato e, certo, quello che gli offriva la

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Magellania, all'estremità del Sud-America, egli non avrebbe mai trovato in altra plaga della terra. Ecco che ora il trattato stipulato fra il Chili e la Repubblica Argentina toglieva alla regione l'indipendenza di cui aveva fino allora goduto. Ecco che, in seguito a quel trattato, tutta la porzione del territorio magellanico, situata a sud del canale del Beagle passava sotto la dominazione chilena. Nessuna parte dell'arcipelago poteva sfuggire alla autorità del governo di Punta-Arenas, neppure l'Isola Nuova, dove il Kaw-djer aveva trovato asilo. Fuggire così lontano, aver fatti tanti sforzi, essersi imposta simile esistenza, per giungere a quel risultato, era ben doloroso! Il Kaw-djer non poté rimettersi subito dal colpo che lo percoteva, come il fulmine l'albero vigoroso che scrolla fino alle radici. Il suo pensiero lo trascinava verso l'avvenire, un avvenire senza sicurezza. Nell'isola, ove si sapeva che egli si era stabilito, poteva venire ora qualche agente del governo. Parecchie volte, non lo ignorava, si erano preoccupati della presenza d'uno straniero in Magellania, dei suoi rapporti con gli indigeni, dell'influenza che esercitava. Adesso il governatore chileno lo avrebbe interrogato per sapere chi fosse, per indagare nella sua vita, per obbligarlo a rompere l'incognito, che, sopratutto, tanto gli premeva. Trascorse qualche giorno. Il Kaw-djer non aveva più parlato del cambiamento portato dal trattato di suddivisione, ma era sempre più tetro. Che meditava? Pensava di lasciare l'Isola Nuova, di separarsi dal suo Indiano fedele, dal giovinetto per il quale provava un affetto tanto profondo. Dove sarebbe andato? In quale altro angolo del mondo avrebbe ritrovata l'indipendenza, senza cui pareva non potesse vivere? Rifugiandosi anche sopra le ultime rocce magellaniche, fosse pure nell'isolotto del capo Horn, sarebbe sfuggito all'autorità chilena?… Si era al principio di marzo. La bella stagione doveva durare ancora poco più di un mese; la stagione che il Kaw-djer

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riserbava per le sue visite agli accampamenti fuegiani, prima che il freddo rendesse impraticabile il mare, e tuttavia non si disponeva ad imbarcarsi sulla scialuppa. La Wel-Kiej, disarmata, giaceva nel fondo dell'insenatura. Ma nel pomeriggio del 7 marzo egli disse a Karroly: — Preparerai la scialuppa per domani all'alba. — Un viaggio di parecchi giorni? — chiese l'indiano. — Sì. Il Kaw-djer si era deciso a ritornare in mezzo alle tribù fuegiane? Avrebbe rimesso il piede su quella Terra del Fuoco, divenuta argentina o chilena?… — Halg deve accompagnarci? — domandò Karroly. — Sì. — E il cane? — Anche Zol. La Wel-Kiej partì all'alba. Il vento soffiava dall'Est e ai piedi del picco un risucchio piuttosto forte sbatteva contro le rocce. Nella direzione del Nord, il mare, al largo, si sollevava in lunghe ondate. Se l'intenzione del Kaw-djer fosse stata di costeggiare la Terra del Fuoco, la scialuppa avrebbe dovuto lottare contro le onde, perchè la brezza aumentava mano mano che si alzava il sole. Ma non si trattava di ciò. Ad un suo ordine, dopo aver seguito la base dell'Isola Nuova, volsero verso l'Isola Navarin, la cui doppia cima si perdeva vagamente nelle nebbie mattinali dell'Ovest. E alla punta sud di quell'isola, una delle mediane nell'arcipelago magellanico, la Wel-Kiej approdò prima del tramonto del sole, in una piccola insenatura molto a picco, nella quale, durante la notte, doveva ritenersi sicura. L'indomani, la scialuppa, tagliando obliquamente la baia di Nassau, volse la prua verso l'isola Wollaston, dove si ancorò la sera stessa. Il tempo diventava cattivo; il vento era più freddo, perchè spirava dal Nord-Est. All'orizzonte si ammassavano dense nubi. La tempesta si approssimava.

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La scialuppa, per seguire le istruzioni del Kaw-djer, doveva proseguire verso il Sud, ma bisognava scegliere passi dove il mare fosse meno pericoloso; cosa che fecero lasciando l'isola Wollaston; Karroly girò intorno alla parte occidentale, in modo da portarsi nello stretto che separa l'isola Hermitte dall'isola Herschell. Quale meta si era prefissa il Kaw-djer? Quando avesse raggiunto gli ultimi limiti della Terra e fosse arrivato al Capo Horn, non vedendo dinanzi a sé che l'immenso Oceano, che avrebbe fatto?… La scialuppa, nel pomeriggio del 15 marzo, approdò all'estremità dell'arcipelago, non senza avere corso il maggior pericolo in mezzo a un mare agitatissimo. Il Kaw-djer sbarcò subito e, senza nulla dire delle sue intenzioni, rimandò il cane che voleva seguirlo, lasciò Karroly e Halg sulla spiaggia e si diresse verso il capo. L'isola di Horn non è che un agglomeramento caotico di rocce enormi, la cui base è cosparsa di rottami e gigantesche laminarie, trasportate dalle correnti. Più in là, numerose punte di scogli rompono con centinaia di macchie nere la bianchezza nevosa deh risucchio. Si sale, piuttosto facilmente, alla cima poco alta del capo, dal suo versante settentrionale, in pendii dolci, sui quali si trova qualche zolla di terra coltivabile, e il Kaw-djer ne compiva l'ascesa. Che andava a fare lassù?… Voleva fissare i suoi sguardi fino ai limiti dell'orizzonte del Sud?… Ma cosa vi poteva scoprire, se non l'immenso specchio del mare? La tempesta raggiungeva, ora, il parossismo, e mano mano che saliva lo investiva il vento sempre più infuriato. Talvolta, doveva irrigidirsi, per non venire travolto… Spruzzi d'acqua, lanciati con violenza, gli sferzavano il viso, e Halg e Karroly dal basso vedevano la sua ombra rimpicciolire gradatamente. E vedevano anche la lotta che egli sosteneva contro la bufera.

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L'ascesa penosa durò quasi un'ora. Giunto al culmine, il Kaw-djer si inoltrò fino all'orlo del dirupo e là, ritto in mezzo alla tormenta, restò immobile, con lo sguardo rivolto al Sud. La notte cominciava a calare dalla parte dell'Est, ma l'orizzonte opposto si illuminava ancora delle ultime luci del sole. Grosse nubi, scapigliate dal vento, piccoli vapori trascinantisi sulle onde, passavano con rapidità di uragano. Ovunque, null'altro che il mare. Ma, infine, cos'era andato a fare lassù quell'uomo dall'anima tanto turbata? Aveva una mèta, una speranza? Oppure, giunto al limite della Terra, trattenuto dall'impossibile, sentiva soltanto la sete del gran riposo della morte?… L'ora trascorse e l'oscurità si fece completa. Tutte le cose scomparvero inghiottite dalle tenebre. Venne la notte… All'improvviso, un lampo brillò debolmente nello spazio, una detonazione venne a morire sulla spiaggia. Il colpo di cannone d'una nave in pericolo!

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IV.

SULLA COSTA.

Erano allora le otto di sera. Il vento, che soffiava già da un pezzo dal Sud-Est, batteva obliquamente la costa con violenza furiosa, e una nave non avrebbe potuto oltrepassare la punta estrema dell'America, senza correre il rischio di affondare. La detonazione aveva dunque rivelato la presenza di un bastimento che correva tale pericolo. Impotente, senza dubbio, a sostenersi fra le raffiche furiose, e a mantenere sia pure una vela, esso era inesorabilmente perduto fra gli scogli. Una mezz'ora dopo il Kaw-djer non era più solo sulla cima dell'isolotto. Alla detonazione, l'Indiano e suo figlio, aggrappandosi, per abbreviare la scalata alle rocce del capo, ai cespugli germogliati nelle fenditure, l'avevano raggiunto. Risuonò un secondo colpo di cannone. In simili paraggi deserti, con quel tempo indiavolato, quale aiuto sperava la nave disgraziata? — È ad ovest — disse Karroly. — E avanza con le vele a tribordo — approvò il Kaw-djer — perchè dopo il primo colpo di cannone si è avvicinata al capo. — E non lo supererà — affermò Karroly. — No — rispose il Kaw-djer — il mare è troppo cattivo… Ma perchè non si ancora al largo?… — Forse non potrà farlo. — È possibile, ma forse, anche, perchè non ha scorto la terra… Bisogna indicargliela… Un fuoco, accendiamo un fuoco! — esclamò il Kaw-djer. Si affrettarono febbrilmente a riunire bracciate di frondami secchi, strappati dagli arbusti che crescevano sui fianchi del promontorio, lunghe erbe e rifiuti marini ammassati dal vento

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nelle cavità tortuose, ed accumularono il combustibile sopra la sommità della enorme roccia.

Il Kaw-djer batté l'acciarino. Il fuoco si comunicò all'esca, poi ai fuscelli, poi, animato dal vento, non tardò a raggiungere l'intero focolare. In meno di un minuto, dal poggio, s'alzò una colonna di fiamme, che si contorse proiettando una luce immensa, mentre il fumo fuggiva verso il Nord in dense

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nuvole. Ora al muggito della tempesta si aggiungeva il crepitìo furioso della legna, i cui nodi scoppiavano come cartucce. Il capo Horn è indicatissimo per portare un faro che potrebbe rischiarare il limite comune ai due oceani. La sicurezza della navigazione lo esige, e, certamente, il numero delle disgrazie, così frequenti in tali paraggi, verrebbe diminuito. Senz'alcun dubbio, in mancanza di faro, il fuoco acceso dalla mano del Kaw-djer doveva essere stato veduto. Il capitano della nave, in ogni modo, non poteva ignorare di trovarsi in prossimità del capo, e aiutato dal fuoco che gliene indicava la posizione esatta, gli sarebbe stato possibile cercar salvezza, gettandosi sotto il vento nei passi dell'isola Horn. Ma quali pericoli spaventosi in tale manovra, in mezzo all'oscurità così profonda! Se a bordo non c'era una persona pratica, quanta poca probabilità di potersi guidare in mezzo a tanti scogli! Intanto il fuoco continuava a proiettare la sua luce nella notte. Halg e Karroly non cessavano d'alimentarlo: il combustibile non mancava, e in caso di bisogno poteva durare fino al mattino. Il Kaw-djer, ritto davanti alla catasta ardente, tentava, inutilmente, di rilevare la posizione del bastimento, quando ad un tratto, da un piccolo squarcio fra le nubi, la luna illuminò lo spazio, e per un attimo si poté scorgere un bastimento a quattro alberi, la cui chiglia nera sì. delineava sopra la schiuma delle onde. La nave che avanzava verso l'Est, lottava infatti penosamente contro il vento e contro il mare. Nello stesso momento, fra uno di quei silenzi che separano due raffiche, si udirono alcuni sinistri scricchiolii. I due alberi di poppa si erano spezzati fino alla base. — È perduto! — esclamò Karroly. — A bordo! — ordinò il Kaw-djer. In pochi minuti, tutti e tre, non senza rischio, scendendo dalla scarpata del capo, raggiunsero la spiaggia. Col cane alle calcagna, si imbarcarono sulla scialuppa, che uscì

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dall'insenatura. Halg stava al timone, il Kaw-dier e Karroly ai remi, perchè non era possibile stendere la più piccola vela. Benché i remi fossero maneggiati da due braccia robuste, la Wel-Kiej durò fatica a liberarsi dagli scogli, contro i quali l'onda si spezzava furiosamente. Il mare era agitatissimo. La scialuppa, sbattuta fino a smembrarsi, balzava, rovesciandosi da un fianco all'altro, talvolta si inalberava, come dicono i marinai, con tutta la prua fuori d'acqua, per ricadere poi pesantemente. Enormi masse d'acqua naviganti, si spezzavano come docce sulla tolda e scorrevano fino a poppa, così che la barca, gravata da quel peso, arrischiava di sommergersi; allora bisognava che Halg abbandonasse il timone, per buttar via l'acqua con la pala. Ciò malgrado, la Wel-Kiej si avvicinava alla nave, della quale si distinguevano i fuochi di posizione. Se ne scorgeva la massa che beccheggiava come un pezzo di sughero gigantesco, più nera del mare, più nera del cielo. I due alberi spezzati, trattenuti dalle sartie, navigavano dietro ad essa, mentre l'albero maestro e quello di trinchetto descrivevano archi a semicerchio, rompendo la nebbia. — Ma che fa dunque il capitano? — esclamò il Kaw-djer. — Perchè non si libera da tutta quell'alberatura? Non è possibile trascinare simili appendici attraverso passi così pericolosi! Era urgente, infatti, tagliare i legami che trattenevano gli alberi stroncati; ma la nave si trovava, senza dubbio, in completo disordine. Forse anche mancava il capitano, cosa che si doveva supporre, constatando l'assenza di ogni manovra in una situazione così critica, Tuttavia l'equipaggio non poteva più ignorare che la nave si era troppo accostata a terra e che non avrebbe tardato a restarvi fracassata. Il falò, acceso alla sommità del capo Horn, gettava ancora bagliori che si sbizzarrivano come tentacoli smisurati, quando il braciere, veniva rianimato dal soffio della tormenta. — Non c'è forse più nessuno a bordo! — disse l'Indiano, rispondendo all'osservazione del Kaw-djer.

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Poteva anche essere, dopo tutto, che l'equipaggio avesse abbandonata la nave, tentando di giungere a terra sopra le imbarcazioni. A meno che essa non fosse già se non un enorme feretro, trasportante morenti e morti, i cui corpi fra breve sarebbero andati a schiacciarsi sulla punta degli scogli, poiché nei momenti di tregua non si udiva né un grido, né un richiamo. La Wel-Kiej arrivò finalmente a fianco della nave, mentre questa, con uno scarto a babordo, quasi la sommergeva. Ma un buon colpo di timone le permise di costeggiare la chiglia lungo la quale pendevano funi e cordami. L'Indiano riuscì ad afferrare destramente il capo di una gomena, che venne subito legata a prua della scialuppa. Poi, egli e suo figlio, seguiti dal Kaw-djer, che portava in braccio Zol, il cane, attraversarono il bastingaggio e misero piede sul ponte.. No, la nave non era stata abbandonata; l'ingombrava invece una folla smarrita di uomini, di donne e di fanciulli. Si potevano contare parecchie centinaia di infelici, stesi per la maggior parte contro il cassero e nelle corsie, al parossismo dello spavento, e che non avrebbero potuto reggersi in piedi, tanto era insostenibile il rullio. In mezzo all'oscurità nessuno aveva scorto i due uomini e il giovinetto saliti a bordo. Il Kaw-djer si precipitò a poppa, sperando di trovarvi il timoniere al suo posto… Il timone era abbandonato. La nave, senza più vele, andava ove la spingevano il vento e le ondate. Dov'erano il capitano egli ufficiali? Sprezzando tutti i loro doveri, avevano forse vilmente disertato? Il Kaw-djer afferrò un marinaio per il braccio. — Il tuo comandante? — chiese in inglese. L'uomo non ebbe nemmeno l'aria di comprendere che la domanda gli veniva rivolta da uno straniero e si limitò ad alzare le spalle. — Il tuo comandante? — replicò il Kaw-djer.

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— Travolto sopra bordo, e più di uno insieme a lui — disse il marinaio con strana indifferenza. Così il bastimento non aveva più il capitano e gli mancava inoltre una parte dell'equipaggio. — Il secondo? — domandò il Kaw-djer. Nuova alzata di spalle del marinaio, evidentemente stupito. — Il secondo?…. — rispose. — Le gambe rotte, la testa schiacciata, sfracellata tra il ponte e la stiva. — Ma il tenente?… il nostromo?… dove sono?… Con un gesto, il marinaio fece capire che non se ne sapeva nulla. — Insomma chi comanda a bordo? — esclamò il Kaw-djer. — Voi! — disse Karroly. — Al timone dunque! — ordinò il Kaw-djer. Egli e Karroly ritornarono rapidamente a poppa e gravarono sulla ruota per fare volgere il bastimento, il quale, obbedendo a stento al timone, si portò lentamente sul babordo. — Braccia in quadro… tutto… — comandò il Kaw-djer. La nave, ora col vento in poppa, aveva acquistato un po' di velocità. Sarebbe stato possibile passare ad Ovest dell'isola Horn? Dov'era diretta quella nave? Lo avrebbero saputo più tardi. Quanto al suo nome e a quello del porto di partenza: — Jonathan, San Francisco — fu possibile leggerli sulla ruota, alla luce di un lanternone. Gli scarti violenti tendevano difficilissima la manovra del timone, la cui azione era, del resto, poco efficace, non avendo la nave che una sua propria debole velocità. Tuttavia, il Kaw-djer e Karroly tentavano di mantenerla nella direzione del passo, orientandosi agli ultimi sprazzi di luce che, per qualche minuto ancora, continuò a mandare il fuoco acceso alla cima del Capo Horn. Ma pochi minuti bastavano per raggiungere l'entrata del canale, che si approfondiva a tribordo, fra l'isola Hermitte e l'isola Horn. Se il bastimento fosse riuscito ad evitare gli scogli emergenti nella parte mediana del canale, avrebbe potuto

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raggiungere un posto riparato dal vento e dal mare, ove gettare l'ancora, e ove aspettare al sicuro il levar dei sole Karroly, aiutato da alcuni marinai, il cui turbamento era così grande da non accorgersi neppure che gli ordini venivano da un Indiano, si affrettò subito a tagliare le sartie e i legami che trattenevano i due alberi schiantati. I loro urti violenti contro la chiglia avrebbero finito per sfondarla. Tagliate le sartie, lasciata andare l'alberatura alla deriva, non c'era più da occuparsene! Quanto alla Wel-Kiej, rimorchiata da una gomena a poppa, non correva più il pericolo di una collisione. Il furore della tempesta aumentava. Le enormi masse d'acqua che salivano sin sopra il bastingaggio, accrescevano il terrore dei passeggeri. Sarebbe stato assai meglio che tutta quella gente si fosse rifugiata sul cassero, nel piano tra il ponte e la stiva; ma come farsi ascoltare e capire da quegli infelici? Non c'era da sperarlo. Finalmente la nave, non senza scarti spaventosi, i quali esponevano i suoi fianchi, volta a volta, agli assalti delle onde, superò il capo, sfiorò gli scogli che si rizzavano all'Ovest e, sotto l'impulso d'un pezzo di tela issata a prua, a guisa di fiocco, passò sotto vento dell'isola Horn, le cui alture la ripararono in parte contro le violenze della burrasca. Durante tale tregua relativa, un uomo salì sul cassero e si avvicinò al timone, manovrato dal Kaw-djer e Karroly. — Chi siete? — chiese. — Pilota — rispose il Kaw-djer. — E voi? — Nostromo. — I vostri ufficiali? — Morti. — Tutti? — Tutti. — Perchè non eravate al vostro posto? — Sono stato tramortito dalla caduta degli alberi. Ho ripreso i sensi ora.

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— Va bene. Riposate pure. Il mio compagno ed io basteremo. Ma appena lo potrete, riunite i vostri uomini. Bisogna mettere un po' di ordine qui! Il pericolo non era scomparso, tutt'altro. Quando la nave fosse giunta alla punta settentrionale dell'isola, sarebbe stata presa di traverso ed esposta di nuovo a tutte le brutalità delle onde e del vento che si ingolfavano nel braccio di mare, fra 1'isola Horn e l'isola Herschell. Del resto, non esisteva nessun mezzo per evitare quel passaggio. La costa del capo non offriva alcun ricovero ove il Jonathan potesse gettare l'ancora; inoltre il vento, che soffiava sempre più forte dal Sud, non avrebbe tardato a rendere impraticabile quella parte dell'arcipelago. Il Kaw-djer nutriva una sola speranza; proseguire cioè verso l'Ovest e raggiungere la costa meridionale dell'isola Hermitte, abbastanza sicura, lunga una dozzina di miglia, e non sprovvista di rifugi. Dietro una delle punte, era probabile che il Jonathan trovasse un ricovero e Karroly, appena il mare si fosse un po' calmato, avrebbe tentato di raggiungere il canale del Beagle, e condurre la nave, benché resa difficilmente manovrabile, a Punta-Arenas, dallo stretto di Magellano. Ma quanti pericoli non presentava la navigazione fino all'isola Hermitte! Come evitare gli scogli numerosi in quei paraggi? Con le vele ridotte a un lembo di fiocco, come assicurare l'orientamento, entro le tenebre profonde? Dopo una terribile ora, si oltrepassarono le ultime rocce dell'isola Horn, e allora il mare ricominciò a battere in pieno contro la nave. Il nostromo, aiutato da una dozzina di uomini, congegnò un tormentino all'albero di trinchetto, e non ci volle meno di mezz'ora per riuscirvi. Infine, con immensa fatica, la vela fu issata, e vennero tese le corde, a mezzo di paranchi azionati da tutto l'equipaggio rimasto. Certo, dato il tonnellaggio della nave, l'azione di quel pezzo di tela doveva riuscire appena sensibile. Tuttavia essa la risentiva, ed era tanta la forza del vento, che percorse in meno d'un'ora le

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sette od otto miglia che separano l'isola Horn dall'isola Hermitte.

Un po' prima delle undici il Kaw-djer e Karroly cominciavano a credere nel successo del loro tentativo, quando un fracasso spaventoso dominò per un attimo i muggiti del mare. L'albero di trinchetto si era spezzato a una diecina di piedi sopra il ponte. Trascinando nella sua caduta una parte dell'albero maestro, cadde, squarciando il bastingaggio di babordo, e scomparve. Tale malaugurato accidente fece parecchie vittime, perchè si levarono grida strazianti. Nello stesso tempo, un'ondata

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gigantesca invase il Jonathan, e gli diede così grande inclinazione, che minacciò di capovolgerlo. Tuttavia la nave poté rialzarsi, ma un torrente d'acqua corse da babordo a tribordo, da poppa a prua, spazzando tutto sul suo passaggio. Fortunatamente le sartie si erano spezzate, e i rottami dell'alberatura, trasportati dall'onda, non minacciavano la chiglia. Diventato ormai, si può dire, un pontone alla deriva, il Jonathan non sentiva più il timone. — Siamo perduti! — esclamò una voce. — E non ci sono imbarcazioni! — gemette un altro. — C'è la scialuppa del pilota — urlò un terzo. La folla si precipitò a poppa, ove, a rimorchio, seguiva la Wel-Kiej. — Fermi — ordinò il Kaw-djer, con voce così imperiosa, che fu obbedito all'istante. In pochi secondi, il nostromo formò un cordone di marinai, che sbarrò la via ai passeggeri impazziti. Non restava altro che aspettare. Un'ora dopo, Karroly intravide una massa enorme verso il Nord. Per quale miracolo il Jonathan aveva seguito, senza danni, il canale che separava l'isola Herschell dall'isola Hermitte? Certo è che l'avevano superato, perchè ora apparivano le alture dell'isola Wollaston. Ma le onde divenivano più forti, e l'isola Wollaston fu quasi subito lasciata a tribordo. Tra il vento e la corrente, quale sarebbe stato ora il più forte? Spinto dal primo, il Jonathan, avrebbe filato ad Est dell'isola Hoste, oppure, seguendo la seconda, l'avrebbe superata dalla parte Sud? Né l'una cosa né l'altra. Un po' prima del mattino, un urto formidabile scosse tutta la sua membratura, ed esso restò immobile, sbandandosi fortemente a babordo. La nave americana aveva toccato sulla costa orientale di quella estremità dell'isola Hoste, che porta il nome di Falso Capo Horn.

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V.

I NAUFRAGHI.

Quindici giorni prima della notte dal 15 al 16 marzo, il clipper americano Jonathan aveva lasciato San Francisco di California, con destinazione nell'Africa Australe. È una traversata, che una nave di buona andatura, se è favorita dal tempo, può compiere in cinque settimane. Quel veliero di tremilacinquecento tonnellate di stazza era attrezzato di quattro alberi; l'albero di trinchetto e quello maestro a vele quadrate, gli altri due a vele auriche e latine, brigantine e frecce. Il comandante, capitano Leccar, marinaio eccellente nel fior degli anni, aveva ai suoi ordini il secondo Musgrave, il tenente Maddison, il nostromo Hartlepool e un equipaggio di ventisette uomini, tutti americani. Il Jonathan non era stato noleggiato per un trasporto di merci. Portava un carico umano. Più di mille emigranti, riuniti da una Società di colonizzazione, vi si erano imbarcati per la baia di Lagoa, ove il Governo Portoghese aveva accordato loro una concessione. Il carico del clipper, oltre alle provvigioni di viaggio, conteneva quanto era necessario all'impianto della colonia. L'alimentazione di quelle centinaia d'emigranti era assicurata per parecchi mesi, in farine, conserve, e bevande alcooliche. Il Jonathan trasportava anche materiale di primo impianto; tende, case smontabili e utensili necessari ai bisogni domestici. Per favorire la coltivazione immediata delle terre concesse, la Società si era preoccupata di fornire ai coloni strumenti agricoli, sementi di cereali e di legumi, un certo numero di bestiame di specie bovina, suina e ovina e tutti gli ospiti abituali del pollaio. Anche le armi e le munizioni non

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mancavano; quindi l'avvenire della nuova colonia veniva garantito per un periodo sufficiente. Del resto, non si pensava neppure ch'essa dovesse essere abbandonata a se stessa. 11 Jonathan, ritornando a San Francisco, vi avrebbe ripreso un secondo carico a complemento del primo, e, se l'impresa fosse riuscita, avrebbe trasportato ancora altri colonizzatori alla baia di Lagoa. Non fanno difetto i poveri, pei quali l'esistenza è penosa, ed anche impossibile, nella madrepatria, e i cui sforzi tendono a formarsene una migliore in terra straniera. Fin dall'inizio del viaggio, gli elementi parvero allearsi contro la riuscita dell'impresa. Dopo una traversata durissima, il Jonathan, giungendo all'altezza del capo Horn, si trovò in mezzo a una delle più furiose tempeste che fossero mai scoppiate in quei paraggi. Il capitano Leccar, che, per la mancanza di osservazioni solari, non poteva conoscere la sua esatta posizione, si riteneva forse più lontano da terra di quel che non fosse. Per questo motivo strinse la rotta, sperando di passare con una sola bordata nell'Atlantico, ove sperava di trovare, indubbiamente, un tempo migliore. Ma i suoi ordini erano stati appena eseguiti, quando un violento maroso sconquassò la ganascia di tribordo, trascinandola seco insieme al capitano stesso e a parecchi passeggeri e marinai. Si tentò vanamente di portar soccorso ai disgraziati che, in meno d'un attimo, scomparvero. Dopo tale catastrofe il Jonathan cominciò a sparare il cannone di allarme, la cui prima detonazione era giunta fino al Kaw-djer e ai suoi compagni. Il capitano Leccar non aveva dunque veduto il fuoco acceso sulla cima del capo; cosa che gli avrebbe dimostrato il suo errore, e permesso forse di ripararlo. In mancanza sua, il secondo Musgrave tentò di virare di bordo per guadagnare spazio. Era impresa quasi irrealizzabile, dato lo stato del mare e la riduzione delle vele, richiesta dalla violenza del vento. Tuttavia, dopo molti sforzi infruttuosi, stava forse per raggiungere lo scopo, allorché fu precipitato in mare, insieme

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al tenente Maddison, dalla caduta dell'alberatura di poppa. Nello stesso momento, una carrucola, violentemente spinta dall'onda, colpì il nostromo alla testa, gettandolo svenuto sopra il ponte.

Il resto è noto. Il viaggio era ora compiuto. Il Jonathan, solidamente incastrato fra le punte degli scogli, giaceva immobile per sempre sulla

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costa dell'isola Hoste. A quale distanza dalla terra? Solo la luce del giorno avrebbe potuto rispondere a questa domanda. In ogni modo non esisteva più alcun pericolo immediato. La nave, trascinata dalla sua stessa forza viva, era molto avanzata in mezzo agli scogli e quelli che il suo slancio le aveva permesso di oltrepassare, la difendevano ora dalle ondate che non giungevano fino a lei, se non sotto forma di schiuma inoffensiva. Dunque, per quella notte almeno, non sarebbe stata demolita, né poteva affondare, riposando ormai su un terreno solido. Il Kaw-djer, aiutato dal nostromo Hartlepool, riuscì finalmente a far comprendere tale situazione a quel branco di gente impazzita, che ingombrava il ponte. Alcuni emigranti, chi volontariamente, chi scagliato dall'urto, erano passati sopra bordo al momento in cui la nave si arenava e giacevano ora sopra gli scogli, mutilati e senza vita. Ma l'immobilità del bastimento cominciava a tranquillizzare gli altri. A poco a poco, uomini, donne e fanciulli, cercarono un ricovero sotto coperta, o nel passaggio tra la stiva e il ponte, contro la pioggia, che le nubi riversavano a torrenti. Quanto al Kaw-djer, insieme a Halg, a Karroly e al nostromo, continuava a vegliare per la salvezza comune. Sdraiati così nell'interno della nave, dove regnava un silenzio relativo, i passeggeri per la maggior parte non tardarono ad addormentarsi. Passando da un estremo all'altro, quei poveretti, che si sentivano protetti dall'energia e dall'intelligenza di un altro uomo, avevano ripreso fiducia ed obbedivano docilmente. Come se la cosa fosse stata affatto naturale, si erano messi nelle mani del Kaw-djer e gli lasciavano la cura di decidere della loro sorte e di dar loro la tranquillità. Essi non erano preparati a subire tali prove. Forti, con paziente rassegnazione, contro le solite miserie della vita, restavano disarmati contro circostanze così eccezionali e inconsciamente desiderosi che qualcuno si incaricasse di distribuire ad ognuno il suo lavoro. Francesi, Italiani, Russi, Irlandesi, Inglesi, Tedeschi e perfino Giapponesi, erano rappresentati, più o meno largamente, fra

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tali emigranti, il maggior numero dei quali, però, proveniva dagli Stati del Nord America. Le diverse arti e mestieri erano altresì largamente rappresentate fra loro. Se la grande maggioranza apparteneva alla classe agricola, alcuni, invece, facevano parte della classe operaia propriamente detta, e taluni, prima di espatriare, avevano anche esercitato professioni libere. In generale celibatari, pochi fra essi erano ammogliati, con famiglia più o meno numerosa. Ma tutti avevano un tratto comune, tutti potendosi considerare relitti della vita e avendo tutti dovuto riconoscersi male adatti al loro luogo nativo, e risolversi a cercar fortuna sotto altri cieli. Tale ibrida popolazione formava un microcosmo, una riduzione dell'umanità, ove, ad eccezione della ricchezza, erano rappresentate tutte le gradazioni sociali. Anche la miseria estrema vi era abolita, perchè la Società colonizzatrice aveva imposto ai suoi aderenti il possesso di un capitale minimo di cinquecento franchi, capitale che, secondo le facoltà individuali, era stato portato da qualcuno a una cifra venti o trenta volte maggiore. Insomma era una folla non migliore né peggiore di tante altre; la folla con le sue ineguaglianze, le sue virtù e le sue tare; ammasso confuso di desideri e di sentimenti contraddittori; la folla anonima, dalla quale si sprigiona talvolta una volontà unica e totale, così come una corrente si forma e si isola nella massa amorfa del mare. Che ne sarebbe stato di quella folla, che il caso gettava sopra una costa inospitale? Come avrebbe risolto l'eterno problema della vita?

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PARTE SECONDA

I.

A TERRA.

Anche in una regione così accidentata, l'isola Hoste è notevole per la bizzarria della sua struttura. Se la costa settentrionale, che limita il canale del Beagle per metà della sua estensione, è sensibilmente rettilinea, il litorale, nel resto del suo perimetro, è irto di capi acuti, e frastagliato da stretti golfi, di cui alcuni profondi fino a traversare l'isola, quasi da parte a parte. L'isola Hoste è una delle grandi terre dell'arcipelago magellanico. La sua larghezza può valutarsi a cinquanta chilometri, e la lunghezza a più di cento, senza comprendervi la penisola Hardy, curva come una scimitarra, che proietta, a otto o dieci leghe nel Sud-Ovest, la punta conosciuta sotto il nome di Falso Capo Horn. Il Jonathan si era incagliato appunto all'Est di tale penisola, dietro un'enorme massa granitica che separa la baia Orange dalla baia Scotchwell. Alla prima luce del mattino apparve un dirupo selvaggio fra le brume, le quali non tardarono a dissipare gli ultimi soffi della tempesta che si diradava. Il Jonathan giaceva all'estremità d'un promontorio, di cui la cresta, formata da un monticello isolato, molto a picco sul mare, si congiungeva, per mezzo di una vetta altissima, all'ossatura della penisola. Ai suoi piedi si stendeva un letto di rocce nerastre, rese vischiose dalle piante marine e dalle alghe. Fra gli scogli, luccicava a chiazze la sabbia fine e ancora umida, cosparsa abbondantemente di conchiglie:

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patelle, pettini, licorni, veneri, tritoni, ecc., di cui è ricca la spiaggia magellanica. Insomma l'isola Hoste non sembrava, a prima vista, gran che ospitale. Appena i primi albori permisero di distinguere confusamente la costa, la maggior parte dei naufraghi si gettò sugli scogli, quasi interamente scoperti, e raggiunse in fretta la spiaggia. Sarebbe stata follia tentare di trattenerli. Ognuno immagini quale desiderio doveva avere quella povera gente di calpestare un terreno solido, dopo gli spaventi della notte appena trascorsa. Un centinaio fra essi si diedero subito a scalare il picco, nella speranza di trovarvi al sommo una più vasta distesa di terreno. Altri si allontanarono, seguendo la riva sud della punta, altri girarono intorno alla riva nord, mentre il maggior numero stazionava sulla spiaggia, assorto a contemplare il Jonathan arenato. Tuttavia alcuni emigranti, più intelligenti o meno impulsivi degli altri, erano rimasti a bordo, e fissavano gli sguardi sul Kaw-djer, come aspettando una parola d'ordine da quello sconosciuto, il cui intervento era già stato loro tanto salutare. E poiché egli non dimostrava nessuna intenzione d'interrompere il suo discorso col nostromo, uno degli emigranti si staccò infine da un gruppo di quattro persone, fra cui stavano due donne, e si diresse verso di lui. Era facile riconoscere, dall'espressione del viso, dal portamento e da mille indizi inafferrabili, che quell'uomo sulla cinquantina apparteneva a una classe superiore a quella in mezzo alla quale si trovava. — Signore — disse rivolgendosi al Kaw-djer, — prima di tutto vi ringrazio. Voi ci avete salvati da morte sicura. Senza di voi, e senza i vostri compagni, noi eravamo inevitabilmente perduti. Il viso, la voce e i gesti del passeggero ne dimostravano l'onestà e la rettitudine. Il Kaw-djer strinse cordialmente la mano che gli stendeva; poi, adoperando anch'egli la lingua inglese, nella quale gli era stata rivolta la parola: — Il mio amico Karroly ed io — rispose, — siamo felicissimi d'aver potuto, con la perfetta conoscenza di questi paraggi, evitare una catastrofe così spaventosa.

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— Permettetemi di presentarmi. Sono emigrante e mi chiamo Harry Rhodes. Ho con me mia moglie, mia figlia e un figlio — e il passeggero indicava le tre persone che aveva lasciato per avvicinarsi al Kaw-djer.

— Il mio compagno — disse allora il Kaw-djer — è il pilota Karroly, ed ecco suo figlio Halg. Come vedete, due Fuegiani.

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— E voi? — chiese Harry Rhodes. — Sono un amico degli Indiani. Mi hanno battezzato il Kaw-djer, e non mi conosco altro nome. Harry Rhodes lo guardò veramente stupito; ma il Kaw-djer sostenne l'esame con calma e freddezza. Senza insistere, quegli domandò: — Qual'è il vostro parere su quello che si deve fare? — Ne parlavamo per l'appunto, col signor Hartlepool — rispose il Kaw-djer. — Tutto dipende dallo stato del Jonathan. Non ho, davvero, troppe illusioni al riguardo. Tuttavia è necessario esaminarlo, prima di decidere qualche cosa. — Su quale parte della Magellania siamo incagliati? — riprese Harry Rhodes. — Sulla costa sud-est dell'Isola Hoste. — Vicino allo stretto di Magellano? — No, molto lontano invece. — Diamine!… — disse Harry Rhodes. — Ecco perchè, vi ripeto, tutto dipende dallo stato del Jonathan. Bisogna anzitutto rendersene conto: poi prenderemo una decisione. Seguito dal nostromo Hartlepool, da Harry Rhodes, da Halg e da Karroly, il Kaw-djer discese sugli scogli, e tutti insieme girarono intorno al clipper. Essi ebbero subito la certezza che il Jonathan doveva considerarsi assolutamente perduto. La chiglia era avariata in venti posti, sconquassata in quasi tutta la lunghezza del fianco di tribordo; avarie particolarmente irrimediabili, quando si tratta di un bastimento costruito in ferro. Bisognava quindi rinunziare ad ogni speranza di rimetterlo in mare ed abbandonarlo all'onda, che non avrebbe tardato a completarne lo sfacelo. — Secondo me — disse allora il Kaw-djer, — converrebbe sbarcare il carico e metterlo al sicuro. Intanto ripareremo la nostra scialuppa, che ha subito gravi danni nel momento dell'incaglio. Finite le riparazioni, Karroly potrebbe condurre a Punta-Arenas, uno degli emigranti, incaricato di rendere edotto

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del sinistro il governatore, il quale, senza dubbio, si affretterà a svolgere le pratiche necessarie al vostro rimpatrio. — Assai ben detto e pensato — approvò Harry Rhodes. — Credo — soggiunse il Kaw-djer — che sarebbe conveniente comunicare la mia idea a tutti i vostri compagni. E per questo, se non Io trovate inopportuno, bisognerebbe riunirli sulla spiaggia. Dovettero aspettare per molto tempo il ritorno dei vari gruppi allontanatisi in direzioni opposte. Tuttavia, prima delle nove antimeridiane, la fame aveva ricondotto tutti gli emigranti dinanzi alla nave arenata. Harry Rhodes, salendo sopra un macigno a guisa di tribuna, trasmise ai compagni la proposta del Kaw-djer. Essa non ottenne unanime approvazione, né tutti si mostrarono soddisfatti. — Scaricare una nave di tremila tonnellate!… Non mancava che questo! — mormorava l'uno. — Ma per chi ci prendono? — brontolava un altro. — Come se non si avesse tribolato abbastanza! — diceva un terzo cupamente. — Domando la parola — chiese una voce sonora, in cattivo inglese. — Prendetela — accordò Harry Rhodes, senza neppur conoscere il nome dell'interruttore. E scese dalla sua tribuna improvvisata, dove fu subito rimpiazzato da un uomo nel pieno vigore dell'età. Il suo viso, piuttosto bello, illuminato da occhi turchini un po' pensosi, era incorniciato da una folta barba castana. Doveva esserne alquanto ambizioso, perchè continuava ad accarezzarne amorosamente i lunghi peli che parevano di seta, con una mano della quale nessun grossolano lavoro aveva alterato la bianchezza. — Compagni — pronunziò, misurando a gran passi la roccia, come Cicerone un giorno doveva aver misurato la sua tribuna — naturale è la sorpresa che alcuni tra voi hanno manifestato. Che ci si propone infatti? Soggiornare per un tempo

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indeterminato sopra questa costa inospitale, e lavorare stupidamente al salvataggio di un materiale che non ci appartiene. Perchè aspettare qui il ritorno della scialuppa, la quale potrebbe invece trasportarci gli uni dopo gli altri fino a Punta-Arenas? Qualche «Ha ragione» e «È naturale» si udì levarsi fra gli ascoltatori. Intanto il Kaw-djer replicava: — La Wel-Kiej è a vostra disposizione; ma ci vorranno dieci anni, prima che siate trasportati tutti a Punta-Arenas. — Sia! — concesse l'oratore. — Restiamo qui, dunque, ed aspettiamo il suo ritorno. Ma intanto non vediamo per qual ragione dovremmo scaricare il materiale a forza di braccia. Che si ritirino dalla nave gli oggetti di proprietà personale, è ammissibile, ma il resto!… Dobbiamo qualche cosa noi alla Società che ne è a proprietaria? Essa è invece responsabile delle nostre disgrazie!… Se non avesse dato prova di troppa avarizia, se il bastimento fosse stato più solido e meglio guidato, non saremmo al punto in cui siamo. E del resto, quand'anche così non fosse, potremmo forse dimenticare che noi facciamo parte dell'innumerevole classe degli sfruttati e trasformarci docilmente in bestie da soma al servizio degli sfruttatori? L'argomento parve apprezzato. Una voce disse: « Bravo ». Alcuni risero. L'oratore, incoraggiato, proseguì con foga novella: — Sfruttati lo siamo sicuramente, noialtri lavoratori — e così dicendo si batteva il petto con energia — che non potemmo, anche a prezzo di fatiche accanite, guadagnare il pane nei luoghi che ci videro nascere. Saremmo quindi sciocchi ora, se ci gravassimo le spalle di tutti quei ferramenti, fabbricati da operai nostri compagni e che non sono, tuttavia, se non proprietà di quel capitalismo oppressore, il cui incommensurabile egoismo ci ha costretti a lasciare le famiglie e la patria.

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La maggior parte degli emigranti ascoltava con stupore l'orazione spiattellata in un inglese viziato da forte accento straniero; ma molti fra essi ne sembravano scossi. Un piccolo gruppo, riunito ai piedi della tribuna improvvisata, dava naturali segni di approvazione. Il Kaw-djer, da capo, mise le cose a posto. — Ignoro a chi appartenga il carico del Jonathan — disse con calma, — ma la mia esperienza del paese in cui siete, mi autorizza ad assicurarvi che, eventualmente, esso vi potrà giovare. Nell'ignoranza dell'avvenire, nella quale siamo tutti noi, ritengo prudente non abbandonarlo. L'oratore precedente non manifestò alcuna intenzione di rispondere, e allora Harry Rhodes risalì sulla roccia e mise ai voti la proposta del Kaw-djer, che fu approvata a mani alzate, senza altre opposizioni. — Il Kaw-djer chiede — soggiunse Harry Rhodes, trasmettendo una domanda che era stata rivolta a lui — se tra noi non ci siano carpentieri, che acconsentano ad aiutarlo a riparare la sua scialuppa. — Presente ! — disse un uomo dall'aspetto solido, che alzò un braccio al di sopra delle teste. — Presente ! — risposero quasi subito altri due emigranti. — Il primo che ha parlato, è Smith — disse Hartlepool al Kaw-djer, — un operaio impegnato dalla Compagnia. Un brav'uomo! Non conosco gli altri due: so soltanto che uno si chiama Hobard. — E l'oratore Io conoscete ? — È un emigrante, credo francese. Mi dissero che si chiama Beauval , ma non ne sono sicuro. Il nostromo non si sbagliava: tali erano il nome e la nazionalità dell'oratore, la cui storia, piuttosto movimentata, può tutta essere riassunta in poche linee. Ferdinando Beauval aveva studiato legge e sarebbe forse riuscito nella sua professione, non mancandogli né l'intelligenza né il talento, se non avesse avuto la disgrazia di essere punto, fin dall'inizio della sua carriera, dalla tarantola

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politica. Ansioso di realizzare i suoi sogni ambiziosi, ardenti e confusi in uno, si era inscritto ai partiti avanzati, e non aveva tardato a disertare il Tribunale per frequentare le riunioni pubbliche. Egli sarebbe riuscito, come chiunque altro, a farsi eleggere deputato, se avesse potuto aspettare il tempo necessario. Ma le risorse modeste di cui disponeva si esaurirono, prima che il successo avesse coronato i suoi sforzi. Ridotto agli espedienti, si era compromesso in affari dubbi e da quel giorno datava quella discesa rapida, che, di caduta in caduta, l'aveva gettato prima nella strettezza, poi nella miseria, costringendolo infine a cercare fortuna migliore sul suolo della libera America. Ma in America, il destino non gli era stato maggiormente propizio. Dopo aver peregrinato di città in città, esercitando necessariamente tutti i mestieri, giunse a San Francisco, ove la fortuna non gli arrise, e lo costrinse a un secondo esilio. Riuscì a procurarsi il capitale minimo necessario, e si inscrisse nel convoglio d'emigranti, solleticato da una prospettiva che prometteva mari e monti ai primi coloni della concessione della baia di Lagoa. Le sue speranze sembravano cadere ad una ad una, dopo il naufragio del Jonathan, che lo gettava, insieme a molti altri infelici, sul litorale della penisola Hardy. Tuttavia, le delusioni continue di Ferdinando Beauval non avevano scossa, in alcun modo, la fiducia in se stesso e nella sua stella. Tali insuccessi, che egli attribuiva alla cattiveria, all'ingratitudine e alla gelosia, lasciavano intatta la fede nel suo proprio valore, il quale, un giorno o l'altro, alla prima occasione favorevole, avrebbe trionfato. Per la qual cosa, non trascurava un istante i doni di agitatore di folle, che modestamente si attribuiva. Appena a bordo si era messo a catechizzare, e talvolta con tale intemperanza di parola, che il capitano Leccar ritenne suo dovere intervenire. Pure, malgrado tale ostacolo, opposto alla sua propaganda, Ferdinando Beauval aveva riportato qualche piccolo trionfo all'inizio di quel viaggio, che finiva in modo così drammatico.

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Alcuni fra i suoi compagni di sventura, in numero insignificante, è vero, aveva ascoltato con compiacenza le digressioni demagogiche, che formavano la trama della sua eloquenza abituale. Intorno a lui essi costituivano ora un gruppo compatto, il cui solo difetto era di essere troppo esiguo. Certo il numero dei suoi affiliati sarebbe stato ben maggiore, se Beauval, nella continua persistenza della solita sfortuna, non si fosse trovato di fronte, anche a bordo del Jonathan, un concorrente temibile. Era un americano del Nord, di nome Lewis Dorick, un uomo col viso sbarbato, d'aspetto freddissimo, di parola tagliente come un coltello. Lewis Dorick professava teorie analoghe a quelle di Beauval, ma più avanzate. Mentre costui preconizzava il socialismo, nel quale lo Stato, proprietario unico dei mezzi di produzione, avrebbe ripartito ad ognuno il proprio impiego, Dorick vantava un comunismo più puro, nel quale ogni cosa doveva divenire insieme proprietà di tutti e di ciascuno. Fra i due leaders sociologhi, si poteva inoltre notare una differenza più caratteristica ancora del disaccordo dei loro principi. Mentre Beauval, latino immaginativo, si inebbriava di parole e di sogni, restando tuttavia di costumi piuttosto miti, Dorick, settario feroce e dottrinario assoluto, ignorava, nel suo cuore di macigno, la pietà. Mentre l'uno, capacissimo, del resto, di esaltare un uditorio fino alla violenza, era personalmente inoffensivo, l'altro costituiva un pericolo di per se stesso. Dorick rendeva odiosa l'eguaglianza. Egli non guardava in basso, ma in alto. Il pensiero del destino disgraziato al quale è votata l'immensa maggioranza dell'umanità, non lo commuoveva in modo alcuno, ma che un piccolo numero di esseri occupassero un rango sociale superiore al suo, era cosa che gli procurava una ira convulsa. Cercare di calmarlo, sarebbe stato follia. Egli diveniva nemico implacabile del suo più timido contraddittore, contro il quale

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non avrebbe adoperato, se fosse stato libero, nessun altro argomento, se non la violenza o il delitto. Alla sua anima ulcerata Dorick doveva tutte le sue disgrazie, professore di letteratura e di storia, non aveva potuto resistere al desiderio di perorare dall'alto della cattedra tutt'altro insegnamento. Egli vi proclamava volentieri le sue massime libertarie non sotto forma di pura discussione teorica, ma sotto quella di affermazioni perentorie, dinanzi alle quali si ha lo stretto dovere di inchinarsi. Tale condotta non aveva tardato a portare i suoi frutti naturali. Dorick, coi ringraziamenti del Direttore, fu invitato a cercarsi un altro posto. Le stesse cause continuavano a produrre gli stessi effetti; il nuovo posto gli era sfuggito come il primo, il terzo come il secondo, e così via fino a che la porta dell'ultimo istituto gli si chiuse irrevocabilmente alle spalle. Allora era caduto sul lastrico e poi, da professore trasformato in emigrante, di rimbalzo, sul ponte del Jonathan. Durante la traversata, Dorick e Beauval reclutarono ognuno i propri partigiani: questi col calore d'una eloquenza non appesantita dalla critica coscienziosa delle idee, quello con l'autorità inerente a un uomo che si afferma professore della verità integrale. Non giungevano neppure a perdonarsi reciprocamente la modesta clientela della quale si erano eretti capi e se in apparenza si facevano buon viso, entro l'anima erano pieni di ira e di odio. Appena sbarcati sulla spiaggia dell'isola Hoste, Beauval, senza perdere un minuto di tempo, aveva voluto assicurarsi un vantaggio sopra il suo rivale e, approfittando dell'occasione favorevole, era salito sulla tribuna e aveva preso la parola come narrammo. Poco importava che la sua tesi non avesse poi trionfato: l'essenziale consisteva nel mettersi in vista. La folla si abitua a coloro che vede sovente, e, per divenire naturalmente un capo, basta attribuirsene la parte il più a lungo possibile. Durante il breve colloquio fra il Kaw-djer e Hartlepool, Harry Rhodes aveva continuato ad arringare i compagni.

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— Poiché la proposta è accettata — diceva loro dall'alto del macigno — bisognerebbe affidare ad uno di noi la direzione del lavoro. Non è cosa da poco scaricare completamente una nave di tremila cinquecento tonnellate, e tale impresa esige un po' di metodo. Vi sembra opportuno chiedere il concorso del nostromo Hartlepool? Potrà ripartirci il lavoro, e indicarci i mezzi migliori per condurlo a termine. Coloro che sono del mio parere alzino la mano. Tutte le mani, ad eccezione di poche, si alzarono con uno stesso movimento. — Eccoci dunque intesi — constatò Harry Rhodes e, rivolgendosi poi al nostromo: — Quali sono i vostri ordini? — Andare a far colazione — rispose Hartlepool con bonarietà. — Per lavorare bisogna mangiare. Gli emigranti tornarono tumultuosamente a bordo, ove, dall'equipaggio, fu loro distribuito un pasto fatto di conserve. Intanto Hartlepool aveva preso in disparte il Kaw-djer. — Se voi, signore, lo permettete — disse con una certa preoccupazione, — oserei pretendere che sono un buon marinaio. Ma ho avuto sempre un capitano. — Che volete dire ? — chiese il Kaw-djer. — Voglio dire — rispose Hartlepool con un viso sempre più pietoso — che io posso lusingarmi di sapere eseguire un ordine, ma che l'invenzione non è il mio forte. Terrò salda sin che vorrete la sbarra del timone, ma quanto a indicare la rotta è tutt'altro affare ! Il Kaw-djer esaminò con la coda dell'occhio il nostromo. Esistevano dunque uomini buoni, forti, onesti, ai quali un capo era una necessità ? — Insomma, volete dire — spiegò il Kaw-djer — che vi incarichereste volontieri dei particolari del lavoro, ma che sareste contento di avere prima qualche indicazione generale ? — Proprio così ! — Nulla di più semplice — proseguì il Kaw-djer. — Di quante braccia potete disporre ?

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— Partendo da San Francisco, il Jonathan aveva un equipaggio di trentaquattro uomini, compreso lo stato maggiore, il cuoco e i due mozzi, e trasportava millecentonovantacinque passeggeri. In totale milleduecentoventinove persone. Ma molti ora sono morti.

— Faremo il conto più tardi. Adottiamo per ora il numero tondo di milleduecento. Togliendo le donne e i bambini restano, a colpo d'occhio, settecento uomini. Voi dovete dividere tutta questa gente in due gruppi. A bordo resteranno

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duecento uomini che cominceranno a portare il carico sul ponte. Io condurrò gli altri in una foresta poco lungi di qui. Abbatteremo un centinaio di alberi, i quali, dopo essere stati sfrondati, verranno incrocicchiati in doppia fila e solidamente legati fra loro. Otterremo così una serie di assiti, che disporrete estremità contro estremità, in modo da formare una larga strada che riunisca la spiaggia alla nave. Durante l'alta marea avrete un ponte galleggiante. Nella bassa marea la zattera appoggerà sopra le teste degli scogli, e voi la dovrete puntellare per assicurarne la stabilità. Procedendo in tal modo, e con personale così numeroso, lo scarico potrà essere terminato in tre giorni. Hartlepool si conformò con molta intelligenza alle istruzioni avute e, come il Kaw-djer aveva preveduto, l'intiero carico del Jonathan fu deposto sulla spiaggia, fuori dalla portata del mare, la sera del 19. A verifica fatta, l'argano a vapore era, per fortuna, in grado di funzionare, cosa che aveva facilitato il trasporto dei colli più pesanti. Intanto, con l'aiuto dei tre carpentieri, Smith, Hobard e Charley, si affrettarono i lavori di riparazione della scialuppa, ed anch'essa, la sera del 19 marzo, fu in grado di prendere il largo. Allora gli emigranti dovettero scegliere un delegato. Ferdinando Beauval ebbe così nuova occasione di salire alla tribuna, per procurarsi un buon numero di elettori. Ma la sorte gli era decisamente avversa. Egli ebbe, è vero, la soddisfazione di riunire una cinquantina di voti, mentre Lewis Dorick, che, del resto, non si era neppure portato candidato, non ne raccoglieva alcuno, ma la maggioranza dei suffragi si portò invece sopra un certo Germano Rivière, un agricoltore francocanadese, padre d'una ragazza e di quattro superbi giovanotti. Gli elettori erano almeno sicuri che egli sarebbe ritornato. Guidata da Karroly, che lasciava all'isola Hoste Halg e il Kaw-djer, la Wel-Kiej prese il largo nella mattinata del 20 marzo, e

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gli altri procedettero subito a un'installazione sommaria. Non si trattava certo di concretare qualche cosa di stabile, ma di aspettare soltanto il ritorno della scialuppa, il cui viaggio avrebbe richiesto circa tre settimane. Non valeva quindi la pena di utilizzare le case smontabili, e si accontentarono invece di rizzare le tende trovate nella stiva del bastimento. Ad esse vennero aggiunte le vele di ricambio, delle quali era ricolmo un deposito speciale, e in tal modo tutti ebbero asilo, insieme a buona parte del materiale fragile. Non si trascurò di improvvisare con reticolati qualche pollaio, e recinti adatti agli animali a due e a quattro zampe, che il Jonathan trasportava. Insomma, quella folla non si trovava nella situazione di naufraghi, gettati, senza speranze e senza risorse, sopra una terra sconosciuta. La catastrofe era avvenuta nell'arcipelago fuegiano, in un punto esattamente segnato sulle carte geografiche, a un centinaio di leghe, al massimo, da Punta Arenas. E i viveri abbondavano. Le circostanze non giustificavano, perciò, alcuna seria inquietudine e, se non si fosse trattato del clima un po' più duro, gli emigranti avrebbero potuto viverci ottimamente, come sulla terra africana, verso cui erano diretti. È inutile dire che durante il lavoro di scarico né Halg, ne il Kaw-djer erano rimasti inoperosi; ma che anzi avevano lavorato indefessamente. 11 concorso del Kaw-djer era stato utile in modo speciale. Per quanto modesto, per quanto avesse cura di passare inosservato, la sua superiorità diveniva così evidente, che si imponeva per forza di cose. Così non si mancava di ricorrere ai suoi consigli, sia per il trasporto di un collo particolarmente pesante, sia per lo stivamento dei vari materiali, o per il montaggio delle tende. L'installazione era assai inoltrata, se non già terminata, quando, il 24 marzo, si ebbe una nuova prova dell'inclemenza di quei paraggi. Tre volte, nel periodo di ventiquattro ore, la pioggia si rovesciò a torrenti, il vento urlò tempestoso e quando l'atmosfera si rasserenò, si cercò invano il Jonathan sul suo letto di scogli.

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Lamiere, sbarre contorte di ferro; ecco ciò che restava del bel clipper, la cui ruota di prua solcava l'onda, così allegramente, qualche giorno prima. Benché ciò che poteva avere il minimo valore fosse stato già ritirato dalla nave, gli emigranti ne constatarono la scomparsa definitiva, non senza una stretta al cuore. Così, essi giacevano ora isolati e completamente disgiunti dall'umanità, la quale, dato il caso che la scialuppa si fosse perduta nel corso del viaggio, avrebbe ignorato, forse per sempre, il loro destino. Alla tempesta seguì un periodo di calma. Se ne approfittò per elencare i superstiti del naufragio. L'appello nominale, fatto da Hartlepool, servendosi delle liste di bordo, dimostrò che la catastrofe aveva fatto trentuna vittima; quindici fra l'equipaggio e sedici fra i passeggeri. Restavano quindi millecentosettantanove passeggeri, e diciannove marinai. Aggiungendo a tal numero i due Fuegiani e il loro compagno, la popolazione dell'isola Hoste comprendeva milleduecentouna persona, d'ambo i sessi e di tutte le età. Il Kaw-djer risolse di approfittare del bel tempo per visitare le parti dell'isola Hoste più prossime all'accampamento. Fu convenuto che l'avrebbero accompagnato nell'escursione Hartlepool, Harry Rhodes, Halg e tre emigranti, Gimelli, Gordon e Ivanoff; il primo d'origine italiana, americano il secondo, russo il terzo. Ma all'ultimo momento si presentarono due candidati imprevisti. Il Kaw-djer si recava nella località scelta come punto di ritrovo, quando vide due fanciulli d'una diecina d'anni, che, l'uno dietro l'altro, si dirigevano evidentemente verso di lui. Uno di essi, con un viso sveglio, ed anche alquanto impertinente, camminava col naso in aria e l'andatura così spavalda, che diveniva persino un poco comico. L'altro lo seguiva a cinque passi, con l'aria modesta che conveniva alla sua piccola persona. Il primo si avvicinò al Kaw-djer: — Eccellenza… — disse. Ridendo di tale imprevista denominazione, il Kaw-djer considerò il bambino, il quale

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sostenne arditamente l'esame, senza turbarsi, o abbassare gli occhi. — Eccellenza!… — ripeté il Kaw-djer ridendo ancora. — Perché mi chiami Eccellenza, ragazzo? Il fanciullo parve stupito. — Non si dà forse un tal titolo ai re, ai ministri, ai vescovi? — chiese con tono che esprimeva il timore di non aver sufficientemente rispettato le regole della cortesia. — Bah!… — esclamò il Kaw-djer meravigliato. — E dove hai saputo che si devono chiamare Eccellenze i re, i ministri, i vescovi? — Dai giornali — rispose il fanciullo con franchezza. — Leggi i giornali tu? — Perchè no?… Quando me ne danno. — Ah!… ah!… — esclamò il Kaw-djer; poi riprese: — Come ti chiami? — Dick. — Dick… e poi? Il fanciullo parve non comprendere. — Insomma, qual'è il nome di tuo padre? — Non ne ho. — Di tua madre allora? — Non ho né padre né madre, Eccellenza. — Daccapo?… — esclamò il Kaw-djer, che si interessava sempre più allo strano ragazzo. — Io però non sono, per quanto sappia, né re, né ministro, né vescovo. — Voi siete il governatore! — dichiarò il monello con enfasi. Il governatore!… Il Kaw-djer cadeva dalle nuvole. — Chi te l'ha detto? — chiese. — Caspita!… — disse Dick imbarazzato. — Ebbene?… — insisté il Kaw-djer. Dick parve un po' turbato, esitò. — Io non lo so… — rispose infine. — Ma voi comandate… E poi, tutti vi chiamano così. — Per esempio!… — protestò il Kaw-djer. Poi, con voce più grave, soggiunse:

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— Ti sbagli, figliolo. Io non sono né più né meno degli altri. Qui nessuno comanda. Qui, non c'è padrone. Dick spalancò gli occhi, e guardò il Kaw-djer con incredulità. Era possibile che non vi fosse padrone? Poteva persuadersene quel ragazzo, per il quale il mondo, fino allora, non era stato popolato che da tiranni? Poteva persuadersi che esistesse un paese senza padroni? — Sì, nessun padrone — affermò di nuovo il Kaw-djer. Poi, dopo un breve silenzio, domandò: — Dove sei nato? — Non lo so. — Quanti anni hai? — Presto undici, a quanto mi si dice. — Ma non ne sei sicuro. — No, davvero! — E il tuo compagno, che resta là, senza muoversi, a cinque passi da te, chi è? — È Sand. — Tuo fratello? — È come se lo fosse… È un amico. — Siete stati allevati insieme forse? — Allevati? — protestò Dick. — Nessuno ci ha allevati, signore! Il cuore del Kaw-djer si strinse. Quanta amarezza nelle poche parole che quel fanciullo pronunciava con voce battagliera, come un galletto rizzato sui suoi sproni. Esistevano dunque bimbi che nessuno aveva «allevato»! — Dove lo hai conosciuto, allora? — A Frisco, sulla gettata. — Tanto tempo fa? — Tanto, tanto tempo… Eravamo ancora piccoli — rispose Dick cercando di ricordarsi. — Saranno almeno… sei mesi! — Infatti, è un tempo lungo — approvò il Kaw-djer, senza batter ciglio. Egli si rivolse verso il compagno silenzioso dello strano ometto.

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— Vieni avanti tu! — disse, — e sopratutto non chiamarmi Eccellenza. Hai la lingua in tasca? — No, signore — balbettò il fanciullo, girando fra le dita il berretto da marinaio.

— Allora perchè non parli? — Perchè è timido, signore — spiegò Dick. Con che aria di disgusto egli pronunziò quelle parole! — Ah, perchè è timido?… — disse il Kaw-djer ridendo. — Tu non lo sei non è vero?

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— No, signore — rispose Dick semplicemente. — Ed hai ragione, perbacco!… Ma insomma, cosa fate voi due qui? — Siamo i mozzi, signore. Il Kaw-djer ricordò allora che Hartlepool aveva infatti menzionato due mozzi, numerando l'equipaggio del Jonathan, ed egli non li aveva ancora individuati, in mezzo ai figli degli emigranti. Poiché i due ragazzi si erano presentati a lui, capì che dovevano desiderare qualche cosa. — E che volete? — domandò allora. Dick, come al solito, prese la parola. — Vorremmo venire con voi, come il signor Hartlepool e il signor Rhodes. — Per far che? Gli occhi di Dick si illuminarono. — Per vedere tante cose… Tante cose!… Tutto un mondo era in quella parola; tutto il desiderio di quello che non è stato ancora veduto, tutti i sogni meravigliosi e confusi dei fanciulli. Il viso di Dick implorava; tutta la piccola persona era tesa verso il suo desiderio. — E tu — insisté il Kaw-djer, rivolgendosi a Sand — anche tu vuoi vedere tante cose?… — No, signore. — E allora, cosa vuoi? — Andare con Dick — rispose dolcemente il fanciullo. — Gli vuoi molto bene dunque? — Oh, sì, signore! — affermò Sand, la cui voce ebbe una espressione troppo profonda per la sua età. Il Kaw-djer, interessandosi sempre più, guardò un momento i due bimbi. Piccola e strana famiglia! Ma graziosa e toccante. E finalmente rese la sua sentenza: — Verrete con noi! — disse. — Evviva il Governatore!… — esclamarono i due fanciulli, agitando il berretto in aria e saltando come due caprioli.

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Da Hartlepool il Kaw-djer apprese la storia dei due piccoli, almeno quanto ne sapeva il nostromo e più di quanto, forse, non ne sapessero essi stessi. Bimbi abbandonati una sera sul canto d'una strada, il fatto di essere vissuti era un fenomeno che la ragione si trovava impotente a spiegare. Tuttavia erano vissuti, guadagnandosi il pane fino dall'età più tenera, grazie a piccoli lavori: lucidare scarpe, commissioni, apertura di portiere, vendita di fiori campestri, tutte invenzioni meravigliose per cervelli così giovani, ma trovando, il più spesso, il nutrimento, come i passeri, nelle strade di San Francisco. Sei mesi prima ignoravano reciprocamente la loro triste esistenza, quando il caso li mise faccia a faccia all'improvviso, in circostanze che la qualità e l'esiguo numero degli attori, vietano di chiamare tragiche. Dick bighellonava sulla calata, con le mani in tasca, il berretto sull'orecchio, fischiettando fra i denti una canzone prediletta, quando scorse Sand, inseguito da un grosso cane, che, abbaiando, mostrava. le zanne minacciose. Il fanciullo, spaventato, rinculava piangendo, col viso goffamente nascosto dietro lo schermo illusorio del gomito. Dick non fece che un salto e, senza esitare, si pose tra il fanciullo spaurito e il suo terribile avversario; poi, piantandosi eretto risolutamente sulle piccole gambe, guardò fisso il cane dentro gli occhi ed aspettò. L'animale si intimidì forse dinanzi a quell'atteggiamento di sfida? Certo si è che indietreggiò a sua volta, e fuggì via con la coda bassa. Senza occuparsi più dell'animale, Dick si era rivolto a Sand. — Come ti chiami? — gli aveva chiesto con fare superbo. — Sand — aveva detto l'altro fra le lagrime. — E tu?… — Dick, Se vuoi, saremo amici. Per tutta risposta, Sand si era gettato nelle braccia dell'eroe, suggellando così un'amicizia indistruttibile. Hartlepool, che da lontano aveva assistito alla scena, interrogò i due ragazzi, ne conobbe la triste storia e, desideroso di venire in aiuto a Dick, del quale aveva ammirato il coraggio, gli propose l'imbarco come mozzo sul Josuah Brener, un tre-

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alberi, a bordo del quale era allora occupato. Ma, alla prima parola, Dick aveva posto la condizione sine qua non, che venisse preso anche Sand; cosa che si dovette concedergli, e da allora Hartlepool non si era più diviso dai due inseparabili, che l'avevano seguito dal Josuah Brener sul Jonathan. Si era improvvisato loro maestro e aveva loro insegnato a leggere e a scrivere; vale a dire quasi tutto quello che egli stesso sapeva. I suoi benefici del resto cadevano in terreno propizio. Finora non aveva avuto che soddisfazioni dai due piccoli, i quali sentivano per lui una riconoscenza appassionata. Certo, ognuno di essi manifestava un carattere suo proprio; collerico l'uno, suscettibile, battagliero, sempre pronto a misurarsi contro chicchessia: l'altro silenzioso, dolce, modesto, pauroso; l'uno protettore, l'altro protetto; ma tutti e due vogliosi di lavorare, coscienti del dovere, affezionati al loro grande amico comune, il nostromo Hartlepool. Il personale dell'escursione fu aumentato dunque delle due piccole reclute. La partenza avvenne nelle prime ore del mattino del 28 marzo. Non si aveva la pretesa di esplorare tutta l'isola Hoste, ma soltanto la parte circostante all'accampamento. Passarono dapprima al di sopra delle creste medie della penisola Hardy, in modo da raggiungere la costa occidentale; poi seguirono la costa stessa, risalendo verso il Nord, per ritornare poi all'accampamento dal litorale opposto, traversando la regione sud nell'isola propriamente detta. Fin dall'inizio della passeggiata, si ebbe l'impressione che non bisognava giudicare il paese dall'aspetto poco attraente della località ove erano naufragati; impressione che si accentuò procedendo verso il Nord. La penisola appariva, è vero, rocciosa e sterile fino alle punte aride del capo Nord, ma non era così della regione verdeggiante, le cui alture si profilavano al Nord-Ovest. Vaste praterie, ai piedi di colline boscose, succedevano, in tale direzione, alle rocce tappezzate di alghe, ai burroni irti di sterpi. Là si frammischiavano i ranuncoli dai fiori gialli e le asterie dai fiori turchini e verdi, misti a moltissime piante nane:

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calceolarie, citisi arrampicanti, stipe, pimpinelle minuscole in piena fioritura. Il terreno appariva vellutato dall'erbe lussureggianti, capaci di nutrire migliaia e migliaia di ruminanti. La piccola comitiva si era divisa, a seconda delle affinità individuali, in gruppi, intorno ai quali scorrazzavano Dick e Sand, che triplicavano coi loro andirivieni la lunghezza della strada. I tre coltivatori scambiavano poche parole, gettando invece attorno ad essi sguardi stupiti, mentre Harry Rhodes e Halg camminavano a fianco del Kaw-djer. Quest'ultimo non si sbottonava troppo e conservava l'usata riserbatezza, la quale però non gli impediva di sentirsi attratto dalla simpatia che gli inspirava la famiglia Rhodes. Tutti i suoi componenti gli garbavano: la madre, seria e buona; i figli, Edoardo di diciotto anni e Clary di quindici, dai visi sinceri e franchi; il padre, un carattere retto, fidato e di grande buon senso. I due parlavano amichevolmente di quanto, in quel momento, li interessava. Harry Rhodes approfittava dell'occasione per informarsi sulla Magellania. Da parte sua poi indicava al compagno i campioni più rimarchevoli, tra la folla degli emigranti. Il Kaw-djer seppe così molte cose. E anzitutto come Harry Rhodes, possessore d'una discreta sostanza, fosse stato rovinato a cinquant'anni per colpa d'altri, e come, dopo la sventura immeritata, avesse espatriato, senza esitare, per assicurare, se possibile, l'avvenire di sua moglie e dei suoi figli. Seppe inoltre dallo stesso Harry Rhodes, che aveva potuto ricavare tali informazioni dai documenti di bordo, che, detratti i morti, gli emigranti del Jonathan si suddividevano nella maniera seguente, dal punto di vista delle loro precedenti occupazioni: settecento cinquanta coltivatori — fra i quali cinque giapponesi — di cui cento quattordici ammogliati e accompagnati dalle proprie mogli e dai loro figlioli, tra i quali alcuni maggiorenni, in numero di duecento sessantadue; tre rappresentanti di professioni libere, cinque possidenti, e quarantuno operai non emigranti, un muratore, un falegname, un carpentiere e un fabbro ferraio, impegnati per

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conto della Compagnia colonizzatrice per facilitare l'inizio dell'installazione. Si giungeva così al numero di millecentosettantanove passeggeri superstiti, come l'aveva indicato appunto l'appello nominale. Rhodes entrò in qualche particolare su ciascuno di essi. Riguardo alla grande massa di contadini, non aveva fatto molte osservazioni. Gli sembrava, tutt'al più, che i fratelli Moore, uno dei quali si era posto in evidenza durante lo scarico per la sua brutalità, fossero di temperamento violento e che le famiglie Rivière, Gimelli, Gordon e Ivanoff si componessero di persone coraggiose, solide, robuste, e inclini al lavoro. Il resto era la folla, dove, senza dubbio, le qualità dovevano trovarsi ripartite con grande ineguaglianza, e fra i vizi si riscontravano necessariamente la pigrizia e la ubbriachezza in modo speciale. Ma non essendosi prodotto sino allora alcun avvenimento notevole, mancava ogni base per formulare giudizi individuali, Harry Rhodes fu più prolisso intorno alle altre categorie. I quattro operai impegnati dalla Compagnia erano uomini scelti fra i migliori nelle loro professioni. Quanto ai loro colleghi emigranti, tutto faceva credere che fossero molto meno abili. In gran maggioranza avevano fisonomie ripugnanti e davano l'impressione di esseri abituati all' osteria, più che alle officine. Due o tre anzi, con certe facce da veri malfattori, non avevano dell'operaio null'altro che 1 etichetta. Dei cinque possidenti, quattro appartenevano alla famiglia Rhodes. Il quinto, che si chiama John Rame, sembrava un pessimo arnese. Tra i venticinque e i ventisei anni, esaurito da una vita di godimenti, nei quali aveva lasciato la sua sostanza fino all'ultimo centesimo, appariva buono a nulla e si era in diritto di meravigliarsi che, così male armato per la lotta, avesse commesso l'ultima follia di unirsi a un convoglio di emigranti. Restavano i tre reietti delle libere professioni, i quali provenivano da tre paesi diversi: Germania, America e Francia. Il Tedesco si chiamava Fritz Gross. Era un ubbriacone inveterato. Abbrutito dall'alcool al punto da rendersi

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ripugnante, portava in giro, ansando, le carni flaccide e il ventre enorme, insudiciato da un perenne getto di saliva. Aveva il viso scarlatto, il cranio calvo, le guance flosce, i denti guasti. Le dita erano agitate da un tremito costante ed anche in mezzo a quell'accozzaglia di gente così poco raffinata, la sua incredibile sporcizia l'aveva reso celebre. Codesto degenerato era un musicista, un violinista, e, in certi momenti, un violinista geniale. Soltanto il suo violino aveva il potere di risvegliargli la coscienza assopita. A causa del tremore abituale delle sue dita, egli era incapace abitualmente di trarne una sola nota. Ma, sotto l'influenza dell'alcool, la sua mano ritrovava tutta la sua sicurezza, l'ispirazione faceva vibrare il suo cervello e allora sapeva trarre dall'istrumento suoni di bellezza straordinaria. Più volte Harry Rhodes aveva avuto occasione di assistere a tale miracolo. Il Francese e l'Americano non erano altri che Ferdinando Beauval e Lewis Dorik, già presentati al lettore. Harry Rhodes non mancò di esporre al Kaw-djer le loro teorie sovversive. — Non pensate — chiese come conclusione — che sarebbe cosa prudente prendere qualche precauzione contro quei due mestatori? Durante il viaggio hanno già fatto parlare di sé. — Quali precauzioni vorreste si prendessero? — replicò il Kaw-djer. — Avvisarli prima energicamente, e poi sorvegliarli con cura. Se ciò non fosse sufficiente, toglier loro la possibilità di nuocere, segregandoli al bisogno. — Perbacco! — esclamò ironicamente il Kaw-djer. — Come correte! Chi potrebbe arrogarsi il diritto di attentare alla libertà dei propri simili? — Coloro per i quali rappresentano un pericolo — rispose Harry Rhodes. — Dove vedete, voi, non dirò un pericolo, ma solo la possibilità di un pericolo? — obbiettò il Kaw-djer. — Dove lo vedo?… Nell'eccitazione di quei poveretti, uomini ignoranti, tanto facilmente ingannabili quanto i fanciulli e

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pronti a lasciarsi esaltare da ogni parola sonora, che lusinghi la loro passione del momento. — Per quale scopo li ecciterebbero? — Per impossessarsi della roba altrui. — Gli altri hanno dunque qualche cosa? — chiese il Kaw-djer ironicamente. — Se non erro, qui nessuno possiede alcunché e dove non c'è nulla, anche il re perde i suoi diritti. — C'è il carico del Jonathan. — Il carico del Jonathan è proprietà collettiva, che potrebbe rappresentare, dato il caso, la salvezza comune. Tutti si rendono conto di ciò e nessuno vorrà toccarlo. — Possano gli avvenimenti non smentirvi! — disse Harry Rhodes, riscaldandosi per tale disaccordo inatteso. — Ma per uomini come Dorick e Beauval non c'è bisogno di interesse materiale. Il piacere di fare il male basta a sé stesso e, d'altronde, il dominare è un'ebbrezza. — Sia maledetto colui che pensa così! — esclamò il Kaw-djer con violenza improvvisa. — Ogni uomo che aspira a reggere i suoi simili, dovrebbe venire soppresso dalla terra. Harry Rhodes, stupito, guardò il compagno. Quale passione feroce sonnecchiava in quell'uomo, dalla parola abitualmente così calma e così misurata? — Allora bisognerebbe sopprimere Beauval — disse non senza ironia — perchè, sotto le spoglie di una eguaglianza a fondo, le teorie di quel ciarlone non hanno altro scopo che assicurare il potere al riformatore. — Il sistema di Beauval è puerile — replicò il Kaw-djer brevemente. — È una maniera di organizzazione sociale, ecco tutto. Ma, si tratti d'una o d'altra organizzazione, è sempre la stessa iniquità. — Approvereste dunque le idee di Lewis Dorick? — chiese vivamente Harry Rhodes. — Vorreste, come lui, farci ritornare allo stato selvaggio e ridurre le società a un aggregamento fortuito di individui, senza obblighi reciproci? Non comprendete che tali teorie sono basate sull'invidia e che trasudano l'odio?

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— Se Dorick conosce l'odio, è un pazzo — rispose gravemente il Kaw-djer. — Come! Un uomo, venuto sulla terra senz'averlo chiesto, vi scopre un'infinità di esseri simili a lui, dolorosi, miserevoli, caduchi al pari di lui e, invece di compiangerli, s'affatica ad odiare? Tale uomo è pazzo, e coi pazzi non si discute. Ma dal fatto che i teorici sieno alienati, non bisognerà necessariamente dedurre che la teoria sia cattiva. — Tuttavia le leggi sono indispensabili — insisté Harry Rhodes — quando gli uomini, invece di errare solitari, si raggruppano per un interesse comune. Guardiamoci intorno, in questo stesso luogo. La folla che ci circonda non è stata scelta per la circostanza e, senza dubbio, non è diversa da qualsiasi altra folla presa a casaccio. Ebbene, non mi è stato forse possibile segnalarvi parecchi suoi membri, i quali, per una ragione o per un'altra, sono nell'impossibilità di governarsi da se stessi, pur essendovene altri nelle stesse condizioni, di certo, che io non conosco ancora? Quanto male non farebbero simili individui, se le leggi non ponessero un freno ai loro istinti maligni! — Le leggi appunto danno loro i cattivi istinti — rispose il Kaw-djer con profonda convinzione. — Senza le leggi, l'umanità non conoscerebbe i vizi, e l'uomo crescerebbe armoniosamente nella libertà. — Uhm!… — mormorò Harry Rhodes con aria dubbiosa. — Esistono leggi qui? E tutto non procede forse a meraviglia? — Potete voi scegliere proprio simile esempio? — obbiettò Harry Rhodes. — Qui non c'è che un intermezzo nel dramma della vita. Tutti sanno che la situazione attuale è transitoria e non deve perpetuarsi. — Accadrebbe lo stesso anche se essa dovesse continuare — affermò il Kaw-djer. — Ne dubito — disse Harry Rhodes con scetticismo, — e preferisco, lo confesso, non tentarne l'esperimento. Ritornando dalla parte di levante, fu costeggiata la baia Scotchwell e la località, benché il sole stesse già per declinare, finì per sedurre gli esploratori. La loro ammirazione era pari

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alla sorpresa. Irrigati da una rete di ruscelletti, che si riversavano entro un fiume, le cui acque limpide sgorgavano dalle colline centrali, i ricchi pascoli testimoniavano della fertilità del terreno. La vegetazione arborescente era pari in splendore alle erbe lussureggianti dei prati. Le foreste distese su spazi immensi, contavano alberi di crescita superba, radicati in terreno torboso ma resistente, e sotto ad essi era germogliata una vegetazione sviluppatissima di soffici erbette e muschi vellutati. Sotto il riparo di tali volte verdeggianti si librava tutto un mondo di volatili; tinamù di sei specie, alcuni grossi come quaglie, altri come fagiani, e merli, tordi, ed altri uccelli che si potrebbero chiamare campagnuoli, nonché buon numero di rappresentanti delle specie acquatiche: oche, anatre, smerghi, gabbiani, mentre i nandù, i guanachi e le vigogne saltellavano in mezzo alle praterie. Il litorale sud della baia, esposto felicemente, inquantochè il Nord di quella parte dell'emisfero corrisponde al Mezzogiorno dell'altro emisfero, distava meno di due miglia dalla località ove si era perduto il Jonathan. Là sboccava il corso d'acqua dalle rive ombrose, arricchito dai suoi molteplici affluenti, che si gettava nel mare, in fondo a una piccola insenatura. Su tali rive, distanti un centinaio di piedi, sarebbe riuscito agevole edificare una borgata ove soggiornarvi definitivamente. L'insenatura, riparata dai venti, avrebbe potuto servire, all'occorrenza, da porto. L'oscurità era quasi completa, quando la brigata raggiunse l'accampamento. Il Kaw-djer, Harry Rhodes, Halg e Hartlepool stavano per congedarsi dai compagni, allorché nel silenzio della notte il suono di un violino giunse fino ad essi. — Un violino!… — mormorò il Kaw-djer rivolgendosi ad Harry Rhodes. — Si tratterebbe forse di quel Fritz Gross, del quale mi parlaste? — Sarebbe quanto dire che è ubbriaco — rispose senza esitare Harry Rhodes. Non s'ingannava. Fritz Gross era effettivamente ubbriaco e quando, dopo un momento, lo scorsero, il suo sguardo vago, il

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viso congestionato, la bocca bavosa rivelarono facilmente il suo stato. Incapace di reggersi ritto, si addossava a una roccia per mantenersi in equilibrio. Ma l'alcool aveva riaccesa la scintilla. L'archetto scorreva sull'istrumento, dal quale si sprigionava la più sublime melodia.

Intorno a lui si stringeva un centinaio di emigranti e in quel momento i poveri infelici dimenticavano tutto: l'ingiustizia del

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destino, l'eterna loro miseria, la triste condizione attuale, l'avvenire pari al passato, e si libravano nel mondo dei sogni, trasportati sopra le ali della musica. — L'arte è necessaria quanto il pane — disse Harry Rhodes al Kaw-djer, additando Fritz Gross e i suoi uditori assortiti. — Nel sistema di Beauval, quale sarebbe il posto di tale uomo? — Lasciamo Beauval dov'è — rispose il Kaw-djer spiritosamente. — Il male è che molte povere creature credono in quelle teste vuote! — replicò Rhodes. Essi ripresero la loro strada. — Vorrei sapere — mormorò Harry Rhodes dopo alcuni passi — con quale mezzo Fritz Gross abbia potuto procurarsi di che ubbriacarsi. Quel mezzo, qualunque esso fosse, altri l'avevano adoperato, oltre a Fritz Gross, perchè gli escursionisti non tardarono ad imbattersi in un corpo steso a terra. — È Kennedy — disse Hartlepool chinandosi sull'uomo che dormiva. — Un cane mancato, del resto, e il solo dell'equipaggio che non valga neppure la corda per impiccarlo. Anche Kennedy era ubbriaco, ed ubbriachi pure erano altri emigranti che trovarono, cento metri più in là, stesi per terra. — Scommetto — disse Harry Rhodes, — che hanno approfittato dell'assenza del capo, per saccheggiare il magazzino! — Quale capo? — chiese il Kaw-djer. — Voi, perbacco! — Io non sono il capo, più di qualsiasi altro — obbiettò il Kaw-djer con impazienza. — Sarà — assentì Harry Rhodes. — Ciò non toglie però che tutti vi considerino tale. Il Kaw-djer stava per rispondere, quando, da una tenda, si levò nella notte il grido rauco di una donna che si tenti di strangolare.

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II.

LA PRIMA LEGGE.

La famiglia Ceroni, composta del padre Lazzaro, della madre Tullia e d'una figlia, Graziella, era originaria del Piemonte. Diciassette anni prima, Lazzaro, che contava allora venticinque anni, e Tullia, che ne aveva sei di meno, avevano unite le loro miserie. All'infuori di sé stessi, né l'uno né l'altra possedeva alcunché. Ma si amavano, e l'amore onesto è una forza che aiuta a sopportare, talvolta anche a vincere, le difficoltà della vita. Sfortunatamente, non fu così della famiglia Ceroni. L'uomo, trascinato da cattive compagnie, non tardò ad abituarsi all'alcool, che innumerevoli taverne hanno il diritto di offrire, come sollievo in nome della libertà, alla moltitudine dei diseredati. In poco tempo egli si abbandonò all'ubbriachezza, e la sua ubbriachezza, sempre più frequente, divenne gradatamente cupa, poi collerica, poi crudele, poi feroce. Allora, accaddero quasi ogni giorno scenate terribili, delle quali i vicini udivano i gridi. Ingiuriata, bastonata, contusa, martirizzata, Tullia salì il calvario, sulla china del quale molte disgraziate si sono dolorosamente trascinate prima di lei, e dove molte si trascineranno al pari di lei. Certo, ella avrebbe potuto, ella avrebbe forse dovuto abbandonare quell'uomo trasformatosi in belva. Ma non lo fece. Era una di quelle donne che a prezzo di qualsiasi martirio non si riprendono più quando si sono date. Dal punto di vista dell'interesse materiale e tangibile, tali caratteri meritano indubbiamente di essere chiamati assurdi, ma destano però ammirazione, e per essi noi possiamo concepire quale sia la

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bellezza del sacrificio, e a quale altezza morale possa elevarsi la creatura umana. Graziella crebbe in tale inferno. Fino dai suoi più teneri anni, vide il padre ubbriaco e la madre battuta; assisté a scenate quotidiane; udì il torrente d'ingiurie che usciva dalle labbra di Lazzaro, come le immondizie escono dalla fogna. Nell'età in cui le bimbe non pensano ancora che ai giochi, ella per forza dovette entrare in contatto con la realtà della vita e fu costretta all'aspra lotta di tutti i momenti. A sedici anni, Graziella era una fanciulla seria, armata dalla sua forte volontà contro i dolori della vita, della quale aveva avuta la precoce esperienza. Del resto, per quanto l'avvenire potesse divenire crudele, esso non avrebbe mai sorpassato gli orrori del tempo già trascorso. Fisicamente era alta, magra e bruna: non veramente bella, ma gli occhi, e l'espressione intelligente del viso, le davano un grande fascino. La condotta di Lazzaro Ceroni aveva portato i suoi frutti naturali, ed il bisogno era entrato presto nella casa. Né poteva esser altrimenti. Il bere è costoso e per di più mentre si beve non si guadagna. Quindi spesa doppia. Gradatamente il bisogno divenne povertà e la povertà miseria nera. Allora si seguì la strada che percorrono tutti i degenerati. Si mutò paese, sperando miglior destino sotto altri cieli. Così fu che la famiglia Ceroni, di esodo in esodo, attraverso la Francia, l'Oceano, l'America, era finita a S. Francisco. Quindici anni era durato quel viaggio! A San Francisco, le privazioni giunsero a tal punto, che Lazzaro aperse gli occhi e comprese la sua opera di distruzione. Allora, ascoltando per la prima volta dopo tanti anni la voce supplichevole della moglie, promise di fare ammenda. Aveva mantenuto la parola. In sei mesi, grazie al lavoro assiduo e all'abbandono della taverna, il benessere era ritornato, anzi, avevano potuto riunire la grossa somma di cinquecento franchi che esigeva la Società di colonizzazione della baia di Lagoa. Tullia ricominciava a credere in una

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possibile felicità, quando il naufragio del Jonathan e l'ozio, sua conseguenza naturale, avevano risvegliate le antiche abitudini. Durante le lunghe ore d'inazione Lazzaro si era legato d'amicizia con altri emigranti, trascinato, si capisce, dalle sue simpatie verso esseri suoi pari. Costoro, ugualmente oppressi dalla noia e inconsolabili d'essere privati dai loro eccessi abituali, non avevano esitato a cogliere l'occasione che porgeva loro la partenza di colui che ognuno, senza rendersene conto, considerava il capo. Così, non appena il Kaw-djer si fu allontanato con gli altri, la banda poco raccomandabile si era appropriata uno dei barili di rhum salvati dal naufragio. Risultato: un'orgia in piena regola. Per contagio, ed anche per viltà dinanzi al vizio ridestato, Lazzaro aveva imitato i compagni, non decidendosi a rientrare nella tenda, ove l'aspettavano in lagrime la moglie e la figlia, se non quando sentì le gambe vacillanti e la testa smarrita. Al suo entrare, cominciò l'inevitabile scenata. Prima protestò perchè il pasto non era pronto, poi, quando glielo ebbero servito, si irritò dinanzi alla tristezza delle due donne, ed eccitandosi da sé stesso giunse rapidamente alle più atroci ingiurie. Graziella, immobile, agghiacciata guardava con spavento l'essere abbietto che chiamava padre. La vergogna in lei era più forte del dolore. Ma il cuore ulcerato di Tullia, che non conosceva se non l'amarezza, parve scoppiare. Ah! ecco dunque, tutte le sue speranze una volta di più deluse, eccoli ricaduti, da capo, nell'Inferno!… Le lagrime le inondarono gli occhi, scesero sul viso appassito. Non ci volle altro per scatenare la tempesta. — Ti aiuterò io a struggerti! — urlò Lazzaro divenuto furente. E afferrò la moglie alla gola, mentre Graziella cercava di strappare la disgraziata alla stretta omicida. Dramma silenzioso. Esso si svolgeva senza rumore, eccettuata la voce sorda di Lazzaro, il quale continuava a lanciare ingiurie. Né Graziella, né sua madre invocavano aiuto. Un padre che martirizza la propria figlia, un marito che assassina

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la moglie, sono vergogne tali che occorre nasconderle a chicchessia, foss'anche a prezzo della vita. Tuttavia, nel momento in cui il carnefice allentava la stretta, lo spasimo strappò a Tullia il grido rauco che il Kaw-djer aveva udito. Il lamento involontario eccitò il furore del demente: egli strinse più forte ancora. All'improvviso, una mano di ferro gli stritolò quasi la spalla. Costretto ad abbandonare la disgraziata, rotolò fino alla parte opposta della tenda. — Che c'è?… che c'è?… — balbettò. — Silenzio! — ordinò una voce imperiosa. L'ubbriaco non se lo fece ripetere. La sua eccitazione si calmò repentinamente, e non tardò ad addormentarsi d'un sonno profondo. Il Kaw-djer si era chinato sopra la donna svenuta per soccorrerla. Halg, Rhodes e Hartlepool, entrati dietro lui, contemplavano la scena assai commossi. Tullia aperse gli occhi e finalmente scorgendo visi estranei, comprese subito quanto era accaduto. Il suo primo pensiero fu di scusa per colui, la cui brutalità si era manifestata in modo così terribile. — Grazie, signore, — disse sollevandosi. — Non è stato niente… E ora è finito… Sono sciocca a spaventarmi così! — Lo si sarebbe per meno! — esclamò il Kaw-djer. — Niente affatto — replicò Tullia vivamente. — Lazzaro non è cattivo… Voleva scherzare… — Gli accade spesso di scherzare così? — chiese il Kaw-djer. — Mai, signore, mai! — affermò Tullia. — Lazzaro è un buon marito… Non esiste uomo migliore di lui… — È falso — interruppe una voce decisa. Il Kaw-djer e i suoi compagni si voltarono. Scorsero Graziella rimasta un po' discosta fra la penombra della tenda, rischiarata appena dalla luce giallastra d'una lanterna. — Chi siete voi, fanciulla? — domandò il Kaw-djer. — Sua figlia — rispose Graziella, additando l'ubbriaco che continuava indisturbato a russare rumorosamente. — Per quanto sia grande la mia vergogna, bisogna che lo dica, perchè

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mi si creda, e perchè si venga in aiuto della mia povera mamma. — Graziella!… — implorò Tullia congiungendo le mani. — Dirò tutto — affermò la fanciulla con forza. — Per la prima volta troviamo un difensore, e non lo lascerò andare, senza prima aver fatto appello alla sua pietà. — Parlate, figliola — disse il Kaw-djer con bontà, — contate su di noi, per soccorrervi e difendervi. Incoraggiata così, Graziella, con voce ansante, raccontò la vita di sua madre. Non nascose nulla. Ella disse la tenerezza sublime di Tullia e di quale prezzo fosse stata pagata. Disse dell'abbattimento di suo padre. Lo mostrò in atto di percuotere la moglie, di martirizzarla. Ricordò i giorni di miseria, senza vestiti, senza fuoco, senza pane, talvolta senza casa, glorificando la madre martirizzata, la cui eroica dolcezza non si era mai smentita in mezzo a prove così crudeli. Ascoltando il racconto spaventoso, Tullia piangeva sommessamente. Alla voce di sua figlia, le torture subite uscivano dall'ombra del passato e sembravano ridivenire presenti tutte insieme per meglio spezzarle il cuore. Sotto il loro peso accumulato, Tullia cedeva. Si abbandonava. Le mancava, alfine, la forza per difendere e proteggere il suo carnefice. — Avete fatto bene a parlare figliola — disse il Kaw-djer con voce commossa, quando Graziella tacque. — Siate certa che non vi abbandoneremo, e che anzi proteggeremo vostra madre. Per questa sera, ella non abbisogna che di tranquillità. Fate che riposi e lasciate che confidi in un avvenire migliore. Quando il Kaw-djer, Harry Rhodes e Hartlepool uscirono dalla tenda, si guardarono un istante in silenzio. Possibile che un uomo scendesse a tale grado di ignominia? Poi, aspirando profondamente per dilatare i polmoni oppressi, stavano per rimettersi in cammino, quando si accorsero che mancava uno della comitiva. Mancava Halg. Il Kaw-djer suppose che egli si fosse indugiato forse nella tenda dei Ceroni, e vi rientrò. Halg stava là infatti, e tanto

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assorto da non avere osservato la partenza dei compagni, né il ritorno d'uno di essi. Ritto contro la parete della tenda guardava Graziella, e il suo viso, insieme alla pietà, esprimeva chiaramente l'ammirazione. Poco discosta da lui, Graziella, con gli occhi bassi, si lasciava contemplare quasi con compiacenza. I due giovani non parlavano. Dopo le emozioni violente di poco prima lasciavano che i loro cuori si aprissero in silenzio a sensazioni più dolci. Il Kaw-djer sorrise. — Halg… — chiamò sottovoce. Il giovane trasalì e uscì senz'altro dalla tenda. Tutti e quattro si allontanarono in silenzio. Il Kaw-djer, con la fronte aggrottata, rifletteva su quanto aveva udito e veduto. Il miglior servizio da rendere alle due povere disgraziate, era privare dell'alcool il loro aguzzino. Poteva realizzarsi la cosa? Certamente, ed anche senza soverchie difficoltà, perchè l'alcool era ignorato nell'isola Hoste, all'infuori di quello proveniente dal Jonathan e depositato sulla spiaggia insieme al resto del carico. Sarebbero bastate un paio di sentinelle… Sia! Ma chi avrebbe potuto piazzarle? Chi avrebbe potuto osare dare ordini o formulare interdizioni? Chi avrebbe potuto arrogarsi il diritto di limitare in qualsiasi modo la libertà dei propri simili, e di sostituire alla loro iniziativa la propria? Valeva dire fare atto da capo; e sull'isola Hoste, non esistevano capi. Eh via dunque!… Virtualmente, almeno, un capo, esisteva. E chi era egli, se non colui che aveva salvato gli altri da morte sicura; che, solo, conosceva quella contrada deserta, che, solo fra tutti, possedeva in un grado superiore, intelligenza, sapere e carattere? Sarebbe stata viltà ingannare sé stesso. Il Kaw-djer non poteva ignorarlo: quel popolo di miserabili tendeva verso di lui gli sguardi ansiosi; nelle sue mani esso aveva rimesso l'esercizio dell'autorità collettiva, e da lui aspettava fiducioso, soccorsi, consigli e decisioni.

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Che egli volesse o meno, non poteva sfuggire alla responsabilità che implicava tale fiducia. Che lo volesse o no, il capo, designato dalla forza delle cose e dal tacito consentimento dell'immensa maggioranza dei naufraghi, era lui. E che! Lui, il libertario, l'uomo incapace di tollerare alcuna restrizione, si trovava nel caso di imporre agli altri, e di decretare quelle leggi che aveva sempre respinte! L'apostolo anarchico, l'adepto della formula «Né Dio né padrone», per suprema ironia veniva trasformato in padrone: a lui si attribuiva quell'autorità, della quale la sua anima odiava il principio, con furore selvaggio! Doveva accettare la prova odiosa? Non era meglio fuggire da quegli esseri che avevano anime da schiavi? Ma che sarebbero poi divenuti, abbandonati a sé stessi? Di quante sofferenze non si sarebbe reso responsabile il disertore? Se si ha il diritto di accarezzare alcune astrazioni, certo non è degno del nome di uomo colui che, per amore di esse, chiude gli occhi dinanzi alle realtà della vita, nega l'evidenza e non può risolversi a sacrificare il suo orgoglio per attenuare la miseria umana. Per quanto certe teorie sembrino sicure, è generoso abbandonarle quando sia dimostrato che lo esige il bene altrui. Ora, quale altra dimostrazione poteva essere più chiara e più evidente? Non si erano già constatati nella sera stessa, numerosi casi di ubbriachezza, senza parlare di altri, certo più numerosi ancorché rimasti occulti? Si doveva permettere tale abuso di alcool, capace di provocare alterchi, risse, e fors'anche omicidi? Gli effetti del veleno non si erano già manifestati? Non se ne erano già palesati gli orrori nella famiglia Ceroni? Si avvicinavano alla tenda occupata dalla famiglia Rhodes; stavano già accomiatandosi, e il Kaw-djer esitava ancora. Ma non era uomo da sfuggire alle responsabilità. All'ultimo momento, per quanto grande fosse la sua amarezza, prese una risoluzione. E rivolgendosi ad Hartlepool:

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— Credete che si possa calcolare sulla fedeltà dell'equipaggio del Jonathan? — gli chiese. — Ad eccezione di Kennedy e di Sirdey, il cuoco, ne rispondo — rispose Hartlepool.

— Di quanti uomini disponete? — Di quindici uomini, me compreso. — Gli altri quattordici vi obbediranno? — Certamente. — E voi?

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— Io?… — C'è qualcuno qui del quale siete disposto a riconoscere la superiorità? — Ma… voi, signore… naturalmente — rispose Hartlepool, come se si trattasse di cosa evidente. — Perché? — Caspita! Signore… — disse Hartlepool imbarazzato. — Insomma, qui, come altrove, è necessario che la massa abbia un capo. Va da sé, diamine! — E perchè dovrei essere io il capo? — Non ce n'è altri! — disse Hartlepool, rinforzando con le braccia aperte l'irrefutabilità dell'argomento. La risposta era infatti perentoria e non si poteva replicare nulla. Allora il Kaw-djer, dopo un momento di silenzio pronunciò con voce ferma: — A partire da questa sera, farete custodire il materiale sbarcato dal Jonathan. I vostri uomini si allineeranno a due a due e non lasceranno che alcuno si avvicini. Sorveglieranno l'alcool in modo speciale. — Va bene, signore — rispose Hartlepool con semplicità. — Sarà fatto in cinque minuti. — Buona sera — disse il Kaw-djer, che si allontanò a gran passi, malcontento di sé e degli altri.

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III.

NELLA BAIA SCOTCHWELL.

La Wel-Kiej ritornò il 15 aprile da Punta Arenas. Gli emigranti, impazienti di conoscere il loro destino, appena la scorsero, si raggrupparono nel punto della riva verso il quale essa si dirigeva. Il raggruppamento si effettuò secondo le leggi immutabili che reggono gli assembramenti sopra tutta la superficie del nostro pianeta imperfetto; vale a dire che i più forti s'impadronirono dei posti migliori. Dietro furono relegate le donne. Di là, esse non potevano nulla vedere né udire, ma chiaccheravano animatamente scambiando commenti, tanto rumorosi quanto prematuri, sulle notizie ancora ignote che portava la scialuppa. Gli uomini occupavano le prime file, a una distanza dall'acqua inversamente proporzionale alla rispettiva vigorìa e brutalità. Quanto ai fanciulli, per i quali tutto è pretesto al gioco, ce n'erano un po' dappertutto. I più piccoli pigolavano come passeri, scorrazzando intorno al gruppo; altri, ammassati insieme ai grandi, non riuscivano né ad avanzare, né ad indietreggiare; altri, giunti ad attraversarlo da parte a parte, sporgevano i visi incuriositi tra le gambe degli adulti della prima fila e, tra questi, alcuni, più sfacciati, avevano potuto insinuare i corpi snelli, dietro la testa, attraverso la barriera vivente. Il piccolo Dick era, non c'è bisogno di dirlo, fra questi ultimi, e non soltanto aveva trionfato di tutti gli ostacoli per proprio conto, ma era riuscito a rimorchiarsi dietro l'inseparabile Sand e un altro fanciullo, col quale i due mozzi si erano legati, otto giorni prima, d'una amicizia che si perdeva già nella notte dei tempi. Il fanciullo, certo Marcello Norely, della stessa età dei

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due suoi compagni, possedeva il miglior titolo al loro affetto, poiché appariva bisognoso di protezione. Era un piccolo essere meschino, col viso sofferente, infermo, con la gamba destra colpita da paralisi e più corta quindi della sinistra. Del resto, tale condizione non alterava il buon umore del piccolo, né diminuiva il suo ardore per il gioco, nel quale brillava come gli altri, grazie a una gruccia di cui usava con grande abilità. Mentre gli emigranti accorrevano in tumulto sulla spiaggia, Dick, seguito dall'inseparabile Sand e da Marcello, si era insinuato fra i primi arrivati, ai quali con la testa non giungeva neppure alla cintola, ed era riuscito a porsi in prima fila. Ciò non aveva potuto disgraziatamente effettuarsi senza disturbare più o meno i primi occupanti e volle il caso che uno di essi fosse Fred Moore, il maggiore dei due fratelli, dei quali Harry Rhodes aveva menzionato al Kaw-djer la natura violenta. Fred Moore, un uomo robusto, alto quasi sei piedi, bestemmiò sentendosi scosso alla base, e questo bastò per eccitare l'estro ironico di Dick. Egli si voltò verso Sand e Marcello, che stavano per forzare il passaggio seguendo il suo esempio. — Attenti… — disse — non spingete dunque così quel gentleman, corpo d'un diavolo!… A cosa servirebbe? Non abbiamo che da star quieti dietro di lui e guardare al di sopra della sua testa. Tale pretesa, data la statura ridotta del piccolo oratore, appariva così tracotante, che i vicini non poterono trattenere le risa; cosa che mise Fred Moore di cattivissimo umore. Il sangue gli salì al volto. — Moscherino!… — borbottò con voce impaziente. — Grazie del complimento, Vostra Altezza, benché pronunziate assai male l'inglese! Bisogna dire «gentile» — disse Dick con ironia, approfittando dell'analogia dei suoni tra «gnat» (moscherino) e «natty» (gentile). Fred Moore fece un passo avanti, ma i più vicini lo trattennero, consigliandolo a non curarsi del fanciullo. E Dick ne approfittò

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per allontanarsi con i due amici lungo la spiaggia, davanti agli emigranti più conciliativi. — Fra poco — minacciò Fred Moore, obbligato alla immobilità — voglio tirarti le orecchie, ragazzo mio. Dick, bene al sicuro ora, squadrò l'avversario dal basso in alto. — Per farlo, vi bisogna una scala, camerata! — disse con fare superbo, che scatenò nuove risate. Fred Moore alzò le spalle e Dick, contento d'aver avuta l'ultima parola, non si occupò più di lui, per osservare attentamente la scialuppa, la cui ruota di prua faceva scricchiolare in quel momento l'arena della spiaggia. La barca si fermò; Karroly saltò in acqua e raggiunse la terraferma, ove legò solidamente l'àncora. Aiutò in seguito il passeggero a sbarcare, indi, si allontanò con Halg e il Kaw-djer, assai felice di rivederli dopo la lunga assenza. Se è vero che nei Fuegiani i sentimenti affettivi sono in generale poco sviluppati, certo il pilota era una eccezione alla regola. Gli sguardi coi quali avviluppava suo figlio e il Kaw-djer lo avrebbero testimoniato, al bisogno. Per quest'ultimo, egli era bene il buon cane fedele, di cui il suo aspetto evocava l'immagine. La sua devozione cieca non poteva essere eguagliala che da quella altrettanto profonda, ma più cosciente, di Halg. Se Karroly era il padre del giovane nel senso naturale della parola, il Kaw-djer ne era il padre spirituale. Ad uno egli doveva la vita, all'altro la sua intelligenza, che le lezioni del misterioso solitario avevano sviluppato ed arricchito di sentimenti e di idee, sconosciute dagli indigeni diseredati dell'arcipelago. Il Kaw-djer rendeva largamente l'affetto che il giovane nutriva per lui; Halg era ancora l'unico essere capace di commuovere quell'uomo disilluso, che non conosceva altro amore, oltre l'amore che nutriva per un fanciullo, se non un altruismo collettivo e impersonale, di grandezza certamente sublime, ma la cui stessa ampiezza meglio si addiceva al cuore infinito d'un creatore, che non all'anima mediocre d'una Creatura. Forse perciò, forse per l'oscura nozione di tale sproporzione,

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nonostante la sua bellezza, un sentimento simile stupisce più che non attragga gli altri uomini, ai quali sembra inumano a furia di essere superiore ad essi ? Forse, giudicando con la povertà del loro proprio cuore, ritengono che di un amore così suddiviso fra tutti, la parte di ciascuno sia troppo piccola e che sia cosa migliore, benché meno sublime, darsi a pochi senza riserva. Intanto che le tre creature, così strettamente legate fra loro, parlavano degli incidenti del viaggio, e si abbandonavano al piacere di rivedersi, gli emigranti accerchiavano Germano Rivière, informandosi dei risultati della missione. Le domande si incrociavano, formulate in varî modi, ma rispondenti a un'unica preoccupazione: perchè era ritornata la scialuppa, e non invece, al suo posto, una nave abbastanza grande da rimpatriarli tutti ? Germano Rivière, non sapendo chi ascoltare, impose silenzio con un cenno, poi, in risposta all'interrogazione concreta formulata da Harry Rhodes, raccontò brevemente il viaggio. A Punta Arenas aveva veduto il governatore, signor Aguire, il quale, in nome del Governo chileno, prometteva soccorrere le vittime della catastrofe. Tuttavia, poiché per il momento a Punta-Arenas non si trovava alcun battello di tonnellaggio sufficiente a trasportare i naufraghi, questi dovevano armarsi di pazienza. La situazione d'altronde non presentava nulla di inquietante. Poiché si poteva disporre di materiale in buono stato e di viveri per quasi diciotto mesi, si doveva anche aspettare senza timori. Né bisognava nascondere che l'attesa, forzatamente, sarebbe stata piuttosto lunga. Incominciava appena l'autunno; non era quindi prudente avventurare, senza assoluto bisogno, un bastimento in quei paraggi e in quella stagione. Era interesse comune rimandare il viaggio alla primavera. Ai primi di ottobre, vale a dire fra sei mesi, avrebbero mandata una nave all'isola Hoste. La notizia, che passava di bocca in bocca, fu trasmessa all'istante fino alle ultime file e produsse sui naufraghi

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profondo stupore. Diamine! Si era dunque costretti a perdere sei lunghi mesi in un paese ove era impossibile qualsiasi impresa, dovendolo lasciare in primavera, dopo avervi inutilmente subiti i rigori invernali? La folla, rumorosa un momento prima, era divenuta silenziosa. Si scambiavano sguardi smarriti. Poi, l'accasciamento cede il posto alla collera. Ma anche la collera si acquetò in mancanza d'alimento, e gli emigranti cominciarono a disperdersi per rientrare nelle loro tende. Ma, attratti nel percorso da un altro gruppo in via di formazione, si fermarono macchinalmente, senza neppure accorgersi che aggregandosi al secondo gruppo formato dagli elementi dissociati del primo, fino alle ultime file e produsse sui naufraghi profondo stupore. Diamine! Si era dunque costretti a perdere sei lunghi mesi in un paese ove era impossibile qualsiasi impresa, dovendolo lasciare in primavera, dopo avervi inutilmente subiti i rigori invernali? La folla, rumorosa un momento prima, era divenuta silenziosa. Si scambiavano sguardi smarriti. Poi, l'accasciamento cede il posto alla collera. Ma anche la collera si acquetò in mancanza d'alimento, e gli emigranti cominciarono a disperdersi per rientrare nelle loro tende. Ma, attratti nel percorso da un altro gruppo in via di formazione, si fermarono macchinalmente, senza neppure accorgersi che aggregandosi al secondo gruppo formato dagli elementi dissociati del primo, essi si trasformarono ipso facto in uditori di Ferdinando Beauval. Il quale aveva infatti giudicata l'occasione favorevole a un nuovo discorso e, come la prima volta, arringava i compagni dall'alto di una roccia innalzata alla dignità di tribuna. Come si può immaginare, l'oratore socialista non era tenero per il regime capitalista in generale e, in particolare, per il governatore di Punta Arenas che, secondo lui, ne era il prodotto naturale. Stigmatizzava con eloquenza l'egoismo di quel funzionario, così privo della più elementare umanità, da lasciare indifferentemente un numero tanto grande di disgraziati esposti a tutti i pericoli e a tutte le miserie.

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Gli emigranti ascoltavano con orecchio distratto la diatriba del tribuno. A cosa tendeva quel parolaio? Beauval poteva sbraitare anche più; ciò non sarebbe valso a far avanzare di un passo i loro affari. Per migliorare la loro sorte abbisognavano atti e non parole. Ma quali atti? Nessuno, in verità, ne sapeva nulla. E cercavano penosamente, senza speranza di trovarla, la soluzione del problema, tenendo fissi al suolo gli sguardi ingenui. Tuttavia, a poco a poco, nasceva un'idea entro i poveri cervelli oscuri. Qualcuno sapeva, forse, quanto avrebbero dovuto fare. Forse colui che li aveva aiutati a trarsi da altri serî imbarazzi, avrebbe trovato anche ora il mezzo di rimediare alla situazione; ed ecco il perchè di certe timide occhiate rivolte dalla parte del Kaw-djer, verso il quale si dirigevano per l'appunto Harry Rhodes e Germano Rivière. Ogni membro di quella popolazione di milleduecento anime, non poteva prendere singolarmente una decisione; dunque, la cosa più semplice, dopo tutto, era rimettersene al Kaw-djer, alla sua dedizione, alla sua esperienza, oltre che tale decisione aveva il vantaggio inapprezzabile di risparmiare loro la fatica di riflettere. Liberandosi da ogni preoccupazione immediata, gli emigranti abbandonarono uno dopo l'altro Ferdinando Beauval, il cui uditorio si ridusse presto al suo solito gruppo di fedeli. Harry Rhodes accompagnato da Germano Rivière, unendosi al gruppo formato dai due Fuegiani e dal Kaw-djer, mise al corrente quest'ultimo degli avvenimenti, comunicandogli la risposta del governatore di Punta Arenas, ed esponendo le angosce degli emigranti, che temevano i rigori di una invernata antartica. Il Kaw-djer lo rassicurò subito a questo riguardo. L'inverno in Magellania è meno lungo, ed anche meno rude, che in Islanda, al Canada e negli Stati settentrionali dell' Unione Americana, e il clima dell'Arcipelago vale, in complesso, quello dell'Africa meridionale, dove era diretto il Jonathan. — Accetto il pronostico — disse Harry Rhodes, conservando tuttavia un po' di scetticismo. — Però, non sarebbe stato

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preferibile svernare sulla Terra del Fuoco, che offre qualche risorsa, anziché sopra l'isola Hoste, dove, fino ad ora, non abbiamo trovato anima viva? — No — rispose il Kaw-djer. — Trasportarsi sulla Terra del Fuoco, non avvantaggerebbe e presenterebbe invece molti inconvenienti dal punto di vista del materiale, che si sarebbe costretti ad abbandonare. Bisogna restare sull'isola Hoste, ma lasciare senza ritardo la località ove siamo accampati ora. — Per andare dove? — Alla baia Scotchwell, che abbiamo costeggiata nella nostra escursione. Là troveremo facilmente un posto adatto per le case smontabili provenienti dal carico del Jonathan, mentre qui non esiste un pollice di terreno piano. — Che! — esclamò Harry Rhodes. — Voi consigliate di trasportare a due miglia da qui un materiale così pesante e procedere a una vera installazione? — È assolutamente necessario — affermò il Kaw-djer. — La baia è ben esposta e protetta dai venti dell'Ovest e del Sud, e il fiume che vi si getta fornirà l'acqua potabile. Quanto a installarsi qui seriamente, è cosa non solo necessaria, ma urgente. La grande nemica in questa regione è l'umidità e importa anzitutto difendersi da essa. Io dico che non c'è tempo da perdere, perchè l'inverno può cominciare da un momento all'altro. — Dovreste parlare di tutto questo ai nostri compagni — propose Harry Rhodes. — Essi si renderanno un conto più esatto della loro situazione, quando l'avrete loro esposta. — Preferisco che ve ne incarichiate voi — replicò il Kaw-djer. — Ben inteso, io resto a disposizione di tutti, sé si avrà bisogno di me. Harry Rhodes si affrettò a comunicare agli emigranti le idee del Kaw-djer e, con sua grande sorpresa, essi non le accolsero così male quanto si poteva pensare. La delusione subita aveva prodotto un grande scoraggiamento e tutti erano contenti di trovarsi di fronte a un lavoro concreto, di cui qualcuno si assumeva la responsabilità, assicurandone il buon esito. La

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speranza invincibile, che sonnecchia fino alla morte in fondo al cuore umano, faceva il resto. Un cambiamento qualsiasi appariva come la salvezza. Fu quindi una festa il trasloco alla baia Scotchwell e ci si ripromettevano cose meravigliose. Soltanto, da che parte incominciare? Quali mezzi impiegare per condurre a buon termine il trasporto del materiale, sopra un percorso di due miglia, lungo una spiaggia rocciosa, ove non esisteva neppure l'apparenza d'un sentiero? Pregato da tutti, Harry Rhodes, dovette ritornare dal Kaw-djer, e chiedergli di organizzare il lavoro, che egli stesso dichiarava urgente. Questi non accampò difficoltà per assecondare il desiderio generale e, sotto la sua direzione, ci si mise subito all'opera. Si creò dapprima, al limite delle alte maree, una strada rudimentale, spianando il terreno intorno alle rocce più grosse e togliendo quelle che era possibile rimuovere senza fatica soverchia. Tale lavoro preliminare fu compiuto il 20 aprile; indi si iniziò subito il trasporto propriamente detto, per il quale si utilizzarono le piattaforme create per lo scarico del Jonathan. Suddivise in sezioni più piccole e munite, a guisa di ruote, di tronchi d'albero, minuziosamente arrotondati e drizzati, esse fornirono numerosi veicoli primitivi, ai quali si attaccarono gli emigranti, uomini, donne e bambini. E tosto, la lunga processione dei rozzi carri trascinati da attacchi umani si svolse sulla riva, fra il dirupo il mare. Lo spettacolo appariva pittoresco. Quante grida dai milleduecento petti ansanti!… La scialuppa recò un aiuto prezioso. La caricavano degli oggetti più pesanti e più fragili e, dal posto del naufragio fino alla baia Scotchwell andava e veniva ininterrottamente, guidata da Karroly e da suo figlio Così, grazie ad essa, il lavoro veniva notevolmente abbreviato; cosa di cui ci si felicitava, giacché, a più riprese, si fu ostacolati dal cattivo tempo. L'inverno preludiava le sue ire, coi primi turbamenti atmosferici. Bisognava rifugiarsi allora sotto le tende lasciate in piedi ali ultimo momento, ed aspettare che la calma ritornata permettesse di riprendere il lavoro... Non contento di prodigare

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senza posa incoraggiamenti e consigli, il Kaw-djer predicava con l'esempio e non restava inattivo. Sempre in moto sulla strada percorsa dal convoglio, giungeva a tempo ovunque per dare un consiglio, un aiuto. Gli emigranti consideravano stupiti quell'uomo infaticabile, che si costringeva a dividere con loro i duri lavori, mentre nulla gli impediva di ritornare là donde era venuto. In verità, il Kaw-djer non vi pensava. Datosi interamente al compito affidatogli dal caso, vi si abbandonava tutto, soddisfatto di rendersi utile a quella folla di miseri e, perciò appunto, prossima al suo cuore. Ma non tutti raggiungevano la sua altezza morale, ed alcuni accarezzavano, per conto proprio, quei progetti di diserzione che non un istante avevano sfiorato la sua anima. Nulla di più facile, insomma, che impossessarsi della scialuppa, issare le vele e filare verso regioni più clementi. Né si poteva temere di venire inseguiti, perché gli emigranti non possedevano alcun'altra imbarcazione. Era cosa tanto semplice, che destava sorpresa come nessuno ancora lo avesse tentato. Certo, esisteva un ostacolo nel fatto che la Wel-kiej non restava mai senza guardiano, perchè Halg e Karroly che la pilotavano durante il giorno, vi dormivano la notte insieme al Kaw-djer. Coloro quindi che potevano progettare d'impadronirsene, erano forzati ad aspettare l'occasione propizia, occasione che si presentò il 10 maggio. In quel giorno, ritornando dal suo primo viaggio alla baia Scotchwell il Kaw-djer scorse i due Fuegiani che gesticolavano sulla riva, mentre la Well-Kiej, distante già più di trecento metri, si allontanava al largo, con tutte le vele spiegate. A bordo, si distinguevano quattro uomini, dei quali la distanza impediva di riconoscere il volto. Poche parole, rapidamente scambiate, lo misero al corrente dell'accaduto Avevano approfittato d'una breve assenza di Karroly e del figlio, per saltare a bordo della scialuppa e, quando essi avevano scoperto il furto, era già troppo tardi per porvi riparo.

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Man mano che gli emigranti ritornavano all'accampamento, si riunivano, sempre più numerosi, intorno al Kaw-djer e ai suoi due compagni che, impotenti e disarmati, guardavano in silenzio la scialuppa chi la brezza faceva dar di banda graziosamente. Per i naufraghi era una disgrazia seria, perchè perdevano, ad un tempo un mezzo prezioso per accelerare il lavoro attuale e la possibilità di mettersi in comunicazione, al bisogno, col resto del mondo. Ma per i proprietari della Wel-Kiej la disgrazia si mutava in disastro. Il Kaw-djer, però, non palesava con alcun segno esterno la collera che doveva gonfiargli il cuore. Immobile, freddo, impassibile come sempre seguiva con lo sguardo il suo battello, che sparve presto dietro un saliente della spiaggia. Allora il Kaw-djer si rivolse al gruppo che lo circondava: — Al lavoro — disse con voce calma. Ci si rimise all'opera con nuovo ardore. La perdita della scialuppa rendeva necessario affrettarsi, se si voleva essere a posto, prima che 1 inverno giungesse definitivamente. Bisognava anche essere contenti, che il furto ignominioso non fosse accaduto fino dai primi giorni del trasporto. In tale caso, forse, non sarebbero venuti a capo di nulla. Fortunatamente, in quel giorno, 10 maggio, era quasi terminato, e bastava un poco di coraggio ancora per giungere in porto. Gli emigranti ammiravano la serenità del Kaw-djer. Nulla era cangiato nella sua attitudine abituale e continuava a dare prova della stessa bontà, e della stessa dedizione, così che la sua influenza ne fu notevolmente accresciuta. Un incidente, durante quella giornata, finì per renderlo tutt'affatto popolare. Aiutava a trascinare una delle carriole, sulla quale giacevano ammucchiati parecchi sacchi di sementi, quando la sua attenzione fu attirata da gemiti dolorosi. Essendosi diretto rapidamente verso il sito donde partivano i lamenti, scorse un fanciullo di circa dieci anni, che giaceva al suolo, lagnandosi pietosamente. Alle sue domande, il fanciullo rispose che era

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caduto dall'alto d'una roccia, che sentiva un forte dolore alla gamba destra e che non poteva rialzarsi. Buon numero di emigranti schierati in cerchio dietro il Kaw-djer, scambiavano riflessioni assurde. I genitori del fanciullo non tardarono ad unirsi all'assembramento, e i loro lamenti rumorosi aumentarono la confusione.

Il Kaw-djer, con voce risoluta, impose silenzio a tutti, e procedette all'esame del ferito. Intorno a lui, gli emigranti tendevano il collo meravigliati della sicurezza e dell'abilità dei suoi movimenti. Senza esitare diagnosticò la frattura semplice

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del femore, e la ridusse con facilità. Servendosi di pezzi di legno trasformati in assicelle, immobilizzò la parte spezzata che fasciò con lembi di tela, poi il fanciullo fu trasportato alla baia Scotchwell sopra una barella improvvisata. Pur sorvegliando il lavoro delle sue mani, il Kaw-djer non cessava dal rassicurare i genitori addolorati. L'incidente non poteva avere conseguenze dannose: fra due mesi non ne sarebbe rimasta traccia, e, a poco a poco, il padre e la madre riprendevano fiducia, rasserenandosi poi completamente, quando il fanciullo, dopo la fasciatura, assicurò che non soffriva più. Da tali fatti, che in un attimo furono noti a tutti, risultò un grande rispetto verso il Kaw-djer. Egli era decisamente il genio benefico dei naufraghi. I suoi servigi non si potevano neppur più numerare e ben altro ancora ci si aspettava da lui. La stessa sera, 10 maggio, si procedette a una rapida inchiesta per scoprire gli autori del furto della Wel-Kiej, inchiesta che dette risultati necessariamente assai incerti, ma che permise tuttavia di far cadere i sospetti su quattro persone, che nessuno aveva mai veduto durante tutta la giornata. Due appartenevano all'equipaggio, il cuoco Sirdey e il marinaio Kennedy. Gli altri due erano emigranti assai malfamati, due pretesi operai a nome Furster e Jackson. Pei primi, gli avvenimenti non dovevano permettere di giungere alla certezza, ma non si tardò ad avere la prova che i sospetti si erano giustamente portati sopra gli altri due. L'indomani mattina, infatti, Kennedy e Sirdey erano di nuovo presenti e disimpegnavano, come il solito, la loro parte di lavoro. A vero dire, apparivano morti di fatica e Sirdey anzi sembrava ferito. Camminava faticosamente e scorticature profonde gli solcavano il viso. Hartlepool conosceva a fondo quel messere, di cui disprezzava la vile natura, e lo apostrofò rudemente: — Dove eri ieri? — Dove ero?… — rispose ipocritamente Sirdey, — Naturalmente dove sono tutti i giorni.

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— Nessuno però ti ha visto, il mio sornione! Non ti sarai smarrito piuttosto dalla parte della scialuppa? — Della scialuppa… — ripeté Sirdey col fare di chi non comprenda. — Uhm!… — disse Hartlepool e seguitò: — Potresti spiegarmi la causa di codeste tue graffiature? — Sono caduto — rispose Sirdey. — Anzi mi sarà impossibile lavorare oggi. Sto ritto a fatica. — Uhm!… — mormorò ancora Hartlepool allontanandosi, sicuro di non cavar niente dall'astuto individuo. Quanto a Kennedy, non c'era neppure il pretesto per interrogarlo, perchè, per quanto fosse di un pallore cereo e sembrasse male in gambe, aveva ripreso le sue solite occupazioni, senza dire parola. L'11 maggio dunque fu ripreso il lavoro all'ora abituale senza che il problema fosse risolto. Ma una sorpresa attendeva coloro che giunsero primi alla baia Scotchwell. Sulla spiaggia, a poca distanza dalla foce del fiume, giacevano due cadaveri, quelli di Jackson e di Furster, e vicino ad essi stava la scialuppa sventrata, e piena per tre quarti di acqua e di sabbia. L'avventura si poteva ricostruire facilmente. Il battello mal guidato aveva dovuto toccare gli scogli, un po' più in là della baia. Apertasi una falla, l'imbarcazione appesantita aveva dovuto capovolgersi. Dei quattro uomini che la montavano, due, Kennedy e Sirdey, secondo ogni probabilità, avevano raggiunto la riva a nuoto, ma gli altri due non erano riusciti a salvarsi, e alla prima marea, i loro corpi, insieme alla Wel-Kiej mezza fracassata dall'onda, erano stati gettati sulla spiaggia.. Dopo un esame accurato, il Kaw-djer riconobbe che i resti della scialuppa rimanevano ancora utilizzabili. Le coste apparivano più o meno spezzate, ma la membratura aveva sofferto pochissimo, e la chiglia era intatta. Quanto restava della Wel-Kiej fu dunque issato a forza di braccia fuori della portata del mare, aspettando il momento propizio per ripararla.

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Il trasporto del materiale fu definitivamente compiuto il 13 maggio e, senza perder tempo, si cominciò subito a collocare le case smontabili, che sorsero a vista d'occhio. Appena finite, venivano immediatamente occupate, non senza dar pretesto, ogni volta, ad alterchi violenti. Infatti, ne sarebbero abbisognate molte di più per contenere tutti i milleduecento naufraghi, mentre solo i due terzi potevano ragionevolmente sperare di trovarvi asilo. Da ciò, la necessità di procedere a una selezione. Ma essa avvenne a suon di pugni. I più robusti, che avevano incominciato con l'impossessarsi delle diverse parti delle case smontabili, quando furono edificate pretesero di impedire l'accesso. Ma per quanto robusti, dovettero tuttavia cedere dinanzi al numero, ed entrare in trattative con una parte di coloro che tentavano di soppiantare. Vi fu così una seconda serie di fortunati e per conseguenza una seconda selezione basata, come la prima, sulla forza dei competitori. Poi, quando le case ricoverarono un numero di persone abbastanza forte per sfidare il resto degli emigranti, questi ultimi vennero definitivamente eliminati. Quasi cinquecento persone, in maggioranza donne e fanciulli, dovettero così accontentarsi del riparo delle tende, gli uomini furono in numero minore e, generalmente, padri e mariti costretti a seguire la sorte delle proprie famiglie. Fra questi ultimi erano anche il Kaw-djer e i suoi due compagni, che ormai si erano abituati a passare le notti all'aperto, come pure i superstiti dell'equipaggio del Jonathan, ai quali Hartlepool aveva ordinato di astenersi dalle contestazioni. Quei bravi ragazzi obbedirono tutti senza protestare, compresi Kennedy e Sirdey, che, dopo l'avventura della scialuppa, davano prova di zelo e docilità insoliti. Nel numero dei meno favoriti, si contavano altresì John Rame e Fritz Gross, trattenuti lontani dalla lotta dalla loro stessa debolezza fisica, e la famiglia Rhodes, il cui capo non aveva carattere incline alla violenza. Cinquecento persone alloggiarono dunque sotto le tende. La diminuzione di coloro che prima ne usufruivano, permise però

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di impiegare per ogni tenda due coperture sovrapposte e divise da uno strato d'aria; cosa che le rese, in complesso, assai più riparate. Intanto, gli uni portavano a termine la sistemazione interna delle case, chiudendone le connessure e ostruendone le più piccole aperture, per poter efficacemente combattere la penetrante umidità della regione: e gli altri preparavano provvigioni di legna a spese della foresta vicina, oppure ripartivano i viveri in quantità sufficente da assicurare a tutti quattro mesi d'esistenza, mentre i muratori, una ventina circa fra gli emigranti, costruivano in fretta stufe rudimentali. I lavori non erano ancora completamente finiti il 20 maggio, quando l'inverno, fortunatamente molto in ritardo quell'anno, piombò sull'isola Hoste, sotto forma d'una tempesta di neve di violenza spaventosa. In pochi minuti il terreno fu coperto di un bianco lenzuolo, da cui spuntavano gli alberi di ghiaccioli. Le comunicazioni fra le diverse frazioni dell'accampamento divennero all'indomani difficilissime. Ma oramai erano tutti riparati contro l'inclemenza della temperatura. Chiusi entro le case, o sotto la doppia copertura delle tende, riscaldati da fiammate ardenti di legna, i naufraghi del Jonathan si trovavano pronti a sfidare i rigori d'una invernata antartica.

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IV.

SVERNAMENTO.

Durante quindici giorni, la tempesta si accanì senza interruzione, la neve cadde a larghi fiocchi e gli emigranti, costretti a seppellirsi per due settimane sotto i ripari, poterono solo talvolta arrischiarsi a uscirne. Triste per tutti, certamente, la clausura forzata, ma più ancora per quelli che si erano procurati la gioia di una casa smontabile. Queste case, costituite da semplici assiti inchiavardati fra loro, mancavano delle comodità più elementari. Tuttavia, sedotti dal loro aspetto, o fors'anco dal nome illusorio di case, gli emigranti se le erano contese ed ora vi si ammucchiavano oltre i limiti del ragionevole, trasformandole in veri dormitori, ove i pagliericci gettati sul nudo pavimento si toccavano, che divenivano stanze comuni e cucine durante le brevi ore della giornata. Da tale addensamento, da tale coabitazione di più famiglie, derivava necessariamente una promiscuità di ogni momento, tanto dannosa all'igiene, quanto sfavorevole al mantenimento del buon accordo. La disoccupazione e la noia sono infatti fonte di litigi, e in quelle dimore bloccate dalla neve la noia regnava sovrana. Gli uomini, invero, trovavano modo d'occupare i loro ozi, ingegnandosi ad arredare rozzamente le povere case sprovviste del più piccolo mobile e sbozzavano a colpi d'ascia sedie e tavoli, dei quali si sbarazzava l'ambiente quando calava la notte, per stendere i pagliericci. Ma le donne non godevano di tale risorsa. Curati i figlioli, atteso a preparare il pasto, che l'uso delle conserve semplificava notevolmente, non restavano loro che le chiacchiere per passare il tempo. E non se ne

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privavano. Non potendo far correre le gambe, facevano correre le lingue e, nessuno lo ignora, l'intemperanza della parola è bene spesso essa pure generatrice di discordie. C'era anzi da meravigliarsi, che già fin dai primi giorni non ne fossero avvenute. Se quelli che occupavano le tende restavano meno protetti contro le intemperie, usufruivano invece di alcuni altri vantaggi. Disponevano di spazio maggiore, e qualche famiglia, per esempio le famiglie Rhodes e Ceroni, godevano anzi di una tenda intera. I cinque Giapponesi, strettamente uniti fra loro, abitavano pure una tenda, dove vivevano a parte. Tende e case erano disseminate secondo il capriccio individuale. Nessuno aveva diretto il lavoro di piazzamento, e per conseguenza il disegno dell'accampamento non rispondeva ad alcun piano prestabilito. Rassomigliava non a una borgata, ma all'agglomerarsi fortuito di case isolate, e sarebbe stato un imbarazzo serio tracciarvi le vie. Cosa del resto senza importanza, perchè non si trattava di fondare un abitato duraturo. In primavera, demolite le case e le tende, ciascuno avrebbe ritrovata la propria patria e la propria miseria. L'accampamento si stendeva sulla riva destra del fiume che giungendo dall'Ovest, lo lambiva in un punto, poi si ripiegava subito su sé stesso e scorreva al Nord-Ovest per gettarsi in mare, tre chilometri più lontano. La costruzione più occidentale si rizzava sulla riva stessa del fiume. Era una casa smontabile di così piccole proporzioni, che tre sole persone vi avevano potuto trovar posto. Senza litigi, senza chiasso, procedendo tacitamente, uno degli emigranti, certo Patterson, si era preso fin dal primo giorno gli elementi costitutivi di quella casa, e, perchè nessuno gliela contendesse, aveva portato subito al massimo il numero degli inquilini, offrendone, il godimento indiviso a due altri naufraghi. Egli non aveva fatto l'offerta così a caso. Patterson, di costituzione piuttosto delicata, si era unito con fine intuito a

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due compagni di figura erculea e che al bisogno avrebbero potuto disporre di pugni capaci di difendere la proprietà collettiva. Uno si chiamava Blaker, l'altro Long, e ambedue erano di nazionalità americana. Il primo era un giovane contadino di ventisette anni, di carattere piuttosto gioviale, ma afflitto da bulimia che gli complicava dolorosamente la vita. Poiché la miseria, che costituiva il suo destino, non gli aveva mai permesso di soddisfare l'appetito insaziabile, egli aveva avuto fame fin dalla nascita, tanto da rassegnarsi ad espatriare nell'unica speranza di poter finalmente mangiare a sazietà. Il secondo era operaio, un fabbro, dal cervello ristretto e dai muscoli enormi, una bestia solida e malleabile come il ferro arrossato che maneggiava. Quanto a Patterson, se si trovava ora fra i naufraghi, egli almeno, non vi era stato spinto dalla miseria, ma da smodato desiderio di guadagno. Il destino gli si era mostrato ostile ed amico ad un tempo. L'aveva bensì fatto nascere solo, povero e nudo sul ciglio d'una strada irlandese, ma dotato in compenso di avarizia prodigiosa, vale a dire del modo di conquistare tutti i beni che gli mancavano nel momento della sua venuta sulla terra e, grazie ad essa, era già riuscito infatti ad ammucchiare, fino dall'età di venticinque anni, un peculio rispettabile. Lavoro indefesso, privazioni da cenobita, nonché, se l'occasione si presentava, sfruttamento cinico degli altri, nulla l'aveva distolto dal suo scopo. Tuttavia, un contadino, per quanto accorto, se privo del minimo capitale iniziale, non può progredire che lentamente sul sentiero della ricchezza. Lo spazio che gli è offerto è troppo ristretto per permettergli un'ascesa rapida. Patterson, dunque, non precedeva che penosamente, a furia di coraggio, di rinunzie e di astuzia, quando gli furono raccontate cose strabilianti sulle probabilità che un uomo senza scrupoli può trovare in America. Abbacinato da tali storie meravigliose, egli non sognò altro che il Nuovo Mondo e progettò, come molti altri, di andarvi a cercar la buona ventura, non per seguire le

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tracce di taluni miliardari, usciti tuttavia al pari di lui dagli ultimi strati sociali, ma nella speranza, almeno, di rimpinzare la sua calza di lana più presto che non nella madrepatria. Appena giunto sul suolo americano, fu sollecitato dalla pubblicità intensiva della Società della baia di Lagoa e, confidando nelle promesse seducenti di essa, che là avrebbe trovato un campo vergine ove impiegare fruttuosamente il suo piccolo capitale, insieme a mille altri, s'imbarcò sul Jonathan. Certo gli avvenimenti delusero le sue speranze. Ma Patterson non apparteneva a quel genere di gente che si scoraggia. A dispetto del naufragio, senza nulla dimostrare dell'amarezza che doveva pur risentire, s'intestava a inseguire la fortuna con la stessa paziente ostinazione. Se, nella comune sventura, uno solo dei naufraghi fosse giunto a guadagnare qualche cosa, quell'uno doveva essere certamente lui. Aiutato da Blaker e da Long, egli aveva collocato la sua casetta non lungi dal mare, sulla riva del fiume e nell'unico punto accessibile. A monte del fiume la riva, rialzandosi subitamente, si tramutava in una specie di dirupo alto quasi quindici metri. A valle, oltre un praticello che si stendeva innanzi alla casa, il terreno cedeva all'improvviso e il fiume scendeva in cascata sul piano inferiore. Tra la cascata e il mare si stendeva una palude impraticabile. A meno di imporsi un giro vizioso di un buon chilometro, tutti gli emigranti dovevano necessariamente passare davanti alla dimora di Patterson per andare a riempire e secchi e barili. Le altre case e le tende si rizzavano, in disordine pittoresco, parallele al mare, dal quale le separava la palude. Il Kaw-djer alloggiava con Halg e Karroly in una ajupa fuegiana, costruita dai due Indiani. Nulla di più rudimentale di quel ricovero fatto con erbe e con fronde e, per accontentarsene, non bisognava certo temere ì rigori del clima. Ma l'ajupa, posta sulla riva sinistra del fiume, aveva il vantaggio di 'essere vicina al posto ov'era naufragata la scialuppa; cosa che permetteva d'approfittare di tutti i momenti di bel tempo per attivarne le riparazioni.

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Durante le due settimane del primo serio assalto invernale, non si poté pensare ad iniziarle. Ma non bisogna concluderne che il Kaw-djer vivesse da recluso, come la folla meno temprata dei naufraghi. Ogni giorno, in compagnia di Halg attraversava il fiume sopra un piccolo ponte costruito da Karroly in quarantott'ore, e si recava all'accampamento.

E vi trovava sempre da fare. Fino dai primi freddi, alcuni emigranti, colpiti da affezioni acute, in generale bronchiti piuttosto benigne, avevano chiesto l'aiuto del Kaw-djer, che

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godeva ormai di salda riputazione in materia medica. Infatti il fanciullo ferito migliorava di giorno in giorno e tutto assicurava che il pronostico dell'abile operatore si sarebbe avverato nel giorno stabilito. Il Kaw-djer, dopo il solito giro medico, entrava nella tenda della famiglia Rhodes, e s'intratteneva un'ora o due a parlare di quanto poteva interessare i naufraghi. Egli si affezionava sempre più ai Rhodes; gli piaceva la bontà semplice della signora Rhodes e della figlia Clary, le quali adempievano presso gli ammalati che ne avevano bisogno le funzioni di infermiere. Di Harry Rhodes apprezzava la dirittura e lo spirito benevolo, e fra i due uomini, a poco a poco, nascevano sentimenti di vera amicizia. — Arrivo ad essere contento — disse un giorno Harry Rhodes al Kaw-djer — che quei furfanti abbiano tentato di impadronirsi della nostra scialuppa. Forse, se fosse in buono stato, vi verrebbe il desiderio di lasciarci ora che siamo tutti a posto. Mentre adesso siete nostro prigioniero. — Bisognerà pure che io parta — obbiettò il Kaw-djer. — Non prima della primavera — replicò Harry. — Siete troppo utile a tutti. Qui ci sono tante donne e tanti fanciulli, che voi solo potete curare. Che sarebbe di essi senza di voi? — Non prima della primavera sia! — concesse il Kaw-djer. — Ma poiché in quel momento se ne andranno tutti, potrò anch'io riprendere il mare. — Per ritornare all'Isola Nuova? Il Kaw-djer rispose con un gesto evasivo. Sì, l'Isola Nuova era la sua dimora. Vi aveva vissuto molti anni. Doveva ritornarci ora? Le ragioni che l'avevano allontanato, esistevano sempre. L'Isola Nuova, già terra libera, soggiaceva, ora, all'autorità del Chili. — Se avessi voluto partire — disse desiderando mutare argomento — credo che i miei due compagni non sarebbero stati contenti. Halg, almeno, se non Karroly, avrebbe lasciato l'isola Hoste con dolore e, fors'anco, avrebbe rifiutato di seguirmi.

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— Perchè? — chiese la signora Rhodes. — Per il motivo semplicissimo che Halg, temo, ha la disgrazia di essere innamorato. — Una lieta disgrazia! — esclamò piacevolmente Harry Rhodes. — L'amore è proprio della sua età. — Non dico di no — riconobbe il Kaw-djer. — Ma quel povero ragazzo sta preparandosi così a grandi dolori, quando verrà il giorno del distacco. — Ma perchè dovrebbe separarsi dalla persona che ama, anziché sposarla semplicissimamente? — domandò Clary che, al pari di tutte le fanciulle, si interessava alle cose del cuore. — Perchè si tratta della figlia di un emigrante, la quale non acconsentirebbe mai a restare in Magellania. E d'altra parte non posso capire cosa farebbe Halg, trasportato in uno dei nostri paesi, così detti civilizzati. Senza calcolare poi che egli non lascerebbe suo padre e me troppo di buon animo. — La figlia di un emigrante?… — chiese Harry Rhodes. — È forse Graziella Ceroni? — L'ho vista parecchie volte — disse Edward prendendo parte alla conversazione, — non è brutta. — Halg la trova meravigliosa — esclamò il Kaw-djer sorridendo. — È naturale! Finora, egli non aveva veduto che donne fuegiane e sono obbligato a riconoscere che si può essere facilmente migliori. — Si tratta dunque di lei? — chiese Harry Rhodes. — Sì. Il giorno in cui dovemmo intervenire negli affari della sua famiglia, come ricorderete, avevo già osservato l'impressione viva che ella produsse in lui. Si può dire che fu una vera rivelazione. Voi non ignorate quanto siano infelici la madre e la figlia, e dalla pietà all'amore sovente non v'è troppa distanza. — Ed è anche la più bella di tutte le strade che vi conducono — osservò la signora Rhodes.

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— Checché ne sia, vi prego crederlo, da quel giorno Halg vi cammina allegramente. Non potete farvi un'idea del cambiamento avvenuto in lui. Ne volete un esempio?… Gli indigeni della Magellania non hanno pretensioni all'eleganza, come immaginate facilmente. Nonostante il clima rigido, spingono al riguardo l'indifferenza fino a vivere completamente nudi. Halg, pervertito dalla civilizzazione, di cui ho il torto di portare un vecchio resto nelle pieghe dei miei vestiti, era un raffinato fra i suoi congeneri, avendo consentito, dopo il naufragio del Jonathan, a coprirsi di pelli di foca ed anche di guanaco. Ma ora è ben altra cosa! Ha snidato un parrucchiere in mezzo agli emigranti e si è fatto tagliare i capelli. È forse il primo fuegiano che abbia adottato simile eleganza! E non è tutto. Non so con quale mezzo si sia procurato un abito completo e non esce più se non vestito all'europea e, per la prima volta in vita sua, calzato di scarpe che, del resto, devono dargli non poca noia! Karroly non ci capisce niente, ma io so già fin troppo cosa voglia dire tutto ciò. — E Graziella — chiese ancora la signora Rhodes — è commossa da tutti gli sforzi fatti per piacerle? — Credete bene che non gliel'ho chiesto — replicò il Kaw-djer. — Ma, a giudicare dal viso raggiante di Halg, presumo che i suoi affari non vadano male. — Non mi stupisce — disse Harry Rhodes: — il vostro compagno è un bel giovanotto. — Fisicamente non è brutto, ne convengo — approvò il Kaw-djer, con soddisfazione evidente, — ma moralmente poi è anche migliore: è un cuore generoso, fedele, buono, devoto e intelligente. — Credo che sia vostro allievo, — disse la signora Rhodes. — Potete dire: mio figlio, perchè io l'amo come un padre. Mi affliggo quindi per le sue nuove idee, dalle quali, alla fine, risulteranno soltanto dolori. Il Kaw-djer non s'ingannava. Una simpatia nascente attirava, l'uno verso l'altro, il giovane Fuegiano e Graziella. Dal primo momento in cui gli era apparsa, Halg, col pensiero sempre

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rivolto a lei, non aveva lasciato passare un solo giorno senza tentare di vederla. Testimonio della scenata nella quale il Kaw-djer era intervenuto, egli conosceva la piaga della famiglia e, con la perspicacia degli innamorati, traeva partito, senza scrupoli, della situazione. Col pretesto di incaricarsi dei bisogni delle due donne, e di vegliare sulla loro tranquillità, egli restava lunghe ore insieme ad esse e, usando la lingua inglese, che parlavano tutti correntemente, si scambiavamo le loro idee. Halg, anche in questa cosa, come in tante altre, non rassomigliava ai suoi compatriota, così meravigliosamente refrattari allo studio delle lingue. Egli invece, senza fatica soverchia, aveva imparato l'inglese e il francese, ed ora, pretesto ottimo per frequentare la famiglia Ceroni, stava facendo in italiano progressi prodigiosi sotto la direzione di Graziella. Ella aveva facilmente compreso le cause della sua assiduità allo studio, ma dapprincipio i sentimenti che nutriva per lei il giovane indiano l'avevano divertita, piuttosto che commossa. Halg, coi lunghi capelli spioventi, con le tempie strette, il naso leggermente camuso, la carnagione qualche poco rossiccia, le faceva l'effetto d'un essere d'altra specie. Secondo la sua classificazione immaginaria, gli abitatori del nostro pianeta si suddividevano in due razze distinte: gli uomini e i selvaggi; e Halg, essendo un selvaggio, non poteva di conseguenza essere un uomo. Il ragionamento era severo. L'idea che un legame qualsiasi potesse esistere fra quell'esotico coperto appena da pelli di bestie e un'Italiana che si riteneva superiore nell'essenza, non le passò neppure per la mente. Tuttavia, ella si abituò a poco a poco ai lineamenti e al vestire sommario del suo timido adoratore, e giunse gradatamente a considerarlo come un adolescente pari agli altri. Halg, da parte sua, fece ogni sforzo per provocare tale evoluzione nel pensiero di lei. Un bel giorno Graziella lo vide apparire coi capelli abilmente tagliati e separati sui due lati da una riga tracciata da mano pratica. Poco dopo, trasformazione anche più stupefacente, Halg si presentò vestito all'europea. Calzoni,

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camiciotto, scarpe: non gli mancava nulla. Ogni cosa era indubbiamente rozza e grossolana, ma così non la pensava Halg che si riteneva elegantissimo e si guardava volontieri entro un frammento di specchio proveniente dal Jonathan. Quanto aveva faticato per scoprire l'emigrante compiacente che gli avesse fatto da parrucchiere e per procurarsi il vestito che, secondo lui, lo rendeva irresistibile! La ricerca del vestito era stata assai ardua, e fors'anche sarebbe rimasta vana, se non avesse avuto la fortuna di entrare in rapporti con Patterson. Patterson vendeva un po' di tutto e l'avaro, per nulla al mondo, avrebbe lasciato sfuggirsi l'occasione d'un baratto qualsiasi. Se egli non possedeva l'oggetto richiesto, lo trovava sempre, dando da una mano, ricevendo dall'altra e prelevando nello scambio una senseria onesta. Patterson aveva dunque fornito gli abiti richiesti, e in cambio le economie del giovane erano passate nelle sue tasche. Ma egli non le rimpiangeva, Graziella l'aveva ricompensato del suo sacrificio, mutando subito atteggiamento verso di lui. Secondo la sua classificazione personale, Halg cessava di essere un selvaggio e diveniva un uomo. Da allora le cose camminarono a passi da gigante, e nel cuore dei due giovani era germogliato un affetto sincero. Harry Rhodes aveva ragione. Halg, astrazione fatta del tipo speciale alla razza, era veramente un bel giovane. Alto, robusto, abituato alla vita all'aria aperta, possedeva quella grazia del portamento derivata dalla flessuosità del corpo e dall'armonia dei movimenti. D'altra parte, la sua intelligenza, aperta dalle lezioni del Kaw-djer, non era certo mediocre e negli occhi gli si leggevano l'onestà e la bontà. Era più di quanto non occorra a commuovere una fanciulla infelice. Dal giorno in cui, senza aver scambiato una sola parola, Halg e Graziella si sentirono complici, le ore passarono rapide per essi. Che importava loro della tempesta? Del freddo? Le intemperie rendevano l'intimità più dolce, ed essi quasi temevano il ritorno del bel tempo.

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Tuttavia, il bel tempo ritornò e gli emigranti, che non avevano le stesse ragioni d'indifferenza, furono lieti del cambiamento. Come sotto un colpo di bacchetta magica, l'accampamento si rianimò. Case e tende si vuotarono. Mentre gli uomini si stiravano le membra intorpidite dalla lunga clausura, le comari, felici di mutare discorsi e interlocutrici, andarono di porta in porta, scambiando visite, stringendo nuove amicizie. Karroly mise a profitto la stagione favorevole per cominciare le riparazioni alla scialuppa, aiutato dagli stessi carpentieri della prima volta. Ma poiché tutti i lavori preparatori: demolizione, tranciatura e centinatura del legname dovevano essere fatti da loro tre soli, si presumeva che la riparazione non sarebbe stata compiuta in meno di tre mesi. Intanto che Karroly e i compagni maneggiavano la pialla e la sega, il Kaw-djer, che desiderava procurare a sé e agli ammalati provvigioni fresche, andava a caccia con Zol, il suo cane fedele. Benché l'arcipelago subisse i rigori invernali, benché la neve ricoprisse le praterie e il ghiaccio le alture, la vita animale non era tuttavia soppressa. Le foreste ricoveravano numerosi guanachi e vigogne, e poi volpi e nandù. E sopra la pianura starnazzavano ancora oche montanine, piccole pernici, beccacce e beccaccine. Sul litorale pullulavano in gran numero i gabbiani commestibili, qualche balena veniva a soffiare in vista dell'isola e i lupi marini abbondavano sulle rive. Invece, non bisognava pensare alla pesca. Il pesce, e soprattutto il merluzzo e la lampreda, non frequentava che in estate l'isola Hoste. D'inverno risale più al Nord, nel canale del Beagle e nello stretto di Magellano. Dalla sua escursione, il Kaw-djer, oltre ad abbondante selvaggina, portò notizie di quattro famiglie che avevano ritenuto opportuno allontanarsi dall'accampamento per stabilirsi a qualche lega nell'interno. I dissidenti erano i Rivière, i Gimelli, i Gordon e gli Ivanoff, che avevano accompagnato il Kaw-djer e Harry Rhodes nella prima esplorazione dell'isola. Di comune accordo, essi avevano

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risoluto di separarsi dagli altri. Tutti e quattro, coltivatori di professione, appartenevano alla stessa categoria morale, la categoria delle persone oneste, sane, bene equilibrate e in buona salute. Ben lontani dalla rapacità di un Patterson o dalla inerzia d'un John Rame, erano semplicemente lavoratori. Il lavoro per essi diveniva bisogno e vi si sottoponevano senza fatica, insieme alle mogli e ai loro figli, incapaci del pari di non cercare sempre l'utile impiego del tempo. Rivière, mentre si abbattevano gli alberi necessari allo scarico del Jonathan, era rimasto sorpreso della ricchezza di quelle foreste, che nessuna scure aveva mai finora intaccate. Nell'apprendere a Punta Arenas che avrebbe dovuto soggiornare sei buoni mesi all'isola Hoste, ebbe subito l'idea di approfittare delle circostanze per tentare lo sfruttamento di quelle magnifiche foreste. Si procurò, a tale scopo, il materiale rudimentale per l'impianto d'una segheria, e ne caricò la scialuppa. L'intrapresa non poteva non essere fruttuosa; la foresta non apparteneva a nessuno e il legno non sarebbe costato nulla. Restava il problema del trasporto. Ma Rivière pensava che quella difficoltà avrebbe finito per risolversi più tardi da sé stessa, e una volta che il legno fosse stato segato, si sarebbe trovato il mezzo di scambiarlo contro danaro suonante. Al momento di realizzare il suo progetto, egli si era confidato con Gimelli, con Gordon e Ivanoff, coi quali aveva stretta amicizia sul Jonathan. Costoro avevano approvato vivamente il Franco-Canadese, pur deplorando di non poterlo imitare; tuttavia, poiché un'idea ne chiama un'altra, idearono subito un progetto analogo. Durante l'escursione fatta insieme al Kaw-djer, avevano potuto apprezzare la fertilità del suolo. Perchè non tentare l'uno un allevamento e gli altri due lo sfruttamento del terreno? Se al termine di sei mesi il risultato fosse riuscito favorevole, nulla li avrebbe obbligati a partire. Magellania od Africa, il paese nel quale si vive non ha importanza, dal momento che non è il proprio. Se, invece, il risultato fosse stato cattivo, non avrebbero perduto null'altro che il loro lavoro. Ma il lavoro è una derrata inestinguibile, quando si

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possiedano buone braccia e forza d'animo, e meglio valeva tutt'al più lavorare sei mesi in pura perdita, anziché restare così a lungo inattivi. Dal campo anche sterile potevano almeno trarre buona messe di salute.

Le quattro famiglie, composte di uomini saggi, di mogli serie, di figlie e di figli robusti e sani, possedevano tutti i requisiti per riuscire, dove altri sarebbero falliti. La decisione fu dunque presa ed attuata con l'approvazione e il consenso d'Hartlepool e del Kaw-djer.

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Mentre gli emigranti si occupavano di trasportare il materiale alla baia Scotchwell, i dissidenti preparavano attivamente la loro partenza. A colpi d'ascia, improvvisarono un carretto con sale di legno e ruote piene, molto primitivo certamente, ma vasto e solido. Su di esso vennero ammassati viveri, semenze, istrumenti per arare, utensili domestici, armi, munizioni; insomma quanto poteva essere necessario al principio di una impresa agricola. Non furono dimenticate quattro o cinque coppie di volatili, e i Gordon, che si sarebbero occupati più particolarmente dell'allevamento, vi aggiunsero alcuni conigli, nonché alcuni capi dei due sessi di razze bovine, ovine e suine. Così, muniti degli elementi della loro ricchezza, si allontanarono verso il Nord, alla ricerca di una località conveniente. La trovarono a dodici chilometri dalla baia Scotchwell, ove si stendeva un vasto altipiano, limitato all'Ovest da fitte foreste e all'Est da una larga vallata, in fondo alla quale serpeggiava un fiume. La valle, ricca di erbe, costituiva un pascolo superbo, ove numerosi armenti avrebbero comodamente prosperato. Quanto all'altipiano, sembrava ricoperto da uno strato di humus, che sarebbe divenuto eccellente quando la zappa l'avesse dissodato e sbarazzato da quell'inestricabile groviglio di radici, che lo solcava in ogni parte. I coloni si misero all'opera. Prima loro cura fu costruire quattro piccole casette di tronchi d'alberi. Era meglio, anche a costo d'un lavoro supplementare, vivere ciascuno a sé; il buon accordo se ne sarebbe avvantaggiato. Il tempo cattivo, la neve e il freddo, non ritardarono di un'ora la costruzione delle case; erano già ultimate alla visita del Kaw-djer, ed egli ritornò edificato di ciò che può compiere la volontà, quando sia tesa verso uno scopo. I Rivière stavano già impiantando una ruota a pala per utilizzare la cascata naturale del corso d'acqua. La ruota doveva fornire la forza alla segheria, che sarebbe stata alimentata automaticamente dal legname atterrato sull'altipiano. I Gimelli e gli Ivanoff, da parte loro, dopo avere attaccato il terreno a colpi di zappa, lo

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preparavano per l'aratro che avrebbero trascinato, a tempo opportuno, quelle stesse bestie cornute per le quali i Gordon preparavano già appositi recinti. Se anche tali sforzi avessero dovuto restare sterili, il Kaw-djer giudicò preferibile il bisogno di azione di quelle quattro famiglie, all'apatia degli altri emigranti. Costoro, da quei fanciulloni che erano, godettero il sole fiche ce ne fu, poi, quando il cielo ritornò inclemente, si seppellirono entro i loro ripari, ove vissero confinati come la prima volta, per uscire di nuovo, al primo raggio di sole. Così trascorse un mese, fra alternative di giorni belli in minoranza, e di giorni cattivi più numerosi. E si giunse al 21 giugno, che nell'emisfero australe segna il solstizio d'inverno. In questo mese passato alla baia Scotchwell, era già sopravvenuto qualche cambiamento fra la suddivisione degli emigranti. Inimicizie ed amicizie nuove avevano causato alcune permute fra gli abitatori delle case smontabili. D'altra parte, cominciavano a delinearsi nella folla raggruppamenti particolari, nello stesso modo che sulla superficie liscia di un fiume emergono taluni isolotti. Uno tra i vari gruppi, era formato dal Kaw-djer, dai due Fuegiani, da Hartlepool e dalla famiglia Rhodes. Intorno ad esso gravitava l'equipaggio del Jonathan, Dick e Sand compresi, come satelliti intorno a un centro di attrazione. Un secondo gruppo, composto pure da gente tranquilla e seria, comprendeva i quattro lavoratori accaparrati dalla Compagnia colonizzatrice: Smith, Wright, Lawson e Fock, e una quindicina fra gli operai imbarcati sopra il Jonathan a loro rischio e pericolo. Il terzo contava cinque membri: i cinque Giapponesi che vivevano nel silenzio e nel mistero, e le cui facce gialle e i lunghi occhi a mandorla non erano intravisti che raramente. Un quarto riconosceva per capo Ferdinando Beauval. Nel campo magnetico del tribuno, si muovevano una cinquantina d'emigranti, dei quali quindici o venti meritavano il nome di operai. Il resto proveniva dalla grande massa agricola.

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Il quinto, di numero piuttosto esiguo, si inspirava a Lewis Dorick. A lui erano particolarmente infeudati il marinaio Kennedy, il cuoco Sirdey, e cinque o sei individui, che si gabellavano per operai, ma che appartenevano evidentemente alla corporazione dei malfattori di professione. In maniera più passiva che attiva, Lazzaro Ceroni, John Rame e una dozzina di alcoolizzati, trasformati dalla loro mollezza in poveri fantocci di carne, si accodavano a questo nucleo di militanti. Un sesto e ultimo gruppo assorbiva tutto il resto della folla, che si suddivideva certamente in un grande numero di altre frazioni distinte, seguendo le simpatie e le antipatie individuali, ma che, nell'insieme, aveva comune il carattere di non averne alcuno, d'essere ondeggiante, inerte, instabile e pronta, quindi, a obbedire agli impulsi più diversi. Restavano gli isolati, gli indipendenti, quali Fritz Gross, giunto all'ultimo stadio dell'abbrutimento, i fratelli Moore, ai quali il carattere violento impediva di frequentare per più di tre giorni di seguito le stesse persone, e infine Patterson, che nascondeva la sua esistenza, non avvicinava alcuno, se non per trafficare, e viveva a parte, fiancheggiato dai due accoliti Blaker e Long. Fra tutti questi gruppi, se la parola non è di troppa pretesa, quello che sapeva trarre maggior profitto dalle circostanze, era incontestabilmente il gruppo che riconosceva per capo Lewis Dorick e, di tutti i membri del gruppo, il più felice era, non meno incontestabilmente, Lewis Dorick stesso. Costui applicava i suoi principi. Quando il tempo lo permetteva andava volontieri di tenda in tenda, di casa in casa, ed in ciascuna di esse si fermava più o meno a lungo. Sotto il pretesto menzognero che la proprietà individuale è una nozione immorale, che tutto appartiene a tutti, e che nulla appartiene ad alcuno, egli occupava i posti migliori e si attribuiva, imperturbato, quanto gli convenisse. Un fiuto sottile gli lasciava discernere dove c'era da temere resistenza seria. Allora girava alla larga. Ma sfruttava i deboli, gli indecisi, i timidi e gli sciocchi. I disgraziati, letteralmente terrorizzati dall'incredibile audacia e dalla parola imperiosa del comunista,

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si lasciava spennacchiare senza un lamento. Per soffocare ogni protesta, bastava che Dorick saettasse lo sguardo dei suoi occhi d'acciaio. Mai l'ex professore aveva goduto di tanta bazza e l'isola Hoste, per lui, rappresentava la terra di Canaan. Per essere giusti, bisognava riconoscere che non si rifiutava di praticare le sue teorie in senso contrario. Se prendeva senza scrupoli ciò che apparteneva agli altri, dichiarava cosa naturale che gli altri prendessero ciò che egli stesso possedeva.. Generosità tanto più ammirabile inquantochè egli non possedeva assolutamente nulla. Tuttavia, dal modo col quale si mettevano le cose, era facile prevedere che non sarebbe stato sempre così. I discepoli camminavano sulle orme del maestro. Senza pretendere di eguagliarne la maestrìa, facevano del loro meglio. Non occorreva di più, del resto, perchè a capo dell'inverno le ricchezze collettive non divenissero, infatti, proprietà particolare di tali feroci diniegatori del diritto di proprietà. Il Kaw-djer non ignorava quell'abuso di forza, e si meravigliava dell'applicazione singolare di dottrine libertarie, attinenti a quelle che egli pure professava con tanta passione. Porre rimedio a tale tirannia? A quale titolo? Con quale diritto avrebbe sollevato un conflitto, proteggendo di motu proprio persone che non chiedevano neppure soccorso, contro altri uomini, loro simili dopo tutto? E del resto, egli aveva troppe preoccupazioni personali, che lo distoglievano da quelle degli altri. Più l'inverno inoltrava e più gli ammalati aumentavano di numero: egli non bastava al suo compito. Il 18 giugno ci fu un decesso; morì un bimbo di cinque anni, colpito da bronco-pneumonia che nessuna cura poté guarire. Il terzo cadavere che, dopo il naufragio, riceveva la terra dell'isola Hoste. Lo stato d'animo di Halg preoccupava pure moltissimo il Kaw-djer. Egli leggeva come in un libro aperto nell'anima del giovine Fuegiano e indovinava il turbamento crescente del suo cuore. Come sarebbe finita la cosa, quando gli emigranti si

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fossero allontanati per sempre dalla Magellania? Halg non avrebbe voluto seguire Graziella, andandosene a morire lontano di dolore e di miseria? In quel giorno appunto, il 18 giugno, Halg ritornò più pensieroso del solito della sua visita quotidiana alla famiglia Ceroni e il Kaw-djer non ebbe bisogno di fare domande per conoscerne il motivo. Spontaneamente Halg gli confidò che il giorno prima, dopo la sua partenza, Lazzaro Ceroni si era da capo ubbriacato, e, come sempre, ne era risultata una scenata terribile, fortunatamente, meno violenta della precedente. Il Kaw-djer ne rimase impressionato. Se Ceroni si era ubbriacato, voleva dire che aveva trovato una certa quantità di alcool a sua disposizione. E allora, gli uomini dell'equipaggio non custodivano più il materiale scaricato dal Jonathan? Hartlepool, interrogato, dichiarò di non comprendere nulla ed assicurò che la sorveglianza era sempre rigorosa. Tuttavia, essendo innegabile il fatto, promise di raddoppiare le cure, onde evitare che si ripetesse. Il giorno 24 giugno, tre giorni dopo il solstizio, avvenne il primo incidente di qualche importanza, non però per sé stesso, ma per le conseguenze indirette che doveva avere nell'avvenire. Quel giorno faceva bel tempo. Una brezza leggera aveva sbarazzato il cielo e il terreno si era indurito per un freddo secco di quattro o cinque centigradi. Allettati dai raggi pallidi del sole, che tracciavano all'orizzonte un arco ristretto, gli emigranti se ne stavano fuori all'aperto. Dick e Sand, che nessuna intemperia poteva trattenere rinchiusi, godevano in mezzo agli emigranti l'aria libera e insieme con Marcello Norely e con due altri compagni della loro età, avevano organizzato il giuoco della campana, che li divertiva oltremodo. Intenti a sé stessi, non osservarono neppure un altro gruppo di giocatori, uomini adulti, che si erano installati a poca distanza. Il gioco non è poi diritto esclusivo dell'infanzia. Anche l'età matura vi si compiace volentieri. Gli uomini si appassionavano a una partita a bocce.

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Erano in sei, fra i quali anche quel Fred Moore che aveva già avuto con Dick un principio di alterco. Accadde che il pallino dei giocatori di bocce rotolasse nella campana dei fanciulli. Sand, in quel momento, tutto intento a ben condurre un quadruplo della più grande difficoltà, ebbe la disgrazia di non vedere il pallino e, involontariamete, di scostarlo col piede. Qualcuno lo afferrò subirò all'orecchio. — Ehi, monello — diceva nello stesso tempo una voce grossa, — non potresti guardare meglio? Le dita che tenevano l'orecchio stringevano duramente, e Sand, molto sensibile, si mise a piangere. La cosa sarebbe senza dubbio finita così, se Dick, trascinato dal suo temperamento bellicoso, non avesse giudicato opportuno intervenire. All'improvviso, Fred Moore, il nemico temibile che Sand aveva offeso, fu costretto a lasciare il prigioniero, per difendersi a sua volta. Un alleato inatteso del ragazzo, — si usano le armi di cui si dispone! — lo pizzicava crudelmente di dietro. Egli si voltò e si trovò faccia a faccia con l'insolente, che l'aveva già sfidato una volta. — Ancora tu, marmocchio! — esclamò allungando le braccia per afferrare il minuscolo avversario. Dick, con un salto, si sottrasse alla stretta e prese la fuga, inseguito da Fred Moore, che bestemmiava e spergiurava come un ateo. L'inseguimento si prolungò. Ogni volta che il nemico stava per afferrarlo, Dick gli sfuggiva con uno sgambetto e Moore, sempre più irritato, non trovava che il vuoto dinnanzi a sé. Tuttavia la partita era troppo ineguale, perchè potesse proseguire all'infinito. Non era possibile che le gambe di Dick valessero quelle di Fred Moore e, malgrado la bella resistenza del fuggiasco, venne il momento in cui egli dovette rinunziare ad ogni speranza. Ma proprio mentre Fred Moore, spintosi a corsa sfrenata, bastava che stendesse la mano per finirla, urtò col piede contro un ostacolo inopportuno e, perduto l'equilibrio, stramazzò a

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terra, scorticandosi le mani e le ginocchia. Dick e Sand approfittarono della diversione, per porsi in salvo. L'ostacolo, causa della caduta di Fred Moore, era un bastone, o meglio la gruccia di Marcello Norely. Per soccorrere l'amico in pericolo egli, usando del solo mezzo che fosse in suo potere, aveva lanciato la sua gruccia tra le gambe dell'emigrante. Ed ora, felice dell'esito, rideva di cuore, senza neppur pensare che aveva compiuto un atto semplicemente eroico. Eroico certo diveniva il suo intervento, e al massimo punto, perchè il piccolo infermo, privandosi d'un accessorio indispensabile, e condannandosi perciò all'immobilità, attirava necessariamente su di sé il castigo che Fred Moore destinava a un altro. Costui si rialzò furioso. Con un salto fu sopra Marcello che sollevò come una piuma. E il fanciullo, ricondotto così, alla sana realtà delle cose, cessò di ridere per gettare acuti gridi. Ma l'altro non se ne impressionava. La sua grossa mano si alzò, pronta a una pioggia di ceffoni… Essa non ricadde. Qualcuno l'aveva fermata di dietro e la tratteneva con stretta imperiosa, mentre, biasimando, una voce diceva: — E che, signor Moore… un fanciullo. Fred si voltò. Chi si permetteva dì dargli una lezione? Riconobbe il Kaw-djer che, accentuando il biasimo, continuava con calma: — Ed anche infermo! — Di che cosa vi immischiate, voi — gridò Fred Moore. — Lasciatemi, altrimenti… Il Kaw-djer non sembrava per nulla disposto ad obbedire all'ingiunzione. Fred Moore tentò di liberarsi con uno sforzo violento. Ma la presa era buona. Fuori di sé, respinse Marcello Norely ed alzò l'altra mano pronto a colpire. Senza fare un gesto, senza che un muscolo del viso gli si muovesse, il Kaw-djer si accontentò di stringere la morsa delle sue dita. Il dolore dovette essere acutissimo, perchè Fred Moore non compì il gesto cominciato. Si piegò sulle ginocchia.

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Il Kaw-djer allentò la stretta e liberò la mano che tratteneva. E allora, Fred Moore, cieco di rabbia, portò quella mano stessa alla cintola e la brandì armata di un lungo coltello da caccia. Vedeva sangue, come si dice. Nei suoi occhi riluceva la follia dell'omicidio.

Fortunatamente, gli altri compagni di giuoco, spaventati dall'andamento delle cose, s'interposero e trattennero l'energumeno, che il Kaw-djer contemplava con stupore e tristezza.

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Era mai possibile che un uomo, sotto l'influenza della collera, divenisse a tal punto lo schiavo dei suoi nervi? Ed era proprio un uomo quell'essere, che si dibatteva come un energumeno ed emetteva grida inarticolate? Dinanzi a tale spettacolo, il Kaw-djer non avrebbe modificate le sue idee libertarie? Non sarebbe giunto ad ammettere che l'umanità ha bisogno di essere aiutata da una costrizione salutare nella sua lotta eterna contro le passioni brutali che la trascinano? — Ci ritroveremo, camerata! — arrivò finalmente ad articolare Fred Moore, che quattro robusti giovani trattenevano a fatica. Il Kaw-djer crollò le spalle e si allontanò senza neppure voltarsi. Dopo pochi passi aveva cacciato il ricordo della disputa assurda. Dava prova di saggezza ad attribuire così poca importanza all'incidente? Un giorno, non troppo lontano, doveva provargli che Fred Moore ne conservava un ricordo più duraturo. Al principio di luglio, Halg provò una grande emozione. Scoperse un rivale. L'emigrante Patterson, il quale gli aveva venduto a prezzo d'oro i vestiti che lo rendevano così orgoglioso, era entrato in rapporti con la famiglia Ceroni ed evidentemente ronzava intorno a Graziella. Halg se ne disperò. Povero adolescente di diciotto anni, a metà selvaggio, poteva egli forse lottare contro quell'uomo già fatto, provvisto di ricchezze, che sembravano favolose al povero Indiano? Malgrado l'affezione che ella gli testimoniava, era ammissibile che Graziella esitasse? Ella non esitava infatti. La tenerezza innocente e la giovinezza di Halg trionfavano facilmente sui vantaggi del competitore. L'Irlandese si ostinava a imporsi però e restava insensibile alla freddezza che gli dimostravano Graziella e sua madre. Esse appena rispondevano quando egli rivolgeva loro la parola, e fingevano spesso di non accorgersi della sua presenza. Patterson non se ne mostrava impressionato, né ciò gli impediva di persistere nelle sue mire, con la fredda perseveranza che gli aveva assicurato, fino allora, il successo in

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ogni impresa. Aveva poi un alleato sul posto, e questo alleato non era che Lazzaro Ceroni. Se le donne lo ricevevano male, il padre almeno gli faceva buona accoglienza e pareva approvasse l'assiduità di cui sua figlia formava l'oggetto. Egli e Patterson stavano in assai buoni rapporti. Talvolta anche si isolavano in conciliaboli misteriosi, come se avessero dovuto trattare affari che non riguardassero nessuno. Quali affari potevano avere in comune quell'ubbriacone inveterato e quel contadino scaltro, quello scialacquatore e quell'avaro? Tali conciliaboli divenivano, per Halg, motivo di seria preoccupazione, resa anche più grave dal contegno di Lazzaro Ceroni. Il miserabile seguitava ad ubbriacarsi, e le scenate ricominciavano a intervalli variabili, ma sempre più vicini. Halg non tralasciava d'informare ogni volta il Kaw-djer e questi a sua volta ne informava Hartlepool. Ma né il Kaw-djer, né Hartlepool giungevano a scoprire in che modo Lazzaro Ceroni si procurasse l'alcool, mentre nell'isola Hoste non ne esisteva goccia, se non fra le provvigioni salvate dal Jonathan. La tenda che le conteneva era custodita da sedici superstiti dell'equipaggio, divisi in otto squadre di due uomini, che si cambiavano di tre in tre ore, e tutti, Kennedy e Sirdey compresi, subivano docilmente le noie di quelle tre ore di guardia quotidiana. Nessuno si permetteva il più lieve mormorio ed avevano verso Hartlepool lo stesso senso d'obbedienza di quando navigavano ai suoi ordini. Il loro spirito di disciplina rimaneva intatto. Formavano, è vero, un gruppo numerico piuttosto debole, ma l'unione lo rendeva forte, senza poi tener conto del concorso prezioso che Dick e Sand non avrebbero mancato di dare, in caso di bisogno. Per il momento, almeno, nessuno pensava ad usufruire della loro buona volontà. Dispensati dalla guardia a motivo dell'età, essi vivevano completamente liberi, giocando a tutto andare. Il tempo trascorso sull'isola Hoste doveva certamente far epoca nella loro esistenza e restarvi impresso come il ricordo d'un periodo d'incessanti piaceri. Essi modificavano i loro giochi,

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secondo le circostanze. Cadeva la neve a larghe falde? Vi scavavano nascondigli, vi costruivano edifici effimeri. La temperatura si abbassava fino al gelo? Allora pattinavano senza pattini, o, improvvisando slitte rudimentali, si slanciavano lungo le discese, gustando l'ebbrezza di cadute vertiginose. C'era, invece il sole? Accompagnati da numerosissimi monelli della loro età, si trattenevano nelle adiacenze dell'accampamento e inventavano mille giochi, nei quali il godimento era pari alla violenza. Un giorno, durante una corsa lungo la riva del mare, accompagnati soltanto per caso da tre o quattro fanciulli, scoprirono una grotta naturale, scavata nei fianchi del dirupo, sull'altro versante del capo limitante all'Est la baia Scotchwell. La grotta, la cui apertura volta al Sud guardava di conseguenza la spiaggia, sulla quale si era perduto il Jonathan, non avrebbe attirato a lungo l'attenzione dei fanciulli senza una particolarità che la rese subito loro interessante. Nel fondo si apriva un passaggio stretto che faceva capo, dopo due o tre metri, a una seconda caverna, completamente sotterranea, ove incominciava una galleria sinuosa, la quale si innalzava attraverso il monte, fino a un'altra grotta superiore, aperta, questa, sul versante nord del dirupo. Di là, si vedeva l'accampamento, dove era possibile discendere, lasciandosi scivolare sulla china rocciosa. Tale scoperta fece esultare i piccoli esploratori, che si guardarono bene dal renderla nota. Quel seguito di grotte era un dominio di loro pertinenza, del quale, essi volevano conservare l'esclusiva proprietà. E vi andarono spesso, assai misteriosamente, e vi organizzarono divertimenti straordinari, volta a volta tramutandosi in selvaggi, in Robinson, in banditi. Di che grida echeggiarono le volte sotterranee! Di quali sfrenati galoppi risuonò la galleria che riuniva insieme i due piani del sistema! Tuttavia la traversata della galleria non era priva di pericolo. In un punto sembrava prossima a rovinare. Là, il tetto, alto un metro tutt'al più, era sostenuto da un blocco unico, la cui base toccava appena la parte superiore di un'altra roccia inclinata,

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che il più piccolo sforzo avrebbe potuto smuovere. Da ciò, la necessità di avanzare in ginocchio e di insinuarsi con prudenza estrema nello stretto spazio libero fra il blocco pericolante e la parete della galleria. Ma il pericolo, per quanto terribile, non spaventava i fanciulli; anzi dava più attrattiva ai giuochi. Dick e Sand passavano insomma allegramente il loro tempo. Non si preoccupavano di nulla, neanche del loro nemico Fred Moore, che appariva loro talvolta in lontananza e davanti al quale prendevano la fuga senza vergogna. L'emigrante, del resto, non cercava di inseguirli. La collera gli era passata e non certo verso i due fanciulli gli persisteva il rancore nell'anima!… D'altronde, essi non pensavano a chiedersi, se Fred Moore fosse o non fosse irritato. Nulla esisteva oltre i loro giochi, grazie ai quali i giorni scorrevano per loro con gran rapidità. Il tempo sembrava tanto breve ad essi, quanto sembrava lungo agli altri, confinati, quasi sempre, nelle abitazioni disadatte, eccettuandone Lewis Dorick e il suo corteo di ladri. Per costoro l'invernata passava piacevolmente, avendo risolto il problema di vivere alle spalle degli altri, come in paese conquistato, non privandosi di nulla, anzi accumulando, in previsione di possibili giorni cattivi. Destarono meraviglia che le loro vittime dessero prova di tanta longanimità: ed era, tuttavia, così! Gli sfruttati indubbiamente rappresentavano la moltitudine, ma essi lo ignoravano, né si davano la pena di raggruppare le loro forze sparse. All'opposto, la banda di Dorick formava un fascio compatto e si imponeva con la paura ad ogni emigrante individualmente, né alcuno osava resistere alle esazioni di tali tiranni. Con mezzi meno ignobili, una cinquantina di altri naufraghi erano ugualmente riusciti a lottare contro la depressione che risultava dalla loro vita stagnante. Sotto la direzione di Karroly, essi occupavano i loro ozî a dar la caccia ai lupi marini. Mestiere difficile questo! Dopo aver pazientemente aspettato che gli anfibi, la cui diffidenza è immensa, si avventurino sulla spiaggia, bisogna accerchiarli, senza lasciar loro il tempo di

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riprendere la fuga. L'operazione è piuttosto pericolosa, perchè simili animali scelgono sempre i punti meno accessibili per sollazzarsi. Guidati destramente da Karroly, i cacciatori ottennero successi brillanti e il bottino fu considerevole. Il grasso si poteva intanto utilizzare per l'illuminazione e il riscaldamento, mentre le pelli avrebbero assicurato un beneficio importante, rimpatriando. Eccezione fatta delle poche persone energiche, gli emigranti, assai oppressi, preferivano rinchiudersi pigramente nelle loro abitazioni. Durante il periodo più freddo, che va dal 15 luglio al 15 agosto, il minimo termometrico fu di dodici e la media di cinque gradi sotto zero. Le assicurazioni del Kaw-djer erano dunque giustificate, e la vita in quella regione non avrebbe avuto nulla di particolarmente crudele, senza la frequenza del cattivo tempo e la penetrante umidità, che ne era conseguenza. Tale continua umidità arrecava risultati dannosi dal punto di vista igienico. Le malattie infierivano. Il Kaw-djer riusciva a vincere quelle che non intaccavano organismi già indeboliti ed incapaci quindi di reazione. Nel periodo invernale avvennero otto decessi, di cui Lewis Dorick fu desolatissimo, perchè colpirono in maggioranza la parte della popolazione che si lasciava benevolmente mettere a contributo. Uno dei decessi mise la disperazione nel cuore di Dick e di Sand. Morì Marcello Norely. Il piccolo infermo non poté resistere al clima - duro. Senza sofferenza, senza agonia, si spense una sera, sorridendo. I superstiti non apparivano troppo impressionati da quelle morti. Esse sfuggivano all'attenzione nella massa e l'uomo è troppo egoista per dolorare dei mali del vicino. L'annunzio di un nuovo decesso interrompeva il loro letargo, per un istante. Pareva invero che non avessero più vitalità, se non per affannarsi in litigi tanto violenti nelle parole, quanto futili nei principi. Il ripetersi frequente di tali questioni inspirava al Kaw-djer amare riflessioni. Egli era troppo intelligente per non vedere le

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cose nella luce più reale, troppo sincero per sfuggire alle conseguenze logiche delle sue osservazioni. Nella casuale riunione di uomini, venuti da tutte le parti del mondo, la passione dominatrice era indubbiamente l'odio. Non l'odio, pur sempre biasimevole, ma almeno logico, che gonfia il cuore di colui il quale soffra ingiusto danno, ma l'odio reciproco, incosciente, che li scagliava per un nonnulla l'uno contro l'altro, come se la natura avesse frammischiato ai germi vitali un oscuro, un imperioso bisogno di distruggere ciò che crea. L'infingardaggine dei suoi compagni, impressionava pure il Kaw-djer. Solo qualcuno aveva avuto la forza di reagire. Gli altri vivevano giorno per giorno; avevano il pasto e l'alloggio, né chiedevano di più. Nessun bisogno in essi di lottare contro la miseria per sottometterla alla volontà; nessun desiderio di migliorare la sorte a prezzo d'uno sforzo, nessuna previsione per l'avvenire. Schiavi docili, disposti ad eseguire quanto loro si ordinasse, nulla facevano di iniziativa individuale, e lasciavano agli altri la cura di decidere per essi. Il Kaw-djer non poteva non riconoscere infine la comune viltà, che permetteva a una piccola minoranza il dominio sulla maggioranza, creando un nucleo di sfruttatori tra un gregge di sfruttati. Così, dunque, è l'uomo? Le leggi imperfette che lo costringono a pensare e ad usufruire della sua intelligenza contro la forza bruta delle cose, che tendono a limitare il dispotismo degli uni e la schiavitù degli altri, che tengono a freno gli istinti maligni, quelle leggi sono dunque necessarie, e necessaria è pure l'autorità che le applica? Il Kaw-djer non giungeva ancora al punto da rispondere affermativamente a simile domanda, ma il fatto di porsela bastava ad indicare la trasformazione che accadeva in lui. Egli era costretto a confessarsi che l'uomo, nella realtà, appariva ben diverso dalla creatura ideale vagheggiata dal suo pensiero. Nulla di assurdo quindi, ammettere a priori che l'uomo dovesse essere capace di proteggere l'uomo contro se stesso, contro la

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sua debolezza, la sua avidità e i suoi vizi, e convenire, poiché ognuno reclamava tale protezione nel suo proprio interesse, che le leggi, in fondo, non fossero che l'espressione transitoria delle aspirazioni individuali, come sarebbe in meccanica la risultante di forze divergenti. Preso nell'inestricabile ginepraio di prescrizioni che inceppano i cittadini del Vecchio Mondo, in mezzo ai quali il Kaw-djer era vissuto prima di esiliarsi in Magellania, egli ricordava la molestia causatagli dalla massa formidabile di leggi e ordinanze e decreti la loro divergenza, il loro carattere troppo spesso vessatorio, lo avevano forse accecato sulla necessità superiore del loro principio. Ma ora, in mezzo a questo popolo, posto dalla sorte in condizioni assai analoghe allo stato primitivo, assisteva, pari ad un chimico chino sul suo fornello, a qualcuna fra le incessanti reazioni che si operano nel crogiuolo della vita. E alla luce di simile esperienza cominciava ad apparirgli tale necessità e le basi della sua vita morale ne restavano scosse. Tuttavia l'uomo antico lottava nel suo io. Se egli non poteva vietare alla ragione di subire una evoluzione, il suo temperamento libertario protestava. Il problema gli si parava dinanzi ad ogni istante e allora accadeva una battaglia fra gli argomenti, dei quali alcuni sostenevano la sua dottrina, alcuni altri la scalzavano. Lotta incessante e crudele, che lo fiaccava, che lo uccideva. Ma più ancora, forse, dell'imperfezione degli uomini, l'impotenza loro a vincere l'andamento abituale della loro vita, stupiva il Kaw-djer. Su quell'isola deserta, quasi ai confini del mondo, i naufraghi non avevano per nulla mutate le idee di prima. I principi, vale a dire le convenzioni e i pregiudizi che reggevano la vita del passato, serbavano su di essi lo stesso imperio. La nozione della proprietà, principalmente, restava articolo di fede. Tutto questo si dibatteva nel cervello del Kaw-djer. Era passato il tempo in cui il diritto a una libertà integrale aveva per lui la forza di un dogma. Ora, le sue massime libertarie avevano perduto le apparenze della certezza inconfutabile. Egli

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giungeva a discutere con se stesso la necessità dell'autorità e di una gerarchia sociale.

I fatti dovevano poi fornirgli nuovi motivi a favore dell'affermazione, provandogli che esistono fra gli uomini, come fra gli animali, vere bestie feroci, delle quali è necessario reprimere gli istinti pericolosi. Capaci di qualsiasi azione, pur di soddisfare la passione che li domina, tali esseri

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seminerebbero infatti intorno ad essi la desolazione e la morte, ove non esistesse una legge per intimar loro l'alto là. Un dramma di tal genere, dramma dolorante, di certo, perchè la fame, bisogno primitivo di ogni organismo vitale, ne era il movente, accadeva proprio allora, nella casa occupata da Patterson in compagnia di Long e di Blaker, quel povero diavolo che la natura ironica aveva dotato dell'insaziabile appetito, denominato in medicina bulimia. Come tutti gli altri, Blaker, al momento della distribuzione, aveva avuto la razione di viveri che gli spettava, ma, a motivo della sua voracità morbosa, la parte toccatagli per quattro mesi era stata consumata in meno di due. E dopo, come nel passato, anzi più che nel passato, aveva conosciuto le torture della fame. Certo, un altro, meno timido, avrebbe facilmente trovato rimedio al male. Una parola detta al Kaw-djer o ad Hartlepool sarebbe bastata a fargli dare un supplemento di cibo. Ma Blaker, poco intelligente, non poteva neppure pensare a un passo così audace. Posto, dalla nascita, all'infimo grado della scala sociale, la sua disgrazia aveva cessato già, da molto tempo, di stupirlo, e non possedeva più che la passività rassegnata, che è ultima risorsa dei meschini. A poco a poco aveva preso l'abitudine d'obbedire come fragile fuscello a forze irresistibili, delle quali non tentava neanche di spiegarsi la natura, e perciò non avrebbe mai concepito la folle speranza di modificare in un modo qualsiasi la distribuzione dei viveri, che supponeva essere stata ordinata da una di quelle forze superiori. Piuttosto che lamentarsi, sarebbe morto d'inanizione, se Patterson non fosse venuto in suo soccorso. L'Irlandese aveva osservato la rapidità con la quale il compagno consumava la sua parte di cibo, e tale osservazione gli aveva fatto subito balenare la possibilità d'un affare vantaggioso. Mentre Blaker divorava, Patterson, invece, si razionava. Spingendo all'estremo i suoi istinti di sordida avarizia, si privò del necessario, giungendo fino a raccogliere, senza vergogna, i rifiuti degli altri.

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Venne il giorno in cui Blaker non ebbe più nulla da mangiare: era il momento atteso da Patterson! Sotto colore di rendergli servigio, propose al compagno di cedergli a prezzo conveniente una parte delle sue provvigioni. Mercato accolto con entusiasmo ed eseguito prima d'essere concluso; mercato che si ripeté di continuo finché il compratore ebbe denaro e il venditore, col pretesto della scarsezza crescente dei viveri, aumentava gradatamente i prezzi. Poi, quando le tasche di Blaker furono vuote, Patterson cambiò tattica. Chiuse immediatamente bottega, senza punto badare agli sguardi smarriti dell'infelice che egli condannava a morire di fame. Ma costui considerando la sua disgrazia come un nuovo effetto della forza delle cose, non si dolse più di prima. Accasciato in un canto, comprimendosi con le mani lo stomaco torturato, lasciava che le ore scorressero, e nulla tradiva le sensazioni crudeli che lo tormentavano, se non il tremito del viso. Patterson Io considerava con occhio freddo. Che cosa importava che soffrisse e morisse un uomo, il quale non possedeva nulla? Infine il dolore vinse la rassegnazione del paziente. Dopo quarantotto ore di supplizio, uscì vacillando, errò nell'accampamento, disparve… Una sera, il Kaw-djer, incamminandosi verso Vajupa, urtò col piede contro un corpo disteso. Si chinò e scosse l'uomo che pareva addormentato e che rispose con un gemito. Quell'uomo soffriva. Dopo averlo rianimato con qualche goccia di cordiale, il Kaw-djer gli rivolse alcune domande. — Che avete? — Ho fame — rispose Blaker con voce debole. Il Kaw-djer rimase stupito. — Fame!… — ripetè. — Non avete avuta la vostra parte di viveri come gli altri? Blaker allora, con parole tronche, gli raccontò la sua triste storia. Gli parlò della malattia che lo affliggeva, del conseguente bisogno morboso di mangiare e come, ultimate le

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sue provvigioni, fosse vissuto comperando quelle di Patterson. Ed ora da tre giorni non mangiava. Il Kaw-djer ascoltava meravigliato quell'incredibile racconto. C'era dunque stato un uomo capace di stringere il mostruoso contratto, un uomo che, a dispetto di tutti i drammi e di tutti i cataclismi, conservava intatta una così spaventosa avidità! Mercante rapace che aveva mentito, per poter cedere contro danaro quanto altri gli avevano regalato, mercante senza vergogna che aveva spietatamente venduto la vita a un suo simile! Il Kaw-djer tenne per sé le sue riflessioni. Qualunque fosse l'infamia del colpevole, era meglio lasciarla impunita, anziché creare, svelandola, un'altra causa di discordia. Si accontentò di far consegnare a Blaker nuove provvigioni, assicurandolo che in avvenire avrebbe avuto quanto gli fosse necessario. Ma il nome di Patterson gli restò in mente, e l'uomo che lo portava fu, per lui, il prototipo di ciò che l'anima umana può contenere di più abbietto. E così non lo sorprese che anche Halg, tre giorni dopo, pronunziasse lo stesso nome a proposito d'un'altra storia, ripugnante quasi come la prima. Il giovane ritornava dalla sua visita quotidiana a Graziella e scorgendo il Kaw-djer gli corse incontro. — So — gli disse d'un sol fiato — chi fornisce l'alcool a Ceroni. — Davvero?… — chiese il Kaw-djer tutto contento. — Chi è?… — Patterson. — Patterson?… — Lui — affermò Halg. — Vidi, poco fa, che gli dava un po' di rhum. Ora mi spiego perchè sono così buoni amici. — Sei sicuro di non sbagliarti? — insisté il Kaw-djer. — Sicurissimo. Il più curioso è che Patterson non regala la sua merce. La vende anzi molto cara. Ho sorpreso una discussione. Ceroni si lagnava. Diceva che tutte le sue economie eran passate nelle tasche di Patterson e che non aveva più niente.

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L'altro non rispondeva, ma sembrava poco propenso a continuare, dal momento che non poteva essere più pagato. Halg si fermò un istante, poi esclamò con collera: — Se Ceroni non ha più denaro, è capace di tutto. Che sarà di sua moglie e di sua figlia?. — Lo vedremo! — rispose il Kaw-djer. E, dopo una pausa: — Poiché siamo entrati nell'argomento — disse con voce d'affettuoso rimprovero — andiamo fino in fondo. Se anche non te ne ho mai parlato, non ignoro quali sono i tuoi sogni. E dove ti condurranno, figliolo? Halg abbassò gli occhi in silenzio. Il Kaw-djer riprese: — Fra poco, forse fra un mese, tutta questa gente sparirà dalla nostra vita. E Graziella al pari degli altri. — Perchè non potrebbe restare con noi? — disse il giovane Fuegiano rialzando il capo. — E sua madre? — Anche sua madre, s'intende. — Credi tu che ella acconsentirebbe a lasciare suo marito? — obbiettò il Kaw-djer. Halg ebbe un gesto violento. — Bisognerà che acconsenta! — affermò con voce sorda. Il Kaw-djer crollò la testa con aria dubbiosa. — Graziella mi aiuterà a persuaderla. Ella è già decisa. Resterà qui, se voi lo permettete. Non soltanto è stanca della vita che le procura il padre, ma ha paura anche di certi emigranti. — Paura?… — ripeté il Kaw-djer sorpreso. — Sì. Di Patterson anzitutto. Da un mese le gironza intorno e ha venduto il rhum a Ceroni solo per accattivarselo. Da qualche giorno poi, ce n'è un altro, un certo Cirk, della banda di Dorick, ed è il più temibile. — Che ha fatto? — Graziella non può uscire senza trovarlo. L'ha fermata e le ha parlato villanamente. Graziella l'ha messo a posto e Sirk l'ha minacciata. È un uomo pericoloso e Graziella lo teme. Fortunatamente ci sono io!

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Il Kaw-djer sorrise dell'esplosione di vanità giovanile del suo protetto, e lo calmò. — Calmati, Halg, calmati. Aspettiamo il giorno della partenza e osserviamo come si mettono le cose. Fino a quel momento ti raccomando sangue freddo. La collera non soltanto è inutile, ma anche dannosa. Ricordati che la violenza non ha mai prodotto niente di buono e che solo quando si è costretti a difendersi, è perdonabile ricorrere ad essa. Le sue preoccupazioni, però, aumentarono dopo questo colloquio. Oltre alla noia di vedere Halg coinvolto nell'avventura spiacevole, capiva che l'intervento di rivali avrebbe complicate le cose, eccitando la gelosia del giovane, provocando fors'anche scenate disgustose. Quanto all'alcool, la scoperta di Halg non aveva fatto che spostare la difficoltà senza risolverla. Si era scoperto il fornitore di Ceroni. Ma costui come si procurava l'alcool che vendeva? Patterson, del quale conosceva ormai la natura abbominevole, possedeva in qualche luogo uno stock di riserva? Era poco attendibile. Ammettendo anche che, nonostante la severità dei regolamenti e la sorveglianza del capitano Leccar, fosse riuscito, alla partenza, a imbarcarne una certa quantità, dove mai l'aveva nascosta dopo il naufragio? No, egli attingeva necessariamente al carico del Jonathan. Ma in quale modo, dato che questa veniva custodito notte e giorno? Che il ladro fosse Patterson o Ceroni, la difficoltà restava la stessa. I giorni seguenti non diedero la soluzione del problema. Si poté constatare, soltanto, che Lazzaro Ceroni continuava ad ubbriacarsi come in passato. Il tempo trascorse e si giunse al 15 settembre. Le riparazioni della Wel-Kiej furono terminate. La scialuppa si trovava riattata proprio quando il mare cominciava ad essere praticabile. La lunghezza crescente delle giornate annunziava l'equinozio di primavera. Fra una settimana l'inverno sarebbe finito. Tuttavia, prima di cedere il posto al bel tempo, la stagione cattiva ebbe una recrudescenza. Durante otto giorni, un

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uragano, più violento di quelli che l'avevano preceduto, si scatenò sull'isola Hoste, obbligando gli emigranti a rinchiudersi un'ultima volta. Poi venne il sole, e la natura sonnecchiante cominciò a ridestarsi. In principio d'ottobre l'accampamento ricevette la visita di alcuni Fuegiani, i quali si mostrarono assai sorpresi di trovare Hoste abitata da così numerosa popolazione. Il naufragio del Jonathan, sopraggiunto al principio del periodo invernale, era rimasto infatti ignoto agli Indiani dell'arcipelago. Ora, senza dubbio, la notizia sarebbe stata rapidamente divulgata. Gli emigranti non ebbero che da lodarsi dei loro rapporti con le famiglie dei Pescherecci. Al contrario, questi non poterono forse dire altrettanto. Alcuni fra i civilizzati, in numero esiguo è vero, quali i fratelli Moore per esempio, credettero dover affermare la superiorità che si attribuivano, mostrandosi brutali e grossolani verso i poveri selvaggi inoffensivi. Uno di essi andò anche più in là, e spinse la cupidigia al punto d'essere tentato dalle misere ricchezze di quell'orda vagabonda. Il Kaw-djer un giorno, udendo invocare aiuto, dovè intervenire a difesa d'una giovane Fuegiana svillaneggiata da quel medesimo Sirk di cui Halg aveva pronunziato il nome. Il vile tentava di impossessarsi dei bracciali di rame coi quali la fanciulla si ornava i polsi, ritenendoli di oro. Ripreso severamente, se n'era andato mormorando un'ingiuria. A conti fatti, egli era così il secondo emigrante che si dichiarasse apertamente nemico del Kaw-djer. L'arrivo dei Fuegiani aveva procurato un vero piacere al loro amico. Egli ritrovava in essi la sua clientela, e dalla loro sollecitudine, dalle testimonianze della loro riconoscenza, si comprendeva quale affetto, si potrebbe dire quale adorazione, li metteva ai suoi piedi. Un giorno — il 15 ottobre — Harry Rhodes non poté nascondergli quanto lo commovesse la condotta dei poveri erranti. — Capisco — disse — che voi siate affezionato a quel paese dove svolgete opera tanto umana, e che abbiate fretta di

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ritornare fra le vostre tribù. Per esse siete un dio, come potreste esserne un padrone. — Non occorre essere un dio — interruppe il Kaw-djer: — basta essere un uomo per far del bene. E in quanto al padrone… i Fuegiani ora lo hanno davvero… Il Kaw-djer aveva pronunziato le ultime parole quasi sottovoce. Sembrava preoccupato più del consueto. Le poche parole scambiate gli ricordavano quale sarebbe stata l'incertezza del suo destino, nel giorno non lontano in cui avrebbe dovuto separarsi dall'onesta famiglia che gli aveva risvegliati gli istinti di sociabilità così naturali all'uomo. Il pensiero di lasciare la donna tanto devota, della quale aveva potuto apprezzare la caritatevole bontà, il marito di carattere sincero e onesto divenuto un suo amico, i due ragazzi, Edoardo e Clary, ai quali si sentiva affezionato, gli procurava già profondo dolore. E dolore, della stessa profondità, avrebbe provato, lasciandolo, la famiglia Rhodes. Come sarebbero stati felici, se il Kaw-djer avesse acconsentito a seguirli nella colonia africana, dove Io avrebbero amato, apprezzato, onorato come nell'isola Hoste. Ma Harry Rhodes non sperava di deciderlo. Comprendeva che solo per un motivo grave un tale uomo l'aveva rotta con l'umanità, e il segreto di quell'esistenza strana e misteriosa gli sfuggiva ancora. — Ecco finito l'inverno — disse la signora Rhodes cambiando argomento — e, veramente, non è stato troppo rigido… — Constatiamo quindi — soggiunse Harry Rhodes, rivolgendosi al Kaw-djer — che il clima della regione è proprio tale quale ce lo aveva descritto il nostro amico. Anzi, qualcuno fra noi lascerà l'isola con rimpianto. — Allora non lasciamola — esclamò Edward — e fondiamo una colonia in terra magellanica! — Bene! — rispose sorridendo Harry Rhodes, — e la nostra concessione del fiume Orange?… E gli impegni con la Società di colonizzazione?… E il contratto col governo portoghese?…

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— Infatti… — approvò il Kaw-djer con ironia — esiste un governo Portoghese… Come qui ci sarebbe un governo Chileno… E l'uno vale l'altro. — Nove mesi fa… — cominciò Harry Rhodes. — Nove mesi fa — interruppe il Kaw-djer, — sareste approdati in terra libera, alla quale un trattato maledetto ha rubato l'indipendenza. Il Kaw-djer, con le braccia incrociate, la testa eretta, guardava verso l'Est, come se vedesse giungere dall'Oceano Pacifico, costeggiando la punta della penisola Hardy, la nave promessa dal governatore di Punta-Arenas. Il momento fissato era venuto infatti. Cominciava la seconda metà d'ottobre. Il mare, però, rimaneva deserto. I naufraghi cominciavano ad essere giustamente angustiati dal ritardo. Certo non mancavano di niente. Le riserve del carico non erano esaurite e non sarebbero finite prima di molti mesi. Ma insomma essi non avevano raggiunto la loro mèta, né intendevano rassegnarsi a una seconda invernata, così che già qualcuno parlava di rimandare la scialuppa a Punta-Arenas. Mentre il Kaw-djer si immergeva nella sua tristezza, Lewis Dorick e una dozzina dei soliti compagni passarono, rumorosi e provocanti, ritornando da una escursione nell'interno dell'isola. Per la famiglia Rhodes, giustamente rispettata da tutta la piccola società, per il Kaw-djer, del quale non si poteva negare l'influenza, essi non nutrivano che sentimenti poco amichevoli. Harry Rhodes lo sapeva, ed anche il Kaw-djer non lo ignorava. — Ecco gente che io lascerei qui senza rimpianto — disse il primo. — Non c'è da aspettarsi niente di buono da essi. Saranno sempre causa di turbamenti nella nuova colonia. Non vogliono ammettere nessuna autorità e non sognano che disordine… Come se ordine e autorità non si imponessero ad ogni comunità umana. Il Kaw-djer non rispose, forse perchè non aveva udito, assorto come era nei suoi pensieri, forse perchè non volle rispondere.

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Così, per quanto si facesse, il discorso ritornava sempre su gli stessi argomenti e ricadeva, come il solito, sopra considerazioni sociali, sulle quali non era possibile andar d'accordo. Harry Rhodes, osservando il silenzio del Kaw-djer, deplorava di avere inopportunamente sfiorato quel soggetto, quando Hartlepool penetrò nella tenda portando una diversione. — Vorrei parlarvi signore — disse rivolgendosi al Kaw-djer. — Vi lasciamo… — cominciò Harry Rhodes. — È inutile — interruppe il Kaw-djer, il quale, volgendosi al nostromo, soggiunse: — Che volete dirmi, Hartlepool? — Ho da dirvi — rispose questi, — che so tutto circa la faccenda dei liquori. — È proprio l'alcool del Jonathan che si vende a Ceroni? — Sì. — Allora deve esserci un colpevole. — Ve ne sono due: Kennedy e Sirdey. — Ne avete la prova? — Inconfutabile. — Quale? — Eccola. Dal giorno in cui mi parlaste di Patterson, ho avuto qualche sospetto. Ceroni è incapace di avere un'idea, ma Patterson è un volpone, per cui l'ho fatto sorvegliare in modo speciale… — Da chi? — interruppe corrugando le ciglia il Kaw-djer, al quale ripugnava lo spionaggio. — Dai mozzi — rispose Hartlepool. — Non sono bestie quei due monelli e hanno scoperto la magagna, cogliendo in flagrante delitto Kennedy ieri, e Sirdey stamane, proprio nel momento in cui, approfittando della distrazione del compagno di guardia, vuotavano una misura di rhum nella borraccia di Patterson. Il ricordo del martirio di Tullia e di Graziella, ed anche il pensiero di Halg, fecero dimenticare per un momento al Kaw-djer le sue dottrine libertarie. — Sono traditori! — esclamò. — Bisognerà mostrarsi severi.

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— Pare anche a me — approvò Hartlepool. — Perciò sono venuto da voi. — Da me?… Perchè non fate voi quanto è necessario? Hartlepool scosse il capo, come uomo che veda chiaramente le cose.

— Dal naufragio del Jonathan io non ho altra autorità che quella che mi si vuole riconoscere — così spiegò il nostromo. — Quelli là non mi ascolterebbero. — E perchè dovrebbero ascoltare me?

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— Perchè vi temono. Il Kaw-djer fu colpito dalla risposta. Dunque qualcuno lo temeva? Non poteva essere che a motivo della sua forza superiore. Sempre lo stesso argomento: la forza che stava a base dei primi rapporti sociali. — Vengo — disse tutto rabbuiato. Si diresse subito verso la tenda che conteneva il carico del Jonathan. Kennedy aveva appena ripresa la guardia. — Voi avete tradito la fiducia riposta in voi… — disse severamente il Kaw-djer. — Signore… — balbettò Kennedy. — L'avete tradita — affermò il Kaw-djer, con freddezza. — A partire da questo momento tanto voi che Sirdey, non fate più parte dell'equipaggio del Jonathan. — Ma… — tentò di soggiungere Kennedy. — Spero, che non ve lo facciate ripetere. — Va bene, signore… va bene… — balbettò Kennedy, togliendosi umilmente il berretto. In quel momento, alle spalle del Kaw-djer, una voce chiese: — Con quale diritto date un ordine a quell'uomo? Il Kaw-djer si voltò e scorse Lewis Dorick che, insieme a Fred Moore, aveva assistito alla condanna di Kennedy. — E voi, con quale diritto me lo chiedete? — egli rispose con voce altera. Sentendosi protetto, Kennedy rimise in testa il berretto. — Se non l'ho, me lo prendo — rispose Lewis Dorick. — Non varrebbe la pena di abitare un'isola Hoste per obbedire a un padrone. Un padrone! Si poteva trovare qualcuno che accusasse il Kaw-djer di agire da padrone? — Eh, è l'abitudine del signore! — intervenne Fred Moore pronunziando l'ultima parola con enfasi. — Il signore non è come tutti gli altri, si capisce! Comanda, punisce… Il signore è forse l'Imperatore? Il cerchio si restrinse intorno al Kaw-djer.

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— Quell'uomo — disse Dorick con la sua voce sferzante — non è tenuto ad obbedire a nessuno. E, se gli piace, riprenderà il suo posto nell'equipaggio. Il Kaw-djer continuava a tacere, ma quando gli avversari lo accerchiarono più da vicino ancora, egli strinse i pugni. Doveva dunque essere costretto a difendersi con la forza? Certo, egli non temeva tali nemici. Erano in tre, e avrebbero potuto essere in dieci. Ma quale vergogna che un essere ragionevole fosse obbligato ad usare gli stessi argomenti dei bruti! Il Kaw-djer non dovette ricorrere a quegli estremi. Harry Rhodes e Hartlepool l'avevano seguito pronti a prestargli man forte. Apparivano già in lontananza e allora Dorick, Moore e Kennedy batterono subito in ritirata. Il Kaw-djer li seguiva con lo sguardo pieno di tristezza, quando, dalla parte del fiume, si levò un gran clamore. Egli vi si diresse seguito dai due compagni e non tardò a distinguere un gruppo numeroso da cui si levavano alti gridi. Quasi tutti gli emigranti sembravano essersi riuniti in quello stesso punto, in folla compatta, ondeggiante, e dal gruppo emergevano alcuni pugni tesi in gesto minaccioso. Quale la causa del subbuglio, che somigliava a una sommossa? Non ne esisteva alcuna. O, almeno, la causa iniziale, molto insignificante, risaliva a epoca così lontana, che nessuno fra i contendenti avrebbe potuto ridire. La cosa era incominciata sei settimane prima, a proposito di un oggetto domestico che una donna pretendeva di avere prestato a un'altra, la quale, da parte sua, assicurava di averlo già reso. Di chi la ragione? Nessuno lo sapeva. Le due donne, di parola in parola, avevano finito per ingiuriarsi, smettendola solo quando furono estenuate. Tre giorni dopo, il litigio era risorto, reso più grave dal fatto che i mariti, questa volta, se ne erano immischiati. Del resto, ora non si trattava più della prima causa. Non si ricordava neppure più l'origine dell'animosità, ma l'animosità sussisteva. Per obbedire ad essa, per semplice bisogno di nuocere, i quattro avversari si erano rimproverate

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tutte le cose più abbominevoli della terra, accusandosi reciprocamente d'una quantità di cattive azioni, talvolta immaginarie, che traevano dalle ombre del passato. Tuttavia la scaramuccia si era fermata lì. Ma le chiacchiere erano continuate, gli amici se ne erano immischiati, i due partiti si erano denigrati in piena regola, con furia progressiva, e i malevoli apprezzamenti, compiacentemente ripetuti agli interessati, avevano scatenata la tempesta. Gli uomini erano venuti alle mani, con la peggio di uno fra essi. L'indomani, il figlio del vinto volle vendicare il padre e ne derivò una seconda battaglia, più seria della precedente, perchè anche gli abitatori delle due case ove alloggiavano i combattenti non avevano potuto resistere al desiderio d'intervenire nella faccenda. I due gruppi, dichiarata così la guerra, a mezzo di un'attiva propaganda, avevano reclutato ognuno i propri partigiani. Ora la maggioranza degli emigranti era suddivisa in due campi. Ma, man mano che gli eserciti aumentavano di numero, il dibattito acquistava maggiore ampiezza. Nessuno ne ricordava le origini. Ora si discuteva sulla destinazione da preferire una volta imbarcati sulla nave che doveva rimpatriarli. Dovevano proseguire verso l'Africa? Oppure ritornare in America? Era questo, ormai, l'argomento della contesa. Partiti da un volgare oggetto domestico, per quale cammino tortuoso erano essi giunti a discutere una questione così grave? Mistero impenetrabile! Per di più, convinti di non avere mai agitata nessun'altra questione, difendevano le due tesi con eguale passione. Si accostavano, poi si lasciavano, dopo essersi gettati sul viso, a guisa di proiettili, gli argomenti pro e contro; mentre i cinque Giapponesi, riuniti in un gruppo placido, a pochi metri di distanza dalla folla turbolenta, guardavano stupiti i loro compagni così infuriati. Ferdinando Beauval, tutto ringalluzzito di trovarsi nel suo elemento, tentava inutilmente di farsi ascoltare. Andava dall'uno all'altro, si moltiplicava in pura perdita. Non lo ascoltavano. Nessuno, del resto, ascoltava alcuno. Le

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altercazioni particolari, ogni mormorio parziale, si fondevano in un'armonia generale, la cui tonalità saliva di minuto in minuto. L'uragano era vicino. Il primo che fosse stato colpito, avrebbe scatenato ipso-facto tutti i pugni e la cosa minacciava di finire in un pugilato generale. Come la pioggia sottile doma, talvolta, il vento più furibondo, un solo uomo bastò a calmare quell'esasperazione collettiva. Un uomo, uno degli emigranti occupato nella caccia di lupi marini, accorreva rapidamente verso la folla in tumulto. E, sempre correndo, con grandi moti di richiamo: — Una nave!… — gridava a piena voce. — Una nave in vista!… Una nave in vista!… Nessun'altra notizia avrebbe avuto il potere di commuovere i poveri esuli, tutti allo stesso grado. La sommossa si calmò d'incanto e la folla si rovesciò come un torrente verso la spiaggia. In un attimo gli emigranti furono riuniti all'estremità della punta Est, da dove si scorgeva una larga distesa di mare. Harry Rhodes e Hartlepool avevano seguito il movimento generale. e, non senza emozione, guardavano avidamente verso il Sud, ove un pennacchio di fumo macchiava in realtà il cielo, annunziando una nave a vapore. Non se ne vedeva ancora la chiglia, ma essa emerse a poco a poco fuori della linea tracciata dall'orizzonte. E fu possibile riconoscere presto un bastimento di circa quattrocento tonnellate, che inalberava una bandiera, di cui per la lontananza, non si potevano distinguere i colori. Gli emigranti scambiarono sguardi di delusione. Un battello di così povero tonnellaggio non avrebbe potuto imbarcare tutti. Quello steamer era forse un semplice cargoboat di una nazionalità qualsiasi, e non la nave promessa dal governatore di Punta Arenas. Lo seppero presto, perchè il bastimento filava rapidamente. Prima che fosse buio completo, era già a meno di tre miglia dal Sud.

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— La bandiera chilena — osservò il Kaw-djer, nel momento in cui la brezza, gonfiando il drappo, permise distinguere i colori. Tre quarti d'ora dopo, in mezzo all'oscurità, divenuta profonda, un rumore di catene stridenti contro le cubie, indicò che la nave si era accostata. Allora la folla si disperse, e ognuno rientrò a commentare l'avvenimento. La notte trascorse senza incidenti. All'alba si vide la nave a circa seicento metri dalla riva, e Hartlepool, consultato, dichiarò trattarsi d'un aviso della marina militare chilena. Hartlepool non s'ingannava. Alle otto del mattino il comandante dell'aviso chileno si fece portare a terra. Molti visi ansiosi lo circondarono subito, e intorno si incrociarono le domande. Perchè avevano mandato una nave così piccola? Quando sarebbero venuti a prenderli? Oppure si aveva l'intenzione di lasciarli morire sopra l'isola Hoste? Il comandante non sapeva chi ascoltare. Senza rispondere a quel turbine di domande, attese che si calmassero, poi, quando poté ottenere a stento un po' di silenzio, prese la parola con voce forte, così da poter essere udita da tutti. Rassicurò anzitutto quei poveretti. Essi potevano calcolare sulla benevolenza del Chili, e la presenza dell'aviso provava, del resto, che non erano stati dimenticati. Poi spiegò loro, che il suo Governo aveva creduto doveroso di mandare una nave da guerra, anziché la nave promessa per il rimpatrio, perchè prima desiderava sottoporre loro una proposta che, probabilmente, li avrebbe sedotti; in verità, una proposta singolarissima ed affatto inattesa, che il comandante espose senz'altri preamboli. Ma, per il lettore, un preambolo non sarà superfluo, affinchè possa sanamente apprezzare il pensiero del Governo chileno. Nello sfruttamento della parte Ovest, al Sud della Magellania, conferitogli dal trattato del 17 gennaio 1881, il Chili aveva voluto debuttare con un colpo da maestro, approfittando del naufragio del Jonathan e della presenza di parecchie centinaia d'emigranti sull'isola Hoste.

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La Repubblica Argentina, ottenuta quasi tutta la Patagonia e una parte della Terra del Fuoco, non aveva altri diritti da reclamare. Il Chili aveva quindi ogni libertà di agire, come meglio credeva, nei limiti del suo dominio. Ma non basta entrare in possesso d'una regione e impedire che altre nazioni vi possano creare diritti di prima occupazione. È anche necessario trarne i possibili vantaggi, sfruttando le ricchezze del suolo dal punto di vista vegetale e minerale. È necessario arricchirla con l'industria e il commercio, attirarvi una popolazione se è disabitata: in una parola colonizzarla. L'esempio di quanto era già accaduto sul litorale dello stretto di Magellania, ove Punta-Arenas aumentava ogni anno in importanza commerciale, doveva incoraggiare la Repubblica del Chili a tentare un nuovo esperimento e a provocare l'esodo degli emigranti verso le isole dell'arcipelago magellanico, passato sotto il suo dominio, onde vivificare quella regione fertile, fino allora abbandonata a misere tribù indiane. Ed ecco che, proprio sull'isola Hoste, posta in mezzo al labirinto dei canali del Sud, era venuta ad infrangersi una grande nave; ecco che più di mille emigranti di nazionalità diverse, ma appartenenti tutti a quella esuberanza delle grandi città che non esita a cercar fortuna fino nelle lontane regioni ultramarine, erano stati costretti a rifugiarcisi. Il Governo chileno pensò, non a torto, che quella poteva essere un occasione favorevole per trasformare i naufraghi del Jonathan in coloni dell'isola Hoste. Quindi non inviò loro una nave che li riportasse in patria, ma un aviso, il comandante del quale venne incaricato di trasmettere alcune proposte agli interessati. Tali proposte, tanto inattese, erano nello stesso tempo assai tentatrici: la Repubblica del Chili offriva di privarsi puramente e semplicemente dell'isola Hoste a vantaggio dei naufraghi del Jonathan, che ne avrebbero potuto disporre a loro gradimento, non come concessione temporanea, ma come proprietà completa, senza alcuna condizione né restrizione.

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Nulla di più evidente, di più preciso, di questa proposta. Aggiungiamo: nulla di più destro. Rinunziando all'isola Hoste, onde assicurarne l'immediato sfruttamento, il Chili avrebbe attirato poi, effettivamente, qualche colono nelle altre isole, Clarence, Dawson, Navarin, Hermitte, rimaste sotto il suo dominio. Se, cosa probabile, la nuova colonia avesse prosperato, ne sarebbe derivata la convinzione che il clima della Magellania non è temibile; se ne sarebbero conosciute le risorse agricole e minerali; né ignorato che, grazie ai pascoli e alle peschiere, l'arcipelago è propizio a creazioni di imprese fiorenti, e il cabotaggio avrebbe preso sviluppo sempre più importante. Punta-Arenas, che era già porto franco, sbarazzato da ogni impiccio doganale, aperto liberamente alle navi dei due continenti, aveva un magnifico avvenire. Fondando quella stazione, il Chili si era assicurata la preponderanza dello stretto di Magellania. E non senza interesse, si poteva ottenere un risultato analogo nella parte meridionale dell'arcipelago. Per raggiungere con maggior certezza tale scopo, il Governo di Santiago, guidato da finissimo senso politico, decidendosi al sacrificio dell'isola Hoste, compiva un sacrificio più apparente che reale, perchè l'isola era completamente deserta. Non contento di renderla esente da ogni contributo, ne abdicava alla proprietà; la lasciava in completa autonomia, la radiava dal suo dominio. Essa diveniva l'unica parte della Magellania veramente indipendente. Si trattava di sapere, ora, se i naufraghi del Jonathan avrebbero accettata l'offerta fatta, se avessero voluto mutare con l'isola Hoste la loro concessione africana. Il Governo intendeva risolvere la questione senza ritardo, l'aviso che aveva portato la proposta, doveva riportare la risposta. Il comandante, investito di pieni poteri, poteva trattare coi rappresentanti degli emigranti. Ma, in seguito a ordini ricevuti, non poteva rimanere ancorato nei pressi dell'isola Hoste più di quindici giorni al massimo. Trascorsi i quali, egli sarebbe ripartito in ogni caso.

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In caso di risposta affermativa, la nuova Repubblica avrebbe preso subito possesso dell'isola, inalberando una qualsiasi bandiera.

In caso invece di risposta negativa, il Governo avrebbe disposto più tardi per il loro rimpatrio. Non si poteva certo trasportarli su quell'aviso di quattrocento tonnellate, neppure fino a Punta-Arenas. Bisognava interessare la Società Americana di colonizzazione, perchè mandasse una nave-

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soccorso, la cui traversata avrebbe richiesto un po' di tempo e, in tal caso, sarebbero scorse parecchie settimane prima che l'isola fosse evacuata. Come si può immaginare, la proposta del Governo di Santiago, produsse un effetto straordinario. Certo, nessuno si aspettava una simile soluzione. Gli emigranti, incapaci di prendere una decisione in così grave circostanza, cominciarono a guardarsi l'un l'altro sbalorditi, poi, tutti i loro pensieri si volsero verso colui che ritenevano il più capace di discernere l'interesse comune. Con uno stesso movimento, la cui perfetta simultaneità dimostrava la loro gratitudine, la loro accortezza, essi guardarono verso l'Ovest, vale a dire verso il creek, alla foce del quale doveva cullarsi la Wel-Kiej. Ma la Wel-Kiej era scomparsa, e fin dove poteva giungere sguardo umano nessuno la scorgeva sulla superficie del mare. Vi fu un momento di stupore. Poi la folla ondeggiò. Ognuno si agitava, cercando di scoprire colui nel quale riponevano tutte le loro speranze. Infine dovettero arrendersi all'evidenza. Conducendo seco Halg e Karroly, il Kaw-djer era veramente partito. Rimasero atterriti. Quei poveretti avevano presa ormai l'abitudine di rimettere al Kaw-djer, del quale conoscevano bene l'intelligenza, la cura di guidarli. Ed egli li abbandonava nel momento in cui era in gioco il loro destino! La sua scomparsa produsse lo stesso effetto della scomparsa della nave nelle acque dell'isola Hoste. Harry Rhodes ne fu egli pure, per motivi differenti, profondamente addolorato. Egli avrebbe compreso che il Kaw-djer abbandonasse l'isola Hoste il giorno della partenza di tutti gli emigranti, ma perchè non aveva aspettato quel momento? Non si rompono così improvvisamente vincoli di sincera amicizia, e non ci si può lasciare senz'almeno un saluto. D'altra parte, perchè quella partenza tanto precipitosa, da rassomigliare ad una fuga? Forse l'aveva provocata l'arrivo della nave chilena?…

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Tutte le ipotesi divenivano ammissibili, dato il mistero che circondava la vita di quell'uomo, del quale non si conosceva neppure la nazionalità. L'assenza del loro consigliere abituale, nel momento in cui le sue parole divenivano maggiormente preziose, agitò gli emigranti. La folla si scompose lentamente, al punto che il comandante dell'aviso rimase quasi solo. L'uno dopo l'altro, per non essere costretti a partecipare a una decisione qualsiasi, essi si disperdevano chetamente in piccoli gruppi, scambiando qualche parola sull'offerta sorprendente che veniva loro fatta. Durante otto giorni, la cosa divenne l'argomento di tutti i discorsi particolari. Il sentimento generale era la sorpresa. La proposta stessa sembrava tanto strana, che molti fra gli emigranti non volevano prenderla sul serio. Harry Rhodes, sollecitato dai compagni, dovette recarsi dal comandante per chiedergli qualche spiegazione, verificare i poteri conferitigli, assicurarsi di persona che la Repubblica Chilena garantiva 1 indipendenza dell'isola Hoste. Il comandante non trascurò nulla per convincere gli interessati. Fece loro comprendere quale fosse il movente del Governo, e quanto convenisse agli emigranti il fissarsi in una regione della quale si assicurava loro il possesso. Non tralasciò di menzionare la prosperità di Punta Arenas e aggiungere che il Chili si sarebbe interessato della colonia nascente. — L'atto di donazione è pronto — soggiunse il comandante. — Non aspetta che le firme. — Quali? — chiese Harry Rhodes. — Quelle dei delegati scelti dagli emigranti in assemblea generale. Era, infatti, il solo mezzo di procedere. Dopo, quando la colonia si fosse occupata della sua organizzazione, avrebbe deciso se fosse stato conveniente nominarsi un capo. Essa si sarebbe scelta il regime che riteneva migliore, senza che il Chili potesse in modo alcuno intervenire nella scelta. Perchè non destino stupore le conseguenze che doveva avere tale proposta, conviene rendersi conto esatto della situazione.

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Chi erano i passeggeri che il Jonathan aveva imbarcato a San Francisco per trasportare alla baia di Lagoa? Poveretti, che le circostanze della vita obbligavano ad espatriare. Che importava ad essi fissarsi qui o là, dal momento che si assicurava loro l'avvenire, e purché le condizioni del clima fossero egualmente favorevoli? Ora un inverno era già trascorso, dacché essi abitavano l'isola Hoste, ed avevano potuto constatare che il freddo non vi era eccessivo, e constatavano adesso che la bella stagione vi giungeva precoce e con una generosità che non si trova sempre in regioni più vicine all'Equatore. Quanto alla sicurezza, il paragone non sembrava favorevole alla baia di Lagoa, prossima agli Inglesi, all'Orange, e alle selvagge popolazioni Cafre. Certo gli emigranti, imbarcandosi, avevano dovuto tener conto di tali condizioni, le quali assurgevano a più grande importanza ora che si presentava l'occasione di stabilirsi in una regione deserta, lungi da quei vicini pericolosi sotto diversi titoli. D'altra parte, la Società di colonizzazione non aveva ottenuto la concessione sud-africana che per una durata determinata e il governo Portoghese non alienava i suoi diritti sul profitto dei futuri coloni. In Magellania, invece, essi avrebbero goduto di libertà illimitata, e l'isola Hoste, divenuta proprietà loro, sarebbe stata elevata al rango di Stato sovrano. Infine poi, sorgeva la doppia considerazione che, restando all'isola Hoste, avrebbero evitato un nuovo viaggio e che il Governo Chileno prometteva di interessarsi della sorte della colonia. Dovevano calcolare sul suo aiuto. Si potevano stabilire rapporti regolari con Punta-Arenas, fondare agenzie sul litorale dello stretto di Magellano, e in altri punti dell'arcipelago. Le pescagioni, convenientemente organizzate, avrebbero aperto e sviluppato il commercio con gli abitanti delle Falkland. Ed inoltre, in epoca prossima, la Repubblica Argentina, anziché lasciare in abbandono i suoi possedimenti della Fuegia, si sarebbe interessata per costituirvi borgate rivaleggianti con Punta-Arenas, e così la Terra del Fuoco avrebbe avuto la sua

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capitale argentina, come la penisola del Brunswick ha la sua capitale chilena. Tutti questi argomenti, di un certo valore, bisogna riconoscerlo, finirono per trionfare. Dopo lunghi conciliaboli, la maggioranza degli emigranti era propensa ad accettare l'offerta del Governo Chileno. Quanto era doloroso che il Kaw-djer avesse lasciata l'isola Hoste. proprio nel momento in cui diveniva così necessario il suo consiglio! Nessuno, meglio di lui, poteva indicare la soluzione migliore. Egli, molto facilmente sarebbe stato propenso ad accettare una proposta che rendeva l'indipendenza a una delle undici grandi isole dell'arcipelago magellanico. Harry Rhodes non dubitava che il Kaw-djer avrebbe parlato in questo senso con l'autorità che gli derivava da tutti i servigi resi. Anch'egli personalmente, era giunto a tale conclusione, e, fenomeno che probabilmente non si sarebbe mai più riprodotto, la sua opinione si conformava perfettamente a quella di Ferdinando Beauval. Il leader socialista faceva, infatti, attiva propaganda in favore d'una risposta affermativa. Che sperava egli? Sperava di mettere così in pratica la sua dottrina? Quella folla incolta, proprietaria indivisa, come nelle prime età del mondo, di un territorio di cui nessuno aveva il diritto di reclamare per sé stesso la più piccola zolla, che avventura meravigliosa, che campo magnifico per il grande esperimento di un collettivismo, oppure di un comunismo integrale! Perciò, come si moltiplicava Ferdinando Beauval! Come passava dall'uno all'altro, difendendo la sua causa! Quanta eloquenza sprecava senza contare! Il termine fissato dal Governo chileno si avvicinava e il comandante dell'aviso faceva pressione per una soluzione. Alla data fissata, il 30 ottobre, egli avrebbe preso il largo, e il Chili avrebbe conservato tutti i suoi diritti sull'isola Hoste. Si convocò un'assemblea generale il 26 ottobre. Allo scrutinio definitivo presero parte tutti gli emigranti maggiorenni, in numero di ottocentoventiquattro; il resto era rappresentato da

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donne, fanciulli, e da giovani inferiori ai vent'anni, o da assenti, quali i capi famiglia Gordon, Rivière, Ivanoff e Gimelli. Lo spoglio dello scrutinio diede settecentonovantadue voti in favore della proposta; maggioranza considerevole, come si vede. Non c'erano che trentadue oppositori, desiderosi di rispettare il progetto primitivo di andarsene alla baia di Lagoa. Ma anch'essi infine, accettarono di sottomettersi alla decisione del numero maggiore. Si procedette poi all'elezione di tre delegati. Ferdinando Beauval vi ottenne un successo lusinghiero. Finalmente una delle sue campagne non finiva in uno scacco, ma lo innalzava agli onori ambiti. Però, per un istintivo sentimento di prudenza, gli emigranti gli misero alle costole Harry Rhodes e Hartlepool. Il trattato venne firmato in quello stesso giorno tra i delegati e il comandante che rappresentava il Governo chileno; trattato il cui testo estremamente semplice si componeva di poche righe e non si prestava ad alcun equivoco. Subito dopo il vessillo hostelliano — mezzo bianco e mezzo rosso — fu issato sulla spiaggia e l'aviso lo salutò con ventun colpo di cannone. Inalberato per la prima volta, sventolando allegramente nella brezza, esso annunziava al mondo la nascita di un Paese libero.

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PARTE TERZA

I.

L'INFANZIA DI UN POPOLO.

L'indomani all'alba l'aviso levò l'ancora, e in pochi minuti scomparve dietro la punta. Trasportava dieci dei quindici marinai superstiti del Jonathan. Gli altri cinque, fra i quali Kennedy, avevano preferito, come il nostromo Hartlepool e il cuoco Sirdey, restare nell'isola in qualità di coloni. Kennedy e Sirdey si erano appigliati a questo partito, spinti dalle stesse riflessioni. Essendo ambedue molto mal visti dai capitani, trovavano lavoro assai difficilmente; speravano quindi di procurarsi una vita più facile e meno precaria in mezzo a una società nascente, dove le leggi per molto tempo almeno, non sarebbero state, necessariamente, severe. Quanto ai loro compagni, persone coraggiose, energiche e serie, ma poveri e senza famiglia, tentavano, come Hartlepool stesso, la possibilità di essere i padroni di sé stessi in un paese nuovo, diventando, da marinai di lungo corso, semplici pescatori. La realizzazione o la delusione del loro sogno, dipendeva in gran parte dall'orientamento che avrebbe preso il governo dell'isola. Quando lo Stato è bene amministrato, i cittadini hanno probabilità di arricchire col loro lavoro. Invece ogni fatica resterà sterile, se il potere centrale non sa scoprire e applicare le misure atte a raggruppare gli sforzi individuali. L'organizzazione della colonia era dunque d'interesse capitale.

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Per il momento, almeno, gli Hostelliani — tale il nome adottato con unanime consenso — non si preoccupavano di risolvere quel problema importantissimo.

Non pensavano che a rallegrarsi. La magica parola libertà, li aveva inebbriati. Se ne ubbriacavano da veri fanciulloni, senza cercare di penetrarne il senso profondo, senza dirsi che la

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libertà è una scienza che è necessario imparare e che, per essere liberi, bisogna anzitutto vivere. L'aviso era ancora visibile e già tutti si congratulavano e si felicitavano a vicenda. Sembrava avessero compiuto un'opera importante e difficile, e, invece, l'opera cominciava appena. Non c'è vera festa popolare scompagnata da qualche gozzoviglia. In quel giorno fu deciso dunque unanimemente di banchettare e, mentre le donne ritornavano ai fornelli e alle casseruole, gli uomini si diressero verso il carico del Jonathan. S'intende che dopo la proclamazione d'indipendenza il carico non veniva più sorvegliato. Le circostanze avevano innalzato i naufraghi alla dignità di nazione, e nessuno, all'infuori di essa, avrebbe potuto regolare l'esercizio della sua sovranità. D'altronde, chi avrebbe montato la guardia, dopo che la maggior parte dei guardiani erano partiti? Fu aperta senza indugio una botte e si stava per iniziarne la distribuzione, quando taluno propose di divider senz'altro subito tutta la provvista di liquori. La proposta, nonostante le timide proteste d'un piccolo numero di persone più sagge, fu adottata con entusiasmo. Valutata approssimativamente la quantità d'alcool, si convenne che ogni uomo adulto avesse diritto a una parte e ogni donna, o fanciullo, a mezza parte. Fra l'allegria generale i capi famiglia poterono così ritirare subito il quantitativo assegnato. Nella serata la festa raggiunse il culmine. Si dimenticarono i rancori, le varie nazionalità sembrarono fondersi in una sola; si fraternizzò, fu organizzato un ballo al suono della fisarmonica, e le coppie danzarono in mezzo al circolo dei bevitori. Fra questi figurava naturalmente Lazzaro Ceroni. Incapace già, fino dalle sei di sera, di reggersi sulle gambe, alle dieci beveva ancora; cosa che lasciava prevedere una triste fine di festa per Tullia e per Graziella. Là festa ricominciò l'indomani e tutto lasciava prevedere che si sarebbe prolungata fino all'esaurimento completo dei liquori più forti.

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Fra mezzo a tanto tripudio, la Wel-Kiej ritornò all'isola Hoste. Nessuno sembrò ricordare che essa l'avesse lasciata per due settimane e coloro che ne scesero ricevettero la stessa accoglienza, come se non si fossero mai assentati. Il Kaw-djer non capiva nulla di quanto vedeva. Cosa significava quel vessillo sconosciuto issato sulla spiaggia e la gioia generale che sembrava inebbriasse gli emigranti? Harry Rhodes e Hartlepool, lo misero al corrente degli ultimi avvenimenti e il Kaw-djer ascoltò il racconto con emozione. Il petto gli si sollevava, come se i polmoni respirassero un'aria più pura, il viso gli si trasfigurò. Dunque nell'arcipelago Magellanico esisteva ancora una terra libera! Tuttavia non parlò dei motivi che l'avevano indotto a lasciare l'isola per quindici giorni. A che avrebbe servito? Come far comprendere ad Harry Rhodes, che, risoluto a rompere ogni rapporto col mondo civilizzato, era partito scorgendo l'aviso che immaginava incaricato di affermare l'autorità del Governo chileno, e che ricoveratosi in fondo alla baia della penisola Hardy, aveva aspettato la partenza della nave prima di tornare all'accampamento? Del resto, i suoi amici, troppo felici di rivederlo, non gli chiesero nulla. Per Harry Rhodes e Hartlepool, la sua sola presenza era un conforto. Aver con sé quell'uomo così energico, di così vasta intelligenza, così buono, rendeva loro quella fiducia che la fanciullaggine di cui davano prova i compagni, cominciava a scuotere. — I disgraziati non videro nell'indipendenza — disse Harry Rhodes terminando il racconto — che il diritto di ubbriacarsi. Pare non si diano pensiero di organizzarsi, e di stabilire un governo qualsiasi. — Via — replicò il Kaw-djer con indulgenza — bisogna scusarli, se si concedono un po' di allegria. Ne hanno avuta così poca finora! Ciò passerà e ritorneranno serî… Quanto a costituire un Governo, confesso che non ne vedo l'utilità.

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— Bisogna pure, — obbiettò Harry Rhodes — che qualcuno si incarichi di mettere un po' di. ordine fra quella gente. — Lasciate fare — rispose il Kaw-djer: — l'ordine tornerà da sé. — Però, a giudicarne dal passato… — Il passato non è il presente — interruppe il Kaw-djer. — Forse i vostri compagni si sentivano ancora cittadini d'America o d'Europa. Ora sono Hostelliani. La cosa è diversa. — E allora il vostro parere sarebbe?… — Lasciarli vivere tranquillamente nell'isola Hoste, di loro proprietà. Hanno la fortuna di non avere leggi. Che si guardino bene dallo stabilirne. A cosa servirebbero? Senza i pregiudizi e le idee preconcette, risultanti da secoli di schiavitù, si starebbe veramente bene. La terra si offre agli uomini. Che essi vi attingano adunque a piene mani, e godano in parti uguali e fraternamente le sue ricchezze. Per quale ragione regolamentare tale divisione? Harry Rhodes non appariva convinto della verità di queste idee ottimiste.; però non rispose. Invece, parlò Hartlepool. — Intanto, in attesa che tutti quei pazzi — disse, — diano qualche prova di migliore fraternità che non sia quella dei banchetti, abbiamo confiscato armi e munizioni. Per cura della Società di colonizzazione, il carico del Jonathan comprendeva, infatti, sessanta carabine, alcuni barili di polvere, palle, piombo e cartucce, perchè gli emigranti potessero dare la caccia alle belve e difendersi, in caso, dai loro vicini nella baia di Lagoa. Nessuno si era curato del materiale bellico, nessuno, se non Hartlepool. Approfittando del disordine generale, aveva messo il tutto prudentemente al riparo. Forse, gli sarebbe riuscito faticoso trovare un nascondiglio conveniente, se Dick non gli avesse indicato quel seguito di grotte, che attraversavano da parte a parte le rocce della punta dell'Est. Aiutato da Harry Rhodes e dai due mozzi, in parecchi viaggi, aveva trasportato, durante la prima notte di festa, le armi e le munizioni nella grotta dove erano state profondamente

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sotterrate. Da allora Hartlepool si sentiva più tranquillo. Il Kaw-djer approvò la sua prudenza. — Avete fatto bene, Hartlepool — disse. — È sempre meglio, insomma, lasciare alle cose il tempo di concretarsi. D'altronde, in questo paese i nostri compagni non avranno bisogno di armi da fuoco. — E non ne hanno altre — affermò il nostromo. — A bordo del Jonathan i regolamenti erano formali. Gli emigranti, imbarcandosi, sono stati perquisiti, visitati i loro bagagli, e tutte le armi da fuoco vennero sequestrate. Non ne esistono dunque altre, oltre quelle che abbiamo nascoste, e che non troveranno mai. Per conseguenza… Hartlepool si interruppe d'improvviso. Pareva preoccupato. — Corpo di mille bombe!… — esclamò. — Invece ce ne sono. Abbiamo trovato quarantotto fucili anziché sessanta. Credevo in un errore. Ma, ora me ne ricordo: i dodici che mancano furono presi da Rivière, Ivanoff, Gimelli e Gordon. Fortunatamente si tratta di persone serie e non c'è nulla da temere da parte loro. — Esistono altri pericoli, oltre le armi — osservò Harry Rhodes. — Per esempio, l'alcool. In questo momento si abbracciano, ma non andrà sempre così. Lazzaro Ceroni ha già ricominciato a farne qualcuna delle sue. In assenza vostra, ho dovuto intervenire io. Senza Hartlepool e me, credo che questa volta avrebbe massacrato veramente la sua vittima. — Quell'uomo è un mostro — disse il Kaw-djer. — Come tutti gli ubbriachi, né più né meno… Meno male, che Halg, fortunatamente per le due donne, è ritornato… A proposito, come sta, il nostro giovine selvaggio? — Tanto bene, quanto può esserlo un giovanotto ammalato di cuore. Inutile vi dica con quanto poco entusiasmo abbia seguito me e il padre. Ho dovuto fare atto d'autorità e impegnare la mia parola che saremmo ritornati. Ora, invece, il fatto che la famiglia Ceroni resti insieme con le altre nell'isola Hoste, semplifica assai le cose. Le complicano invece, per esempio, le

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abitudini tristi di Lazzaro Ceroni. Speriamo che si corregga, quando i liquori saranno esauriti. Intanto che parlavano di lui, Halg, lasciando in custodia di suo padre la Wel-Kjei, si era affrettato a recarsi da Graziella. Con quale gioia si rividero! Poi la gioia si mutò in tristezza. Graziella raccontò ad Halg i dolori che Ceroni procurava di bel nuovo a sua moglie e a sua figlia, ai quali si aggiungevano, per la fanciulla, le premure di Patterson e, soprattutto, le persecuzioni brutali di Sirk. Ella non poteva fare un passo senza essere costretta a subirne l'insolenza. Halg l'ascoltava fremente e indignato. In un canto della tenda, Lazzaro Ceroni russava sonoramente, covando la sua ultima ubbriacatura. Non c'era da farsi illusioni. Appena desto, egli sarebbe ritornato al suo vizio, riprendendo il suo posto nella festa generale, la cui fine non sembrava troppo vicina. Tuttavia, essa tendeva già a mutare aspetto. L'eccitazione diveniva meno innocente e meno puerile. Su alcuni volti passavano bagliori maligni. L'alcool compiva la sua opera. La depressione che lasciava dietro di sé non poteva essere combattuta che da dosi maggiori e, a poco a poco, la lieve ebbrezza iniziale era sostituita dalla ubriachezza pesante, che sarebbe divenuta furiosa quando la razione fosse stata aumentata ancora. Alcuni, intuendo il pericolo, cominciavano a trarsi in disparte. Allora il buon senso ripigliava i suoi diritti e il problema dell'esistenza sopra l'isola Hoste s'imponeva alla loro attenzione. Problema arduo, ma non insolubile. Con la sua superficie tra quattro e cinquemila chilometri quadrati, coi suoi terreni coltivabili, con le sue foreste e i suoi pascoli, l'isola avrebbe potuto nutrire una popolazione immensamente superiore, a patto però di non eterizzarsi nella baia Scotchwell, e di spargersi attraverso il paese. Gli istrumenti rurali non mancavano, né i grani per la semina, né le piante, né in complesso tutto il materiale indispensabile ad ogni impresa

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agricola. D'altra parte l'immensa maggioranza degli emigranti era già rotta al lavoro dei campi. Nulla quindi di più naturale, che vi si dedicassero in quel paese di adozione, come vi si erano dedicati nel paese nativo. In principio gli animali domestici non sarebbero stati certo troppo numerosi; ma, a poco a poco, grazie all'interessamento del Governo Chileno. ne sarebbero giunti dalla Patagonia, dalle pampas argentine, dalle vaste pianure della Terra del Fuoco, e finalmente dalle Falkland, ove si fa grande allevamento di montoni. Nulla dunque ostacolava nei primordi il successo del tentativo di colonizzazione, sempre però che i coloni si fossero occupati attivamente per farlo riuscire. Un piccolo numero di essi, subito dopo la proclamazione di indipendenza, aveva compreso la necessità del lavoro e dell'azione. Costoro, e primo fra tutti Patterson, erano ritornati, dopo la distribuzione dell'alcool, al carico del Jonathan per fare una selezione giudiziosa degli oggetti che lo componevano, ciascuno in vista del progetto personale più conforme ai suoi gusti, come la coltura, l'allevamento del bestiame o lo sfruttamento delle foreste. Poi, attaccandosi a carriaggi improvvisati, erano partiti alla ricerca d'un terreno propizio. Patterson, invece, restò sulla riva del fiume. Aiutato da Long e da Blaker che, malgrado l'esperienza fatta, persisteva a rimanere con lui, si preoccupò subito di cintare il dominio del quale si era assicurata la proprietà a titolo di primo arrivato. A poco a poco una palizzata formata da solidi piuoli circondò il recinto da tre lati, essendo il quarto limitato dal fiume. Nello stesso tempo, il terreno interno fu vangato e poi seminato a legumi. Patterson si specializzava nella orticoltura. Dopo due giorni di baldoria, alcuni emigranti, persuasi di avere festeggiato a sufficienza la libertà, rientrarono finalmente in sé stessi. Si accorsero allora, che l'attrattiva dei festeggiamenti non aveva sviato molti compagni dai loro interessi reali; ed anch'essi a loro volta si recarono a visitare la riserva del Jonathan, ancora così abbondante tanto di materiale che di

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provvigioni, da permettere loro di provvedersi del necessario ed anche del superfluo. Fatta la scelta, creati lì per lì i mezzi di trasporto, si allontanarono sulle tracce dei primi pionieri. I giorni successivi l'esempio ebbe imitatori sempre più numerosi, e la schiera dei crapuloni andò sempre più assottigliandosi, mentre nuove carovane si disperdevano verso l'interno dell'isola. Gli uni dopo gli altri, quasi tutti i coloni disertarono così via via le spiagge della baia Scotchwell, chi spingendo una carretta informe, chi carico come un mulo, alcuni affatto soli, altri con la moglie e i figlioli al fianco.. Lo stock proveniente dal Jonathan diminuiva mano mano che vi si attingeva a piene mani, e per gli ultimi arrivati, la scelta divenne difficile. I ritardatari poterono trovare bensì abbondanza di provvigioni, perchè la difficoltà del trasporto aveva obbligato a esser parchi i primi visitatori, ma così non avvenne del materiale agricolo. Più di trecento coloni rimasero privi di ogni animale da fattoria o da pollaio e molti dovettero accontentarsi di istrumenti aratori rifiutati da coloro che li avevano preceduti. Tuttavia, dovettero accontentarsene in mancanza di meglio e, meno bene equipaggiati, furono altresì costretti a un esodo più duro. Così al Nord come all'Ovest, costoro trovarono ovunque il posto già preso dai primi partiti. Alcuni, maggiormente sfortunati, furono obbligati, per trovare una località favorevole, a spingersi fino quasi alla penisola Dumas, costeggiando la profonda dentellatura denominata Ponsonby Sund, a quasi cento chilometri dalla baia Scotchwell, che, malgrado tutto, doveva considerarsi come il punto principale della colonia e, in qualche modo, la sua capitale. Sei settimane dopo la partenza dell'aviso, la capitale aveva perduto la maggior parte degli abitanti. Quasi tutti i coloni capaci di maneggiare la vanga e la zappa, l'avevano abbandonata; perciò essa non contava più che un'ottantina di

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abitanti, le cui occupazioni precedenti ponevano, generalmente, in istato d'inferiorità manifesta nelle condizioni di vita attuale. Salvo una dozzina di contadini, trattenuti temporaneamente alla costa per ragioni di salute, e dei quali uno solo con moglie e tre figli, quel residuo di folla dispersa si componeva esclusivamente di coloni d'origine urbana. Erano John Rame e la famiglia Rhodes, Beauval, Dorick e Fritz Gross, i cinque marinai, ossia Kennedy, il cuoco, i due mozzi, e il nostromo Hartlepool del Jonathan, Patterson, Long e Blacker; la totalità di quarantatré operai, o così detti operai, che più di tutti gli altri si mostravano refrattari ai lavori campestri, e dei quali faceva parte Lazzaro Ceroni con la famiglia, e finalmente il Kaw-djer coi suoi compagni Halg e Karroly. Costoro non avevano abbandonato la riva sinistra del fiume, alla cui foce stava ancorata la Wel-Kiej, in fondo all'insenatura che la proteggeva contro i cattivi venti del largo. La loro vita anteriore non si era modificata in nulla, il solo mutamento che vi apportarono, fu il sostituire con una abitazione solida l'ajupa primitiva, che fino allora aveva offerto ricovero troppo insufficiente. Ora che non si doveva più abbandonare l'isola Hoste, conveniva loro alloggiarsi in maniera meno rudimentale del passato. Il Kaw-djer aveva infatti espresso a Karroly la sua volontà di non far più ritorno all'Isola Nuova. Poiché esisteva ancora una terra libera, egli vi sarebbe vissuto fino all'ultimo giorno. Halg fu felice della decisione che armonizzava perfettamente coi suoi desideri. Karroly si conformò come il solito al volere di colui che egli considerava come padrone e non mosse obbiezioni, benché nella nuova residenza diminuissero assai le occasioni di esercitare il pilotaggio. Tale inconveniente non era sfuggito al Kaw-djer, ma egli ne assumeva la responsabilità. Sull'isola Hoste sarebbero vissuti unicamente di caccia e di pesca, ecco tutto; e, se tale risorsa in pratica fosse apparsa insufficiente, avrebbero pensato al da farsi. In ogni modo,

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deciso a non dovere nulla fuor che a sé stesso, il Kaw-djer rifiutò di prendere la sua parte di provvigioni.

Non spinse però la rinunzia fino a sdegnare una delle numerose case smontabili, rese libere dalla partenza dei coloni. Una di esse fu dunque trasportata per lui sulla riva sinistra, riedificata, e rinforzata infine da doppie mura rizzate in pochi giorni. Qualche operaio aveva spontaneamente offerto il suo concorso al Kaw-djer, che lo accettò senza scrupoli. Finito il lavoro, da

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brave persone, costoro non pensarono a reclamare la paga e la cosa era troppo consona ai principi del Kaw-djer, perchè egli pensasse ad offrirne loro una qualsiasi. Halg e Karroly, appena terminata la casa, si imbarcarono sopra la Wel-Kiej e si recarono all' Isola Nuova di dove, tre settimane più tardi, trasportarono il mobilio dell'antica dimora. Un pilotaggio, offerto per istrada a Karroly, prolungò la loro assenza e nello stesso tempo permise all'Indiano di procurarsi viveri e munizioni in quantità sufficiente per la prossima stagione invernale. Dopo il loro ritorno, la vita riprese il suo corso regolare. Karroly e suo figlio si dedicarono alla pesca e si occuparono anche a procurarsi il sale necessario per conservare l'eccedenza del bottino giornaliero. Intanto il Kaw-djer percorreva l'isola, cacciando. Mercè tali sue gite ininterrotte, egli conservava il contatto coi coloni. Quasi tutti ebbero successivamente la sua visita, e poté così constatare che, fin dall'inizio, esistevano fra essi sensibili differenze. Che tali differenze provenissero o meno da ineguaglianza innata di forza, certo è che la fortuna o la capacità dei lavoratori, il successo di taluni e l'insuccesso degli altri, si delineavano già chiaramente. I lavori delle quattro famiglie che si erano messe all'opera per le prime, emergevano già sopra gli altri. Cosa naturale, dato che erano le più anziane. La segheria dei Rivière si trovava in pieno funzionamento e le assi già pronte avrebbero assicurato il carico di due navi di tonnellaggio importante. Germano Rivière ricevette il Kaw-djer con grandi dimostrazioni di amicizia e durante la visita si informò degli avvenimenti del borgo, lagnandosi di non essere stato chiamato per l'elezione del Governo della colonia. Che organizzazione aveva adottato la maggioranza? Chi avevano designato per capo? Rimase assai sorpreso di apprendere che non s'era fatto nulla in proposito, che gli emigranti s'erano sbandati senza neppur discutere l'opportunità di stabilire un governo qualsiasi, e più

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sorpreso ancora di constatare, che lo stesso Kaw-djer, che rispettava e per il quale nutriva profonda riconoscenza, sembrava approvasse una condotta così irragionevole. Mostrò poi al Kaw-djer le cataste di legna disposte in bell'ordine lungo il fiume. — E il mio legno? — interrogò. — Come potrò dunque venderlo? — Perchè, — replicò il Kaw-djer — coloro che non ne avrebbero profitto si incaricherebbero di venderlo per voi? Da parte mia son certo che sapreste disimpegnarvene benissimo da solo. — Può essere — riconobbe Germano Rivière. — Ciò non toglie però che preferirei che alcuno, dietro pagamento di un piccolo contributo, si incaricasse di soddisfare ai bisogni generali della colonia. La vita non sarà mai allegra, ove il lavoro non venga suddiviso, se ognuno non pensa che a sé e si trovi per conseguenza obbligato a procurarsi da solo quanto gli è necessario. Uno scambio di servigi reciproci, secondo me, renderebbe l'esistenza più dolce. — Avete voi dunque molti bisogni? — chiese il Kaw-djer sorridendo. Ma Germano Rivière appariva pensieroso e preoccupato. — È naturale — disse — che si desideri la ricompensa del proprio lavoro. Se l'isola Hoste non me la può offrire, la lascerò — e non sarò il solo! — quando avrò messo da parte di che vivere in un altro paese più piacevole. Per riuscirvi, saprò, come voi dite, disimpegnarmi, ed altri sapranno, evidentemente, farlo al pari di me. Ma coloro che non ne saranno capaci, rimarranno indietro. — Siete ambizioso, signor Rivière! — esclamò il Kaw-djer. — Se non lo fossi non mi affaticherei tanto — rispose Germano Rivière. — È utile affaticarsi tanto? — Utilissimo. Senza gli sforzi comuni, il mondo sarebbe tuttora come ai tempi primitivi, e il progresso non sarebbe che una parola.

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— Progresso — osservò con amarezza il Kaw-djer, — che non si ottiene se non a beneficio di pochi!… — I più coraggiosi e i più saggi! — E a detrimento della maggioranza. — I più indolenti e i più vili! I quali sono i vinti, in qualsiasi caso. Governati bene diverranno forse miserabili. Abbandonati a sé stessi moriranno della loro miseria. — Eppure non c'è bisogno di molte cose per vivere! — Troppe, pur sempre, quando si è deboli, ammalati, o stupidi. Costoro avranno sempre un padrone. In mancanza di leggi, dopo tutto benigne, dovranno subire la tirannia dei più forti. Il Kaw-djer, poco convinto, scosse la testa. Conosceva l'antifona. L'imperfezione umana, l'ineguaglianza innata, sono le scuse eternamente invocate per giustificare la costrizione e l'oppressione, quando invece si creano, pretendendo di attenuarli, mali che nello stato naturale non sono per nulla ineluttabili. Tuttavia egli era turbato. Il ricordo della condotta di Lewis Dorick e della sua brigata durante l'inverno, lo sfruttamento vergognoso che avevano fatto degli emigranti più deboli, davano forza speciale a quanto gli diceva un uomo del quale era obbligato ad apprezzare il carattere. Presso i vicini di Germano Rivière, ricevette identica impressione. 1 Gimelli e gli Ivanoff avevano seminato parecchi ettari a frumento e a segale. I teneri germogli inverdivano già la terra e promettevano messe magnifica nel mese di febbraio. I Gordon, invece, erano meno avanti. Le vaste praterie, accuratamente cintate da barriere, apparivano quasi deserte. Ma essi non dubitavano in un prossimo aumento di animali. E allora avrebbero avuto in abbondanza latte e burro, come avevano ora le uova. Il Kaw-djer, negli intervalli della caccia, Halg e Karroly in quelli della pesca, dedicavano qualche ora del giorno a coltivare un piccolo giardino che circondava la loro casetta, allo scopo di assicurarsi completamente i mezzi di sussistenza senza dipendere da alcuno. La loro vita era animata. Certo, non

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godevano le dolcezze che facilmente si possono avere in regioni più civilizzate. Ma il Kaw-djer non rimpiangeva quelle dolcezze lontane, pensando a quale prezzo si paghino. Non desiderava nulla più di quanto gli offriva la sua vita attuale e si sentiva felice. A fortiori, così avveniva dei suoi due compagni, i quali non avevano conosciuto altri orizzonti oltre quelli della Magellania. Karroly non immaginava esistenza migliore e Halg, completamente felice, passava con Graziella tutti i momenti che non dedicava al lavoro. La famiglia Ceroni viveva in una casa lasciata da altri emigranti e cominciava a rimettersi dalle tragedie che l'avevano per tanto tempo sconvolta e che sembravano finalmente dimenticate. Infatti Lazzaro Ceroni non si ubbriaca va più, ma per la semplice ragione che sopra tutta la superficie dell'isola non esisteva neppure una goccia d'alcool. Era quindi obbligato ad astenersene. Però, la sua salute appariva compromessa dopo gli ultimi eccessi ai quali si era abbandonato. Seduto quasi sempre davanti alla sua casa, si riscaldava al sole, con lo sguardo fisso a terra ostinatamente e con le mani agitate da un tremito continuo. Tullia, con la pazienza inalterabile e la dolcezza abituali, cercava invano di vincere quel torpore che la riempiva d'inquietudine. Tutti i suoi sforzi erano falliti, ed ella non aveva speranza più che nel prolungarsi di abitudini divenute, per forza delle cose, più conformi all'igiene. Halg, che ragionava diversamente della povera donna, trovava l'esistenza infinitamente più piacevole dopo l'inizio di questo periodo di pace. D'altra parte, per lui che tutto faceva risalire a Graziella, gli avvenimenti sembravano prendere piega favorevole. Non soltanto Lazzaro Ceroni, del quale per tanto tempo aveva temuto l'ostilità, non contava più nulla, ma anche uno dei rivali, l'irlandese Patterson, si era definitivamente ritirato dalla lizza. Non lo si vedeva più, non importunava più con la sua presenza né Graziella né la madre. Aveva compreso

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sicuramente che la condizione del suo alleato gli toglieva tutte le speranze. Un altro invece non intendeva cedere. Sirk diveniva ogni giorno più audace. Giungeva con Graziella alla minaccia diretta, e cominciava a provocare, benché con molta prudenza, Halg stesso. Verso la fine di dicembre, il giovane, incontrando quel tristo, lo intese pronunciare parole ingiuriose, indubbiamente rivolte a lui. Alcuni giorni dopo, egli raggiungeva la riva sinistra del fiume, quando da una casa partì una pietra lanciata con violenza, che gli passò a pochi centimetri dal viso. Halg, educato ai principi del Kaw-djer, non pensò a vendicarsi dell'aggressione di cui aveva riconosciuto l'autore. Né rilevò, durante i giorni successivi, le provocazioni incessanti dell'avversario. Ma Sirk incoraggiato dall'impunità, non doveva tardare a spingerlo fino all'estremo ed obbligarlo a difendersi. Se Lazzaro Ceroni, salvato dal suo stato di abbrutimento, non soffriva la noia dell'inazione, non così accadeva degli altri operai, suoi camerati. Essi non sapevano come passare il tempo, e d'altra parte i più riflessivi cominciavano ad inquietarsene per l'avvenire. Essere rimasti all'isola Hoste, era una cosa bellissima. Ma bisognava pensare anche alla maniera di viverci. Dopo aver tagliato, bisognava cucire. Certo, ora non mancavano di nulla, ma a provvigioni esaurite, cosa sarebbe avvenuto? E così per difendersi dal pericolo futuro, ed anche per vincere la noia immediata, quasi tutti si occupavano di qualche cosa. Realizzando un sogno lungamente accarezzato, alcuni si erano improvvisati imprenditori ognuno nella professione propria. Al di sopra di qualche porta, si scorgevano insegne annunzianti che la casa alloggiava un fabbro, un muratore, un falegname, oppure un calzolaio o un sarto. Sfortunatamente i clienti mancavano. E quand'anche le baracche avessero avuto buon numero d'avventori, che fare poi del denaro guadagnato? Ecco perchè i più accorti, rinunziando ad esercitare la loro professione abituale, si limitavano ad occuparsi semplicemente

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nella ricerca del nutrimento quotidiano. Non potevano cacciare per la mancanza di armi da fuoco, non coltivare la terra per ignoranza assoluta di cognizioni, e per conseguenza pescavano, seguendo l'esempio di alcuni coloni. Oltre al Kaw-djer e ai due suoi compagni, anche Hartlepool e i quattro marinai del Jonathan si erano infatti dedicati fino dai primi giorni alla pesca. Tutti e cinque insieme avevano iniziato la costruzione di una scialuppa della stessa forma della Wel-Kiej e, aspettando che fosse terminata, percorrevano il mare su piroghe leggere, improvvisate alla meno peggio alla maniera fuegiana. Al pari del Kaw-djer, anche Hartlepool e i marinai conservavano nel sale il pesce superfluo al consumo giornaliero. E con tale mezzo si premunivano contro il pericolo di morir di fame. Incoraggiati dal successo degli altri, parecchi operai emigranti riuscirono, con l'aiuto dei carpentieri, a fabbricarsi due piccole barche, e gettarono anch'essi a loro volta e reti e lenze. Ma pescare è un mestiere come un altro. Chi vuole esercitarlo con vantaggio, deve impararlo prima con la pratica, e i novizi ne fecero l'esperienza. Mentre le reti di Karroly e di suo figlio, di Hartlepool e dei suoi marinai piegavano sotto il peso dei pesci, le loro risalivano quasi sempre vuote. Non potevano quindi pensare a formarsi una scorta. Tutt'al più riuscivano a mangiare talvolta, variando così il solito pasto. Ma spesso anche quel modesto risultato non veniva raggiunto. In un giorno di tale sfortuna, il canotto dei pescatori novizi incontrò la Wel-Kiej che rientrava ad ancorarsi, guidata da Halg e Karroly. Sul ponte della scialuppa facevan bella mostra una ventina di pesci, alcuni così grossi da suscitare l'invidia degli sfortunati. — Ehi l'Indiano!… — chiamò uno degli operai che formavano l'equipaggio del canotto. Karroly rallentò. — Che volete? — chiese quando la Wel-Kiej fu vicina.

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— Non avete vergogna di avere un simile carico per voi soli, mentre ci sono non pochi poveri diavoli che devono stringersi il ventre? — disse scherzando lo stesso operaio. Karroly si mise a ridere. Egli era troppo compenetrato dai princìpi altruistici del Kaw-djer per esitare sulla risposta. Ciò che apparteneva a lui, apparteneva anche agli altri. Dividere, quando si ha più del necessario, con colui che non ne ha, niente di più naturale. — Prendi!… disse. — Gettate!… La metà dei pesci, lanciati a volo, passarono dalla Wel-Kiej al canotto. — Grazie, camerata!… — esclamarono ad una voce gli operai rimettendosi ai remi. Benché fra i richiedenti avesse riconosciuto Sirk, Halg non si era opposto all'atto generoso. Sirk non era solo e d'altronde, finché si può, non si deve rifiutare nulla a nessuno, neppure a un nemico. L'allievo del Kaw-djer, come si vede, faceva onore al maestro. Mentre una parte dei coloni si sforzava di utilizzare così il tempo, altri vivevano nell'ozio completo. Per taluni, tale abbandono di sé era normalissimo. Che avrebbero potuto fare Fritz Gross e John Rame, ridotto il primo ad un vero stato d'infermità dall'abuso di bevande alcooliche, il secondo ignorando come un bimbo la vita reale. Kennedy e Sirdey non potevano essere scusati così, eppure non lavoravano di più. Fidandosi sull'esperienza dell'inverno precedente, erano rimasti nell'isola Hoste con la prospettiva di vivervi in ozio a spese altrui. Per il momento tutto andava secondo i loro desideri. Essi non chiedevano di meglio, lasciando che il tempo scorresse senza preoccuparsi dell'avvenire. Disoccupati erano anche Dorick e Beauval. Preparati male dalle loro occupazioni precedenti alle condizioni specialissime della vita attuale, si sentivano assai disorientati. Sopra un'isola vergine, in mezzo alla natura rude e selvaggia, le cognizioni di

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un antico avvocato e di un ex-professore di letteratura e di storia divengono ben misero aiuto.

Né l'uno né l'altro avevano preveduto gli avvenimenti accaduti. L'esodo, tuttavia logico, della grande maggioranza dei compagni li aveva colti come una catastrofe, sconvolgendo i loro progetti, del resto piuttosto confusi. Tale esodo costava a Dorick tutta la sua clientela di spauriti, a Beauval il suo pubblico, vale a dire quell'insieme di esseri che i politicanti di professione designano talvolta, senz'aver coscienza del cinismo

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involontario dell'espressione, sotto il nome ameno di «materia elettorale». Dopo due mesi di scoraggiamento, Beauval cominciò tuttavia a ripigliarsi. Se gli era mancata la prontezza di una decisione, se le cose, sfuggendo alla sua direttiva, avevano finito col regolarsi da sé stesse, non voleva dire che tutto fosse perduto. Ciò che non era stato fatto, poteva esser fatto ancora. Gli Hostelliani, avevano trascurato di darsi un capo, il posto era ancora libero. Bastava prenderlo. La penuria d'elettori non diveniva ostacolo al successo. Invece la campagna si presentava più facile da condurre fra la popolazione così dispersa. Disseminati sopra tutta la superficie dell'isola, senza legami fra loro, i coloni non potevano concertarsi per un'azione comune. Se più innanzi fossero: venuti all'accampamento, non sarebbero giunti che alla spicciolata, ed essendo isolatile trovando un governo giù funzionante, avrebbero dovuto inchinarsi davanti al fatto compiuto. Formato il progetto, Beauval si affrettò a realizzarlo. Gli bastarono pochi giorni per constatare che esistevano tre partiti allo stato latente, oltre quello dei neutri e degli indifferenti: uno, del quale a buon diritto poteva considerarsi - il capo; un secondo invece che seguiva le suggestioni di Lewis Dorick, il terzo che subiva l'influenza del Kaw-djer. Dopo un esame maturo, gli sembrò che i tre partiti disponessero di forze su per giù uguali. Stabilito ciò, Beauval cominciò la campagna, e la sua eloquenza travolgente gli fruttò mezza dozzina di voti. Si procedette immediatamente ad un simulacro di elezione. Furono necessari due scrutini a causa delle astensioni, il cui numero grande si spiegava per l'ignoranza del grave avvenimento che stava per compiersi. Finalmente, il suo nome ottenne quasi trenta suffragi. Eletto con tale gherminella, e prendendo la sua elezione sul serio, Beauval non doveva più preoccuparsi dell'avvenire. Non sarebbe valsa la pena di essere il capo senza che il titolo non conferisse il diritto di vivere a spese degli elettori.

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Ma lo assalirono altri pensieri. Il più volgare buon senso gli sussurrava che il primo dovere di un governatore è di governare. Ora, praticamente, la cosa non gli appariva più così facile come se l'era immaginata. Certamente Lewis Dorick, al suo posto, sarebbe stato meno imbarazzato. La scuola comunista, della quale si proclamava membro, è semplicista. È chiaro che la sua formula: «Tutto in comune», qualunque opinione si abbia sulle sue conseguenze materiali e morali, sarebbe di facile applicazione, sia che la si imponesse con leggi severe, concepibili senza troppa fatica, sia che gli interessati vi si prestassero docilmente. E in verità, gli Hostelliani non avrebbero fatto male a tentare l'esperienza. In numero limitato, isolati dal resto del mondo, si trovavano nella condizione migliore per condurla a buon fine e, forse, nella loro situazione speciale, e in virtù della formula comunista, sarebbero riusciti ad assicurarsi lo stretto necessario e a realizzare l'eguaglianza perfetta, a patto però di procedere alla parificazione, non con l'elevare gli umili, bensì con l'abbassare i grandi. Sfortunatamente, Ferdinando Beauval non professava il comunismo, ma il collettivismo, la cui organizzazione se non fosse, verosimilmente, al di sopra delle forze umane, richiederebbe un meccanismo infinitamente più complicato e più educato. Tale dottrina, d'altronde, era realizzabile? Nessuno lo sapeva. Se il movimento socialista, affermatosi durante la metà del secolo XIX, non è stato inutile, se ha ottenuto il risultato benefico di eccitare la pietà generale, richiamando l'attenzione sulle miserie umane, di orientare gli spiriti verso la ricerca di mezzi atti ad attenuarla, di suscitare iniziative generose, e provocare leggi non tutte cattive, tale risultato non si poté ottenere che conservando intatto l'ordine sociale che esso pretendeva di distruggere. Se ha trovato terreno solido nella critica, ahimè! troppo comoda, di quanto esiste, il socialismo si è dimostrato d'impotenza rara nell'elaborazione di un piano di ricostruzione. Tutti coloro che si sono dedicati alla seconda

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parte del problema non hanno formato che progetti spaventosamente puerili. Il lato cattivo della situazione di Ferdinando Beauval era precisamente questo: egli non aveva nulla da criticare, né da distruggere, perchè sull'isola Hoste non esisteva niente, e invece si trovava nella necessità di costruire. A proposito di ciò, mancavano i precedenti. Il socialismo, infatti, non è scienza scritta. Non forma una dottrina completa. Distrugge, non crea. Beauval, costretto di conseguenza a inventare, constatava la difficoltà di improvvisare di sana pianta un ordine sociale qualsiasi, e capiva che se gli uomini hanno proceduto a tastoni verso un avvenire ignorato, accontentandosi di rendersi sopportabile la vita a mezzo di transazioni reciproche, è perchè non hanno potuto fare diversamente. Tuttavia egli aveva un filo conduttore. Non c'è scuola socialista che non reclami la soppressione della concorrenza con la socializzazione dei mezzi di produzione. È un minimum di rivendicazione comune a tutte le sette, ed è in particolare il credo del collettivismo. Beauval non doveva che conformarvisi. Per sfortuna, se tale principio ha almeno una apparenza di ragione d'essere in una società antica, in cui lo sforzo secolare ha accumulato organismi di produzione complicati e possenti, nulla di simile esisteva nell'isola Hoste. I reali istrumenti produttivi erano le braccia e il coraggio dei coloni, a meno che, trasformando il collettivismo in comunismo puro e semplice, non si volessero considerare come tali gl'istrumenti aratori, gli alberi, i campi e le praterie! Ecco perchè Beauval era in preda a una crudele perplessità. Intanto che tali gravi problemi gli si agitavano nella mente, la sua elezione aveva strane conseguenze. L'accampamento, già così deserto, si vuotava anche di più. Si emigrava. Harry Rhodes, pel primo, diede l'esempio. Poco tranquillo, circa la piega che prendevano le cose, oltrepassò il fiume nel giorno stesso in cui fu soddisfatta l'ambizione di Beauval. Trasportò a pezzi la sua casa sulla riva sinistra, ove la fece

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riedificare da alcuni muratori che, come avevano fatto per quella del Kaw-djer, la resero più comoda e più solida. Harry Rhodes, diverso in ciò dal suo amico, pagò in modo equo gli operai, i quali furono contentissimi di ricevere il danaro, ma turbatissimi per non sapere cosa farne. L'esempio della famiglia Rhodes fu imitato. Successivamente, Smith, Wright, Lawson, Fock, i due carpentieri Hobart e Charley ed altri due operai, passarono il fiume per stabilirsi sulla riva sinistra. Si creava così un borgo rivale del primo, intorno al Kaw-djer, sulla riva ove si erano già fissati Hartlepool e quattro dei marinai; borgo che, tre mesi dopo la proclamazione d'indipendenza, contava già ventuno abitante, fra i quali due fanciulli, Dick e Sand, e due donne, Clary Rhodes e la madre. La vita trascorreva placida nel villaggio rudimentale, ove nulla alterava il buon accordo generale. Fu quando Beauval attraversò il fiume, che accadde il primo incidente. In quel giorno Halg stava parlando di cose gravi col Kaw-djer. In presenza di Harry Rhodes, chiedeva consiglio sulla condotta da tenere verso alcuni coloni della riva opposta. Si trattava dei pescatori inesperti, che erano ricorsi una prima volta alla generosità dei Fuegiani. Incoraggiati dal buon esito della prima richiesta, essi l'avevano rinnovata a intervalli sempre più vicini, e ora non scorreva giorno, senza che Halg vedesse una parte della sua merce passare nelle loro mani. Essi non avevano più alcun riguardo. Dal momento che altri avevano la bontà di lavorare per loro, ritenevano senza dubbio inutile ogni occupazione. Restavano dunque a terra aspettando tranquillamente il ritorno della scialuppa per reclamare, come diritto, la loro parte di pesca. Halg cominciava ad irritarsi di quella infingardaggine, tanto più che il suo nemico Sirk faceva parte della brigata dei fannulloni. Prima di opporre un rifiuto, aveva voluto udire il parere del Kaw-djer.

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Seduto sulla spiaggia insieme coi due amici, dinanzi al mare infinito, Halg raccontò la cosa dettagliatamente. La risposta del Kaw-djer fu decisa. — Guarda questo immenso spazio, Halg — gli disse con dolcezza serena — e impara da esso una più larga filosofia. Che pazzia! Essere polvere impalpabile, sperduto entro un universo mostruoso ed agitarsi per pochi pesci!… Gli uomini, figliolo, non hanno che un dovere, che è nello stesso tempo anche una necessità, se vogliono vivere e sussistere: amarsi e aiutarsi l'un l'altro. Coloro dei quali mi parli hanno, certamente, mancato a quel dovere, ma non è una ragione per imitarli. La regola è semplice: assicurare prima la propria sussistenza, poi, quando Io si è fatto, assicurare quella del più gran numero possibile di suoi simili. Che importa se gli altri abusano? Tanto peggio per essi, non per te. Halg aveva ascoltato con rispetto tale esposto di principi. E stava per rispondere, quando Zol, il cane, accovacciato ai piedi dei tre, ringhiò sordamente. Quasi subito, una voce chiamò: — Kaw-djer! Il Kaw-djer voltò la testa. — Signor Beauval — disse. — Proprio io… Devo parlarvi. — Vi, ascolto. Beauval, tuttavia, non parlò subito, perchè, in verità, era molto, imbarazzato. Eppure, aveva preparato il suo discorso, ma dinanzi al Kaw-djer, la cui fredda serietà l'intimidiva stranamente, egli non ricordava più le parole pompose e si rendeva conto dell'enorme, incommensurabile sciocchezza del suo passo. A forza di pensare al principio fondamentale della dottrina socialista, Beauval aveva finito con lo scoprire che nell'isola Hoste esistevano strumenti di produzione, ai quali si poteva applicare, a rigore, quella dottrina. Le imbarcazioni, e più di tutte le altre la Wel-Kiej, non erano strumenti di produzione? Un altro strumento non era forse il fucile del Kaw-djer, che giaceva per l'appunto sulla sabbia ai suoi piedi?

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L'unico fucile dell'isola destava assai la cupidigia di Beauval. Quale superiorità conferiva al suo proprietario! E per conseguenza niente di più naturale, niente di più legittimo, che la superiorità venisse assicurata al Governatore, vale a dire a colui che personificava l'interesse comune! — Kaw-djer — disse finalmente Beauval, — non so se voi sappiate che, tempo fa, sono stato eletto Governatore dell'isola Hoste. Il Kaw-djer, sorridendo ironicamente, rispose con un gesto d'indifferenza. — Mi è sembrato — riprese Beauval — che il primo dei miei doveri nelle circostanze attuali, fosse di mettere al servizio della collettività 1 vantaggi particolari che possono trovarsi in possesso di qualcuno dei suoi membri. Beauval si fermò un momento, aspettando qualche parola di approvazione. Ma il Kaw-djer continuò a tacere, ed egli proseguì: — Per ciò che vi riguarda, Kaw-djer, voi possedete, solo fra tutti, un fucile e una scialuppa. Il fucile è la sola arma da fuoco della colonia; la scialuppa è la sola imbarcazione solida, che possa permettere di intraprendere un viaggio di qualche durata… — E voi desiderereste appropriarveli — concluse il Kaw-djer. — Protesto contro la parola — esclamò Beauval, con un gesto da pubblica riunione. — Eletto con programma collettivista, mi limito ad applicarlo. Il mio passo non tende a nulla che assomigli a spogliazione. Non si tratta di confiscare, ma, cosa molto differente, di socializzare gli strumenti produttivi. — Venite a prenderli — disse tranquillamente il Kaw-djer. Beauval indietreggiò d'un passo. Zol ringhiò ancora sinistramente. — Devo credere — chiese poi — che rifiutate di conformarvi alle decisioni dell'autorità regolare della colonia? Una vampata di collera passò negli occhi del Kaw-djer. Si alzò raccogliendo il fucile. Poi, battendo il calcio sul terreno: — Basta con questa commedia, basta! — disse con fierezza. — Ho detto: Venite a prenderli!

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Aizzato dall'atteggiamento del padrone, Zol mostrò i denti. Beauval, intimidito tanto dalla manifestazione ostile dell'animale, quanto dal tono risoluto e dalla corporatura erculea del padrone, giudicò opportuno non insistere. Batté in ritirata, con prudenza, masticando parole confuse, il cui senso generale era che il caso sarebbe stato sottomesso al Consiglio, il quale avrebbe decretato le misure opportune. Senza ascoltarlo, il Kaw-djer gli aveva voltato le spalle e di nuovo guardava il mare. L'incidente racchiudeva una lezione e Harry Rhodes volle metterla in evidenza. — Che pensate del passo di Beauval? — chiese. — Cosa volete che ne pensi? — rispose il Kaw-djer. — Che possono farmi i gesti e le parole di tale fantoccio? — Fantoccio, sia pure! — rispose Harry Rhodes. — Ma anche Governatore. — Nominato da sé, allora, perchè all'accampamento non ci sono sessanta coloni. — Basta un voto, quando nessun altro ne ha di più. Il Kaw-djer alzò le spalle. — Vi chiedo scusa in anticipo — di quanto sto per dirvi — riprese Harry; — ma, in verità, non provate qualche rimpianto, dirò di più qualche rimorso? — Io?… — Sì. Voi solo, fra tutti i coloni, avete la conoscenza del paese, che abitate da molti anni, nelle sue risorse e nei suoi pericoli; voi solo possedete l'intelligenza, l'energia e l'autorità necessarie per imporsi alla popolazione ignorante e debole, e siete rimasto spettatore indifferente ed inerte! Invece di riunire le buone volontà sparse, avete lasciato che i disgraziati si disperdessero senza metodo e senza legami. Che voi lo vogliate o no, siete responsabile delle miserie che li aspettano… — Responsabile! — protestò il Kaw-djer. — Ma quale dovere mi incombe, che io non abbia adempiuto? — L'assistenza che il forte deve al debole. — Non l'ho data?… Non ho forse salvato il Jonathan? Chi può dire che io abbia negato aiuto o consiglio ad alcuno?

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— Bisognava fare di più — affermò Harry Rhodes energicamente. — Che lo voglia o no, ogni uomo superiore agli altri ha custodia di anime! Dovevate dirigere gli avvenimenti, non subirli, difendere contro sé stesso un popolo disarmato e guidarlo…

— Rubandogli la libertà! — interruppe il Kaw-djer.

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— Perchè no? — replicò Harry Rhodes. Se la persuasione basta ai buoni, ci sono uomini che non cedono se non alla restrizione, alla legge che ordina, alla forza che obbliga. — Mai! — esclamò il Kaw-djer con violenza. Dopo una pausa, egli riprese con voce più tranquilla. — Bisogna concludere. Una volta per sempre sappiate, amico, che io sono il nemico irreconciliabile di qualsiasi governo. Ho speso la vita intiera a riflettere su questo problema e penso che non esiste una sola circostanza per cui si abbia il diritto di attentare alla libertà del proprio prossimo. Ogni legge, prescrizione o proibizione, emanata in vista del cosiddetto interesse della massa a detrimento degli individui, è falsità. Che l'individuo si sviluppi, invece, completamente libero, e la massa godrà della felicità totale, formata da tutte le felicità individuali. A tale convinzione, che è la base della mia vita, e che non fu in mio potere, per quanto esso fosse grande, di far trionfare nelle società imputridite del Vecchio Mondo, ho sacrificato molto, più di quanto la maggior parte degli uomini avrebbero avuto la possibilità di sacrificare, e sono venuto qui in Magellania per vivere e morire libero, sopra una terra libera. Le mie convinzioni non si sono mutate dopo. So che la libertà ha i suoi inconvenienti, ma, con l'uso, si attenuano da soli, e, in ogni caso, sono minori di quelli delle leggi, che hanno la folle pretesa di sopprimerli. Gli avvenimenti degli ultimi mesi mi procurarono molta tristezza, ma non modificarono le mie idee. Questo sia detto fra noi una volta per sempre, affinchè non si torni mai più sull'argomento. Così dunque, il Kaw-djer non voleva convenire che l'esperienza aveva scosso la sua fede. Lungi dall'abbandonarla, egli vi si aggrappava, pari a colui che annega e si abbranca, se non trova alcun altro sostegno, al ciuffo d'erbe, del quale, tuttavia, conosce la fragilità. Harry Rhodes aveva ascoltata attentamente la sua professione di fede, esposta con voce ferma che non ammetteva replica. Per tutta risposta sospirò malinconicamente.

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II.

HALG E SIRK.

Il Kaw-djer poneva la libertà sopra a tutti i beni della terra, ed era tanto vigile nel rispettare la libertà altrui, quanto geloso di tutelare la propria. Pure, emanava tale autorità dalla sua persona, che lo si obbediva, come il più despota fra i padroni. Egli evitava inutilmente di pronunziare parole che potessero sembrare ordini: ma si riteneva ordine il più piccolo suo consiglio e quasi tutti vi si conformavano docilmente. Alcuni avevano edificato le loro case sulla riva sinistra del fiume, perchè egli vi aveva edificato la propria. turbati dall'anarchia iniziale della colonia, ancor più turbati da quell'ombra di governo, impossessatosi in seguito del potere, si erano istintivamente raggruppati intorno all'uomo che s'imponeva per la forza fisica, la vasta intelligenza e la levatura morale. Più si viveva a contatto col Kaw-djer, e maggiormente se ne subiva l'influenza. Hartlepool e i suoi quattro marinai lo consideravano come il loro capo, e in Harry Rhodes, capace meglio degli altri di penetrare il movente segreto di un atto, la devozione si esaltava fino a meritare il nome d'amicizia. La dedizione di Halg e di Karroly era spinta infine sino al feticismo. Il Kaw-djer per i suoi compagni era il dio che aveva saputo trasformare la vita materiale del padre e la vita psichica del figlio e trarli fuori dallo stato di semianimalità in cui vegetavano le tribù fuegiane. Una sola sua parola era legge per essi ed egli possedeva ai loro occhi il carattere di verità rivelata. Non desterà quindi sorpresa che Halg, malgrado la sua viva ripugnanza a lasciarsi così sfruttare da un nemico, si

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conformasse alle massime di colui che considerava come suo maestro. Sirk e i suoi accoliti poterono impunemente mostrarsi di un cinismo crescente e Halg, per quanta ira risentisse entro di sé, non si ritenne in diritto di rifiutare loro i frutti della pesca, fintanto che sussistevano le condizioni precisate dal Kaw-djer.

Ma giunse il momento in cui le leggi emanate dal suo protettore condussero logicamente a conclusioni differenti.

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Essere pescatori esperti, aver vissuto sull'acqua fin dai più teneri anni, non era garanzia valida contro un possibile scacco. Halg doveva farne l'esperienza. Un giorno infatti ebbe un bel lanciare lenze e reti, e frugare il mare in tutti i sensi; dovette accontentarsi d'un sol pesce, di medie dimensioni. Sirk, insieme a quattro altri coloni, sdraiato pigramente sulla spiaggia, aspettava, come di solito, il suo ritorno, e tutti e cinque si alzarono quando la Wel-Kiej gettò l'ancora, e si diressero incontro ad Halg. — Anche oggi siamo stati disgraziati, camerata — disse uno degli emigranti. — Fortunatamente ci sei tu! Altrimenti dovremmo restare a stomaco vuoto. Quegli accattoni, per non affaticare troppo la mente, ripetevano sempre la loro richiesta in termini quasi identici e ogni giorno Halg brevemente rispondeva: «Ai vostri ordini». Ma, quella volta, la risposta fu diversa. — È impossibile oggi — replicò Halg. I cinque rimasero stupiti. — Impossibile? — ripeté uno. — Appunto. Guardate, non ho che un pesce, e neppure molto grosso. Ecco tutto il mio bottino di oggi. — Ce ne accontenteremo — affermò un emigrante, facendo buon viso a mala sorte. — E io?… — obbiettò Halg. — Tu!… — esclamarono insieme le cinque voci, esprimendo all'unisono la più profonda sorpresa. Il giovane Fuegiano, non mancava in verità di coraggio! Credeva forse di esser tanto forte da tener testa ai cinque «civilizzati», che gli facevano l'onore di metterlo a contributo? — Di', dunque, mal sbiancato, così intendi tu la fraternità?… Avresti forse l'ardire di rifiutarcelo quel tuo cattivo pesce?… Halg non parlò. Basandosi sui principi del Kaw-djer, si sentiva forte del suo buon diritto. «Prima assicurare la propria assistenza, poi…», aveva detto il Kaw-djer. Quell'unico pesce era insufficiente al pasto della sera; per conseguenza poteva rifiutarsi di dividerlo con gli altri.

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— Ah, quest'è nuova! — esclamò l'operaio indignato, che considerava il rifiuto come la prova del più urtante egoismo. — Non tante parole, — intervenne Sirk con tono provocante. — Se il moretto ci rifiuta il pesce, prendiamoglielo! Poi, rivolgendosi ad Halg: — Uno?… due?… tre?… Halg, senza rispondere, si mise sulla difesa. — Avanti ragazzi! — ordinò Sirk. Assalito dai cinque uomini insieme, Halg fu gettato a terra e gli fu strappato di mano il pesce. — Kaw-djer!… — chiamò cadendo. A quel grido il Kaw-djer e Karroly uscirono dalla casa e, vedendo che Halg sosteneva una lotta ineguale, accorsero in suo aiuto. Gli aggressori non attesero certo il loro intervento. Fuggirono rapidamente attraverso il fiume, senza dimenticare il bottino così bellamente conquistato. Halg si rialzò subito, un po' ammaccato, ma tuttavia non ferito. — Che ti è accaduto? — chiese il Kaw-djer. Halg raccontò il fatto e intanto il Kaw-djer lo ascoltava corrugando la fronte. Era una nuova prova della cattiveria umana, che distruggeva le sue teorie ottimiste. Quante ancora gliene sarebbero abbisognate, prima che egli si arrendesse, prima che acconsentisse a vedere l'uomo tale quale è? Per quanto volesse spingere oltre ogni limite l'altruismo, non poté dar torto al suo protetto, il cui buon diritto si imponeva in modo così luminoso. Tutt'al più si arrischiò a fargli comprendere che l'importanza del litigio non giustificava simile difesa. Ma Halg, questa volta, non si lasciò convincere. — Non per il pesce — esclamò, ancora eccitato dalla lotta. — Però io non posso essere lo schiavo di quella gente là. — Ma certo… ecco… — disse il Kaw-djer con tono conciliativo. Sì, c'era ancora quest'altra cosa — l'amor proprio — per seminare la discordia fra gli uomini. Non è soltanto la soddisfazione dei bisogni materiali che causa le liti. Essi hanno

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bisogni morali, altrettanto imperiosi, forse anche più imperiosi e in alto, sopra a tutti, sta l'orgoglio che ha contribuito in gran parte a insanguinare la terra. Ma il Kaw-djer era forse nel diritto di negare la violenza furiosa dell'orgoglio, egli, la cui anima indomabile non aveva mai potuto subire l'oppressione? Intanto Halg continuava a sfogare la sua collera. — Io… — diceva, — cedere a Sirk?… E c'era un'altra cosa ancora, le passioni umane, per armare, gli uni contro gli altri, coloro che il Kaw-djer si ostinava a considerare fratelli! Egli non rilevò il grido di rivolta del giovane Indiano. Calmando Halg con un gesto, si allontanò in silenzio. Ma anche ora non rinunziava a difendere il suo sogno contro l'evidenza dei fatti. Allontanandosi, cercava e trovava qualche attenuante per gli aggressori. Senza dubbio erano colpevoli, ma quei poveretti, triste prodotto della civilizzazione atroce del Vecchio Mondo, non potevano conoscere altro argomento all'infuori della forza, quando era in gioco la loro stessa vita. Ora non si trovavano in una situazione del genere? Per quanto fossero imprevidenti e leggeri, li doveva preoccupare la crescente penuria dei viveri, trasportati, per la maggior parte, nell'interno dell'isola. Nessun rifornimento era possibile e si poteva ormai prevedere il loro esaurimento. Niente di più naturale, dunque, che i disgraziati tentassero di ritardare con tutti i mezzi la scadenza inevitabile e obbedissero all'istinto primordiale di ogni organismo vivente, che tende ad allontanare per fas et nefas il termine della distruzione necessaria. Sirk e i compagni conoscevano lo stato delle risorse della colonia, oppure avevano semplicemente ceduto alla brutalità istintiva? Ad ogni modo i timori del Kaw-djer non erano infondati. Bisognava esser ciechi per non comprendere che il più terribile pericolo, la fame, minacciava la colonia nascente. Come andavano le cose nell'interno dell'isola? Lo si ignorava. Ma ammettendo che tutto andasse per il meglio, soltanto nella

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prossima estate l'abbondanza del raccolto avrebbe permesso di trasportarne una parte alla costa. Dunque, bisognava aspettare un'annata intiera, e non restavano che due mesi di viveri. Sulla riva sinistra, la situazione sembrava meno sfavorevole. Là, sotto l'influenza del Kaw-djer, si erano razionati fin dal principio, e si ingegnavano ad economizzare la riserva, aumentandola col giardinaggio e con la pesca. Destava invece stupore la vera indifferenza dei settanta emigranti della riva destra. Che sarebbe stato di essi? Stavano per ripetere, a trecento anni di distanza, la spaventosa tragedia di un nuovo Port-Famine? Si aveva il diritto di temerlo e la cosa minacciava di finire così, quando agli imprevidenti coloni si aprì una via di scampo. Il Chili non aveva dimenticato la promessa di venire in aiuto alla nazione nascente. Verso la metà di febbraio, una nave con bandiera chilena, gettò l'ancora dinanzi all'accampamento. La nave, il Ribarto, trasporto a vela da sette a ottocento tonnellate, agli ordini del comandante José Fuentes, portava all'isola Hoste viveri, semenze, animali da fattoria, attrezzi agricoli, carico di grande valore e tale da assicurare la buona riuscita della colonia, se giudiziosamente impiegato. Appena l'ancora toccò il fondo, il comandante si fece condurre a terra e si mise in rapporto col Governatore dell'isola. Ferdinando Beauval si presentò molto audacemente, ma tuttavia a buon diritto, perchè nessun altri poteva rivendicare quel titolo. Si iniziò subito lo scarico del Ribarto, e mentre il lavoro si compiva, il comandante Fuentes si occupò di un'altra missione della quale era incaricato. — Signor Governatore — disse a Beauval — il mio Governo crede di sapere che un personaggio, conosciuto sotto il nome di Kaw-djer, risulterebbe fissato sopra l'isola Hoste. Il fatto è reale? Beauval rispose affermativamente, e il comandante riprese: — Le nostre informazioni non sono erronee. Oserei chiedervi che uomo è costui?

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— Un rivoluzionario — rispose Beauval, con un candore di cui egli stesso non aveva coscienza. — Un rivoluzionario!… Che intendete dire con questa parola, signor Governatore? — Per me, come per tutti — spiegò Beauval, — un rivoluzionario è un uomo che insorge contro le leggi e rifiuta di sottomettersi alle autorità regolarmente costituite. — Il Kaw-djer vi avrebbe forse creato qualche difficoltà? — Mi dà molto da fare, — disse Beauval con importanza. — È quello che si dice una testa calda… Ma lo domerò — affermò energicamente. Il comandante della nave cilena parve interessarsi della cosa e dopo un istante di riflessione chiese: — Sarebbe possibile vedere quest'uomo, al quale si è rivolta ripetutamente l'attenzione del mio Governo? — Nulla di più facile, — rispose Beauval… — Guardate, ecco precisamente che viene verso di noi. Così dicendo, Beauval indicava con la mano il Kaw-djer, che stava attraversando il fiume sopra il piccolo ponte. Il comandante gli andò incontro. — Una parola, signore, vi prego — disse portando la mano al berretto gallonato. Il Kaw-djer si fermò. — Vi ascolto — rispose in spagnolo purissimo. Ma il comandante non parlò subito. Con gli occhi fissi, la bocca semi-aperta, egli osservava il Kaw-djer con uno stupore che non cercava nascondere. — Ebbene? — chiese questi impazientito. — Vi prego di perdonarmi, signore — disse alfine il comandante. — Vedendovi mi è sembrato di riconoscervi, quasi ci fossimo incontrati già in passato. — Non è probabile — replicò il Kaw-djer, abbozzando un sorriso ironico. — Tuttavia… Il comandante s'interruppe e battendosi la fronte:

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— Ci sono!… — esclamò. — Avete ragione, perchè effettivamente non ho potuto mai incontrarvi. Ma voi rassomigliate tanto a un ritratto le cui copie furono sparse a milioni per il mondo, al punto che mi chiedo se quel ritratto non sia il vostro. Mano mano che parlava, una specie di turbamento rispettoso velava la sua voce, o ne modificava l'atteggiamento. Quando tacque, teneva in mano il berretto. — Vi sbagliate, signore — disse il Kaw-djer con freddezza. — Pure giurerei… — A quale epoca risalirebbe il ritratto di cui parlate? — interruppe il Kaw-djer. — A circa dieci anni. Il Kaw-djer non esitò a mascherare un poco la verità. — Ho lasciato ciò che voi chiamate il mondo da più di vent'anni — replicò. — Dunque quello non può essere il mio ritratto. D'altronde, come potreste riconoscermi?… Sono passati vent'anni, ero giovine… E ora… — Che età avete? — chiese storditamente il comandante. Pieno di curiosità per lo strano mistero che presentiva e che stava forse per delucidare, egli si era lasciato sfuggire quella domanda all'impensata, senz'avere avuto il tempo di riflettere. Ma ne comprese subito la scorrettezza. — Vi ho chiesto forse la vostra? — rispose il Kaw-djer con voce breve. Il comandante si morse le labbra. — Presumo — riprese il Kaw-djer — che non m'abbiate cercato perchè parlassimo di ritratti. Veniamo al fatto, vi prego. — Sia — disse il comandante, accondiscendendo. E con gesto rapido si mise in capo il berretto gallonato. — Il mio Governo — continuò, adoperando da capo il tono ufficiale — mi ha incaricato di informarmi sulle vostre intenzioni. — Le mie intenzioni?… — ripeté il Kaw-djer sorpreso. — E sotto quale rapporto? — Riguardo alla vostra residenza.

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— Che gliene importa? — Gliene importa molto. — Bah!… — Proprio così. Il mio Governo è a conoscenza della vostra influenza sugl'indigeni dell'arcipelago, e non ha cessato di tenere tale influenza in seria considerazione. — Troppo gentile!… — disse ironicamente il Kaw-djer. — Finché la Magellania è rimasta res nullius, — proseguì il comandante, — non c'era che da restare nell'aspettativa. Ma la situazione, dopo la spartizione, ha mutato aspetto. Dopo l'annessione… — La spogliazione — rettificò il Kaw-djer fra i denti. — Voi dite?… — Nulla. Continuate, vi prego. — Dopo l'annessione — riprese il comandante, — il mio Governo, preoccupato d'assicurare solidamente la sua autorità sull'arcipelago, dovette chiedersi quale atteggiamento gli convenisse assumere nei vostri riguardi, e il suo atteggiamento dipenderà forzatamente dal vostro. La mia missione consiste dunque nell'informarmi dei vostri progetti. Vi porto un trattato d'alleanza… — O una dichiarazione di guerra? — Precisamente. La vostra influenza, che noi non contestiamo, ci sarà ostile, oppure la metterete al servizio della nostra opera civilizzatrice? Sarete nostro alleato o nostro avversario? Sta a voi decidere. — Ne l'uno, né l'altro — disse il Kaw-djer. — Ma un indifferente. Il comandante scosse la testa in atto dubbioso. — Data la vostra situazione speciale nell'arcipelago — disse — la neutralità mi sembra di difficile applicazione. — Facilissima invece, — replicò il Kaw-djer, — per la buona ragione che ho lasciato la Magellania con l'idea di non ritornarvi più. — Voi avete lasciato?… Qui però… — Qui, io sono sull'isola Hoste, terra libera, e sono risoluto a non ritornare in quella parte dell'arcipelago, che non lo è più.

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— Calcolate quindi di stabilirvi nell'isola Hoste? Il Kaw-djer assentì col gesto. — Questo, semplifica molto le cose — disse il comandante soddisfatto. — Posso quindi portare al mio Governo l'assicurazione che voi non prenderete partito contro di esso. — Dite al vostro Governo che lo ignoro — rispose il Kaw-djer, togliendosi il berretto e proseguendo per la sua strada. Il comandante lo seguì un momento con lo sguardo. Malgrado l'assicurazione del Kaw-djer, egli non era convinto che la rassomiglianza che aveva creduto scoprire fosse immaginaria, ed essa anzi doveva avere, in un modo o nell'altro, qualche cosa di straordinario, per turbarlo così profondamente. — È strano — mormorava sottovoce, mentre il Kaw-djer, senza volgere il capo, si allontanava con passo tranquillo. Il comandante non ebbe più l'occasione di verificare la fondatezza dei suoi aspetti, perchè il Kaw-djer non si prestò ad essere nuovamente intervistato. Come se avesse temuto di dare adito ad una investigazione qualsiasi sulla sua vita passata, scomparve la sera dello stesso giorno e partì per una delle sue solite peregrinazioni abituali a traverso l'isola. Il comandante dovette quindi limitarsi ad effettuare lo scarico della nave; lavoro che richiese una settimana di tempo. Oltre alla merce generosamente regalata dal Chili a profitto comune della nuova colonia, il Ribarto portava pure alcuni colli per conto particolare di Harry Rhodes. Incapace di dedicarsi a lavori agricoli, ai quali la sua educazione non lo aveva in alcun modo preparato, era sorta in lui l'idea di trasformarsi in commerciante importatore. Così, nel momento della proclamazione d'indipendenza e quando ognuno era in diritto di prevedere per la nazione nascente un destino fortunato, aveva incaricato il comandante dell'aviso di spedirgli una certa quantità di merci, quando se ne fosse presentata l'occasione. Il comandante se ne era ben ricordato, ed il Ribarto trasportava per ordine e conto di Harry Rhodes una infinità di oggetti svariati, di mediocre importanza isolatamente, ma tutti di prima

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necessità: aghi, spilli, fiammiferi, filo, calzature, indumenti, penne, matite, carta da lettera, tabacco. Certo, i progetti di Harry Rhodes erano ragionevoli e la sua scelta giudiziosa. Tuttavia, dalla piega che prendevano le cose, c'era da temere che quell'assortimento non avesse da trovar compratori. Nulla indicava che transazioni commerciali avessero dovuto stabilirsi fra gli Hostelliani, i quali, per la mancanza di ogni regola che arginasse e limitasse gli egoismi individuali, non erano se non un aggregato fortuito di solitari. Harry Rhodes, esaminando gli avvenimenti, considerava ormai così probabile lo scacco della sua impresa, che fu tentato di lasciar la merce sul Ribarto, imbarcarvisi a sua volta e lasciare un paese, ove gli sembrava che non ci fosse più nulla da sperare. Ma dove sarebbe andato, ingombro da tanta merce eteroclita, così preziosa in una regione quasi selvaggia, ma che avrebbe perduto il suo valore nelle contrade ove abbonda? Dopo lunga riflessione, decise di pazientare ancora. Non era supponibile che il Ribarto sarebbe stata l'ultima nave che avrebbe approdato in quei paraggi. Avrebbe potuto dunque lasciare più tardi l'isola Hoste, se la situazione non fosse migliorata. Finito lo scarico, il Ribarto levò l'ancora e riprese il largo. Qualche ora dopo il Kaw-djer, come se non avesse atteso che la partenza della nave, ritornò alla costa. Ricominciò la vita di prima: alcuni coltivavano gli orti o pescavano, il Kaw-djer cacciava, e la maggior parte dei coloni non facevano nulla, lasciandosi vivere, con la serenità giustificata in qualche modo dall'aumento dello stock, di provvigioni. La popolazione si era ridotta a meno di cento anime, compreso il Borgo-Nuovo, nome dato all'unanimità all'agglomeramento riunito intorno al Kaw-djer, cosicché i viveri sarebbero durati diciotto mesi almeno. E allora perchè crearsi preoccupazioni? Quanto a Beauval, egli regnava! Per verità come un re fannullone e, se regnava, non governava però. Del resto, a suo giudizio, le cose andavano benissimo così. Fino dai primi

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giorni della sua nomina, aveva elevato l'accampamento alla dignità di capitale ufficiale, battezzandola, con un decreto, col nome di Liberia, e dopo tale sforzo si era riposato. Il dono generoso del governo Chileno gli fornì l'occasione per compiere un secondo atto d'autorità, allo scopo importante di disciplinare i divertimenti del suo popolo. Dietro suo ordine, mentre la metà delle bevande alcooliche portate dal Ribarto veniva accantonata, l'altra metà venne distribuita ai coloni. Il risultato della sua larghezza non si fece aspettare. Molti perdettero la ragione, e Lazzaro Ceroni più di tutti gli altri. Tullia e sua figlia dovettero subire da capo terribili scenate, confuse nel baccanale, che, per la seconda volta, sconvolgeva tutto l'accampamento. Si bevve, si giuocò, si ballò anche al suono del violino di Fritz Gross, che l'alcool aveva risuscitato. I più sobrii facevano circolo intorno al musicista geniale. Lo stesso Kaw-djer non sdegnò di passare il fiume, attirato dalle melodie tanto più meravigliose, in quanto che erano uniche in quelle regioni lontane. Né mancavano a tali concerti Harry Rhodes e la sua famiglia, attratti dal fascino di quella musica, né Halg e Karroly, per i quali essa costituiva un'assoluta rivelazione. Quanto a Dick e a Sand, erano sempre presenti ad ogni audizione. Dick, in verità, non veniva a cercarvi che nuova occasione di svago. Saltava e danzava fino a perdere il respiro, rispettando più o meno il tempo. Ma così non era del compagno. Sand si poneva in prima fila e, con gli occhi spalancati, la bocca socchiusa, tremando di profonda emozione, ascoltava con tutte le sue forze, senza perdere una nota, fino al momento in cui l'ultima svaniva nello spazio. Il suo raccoglimento impressionò il Kaw-djer. — Ti piace dunque la musica, ragazzo? — gli chiese un giorno. — Oh, signore!… — sospirò Sand. E con viso estasiato soggiunse: — Suonare… suonare il violino, come il signor Gross!

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— Davvero!… — disse il Kaw-djer interessato dall'ardore del piccolo. — Ti piacerebbe tanto?… Chissà, forse potremo accontentarti. Sand lo guardò incredulo. — Perchè no? — riprese il Kaw-djer. — Alla prima occasione, non mancherò far venire per te un violino. — Dite il vero, signore?… — esclamò Sand, con gli occhi luccicanti di felicità. — Te lo prometto, ragazzo — affermò il Kaw-djer. — Però bisognerà pazientare! Senza avere la stessa passione musicale del piccolo mozzo, anche gli altri emigranti sembravano interessarsi a quei concerti, che interrompevano la monotonia della loro vita. I successi evidenti di Fritz Gross, diedero un'idea a Ferdinando. Beauval. Due volte per settimana, regolarmente, si prelevò una razione, a profitto del musicista, sulla riserva di liquori alcoolici, e due volte la settimana Liberia ebbe di conseguenza il suo concerto, sull'esempio di molte altre città più civilizzate. Il battesimo della capitale e l'organizzazione dei suoi piaceri bastarono ad esaurire le facoltà organizzatrici di Ferdinando Beauval. Del resto, constatando la soddisfazione generale, si compiaceva ad ammirarsi nell'opera sua. Gli ritornavano alla mente ricordi classici. Panem et circenses chiedevano i Romani. Egli, Beauval, non aveva soddisfatto a tale antica rivendicazione? Il pane era stato fornito dal Ribarto e le messi future avrebbero fatto il resto. I divertimenti erano rappresentati dal violino di Fritz Gross, ammettendo che il far niente continuo, nel seno del quale si svolgeva la vita di quella frazione della colonia, che aveva la fortuna di vivere sotto l'autorità immediata del Governatore, non costituisse un piacere. Trascorsero così il febbraio ed il marzo, senza che l'ottimismo di Beauval venisse turbato. Alcune discussioni, meglio alcune risse, turbarono talora la pace di Liberia. Ma erano incidenti senza importanza, sui quali Beauval giudicava opportuno chiudere gli occhi.

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Gli ultimi giorni di marzo portarono, sfortunatamente, la fine della sua tranquillità. Il primo incidente che la turbò, e che fu come il preludio degli avvenimenti drammatici, i quali non dovevano tardare a svolgersi, non aveva di per sé stesso, importanza alcuna. Si trattava di un semplice alterco; ma, in ragione del suo carattere e delle sue conseguenze, parve a Beauval che non si dovesse risolvere pacificamente, e ritenne necessario uscire dalla sua abile inazione. Male gliene incolse però, poiché l'intervento ebbe un risultato che egli non si aspettava. Halg, difendendosi contro un attacco, ne fu l'eroe. Erano trascorse parecchie settimane dopo la lotta ineguale che egli aveva sostenuto contro Sirk e i quattro emigranti suoi compagni. Molto probabilmente, per tema di un intervento, ancora più energico, del Kaw-djer, da allora gli aggressori si erano astenuti dal pretendere il prodotto della pesca. D'altra parte, l'arrivo del Ribarto aveva messo il buon accordo fra tutti. Che importava qualche pesce più o meno, ora che le provvigioni erano divenute così abbondanti da poterle, a buon diritto, calcolare inesauribili? Sfortunatamente il carico del Ribarto non era formato solo da derrate alimentari. La nave conteneva pure una certa quantità d'alcool e avendo Beauval commesso l'imprudenza di distribuirlo, la bevanda micidiale aveva turbato profondamente i cervelli. In casa dei Ceroni, specialmente, le cose presero una cattiva piega. Le continue scenate provocate dall'ebbrezza di Lazzaro, ebbero la conseguenza di accentuare l'avversione che Sirk e Halg provavano a vicenda. Mentre il secondo si erigeva a difensore di Tullia e di sua figlia, il primo sembrava esaltasse il vizio del marito miserabile e del padre indegno e tale atteggiamento di Sirk riempiva di collera il cuore del giovane Indiano, che non poteva perdonare al rivale le lagrime di Graziella. Anche quando l'alcool fu esaurito, non ritornò la calma. Grazie alla sua intimità con Ferdinando Beauval, Sirk, riprendendo per

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conto suo il metodo Patterson, poté rinnovare la provvigione di Lazzaro Ceroni, del quale sperava cattivarsi così la benevolenza. Il metodo, riuscito già una prima volta, riusciva anche la seconda. Il beone prendeva apertamente la parte di colui che favoriva la sua passione indegna e si dichiarava suo alleato. Egli, anzi, non chiamò più Sirk che col nome di genero, giurando che avrebbe saputo vincere la resistenza di Graziella. La fanciulla evitava di far conoscere ad Halg la pressione contro la quale doveva lottare, ma Halg la indovinava in parte e, cosciente del gioco di Sirk, sentiva il suo odio aumentare di giorno in giorno. Le cose erano a questo punto, quando, nella mattinata del 29 marzo, mentre Halg aveva appena attraversato il piccolo ponte per portarsi sulla riva destra, scorse Graziella che, scapigliata e correndo all'impazzata, sembrava fuggisse qualche pericolo spaventoso. Ella fuggiva veramente, e dinanzi a un pericolo spaventoso, perchè a cinquanta passi da lei, Sirk la inseguiva con rapidità vertiginosa. — Halg!… Halg!… A me!… — chiamò Graziella, appena scorse il giovane Indiano, che, slanciandosi in suo aiuto, sbarrò il passo all'inseguitore. Ma Sirk sdegnava un così meschino avversario. Dopo breve indugio, riprese la corsa con più slancio di prima, gettando un sordo sogghigno e precipitandosi a testa bassa. Egli dovette però ben presto accorgersi della sua presunzione. Se Halg era giovine, doveva però alla sua razza selvaggia destrezza da scimmia e muscoli d'acciaio. Quando il nemico gli fu a portata, le sue braccia si stesero come molle d'acciaio e coi due pugni colpì a un tempo l'avversario nel viso e nel petto. Sirk, tramortito, stramazzò a terra. I due giovani si affrettarono a cercare un rifugio sulla riva sinistra, inseguiti dalle grida di Sirk che, ritrovando faticosamente un po' di fiato, li copriva di spaventose minacce.

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Senza rispondergli, Halg e Graziella si recarono direttamente dal Kaw-djer, al quale la fanciulla rivolse un'ardente preghiera. L'esistenza diveniva impossibile sull'altra riva. Fino ad ora ella aveva tenute nascoste le sue miserie, ma esse eran giunte ormai a tal punto, che non poteva più tacere. In quello stesso mattino Sirk si era spinto fino alla violenza. L'aveva malmenata, battuta, malgrado la difesa della povera madre impotente, mentre Lazzaro Ceroni — cosa spaventosa! — sembrava invece incoraggiarlo. Ella era riuscita a fuggire, ma chissà come sarebbe finita la cosa, se Halg non ne avesse precipitato lo scioglimento. Il Kaw-djer, ascoltato il racconto con la calma abituale, domandò. — Ed ora, cosa intendete fare, figliola? — Restare qui con voi)… — esclamò Graziella. — Concedetemi la vostra protezione, ve ne supplico. — Vi è già concessa — affermò il Kaw-djer. — Quanto a restare qui, è cosa che vi riguarda: ognuno è il padrone di se stesso. Tutt'al più mi permetterò di darvi un consiglio sulla scelta della vostra dimora. Se volete dar retta a me, chiederete ospitalità alla famiglia Rhodes, che ve la accorderà certamente, dietro mia preghiera. Tale savia soluzione non urtò contro nessun ostacolo. La fanciulla fu accolta con gioia dalla famiglia e specialmente da Clary, felice di trovare una compagna della sua età. Tuttavia un pensiero torturava il cuore di Graziella. Che avrebbe fatto sua madre, abbandonata sola in quell'inferno? Il Kaw-djer la tranquillizzò. Egli sarebbe andato immediatamente a sollecitare Tullia perchè raggiungesse la figlia. Diciamo subito che doveva fallire nella sua missione caritatevole. Tullia, pur approvando pienamente la partenza di Graziella e felice di saperla sotto la protezione d'una famiglia onorata, sull'altra riva del fiume, rifiutò ostinatamente di lasciare il marito. Avrebbe adempiuto fino all'ultimo il compito assuntosi d'accompagnare nella vita, dovesse anche soffrirne,

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morirne anche, l'uomo che, nello stesso momento, smaltiva in un canto la prima ubbriacatura della giornata. Portando la risposta, che, del resto, si aspettava, il Kaw-djer trovò in casa dei Rhodes Ferdinando Beau vai, il quale sosteneva con Harry una discussione, che cominciava a divenire aspra. — Che c'è? — chiese il Kaw-djer. — C'è — rispose Harry Rhodes irritato — che il signore si permette di venire a reclamare Graziella, pretendendo di ricondurla al suo caro padre. — In che cosa gli affari della famiglia Ceroni possono interessare il signor Beauval? — domandò il Kaw-djer con voce nella quale si agitava un principio di tempesta. — Tutto ciò che accade nella colonia riguarda il Governatore — spiegò Beauval, ergendosi con l'atteggiamento, col gesto e con l'espressione alla dignità conveniente a tale carica. — E il Governatore?… — Sono io! — Ah, ah!… — esclamò il Kaw-djer. — Mi è stata sporta querela… — cominciò Beauval, senza rilevare la minacciosa ironia dell'interruzione. — Da Sirk! — disse Halg che non ignorava l'intesa dei due. — Niente affatto — rettificò Beauval: — dal padre, dallo stesso Lazzaro Ceroni. — Bah!… — obbiettò il Kaw-djer — Lazzaro Ceroni parla forse dormendo?… Perchè egli dorme. Anzi russa in questo stesso momento. — I vostri motteggi non impediscono che sia stato commesso un delitto nel territorio della colonia — replicò Beauval con tono altero. — Un delitto!… E quale? — Sì, un delitto. Una fanciulla ancora minorenne fu strappata alla sua famiglia. Tale atto è qualificato delitto dalle leggi di qualsivoglia paese.

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— Ma esistono leggi nell'isola Hoste? — chiese il Kaw-djer, i cui occhi alla parola legge ebbero bagliori preoccupanti. — E da chi furono promulgate?

— Da me — rispose Beauval superbamente — da me, che rappresento i coloni e che, a tal titolo, ho diritto all'obbedienza di tutti. — Come avete detto?… — esclamò il Kaw-djer. — Obbedienza mi pare?… Perbacco, eccovi la mia risposta! Sopra l'isola Hoste, terra libera, nessuno deve obbedienza a

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chicchessia. Graziella è venuta qui liberamente e liberamente vi resterà, se tale è la sua volontà… — Ma… — tentò di ribattere Beauval. — Non c'è ma che tenga. Chi si arrischierà a parlare d'obbedienza, mi avrà contro di sé… — È quanto vedremo, — rispose Beauval. — La legge deve essere rispettata, e a costo di ricorrere alla forza… — La forza!… — esclamò il Kaw-djer. — Provatevi dunque! Intanto vi consiglio a non stancare la mia pazienza e a ritornarvene alla vostra capitale, se non desiderate esservi ricondotto troppo in fretta. L'aspetto del Kaw-djer era così poco rassicurante, che Beauval ritenne opportuno non insistere e batté in ritirata, seguito a venti passi dal Kaw-djer, da Harry Rhodes, da Hartlepool e da Karroly. Quando fu al sicuro dall'altra parte del fiume, egli si volse minaccioso. — Ci rivedremo, signori! Per quanto poco temibile fosse la collera di Beauval, bisognava però, in qualche modo tenerne calcolo. L'orgoglio ferito può infondere coraggio anche ai più vili, e non era quindi impossibile che egli, con la complicità dei suoi soliti fidi e dell'oscurità notturna, tentasse qualche colpo di mano. Fortunatamente era facile far fronte a quel pericolo. Beauval, voltandosi di nuovo, cento passi più in là, poté vedere Hartlepool e Karroly intenti a ritirare il tavolato che formava il ponte fra le due rive. La flottiglia giaceva tutta ancorata nella rada del Borgo Nuovo, e così le comunicazioni, completamente tagliate con Liberia, rendevano irrealizzabile qualsiasi sorpresa. Comprendendo il genere di lavoro a cui erano intenti gli avversari, Beauval tese il pugno furiosamente. Il Kaw-djer si accontentò di alzare le spalle e, l'una dopo l'altra, le tavole del ponte continuarono a cadere.

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Dopo un po', non restarono che i pilastri, contro cui sbatteva l'acqua del fiume, la quale separava ormai i due accampamenti avversari. Così, una volta di più, appariva la natura combattiva degli uomini. Accettando nell'intimo la possibilità di ricorrere alla guerra, preludiandovi, come è consacrato dall'uso, con la rottura delle relazioni diplomatiche, gli abitanti dei due villaggi, sperduti ai confini del mondo abitabile, dimostravano che i cittadini dei grandi imperi non sono soli a meritare il nome di uomini.

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III.

IL SECONDO INVERNO.

Quando il mese d'aprile ricondusse seco l'inverno, nessun fatto nuovo, di qualche importanza, era venuto ad agitare la vita dura e monotona degli abitanti di Liberia. Finché la temperatura fu buona, essi vissero passivamente, senza preoccupazioni per l'avvenire, e i turbamenti atmosferici che accompagnavano sempre l'equinozio li sorpresero in pieno sogno. Ai primi soffi delle burrasche invernali, Liberia parve spopolarsi. Al pari dell'anno precedente, ognuno si rintanò entro le case chiuse. Anche al Borgo Nuovo l'esistenza non era molto più attiva, i lavori all'aperto, e specialmente la pesca, non potendosi più praticare. Fino dai primi freddi, i pesci erano fuggiti verso il Nord, nelle acque meno fredde dello stretto di Magellano. I pescatori affidavano all'ancora le barche ormai inutili. E che ne avrebbero fatto, d'altronde, in mezzo alle acque agitate dal vento? Dopo la tempesta venne la neve. Poi, un raggio di sole produsse lo sgelo e trasformò il terreno in palude. Poi, da capo, la neve. In ogni caso, anche se il ponte fosse esistito ancora, le comunicazioni fra la capitale e il suo sobborgo sarebbero state disagiate, ostacolando in tal modo a Beauval l'esecuzione delle minacce pronunziate. Ma egli se ne ricordava ancora? Da quando lo avevano così apertamente espulso dalla riva sinistra, quelle minacce erano rimaste lettera morta, ed ora lo opprimevano pensieri molto gravi e urgenti, in confronto ai quali l'ingiuria sofferta perdeva sensibilmente d'importanza.

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La popolazione di Liberia, ridotta in numero esiguo, dopo la proclamazione d'indipendenza, tendeva ad aumentare. Emigranti partiti per l'interno dell'isola i quali, per un motivo o per l'altro, non erano riusciti nei loro tentativi di colonizzazione, rifluivano alla costa con l'avvicinarsi della cattiva stazione e portavano seco germi di miseria e turbamenti non certo preveduti da Beauval. Non che egli ne fosse minacciato personalmente. Come aveva immaginato, si accettava senza difficoltà il fatto compiuto. Nessuno manifestava la minima sorpresa di trovarlo promosso alla dignità di Governatore. Quei poveretti avevano l'abitudine innata di essere gl'inferiori fra tutti, e nulla sembrava loro più normale che un altro uomo si attribuisse il diritto di governarli. Vi sono necessità ineluttabili, contro le quali è inutile insorgere. Che essi fossero i piccoli, e che esistessero i grandi, che venisse loro comandato e che essi obbedissero, era nell'ordine naturale delle cose. Però, la potenza del padrone non andava disgiunta da obblighi corrispondenti. A colui che si innalzava sopra a tutti, incombeva l'obbligo di assicurare la vita di tutti. Da essi la docilità umile, purché si garantisse loro il pasto. A lui il fulgore del potere, a patto però che prendesse tutte le iniziative, che assumesse tutte le responsabilità, delle quali la folla, malleabile finche è contenta, avrebbe saputo far sentire il peso, nel giorno in cui allo stomaco sarebbe mancato il cibo. Ora, l'aumento inatteso di bocche da nutrire tendeva ad avvicinare tale scadenza. Il 15 aprile si vide il primo emigrante ritornare, riconoscendosi vinto in quella lotta contro la natura. Apparve sul finire del giorno, trascinandosi seco la moglie e i quattro figlioli. Carovana triste! La donna magra, sparuta, coperta da una gonna a brandelli; i figli, due femmine e due maschi, l'ultimo dei quali di cinque anni appena, quasi nudo, si aggrappava alle vesti della madre. Dinanzi a tutti il padre che camminava solo, con là testa bassa, scoraggiato. Li circondarono. Li oppressero di domande.

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L'uomo, rincorato nel ritrovarsi in mezzo ad altri uomini, raccontò brevemente la sua storia. Partito fra gli ultimi, aveva dovuto camminare a lungo, prima di scoprire un po' di terra senza padrone. Vi era riuscito solamente nella seconda quindicina di dicembre, e si era messo subito all'opera. Prima di tutto aveva fabbricata la dimora. Ma, attrezzato malissimo, abbandonato alle sole sue forze, aveva durato fatica a finirla, tanto più che la sua ignoranza in fatto di costruzioni gli aveva fatto commettere non pochi errori, che si tradussero in grande perdita di tempo. Dopo sei settimane di sforzi ininterrotti, finita la rozza capanna, si disponeva ad iniziare il dissodamento della terra. Ma sfortunatamente la sua cattiva stella lo aveva condotto in una località in cui il terreno pesante era solcato da una rete inestricabile di radici, fra le quali la vanga e la zappa si aprivano a stento il passaggio. Malgrado la fatica assidua, la superficie preparata per la semina risultava insignificante, quando cominciarono i primi freddi. Ogni coltura dovette essere sospesa, nel momento in cui non poteva ancora sperare il minimo raccolto, e, d'altra parte, poiché incominciavano a mancargli i viveri, aveva dovuto rassegnarsi ad abbandonare sul posto i pochi attrezzi e le inutili sementi e a rifare in senso inverso la lunga strada, percorsa quattro mesi prima a cuore allegro. Per dieci giorni continui egli si era trascinato a traverso l'isola, rifugiandosi sotto la neve durante la tormenta, camminando nel fango fino alle ginocchia quando la temperatura diveniva più dolce, per giungere finalmente alla costa stremato, spossato, affamato. Beauval si adoperò per sollevare quei poveretti. Dietro suo ordine fu data loro una delle case smontabili ed anche una certa quantità di viveri, sui quali si gettarono con avidità. Ciò fatto egli ritenne risolto il caso in maniera soddisfacente. I giorni seguenti lo disillusero. Non ne passava uno, senza che qualche emigrante, partito a primavera, non ritornasse alla costa, alcuni soli, altri riconducendo seco mogli e figlioli, ma tutti ugualmente cenciosi, tutti ugualmente affamati.

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Talune famiglie risultavano meno numerose di quand'erano partite. E i mancanti? Morti, senza dubbio. E, senza dubbio, pure, la processione dolorosa dei superstiti continuava a svolgersi attraverso l'isola e tutti convergevano verso lo stesso punto: Liberia, ove il loro flusso ininterrotto non avrebbe tardato a impostare il problema più spaventoso. Verso il 15 giugno, più di trecento coloni erano venuti ad ingrossare la popolazione della capitale. Fino allora, Beauval aveva potuto fronteggiare la situazione. Grazie a lui si eran potuti collocare tutti nelle case smontabili ove si ammucchiavano come in passato. Ma siccome alcune erano state trasportate sulla riva sinistra, dove formavano il Borgo Nuovo, alcune altre erano state imprevidentemente distrutte, altre ancora erano state riunite per formare un'unica abitazione più vasta, che Beauval chiamava pomposamente il suo «Palazzo», il posto cominciò a mancare e si dovette ricorrere alle tende. Ma la questione dei viveri dominava tutte le altre. Tale moltitudine di creature affamate consumava rapidamente le provvigioni portate dal Ribarto. Perciò, mentre prima si pensava di avere la vita assicurata per più di un anno, ora si poteva giustamente temere, vista la piega che prendevano le cose, di non arrivare alla primavera. Beauval ebbe la saggezza di capire e, facendo finalmente atto d'autorità, emanò un decreto, col quale razionava severamente la popolazione crescente. Fu esautorato. Non si tenne alcun conto d'un decreto privo di sanzione. Per farlo rispettare, egli dovette reclutare fra i più caldi suoi partigiani una ventina di volontari, che montarono la guardia alle provvigioni, come prima aveva fatto l'equipaggio del Jonathan. La misura suscitò un certo fermento, ma si finì per obbedire. Beauval credeva adunque di aver superato le difficoltà della situazione, o, almeno, di avere allontanato i giorni cattivi, tanto quanto era umanamente possibile, allorché nuove catastrofi si riversarono su Liberia.

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Tutti quei vinti, i quali rifluivano alla costa, vi rifluivano moralmente depressi e indeboliti fisicamente tanto per il clima, quanto per le fatiche e le privazioni della strada. Quello che doveva accadere accadde. Scoppiò una violenta epidemia. La malattia e la morte fecero strage tra la popolazione debilitata. Nel colmo della sventura il pensiero di quei poveretti ritornò verso il Kaw-djer. Fino alla metà del mese di giugno, essi non avevano neppure osservato la sua assenza. Si dimenticano facilmente i benefici passati, quando si crede di non averne più bisogno per l'avvenire. Ma la miseria riportò il loro pensiero a colui che tante volte li aveva soccorsi. Perchè abbandonarli nel momento in cui tanti mali li opprimevano? Qualunque fosse stato il motivo della scissione, sopraggiunta fra l'accampamento principale e l'annesso, esso diveniva bene insignificante in confronto alle loro sofferenze. E a poco a poco, e ogni giorno più numerosi, gli sguardi si volsero verso il Borgo Nuovo, i cui tetti sporgevano dalla neve sulla riva opposta. Un giorno — il 10 luglio — il Kaw-djer, trattenuto in casa dalla nebbia troppo fitta, stava intento a raccomodare una delle sue casacche di pelle di guanaco, quando gli parve di udire una voce che lo chiamasse, da lontano. Tese l'orecchio. Un momento dopo un nuovo grido giunse fino a lui. Allora si fece sull'uscio. Sgelava, in quel giorno. Sotto l'influenza della brezza umida dell'Ovest, la neve si scioglieva. Davanti a lui c'era un lago di fango, sopra il quale si trascinavano brume leggiere, dominate da nubi, che riversavano sul terreno, già pregno di acqua, torrenti di pioggia. Lo sguardo, impotente ad attraversare la nebbia, non distingueva più nulla a cento metri di distanza. Più in là, tutto spariva nel mistero. Non si distingueva neppure il mare, che sferzava la riva con ondate pigre e come illanguidito dalla tristezza generale delle cose. — Kaw-djer — chiamò la voce attraverso la bruma. Soffocata quasi dalla distanza, la voce, venuta dalla parte del fiume, giungeva fino al Kaw-djer come un lamento.

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Egli avanzò e raggiunse presto la sponda. Spettacolo pietoso! Sulla riva opposta, separati da lui dall'acqua gorgogliante, che la distruzione del ponte rendeva insuperabile, si trascinavano un centinaio di uomini. Uomini? Spettri piuttosto! Poveri esseri sparuti, censiosi!… Quando scorsero colui che incarnava le loro speranze, si rizzarono tutti insieme e con uno stesso movimento tesero verso lui le mani supplichevoli. — Kaw-djer!… — chiamarono all'unisono. — Kaw-djer!… Ed egli sentì fremere tutto il suo essere. Quale catastrofe era dunque avvenuta a Liberia, perchè i suoi abitanti si fossero ridotti a così spaventosa miseria? Il Kaw-djer li rincorò con un gesto, poi chiamò i compagni. In meno di un'ora Halg, Hartlepool e Karroly ristabilirono il ponticello sul fiume, ed egli passò sulla riva destra. Si trovò subito accerchiato da volti ansiosi, capaci di commuovere il cuore più duro. Quale febbre bruciava i poveri occhi incassati!… Ma una specie di speranza li illuminava ora: il benefattore, il salvatore stava in mezzo a loro. E i meschini lo circondavano, stringendosi contro di lui, toccando le sue vesti, mentre nelle gole contratte gorgogliava come un riso di fiducia e di gioia. Commosso, il Kaw-djer guardava, ascoltava in silenzio. Alcuni, venuti a supplicare per sé stessi, narravano il male che li opprimeva; altri imploravano perchè salvasse esseri cari, donne o bambini agonizzanti a Liberia in quello stesso momento. Il Kaw-djer ascoltò tutti pazientemente, conoscendo come la bontà accondiscendente sia il miglior rimedio, poi rispose collettivamente. Sarebbe andato a vedere tutti senza dimenticare nessuno, ma ognuno doveva intanto ritornare alla sua casa. Fu obbedito in fretta. Docili come bimbi, tutti ripresero la strada dell'accampamento. Il Kaw-djer, riconfortandoli, sostenendoli col gesto e con la voce, trovando per ognuno la parola del caso, li accompagnò,

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inoltrandosi con loro fra le dimore disperse. Tutto tradiva il disordine e l'incuria. Era bastato un anno, per mutare in case vetuste le fragili costruzioni che già cadevano in rovina. Alcune sembravano disabitate e la maggior parte erano ermeticamente chiuse e nulla, tranne i mucchi di immondizie che le circondavano, indicava che fossero popolate. Tuttavia sulla soglia di alcune porte appariva qualche raro colono, che con la tetra espressione del viso manifestava la noia e lo scoraggiamento che lo accasciavano. Il Kaw-djer passò davanti al «Palazzo del Governatore», dove Beauval, per seguirlo con gli occhi, schiuse una finestra. Costui, del resto, non diede altro segno di vita, e qualunque fosse l'astio che sentiva, non ritenne opportuno soddisfarlo in quel momento. Nessuno avrebbe tollerato atti di ostilità contro l'uomo dal quale aspettavano la salvezza. Anzi Beauval, nel suo intimo, era quasi soddisfatto dell'intervento del Kaw-djer. Egli stesso se ne aspettava un po' di aiuto. Governare è piacevole e facile quando si susseguono i giorni fortunati. Ma ora le cose andavano diversamente e il capo di un popolo di moribondi non poteva vedere di malocchio che un altro lo aiutasse benevolmente a sostenere il peso di un'autorità divenuta pesantissima, ma che si riservava in pectore di riconquistare nella sua integrità, quando il destino fosse ritornato favorevole. Nulla dunque si oppose a che il Kaw-djer potesse compiere la sua opera caritatevole, né incontrò ostacoli alla sua dedizione. Quale vita egli condusse a partire da quel giorno! Ogni mattino, alla prima luce dell'alba e con qualsiasi tempo, egli passava il fiume e si recava a Liberia. Là, fino alla sera, andava di casa in casa, curvandosi sulle misere cuccette, respirando aliti febbricitanti, distribuendo, senza mai stancarsi, cure, medicine e parole di speranza e di conforto. La morte poteva bene accanirsi a colpire, ma la clientela dei poverelli non diminuiva mai. Nuovi emigranti, provenienti dall'interno, riempivano senza posa i vuoti e gli ultimi venuti erano i più esauriti per aver sofferto più a lungo.

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Per quanto grandi fossero la sua scienza e la dedizione, il Kaw-djer non poteva dominare la fatalità delle cose. Inutilmente lottava a palmo a palmo contro l'avidità della tomba; i decessi si moltiplicavano entro Liberia decimata. Egli viveva in mezzo al dolore. Mogli e mariti disgiunti per sempre, madri che piangevano i figli morti, intorno a lui non erano che lagrime e lamenti. Ma nulla stancava il suo coraggio, e quando il medico doveva dichiararsi vinto, cominciava la sua opera confortatrice. Talvolta anche, ed era cosa forse ancora più triste, nessuno aveva bisogno del suo conforto, e il morto, solitario perfino nel trapasso, non lasciava dietro di sé nessuno che lo piangesse. E ciò non era neppure raro fra quella riunione di emigranti, esistenze disperse dalle tempeste della vita. Un mattino, giungendo all'accampamento, fu chiamato presso una massa informe, dalla quale sfuggiva un rantolo. Era un uomo infatti quella massa deformata dall'enormità, un uomo che il destino aveva elencato col nome di Fritz Gross nella lista infinita dei passanti della terra. Un quarto d'ora prima, nel momento in cui, svegliandosi, si esponeva al freddo esterno, una sincope lo aveva fulminato. C'eran volute dieci persone per trascinarlo nel cantuccio dove agonizzava. Dal viso violaceo, dal respiro breve e rauco del malato, il Kaw-djer diagnosticò una congestione polmonare e un breve esame lo convinse che qualsiasi cura non avrebbe salvato quell'organismo, ormai finito dall'alcool. Il pronostico si avverò. Al ritorno del Kaw-djer, Fritz Gross era morto. Il suo grosso corpo, già freddo, giaceva al suolo nell'immobilità eterna, con gli occhi chiusi per sempre sulle cose terrene. Ma un fatto attirò l'attenzione del Kaw-djer. Un momento di lucidità aveva attraversato senza dubbio l'agonia del poveretto, rendendogli per la durata di un lampo la coscienza del genio che doveva morire con lui e, fors'anche, del cattivo uso che ne aveva fatto. Prima di morire, aveva voluto dare l'ultimo addio alla sola cosa che avesse amato sopra la terra. A tastoni aveva

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preso il violino, per stringerlo nel momento del distacco supremo e ora l'istrumento meraviglioso giaceva sul cuore, abbandonato dalla mano morente che lo aveva deposto.

Il Kaw-djer prese il violino, dal quale si erano sprigionate tante melodie divine e che ormai non apparteneva più a nessuno, poi, di ritorno al Borgo-Nuovo, si diresse verso la casa occupata da Hartlepool e dai due mozzi — Sand — chiamò aprendo la porta. Il fanciullo accorse.

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— Ti avevo promesso un violino, ragazzo — disse il Kaw-djer. — Eccolo....,. Sand, pallidissimo per la sorpresa e per la gioia, prese 1'istrumento con mano tremante. — Ed è un violino che sa la musica! — aggiunse il Kaw-djer, — perchè è quello di Fritz Gross. — Allora… — balbettò Sand — il signor Gross… vorrà… — È morto — spiegò il Kaw-djer. — Un ubbriaco dì meno! — dichiarò freddamente Hartlepcol. Tale fu l'orazione funebre di Fritz Gross. Alcuni giorni dopo, un altro decesso, quello di Lazzaro Ceroni, colpì più direttamente il Kaw-djer. La scomparsa del padre di Graziella non poteva, infatti, che favorire il compiersi dei sogni di Halg. Tullia si era rivolta a lui troppo tardi, perchè egli potesse intervenire con qualche probabilità di riuscita. Nella sua ignoranza ella aveva lasciato che la malattia si sviluppasse liberamente, senza concepire inquietudini più vive delle solite. Ora, il sapere irremissibilmente perduto quell'uomo al quale si era tutta sacrificata, fu per lei come un colpo di fulmine. D'altronde, anche se l'intervento del Kaw-djer non fosse stato tardivo, sarebbe rimasto ugualmente inefficace. Il male di Lazzaro apparteneva al numero di quelli che non perdonano. Conseguenza necessaria della troppo lunga intemperanza, la tisi galoppante lo aveva divorato in otto giorni. Quando il morto fu reso alla terra, il Kaw-djer non abbandonò la disgraziata Tullia, che sembrava ella stessa sull'orlo della tomba. Era vissuta anni ed anni in mezzo ai dolori non altro che per amare, amare malgrado tutto, colui che ora l'abbandonava a metà strada del suo calvario. Spezzata l'energia che l'aveva sostenuta fino allora, ella si accasciava adesso, affranta da quello sforzo inutile. Il Kaw-djer trascinò la povera donna al Borgo-Nuovo, vicino a Graziella. Se esisteva un rimedio capace di guarire il suo cuore spezzato, l'amore materno avrebbe compiuto il miracolo. Inerte, semi incosciente, Tullia si lasciò condurre, e insieme ai suoi poveri averi lasciò docilmente la casa.

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Nello stato di profondo annientamento in cui giaceva, come avrebbe potuto riconoscere Sirk, che incontrò mentre stava per varcare il piccolo ponte congiungente le due rive? Anche il Kaw-djer non lo scorse, ed ambedue, ignorando l'incontro, passarono in silenzio. Ma Sirk li aveva veduti e si era fermato di botto, col viso impallidito da ira subitanea. Lazzaro Cecconi morto, Graziella rifugiata al Borgo-Nuovo, Tullia che andava pure a stabilirsi là, tutte queste cose rappresentavano la rovina di un progetto, così lungamente vagheggiato. Egli seguì con gli occhi, lungamente, l'uomo e la donna che si allontanavano a fianco l'uno dell'altro. Se il Kaw-djer si fosse voltato, avrebbe sorpreso quello sguardo, e forse, nonostante il suo coraggio, avrebbe conosciuto allora la paura.

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IV.

SANGUE!

La sfilata di coloro che giungevano a Liberia per trovarvi rifugio, durò interminabilmente. Ne arrivarono in ogni giorno della lunga invernata. L'isola Hoste sembrava essere un serbatoio inestinguibile e, veramente, si sarebbe detto che ella rendesse una quantità di miserevoli, maggiore di quella che aveva ricevuto. Ai primi di luglio, il flusso raggiunse il culmine, poi decrebbe di giorno in giorno, fino a cessare definitivamente il 29 settembre. In quel giorno, si vide ancora un emigrante discendere dall'altura e trascinarsi penosamente fino all'accampamento. Mezzo nudo, di magrezza scheletrica, appariva in uno stato pietosissimo. Come giunse alla prima casa, egli si accasciò a terra. Ma simili fatti erano ormai troppo quotidiani, perchè producessero emozioni straordinarie. Fu raccolto, riconfortato, poi nessuno si occupò più di lui. La sorgente, a partire da quel momento, si esaurì. Che se ne doveva dedurre? Che coloro dei quali mancavano notizie avessero avuto miglior fortuna, oppure fossero morti? In quell'epoca, già più di settecento coloni erano ritornati alla costa, ridotti, per la maggior parte, all'ultimo stadio della degradazione fisica e dell'accasciamento morale. Gli organismi indeboliti offrivano il terreno più propizio alle malattie e il Kaw-djer si accaniva a lottare contro di esse. Mano mano che l'inverno inoltrava, si moltiplicavano i decessi: una vera ecatombe! Uomini, donne, fanciulli, giovani e vecchi, la morte colpiva tutti indistintamente.

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Ma essa aveva un bel sopprimere tante bocche voraci, troppe ne restavano ancora perchè le provviste del Ribarto fossero sufficenti. Quando Beauval si era deciso, già troppo tardi, a razionare i suoi amministrati, non poteva prevedere che il numero di essi sarebbe aumentato in tale proporzione e, quando egli capì l'errore e volle rimediarvi, non poté più farlo. Il male, era compiuto. Il 20 settembre, il magazzino distribuì gli ultimi biscotti e la folla spaventata vide dinanzi a sé lo spettro spaventoso della fame. Della fame, che strazia i visceri, che rode, che contorce, che avvinghia, che uccide con lentezza atrocissima! La prima vittima fu Blacker. Morì il terzo giorno fra sofferenze atroci, nonostante le cure del Kaw-djer che avvisarono troppo tardi. Ed egli, in quel momento, non poté neppure incolparne Patterson, vittima lui stesso della carestia, e che subiva la sorte generale. Di cosa vissero nei giorni seguenti i coloni? Chi potrebbe dirlo? Coloro che avevano avuto la prudenza di formarsi una piccola riserva di viveri, l'adoperarono. E gli altri?… Il Kaw-djer non seppe dove battere il capo durante quel periodo sinistro. Non soltanto dovette accorrere al capezzale degli ammalati, ma venire in soccorso degli affamati. Lo supplicavano, si aggrappavano alle sue vesti, le madri tendevano verso lui i loro figli. Nessuno lo implorava inutilmente. Egli distribuiva le provvigioni accumulate sulla riva sinistra, dimenticando sé stesso, non volendo neppure pensare che il pericolo del quale prolungava la scadenza per gli altri, Io avrebbe fatalmente minacciato a sua volta. La cosa però non poteva tardare. Il pesce salato, la selvaggina affumicata, i legumi disseccati, tutto diminuiva rapidamente. Se la situazione, si fosse prolungata un mese ancora, anche gli abitanti del Borgo-Nuovo, al pari di quelli di Liberia, sarebbero stati affamati. Il pericolo diveniva così evidente, che i compagni del Kaw-djer cominciavano ad opporgli qualche resistenza. Si rifiutarono di cedere i viveri e bisognò che egli

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discutesse a lungo prima di ottenerli, sempre più difficilmente giorno per giorno. Harry Rhodes tentò di dimostrare all'amico l'inutilità dei suoi sforzi. Che sperava dunque? Era evidentemente impossibile che la scarsa quantità di viveri esistenti sulla riva sinistra bastasse a salvare tutta la popolazione dell'isola. Come ci si sarebbe comportati, una volta esaurite le ultime riserve? E a quale scopo ritardare, a danno di coloro che avevano dato prova di coraggio e di previdenza, una catastrofe, prossima ed inevitabile, in ogni modo? Harry Rhodes non ottenne nulla. Il Kaw-djer non tentò neppure di rispondere. Dinanzi a tale sciagura, gli argomenti non valevano, ed egli anzi si proibiva qualsiasi riflessione. Lasciare morire col massimo sangue freddo tutta una moltitudine, non era possibile! Diveniva, invece, imperiosamente necessario dividere con essa tutto, fino all'ultima briciola, qualunque ne fosse stato il risultato… Dopo?….. L'avvenire era nelle mani del Destino. Quando non avessero saputo, più niente, si poteva partire, andare più lontano, per cercare un altro luogo ove stabilirsi, ove vivere come al Borgo-Nuovo di caccia e di pesca, abbandonando l'accampamento, che pochi giorni sarebbero bastati a trasformare in un cimitero spaventoso. Ma almeno si sarebbe prima fatto quanto stava in potere degli uomini, e non si avrebbe avuto il coraggio mostruoso di condannare deliberatamente alla morte un numero così grande di altri uomini. Su proposta di Harry Rhodes, venne esaminata la opportunità di distribuire agli emigranti i quarantotto fucili nascosti da Hartlepool. Con le armi da fuoco sarebbero forse riusciti a vivere di caccia. La proposta venne respinta. In quella stagione la selvaggina era rarissima, e, d'altra parte, nelle mani di contadini inesperti i fucili divenivano aiuto inadeguato ad assicurare l'alimentazione d'una popolazione così numerosa. In ricambio, potevano sorgere gravi pericoli. Da alcuni segni

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precursori, gesti brutali, sguardi feroci, alterchi frequenti, si deduceva facilmente che la violenza fermentava in fondo all'anima della folla. I coloni non cercavano più di dissimulare l'odio che provavano gli uni per gli altri. Si accusavano a vicenda della propria disgrazia ed ognuno attribuiva al vicino la responsabilità dello stato di cose attuale. Soprattutto si malediva Ferdinando Beauval, che si era imprudentemente assunto la missione pericolosa di governare i suoi simili. Benché la sua lampante incapacità giustificasse ampiamente il rancore degli emigranti, essi lo sopportavano ancora. Abbandonata a sé stessa, la folla, turbine confuso di volontà che si neutralizzano, è incapace d'agire. La inerzia rende infinita la sua pazienza e per quanto siano grandi i dolori, essa esita a portar la mano su chi la governa, come invasa da terrore religioso dinanzi a quel prestigio che, tuttavia, essa sola ha creato. Così accadde una volta di più anche fra i coloni dell'isola Hoste i quali avrebbero continuato a manifestare la loro ira con conciliaboli privati e minacce platoniche fatte in sordina, se uno fra loro non li avesse spinti ad esprimerla coi fatti. Desta stupore che in tale terribile situazione il fantasma del potere detenuto da Ferdinando Beauval avesse potuto eccitare sensi di invidia. Povero potere, consistente nell'essere il padrone nominale di una turba di affamati! Eppure accadde così. Dinanzi a tale travolgente realtà, Lewis Dorick non giudicò trascurabile quell'apparenza di autorità e forse, dopo tutto, non aveva torto. Il buon senso popolare non impiega forse, per designare il potere politico, l'espressione volgare, ma espressiva e pittoresca, di essere nella bambagia? Anche nelle collettività più diseredate, il primo posto assicura infatti al possessore vantaggi relativi. Beauval ne sapeva qualche cosa, egli che ancora non aveva provato le sofferenze dei suoi compagni di sventura.

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E Dorick intendeva assicurare tali vantaggi a sé stesso e ai suoi amici. Egli aveva sopportato fino allora, mordendo il freno, la grandezza del suo rivale. Giudicando l'occasione favorevole, intraprese una campagna, alla quale la pubblica sventura prestava solide basi. Gli argomenti per una critica equa erano numerosissimi. Non c'era che l'imbarazzo della scelta. Forse, richiesto su ciò che avrebbe fatto al posto dell'avversario, si sarebbe confuso a rispondere. Ma siccome nessuno gli rivolgeva la domanda indiscreta, egli non aveva da preoccuparsi della risposta. A Beauval non sfuggiva il lavorìo del concorrente. Sovente, dalla finestra della dimora decorata da lui col nome pomposo di «Palazzo del Governatore», guardava pensieroso passare la folla, più numerosa di giorno in giorno con l'avvicinarsi della primavera, che mitigava la temperatura. Dagli sguardi lanciati verso lui, dai pugni tesi talvolta nella sua direzione, capiva che la campagna di Dorick portava i suoi frutti e, poco disposto a discendere dal suo trono, elaborava piani di difesa. Certo non poteva negare lo stato di sfacelo della colonia, ma ne accusava le circostanze e specialmente il clima. La imperturbabile fiducia in se stesso non ne era minimamente scossa. Egli non aveva fatto nulla, perchè, diamine, non c'era nulla da fare, e un altro non avrebbe fatto certo di più. Non soltanto per orgoglio Beauval si aggrappava alla sua posizione. Malgrado tutto, nelle condizioni attuali, egli aveva perduto molte illusioni sul lustro inerente alla sua carica. Ma con inquietudine e compiacenza insieme, pensava all'abbondante riserva di viveri che aveva potuto porre da canto. Avrebbe potuto farlo se non fosse stato il capo? Potrebbe farlo ancora, se domani non lo fosse più? Per difendere dunque la sua vita e la sua carica insieme, si gettò con ardore nella lotta. Con grande abilità, non contestò alcuna delle miserie enumerate da Dorick. Su tale terreno sarebbe stato vinto a priori. Invece le accentuò e, fra tutti i malcontenti, egli fu il più impetuoso.

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I due avversari, però, non erano d'accordo circa i rimedi che conveniva applicare. Mentre Dorick propendeva per un mutamento di Governo, Beauval consigliava la compattezza, e faceva risalire ad altri la responsabilità delle disgrazie che opprimevano la colonia. Gli autori responsabili di tali sventure chi erano? Secondo lui, non altri che il piccolo numero di emigranti, che non avevano avuto bisogno di rifugiarsi alla costa durante l'inverno. Il ragionamento di Beauval era semplice. Non essendo ritornati, si doveva credere che fossero riusciti. Possedevano quindi scorte di viveri, confiscabili a buon diritto per il vantaggio comune. Tali eccitazioni, trovando terreno propizio in gente ridotta alla disperazione, produssero subito il loro effetto. Batterono prima la campagna circostanti Liberia; poi, in vista di spedizioni più lontane si formarono alcune brigale, le quali aumentarono rapidamente di numero e, finalmente, il 15 ottobre, una vera armata di più di duecento uomini, sotto il comando dei fratelli Moore, mosse alla conquista del pane. Durante cinque giorni essi percorsero l'isola in tutti i sensi. Cosa facevano? Lo si indovinava dalle vittime, le quali affluivano come impazzite per la catastrofe improvvisa che distruggeva tutti i loro sforzi. Accorrevano l'uno dopo l'altro dal Governatore e chiedevano giustizia. Ma questi li respingeva duramente, rimproverandoli per il loro egoismo vergognoso. Come! Avrebbero potuto ingozzarsi, mentre i fratelli morivano di fame? I disgraziati si ritiravano atterriti e Beauval trionfava. Le loro lagnanze dimostravano che la pista additata da lui era buona. Non si era ingannato, no! Come aveva predetto, quei coloni non erano ritornati durante l'inverno, perchè vivevano lontani nell'abbondanza. Ora, ad ogni modo, la sorte di costoro diveniva simile a quella degli altri. Reso inutile il loro paziente lavoro, si trovavano poveri e sprovveduti come coloro che li avevano tratti in rovina. Non soltanto si era fatto man bassa in casa loro di quanto vi era di commestibile, ma gl'invasori si erano altresì

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abbandonati a tutti quegli eccessi, di cui le turbe hanno volentieri l'abitudine. I campi già in semina erano stati calpestati, distrutti e saccheggiati i pollai. Tuttavia il bottino appariva assai magro, onde se ne poteva dedurre che anche la riuscita di coloro che ora venivano taglieggiati, era stata insomma piuttosto relativa. Essere riusciti voleva soltanto dire che quei coloni, più coraggiosi, più abili o meno sfortunati dei loro compagni, si erano assicurata, a prezzo di fatiche, la loro sussistenza, ma non che fossero divenuti miracolosamente ricchi. Ben poco si era quindi scoperto nelle misere fattorie e per conseguenza la disillusione dei saccheggiatori si era manifestata talora brutale e vandalica. Più di un colono fu messo alla tortura perchè svelasse il nascondiglio nel quale lo si accusava di detenere viveri immaginari. Le stesse cause producevano gli stessi effetti, e l'isola Hoste, come la Francia, ebbe la sua Jacquerie. Il quinto giorno dopo la sua entrata in campagna, la banda dei predatori fu arrestata dalle palizzate che limitavano i recinti della famiglia Rivière e delle altre tre famiglie confinanti. Sin da quando ci si era messi in cammino, non si era cessato dal pensare a quelle fattorie che erano le più antiche della colonia, e per conseguenza certo le più prospere, e ci si erano ripromesse mirabilia dal loro saccheggio. Ma bisognò tarpare le ali alle immaginazioni galoppanti. Le quattro fattorie, prossime le une alle altre e fabbricate sul perimetro di un vasto quadrilatero, costituivano, nell'insieme, una specie di cittadella inespugnabile, perchè, soli fra tutti i coloni dell'isola, i rispettivi difensori erano armati. Gli assalitori furono ricevuti a fucilate e; alla prima scarica, caddero sette uomini tra morti e feriti. Gli altri non chiesero di più e fuggirono tumultuosamente. La scaramuccia calmò di botto l'ardire dei saccheggiatori, che ripresero subito la strada di Liberia, dove entrarono sul calare della notte, preceduti dal tumultuare delle loro imprecazioni. La folla si riversò ad incontrarli e a bella prima le loro grida

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furono interpretate come canti di vittoria Ma presto, col diminuire della distanza, le parole si precisarono e i rimasti si interrogarono smarriti con lo sguardo.

— Tradimento … Tradimento!… — sì gridava. Tradimento!… Coloro che non avevano lasciato Liberia furono assaliti dal panico e Beauval tremò più degli altri e, presentendo una disgrazia della quale lo si sarebbe reso

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responsabile, e pur senza poter precisare il pericolo che lo minacciava, corse a rinchiudersi nel «Palazzo». Aveva finito appena di barricarsi, che il rumoroso corteo si fermava dinanzi alla porta. Cosa si voleva dunque da lui? Che significavano quei feriti, quei cadaveri che venivano deposti sul terrapieno costruito davanti alla sua dimora? Perchè la folla tumultuava? Mentre Beauval si sforzava invano di penetrare il mistero, al Borgo-Nuovo si svolgeva un altro dramma che ne desolava gli abitanti e colpiva il Kaw-djer in pieno cuore. Egli conosceva le agitazioni intestine di Liberia. Girando per l'accampamento sapeva necessariamente quanto vi avveniva. Ignorava però l'esistenza della banda di depredatori e se la diminuzione del numero degli emigranti durante pochi giorni aveva attirata la sua attenzione egli, benché stupito, non se ne era chiesto la causa. Tuttavia, agitato da cupa inquietudine, era uscito quella sera, dopo il tramonto del sole, insieme ai soliti compagni, Harry Rhodes, Hartlepool, Halg e Karroly, e si era inoltrato fino sulla riva del fiume. Se fosse stato giorno, essendo la riva sinistra più elevata della destra, avrebbe potuto scorgere Liberia. Ma a quell'ora l'accampamento spariva nella tenebra. Un rumore lontano e un chiarore vago ne indicava soltanto la posizione. I cinque uomini, seduti sulla sponda, con Zol, il cane, ai loro piedi, contemplavano la notte in silenzio, quando giunse una voce dall'altra parte del fiume. — Kaw-djer!… — chiamava un uomo, ansante come dopo una lunga corsa. — Presente!… — rispose il Kaw-djer. Un'ombra attraversò il ponte e si avvicinò al crocchio. Era Sirdey, l'antico cuoco del Jonathan. — Si ha bisogno di voi laggiù — disse rivolgendosi al Kaw-djer. — Che c'è? — domandò questi alzandosi. — Morti e feriti.

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— Morti!… Feriti!… Ma cosa è accaduto? — Sono andati ad assalire i Rivière… Pare che essi avessero alcuni fucili… Ed ecco! — Disgraziati!… — Bilancio: tre morti e quattro feriti. I morti non chiedono più nulla, ma i feriti forse… — Vengo — interruppe il Kaw-djer, che si avviò subito, intanto che Halg correva a prendere la borsa degli istrumenti chirurgici. Per strada, il Kaw-djer chiese spiegazioni, ma Sirdey non poteva informarlo. Egli non aveva accompagnato gli assalitori e non conosceva quindi gli eventi che per quanto se ne diceva. Del resto non era stato mandato da nessuno, ma alla vista dei sette corpi esanimi gli era parso suo dovere correre a prevenirne il Kaw-djer. — Avete fatto molto bene — disse questi approvando. Insieme a Karroly, ad Hartlepool e ad Harry Rhodes, oltrepassò il piccolo ponte, ed avanzò circa un centinaio di passi sulla riva destra, quando, voltandosi, scorse Halg che accorreva con la borsa dei suoi strumenti. Il giovane Indiano, che a sua volta attraversava il fiume, avrebbe raggiunto facilmente gli amici. Il Kaw-djer riprese quindi la strada affrettando il passo. Dopo tre minuti un grido d'angoscia lo arrestò di colpo… Si sarebbe detta la voce di Halg!… Col cuore stretto d'angoscia mortale ritornò indietro di corsa, ed era tanto turbato che Sirdey potè, non visto, scostarsi da lui ed allontanarsi verso Liberia con la più grande rapidità. Il Kaw-djer non distinse neppure un'ombra che fuggiva nella stessa direzione, dopo aver fatto un lungo giro all'insù del fiume. Tuttavia, per quanto egli corresse, Zol lo precedeva assai più lesto. In due salti il cane scomparve nel buio, poi, trascorsi pochi minuti, si mise a latrare. Ma, subito, ai guaiti lamentevoli susseguì il ringhio furioso della bestia, mano mano più affievolito però, come se l'animale, cacciando la preda, si fosse lanciato su qualche pista.

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D'improvviso un nuovo grido echeggiò nella notte. Il Kaw-djer non lo udì. Giungendo nel posto di dove era partito per il primo, scorse Halg ai suoi piedi col viso contro terra, steso in mezzo a una pozza di sangue, e con un largo coltellaccio conficcato fra le spalle fino al manico. Karroly si gettò su suo figlio. Il Kaw-djer lo scostò rudemente. Non bisognava piangere, ma agire. Raccogliendo la borsa sfuggita dalle mani del ferito, ne estrasse un bisturi, con cui tagliò netto da cima a fondo i suoi vestiti, poi tolse l'arma omicida dal suo fodero di carne, e la ferita apparve a nudo. Era terribile. La lama, penetrata fra le due scapole, aveva attraversato il petto quasi da parte a parte. Ammettendo che per miracolo il midollo spinale non fosse intaccato, il polmone però doveva essere sicuramente intaccato. Halg, livido, con gli occhi chiusi, respirava appena e dalle labbra gli colava una bava rossastra. Il Kaw-djer in pochi istanti strappò in liste la sua casacca di pelle di guanaco e fece una fasciatura provvisoria, poi, ad un suo cenno, Karroly, Hartlepool e Harry Rhodes trasportarono il ferito. In quello stesso momento il Kaw-djer percepì finalmente i latrati di Zol. Il cane era certo alle prese con qualche nemico. Mentre il triste corteo si incamminava, egli procedé nella direzione del rumore, che non sembrava molto lontano. Cento passi più in là, gli apparve uno spettacolo orribile. Per terra giaceva un corpo, quello di Sirk, visibile sotto la luce lunare, con la gola straziata da una ferita spaventosa. Quella ferita non l'aveva prodotta un'arma, ma era opera di Zol, che si accaniva ancora ad allargarla, cieco di rabbia. Il Kaw-djer fece abbandonare la preda al cane, poi si inginocchiò nel fango rosso di sangue, vicino all'uomo. Ogni cura diveniva inutile. Sirk era morto. Il Kaw-djer, pensoso, considerava il cadavere che apriva nel buio gli occhi già vitrei. Si poteva facilmente ricostruire il dramma. Mentre egli seguiva Sirdey, complice forse del delitto

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progettato, Sirk, in vedetta, aveva assalito Halg che giungeva correndo e l'aveva colpito di dietro. Poi, mentre essi si affaccendavano intorno al ferito, Zol si era slanciato sulle tracce del colpevole e la punizione aveva seguito immediatamente il misfatto. Eran bastati pochi minuti perchè il dramma si svolgesse in tutte le sue fulminee peripezie. I due attori giacevano ormai l'uno morto, l'altro morente. Il pensièro del Kaw-djer ritornò ad Halg. Il gruppo dei tre uomini che sostenevano il corpo inerte del giovane Indiano cominciava a sparire nel buio. Egli sospirò profondamente. Quel fanciullo rappresentava tutto ciò che gli era caro sulla terra e con lui sarebbe svanita la sua più forte, forse l'unica ragione di vivere. Prima di allontanarsi, guardò il morto ancora una volta. La pozza di sangue non si era allargata. Il sangue gemeva tuttora dall'orrenda ferita, ma la terra lo assorbiva avidamente, con la stessa avidità, sempre rinnovata, con cui, fin dalle remote età, essa è solita abbeverarsene. Cosa contavano poche gocce di più o di meno nell'inessiccabile pioggia rossa? Tuttavia, fino a quel giorno, l'isola Hoste era sfuggita alla legge comune. Essa era rimasta pura, perchè inabitata. Ma gli uomini, giunti a popolarne i deserti, avevano fatto scorrere il sangue degli uomini. Era la prima volta, forse, che essa ne era imbrattata!… Ma non doveva essere l'ultima.

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V.

UN CAPO.

Quando Halg, sempre privo di sensi, venne deposto nel suo letto, il Kaw-djer surrogò la prima fasciatura con un'altra meno sommaria. Le palpebre del ferito sbatterono, le labbra gli si agitarono, le guance livide si tinsero leggermente di roseo; poi, dopo pochi lievi lamenti, passò dall'annientamento della sincope a quello del sonno. Sarebbe sopravvissuto alla terribile ferita? La scienza umana non poteva assicurarlo. La situazione era grave, ma insomma non disperata, non essendo assolutamente impossibile che la piaga del polmone si cicatrizzasse. Dopo avergli prodigato tutte le cure che l'affetto e l'esperienza gli dettarono, il Kaw-djer raccomandò per Halg la massima calma e la più rigorosa immobilità, e corse a Liberia, dove altri, forse, avevano bisogno della sua opera. La disgrazia personale che lo colpiva lasciava intatto il suo istinto ammirabile di dedizione e d'altruismo. La tragedia fulminea che gli straziava il cuore, non gli faceva dimenticare i morti e i feriti che, a quanto asseriva l'antico cuoco del Jonathan, aspettavano aiuto in Liberia. Esistevano realmente i morti e i feriti, o Sirdey aveva mentito? Nel dubbio, bisognava rendersi conto da se stessi della verità delle cose. Erano circa le dieci di sera. La luna, nel suo primo quarto, cominciava a declinare e dal firmamento buio dell'Est dilagava l'ombra inafferrabile. Nella notte che si addensava, persisteva a rosseggiare un chiarore lontano. Liberia non dormiva. Il Kaw-djer si incamminò lestamente. Attraverso la campagna silenziosa un rumore, prima leggero, poi sempre più violento, mano mano che si avvicinava, giunse fino a lui.

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In venti minuti fu all'accampamento. Passando rapidamente fra le case oscure, egli sbucò sulla spianata dinanzi al palazzo del Governatore, quando uno spettacolo strano e assai pittoresco lo fermò. Rischiarata da un cerchio di torce fuligginose, l'intiera popolazione di Liberia s'era data convegno sul terrapieno. Tutti! Uomini, donne, fanciulli, divisi in tre gruppi distinti. Il più importante dei tre, tenuto calcolo del numero, era riunito proprio di fronte al Kaw-djer e comprendeva in complesso la totalità dei fanciulli e delle donne e rimaneva silenzioso, sembrando comporsi unicamente di spettatori degli altri due gruppi. Di questi, l'uno si teneva schierato in ordine, di battaglia davanti al palazzo del Governo, come per difenderne l'entrata, mentre l'altro aveva preso posizione dalla parte opposta del piazzale. No, Sirdey non aveva mentito. In mezzo al terrapieno giacevano stesi, infatti, sette corpi. Feriti?… Morti?… A quella distanza il Kaw-djer non poteva saperlo, perchè la fiamma mobile delle torce dava a tutti le stesse apparenze di vita. A giudicare dagli atteggiamenti, non si poteva mettere in dubbio l'ostilità reciproca dei due gruppi meno numerosi. Tuttavia, fra l'una e l'altra parte dei corpi giacenti a terra, pareva esistesse una zona neutra che nessuno degli avversi partiti osava superare. Coloro che, secondo le apparenze, si dovevano considerare come assalitori non iniziavano nessun movimento d'attacco e ai difensori di Beauval mancava quindi l'occasione di mostrare il loro coraggio. La battaglia non era incominciata. Si era ancora alla schermaglia delle parole, le quali, purtroppo, non facevan difetto e si urtavano nello spazio, sopra il mucchio divisore dei morti e dei feriti. Quando il Kaw-djer penetrò nel raggio della luce, tutti tacquero. Senza occuparsi di coloro che lo circondavano, egli mosse verso i corpi giacenti, che esaminò un dopo l'altro, aprendo un poco le vesti, quando ce n'era il bisogno, e

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procedendo rapidamente a medicazioni sommarie. Sirdey aveva detto il vero: egli trovò, infatti, tre morti e quattro feriti. Quando l'opera sua fu compiuta, il Kaw-djer si guardò intorno e, nonostante la sua tristezza, non poté non sorridere, vedendosi circondato da centinaia di volti che esprimevano la più rispettosa e insieme la più ingenua curiosità. Per illuminarlo meglio, colorò che portavano le torce gli si erano avvicinati. E i tre gruppi, seguendo il movimento, si erano fusi in un unico grande circolo, di cui egli formava il centro, mentre intorno intorno il silenzio diveniva profondo. Il Kaw-djer chiese che lo si aiutasse. Ma poiché nessuno si muoveva, egli pronunziò il nome di quelli dei quali desiderava il concorso. Allora, senza la minima esitazione, l'emigrante chiamato usciva dalla folla e si conformava con zelo alle istruzioni che gli venivano impartite. In pochi minuti, morti e feriti vennero tolti via e trasportati nelle loro case, sotto la guida del Kaw-djer, il cui compito non era terminato. Gli rimaneva da visitare successivamente i quattro feriti, procedere all'estrazione dei proiettili e alla fasciatura definitiva, prima di ritornare al Borgo-Nuovo. Mentre compiva in questo modo la sua opera di dedizione, s'informava della causa del massacro. Conobbe così il ritorno in iscena di Lewis Dorick, l'animosità della folla contro Ferdinando Beauval, le sue trovate, le razzie compiute nei dintorni dell'accampamento e finalmente il tentativo di saccheggio, del quale constatava de visu il risultato doloroso. Doloroso! Non poteva, in verità, esserlo di più! Respinti a fucilate, come si disse, dalle quattro famiglie solidamente rinchiuse nei loro recinti, i saccheggiatori avevano battuto in ritirata non riportando, come bottino, che i compagni morti o feriti. Com'era stato diverso il ritorno dalla partenza! Ora le bocche rimanevano mute, i cuori pieni di amarezza, gli occhi torvi. L'eccitazione selvaggia della partenza aveva ceduto il posto a un furore sordo, che non chiedeva se non un pretesto per scoppiare. Si calcolavano ingannati. Da chi? Non lo sapevano. Ma in ogni caso non dalla loro ingenuità, né dalle

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loro illusioni. Secondo l'uso universale, avrebbero accusato la terra intera, prima di accusare se stessi. Essi conoscevano bene, per averlo troppo spesso provato, il senso di amarezza e di vergogna che sussegue alla mala riuscita di imprese violente. Prima di venire gettati sull'isola Hoste, avevano fatto parte del proletariato dei due mondi e si erano lasciati trascinare più di una volta dai discorsi vibranti di retori. Avevano praticato lo sciopero, raccolto e calmo durante i primi giorni, quando le borse sono ancora piene, ma che la miseria incalzante rende impaziente e febbrile e finalmente furioso, quando i bimbi piangono dinanzi alla madia vuota. Allora soltanto si vede rosso, ci si precipita in massa, e si uccide e si muore per ritornare, vittoriosi talvolta, è vero, ma più spesso vinti, vale a dire in condizione peggiore, perchè l'insuccesso dimostra la debolezza di coloro che volevano trionfare con la forza. Ebbene, quel ritorno attraverso campi devastati, pareva proprio l'ultimo atto d'uno sciopero che finisce male. Lo stato d'animo era uguale. I poveri diavoli si consideravano giocati, e si adiravano per la loro ingenuità. I capi, Beauval e Dorick, dove stavano?… Perbacco! Lontani dai colpi. Così, sempre, ovunque, la stessa cosa! Volpi e corvi. Sfruttatori e sfruttati. Ma lo sciopero, quando è sanguinoso, la sommossa, la rivoluzione, hanno il loro rituale che gli attori di questo dramma sapevano a memoria, per esservisi scrupolosamente uniformati più d'una volta. È costumanza che, in tali convulsioni, in cui l'uomo, dimenticando che è un essere pensante, impiega come argomento la violenza e l'assassinio, le vittime divengano vessilli. E vessilli appunto erano divenute le vittime riportate indietro dai saccheggiatori e perciò appunto erano state allineate sotto gli occhi di Ferdinando Beauval, il quale, detenendo il potere, si rendeva responsabile, in essenza, di tutto il male. E ivi, urtatisi contro i suoi partigiani, avevano cominciato con l'ingiuriarsi violentemente, prima di passare ai fatti.

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Il momento, del resto, non era ancora giunto. Un protocollo inflessibile indicava con precisione il cammino da seguire. Quando avessero parlato a sufficenza, quando le gole fossero stanche di gridare, dovevano rientrare in casa, poi, l'indomani, perchè tutto si compisse in armonia coi riti, si sarebbero celebrati funerali solenni agli estinti. Allora soltanto si potevano temere disordini. L'intervento del Kaw-djer aveva sospeso un momento le cose. Grazie a lui, essi si erano ricordati, ritrovando un po' di calma, che innanzi a loro non stavano soltanto i tre morti, ma anche alcuni feriti, ai quali cure sollecite avrebbero salvata forse la vita. Il terrapieno era già vuoto, quando egli lo attraversò per ritornarsene al Borgo-Nuovo. Con la incostanza abituale, la folla, pronta ad agitarsi improvvisamente, si era anche improvvisamente tranquillizzata. Le case apparivano chiuse. Si dormiva già. Camminando nella notte, il Kaw-djer pensava a quanto aveva saputo. Ai nomi di Dorick e di Beauval aveva semplicemente risposto con un'alzata di spalle, ma la corsa dei predatori attraverso la campagna sembravagli meritare più seria considerazione. 1 furti, il saccheggio, tutti quegli atti di barbarie erano di sinistro augurio. La colonia, già compromessa, sarebbe stata perduta irremissibilmente, se i coloni fossero entrati in aperta lotta gli uni contro gli altri. Che divenivano, a contatto coi fatti, le teorie sulle quali quel generoso pensatore aveva edificata la sua vita? Il risultato gli stava dinanzi, tangibile, incontestabile. Quegli uomini, abbandonati a se stessi, si dimostravano incapaci di vivere e stavano per morire di fame, gregge meschino che non sapeva trovarsi il cibo senza un pastore che glielo porgesse. Quanto all'essenza morale, essa non superava in qualità quella del loro senso pratico. L'abbondanza, la mediocrità e la miseria, le arsure del sole e i morsi del freddo, tutto era stato pretesto perchè si rivelassero le tare indelebili delle anime. Ingratitudine ed egoismo, abuso della forza e viltà, intemperanza,

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imprevidenza e pigrizia, ecco di cosa erano impastati la maggior parte di quegli uomini, il cui interesse, in mancanza di più nobile movente, avrebbe dovuto creare una sola volontà, comune ai mille cervelli. Ed eccoli giunti all'estremo ormai dell'avventura dolorosa! Eran bastati diciotto mesi perchè cominciasse e finisse. Come se la natura rimpiangesse la sua opera e riconoscesse il suo errore, essa rigettava quegli uomini sfiduciati. La morte li colpiva senza tregua. Scomparivano uno dopo l'altro, uno dopo l'altro erano ripresi dalla terra, crogiuolo ove tutto si elabora e si trasforma e che, continuando il ciclo eterno, avrebbe rifatto con la loro sostanza altri esseri — ahimè! — senza dubbie simili ad essi. E fors'anche, ritenendo che la grande falciatrice non procedesse abbastanza lesta nel suo lavoro, essi la aiutavano con le loro proprie mani. Laggiù, di dove veniva il Kaw-djer, morti e feriti. Qui, ove passava adesso, il cadavere di Sirk. Al Borgo-Nuovo, un fanciullo ferito: un fanciullo per il quale il suo cuore disilluso aveva ritrovato la dolcezza d'amare. Da ogni lato sangue! Prima di coricarsi, il Kaw-djer si avvicinò al capezzale di Halg. Le condizioni erano le stesse: né migliori né peggiori. Si doveva temere un'emorragia improvvisa, e per parecchi giorni la minaccia sarebbe rimasta sospesa su quella vita. Affranto di fatica egli si destò tardi l'indomani. Il sole era già alto sull'orizzonte quando uscì dalla sua casa, dopo una visita ad Halg, il cui stato restava stazionario. La nebbia si era dispersa. Affrettando il passo, per riguadagnare il tempo perduto, il Kaw-djer si incamminò, come ogni giorno, verso Liberia, ove lo chiamavano gli ammalati ordinari, in numero, è vero, decrescente, dopo il principio della primavera, e i quattro feriti del giorno prima. Ma urtò contro una barriera umana, rizzata a traverso il ponte. Ad eccezione di Halg e Karroly, essa comprendeva tutta la popolazione del Borgo-Nuovo. Stavano là quindici uomini e, circostanza singolare, quindici uomini armati di fucile, che

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sembravano aspettarlo. Non erano soldati, eppure avevano qualche cosa di marziale nell'atteggiamento. Calmi, severi, restavano con l'arma al piede, come nell'attesa degli ordini di un capo.

Harry Rhodes, che sembrava comandarli, fermò il Kaw-djer con un cenno. Questi sostò, numerando stupito la piccola truppa.

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— Kaw-djer — disse Harry Rhodes non senza una certa solennità— da molto tempo vi scongiuro di venire in aiuto dell'infelice popolazione dell'isola Hoste, accettando di porvi alla testa di essa. Per l'ultima volta vi rinnovo la preghiera. Il Kaw-djer, senza rispondere, chiuse gli occhi come per meglio vedere in sé stesso. Harry Rhodes continuò: — Gli ultimi avvenimenti hanno dovuto farvi riflettere. Noi, ad ogni modo, siamo decisi. Ed ecco perchè questa notte Hartlepool, io e qualcun altro, siamo andati a riprendere questi quindici fucili, che furono distribuiti agli uomini del Borgo-Nuovo. Ora siamo armati e padroni di imporre le nostre volontà. Le cose sono giunte ormai a un punto, che pazientare più a lungo sarebbe un vero delitto. Bisogna agire. Il mio partito è preso. Se voi insistete nel rifiuto, mi metterò io stesso alla testa di questa brava gente. Sfortunatamente io non ho né la vostra autorità, né la vostra influenza. Non mi ascolteranno, mentre a voi, invece, obbediranno senza replicare. Decidete. — Che c'è di nuovo? — chiese il Kaw-djer. — Questo! — rispose Harry Rhodes, stendendo la mano verso la capanna ove Halg agonizzava. Il Kaw-djer, trasalì. — E questo ancora — soggiunse Harry Rhodes, trascinando seco il Kaw-djer. Risalirono la ripa, che in quel posto dominava la sponda destra.. Liberia, e la pianura paludosa che li separava da loro, apparvero ai loro sguardi. Fin dalle prime ore del mattino, l'accampamento si era ridestato, febbrilmente. Si trattava di compiere l'opera del giorno prima, procedendo ai funerali solenni delle tre vittime. La prospettiva della cerimonia metteva in tumulto tutta quella gente. Per i compagni delle vittime l'avvenimento costituiva una manifestazione; per i partigiani di Beàuval un pericolo; per gli altri uno spettacolo. La popolazione tutta, ad eccezione del solo Beauval, che aveva giudicato opportuno starsene rintanato, seguiva dunque i tre feretri. Non si dimenticò di far passare il corteo dinanzi alla

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casa del Governatore, né di fermarsi sul terrapieno, cosa di cui Lewis Dorick approfittò per dare la stura a una diatriba violenta. Dinanzi alle tombe, prendendo da capo la parola, pronunziò per la centesima volta una troppo facile requisitoria contro l'amministrazione della colonia. A udirlo, l'imprevidenza, l'incapacità, i principi retrogradi del titolare avevano causato tutte le disgrazie. Era venuto il momento di rovesciare quell'incapace e di nominare al suo posto un altro capo. Il successo di Dorick fu clamoroso. Gli si rispose con una esplosione di grida: — «Evviva Dorick!» «Al Palazzo!…» E un centinaio di uomini si mosse, martellando il terreno coi piedi pesanti. Erano eccitati al punto giusto. Gli occhi scintillavano, i pugni si tendevano minacciosi verso il cielo, e le bocche, spalancate in clamori di odio, pareva formassero nei volti buchi neri. Il movimento si accelerò subito. Affrettarono il passo, poi corsero e finalmente, spingendosi e urtandosi, precipitarono come un torrente Un ostacolo fermò lo slancio. Coloro che traevano qualche vantaggio dal potere in vigore e temevano un cambiamento, se ne erano costituiti difensori. Pugni contro pugni, petti contro petti, le due parti si urtarono e i colpi cominciarono a piovere. Tuttavia, il partito di Beauval, visibilmente più debole, dovette indietreggiare. Passo per passo, metro per metro, venne ricacciato fino al Palazzo. Sul terrapieno la battaglia ricominciò più ardente. Essa restò a lungo indecisa. Tratto tratto, qualche combattente, costretto a ritirarsi dalla lotta, andava ad abbattersi in qualche canto. Ci furono mascelle spezzate, costole sfondate, membra fracassate. Più si picchiavano e più l'esasperazione cresceva. Giunse il momento in cui i coltelli uscirono dal fodero. E corse ancora sangue. Dopo un'eroica resistenza, i difensori di Beauval vennero infine travolti e gli assalitori, spazzando via ogni ostacolo dinanzi ad

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essi, si precipitarono in disordine nell'interno del Palazzo. Lo percorsero da cima a fondo, emettendo urla selvagge. Se avessero trovato Beauval, lo avrebbero linciato certamente. Ma per fortuna fu impossibile scovarlo. Vedendo la piega che pigliavano le cose, egli aveva preso la fuga ed ora correva a gambe levate nella direzione del Borgo Nuovo. L'inutilità delle ricerche portò al parossismo la rabbia dei vincitori. È nell'essenza stessa della folla il perdere la misura, nel bene quanto nel male. In mancanza di altre vittime, se la presero con le cose. La casa di Beauval fu saccheggiata dalle fondamenta al tetto. Il mobilio misero, le carte, gli oggetti personali, tutto venne gettato alla rinfusa dalle finestre e riunito in un mucchio al quale appiccarono il fuoco. Qualche minuto dopo — per inavvertenza o per la volontà di qualche sovvertitore? — il palazzo stesso, a sua volta, fiammeggiava. Ricacciati dal fumo, gli invasori si precipitarono fuori. Allora non furono più uomini. Ebbri di grida, di saccheggio, di delitto, non avevano più né pensiero né meta. Null'altro che il bisogno irresistibile di picchiare, di ammazzare, di distruggere, di massacrare. Sul terrapieno stazionava, come dinanzi a uno spettacolo, la folla dei fanciulli, delle donne e degli indifferenti, zimbelli eterni ai quali non si cessa di rendere i colpi che non hanno mai dato. Essi formavano, insomma, il grosso della popolazione, ma erano troppo pacifici, malgrado il numero, per divenire temibili. La banda di Lewis Dorick, ingrossata ora dagli antichi avversari, schieratisi dalla parte del più forte, si precipitò su tale moltitudine inoffensiva. Fu una fuga pazza. Uomini, donne e fanciulli si rovesciarono sulla pianura, inseguiti da quegli energumeni che sarebbero stati imbarazzati a spiegare il motivo del loro furore selvaggio. Dall'alto della ripa, che aveva raggiunto con Harry Rhodes, il Kaw-djer, guardando dalla parte dell'accampamento, non scorse che un'ondata di fumo, che in larghe volute scendeva fino al mare. Le case scomparivano entro quel nugolo da cui si

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innalzavano grida di dolore e d'angoscia. Al di là del fiume, non si scorgeva nella pianura che un solo essere vivente, un uomo. Correva a tutta forza, benché nessuno lo inseguisse. Fuggendo senza mai rallentare, l'uomo raggiunse il ponte, lo attraversò e cadde, quasi privo di respiro, innanzi alla piccola truppa armata. Allora si riconobbe Ferdinando Beauval. Ecco quanto vide a tutta prima il Kaw-djer. Il quadro, nella sua semplicità, era eloquente, ed egli ne afferrò subito il significato. Beauval, vergognosamente cacciato, costretto alla fuga e la sommossa che spargeva in Liberia l'incendio e la morte. Cosa significava tutto ciò? Che si fossero sbarazzati di Beauval, niente di meglio. Ma perchè tanta devastazione, di cui gli autori sarebbero stati le prime vittime? Perchè quel massacro, di cui le grida lontane dicevano il furore selvaggio? Dunque, gli uomini potevano arrivare fino a quell'estremo? Non soltanto il più mediocre interesse li rendeva capaci del male, ma erano anche capaci, dato il caso, di distruggere per distruggere, di colpire per colpire e di uccidere per il piacere di uccidere! Non i bisogni soltanto, o le passioni o l'orgoglio scagliavano gli uomini gli uni contro gli altri; ma anche la follia, quella follia che esiste virtualmente in tutte le folle e per cui esse, gustata una volta l'ebbrezza della violenza, non si calmano, se non quando sono sazie di distruzione. È in causa di tale follia — eroismo o brigantaggio, secondo l'occorrenza — che il bandito abbatte senza ragione il passante inoffensivo, è per essa che le rivoluzioni fanno di innocenti e colpevoli ecatombe indistinta, ed è tale follia che infiamma gli eserciti e vince le battaglie. Che divenivano, dinanzi a fatti simili, i sogni del Kaw-djer? La libertà integrale era il bene naturale degli uomini; ma solo a patto che essi restassero suscettibili di trasformarsi in belve, come coloro di cui egli contemplava ora le gesta! Il Kaw-djer non aveva risposto nulla ad Harry Rhodes. Ritto e fermo sul punto culminante della sponda, egli guardò,

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silenzioso, per qualche minuto. Il viso impassibile non rivelava l'interno doloroso. Eppure quale lotta crudele, nella quale l'anima gli si straziava! Chiudere gli occhi e intestarsi egoisticamente in una religione mentitrice, mentre poveri disgraziati si massacravano a vicenda, oppure arrendersi all'evidenza, obbedire alla ragione, intervenire in quel disordine e, loro malgrado, salvarli: ecco il duro dilemma! Ciò che il buon senso gli ordinava, era — ahimè! — la negazione di tutta la sua vita! Vedersi infranto ai piedi l'idolo innalzato nel suo cuore, riconoscere d'essere stato vittima di un miraggio, dirsi d'aver edificato sopra la menzogna, che nulla di quanto si è pensato è vero e che, stupidamente, ci si è sacrificati ad una chimera, quale sconfitta!… All'improvviso, dal nugolo di fumo che ricopriva Liberia emerse un fuggiasco, poi un altro, poi dieci, poi ancora cento, molti dei quali donne e fanciulli. Alcuni cercavano rifugio verso le alture dell'Est, ma la maggior parte, stretti dappresso dagli avversari, correvano pazzamente nella direzione del Borgo Nuovo. L'ultima fra essi era una donna, piuttosto grossa, che non poteva correre in fretta. Un uomo la raggiunse, l'afferrò pei capelli, la rovesciò a terra, alzò il braccio… Il Kaw-djer, si voltò verso Harry Rhodes, e con voce grave disse: — Accetto!

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PARTE QUARTA

I.

PRIME MISURE.

Il Kaw-djer, alla testa di quindici volontari, attraversò la pianura a passo di corsa, e gli bastarono pochi minuti per raggiungere Liberia. Sul terrapieno si combatteva ancora, ma con minor ardore, e forse soltanto in virtù della spinta iniziale, senza saperne il perchè. L'arrivo della piccola truppa armata stupì i belligeranti: era una eventualità imprevista. Mai in nessun momento i sovvertitori avevano ammesso di dover lottare contro una forza superiore e tale da ostacolare le loro smanie omicide. Il duello cessò subito. Coloro che ricevevano i colpi presero ardire, coloro che li davano si immobilizzarono ovunque si trovassero, gli uni stupefatti della loro inspiegabile avventura, gli altri un po' smarriti, col respiro ansimante, da uomini che in un momento d'aberrazione avessero compiuto un lavoro faticoso, di cui non comprendevano il motivo. Improvvisamente la sovreccitazione cedeva il posto alla calma. Il Kaw-djer si occupò subito a domare l'incendio, che le fiamme ravvivate da una leggera brezza del Sud arrischiavano di comunicare all'intero accampamento. L'antico «palazzo» di Beauval era già per tre quarti distrutto. Pochi colpi di piccone bastarono a demolire la sottile costruzione, che fu ben presto

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ridotta a un mucchio di rovine calcinate, da cui si sprigionava un fumo acre. Fatto ciò, e dopo aver lasciato di guardia cinque dei suoi uomini presso la folla sedata, il Kaw-djer mosse con gli altri dieci attraverso la pianura, per riunire il resto degli emigranti. Vi riuscì senza sforzo. Si tornava a Liberia da tutte le parti; gli assalitori, nei quali la fatica aveva calmato il furore insensato, formavano l'avanguardia, e dietro, non ancora rimessi dal loro terrore, a prudente distanza, seguivano i deboli. Nello scorgere il Kaw-djer, costoro si rassicurarono ed affrettarono il passo, così che tutti giunsero nello stesso tempo, in un sol gruppo, a Liberia. In meno di un'ora tutta la popolazione fu radunata sopra il terrapieno e, osservando l'omogeneità della massa, sarebbe stato impossibile supporre che partiti avversari l'avessero mai divisa. Senza le vittime numerose che giacevano al suolo, non sarebbe rimasta traccia alcuna dei torbidi ormai cessati. La folla non dimostrava impazienza, ma semplicemente curiosità. Ancora assai stupita dell'incomprensibile raffica che l'aveva investita e decimata, guardava placidamente il gruppo compatto dei quindici uomini armati, che le faceva fronte e restava in attesa degli eventi. Il Kaw-djer avanzò fino nel mezzo del terrapieno e rivolgendosi ai coloni, i cui sguardi convergevano verso di lui, con voce forte disse: — Da oggi, il vostro capo sarò io. Quale strada aveva dovuto percorrere per giungere a pronunziare queste poche parole! Così, dunque, non soltanto egli accettava finalmente il principio d'autorità, non soltanto acconsentiva, malgrado le sue ripugnanze, ad esserne il depositario, ma per di più, passando da un estremo all'altro, superava gli autocrati più assoluti. Non gli bastava rinunziare al suo ideale di libertà, lo calpestava sotto i piedi. Non chiedeva neppure il consenso di coloro dei quali si decretava il capo. Non era una rivoluzione. Era un colpo di Stato. Un colpo di Stato d'una facilità stupefacente. Alla dichiarazione del Kaw-djer seguì qualche istante di silenzio,

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poi dalla folla si levarono unanimi acclamazioni, e la gioia comune si tradusse in applausi fragorosi. Ci si stringevano le destre, ci si felicitava a vicenda, le madri baciavano i propri figli. Fu una vera frenesia. Quei poveretti passavano dallo scoraggiamento alla speranza. Dal momento che il Kaw-djer assumeva la direzione dei loro affari, essi erano salvi. Egli li avrebbe strappati alla miseria. Come?… Nessuno poteva neppure immaginarlo, ma non importava. Poiché si incaricava di tutto, non occorreva chiedere di più. Alcuni, tuttavia, i partigiani di Beauval e di Dorick, restarono accigliati e non gridarono evviva. Ma se costoro tacevano, non si azzardavano nemmeno, d'altra parte, a protestare. Che avrebbero potuto fare di meglio? La loro infima minoranza doveva fare i conti con la maggioranza, che adesso aveva un capo. Il grande corpo possedeva ormai una testa e il cervello rendeva temibili quelle braccia innumerevoli, fino allora disprezzate. Il Kaw-djer stese la mano e, come per incanto, si fece silenzio. — Hostelliani — disse — sarà fatto il necessario per migliorare la situazione, ma io esigo obbedienza da tutti e calcolo che nessuno mi obbligherà ad usare la forza. Ciascuno di voi rientri in casa ad aspettarvi gli ordini, che non tarderanno ad essere impartiti. Il laconismo energico di tale discorso ebbe il migliore effetto. Si capiva che ormai ci sarebbe stata una guida e nulla poteva maggiormente confortare quei disgraziati, che avevano così deplorevole esperienza della libertà, e che l'avrebbero alienata contro la certezza di un pezzo di pane. La libertà è un bene immenso, ma che non si può gustare se non alla condizione di vivere. E le aspirazioni di quel popolo sventurato si riducevano, pel momento, alla possibilità di vivere. Tutti obbedirono rapidamente, né alcuno mormorò, Lewis Dorick compreso. Il Kaw-djer seguì con lo sguardo la folla che sgombrava e le labbra gli si contrassero amaramente. Se gli fosse rimasta

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ancora qualche illusione, essa sarebbe svanita. Decisamente l'uomo non odiava la costrizione, così come egli aveva creduto. Tanta debolezza, quasi tanta viltà, non si confaceva con l'esercizio d'una libertà sconfinata.

Un centinaio di coloni non avevano seguito gli altri. Il Kaw-djer si volse a squadrare con le sopracciglia aggrottate il gruppo indocile. Ma uno dei coloni che lo componevano,

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facendosi avanti, spiegò che non potevano obbedire, perchè non avevano più casa. Cacciati dalle fattorie invase, erano giunti alla costa, alcuni da qualche giorno, altri il giorno prima, e non possedevano altro ricovero che il cielo. Il Kaw-djer li assicurò che si sarebbe provveduto al più presto e intanto li invitò a occupare le tende esistenti ancora in riserva. Poi, mentre essi obbedivano, si occupò senz'altro delle vittime della sommossa. I torbidi avevano tolto la vita a dodici coloni, compresi i tre saccheggiatori, che avevano trovato la morte nell'assalto della fattoria dei Rivière. In generale, non c'era di che rimpiangere i defunti. Uno solo, un emigrante ritornato dall'interno nel corso dell'invernata, doveva calcolarsi fra la parte sana della popolazione hostelliana. Ma tutti gli altri erano seguaci di Dorick e di Beauval e il partito del lavoro e dell'ordine non poteva che trarre vantaggio dalla loro scomparsa. V'eran poi molti contusi e molti feriti, cosicché c'era abbastanza da fare pel Kaw-djer, che si accinse coraggiosamente al lavoro. Poi, terminata l'opera sua, e lasciati cinque uomini di guardia sul terrapieno, riprese con gli altri la strada del Borgo-Nuovo, ove lo chiamava un altro dovere: laggiù c'era Halg morente, morto forse!… Halg era sempre nella stessa condizione, benché non gli difettassero le cure intelligenti. Graziella e sua madre erano accorse a raggiungere Karroly al capezzale del ferito e sulla devozione di quelle infermiere si poteva calcolare. Educata a una scuola severa, la fanciulla aveva imparato a padroneggiare il suo dolore. Ella stette dinanzi al Kaw-djer col viso tranquillo e rispose calma a tutte le sue domande. Sì, Halg era febbricitante e non si scuoteva dal suo torpore che per gemere debolmente. Una bava sanguigna gli gemeva sempre dalle labbra smorte; però meno abbondante e meno purpurea. Intanto i dieci uomini che avevano accompagnato il Kaw-djer si erano caricati di viveri prelevati sulla riserva del Borgo-Nuovo. Senza concedersi un momento di riposo, ripartirono per Liberia, dove andarono di porta in porta a distribuire a

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ciascuno la sua razione e, terminata la ripartizione, il Kaw-djer stabilì la guardia notturna, poi, avvolgendosi entro una coperta, si stese per terra e cercò di dormire. Ma non poté: malgrado la stanchezza fisica, il cervello si ostinava ad elaborare il pensiero. A pochi passi da lui, i due uomini di guardia serbavano una immobilità statuaria. Nulla turbava il silenzio, e il Kaw-djer, con gli occhi spalancati nell'oscurità, sognava. Che faceva egli?… Perchè aveva permesso che la sua coscienza venisse violentata dai fatti e che gli fosse imposta simile sofferenza?… Se prima viveva nell'errore, viveva almeno felice… Felice! E chi gli impediva di esserlo ancora?… Sarebbe bastato volerlo. Che bisognava fare per volerlo?… Meno di niente. Alzarsi, fuggire, chiedere l'oblio della crudele avventura all'ebbrezza delle corse vagabonde, che gli erano state prodighe di tante gioie, per tanto volger di tempo… Ahimè, gli avrebbero reso le illusioni distrutte? E quale sarebbe stata la sua vita, col rimorso di tante esistenze immolate alla gloria di una falsa divinità?… No, egli aveva da render conto a sé stesso di quella folla di cui aveva assunto il governo e non si sarebbe sdebitato verso di essa se non quando, di tappa in tappa, non l'avesse guidata in porto. Sia! Ma quale via scegliere?… Non era forse troppo tardi?… Un uomo, qualunque egli fosse, aveva il potere di fare risalire la china a quel popolo, che i vizi, le tare, l'inferiorità intellettuale e morale sembravano aver già votato fin d'ora a inevitabile annientamento? Il Kaw-djer valutò freddamente il peso del fardello che si disponeva a sopportare. Esaminò il suo dovere da ogni lato e cercò i mezzi migliori per compierlo. Impedire ai poveretti che morissero di fame?… Sì, prima di tutto questo. Ma era poca cosa, in confronto all'insieme del compito. Vivere non vuol dire soltanto soddisfare i bisogni materiali degli organi, vuol dire ancora, più ancora forse, essere coscienti della dignità umana; vuol dire non calcolare che su sé stessi e offrirsi agli altri; vuol dire essere forti, vuol dire essere buoni. Dopo aver

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salvate dalla morte quelle creature viventi, gli restava da farne veri uomini. Erano capaci, tali degenerati, di innalzarsi fino a simile ideale? Tutti certamente no, qualcuno forse, ove fosse stata mostrata loro la stella che non avevano saputo scorgere nel cielo, ove fossero stati condotti verso la meta, sorretti per mano. Così pensava il Kaw-djer, nella notte che lo circondava e così, l'una dopo l'altra, le sue ultime resistenze furono rovesciate, vinte le ultime rivolte, elaborato entro il suo cervello il piano direttivo al quale da quel momento egli avrebbe conformato ogni suo atto. L'alba lo trovò già alzato e già di ritorno dal Borgo-Nuovo, dove aveva avuto la gioia di constatare che lo stato di Halg tendeva a leggero miglioramento. Appena giunto a Liberia, assunse la sua parte di capo. Il primo atto fu tale da far stupire persino coloro che gli vivevano più vicini. Cominciò per fare l'appello dei venticinque o trenta muratori e falegnami facenti parte del personale della colonia, a cui riunì una ventina di coloni un po' pratici nell'uso della pala e della zappa, e distribuì ad ognuno il proprio lavoro. In un punto che indicò, essi dovevano aprire alcune trincee destinate a ricevere le mura di una delle case smontabili, indi rizzarvi la casa, consolidare le pareti con tramezze in muratura e suddividerla poi con assiti, secondo un piano tracciato sul terreno seduta stante. Date tali istruzioni, mentre gli operai iniziavano i lavori sotto la direzione del carpentiere Hobart, promosso alla funzione di sorvegliante, il Kaw-djer si allontanò coi suoi dieci uomini di scorta. A pochi passi di distanza sorgeva la più vasta fra le case smontabili. Vi abitavano cinque persone: i fratelli Moore, Sidney, Kennedy e Lewis Dorick. Il Kaw-djer vi si recò direttamente. Nel momento in cui varcava la soglia, i cinque uomini erano intenti a discutere animatamente. Scorgendolo si alzarono bruscamente.

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— Che venite a fare qui? — chiese Lewis Dorick con tono rude. Il Kaw-djer si arrestò sulla soglia e rispose con freddezza: — La colonia hostelliana ha bisogno di questa casa. — Bisogno di questa casa!… — ripeté Lewis Dorick che, come si suol dire, non poteva credere ai propri orecchi. — Per che farne? — Per collocarvi i suoi uffici. Vi invito dunque a sgombrare subito. — Benone!… — approvò ironicamente Dorick. — E noi dove andremo? — Ove meglio vi piacerà. Non vi si proibisce di fabbricarne un'altra. — Davvero?… E intanto? — Metteremo alcune tende a vostra disposizione. — Io metto invece la porta a vostra disposizione — esclamò Dorick, rosso di collera. Il Kaw-djer si trasse da parte e rese visibile la scorta armata che aveva lasciato di fuori. — In questo caso — disse con calma — sarò costretto ad usare la forza. Lewis Dorick comprese l'inutilità della resistenza, e batté in ritirata. — Va bene — brontolò. — Ce ne andremo… Il tempo per riunire quanto ci appartiene, giacché suppongo ci si permetterà di portar via… — Nulla — interruppe il Kaw-djer. — Le vostre cose personali vi saranno rimesse a mia cura. Il resto è proprietà della colonia. Era troppo! Vinto dalla rabbia, Dorick dimenticò la prudenza. — È quanto vedremo!… — esclamò, portando la mano alla cintola. Ma il coltello non era ancor tratto dal fodero, che già gli veniva strappato. I fratelli Moore si slanciarono in suo aiuto. Afferrato alla gola dal Kaw-djer, il maggiore fu rovesciato al suolo. Nello stesso momento le guardie del nuovo capo irruppero nella stanza. Ma non ebbero bisogno di

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intervenire, perchè i cinque emigranti rinunziavano già alla lotta e sgombravano, senza opporre più lunga resistenza. Il rumore dell'alterco aveva attirato un certo numero di curiosi, che facevano ressa sul limitare. I vinti furono costretti ad aprirsi un varco framezzo a coloro dai quali, in passato, erano stati tanto temuti. Il vento era cangiato ed ora furono sonoramente fischiati. Il Kaw-djer, aiutato dai compagni, procedette rapidamente ad una visita minuziosa dello casa della quale aveva preso possesso e, secondo la sua promessa, tutto quello che si poteva considerare proprietà personale dei precedenti abitatori, fu messo da parte, per essere loro restituito. Ma oltre a tale categoria di oggetti, si rinvenne una quantità di cose interessanti. Uno dei locali, trasformato in vera dispensa, racchiudeva una riserva importante di viveri. Conserve, legumi secchi, corned-beef, té e caffè: le provviste erano tanto abbondanti, quanto intelligentemente scelte. Con quale mezzo Dorick e i suoi accoliti se le erano procurate? Qualunque fosse stato il mezzo, essi non avrebbero certo mai patito la fame; cosa però che non li aveva fatti desistere dal gridare più forte degli altri e dal fomentare i torbidi che avevano travolto il potere di Beauval. Il Kaw-djer fece raccogliere i viveri sul terrapieno, sotto la protezione dei fucili; poi alcuni operai requisiti all'uopo, sotto la direzione del dirigente Lawson, cominciarono a smontare la casa. Mentre il lavoro si compiva, il Kaw-djer, sempre scortato, intraprese in tutto l'accampamento una serie di visite domiciliari Case e tende furono perquisite da cima a fondo, e le ricerche che occuparono la maggior parte della giornata, dettero brillanti risultati. Presso tutti i seguaci di Lewis Dorick e di Ferdinando Beauval, o anche semplicemente presso molti previdenti, furono scoperte importanti riserve di viveri. Per sfuggire ad ogni sospetto, i detentori avevano gridato più forte degli altri. Il Kaw-djer riconobbe fra costoro più di uno, che non era stato degli ultimi a implorarlo, e aveva accettato senza

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scrupoli la sua parte dei viveri prelevati dalle riserve del Borgo-Nuovo. Vedendosi ora scoperti, costoro manifestavano vivo imbarazzo, benché il Kaw-djer non desse sfogo ai sentimenti inspirati dalla loro scaltrezza. Essa tuttavia, era di tale natura, da aprirgli prospettive profonde sulle leggi inflessibili che governano il mondo. Chiudendo gli orecchi alle grida di angoscia che la fame strappava ai loro compagni di miseria, unendovi ipocritamente i loro, per non dividere ciò che avevano sottratto, quegli uomini avevano dimostrato una volta di più l'istinto di egoismo feroce, che tende unicamente alla conservazione dell'individuo. In verità la loro condotta sarebbe stata la stessa se, in luogo di creature ragionevoli e sensibili, si fosse trattato di semplici aggregati di sostanza materiale, costretti a obbedire ciecamente alle fatalità fisiologiche della cellula iniziale, dalla quale erano usciti. Ma il Kaw-djer, per essere convinto, non aveva più bisogno di simile dimostrazione supplementare che, purtroppo, non doveva essere l'ultima. La brutalità eloquente dei fatti gli aveva provato il suo errore e il sogno, dileguando, gli aveva lasciato nel cuore un vuoto orribile. Comprendeva ora che nel vagheggiare i suoi sistemi aveva fatto opera da filosofo, non da scienziato, e che anzi aveva peccato contro lo spirito scientifico il quale, vietandosi le speculazioni azzardose, si appoggia all'esperienza e all'esame puramente obbiettivo dei fatti. Ora le virtù e i vizi dell'umanità, le sue sublimità e le sue debolezze, la sua prodigiosa varietà, sono fatti che bisogna saper riconoscere e dei quali si deve tener conto. E, d'altronde, quale difetto di ragionamento in quella sua condanna globale di tutti i capi, sotto il pretesto che essi non sono impeccabili e che la perfezione originale degli uomini li rende inutili! I potenti, contro i quali si era mostrato così severo, non sono forse uomini come gli altri? Perchè avrebbero avuto il privilegio di non essere imperfetti? Dalla loro imperfezione, non avrebbe dovuto, invece, logicamente arguire

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quella di tutti gli altri, e riconoscere quindi la necessità delle leggi e di coloro che hanno la missione di applicarle? Le formule negative si sgretolavano di fronte all'impellenza dei fatti. Certo, egli non giungeva ancora a rimpiazzare la negazione con l'affermazione. Ma conosceva almeno la nobile esitazione dello scienziato, che, dinanzi ai problemi la cui soluzione è per il momento impossibile, si ferma sulla soglia dell'inconcepibile e giudica contrario all'essenza stessa della scienza decretare, senza prove, che non ci sia nell'universo null'altro se non materia e che tutto sia sottomesso alle sue leggi. Comprendeva come in tali questioni sia ammissibile l'attesa prudente e come, pur restando ciascuno libero di formulare una propria spiegazione del mistero universale e impegnarla nella battaglia delle ipotesi, ogni affermazione categorica non sia che presunzione o stoltezza. La più fruttuosa perquisizione fu operata nella bicocca che l'irlandese Patterson occupava con Long, solo superstite dei suoi due compagni. Vi erano entrati per scrupolo di coscienza, essendo la casa tanto piccola da sembrare impossibile potesse contenere un nascondiglio. Ma Patterson aveva rimediato con l'astuzio alla esiguità del locale, scavando una specie di cantina, dissimulata da un rozzo piancito. Vi si rinvenne una quantità di viveri sufficienti a nutrire la colonia intiera durante otto giorni. Tale incredibile massa di provvigioni di ogni genere, assumeva significato tragico, se si evocava il ricordo dell'infelice Blaker, morto di fame in mezzo a tante ricchezze e il Kaw-djer provò come un senso di terrore, pensando quanto dovesse essere tenebrosa l'anima di Patterson, per aver lasciato che il dramma si compisse. L'Irlandese, del resto, non si atteggiò menomamente a colpevole. Si mostrò, invece, arrogante e protestò con energia contro la spogliazione di cui era vittima. Il Kaw-djer, dando prova di longanimità, si affannò a spiegargli il dovere d'ognuno di contribuire alla salvezza comune. Patterson non volle udir ragione. La minaccia di adoperare la forza non ebbe miglior

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risultato. Non si riuscì ad intimidirlo come Lewis Dorick. Che gli importava la scorta del nuovo capo? L'avaro avrebbe difeso il suo tesoro contro un'armata. Le privazioni, accumuliate al prezzo di privazioni immense, erano sue, proprie sue. Non nell'interesse generale, ma per il suo solo interesse egli aveva compiuto i sacrifizi. E se gli dovevano essere inevitabilmente tolte, bisognava versargliene però, in danaro, l'equivalente. Simile modo di ragionare, in altre circostanze avrebbe fatto ridere il Kaw-djer. Oggi lo faceva pensare. Dopo tutto, Patterson non era dalla parte del torto. Se si voleva rendere la fiducia agli hostelliani avviliti, conveniva rimettere in onore le regole abitualmente rispettate da tutti. Ora, la prima di tutte le regole consacrate dal consenso unanime dei popoli della terra, è il diritto di proprietà. Per questo motivo, il Kaw-djer ascoltò pazientemente le lamentele di Patterson, e lo assicurò che non si trattava di spogliazione, perchè quanto veniva requisito nell'interesse generale, doveva essere pagato a giusto prezzo dalla comunità. L'avaro cessò tosto di protestare, ma invece cominciò a gemere. Tutte le merci erano così rare, e quindi così care all'isola Hoste!… La più piccola cosa vi acquistava valore incredibile… E prima di quietarlo, il Kaw-djer dovette discutere a lungo l'importo della somma da pagare. Poi, raggiunto l'accordo, Patterson stesso aiutò alla consegna. Verso le sei di sera, tutte le provvigioni trovate erano infine depositate sul terrapieno, ove formavano un mucchio considerevole. Il Kaw-djer, dopo averle valutate con un'occhiata, giudicò che, aggiungendovi le riserve del Borgo-Nuovo, con un razionamento rigoroso, sarebbero durate due mesi. Si procedette immediatamente alla prima distribuzione. Gli emigranti sfilarono, ed ognuno ricevette per sé e per la propria famiglia la parte destinatagli. Essi spalancavano gli occhi, stupiti nello scorgere tanta abbondanza, quando ci si era creduti alla vigilia di morire di fame. Si poteva gridare al miracolo, un miracolo del quale il Kaw-djer era l'autore.

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Ultimata la distribuzione, quest'ultimo ritornò al Borgo-Nuovo e, in compagnia di Harry Rhodes, visitò Halg, che seguitava a migliorare, vegliato sempre da Tullia e Graziella. Tranquillizzato sul suo conto, il Kaw-djer poté riprendere con fredda ostinazione l'esecuzione del piano, che si era tracciato durante la lunga insonnia della notte precedente. Voltosi verso Harry Rhodes, con voce grave disse: — È giunto il momento di parlare, signor Rhodes. Seguitemi, vi prego. L'espressione severa, anzi dolorosa, del suo viso colpì Harry Rhodes, che obbedì silenziosamente. Scomparvero entrambi nella camera del Kaw-djer, la cui porta venne accuratamente sbarrata. Essa si riaperse un'ora dopo e nulla trapelò di quanto era stato detto durante il colloquio. Il Kaw-djer aveva l'aspetto solito, forse anche più rigido, ma Harry Rhodes appariva come trasfigurato dalla gioia. Dinanzi all'ospite che l'aveva ricondotto fino alla soglia della casa, egli si inchinò con una specie di deferenza, prima di stringere calorosamente la mano che gli veniva tesa. Poi, mentre si congedava: — Contate su di me — disse. — Ci conto — rispose il Kaw-djer, seguendo con lo sguardo l'amico che si allontanava nel buio. Quando Harry Rhodes fu scomparso, venne la volta di Karroly. Trattolo in disparte, gl'impartì ordini, che l'Indiano ascoltò col rispetto abituale, poi, infaticabile, attraversò un'ultima volta la pianura ed andò, come la notte prima, a dormire sul terrapieno di Liberia. All'alba dette la sveglia. E i coloni, convocati, si riunirono in piazza. — Hostelliani — disse in mezzo a un silenzio profondo — per l'ultima volta vi sarà fatta una distribuzione di viveri. Da ora in avanti, i viveri verranno venduti, al prezzo che io fisserò, a profitto dello Stato. Il danaro non manca a nessuno, e nessuno quindi arrischia di morire di fame. D'altronde la colonia ha bisogno di braccia. Tutti coloro che si presenteranno, saranno

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impiegati e pagati. A partire da questo momento il lavoro è legge. In questo mondo non è possibile accontentare tutti e non è da dubitare che il breve discorso non spiacesse enormemente a qualcuno; ma, all'opposto, galvanizzò la maggioranza dei convocati. Le fronti si rischiararono, le schiene si raddrizzarono, come sotto l'infusione di nuove forze. Finalmente si usciva dall'inazione! Si aveva bisogno di loro! Sarebbero serviti a qualche cosa. Non erano più inutili. Acquistavano, in una sol volta, la certezza del lavoro e della vita. Un «Urrà!» formidabile uscì da centinaia di petti, e mille braccia, muscoli induriti e pronti all'azione, si tesero verso il Kaw-djer. Nello stesso momento, quasi rispondendo alla folla, un debole grido di richiamo risuonò nella lontananza. Il Kaw-djer si voltò e scorse sul mare la Wel-Kiej, di cui Karroly teneva il timone. Harry Rhodes, ritto a poppa, agitava la mano in segno di saluto, e la scialuppa, con tutte le vele spiegate, si allontanava nel sole.

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II.

LA CITTÀ NASCENTE.

Il Kaw-djer organizzò immediatamente il lavoro. Tutti quelli che si offrirono e, bisogna dirlo, fu la grande maggioranza dei coloni, vennero accettati. Divisi in squadre, sotto l'autorità di dirigenti, alcuni si dedicarono a tracciare una strada carrozzabile che doveva riunire Liberia al Borgo-Nuovo; altri furono adibiti al trasporto delle case smontabili, fino allora rizzate a caso, e che si trattava di disporre adesso in maniera più logica. Il Kaw-djer indicò i nuovi piazzamenti, taluni paralleli, tali altri orizzontali all'antica casa di Dorick, la quale cominciava già ad essere edificata press'a poco nel posto occupato prima dal «Palazzo» di Beàuval. Ma sorse subito una difficoltà: la mancanza di attrezzi necessari a tale lavoro. Gli emigranti, che per una causa o per l'altra avevano dovuto abbandonare le proprie imprese nell'interno dell'isola, non s'eran data la pena di riportare gli attrezzi precedentemente adoperati. Bisognò andarli a prendere, così che il primo lavoro della maggior parte degli operai fu precisamente rivolto a procurarsi gli arnesi necessari. Si fu dunque obbligati a rifare una volta ancora la strada, così penosamente percorsa durante il ritorno a Liberia. Ma la primavera era venuta, non mancavano i viveri e la certezza di guadagnarsi la vita rendeva i cuori leggeri. In una diecina di giorni, anche gli ultimi erano rientrati e il lavoro fu iniziato febbrilmente. La strada si allungò a vista d'occhio. Le case si raggrupparono a poco a poco, armoniosamente circondate da vasti spazi, i giardini dell'avvenire, separate da larghe vie che davano a Liberia arie da città, anziché aspetto di accampamento provvisorio. Nello stesso tempo, ci si occupava

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a togliere le immondizie e i detriti ammucchiati dalla passata incuria degli abitanti.

L'antica casa di Dorick, cominciata per prima, fu anche la prima ad essere abitata. Non c'era voluto gran tempo per smontare la leggera costruzione e per riedificarla nella nuova località, benché l'avessero considerevolmente ingrandita. Certo, non si poteva dire ultimata; ma le mura erano già rizzate

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e il tetto era a posto, come pure le pareti divisorie interne. Per stabilivirsi, non occorreva aspettare il compimento dei contromuri esterni. Il Kaw-djer ne prese possesso il 7 novembre. La disposizione era semplicissima. Nel centro un magazzino che conteneva lo stock delle provvigioni e intorno al deposito una serie di locali comunicanti fra loro. Le stanze si aprivano sulle facciate Nord, Est ed Ovest: una sola, al Sud, senza uscita all'esterno, restava obbligata alle altre. Alcune iscrizioni, tracciate in lettere dipinte sopra piccole tabelle, indicavano le attribuzioni delle varie sale: Governo, Tribunale, Polizia. Quanto all'ultimo locale nulla ne designava l'uso, ma corse subito la voce che sarebbe stata la Prigione. Così dunque il Kaw-djer non si appoggiava più unicamente sulla saggezza dei suoi simili e, perchè l'Autorità fosse solidamente sostenuta, le dava per base la giustizia, rappresentata, nel senso sociale della parola, dalla Forza e dal Castigo. La sua lunga e sterile rivolta non era giunta che ad applicare, con assoluto rigorismo, quelle regole, senza delle quali l'imperfezione umana ha reso impossibile, fin dai tempi più remoti, ogni civilizzazione ed ogni progresso. Ma alcuni locali e poche iscrizioni che ne indicavano l'uso, non potevano chiamarsi che lo scheletro di un'amministrazione. Occorrevano funzionari e il Kaw-djer li nominò senza ritardo. Hartlepool divenne capo della Polizia, che fu portata a quaranta uomini, scelti, dopo rigorosa selezione, esclusivamente fra le persone ammogliate. Quanto al Tribunale, il Kaw-djer, pur riservandosene la presidenza, ne affidò l'esercizio corrente a Ferdinando Beauval. Certamente tale nomina faceva un po' stupire. Tuttavia non era la prima del genere. Pochi giorni innanzi il Kaw-djer ne aveva fatta un'altra non meno strana. La paga dei salari e la vendita delle razioni rappresentavano un lavoro assorbente. Lo scambio del lavoro e dei viveri, benché l'operazione venisse semplificata dall'intermediario del danaro, esigeva una vera

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contabilità e tale contabilità un contabile. Il Kaw-djer nominò a quel posto John Rame, il quale, in una esistenza di piaceri, aveva consumato salute e ricchezza insieme. Per quale scopo simile degenerato aveva preso parte a una impresa di colonizzazione? Forse non lo sapeva egli stesso, forse per obbedire a sogni imprecisi di vita facile in un paese vago e chimerico. La realtà, infinitamente più dura, gli aveva dato le invernate dell'isola Hoste e quell'essere così debole non era morto per miracolo. Spinto dalla necessità, dopo l'avvento del nuovo regime, aveva tentato invano di unirsi agli sterratori nella costruzione della strada nuova. Fin dalla sera del primo giorno dovette rinunziarvi, affranto di fatica, con le bianche mani lacerate dai duri sassi. Con entusiasmo accettò dunque l'impiego propostogli dal Kaw-djer, e le sue mansioni assorbirono rapidamente la sua insignificante personalità. Egli si sminuì ancor più, si identificò con le colonne di cifre, disparve entro la sua funzione come in una tomba. Non si doveva più udire parlare di lui. Sapere utilizzare per la grandezza dello Stato fino alla più infima delle forze sociali di cui essa dispone, è forse la qualità predominante d'un reggitore di uomini. Dinanzi all'impossibilità di fare tutto da solo, si deve necessariamente circondare di collaboratori e nella loro scelta si manifesta, con maggiore evidenza, il genio del capo. Quelli scelti dal Kaw-djer erano i migliori che fossero disponibili nella situazione in cui lo metteva la sorte. Scopo precipuo era ottenere da ciascuno il massimo rendimento a profitto della collettività. Ora, Beauval, nonostante la sua incapacità sotto altri rapporti, restava pur sempre un avocato di valore, e più che ogni altro dunque possedeva le quanta necessarie ad assicurare il funzionamento della giustizia, pur sotto la sorveglianza del capo, che gli avrebbe impedito di sbizzarrirsi. Quanto a John Rame, costui era il più inutile fra i coloni. C'era da stupirsi che si fosse riusciti a ricavare qualche cosa da tale cencio, senza energia né volontà.

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Mentre l'amministrazione dello Stato hostelhano si organizzava così, il Kaw-dier spiegava attività meravigliosa.. Aveva lasciato definitivamente il Borgo-Nuovo e trasportati i suoi istrumenti, i libri, le medicine al «Governo» — così si chiamava già l'antica casa di Lewis Dorick. Egli vi dormiva anche, ogni giorno, poche ore. Il resto del tempo lo passava un po' dappertutto. Incoraggiava gli operai, risolveva le difficoltà, mano mano che sorgevano, manteneva con calma e fermezza il buon ordine e la concordia. Nessuno avrebbe osato sollevare una contestazione, o iniziare una contesa, in sua presenza. Bastava che comparisse, perchè il lavoro si facesse più attivo, perchè i muscoli rendessero il loro massimo sforzo. Certo, fra quel popolo miserevole, che si era assunto di guidare verso destini migliori, la maggior parte ignorava quale dramma si era svolto nella sua coscienza, e se anche l'avesse conosciuto, non era sufficentemente psicologa e troppo mancava di idealità per supporre soltanto quali rovine vi aveva causato un conflitto di pure astrazioni, così diverso dalle loro preoccupazioni materiali. Nondimeno, ad essi sarebbe solo bastato guardare il loro capo, per comprendere che lo divorava un dolore segreto. Il Kaw-djer, che non era mai apparso un uomo espansivo, sembrava ora di marmo. Il viso impassibile non sorrideva mai; le labbra non si schiudevano se non per dire l'indispensabile, con un minimo di parole. E, forse, tanto a motivo del suo aspetto quanto della sua forza erculea e della forza armata di cui disponeva, egli appariva temibile. Ma, se tutti lo temevano, tutti ne ammiravano pure l'intelligenza e l'energia e lo amavano per la bontà che si sentiva pulsare sotto quell'atteggiamento glaciale, per tutto il bene già ricevuto e per quello da ricevere ancora. Le molteplici occupazioni non esaurivano infatti l'attività del Kaw-djer e il capo non aveva fatto torto al medico. Non un giorno passava, senza che egli non visitasse gli ammalati e i feriti della sommossa. Del resto essi diminuivano a poco a poco. Sotto la triplice influenza della stagione più mite, della

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pace morale e del lavoro, la salute pubblica migliorava rapidamente. Fra tutti gli ammalati e i feriti, Halg, s'intende, era il più caro. Con qualsiasi tempo, per quanto fosse affaticato, egli si rendeva mattina e sera al letto del giovane Indiano, dal quale Graziella e sua madre non si allontanavano mai. Aveva la felicità di constatare un miglioramento progressivo. Si poté essere presto sicuri, che la ferita del polmone cominciava a cicatrizzarsi e il 15 novembre Halg poté infine lasciare il letto, dove giaceva da quasi un mese. In quel giorno, il Kaw-djer si recò nella casa abitata dalla famiglia Rhodes. — Buon giorno, signora Rhodes!… Buon giorno, ragazzi — disse entrando. — Buon giorno, Kaw-djer — gli si rispose in coro. In quella cordiale atmosfera, egli perdeva un poco della sua freddezza. Edward e Clary si strinsero vicini a lui ed egli baciò paternalmente la fanciulla e accarezzò il viso del giovinetto. — Finalmente eccovi, Kaw-djer!… — esclamò la signora Rhodes. — Vi credevo morto. — Ho avuto molto da fare, signora Rhodes. — Lo so, Kaw-djer, lo so — approvò la signora Rhodes. — Fa lo stesso, sono contenta di vedervi… Spero che mi darete notizie di mio marito. — Vostro marito è partito, signora. Ecco tutto ciò che posso dirvi. — Grazie mille dell'informazione!… Resta da sapere quando ritornerà. — Non tanto presto, signora Rhodes. La vostra vedovanza non sta certo per finire. La signora Rhodes sospirò tristemente. — Non bisogna addolorarsene, signora — riprese il Kaw-djer. — Tutto si accomoda con la pazienza… Del resto vi porto da lavorare, vale a dire distrazione. Dovrete traslocare, signora Rhodes. — Traslocare!…

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— Sì… Per venire a stabilirvi a Liberia. — A Liberia!… E cosa ci verrei a fare? — A commerciare, signora Rhodes. Sarete, semplicemente, la commerciante più considerata del paese, anzitutto per l'eccellente ragione che non ve ne sono altre, ed anche perchè, come spero, i vostri affari prospereranno in modo straordinario. — Commerciante!… I miei affari?… — ripeté stupita la signora Rhodes. — Ma quali affari, Kaw-djer? — Quelli del bazar Harry Rhodes. Non avrete dimenticato, suppongo, che possedete molta mercanzia eccellente! È venuto il momento di utilizzarla. — Come!… — obbiettò la signora Rhodes. — Volete che ora, tutta sola… senza mio marito… — Vi aiuteranno i figlioli — interruppe il Kaw-djer. — Hanno l'età per lavorare e ora qui lavorano tutti. Non voglio oziosi sull'isola Hoste. La voce del Kaw-djer si era fatta più seria. Sotto l'amico che consigliava, si sentiva il capo che stava per ordinare. — Anche Tullia Ceroni e sua figlia potranno esservi di aiuto, quando Halg sarà completamente guarito… D'altra parte voi non avete il diritto di lasciare più a lungo inutilizzabili oggetti suscettibili di aumentare il benessere generale. — Ma quegli oggetti rappresentano quasi tutta la nostra sostanza — obbiettò la signora Rhodes, la quale sembrava assai turbata. — Che dirà mio marito, quando saprà che li ho arrischiati in un paese così agitato, ove la sicurezza… — È perfetta, signora Rhodes — terminò il Kaw-djer: — perfetta, potete credermi. Non c'è paese più sicuro. — Ma, insomma, cosa intendete che io faccia della mia mercanzia? — chiese la signora Rhodes. — La venderete. — A chi? — Agli acquirenti. — Ma ce ne sono? E v'è danaro? — Ne dubitate? Sapete pure che alla partenza ne avevano tutti. Ora se ne guadagna.

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— Si guadagna danaro nell'isola Hoste?… — Sicuramente. Lavorando per la colonia, che impiega e che paga. — Anche la colonia ha danaro, dunque?… Ecco qualche cosa di nuovo, per esempio! — La colonia non ha danaro — spiegò il Kaw-djer — ma se ne procura vendendo i viveri che essa sola possiede. Dovreste saperne qualche cosa, giacché dovete pagare i vostri. — È vero — riconobbe la signora Rhodes. — Ma non si tratta che di uno scambio e se i coloni sono obbligati a rendere, per nutrirsi, quanto hanno guadagnato col loro lavoro, non vedo, in verità, come possano divenire miei clienti. — Siate tranquilla, signora Rhodes. I prezzi furono fissati da me e sono tali da permettere ai coloni qualche piccola economia. — E allora, chi dà la differenza? — Io, signora Rhodes. — Siete dunque molto ricco, Kaw-djer? — Sembra. La signora Rhodes lo guardò con aria stupefatta, ma parve che egli non se ne accorgesse neppure. — È importantissimo, signora Rhodes — riprese poi con fermezza — che il vostro magazzino sia aperto fra breve. — Come vorrete, Kaw-djer — accordò senza entusiasmo la signora Rhodes. Cinque giorni dopo il Kaw-djer era obbedito e quando, il 20 novembre, Karroly ritornò con la Wel-Kiej, trovò il bazar Rhodes in piena attività. Karroly ritornava solo, dopo avere sbarcato il signor Rhodes a Punta-Arenas; egli non poté rispondere niente di più alle domande ansiose della moglie, che chiese spiegazioni, ma inutilmente, anche al Kaw-djer. Questi si accontentò di assicurarla che ella non doveva nutrire inquietudine alcuna, ma armarsi semplicemente di pazienza, perchè l'assenza del signor Rhodes si sarebbe prolungata ancora molto tempo.

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Quanto a Karroly, restava meravigliato di ciò che vedeva. Che cambiamento in meno d'un mese! Liberia divenuta irriconoscibile. Soltanto poche case si drizzavano ai posti di prima. La maggior parte si raggruppavano invece intorno a quella designata sotto il nome di «Governo». Le più prossime alloggiavano le quaranta famiglie, i cui capi, armati con la riserva di fucili, costituivano la Polizia della colonia. Gli altri otto fucili eran stati depositati in un luogo fra l'alloggio del Kaw-djer e quello di Hartlepool, vigilati da parecchi uomini giorno e notte, e la provvigione di polvere fu custodita nel magazzino esistente nel centro dell'immobile, senza via d'uscita all'esterno. Un po' più in là, si apriva il bazar Rhodes, il quale, più di tutto, stupiva Karroly. Per lui nessuno fra i magazzini di Punta Arenas, la sola città veduta dall'Indiano, ne uguagliava lo splendore. Dall'altro lato, verso l'Est e verso l'Ovest, proseguiva il lavoro. Si sterrava il suolo che doveva ricevere le ultime case smontabili e, più lungi, da tutte le parti, si lavorava ugualmente e già altre case, alcune di legno, alcune di muratura, cominciavano a sorgere sopra il terreno. Fra le case, disposte secondo un piano rigoroso, che non lasciava agio ai capricci individuali, si incrociavano vere vie ad angolo retto, sufficentemente larghe da permettere il passaggio simultaneo di quattro veicoli. In verità, tali vie erano ancora un po' fangose e scoscese, ma il continuo passaggio dei coloni ne induriva la terra di giorno in giorno. La strada incominciava nella direzione del Borgo-Nuovo, aveva attraversata la pianura paludosa e raggiungeva già obliquamente il fiume, sulle sponde del quale erano già state accatastate le pietre occorrenti alla costruzione di un ponte più solido del ponticello esistente. Borgo-Nuovo era quasi deserto. Eccettuati i quattro marinai del Jonathan e tre altri coloni, decisi a guadagnarsi la vita

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pescando, gli antichi abitanti l'avevano lasciato per Liberia, chiamativi dalle loro occupazioni. Dal Borgo-Nuovo, divenuto così esclusivamente porto di pesca, partivano ogni mattina le imbarcazioni, le quali rientravano verso sera cariche di pesci che trovavano facili acquirenti.

Tuttavia, nonostante la diminuzione degli abitanti, nessuna casa del sobborgo era stata demolita. Così aveva ordinato il

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Kaw-djer. Anche quella di Karroly esisteva ancora, e l'Indiano ebbe la gioia di trovarvi Halg, quasi completamente guarito. Gli cagionò, invece, grande dolore il ritornarvi senza il Kaw-djer, la cui nuova esistenza lo separava per sempre da lui. Finita la vita comune di tanti anni!… Come era mutato!… Rivedendo il suo fedele Indiano, aveva appena abbozzato un sorriso e acconsentito appena ad interrompere per pochi minuti la sua attività febbrile. In quel giorno, come in tutti gli altri giorni, il Kaw-djer, dopo una mattinata consacrata ai diversi lavori in corso, esaminò la situazione della colonia, tanto dal punto di vista finanziario che da quello dello stato dello stock dei viveri; poi ritornò ai lavori dello stradone. Era l'ora del riposo. Abbandonate le vanghe e le zappe, la maggior parte degli sterratori sonnecchiavano nella bassura, offrendo al sole i petti vellosi; altri mangiavano lentamente la loro razione, scambiando qualche rara parola. Mano mano che il Kaw-djer passava, le persone stese si rizzavano, quelli che parlavano s'interrompevano e tutti si cavavano il berretto, accompagnando il gesto con una parola cordiale. — Salute, Governatore! — dicevano l'uno dopo l'altro gli uomini rudi. Senza fermarsi, il Kaw-djer rispondeva con la mano. Aveva già; percorso metà della strada, quando scorse non lungi dal fiume un gruppo di un centinaio d'emigranti fra cui si notava qualche donna. Affrettò il passo. E subito lo colpì il suono di un violino, che partiva da quell'assembramento. Un violino?… Era la prima volta che se ne udiva il canto nell'isola Hoste dopo la morte di Fritz Gross. Si avvicinò al gruppo e tutti si trassero da parte. Due fanciulli occupavano il centro dell'assembramento ed uno di essi suonava, piuttosto stentatamente però. L'altro, intanto, disponeva per terra canestrini di giunchi intrecciati e mazzi di fiori di campo. Erano Dick e Sand…

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Il Kaw-djer, nella tormenta sconvolgitrice della sua vita, li aveva dimenticati. Del resto, perchè avrebbe pensato a questi, piuttosto che agli altri fanciulli della colonia? Anch'essi non mancavano di una famiglia nella persona del bravo e onesto Hartlepool. In verità, il piccolo Sand non aveva perduto tempo. Erano scorsi meno di tre mesi dalla morte di Fritz Gross, e bisognava che quel fanciullo avesse rarissime disposizioni musicali per essere giunto così presto, senza maestro, senza consiglio, a simili risultati. Non che fosse già un virtuoso, né c'era da sperare che lo sarebbe forse divenuto un giorno, perchè gli sarebbe sempre mancata la tecnica elementare; ma suonava con precisione e trovava, senza sembrare cercarle, melodie ingenue, geniali e graziose, che armonizzava d'istinto. Il violino tacque e Dick, che aveva terminato intanto la sua esposizione, prese la parola. — Onorevoli Hostelliani! — disse con enfasi comica, ergendosi tutto sulla piccola persona. — Il mio socio, più specialmente incaricato della parte artistica e musicale della Ditta Dick e C.°, l'illustre maestro Sand, violinista onorario di Sua Maestà il Re del Capo Horn ed altri luoghi, ringrazia le Signorie Vostre dell'attenzione accordatagli… Qui Dick si lasciò sfuggire un «auff!» sonoro, trasse il fiato e continuò con maggior slancio. — Il concerto, onorevoli Hostelliani, è gradito, ma così non è per le mercanzie, le quali sono, oso dirlo, ancora più meravigliose e soprattutto più solide. La Casa Dick e C.° mette in vendita oggi mazzi di fiori e canestri. Questi riusciranno assai comodi per andare al mercato… quando ce ne sarà uno nell'isola Hoste! Un cent (cinque centesimi) il mazzolino!… Un cent il canestro!… Presto, onorevoli Hostelliani! La mano in tasca, prego!… Ciò dicendo, Dick faceva il giro del circolo presentando i campioni della mercanzia mentre, per ravvivare l'entusiasmo, il violino si metteva a suonare più forte di prima.

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Gli spettatori ridevano, e, dai loro discorsi, il Kaw-djer comprese che essi non assistevano per la prima volta a una scena di tal genere. Dick e Sand avevano senza dubbio l'abitudine di percorrere i posti di lavoro nelle ore di riposo, e di praticarvi quel commercio strano. Per un miracolo, egli non li aveva veduti ancora. Intanto Dick, in un batter d'occhio, aveva venduto mazzi e canestri. — Non resta più che un paniere, signore e signori — annunziò. — È il più bello. Per due cents l'ultimo e il più bel paniere! Una massaia pagò i due cents. — Grazie mille, signore e signori! Otto cents!… È una ricchezza!… — esclamò Dick, abbozzando un passo di giga. La giga fu interrotta recisamente. Il Kaw-djer aveva afferrato per l'orecchio il ballerino. — Che vuol dir ciò? — chiese con severità. Con un'occhiata sorniona, il fanciullo si sforzò di indovinare l'umore reale del Kaw-djer, poi, senza dubbio rassicurato, rispose con la maggior serietà: — Lavoriamo, Governatore. — È questo che tu chiami lavorare? — esclamò il Kaw-djer liberando il prigioniero. Dick ne approfittò per voltarsi completamente e, guardando bene in faccia il Kaw-djer: — Ci siamo dati un'occupazione — disse. — Sand suona il violino, io sono mercante di fiori e panieraio… Talvolta facciamo qualche commissione… oppure vendiamo le conchiglie… Io so anche ballare… faccio certi giri… Ciò si chiama lavorare, non è vero, Governatore?… Il Kaw-djer sorrise suo malgrado. — Infatti… — disse poi. — Ma perchè avete bisogno di danaro? — Per il vostro contabile, per il signor John Rame, Governatore. — Come! — esclamò il Kaw-djer, — John Rame vi prende il danaro?…

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— No, egli non ce lo prende, Governatore — replicò Dick, — ma lo pretende per le razioni. Il Kaw-djer rimase profondamente colpito. Egli ripeté: — Per le razioni?… Voi pagate il vostro cibo!… Ma non abitate più insieme ad Hartlepool? — Sì, Governatore, ma non fa niente… E Dick gonfiò le guance e, imitando il tono di voce del Kaw-djer, disse con impagabile gravità: — Il lavoro è legge! Sorridere o adirarsi?… Il Kaw-djer si decise a sorridere. Non era infatti possibile l'esitazione. Dick non aveva evidentemente l'intenzione di canzonare. E allora, perchè biasimare quei due fanciulli così desiderosi di «sbrogliarsi», mentre tanti altri, maggiori di essi, propendevano ad adagiarsi sulle spalle altrui? Egli chiese: — Il vostro lavoro vi rende, almeno, quanto vi abbisogna per vivere? — Lo credo bene! — affermò Dick con importanza. — Su per giù dodici cents al giorno, talvolta anche quindici… Abbastanza perchè un uomo possa viverci! — aggiunse con la massima serietà. Un uomo!… Dall'uditorio partì una risata sonora; Dick, offeso, si guardò intorno. — Cos'hanno quegli idioti là? — mormorò fra i denti con rabbia. Il Kaw-djer lo ricondusse alla questione. — Quindici cents, infatti, non c'è male — disse. — Però guadagnereste di più, aiutando i muratori o gli sterratori. — Impossibile, Governatore, — replicò Dick vivamente. — Perchè impossibile? — insisté il Kaw-djer. — Sand è troppo piccolo. Non ne avrebbe la forza — spiegò Dick, con voce che esprimeva una vera tenerezza, improntata tuttavia d'una sfumatura di sdegno. — E tu? — Oh!… Io!… Bisognava intendere il tono della sua voce!… Egli, certo, avrebbe avuto la forza e dubitarne equivaleva ad un'ingiuria.

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— Allora?… — Ma io non so… — balbettò Dick tutto pensoso. — È una cosa che non mi va… Poi, come in una esplosione: — Io, Governatore, amo la libertà! Il Kaw-djer considerava con interesse quel piccolo ingenuo che, con la testa nuda, i capelli sconvolti dalla brezza, gli stava ritto dinanzi, senza abbassare gli occhi vividi. Egli si riconosceva in quella natura generosa, ma eccessiva. Anch'egli aveva amato soprattutto la libertà, anch'egli si era sentito insofferente di qualsiasi freno e la costrizione, apparendogli come cosa odiosa, l'aveva trascinato a sentire una ripugnanza per l'intiera umanità. Ma l'esperienza gli aveva mostrato il suo errore, dandogli la prova che gli uomini, lungi dall'avere l'insaziabile bisogno di libertà ch'egli supponeva in loro, possono amare, invece, un giogo il quale li faccia vivere, e come sia bene talvolta che i fanciulli grandi e i piccoli abbiano un padrone. Egli replicò: — La libertà, figliolo, bisogna anzitutto guadagnarsela, rendendosi utili agli altri e a se stessi e perciò è necessario cominciare a obbedire. Andrete a cercare Hartlepool da parte mia e gli direte che vi occupi secondo le vostre forze. Del resto io mi occuperò perchè Sand possa continuare a studiare la musica. Andate, figlioli! Tale incontro fece riflettere il Kaw-djer sopra un problema, che importava risolvere. I fanciulli pullulavano nella colonia. Disoccupati, lontani dalla sorveglianza dei genitori, erravano dalla mattina alla sera. Per fondare una stirpe, urgeva prepararne le generazioni future a raccogliere la successione dei predecessori. Si imponeva quindi la pronta creazione della scuola. Ma egli non poteva fare tutto in una sol volta e, per quanto fosse grande l'importanza della questione, ne rimise l'esame al suo ritorno da un giro d'ispezione che doveva compiere nell'interno dell'isola. Da. quando aveva assunto il potere,

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progettava tale viaggio d'ispezione; viaggio che, a motivo di preoccupazioni più urgenti, era stato costretto a rimandare di giorno in giorno, Ora poteva allontanarsi senza imprudenza. La macchina aveva ricevuto l'impulso sufficente a farla funzionare da sola per un certo periodo di tempo. Due giorni dopo l'arrivo di Karroly, stava alfine per partire, quando un incidente lo costrinse a un nuovo ritardo. Un mattino la sua attenzione fu attratta dal rumore di un alterco violento. Direttosi dal lato da cui giungeva il baccano, scorse un centinaio di donne che discutevano animatamente davanti a una chiudenda di tavole che sbarrava loro la via. Il Kaw-djer non comprese subito. Tale chiudenda limitava il recinto di Patterson, ma nei giorni precedenti non gli era sembrato che si spingesse così in avanti. Lo informarono subito. Patterson, dedicatosi fino dalla precedente primavera alla orticoltura, aveva visto, in quell'anno, i suoi sforzi coronati dal successo. Il raccolto di quell'infaticabile lavoratore era stato abbondante e, dopo la caduta di Beauval, gli abitanti di Liberia acquistavano regolarmente da lui legumi freschi. La buona riuscita si doveva anzitutto alla località. Situata proprio sulla riva del fiume, vi si trovava acqua in, abbondanza, e la sua situazione privilegiata provocava appunto l'attuale conflitto. Le coltivazioni di Patterson, estese sopra uno spazio di due o trecento metri, comandavano l'unico punto ove il fiume fosse accessibile nelle adiacenze immediate di Liberia. All'ingiù, il fiume era limitato, sulla riva destra, da una pianura paludosa che ne vietava l'accesso fino al piccolo ponte costruito presso alla foce, vale a dire a più di millecinquecento metri all'Ovest. All'insù, la sponda, bruscamente rialzata, piombava a picco per più di un miglio nella corrente. Le massaie di Liberia erano così obbligate ad attraversare il recinto di Patterson per attingere l'acqua necessaria ai bisogni della cucina e per questo, fino allora, il proprietario del posto aveva praticato un passaggio nella barriera che lo cintava. Ma,

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alla fine, si era accorto, che quel via-vai incessante attraverso la sua proprietà, attentava ai suoi diritti e causava danni molteplici. Nella notte precedente, con l'aiuto di Long, egli aveva quindi sbarrato solidamente l'apertura con grande collera e grave delusione delle massaie venute di buonora ad attingere. La presenza del Kaw-djer valse a ristabilire la calma e ci si rimise alla sua giustizia. Egli ascoltò, pazientemente, le ragioni pro e contro, poi emise la sentenza, che con sorpresa generale fu favorevole a Patterson. Per la verità, il Kaw-djer decise che la chiudenda fosse subito abbattuta e uno spazio di venti metri di larghezza fosse reso alla pubblica circolazione, ma riconobbe i diritti del proprietario a una indennità per la parte di terreno coltivato di cui si doveva privare nell'interesse pubblico. L'ammontare di tale indennità, sarebbe stata fissata nelle forme regolari. Non mancavano giudici nell'isola Hoste e Patterson venne invitato a interpellarli. La causa si discusse nello stesso giorno e fu la prima giudicata da Beauval. Dopo un contraddittorio, egli condannò lo Stato hostelliano a pagare una indennità di cinquanta dollari. La somma venne versata subito all'Irlandese, che non cercò di dissimulare la sua soddisfazione. L'incidente fu variamente commentato, ma, in generale, si approvò assai il modo con cui era stato deciso. Si ebbe la sensazione che nessuno ormai avrebbe potuto venire spogliato di quanto possedeva e la fiducia pubblica se ne avvantaggiò enormemente. Questo risultato, appunto, si proponeva il Kaw-djer. Dopo di che, egli intraprese il suo viaggio. Durante tre settimane percorse l'isola in tutti i sensi, fino all'estremità Nord-Ovest e alle punte orientali delle penisole Dumas e Pasteur. L'una dopo l'altra, visitò tutte le fattorie, senza ometterne una sola, tanto quelle spontaneamente abbandonate nel corso dell'inverno precedente, quanto quelle i cui possessori erano stati cacciati al momento dei torbidi.

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Dall'inchiesta risultò infine che quarantadue famiglie, composte di centosessanta individui, soggiornavano ancora nell'interno del paese e si potevano tutte considerare riuscite nelle loro imprese, sebbene in gradi molto diversi. Alcune dovevano limitare le speranze ad assicurare la propria sussistenza, mentre talune altre, meglio provviste di figliolanza robusta, avrebbero potuto estendere considerevolmente le coltivazioni. I lavori di ventotto famiglie, composte di centodiciassette coloni, costrette all'epoca della sommossa a rifugiarsi in Liberia, e oggi assai compromessi, sembravano pure essere stati assai prosperosi nel momento in cui avevano dovuto abbandonarli. E finalmente centonovantasette tentativi non erano riusciti a nulla e i loro proprietari, eccettuati una quarantina ch'erano morti, in numero di settecentottanta, avevano successivamente cercato rifugio alla costa, nel corso dell'inverno. Le informazioni non mancavano al Kaw-djer. I coloni si mettevano premurosamente a sua disposizione. L'entusiasmo era unanime, quando si conosceva la nuova organizzazione della colonia, ed aumentava man mano che egli esponeva i suoi progetti. Così, dopo la sua partenza, si riprèndeva il lavoro con ardore decuplicato dalla speranza. Di tutto quanto osservava e udiva, il Kaw-djer prese nota minuziosamente; nello stesso tempo rilevava un piano sommario di parecchie coltivazioni e delle rispettive situazioni. Utilizzò poi tali documenti al suo ritorno. In pochi giorni tracciò uno schema dell'isola, approssimativo dal punto di vista geografico ma di esattezza più che sufficente dal punto di vista delle imprese agricole limitrofe; poi suddivise la metà dell'isola fra centosessantacinque famiglie, che scelse a suo criterio e alle quali accordò concessioni regolari. Dare alla proprietà tale solida base, voleva dire compiere una vera rivoluzione. Al regime della volontà arbitraria egli sostituiva la legalità, alla possessione di fatto, un titolo inoppugnabile anche da parte di colui che l'aveva concesso.

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Perciò, quei semplici fogli di carta furono ricevuti dai beneficiari con altrettanta gioia, forse, quanto i campi che rappresentavano.

Fino allora, erano vissuti senza stabilità, nell'incertezza del domani. Quei pezzi di carta cambiavano tutto. La terra diveniva loro proprietà; avrebbero potuto legarla ai loro figli.

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Si stabilivano, prendevano radice, diventavano effettivamente Hostelliani. Il Kaw-djer cominciò col consolidare i diritti delle quarantadue famiglie che non avevano abbandonate le loro zolle e per ristabilire quelli dei ventotto agricoltori che le avevano abbandonate soltanto sotto la minaccia dei sovvertitori. Ciò fatto, scelse nella rimanenza novantacinque famiglie che gli parvero degne di essere ricompensate della loro mala sorte. Non si occupò affatto delle altre. Era cosa arbitraria, e non fu la sola. Se dell'uguaglianza non si tenne conto nella ripartizione delle concessioni, essa non fu neppure rispettata dal punto di vista della importanza. Ai primi il Kaw-djer lasciò intatto il terreno sul quale si erano stabiliti fin dall'inizio, mentre diminuiva la superficie attribuita ai secondi. Nello stesso tempo aumentò considerevolmente alcune coltivazioni. In ogni decisione, egli non obbedì che a una legge unica, l'alto interesse della colonia. A quelli che avevano dimostrato maggiore intelligenza e forza e arditezza, le concessioni più larghe. Nulla, invece, a coloro dei quali aveva potuto constatare l'incapacità e che condannava, senza scrupolo, a restare proletari e salariati fino alla morte. Il salariato, infatti, stava necessariamente per fare la sua comparsa sull'isola Hoste. Alcune aziende, quelle per esempio delle quattro famiglie di cui i Rivière formavano il centro, erano di tale importanza e così prospere, da bastare a occupare parecchie centinaia di operai. Il lavoro dunque non sarebbe mancato a coloro che preferivano quello dei campi a quello della città. Per la seconda volta Liberia si spopolò. Ogni titolare, col proprio documento in tasca, se ne partiva insieme ai suoi e ben provvisto di viveri, che potevano — così assicurava il Kaw-djer — essere ulteriormente rinnovati. Alcuni fra quelli che non erano stati favoriti li imitarono, andando a lavorare a giornata nelle campagne.

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Il 10 gennaio la popolazione si ridusse a circa quattrocento abitanti, dei quali centocinquanta uomini atti al lavoro. Gli altri, forse un po' meno di seicento, comprese le donne e i bambini, si erano disseminati nell'interno. Come il Kaw-djer si era persuaso durante il suo viaggio, la popolazione totale non raggiungeva effettivamente il migliaio. Gli altri erano morti, e di essi quasi duecento nel solo inverno ora trascorso. Un'altra simile ecatombe, e l'isola Hoste sarebbe tornata deserta. Il lavoro risentì della diminuzione dei lavoratori, ma il Kaw-djer non parve preoccuparsene. Si comprese presto la sua tranquillità. Dopo pochi giorni, il 17 gennaio, un piroscafo, una bella nave di duemila tonnellate, gettava l'ancora dirimpetto al Borgo-Nuovo. Il giorno dopo cominciò Io scarico e gli Hostelliani meravigliati videro sfilare ricchezze incalcolabili. Dapprima il bestiame: montoni, cavalli e perfino due cani da pastore. Poi materiale agricolo, aratri, erpici, trebbiatrici, falciatrici; semenze di ogni genere; viveri in quantità considerevole; vetture e carretti; metalli: piombo, ferro, acciaio, zinco, stagno, ecc.; attrezzaggio minuto, martelli, seghe, lime, bulini; macchine utensili: fucine, foratrici, trapani, torni da legno e da metallo e molte altre cose ancora. Il piroscafo conteneva altresì duecento uomini, per metà sterratori e per metà muratori. Ultimato lo scarico della nave, si unirono ai coloni e i lavori, affidati a quattrocento cinquanta braccia robuste, ricominciarono a progredire rapidamente. In pochi giorni la strada del Borgo-Nuovo fu compiuta. Mentre i muratori iniziavano la costruzione del ponte e delle case, 'si preparava verso l'interno una seconda strada, che, suddivisa in numerose ramificazioni, doveva serpeggiare più tardi fra le aziende agricole e portare la vita a traverso l'isola, arterie e vene del gran corpo già inerte. Ma ai Liberiani erano serbate altre sorprese. Il 30 gennaio giunse un secondo piroscafo. Veniva da Buenos-Ayres e portava, oltre ad oggetti analoghi ai precedenti, un carico importante, destinato al bazar Rhodes. C'era di tutto, persino

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futilità: piume, merletti e nastri, dei quali ormai si poteva ornare la civetteria delle Hostelliane. Dal secondo steamer sbarcarono pure altri duecento lavoratori e duecento altri da un terzo che si ancorò nella rada il 15 febbraio. A datare da quel giorno, si dispose di oltre ottocento braccia. Il Kaw-djer giudicò il numero sufficiente per iniziare la realizzazione di un grande progetto. Ad ovest della foce del fiume furono gettati i primi filari di pietre d'una diga, che, in un avvenire prossimo, doveva trasformare la piccola insenatura del Borgo-Nuovo in un porto vasto e sicuro. Così, a poco a poco, sotto lo sforzo di centinaia di braccia guidate da una sola volontà, la città sorgeva dal nulla e prosperava.

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III.

L'ATTENTATO.

— Così non si va più avanti! — esclamò Lewis Dorick, che i compagni approvarono con gesto energico. Finita la giornata di lavoro, Dorick, i fratelli Moore e Sirdey passeggiavano tutti e quattro a sud di Liberia, sulle prime chine delle montagne che si staccavano dalla catena principale della penisola Hardy, e si perdevano lontano nel mare formando l'ossatura della punta dell' Est. — No, così non può durare! — ripeté Lewis Dorick con collera crescente. — Noi non siamo uomini, se non mettiamo a posto quel selvaggio che ci impone le sue leggi! — Ci tratta come cani — ribatté Sirdey. — Si è meno di niente… «Fate questo…», «Fate quello…» vi dice senza neppure guardarvi. — A quale titolo, poi, ci comanda? — chiese Dorick rabbiosamente. — Chi è che lo ha nominato Governatore? — Non io — disse Sirdey. — Né io — disse Fred Moore. — Né io — confermò suo fratello William. — Né voi, né nessuno — concluse Dorick. — Non è stupido quel temerario!… Non ha aspettato che gli si desse il posto, se l'è preso! — Non è legale — protestò con tono sentenzioso Fred Moore. — Legale!… Perbacco! Se ne ride lui! — rispose Dorick. — Perchè dovrebbe prendersi soggezione di montoni che gli tendono il dorso per farsi tosare!… Ha chiesto forse- il nostro parere per ristabilire la proprietà? Prima, eravamo tutti eguali: ora ci sono ricchi e poveri.

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— E i poveri siamo noi! — constatò malinconicamente Sirdey… — Tre giorni fa — aggiunse indignato — mi annunziò che la mia giornata sarebbe stata ridotta di dieci cents… — Come!… Senza spiegarne il motivo?… — Sì. Pretende che io non lavori abbastanza… Faccio almeno tanto quanto lui, che passeggia da mattina a sera con le mani in tasca… Dieci cents di ribasso sopra una giornata di mezzo dollaro!… Se conta su di me per i lavori del porto, può aspettare!… — Creperai di fame — replicò freddamente Dorick. — Dannazione!… — bestemmiò Sirdey stringendo i pugni. — A me — disse William Moore — ha fatto le sue osservazioni quindici giorni fa. Ha trovato che io mancavo di rispetto a John Rame, il custode del magazzino. Pare che disturbassi il Signore… Se aveste veduto!… Altro che un imperatore!… Bisogna pagare la loro robaccia e dire ancora grazie! — A me — disse a sua volta Fred Moore — è toccata la settimana scorsa… a proposito di uno scambio di pugni con un compagno… Non si ha più nemmeno il diritto di bastonarsi tra buoni amici?… No; i suoi fidi mi hanno agguantato!… A momenti mi facevano dormire in guardina… — Qui si è servi ormai! — concluse William Moore. — Schiavi! — borbottò Fred Moore. Tale l'argomento che in quella sera essi discutevano per la centesima volta e che era il tema quasi esclusivo dei loro discorsi quotidiani. Decretando e poi imponendo la legge del lavoro, il Kaw-djer aveva; necessariamente leso un certo numero di interessi particolari, specie quelli degli infingardi, che avrebbero preferito vivere alle spalle altrui. Da ciò non poche ire. Intorno a Dorick gravitavano i malcontenti. La sua banda ed egli stesso tentarono invano di continuare a vivere come in passato. Le antiche vittime, così docili, avevano preso coscienza dei loro doveri, ma anche dei loro diritti.

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La certezza di essere protetti al bisogno, armava di artigli gli agnelli di un tempo. Gli sfruttatori dovettero dunque rinunziare a qualsiasi; tentativo di sfruttamento e furono costretti a guadagnarsi, al pari degli, altri, il pane col lavoro. Perciò diventavano furiosi, e si abbandonavano a recriminazioni; con le quali sfogavano ed insieme mantenevano la loro crescente esasperazione.; Per la verità, fino allora, tutto si era limitato alle parole. Ma in quella sera le cose sembravano prendere una nuova piega. Le lagnanze cento volte ripetute stavano per tradursi in atti, le ire, addensate, per trascinare alle più gravi risoluzioni. Dorick aveva ascoltato senza interromperli i compagni, che sembrava richiedessero la sua testimonianza ed elemosinassero la sua approvazione. — Queste sono tutte parole — disse infine con voce ironica. — Siete tanti schiavi e meritate la schiavitù. Se aveste un po' di fegato, sareste già liberi da molto tempo. Siete mille, eppure sopportate la tirannia di uno solo! — Cosa vuoi che si faccia? — obbiettò dolorosamente Sirdey. — Il più forte è lui! — Eh via! — replicò Dorick. — La sua forza è tutta nella debolezza dei pulcini bagnati che lo circondano. Fred Moore scosse la testa scetticamente. — Possibile!… — disse. — Ma egli ne ha tanti dalla sua parte. E noi quattro non possiamo da soli… — Imbecille!… — interruppe duramente Dorick. — Essi non appoggiano certo il Kaw-djer, appoggiano il Governatore, Se lo si rovesciasse, essi lo disprezzerebbero. Se io fossi al suo posto, si starebbe ai miei piedi, come noi stiamo ai suoi. — Non dico di no — accordò William Moore un po' sarcastico. — Ma, ecco il busillis: il posto l'occupa lui e non tu. — Non ho bisogno che tu me lo dica — replicò Dorick pallido di collera. — Ed è precisamente questa la questione. Dico una cosa sola, ed è che non dobbiamo curarci del branco di pecore che seguono il Kaw-djer e camminerebbero nella stessa guisa dietro al suo successore.

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Soltanto il capo le rende temibili, e soltanto il capo ci dà noia… Ebbene, sopprimiamolo! Ci fu un momento di silenzio. I tre compagni di Dorick scambiarono uno sguardo spaurito. — Sopprimerlo! — disse Sirdey alla fine. — È facile dirlo… Non calcolare su me però per un lavoro di questo genere!… Lewis Dorick alzò le spalle. — Faremo senza di te, ecco tutto — disse con disprezzo. — E di me — aggiunse William Moore. — Io ci sto — affermò energicamente suo fratello, il quale non aveva dimenticato l'umiliazione che il Kaw-djer gli aveva inflitto… — Soltanto… ecco… mi pare poco facile. — Facilissimo invece — replicò Dorick. — Come? — Semplicissimo! Sirdey intervenne. — Via, via!… Ragioniamo!… Cosa fareste, quando il Kaw-djer fosse stato soppresso, come dice Dorick? — Cosa faremmo? — Sì… Un uomo di meno è un uomo di meno e niente di più. Resteranno gli altri. Dorick ha un bel dire, ma io non sono certo che quella gente là camminerà con noi. — Camminerà! — affermò Dorick. — Uhm!… — borbottò Sirdey un po' scettico. — Ad ogni modo, non tutti. — Perchè no?… Oggi non si ha nessuno, domani si avrebbero tutti… Del resto non fa bisogno di averli tutti. Bastano pochi per dare la spinta. I restanti seguirebbero. — E questi pochi?… — Li abbiamo. — Uhm!… — mormorò Sirdey da capo. — Prima di tutto ci siamo noi quattro — riprese Dorick riscaldandosi nella discussione. — Che contiamo solo per quattro — osservò placidamente Sirdey. — E Kennedy?… Non si può calcolare su lui? — Sì — assentì Sirdey. — Cinque dunque.

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— E Jackson — enumerò Dorick. — Smirnoff, Reede, Blumenfeldt, Loreley? — Dieci. — Ce ne sono ancora. È un conto che bisogna fare. — Allora contiamo — propose Sirdey. — Sia! — accordò Dorick, traendosi di tasca la matita e il taccuino. Sedettero tutti e quattro per terra e con calma fecero l'enumerazione delle forze di cui credevano poter disporre, dopo la soppressione dell'uomo, il quale soltanto, secondo Dorick, rendeva temibili le forze sparse della folla. Ognuno di essi indicava qualche nome, che non veniva scritto sulla nota se non dopo discussione ponderata. Dal punto elevato in cui stavano, si spiegava ai loro sguardi un panorama vasto. Il fiume, proveniente dall'Ovest, scorreva ai loro piedi, poi, curvandosi, volgeva al Nord-Ovest, vale a dire quasi parallelamente a se stesso, verso il Borgo-Nuovo, ove si gettava in mare. Al gomito del fiume si stendeva Liberia, poi, più oltre, la pianura paludosa che separava la città dal fiume. Si era al 25 febbraio 1884: da più di diciotto mesi, dunque, il Kaw-djer aveva assunto il potere e l'opera compiuta in così breve spazio di tempo poteva considerarsi come un prodigio. Nuovi contingenti di operai colmavano continuamente i vuoti lasciati da coloro che non potevano adattarsi all'esistenza dell'isola Hoste e il numero degli abitanti di Liberia, ancora accresciuto, sorpassava il migliaio. Limitata dal fiume all'Ovest, la città si era largamente sviluppata nella direzione opposta e verso il Sud. Ora sembrava effettivamente una città e non più un accampamento. Non vi mancava nulla di quanto è necessario, ed anche soltanto piacevole alla vita. Fornai, droghieri, macellai, assicuravano l'alimentazione pubblica. La campagna hostelliana forniva già la sua parte dei prodotti messi in vendita, e tale parte rappresentava largamente il consumo dei produttori. Nell'anno veniente, secondo ogni probabilità, l'isola sarebbe bastata a sé stessa pel frumento, i legumi e le carni da

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macello, aspettando il giorno non lontano in cui si sarebbe passati dall'importazione all'esportazione. I fanciulli non erravano più vagabondi. Era stata aperta una scuola, della quale il signore e la signora Rhodes assumevano alternativamente la direzione. Dopo l'assenza di un lungo anno, Harry Rhodes, ritornando nell'ottobre precedente, aveva portato seco quantità considerevoli di mercanzie. Appena giunto, dopo una lunga conferenza col Kaw-djer, si era subito consacrato ai suoi affari, senza dare alcuna spiegazione sulla durata insolita del viaggio. Il tempo che il signore e la signora Rhodes dedicavano alla scuola non portava pregiudizio al bazar, del quale si occupavano attivamente Edward e Clary, aiutati da Tullia e Graziella Ceroni e il cui successo aumentava sempre. Un medico, il dottor Samuele Arvidson e un farmacista, venuti da Valparaiso e stabilitisi a Liberia, vi facevano affari d'oro. Erano stati aperti un magazzino di confezioni e un altro di calzature, i quali prosperavano. Coloro fra gli emigranti, che avevano tentato una prima volta di lavorare per proprio conto nelle loro professioni, avevano ricominciato il tentativo con risultato migliore. Liberia possedeva parecchi imprenditori che impiegavano un numero abbastanza grande di operai: un muratore, un carpentiere, due falegnami, un tornitore in legno, due fabbri, dei quali uno assai bene attrezzato. Nelle adiacenze della città, verso il Sud, non lungi dal posto ove stava allora Lewis Dorick insieme ai compagni, si era aperta una fornace che produceva mattoni di ottima qualità. Verso l'Est, alle falde dei monti, erano stati scoperti giacimenti considerevoli di solfato e di carbonato di calce. Non si difettava quindi né di gesso né di calce, e c'era stato anche un audace il quale aveva intrapreso, con mezzi rudimentali, la fabbricazione del cemento, che la costruzione del porto assorbiva in grande quantità. La larga strada che costeggiava la collina era quella stessa che avevano seguito i quattro malcontenti, che poi l'avevano lasciata per prendere una scorciatoia attraverso la montagna.

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Quella strada che seguiva tutte le sinuosità del fiume, scompariva nell'Ovest, un chilometro più lontano, fra due colline. Ma essi non ignoravano come essa si prolungasse al di là e che vi si lavorava senza tregua.

Due mesi prima aveva raggiunto e poi oltrepassato le coltivazioni dei Rivière e da allora, ramificandosi continuamente, continuava a svolgersi verso il Nord.

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Un'altra strada, già tutta compiuta, attraversava il fiume sopra un solido ponte di pietra e riuniva la capitale al sobborgo. Quest'ultimo non aveva subito che pochi mutamenti, ma la diga che si distaccava dalla riva continuava a progredire sul mare. Essa riparava già contro i venti dell'Est la rada del Borgo-Nuovo, trasformandola gradatamente in un porto vasto e tranquillo. In quel giorno si era appunto cominciato ad affondare alcuni piuoli, prima armatura di un argine destinato alla costruzione dello scalo, lungo il quale le navi avrebbero potuto un giorno gettare l'ancora in acqua profonda. Non si era però atteso il compimento dello scalo e della diga per aprire il porto al traffico. L'anno precedente erano giunte tre navi, per conto del Kaw-djer. In quell'anno ne erano venute sette, delle quali due sole noleggiate dall'amministrazione della Colonia. In quel momento, dinanzi al Borgo-Nuovo, stazionava un grande veliero, carico a metà di assi provenienti dalla segheria Rivière, mentre un altro veliero, ultimato il carico della stessa mercanzia, aveva levato l'ancora qualche ora prima e scompariva già dietro la punta dell'Est. Tutto, nello spettacolo che si offriva a Lewis Dorick e ai suoi compagni, denotava con evidenza la prosperità crescente della Colonia. Ma costoro non volevano inchinarsi all'evidenza e l'abitudine rendeva loro familiare d'altra parte l'evoluzione meravigliosa compiuta dalla Colonia. I cambiamenti progressivi passano facilmente inavvertiti e le meraviglie che scorgevano le avevano viste nascere giorno per giorno. E quand'anche col pensiero si fossero riportati all'indomani del naufragio, dal quale ora li separavano quasi tre anni, si sarebbero essi reso conto del progresso avvenuto? Non è certo. Del resto, pel momento, avevano ben altro per la testa. Enumeravano minuziosamente gli abitanti di Liberia, contrassegnandone il nome sulla carta. — Non trovo più nessuno — disse finalmente Sirdey. — Quanti siamo? Dorick contò i nomi scritti sul taccuino.

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— Centodiciassette — disse. — Su mille!… — rimarcò Sirdey. — E dopo?… — replicò Dorick. — Centodiciassette è già qualche cosa. Credete che il Kaw-djer ne abbia di più? Intendo dire gente decisa e pronta a tutto? Gli altri sono pecore che seguiranno chiunque. Sirdey non rispondeva, ma non sembrava convinto. — Ma bastino le chiacchiere! — concluse Dorick. — Siamo in quattro. Mettiamo la faccenda in votazione. — Io — esclamò Fred Moore alzando il grosso pugno, — ne ho abbastanza. Accada quel che voglia accadere, io voto perchè si agisca. — Ed io lo stesso — disse il fratello. — Con me, fanno già tre voti… e tu, Sirdey? — Farò come gli altri — rispose senza entusiasmo l'antico cuoco. — Ma… Dorick gli troncò la parola: — Niente ma. Quello che è votato è votato. — Bisogna però — insisté Sirdey, senza lasciarsi intimidire — convenire sui mezzi. Sbarazzarsi del Kaw-djer è presto detto. Resta a sapere come. — Ah, se avessimo qualche arma… un fucile… un revolver… una pistola almeno!… — esclamò Fred Moore. — Purtroppo non ne abbiamo — disse Sirdey con flemma. — Il coltello? — suggerì William Moore. — Ottimo per farti beccare, mio caro — replicò Sirdey. — Sai bene che il Kaw-djer è costudito come un re… Senza calcolare che è di costituzione da dare molto filo da torcere, anche ponendoci all'opera in quattro. Fred Moore aggrottò le sopracciglia e strinse i denti, accentuando la minaccia con un gesto violento. Sirdey aveva ragione. Egli conosceva la forza del Kaw-djer, e ricordava come il suo grosso corpo avesse pesato ben poco nelle mani di quell'uomo.

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— Ho qualche cosa da offrirvi — annunziò Dorick ad un tratto, in mezzo al silenzio che aveva seguito le parole di Sirdey. I compagni si volsero a interrogarlo con lo sguardo. — La polvere. — La polvere?… — ripeterono all'unisono, senza comprendere. Poi l'uno chiese: — Che ne faremo? — Una bomba… Ah! Si dice che il Kaw-djer sia un anarchico pentito. Ebbene, impiegheremo contro di lui l'arma degli anarchici! I compagni di Dorick non sembravano troppo entusiasti. — Chi confezionerà la bomba? — borbottò Fred Moore. — Io certo no! — Io — disse Dorick. — Senza calcolare che forse non ce ne sarà neanche il bisogno. Ho un'idea e, se è buona, il Kaw-djer non salterà solo. Hartlepool e gli uomini che occuperanno il posto di guardia salteranno con lui… Altrettanti nemici di meno per il giorno successivo. I tre uomini contemplarono il camerata con ammirazione. Sirdey stesso fu conquistato. — Benissimo!… — mormorò, non trovando più nulla da obbiettare. Ma si ricredette subito. — Caspita! — esclamò. — Parliamo di polvere come se ne avessimo. — Ce n'è nel magazzino — replicò Dorick. — Non ci resta che! prenderla. — Tu ne parli con disinvoltura!… — replicò Sirdey che sosteneva decisamente la parte dell'oppositore. — Ti pare che la cosa sia agevole?… Chi se ne incaricherà? — Non io — disse Dorick. — Naturalmente! — approvò Sirdey con ironia. No — spiegò Dorick — io non sono forte abbastanza. E tu neppure: sei troppo poltrone. E nemmeno Fred Moore o William, che sono troppo brutali e malaccorti — E chi allora? — Kennedy. Nessuno fece obbiezione. Sì, Kennedy, antico marinaio svelto, agile, abile nel fare andare le dita, atto a tutti i mestieri, poteva

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riuscire là dove altri avrebbero fallito. La scelta di Dorick era buona. Questi interruppe le sue riflessioni.... Si è fatto tardi — disse: —se credete, domani ci troveremo qui alla stessa ora. Ci sarà anche Kennedy. Gli spiegheremo la faccenda e c'intenderemo su tutto. Avvicinandosi alle prime case, i congiurati stimarono prudente separarsi e il giorno dopo presero le stesse precauzioni per recarsi al convegno. Ognuno uscì dalla città isolatamente e, soltanto quando furono fuori di vista, si avvicinarono poco a poco. Questa volta, erano in cinque, perchè Kennedy, avvisato da Dorick, si era unito al quartetto. — È dei nostri — annunziò Dorick, battendo sulla spalla del marinaio. Furono scambiate cordiali strette di mano, poi, senza perder tempo, si esaminarono i mezzi per condurre a termine il progetto ideato. Il colloquio fu lungo ed era già notte, quando i cinque cominciarono a ridiscendere verso la città. L'accordo era completo e si sarebbe agito nella stessa sera. Benché l'oscurità fosse profonda, si separarono guardinghi e attraverso i campi, l'un dopo l'altro, penetrarono in città, costeggiando il recinto di Patterson. Tutto era silenzioso. Senza essere visti, giunsero fino al Palazzo del Governo, ove dormivano in quel momento il Kaw-djer, Hartlepool e i due mozzi. All'ombra di una casa, i cinque si riunirono, invisibili, e sostarono con l'orecchio teso, con gli occhi fruganti la tenebra… Dinanzi a loro si apriva la porta del Tribunale. Dal posto di polizia, situato sulla facciata opposta, giungevano deboli rumori. Laggiù qualcuno doveva vegliare. Ma da questa parte non c'era nessuno. La via era silenziosa e deserta! Perchè avrebbero custodito la sala del Tribunale? Non conteneva che un tavolo, un rozzo sedile, ed alcune panche fissate al suolo.

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Quando furono ben sicuri che la solitudine era completa, Dorick e Kennedy abbandonarono il loro rifugio e attraversarono rapidamente lo spazio scoperto. In un attimo raggiunsero la porta del Tribunale, che Kennedy cominciò a forzare, mentre Dorick vigilava. Intanto, i fratelli Moore si allontavano, l'uno a destra e l'altro a sinistra, per fermarsi, dopo pochi passi. Dal nuovo posto che occupavano potevano sorvegliare, a un tempo, la facciata principale e la piazza prospiciente al palazzo del Governo, nonché il muro che limitava a sud la prigione e la via che separava questo muro dalle case vicine. Kennedy era ben protetto e al minimo pericolo sarebbe stato prevenuto in tempo. Ma nessun incidente si produsse e l'antico marinaio poté portare a termine comodamente il suo lavoro, facile, del resto, perchè la serratura che chiudeva la porta del Tribunale non era gran che solida e cedé ai primi tentativi. La porta si spalancò sulle tenebre interne. Kennedy entrò, lasciando Dorick a sorvegliare l'esterno. Non ci si vedeva punto nella sala e Kennedy fu obbligato ad accendere una candela di cui s'era munito. Dorick gli aveva minuziosamente spiegato il da farsi ed egli non ebbe esitazioni. Delle tre pareti della stanza nella quale penetrava, quella di destra separava il Tribunale dalla prigione, quella di sinistra era senza essere riuscito in un'impresa che lo squarcio della parete avrebbe e dietro quella che gli stava di fronte, c'era il magazzino. Kennedy attraversò obliquamente la sala fino all'angolo formato dalla connessura di quest'ultima parete con quella della prigione. La prigione era vuota per il momento e nessuno quindi poteva udire. Alla luce della candela egli esaminò a lungo la parete, studiando il mezzo migliore per compiere rapidamente il lavoro. Subito il viso gli si rischiarò. Forare quella parete era un giuoco. Costruita fino dai primi giorni dopo il colpo di Stato del Kaw-djer, in un momento in cui la cosa essenziale era far presto, essa non costituiva un ostacolo molto serio. Si componeva di tavolati verticali incastrati alle estremità nel soffitto e nel piancito, che lasciavano fra loro

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intervalli riempiti con pietrame e calce di qualità scadente e quindi di resistenza relativa. Il coltello di Kennedy intaccò facilmente il cemento e a poco a poco le pietre liberate uscirono dal loro alveolo. Unica cosa temibile poteva essere il rumore della loro caduta. Perciò Kennedy, mano mano che le pietre si smuovevano, le toglieva ad una ad una e le deponeva con precauzione sul pavimento. In un'ora ebbe praticato un buco di dimensioni tali da permettergli il passaggio verticalmente. Anche nel senso della larghezza sarebbe stato sufficiente, senza un travicello che lo attraversava e che bisognava quindi segare. Fu l'operazione più penosa e ci volle un'altr'ora per condurla a termine. Tratto tratto Kennedy si fermava e porgeva orecchio ai rumori esterni. Tutto era tranquillo, nessun richiamo di coloro che stavano in vedetta annunziava l'avvicinarsi di un pericolo. Quando il buco fu largo abbastanza, egli passò dall'altra parte della parete. Là le cose si complicarono. Muoversi senza far rumore in mezzo a tutte quelle casse di merci d'ogni qualità, ingombranti il magazzino, riusciva difficilissimo. Diveniva indispensabile una prudenza estrema; Dove erano stati cacciati i barili di polvere?… Non li vedeva da nessuna parte… Eppure dovevano essere là!… Si mise a cercarli. Lentamente, misurando ogni movimento, si insinuò fra le casse, costretto talvolta a scostarle per guadagnare terreno. Passarono quasi due ore. Gli altri si dovevano impazientire per il ritardo ed egli stesso cominciava a disperare e si snervava. La notte avanzava, e presto sarebbe stato giorno. Doveva proprio andarsene senza essere riuscito in un'impresa che lo squarcio della parete avrebbe tradito, rendendo impossibile un nuovo tentativo? Ormai stanco, stava per ritirarsi rassegnato, quando scoperse, infine, quanto cercava. I barili di polvere gli stavano dinanzi. Ce n'erano cinque, allineati in ordine vicino alla porta che si apriva dall'altra parte sul posto di polizia. Kennedy, trattenendo il respiro, udiva gli uomini di guardia parlare fra loro.

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Distingueva perfino le parole. Era necessario, più che mai, agire in silenzio. Sollevò uno dei barili, ma lo ripose subito a terra. Era troppo pesante e un uomo solo non avrebbe potuto portarlo via, senza rumore, attraverso la strada complicata che bisognava seguire. Allora si insinuò fra le casse, raggiunse la sala del Tribunale, e passando la testa nel buco della parete, chiamò Dorick, la cui figura nera si disegnava nel buio meno profondo del di fuori. Questi accorse al richiamo del marinaio: — Come sei stato lungo! — disse sottovoce chinandosi sull'apertura. — Che ti è accaduto? — Nulla — rispose Kennedy sullo stesso tono — ma non è facile navigare qua dentro. — Hai i barili? — No, sono troppo pesanti… Bisogna essere in due… Vieni! Dorick s'introdusse nell'apertura e, guidato da Kennedy, attraversò il deposito. I due uomini presero un barile e, facendolo passare sopra le casse, lo portarono nella sala del Tribunale. Dorick ritornò subito verso la parete. — Dove vai? — chiese Kennedy soffocando la voce. — A prendere un altro barile — rispose Dorick. — Affrettiamoci. Sarà presto giorno. — Un barile! — ripeté Kennedy stupito. — Questo basta a far saltare in aria Liberia intiera! — Voglio prenderne un altro — disse Dorick. — Per che farne? — È un'idea mia… Quando saremo sbarazzati dal Kaw-djer, ci abbisognerà essere i padroni… La polvere potrà servirci. — E intanto dove la metterai? — Ho un nascondiglio sicuro… Non pensarci! Kennedy obbedì di mala voglia. Un quarto d'ora dopo, il secondo barile veniva deposto a lato del primo. Uno di essi fu rapidamente appoggiato contro la parete sinistra del Tribunale in posizione inclinata, poi Kennedy vi praticò un forellino, da cui venne fuori qualche grano di polvere.

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Intanto Dorick si era tolto di tasca una specie di cordone fatto di fili di cotone intrecciati. La miccia era stata precedentemente inumidita. Egli l'asperse di polvere, che vi rimase aderente, poi ne tagliò un pezzetto col coltello e vi dette fuoco a titolo di esperimento. La fiamma guizzò rapida, si propagò, si spense. — Perfetto! — dichiarò Dorick. — Cinque centimetri per minuto. Dunque la treccia intiera ne durerà venti. Più di quanto non ci abbisogni. Si riavvicinò al barile. In quel momento alcunché rumoreggiò all'esterno. Dorick si fermò di colpo. Kennedy e lui si guardarono. Erano lividi… La loro angoscia fu breve. Dorick, riprendendo il suo sangue freddo, si mise a ridere. — Piove — disse alzando le spalle. Andò fino alla porta e guardò fuori. La pioggia cadeva, infatti a rovesci, e il rumore che li aveva spaventati era quello delle gocce percuotenti furiosamente il tetto. Dopo tutto era una circostanza favorevole. La pioggia avrebbe cancellato tutte le tracce e nulla avrebbe potuto denunziarli, ove mai i sospetti si fossero portati sopra di loro. D'altra parte quel rumore avrebbe coperto l'inevitabile crepitìo della miccia. Però non c'era da perder tempo. Il cielo si imporporava già verso l'Est. Fra pochi istanti sarebbe sorto il giorno e Dorick conosceva abbastanza le abitudini del Kaw-djer per ignorare che egli non avrebbe tardato a uscire di casa. — Presto! — ordinò… Svolse la miccia e ne introdusse uno dei capi nel barile, poi accese un fiammifero che avvicinò all'altra estremità. Indi i due uomini uscirono in fretta; Kennedy per il primo, portando il secondo barile, seguito da Dorick che si chiuse la porta alle spalle, meglio che potè. I fratelli Moore e Sirdey stavano fedelmente ai loro posti. Dorick, richiamandoli con un leggero fischio, annunzio con un gesto il successo del tentativo. Subito dopo i cinque banditi si allontanarono rapidamente mentre sulla piazzetta deserta l'uragano continuava a riversare un diluvio di acqua.

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IV.

NELLE GROTTE.

Quando il Kaw-djer uscì dal Palazzo, l'uragano si era calmato. Non pioveva più e il sole, cacciandosi innanzi le nubi, sorgeva dal mare e indorava Liberia coi raggi orizzontali. Il Kaw-djer si guardò intorno. Le strade erano deserte. Come sempre, egli era il primo ad abbandonare il letto. Aspirando profondamente l'aria mattutina, si inoltrò di pochi passi sulla piazza trasformata dall'uragano in un pantano. La porta semi-aperta del Tribunale attirò subito la sua attenzione. Senza dare soverchia importanza a tale trascuratezza, egli si avvicinò alla porta con l'intenzione di chiuderla e si accorse allora, con sua grande sorpresa, che era stata forzata. Come spiegare il fatto? C'erano dunque persone le quali, prive di ogni cosa, sì lasciavano tentare dal misero mobilio di quel locale? Il Kaw-djer spinse la porta e subito scorse il barile. Non comprese subito, ma un esame rapido gli spiegò ogni cosa. La polvere sparsa per terra… la miccia consumata per tre quarti che si snodava sul pavimento… Non si poteva sbagliare: avevano voluto farlo saltare in aria! Tale scoperta lo riempì di stupore. Eh, via! Esistevano dunque coloni che potevano odiarlo fino a quel punto?… Poi riflettè, cercando quali potessero essere gli autori di simile attentato. Certo, non era in grado di accusare nessuno. Tuttavia, conosceva troppo bene la popolazione della città, perchè i suoi sospetti si smarrissero oltre un circolo abbastanza ristretto. Ferdinando Beauval, malgrado le sue nuove funzioni?… Forse, Lewis Dorick?… Più probabilmente. In ogni caso, qualcuno dei loro accoliti.

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Il Kaw-djer percorse la sala con lo sguardo e vide lo squarcio praticato nella parete. L'avventura si spiegava chiaramente. Avevano rubato il barile nel magazzino, lo avevano portato sin dove ancora si trovava, poi il colpevole era fuggito, dopo avere acceso la miccia che doveva produrre lo scoppio della polvere… Ma, contrariamente alle speranze del criminale, l'esplosione non era avvenuta. La miccia, dopo aver bruciato per due terzi della sua lunghezza, si era spenta a contatto d'una pozza d'acqua che ne ricopriva l'ultimo terzo. Di dove era venuta l'acqua? Per saperlo, il Kaw-djer non ebbe che ad alzare la testa. Dal soffitto, fra due travi sconnesse, gemeva tuttora qualche goccia d'acqua piovana. L'uragano aveva contribuito largamente a formare la pozza e a costituire un'insormontabile barriera al progredire del fuoco. Il Kaw-djer non poté reprimere un brivido. Un terrore retrospettivo lo vinceva, pensando, non al proprio pericolo, ma a quello corso da Hartlepool, che dormiva nel palazzo coi suoi due figli adottivi, e dagli uomini di guardia della notte precedente. La loro vita era dipesa da una circostanza fortuita. Senza l'uragano scoppiato alle prime luci dell'alba, nessuno di loro sarebbe sopravvissuto. Dopo tale riflessione, Il Kaw-djer giudicò preferibile tenere segreto il tentativo fallito. Non valeva la pena di dargli pubblicità ed era meglio, in ultima analisi, non gettare il turbamento fra quelle anime semplici. Chiudendosi la porta alle spalle, si recò a svegliare Hartlepool, che condusse al Tribunale mettendolo al corrente dell'avvenimento. Hartlepool rimase atterrito. Egli non poteva, come il suo capo, indicare i colpevoli, ma, al pari di lui, non esitò circa i nomi di coloro dei quali era logico sospettare. Il Kaw-djer, deciso a non dar pubblicità alla faccenda, aiutato da Hartlepool, tappò lo squarcio della parete e riportò il barile di polvere in magazzino. Poté così constatare la scomparsa del secondo barile. Cosa si voleva fare della polvere? Certo, non un buon uso. Tuttavia, mancando le armi da fuoco, essa non era utilizzabile,

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apparentemente almeno, posto che i ladri avrebbero bene dovuto argomentare l'impossibilità d'un secondo attentato simile a quello sventato da un caso favorevole.

Fatta sparire ogni traccia, il Kaw-djer si ritirò nelle sue stanze in compagnia di Hartlepool. La sottrazione del secondo barile di polvere meritava ogni attenzione. Certo i colpevoli meditavano, pur sotto altra forma, il tentativo e conveniva studiare i mezzi atti a sventarlo.

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Dopo avere esaminata la questione sotto tutti gli aspetti, si convenne definitivamente di non rendere noto l'attentato, e di agire anzi con tale prudenza da non attirare l'attenzione. Si decise, in primo luogo, di aumentare le forze di polizia, portandone gli uomini da quaranta a sessanta, o anche più al bisogno. Pel momento ci si sarebbe accontentati di otto guardie supplementari, non avendosi in riserva che otto armi da fuoco, ma si convenne di acquistare al più presto altri duecento fucili, in modo da poter far fronte in avvenire a qualsiasi eventualità. In Liberia erano in giuoco ormai interessi considerevoli, che aumentavano di giorno in giorno e importava essere in condizioni da difenderli al bisogno. Si decise, anche, che gli uomini di polizia da allora in poi dovessero montare la guardia all'aperto, e non in guardina, dandosi il cambio due per due, e passeggiando durante la fazione, facendo la ronda intorno al Palazzo per proteggerlo da ogni sorpresa. Il Kaw-djer non ritenne suo dovere prendere per il momento altre misure, ma Hartlepool si ripromise in pectore di completarle, circondando il suo capo d'una protezione tanto vigile quanto discreta. Quanto a scoprire i colpevoli, non bisognava pensarvi, se non alla condizione di mettere in iscompiglio la città. Non avevano lasciato traccia alcuna, e solo la scoperta del barile di polvere rubata poteva smascherarli. Regolate così le cose, la vita riprese il suo corso normale. I giorni si succedettero ai giorni, cancellando il ricordo di un incidente, al quale il tempo che passava toglieva molta della sua importanza primitiva e del quale la nuova organizzazione rendeva impossibile il ripetersi. Il Kaw-djer, almeno, cessò di pensarvi. Aveva pel capo altre cure. Trascinato dalla sua opera come da un torrente, provava l'ebbrezza sublime dei creatori. Il suo cervello ardente elaborava senza posa imprese nuove e l'esecuzione di un progetto non era ancora compiuta, che già passava a un progetto nuovo.

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Non aveva nemmeno atteso che l'argine della futura calata fosse finito per concepire altri sogni. L'uno, assai realizzabile del resto, consisteva nell'utilizzare una cascata del fiume, situata a parecchi chilometri a monte della città, per la creazione d'una stazione elettrica capace di fornire la luce e la forza motrice. Liberia illuminata ad elettricità!… Chi poteva prevederlo due anni prima? Tuttavia, non era quello il progetto che appassionava di più il Kaw-djer. Ne sognava uno più grandioso. Illuminare Liberia era utile, certamente, ma utile a una piccolissima frazione dell'umanità e, del resto, l'impresa presentava così poche difficoltà da poterla considerare come una semplice distrazione. L'opera che veramente lo appassionava era più generale e più vasta. Interessava l'intiera umanità. Ne doveva la prima idea allo stesso naufragio del Jonathan. Nell'udire i colpi di cannone, il Kaw-djer, lo ricordiamo, aveva acceso un fuoco sulla sommità del capo Horn. Ma ciò non era stato che un espediente del momento e dopo, come prima, nulla si era fatto per avvertire del pericolo le navi in bisogno. L'agonia del Jonathan, infatti, non era stata che una delle innumerevoli scene del dramma che si svolge perennemente in tali paraggi. Centinaia di bastimenti oltrepassano fra la tormenta l'estrema punta dell'America. Meno fortunati del Jonathan, essi non trovano la fiamma che li guidi e troppo spesso ricoprono dei loro frantumi gli scogli dell'arcipelago. La cosa muterebbe però se ogni sera, al calare del sole, un faro sfolgorasse tra i dirupi. Allora le navi, prevenute in tempo, potrebbero prendere il largo e buon numero di naufragi sarebbero per conseguenza evitati. Dal primo giorno in cui il Kaw-djer aveva posto piede sul capo Horn, quell'opera grandiosa lo aveva tentato, pur senza disconoscere le difficoltà, e vi aveva pensato come ad una chimera irrealizzabile. Ma le cose, ora, erano cambiate. Governatore di uno Stato in via di rapida ascesa, egli poteva

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impiegare un numero quasi illimitato di lavoratori. La chimera cessava di essere irrealizzabile. — D'altra parte la questione del danaro, che si imponeva pel passato, era ormai risolta. Tutto autorizzava a supporre, infatti, che il Kaw-djer avesse a sua disposizione risorse considerevoli. Le attestava il prestito fatto allo Stato hostelliano, prestito che ne aveva permesso lo sviluppo. Egli si era invece rifiutato, per molto tempo, ad adoperare tali ricchezze spontaneamente dimenticate, ma ora, dopo una prima utilizzazione, le sue ripugnanze non avevano più ragione di essere. Compiuto il primo sacrificio, nulla si opponeva a un nuovo prelevamento. D'altronde, la crescente prosperità dello Stato hostelliano poteva permettere il pronto rimborso degli anticipi concessi dal suo creatore, che rifuggiva dal tesaurizzare e che professava pel danaro uno sprezzo così disdegnoso. Quale uso migliore avrebbe potuto farne dell'utilizzarlo nella costruzione di un faro in cima al tragico promontorio, sulle cui dure rocce si infrangono tante navi? Tuttavia sussisteva una difficoltà grave. Se l'isola Hoste era libera, l'isola Horn restava chilena. Ma tale difficoltà non era insormontabile. Non era impossibile che il Chili acconsentisse all'abbandono dei suoi diritti sopra una roccia incolta, in considerazione dell'uso che si impegnava di farne il nuovo possessore. Conveniva, ad ogni modo, tentare il negoziato. Ecco perchè la prima nave in partenza portò con sé una nota ufficiale sull'argomento, indirizzata dal Governatore dello Stato hostelliano alla Repubblica del Chili. Mentre il Kaw-djer si assorbiva così nella sua opera, il pericolo, del quale si attenuava il ricordo, restava sospeso sulla sua testa. Gli autori dell'attentato, rimasti impuniti e in possesso del barile di polvere, che costituiva nelle loro mani una terribile minaccia, vivevano liberamente frammischiati alla massa dei coloni. Se il Kaw-djer, giustificando con la tema di turbare la popolazione di Liberia la ripugnanza per ogni misura poliziesca, che persisteva nel fondo del suo cuore come un

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vecchio residuo delle antiche idee libertarie, non si fosse interdetto, fin dall'inizio, il procedere a una inchiesta seria, forse avrebbe posto la mano sul colpevole. Il barile di polvere non stava infatti lontano, perchè Dorick e Kennedy l'avevano trasportato nel mattino stesso dell'attentato in una di quelle grotte della punta dell'Est di cui il Kaw-djer non poteva ignorare l'esistenza, dato che Hartlepool, tempo addietro, aveva deposto in una di esse la riserva dei fucili. Quelle grotte, non lo si sarà forse dimenticato, erano in numero di tre: due inferiori, di cui l'una, che prendeva luce dal versante Sud, comunicava con la seconda, scavata in pieno cuore della montagna; e una superiore, situata una cinquantina di metri più in alto, che si apriva invece sul versante Nord e dominava, per conseguenza, Liberia. Una stretta fessura riuniva i due sistemi. Praticabile al bisogno, nonostante la forte pendenza, la fessura presentava verso la metà del percorso una strozzatura, che obbligava ad arrampicarsi per alcuni metri, pur badando a non sfiorare una roccia in bilico, che, da sola, sosteneva la volta in quel punto è di cui la caduta avrebbe provocato una catastrofe. Hartlepool aveva deposto, in passato, i fucili nella grotta superiore. E in una delle due grotte inferiori Dorick e Kennedy avevano portato la polvere. Non trovarono necessario dissimularla nella seconda, scavata in pieno massiccio da un capriccio della natura. Dopo un esame della prima, senza osservare la fessura che andava a finire sull'altro versante a una altezza maggiore, si erano accontentati di nascondere il barile sotto un mucchio di frondami, lasciandolo nella prima grotta dove, da un'arcata alta e larga, l'aria e la luce penetravano in abbondanza. La loro sorpresa era stata grande, quando, ritornando da tale spedizione il mattino del 27 febbraio, avevano trovato la sede dèi Governo ancora in piedi. Nell'allontanarsi dalla città per sbarazzarsi del barile, poi, nel ritornare, avevano atteso il rombo della esplosione di secondo in secondo. L'esplosione, come si sa, non doveva prodursi e i due malfattori ritornarono alle abitazioni rispettive, senza che accadesse nulla d'insolito.

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Non ci si raccapezzavano più. Tuttavia, per quanto fosse grande la loro curiosità, non si erano affrettati a soddisfarla. L'insuccesso del tentativo giustificava tutti i timori e loro unico obbiettivo fu, innanzi tutto, di passare inosservati. Si frammischiarono quindi agli altri operai e cercarono di evitare tutto quello che potesse attirare l'attenzione su di loro. Nel pomeriggio soltanto, Lewis Dorick osò passare davanti al Palazzo. Da lontano gettò una rapida occhiata verso il Tribunale e scorse il fabbro Lawson intento a riparare la porta forzata. Lawson non sembrava attaccasse importanza speciale al lavoro. Gli avevano ordinato l'applicazione di una serratura nuova, ed egli l'applicava: ecco tutto. La tranquillità di Lawson non rassicurò Dorick. Se riparavano la porta era segno che l'effrazione era nota. Per conseguenza dovevano avere trovato anche il barile e la miccia consumata. Chi aveva fatto la scoperta? Dorick non lo sapeva, ma non dubitava che un avvenimento così grave non fosse stato reso subito noto al Governatore e ne concludeva, con ragione, che avrebbero preso immediate misure precauzionali e, sentendosi colpevole, si giudicava anche in grande pericolo. Un più profondo esame delle cose gli rese il suo solito sangue freddo. Nulla, dopo tutto, provava la sua colpevolezza. Quand'anche lo avessero sospettato, non era su semplici sospetti che potevano imprigionare e, soprattutto, condannare le persone. Per fare ciò, abbisognavano le prove. E prove, contro di lui, non ne sarebbero esistite, fin quando i suoi complici avessero serbato il silenzio. Tali riflessioni rassicuranti non gli impedirono di provare una emozione violenta quando, verso la fine della giornata, si trovò faccia a faccia col Kaw-djer, che veniva, come il solito, a sorvegliare i lavori del porto. Egli aveva il suo aspetto abituale e non si poteva supporre che gli fosse accaduto qualche cosa d'insolito. Dorick giudicò quella calma più spaventosa della collera. Si disse che, per mostrarsi così tranquillo, il Governatore doveva sentirsi sicuro di mettere la mano sul

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colpevole. Tremando, finse di concentrarsi nel suo lavoro ed evitò anche di levare gli occhi fino al Kaw-djer, del quale non avrebbe potuto sopportare lo sguardo. Se questi lo avesse interpellato, il miserabile si sarebbe tradito. Ma il Kaw-djer non gli rivolse la parola ed egli riprese coraggio. La fiducia aumentò mano mano che i giorni passavano. Senza giungere a comprendere, constatava che nulla era mutato in città, benché l'attentato fosse noto sicuramente, come lo provavano le modificazioni portate alla guardia notturna. Tuttavia, per una quindicina di giorni, i cinque complici si evitarono e condussero vita esemplare, che sarebbe valsa a renderli sospetti a osservatori più attenti. Poi, trascorse così due settimane, cominciarono a prendere coraggio. Scambiarono dapprima qualche parola passando e finalmente, preso ardire dalla persistente sicurezza, ricominciarono le passeggiate serali e i soliti conciliaboli. Non tardarono neppure ad avventurarsi nella grotta, ove stava nascosto il barile di polvere e il trovarlo al suo posto finì col rassicurarli completamente. A poco a poco, la caverna divenne la mèta abituale delle loro passeggiate. Un mese dopo il tentativo abortito, vi si riunivano tutte le sere. Vi trattavano sempre lo stesso argomento; non essendosi modificate le cause del loro malcontento. La loro vita seguitava a scorrere, pur dopo l'attentato, sottomessa alla legge del lavoro e, in fondo, era quella la causa che li esasperava a dispetto delle loro eloquenti diatribe. Eccitandosi reciprocamente con le incessanti recriminazioni, dimenticarono mano mano l'insuccesso e cominciarono a cercare il mezzo di ripararlo. E infine, poiché la loro rabbia impotente aumentava senza tregua, venne il giorno in cui furono pronti per un nuovo atto di rivolta. In quel giorno, il 30 marzo, i cinque compagni avevano lasciato Liberia isolatamente, raggiungendosi, come di consueto, a qualche distanza dalla città. Il gruppo era al

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completo quando si giunse al solito luogo di ritrovo. La strada era stata percorsa in silenzio. Dorick non aveva aperto bocca e sembrava immerso in profonde meditazioni; gli altri avevano imitato il suo mutismo. Come le labbra, i volti apparivano chiusi, spirava vento di tempesta, l'odio gonfiava le anime ulcerate. Dorick, che penetrò per primo nella grotta, ebbe un gesto di terrore. Un fuoco bruciava presso l'entrata. Qualcuno si era. dunque spinto sin là e la fiamma ancora viva dimostrava che l'intruso se n'era andato da poco. Fuoco!… Dorick pensò d'un tratto alla polvere. Se il focolare fosse stato collocato qualche metro più in là, l'imprudente che vi aveva appiccato il fuoco sarebbe saltato in aria senza remissione. Dorick corse al barile!… No, non l'avevano scoperto… Giaceva ancora sotto il mucchio di frondami, dal quale era stata prelevata qualche bracciata per alimentare la fiamma che crepitava allegramente. Intanto, Kennedy, rischiarando le tenebre con un ramo acceso, visitava la seconda grotta. Ne ritornò subito rassicurato. Non vi era alcuno; il visitatore sconosciuto era proprio partito. Trasmessa la notizia ai compagni, con una pedata sparpagliò il fuoco, il quale, benché lontano dalla polvere, costituiva pur sempre un pericolo. Ma Dorick lo trattenne e, riunendo i tizzoni dispersi, ricostituì il focolare, sul quale ammucchiò nuova legna, mentre i compagni lo guardavano sorpresi. — Camerati — disse rialzandosi — la mia pazienza è esaurita… Già poc'anzi ero deciso all'azione… Ciò che abbiamo veduto rafforza la mia decisione… Il nostro rifugio è stato visitato… è un motivo di più per affrettarsi. Il visitatore potrebbe ritornare e quanto non è stato trovato oggi, lo si può trovare domani. La voce di Dorick era febbrile, la parola affannosa, i gesti violenti. Visibilmente, come si dice, non ne poteva più. Ad eccezione di Sirdey, che rimase impassibile, gli altri approvarono rumorosamente.

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— A quando l'operazione? — chiese Fred Moore. — Stasera stessa… — rispose Dorick.

E scandendo le parole, come un uomo dominato dai suoi nervi, soggiunse: — Ho molto riflettuto… Poiché non abbiamo armi, ne fabbricheremo… Una bomba… questa sera stessa… comprimendo a strati successivi la polvere in mezzo a tele

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inzuppate nel catrame… Perciò mi abbisogna il fuoco… per far fondere il catrame… Certo la mia bomba non varrà gli ordigni perfezionati a movimento di orologeria… Ma si fa quanto si può… Non sono un chimico io… Qualunque essa sia, del resto, produrrà il suo effetto… Una miccia l'attraverserà da parte a parte… La miccia durerà trenta secondi… Ne ho fatto l'esperimento… Il tempo giusto per accenderla e lanciarla. I compagni ascoltavano Dorick, stupiti del suo aspetto strano. Aveva lo sguardo ardente e, in certo modo, quasi smarrito. Lewis Dorick era forse pazzo? No, non era pazzo, o almeno non lo era nel senso patologico della parola. Se tutta la sua vita di amarezza e d'invidia gli risaliva alle labbra in quell'ora e rendeva febbrile il suo atteggiamento, egli conservava tuttavia la lucidità della consapevolezza. — Chi getterà la bomba? — chiese freddamente Sirdey. — Io — rispose Dorick. — Quando? — Questa notte… Verso le due, andrò a bussare al Palazzo… Il Kaw-djer verrà ad aprire… Appena lo udrò giungere, accenderò la miccia… avrò quanto mi abbisogna per farlo… aperta la porta, lancerò la bomba all'interno… — E tu? — Avrò il tempo di fuggire… Del resto, dovessi saltare in aria anch'io, bisogna finirla. Il silenzio si fece profondo. Gli altri si guardarono stupiti, spaventati dal progetto di Dorick. — In questo caso — disse Sirdey con voce calma, — non hai bisogno di noi. — Non ho bisogno di nessuno — replicò Dorick con violenza. — I vili, se vogliono, possono andarsene. La parola sferzò l'amor proprio. — Io resto — disse Kennedy. — Anch'io — disse William Moore. — Anch'io — disse Fred Moore. Solo Sirdey non disse nulla.

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Le voci s'erano riscaldate a poco a poco. Senza neppure accorgersene, s'erano elevate sino al tono della disputa. Malgrado l'avvertimento dato dal fuoco trovato acceso, non pensavano più che ci poteva essere nelle vicinanze qualcuno che ascoltasse le loro parole imprudenti. Ce n'era uno infatti, uno solo veramente e di proporzioni così piccole, da non inspirare timore, anche se ne avessero conosciuta la presenza. Si trattava di Dick, il quale, affatto involontariamente del resto, stava ascoltandoli, e cinque uomini robusti non potevano temere un fanciullo! Dick e Sand, essendo il 30 marzo giorno di vacanza, avevano lasciato la città di buon mattino, diretti verso le grotte che, in altri tempi, erano risuonate così spesso delle loro grida gioconde. L'infanzia è capricciosa. Un bel giorno essa abbandona improvvisamente, perchè se ne è stancata, i divertimenti che ama con maggior passione e li riprende, in seguito, ancora così improvvisamente come li ha lasciati, quando altre distrazioni a loro volta hanno cessato di piacerle. Le grotte, abbandonate dopo essere state le predilette, ora ritornavano di moda. Camminando di buon passo, Dick e Sand trattavano l'importante questione del gioco di quel giorno. Per essere più esatti, diremo che Dick, come di consueto del resto, emanava i suoi ukase, che Sand accettava con sommissione. — Vecchio mio — disse Dick, quando ebbero oltrepassato le ultime case — ti dirò una bella cosa. Sand incuriosito tese l'orecchio. — Giuocheremo al ristorante. Sand assentì col capo. Ma, veramente, egli non capiva, bisogna confessarlo. — Acchiappa questo, vecchio mio! — annunziò Dick trionfalmente. — Fiammiferi!… — esclamò Sand meravigliato. — E questo!… — riprese Dick, traendo a stento di tasca la mezza dozzina di patate che vi aveva riposto prima di partire. Sand batté le mani.

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— Così — decretò Dick come un dominatore — tu sarai il padrone del ristorante. Io sarò il cliente. — Perchè?… — domandò Sand con innocenza. — Perché sì!… — rispose Dick. Dinanzi a tale argomento perentorio, a Sand non restava che inchinarsi. Perciò, quando furono entrambi nella grotta, le cose andarono come aveva decretato il tirannico compagno. In un angolo trovarono un mucchio di frondami, venuti chi sa donde. Alcuni rami vennero trasformati in un fuoco magnifico e le patate cominciarono a cuocere. Quando furono cotte, si iniziò il gioco vero. Sand rappresentò a meraviglia la parte del proprietario, e Dick non gli fu inferiore in quella del cliente di passaggio. Bisognava vedere con quale disinvoltura entrò nella grotta — perchè, ben inteso, ne era uscito per aumentare le verosimiglianze, — con che distinzione sedette a terra dinanzi ad una illusoria tavola, con quale autorità reclamò tutti i cibi che gli venivano in mente. Chiese uova, prosciutto, pollo, corned beef, riso, pudding e molte altre cose. Il padrone era ben provvisto di tutto. A qualunque ordine rispondeva senza esitare con un: «Ecco, signore!» porgendo senza ritardo le vivande indicate, che erano infatti, non si può dubitarne, uova, prosciutto o pollo, benché un osservatore superficiale avesse potuto scambiarle per semplici patate. Per fortuna non c'è dispensa, anche meravigliosamente provvista, che non si esaurisca, come non c'è appetito, per quanto forte, che non finisca col saziarsi. Per una strana coincidenza le due cose accaddero nello stesso tempo e, fenomeno non meno meraviglioso, nel momento preciso in cui non restava più neppure una patata. Sand, facendone la constatazione provò un forte dolore: — Le hai mangiate tutte!… — sospirò con aria accorata. Dick spiegò: — Dato che io ero il cliente!… — rispose come se la cosa fosse stata naturalissima. — Il padrone non mangia la sua mercanzia, sai!

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Ma Sand, questa volta, non parve convinto. — Intanto io non ho avuto niente — fece osservare accorato. Dick prese le cose dall'alto. — Di' addirittura ch'io sono un goloso!… Basta così! Non giuoco più! — Dick!… — implorò Sand terrificato dalla minaccia. Non ci volle altro. Dick rinunziò immediatamente ai suoi progetti di vendetta. — Allora — disse con fare generoso — adesso farò io il padrone… E tu il cliente. Il giocò si organizzò secondo il nuovo programma. Sand uscì dalla grotta, rientrò, sedette per terra davanti alla tavola immaginaria. Allora Dick si avvicinò al suo lietissimo cliente, presentandogli un sasso. Ma Sand, di intelligenza meno sveglia, non comprese subito, e guardò il sasso non poco stupito. — Bestia!… — spiegò Dick. — È il conto. — Io non ho avuto niente — obbiettò Sand. — Dal momento che non c'è più niente… non resta che pagare il pranzo… In un ristorante non si paga forse?… Tu dirai: «Cameriere, il conto, vi prego». Io dirò: «Ecco, signore!» Poi tu dirai: «Ecco, cameriere, un cent per il desinare e un cent per voi». Io dirò: «Grazie, signore». E tu mi darai due cents. Tutto si svolse secondo questo piano molto logico. Sand prese il tono di circostanza per chiedere il cento e Dick gridò così perfettamente: «Ecco, signore!», che lo si sarebbe scambiato per un vero cameriere. C'era da ingannarsi. Sand entusiasmato diede i due cents. Una riflessione, tuttavia, guastò tutto il piacere. — Tu hai mangiato tutte le patate, ed io pago il pranzo — constatò malinconicamente. Dick finse di non udire, ma tuttavia arrossì fino alle orecchie. — Compreremo una bacchettina di liquerizia al bazar Rhodes — promise per tacitare la sua coscienza. Poi, da profondo politico, per tagliar corto all'incidente:

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— Ora inizieremo un altro giuoco — annunziò. — Quale? — chiese Sand. — Il giuoco del leone — decise Dick, che senza indugio distribuì le parti. — Tu sarai un viaggiatore. Io sono un leone. Tu esci. Poi rientrerai nella grotta per riposarti ed io ti salterò addosso per mangiarti. Tu griderai: «Aiuto!» Allora io me ne andrò e tornerò correndo. Sarò un cacciatore e ammazzerò il leone. — Ma se tu sei il leone! — obbiettò Sand, non senza una certa logica. — No, sarò un cacciatore. — E allora chi è che mi mangerà? — Bestia!… Io, quando sarò il leone. Sand si immerse in profonda riflessione, guardando pensosamente il compagno. Questi interruppe la sua ricerca. — Non hai bisogno di capire — disse. — Vattene. Poi ritornerai. Il leone starà in agguato tra le rocce… Avrai tempo… Mezz'ora almeno… Sono io il leone, lo sai!… E starò in agguato… Sali pure la galleria fino alla grotta alta e ritorna dall'esterno… Ma non diffidare, capisci, non dubitare di niente… Soltanto quando udrai il ruggito del leone… E Dick emise un urlacelo spaventoso. Sand se ne era già andato. Risaliva la galleria, e presto sarebbe docilmente tornato per farsi divorare dal leone. Mentre il compagno si allontanava, Dick si era addossato alle rocce. Doveva aspettare mezz'ora, ma l'attesa non gli sembrava lunga. Era il leone. Ora, come aveva giudiziosamente fatto osservare, un leone deve sapersi tenere in agguato con pazienza. Per nulla al mondo avrebbe mostrato la punta del suo musetto, e coscienziosamente gettava tratto tratto piccoli ruggiti, preludi del grande, del terribile ruggito che sarebbe scoppiato, quando il leone avesse divorato il disgraziato viaggiatore. Egli fu interrotto nei suoi esercizi. Parecchie persone risalivano il pendìo della montagna. Dick, assolutamente convinto di essere un vero leone, non avrebbe temuto di mostrarsi, ma la

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sua trasformazione in re del deserto non gli impedì di riconoscere al passaggio Lewis Dorick, i fratelli Moore, Kennedy e Sirdey. Dick fece una smorfia. Non gli piaceva quella gente là e specialmente Fred Moore, che considerava suo nemico personale. I cinque uomini scomparvero entro la grotta, con grande ira di Dick, che udì le loro esclamazioni di meraviglia, quando scoprirono il fuoco. — La grotta non è di loro proprietà — mormorò fra i denti. Ma gli giunsero altre parole che gli fecero tendere gli orecchi. Parlavano di polvere e di bomba e quest'ultima parola, che egli male comprendeva, si univa ai nomi di Hartlepool e del Governatore. Forse, così da lontano aveva capito male… Si avvicinò con precauzione all'entrata della grotta, fino a un posto dove poteva udire distintamente quanto si diceva. Qualcuno parlava in quel momento. Dick riconobbe la voce di Sirdey. — E dopo?… — chiedeva l'antico cuoco, che continuava a rappresentare la parte di critico rispetto a Dorick. — Dopo?… — ripeté Dorick interrogando. — Sì… — riprese Sirdey. — La tua bomba non è come il barile. Non potrai pretendere di ucciderli tutti… Quando avrai fatto saltare il Kaw-djer, resteranno Hartlepool e gli uomini di guardia. — Che importa!… — rispose Dorick con violenza. — Non li temo… Tagliata la testa, il corpo non conta più. Uccidere!… Tagliare la testa al Governatore!… Dick, divenuto istantaneamente serio, ascoltava tremando le terribili parole.

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V.

UN EROE.

Tagliare la testa al Governatore!… Dick, dimenticando la parte del leone, non pensò più a fuggire. Bisognava correre a Liberia… raccontare quanto aveva udito… Sfortunatamente per lui, l'eccesso della sua precipitazione gli impedì di calcolare i movimenti con prudenza sufficiente. Si staccò una pietra e ruzzolò con fracasso; subito qualcuno apparve sulla soglia della caverna, lanciando da ogni lato sguardi furiosi. Dick spaventato riconobbe Fred Moore. Questi aveva pure riconosciuto il fanciullo. — Ah!… Sei tu, moscherino! — disse. — Cosa fai qui? Dick, paralizzato dal terrore, non rispose. — Hai la lingua in tasca oggi, eh?… — riprese la voce grossa di Fred Moore. — Eppure è una lingua sciolta la tua… Aspetta un momento. Ti aiuterò a ritrovarla. La paura rese a Dick l'uso delle gambe. Prese la corsa e si slanciò sul pendìo della montagna. Ma con pochi passi il nemico lo raggiunse. Afferrato alla cintola da una mano robusta, fu sollevato come una piuma. — Eccolo qui, guardate!… — gridava Fred Moore alzando fino all'altezza del. suo viso il fanciullo terrorizzato. — T'insegnerò io a spiare, piccola vipera! In un attimo Dick fu trasportato nella grotta e gettato ai piedi di Lewis Dorick. — Ecco — disse Fred Moore — chi ho trovato di fuori. Ci ascoltava! Con uno scappellotto, Dorick fece rialzare il fanciullo. — Che facevi? — gli domandò severamente.

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Dick aveva una grande paura. Anzi, per essere sinceri, tremava come una foglia. Tuttavia, il suo orgoglio la vinse. Si eresse sulle piccole gambe al pari di un gallo sugli sproni. — Questo non vi riguarda — replicò con arroganza. — Si avrà pure il diritto di giocare al leone nella grotta!… Non è vostra la grotta… — Cerca di rispondere con garbo, vermiciattolo — disse Fred Moore, somministrando un nuovo ceffone al prigioniero. Ma le botte non erano argomenti da usare con Dick. Lo si sarebbe potuto tritare come carne da pasticcio, senza farlo cedere. Invece di curvarsi, egli si rizzò con veemenza sulla piccola persona, strinse i pugni, poi, guardando bene in faccia il suo avversario: — Gran vigliacco! — disse. Fred Moore non parve neppure sensibile all'insolenza. — Cos'hai udito? — chiese ancora. — Ce lo dirai, altrimenti… Ma Fred Moore ebbe un bell'alzar la mano, ed anche lasciarla ricadere con forza sempre crescente. Dick si ostinò in un silenzio feroce. Dorick intervenne. — Lasciate quel fanciullo — disse. — Non ne caverete nulla… Del resto poco importa. Che abbia udito o meno, ritengo che non saremo tanto gonzi da lasciarlo libero… — Credo che non lo ucciderete, nevvero? — interruppe Sirdey — il quale sembrava decisamente contrario alle soluzioni violente. — Non si tratta di ciò — rispose Dorick alzando le spalle. — Lo legheremo, semplicemente— Qualcuno ha una corda? — Ecco — disse Fred Moore togliendosene un pezzo di tasca. — Ed ecco — aggiunse William offrendo la sua cintura di cuoio. In un batter d'occhio, Dick fu strettamente legato, in modo da non poter più fare un sol movimento. Poi Fred Moore lo trasportò nella seconda grotta e lo gettò per terra come un pacco. — Cerca di star tranquillo — raccomandò poi al prigioniero prima d'allontanarsi. — Se no, l'avrai da fare con me, ragazzo!

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Fatta la raccomandazione, egli ritornò presso i compagni per riprendere l'eterno discorso.

Tuttavia esso giungeva ormai al suo termine, e stava per suonare, di nuovo, l'ora dell'azione. Mentre gli altri parlavano, Dorick espose il catrame all'azione del fuoco e iniziò con ogni cura la confezione dell'ordigno omicida.

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Mentre i cinque delinquenti si preparavano così al delitto, il loro destino si elaborava a loro insaputa. Un testimone aveva assistito alla cattura di Dick: il piccolo Sand. Recatosi al convegno stabilito in precedenza, egli aveva visto il compagno catturato, trasportato, legato e gettato, finalmente, nella seconda grotta. Sand si sentì invaso da profonda disperazione. Perchè avevano preso Dick?… Perchè l'avevano percosso?… Perchè Fred Moore l'aveva trascinato via?… Che ne avevano fatto di lui?… L'avevano forse ucciso?… O era stato solo ferito e ora attendeva il suo aiuto? Senza esitare egli corse ad arrampicarsi come un camoscio lungo la montagna, fino alla grotta superiore, ridiscese la stretta galleria che la riuniva alla grotta inferiore e, meno di un quarto d'ora dopo, raggiungeva la cavità dove Dick era stato nascosto. Dal passaggio che la faceva comunicare con la caverna esteriore, filtrava un po' di luce e attraverso ad esso giungevano altresì, sorde, attutite, le voci di Lewis Dorick e dei suoi quattro complici. Sand, comprendendo la necessità di essere prudente, rallentò il passo e si avvicinò cautamente. I mozzi, nella loro qualità di aspiranti marinai, hanno sempre un coltello in tasca. Sand in un baleno aperse il suo e tagliò i legacci del prigioniero, che appena libero, senza pronunziare una parola, corse verso la galleria, dalla quale gli era venuta la salvezza. Non si trattava di uno scherzo; dalle poche parole sorprese, egli conosceva quanto fosse grave la situazione e come occorresse agire senza indugi. Ecco perchè, senza perdersi in ringraziamenti inutili, si slanciò attraverso la galleria e ne percorse la discesa a perdifiato, mentre, alle sue calcagna, si spolmonava invano il povero Sand. La doppia evasione sarebbe facilmente riuscita, se il destino non avesse voluto che proprio in quel momento Fred Moore fosse preso dal capriccio di gettare un'occhiata al prigioniero. Nella luce incerta che giungeva dalla prima grotta, gli parve di vedere muoversi una forma vaga. Si gettò a caso sulle sue tracce e scoperse così la galleria ascendente, della quale, fino

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allora, non aveva sospettato l'esistenza. Comprendendo subito che era stato giuocato e che il prigioniero se la dava a gambe, sacramentò furiosamente e a sua volta scalò il pendìo. Se i fanciulli avevano una quindicina di metri di vantaggio, Fred Moore, però, aveva le gambe lunghe ed essendo il passaggio relativamente largo, almeno nella parte inferiore, niente gli impediva di approfittarne. L'oscurità profonda che lo circondava costituiva, è vero, un ostacolo serio alla sua corsa nella galleria sconosciuta, che Dick e Sand, invece, conoscevano molto bene. Ma Fred Moore era in collera e quando si è in collera non si ascoltano i consigli della prudenza. Perciò correva a perdifiato fra le tenebre, con le mani tese in avanti, a rischio di rompersi la testa contro le sporgenze della volta. Fred Moore ignorava di avere davanti due fuggiaschi. Non vedeva nulla assolutamente e i fanciulli si guardavano bene dal parlare. Il solo rumore delle pietre che rotolavano sul pendìo, gli indicava che percorreva la strada giusta e, poiché il rumore diveniva più vicino di attimo in attimo, egli era anche sicuro di guadagnare terreno. I fanciulli facevano del loro meglio. Sentivano che qualcuno li inseguiva e comprendevano perfettamente che sarebbero stati presto o tardi raggiunti. Tuttavia non disperavano. Tutti i loro sforzi tendevano a raggiungere quella strozzatura della galleria in cui il tetto non era sostenuto che da un solo blocco, il quale poteva cadere al minimo urto. Più oltre, la galleria bassa e stretta non avrebbe servito che alla loro piccola persona. Essi vi potevano continuare a correre, mentre il nemico sarebbe stato costretto a curvarsi. Finalmente raggiunsero la strozzatura tanto desiderata. Piegato in due, Dick la oltrepassò felicemente per primo. Sand, camminando; carponi gli scivolava dietro, quando si sentì immobilizzato all'improvviso da una mano brutale che l'afferrava per la caviglia. — Ti tengo, bandito! — diceva nello stesso tempo una voce furiosa.

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Fred Moore era infatti al colmo dell'ira. Non sapendo che la galleria si abbassava e si restringeva così subitamente, per poco non si era fracassata la testa. La fronte aveva battuto così forte contro la volta che, per il contraccolpo, era caduto tramortito. Appunto a tale caduta egli doveva la buona riuscita dell'inseguimento, perchè la mano, tesa con moto istintivo, aveva afferrato per azzardo la gamba del fuggiasco. Sand si sentì perduto… Si sarebbero sbarazzati di lui e dopo avrebbero ripreso l'inseguimento di Dick, che sarebbe stato senza dubbio raggiunto a sua volta… Che ne sarebbe stato allora di Dick?… Lo avrebbero imprigionato… ucciso forse… Bisognava impedirlo, impedirlo a tutti i costi!… Fece in realtà Sand questo ragionamento? Anzi, adottò con deliberato proposito il mezzo disperato al quale ricorse? Non si può dire, perchè gli mancò il tempo per riflettere, e dal suo principio alla fine l'intiero dramma non ebbe che la durata di un secondo. Si direbbe che ognuno di noi abbia in sé stesso un altro essere, che, in certi casi, agisca per nostro conto. Esso sarebbe il subcosciente dei filosofi, che ci fa trovare all'improvviso, quando meno vi pensiamo, la soluzione di un problema, cercata invano per molto tempo. Sarebbe esso a governare i nostri moti riflessi e causare gesti istintivi provocati dagli eccitamenti esterni. Sarebbe esso infine che ci decide talvolta, all'improvviso, ad atti, la cui sorgente profonda è in noi, ma che la nostra volontà non ha ancora formalmente decisi. Sand non ebbe che un'idea chiara: la necessità di salvare Dick e arrestare l'inseguimento. Il subcosciente fece, il resto. Da sé stesse le due braccia si stesero e si aggrapparono al blocco mobile che sosteneva la volta della galleria, mentre Fred Moore, ignorando il pericolo, lo tirava violentemente indietro. Il blocco scivolò. La volta franò con un rumore sordo. A quel rumore Dick preso da un vago turbamento, si fermò di botto, ascoltando. Non udì più nulla. Il silenzio era ritornato, profondo come le tenebre nelle quali stava immerso. Chiamò Sand, prima sottovoce, poi più forte, poi più forte ancora…

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Finalmente, non ottenendo risposta, ritornò sui suoi passi ed urtò contro un ammasso di rocce che non lasciavano alcun adito fra loro. Comprese subito. La galleria era franata, Sand giaceva là sotto… Per un istante Dick restò immobile, inebetito, poi si allontanò con grande rapidità e, giunto alla luce, ci precipitò lungo la discesa. Il Kaw-djer stava leggendo tranquillamente prima di andare a letto, quando la porta del palazzo si aprì violentemente. Una specie di palla, da cui sfuggivano parole e gridi incomprensibili, gli cadde ai piedi. Passata la prima sorpresa, riconobbe Dick. — Sand… Governatore… Sand!… — egli gemeva. Il Kaw-djer fece la voce grossa. — Che significa questo?… Che accade? Ma Dick parve non comprendesse. Aveva gli occhi smarriti, le lagrime gli inondavano il viso e dal petto ansante gli sfuggivano parole sconnesse. — Sand!… Governatore!… Sand… — ripeteva aggrappandosi alla mano del Kaw-djer, quasi volesse trascinarlo seco. — La grotta… Dorick… Moore… Sirdey… la bomba… tagliar la testa… E Sand… schiacciato!… Sand… Governatore!… Sand!… Malgrado l'incoerenza, le parole del ragazzo erano abbastanza chiare. Alle grotte doveva essere accaduto qualche cosa d'insolito, in cui, in una maniera o nell'altra, Dorick, Moore e Sirdey si trovavano coinvolti e di cui Sand era stato vittima. Non si poteva nemmeno pensare ad avere da Dick schiarimenti maggiori. Il piccolo, nel parossismo dello spavento, continuava a pronunziare le stesse parole, che ripeteva interminabilmente, e sembrava avesse perduta la ragione. Il Kaw-djer si alzò e, chiamando Hartlepool, gli disse rapidamente: — È accaduto qualche cosa alle grotte… Prendete cinque uomini, munitevi di torce e venite a raggiungermi. Fate presto. Poi, senza aspettare risposta, obbedì alla piccola mano che lo sollecitava sempre più insistentemente e partì correndo nella

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direzione del promontorio. Due minuti dopo, anche Hartlepool, alla testa di cinque uomini armati, vi si incamminava. Sfortunatamente, causa il buio quasi completo, il Kaw-djer era ormai fuori di vista. Egli aveva detto «Alle grotte». Hartlepool si avviò dunque verso le grotte, vale a dire verso quelle che meglio conosceva per avervi nascosto, un giorno, i fucili; mentre il Kaw-djer guidato da Dick, si dirigeva più al Nord, in maniera da costeggiare l'estremità del promontorio e raggiungere sull'altro versante quella delle due grotte inferiori, di cui Dorick aveva fatto il suo quartier generale. Questi intanto, all'esclamazione lanciata da Fred Moore scoprendo la fuga del piccolo, interrompendo il lavoro, si era inoltrato, seguito dai tre compagni, fin nella seconda grotta, pronto a dargli man forte. Tuttavia, poiché Fred Moore era alle prese con un fanciullo, senza indugiarsi, e dopo un rapido colpo d'occhio, reso inutile dall'oscurità, aveva ripreso il suo lavoro. Ma non essendo Fred Moore ritornato neppure quando il lavoro fu condotto a termine, ci si cominciò a stupire del ritardo così prolungato e, rischiarandosi con una torcia di paglia accesa, si penetrò da capo nella grotta interna. William Moore era in testa, seguivano Dorick e Kennedy e ultimo veniva Sirdey, che però, cambiando idea, ritornò subito sui suoi passi. Poi, mentre gli amici si avventuravano nella seconda grotta, egli abbandonò anche la prima e, approfittando dell'oscurità, si nascose fra le rocce esterne. La scomparsa di Fred Moore non gli presagiva niente di buono e gli faceva prevedere complicazioni spiacevoli. Sirdey non si poteva certo chiamare un fulmine di guerra. Era scaltro, falso, astuto, ma i colpi, no, non erano il suo forte. Preferiva quindi proteggere la sua persona preziosa, decisissimo a non compromettersi che a colpo sicuro e secondo la piega degli avvenimenti. Intanto, Dorick e i compagni scoprivano la galleria nella quale Fred Moore si era avanzato inseguendo Dick e Sand. Non si poteva ammettere un errore, perché la grotta non aveva altra

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via d'uscita. Colui che cercavano doveva essere necessariamente uscito di là. Vi si inoltrarono dunque a loro volta, ma dopo un centinaio di passi dovettero fermarsi. Una massa di rocce ammucchiate le une sulle altre sbarrava il passaggio. La galleria non era che una via senza uscita, di cui avevano toccato il fondo. Davanti a tale ostacolo inatteso, si guardarono, letteralmente stupefatti. Dove diavolo poteva essere Fred Moore?… Incapaci di rispondere alla domanda, ridiscesero senza supporre che il compagno giacesse sepolto sotto il mucchio di rovine. Turbatissimi del mistero indecifrabile, ritornarono silenziosi nella prima grotta. Una sorpresa sgradevole ve li attendeva. Nello stesso momento in cui vi ponevano piede, due forme umane, quella di un uomo e quella di un fanciullo, apparvero all'improvviso sulla soglia. Il fuoco ardeva allegramente, e la sua fiamma vivace dissipava le tenebre. I miserabili riconobbero l'uomo e riconobbero il fanciullo. — Dick! — esclamarono tutti e tre, stupefatti di vedere ritornare da quella parte il mozzo, che, meno di mezz'ora prima, avevano solidamente legato e imprigionato in una caverna senza uscita. — Il Kaw-djer! — balbettarono subito dopo con un misto di collera e di spavento. Un istante esitarono, poi il furore ebbe il sopravvento e con uno stesso moto William Moore e Kennedy si precipitarono in avanti. Immobile sulla soglia, con l'alta persona illuminata dalla fiamma, il Kaw-djer attese gli avversari a pie' fermo. Essi avevano tratti i coltelli. Egli non lasciò loro il tempo di servirsene. Afferrati alla gola da mani di ferro, il cranio dell'uno andò a sbattere contro la testa dell'altro e insieme caddero tramortiti. Kennedy aveva il suo conto, come si dice. Restò steso, inerte, mentre William Moore si rialzava barcollante.

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Senza occuparsi di lui, il Kaw-djer mosse un primo passo verso Dorick… Costui, sconvolto dalla rapidità fulminea degli avvenimenti, aveva assistito alla lotta senza prendervi parte. Era rimasto indietro, tenendo in mano la bomba dalla quale pendevano pochi centimetri di miccia.

Paralizzato dalla sorpresa, non aveva avuto il tempo d'intervenire, e il risultato della contesa gli dimostrava ora

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l'inutilità di una più lunga resistenza. Dal movimento che fece il Kaw-djer capì che tutto era perduto… Allora la follia lo colse… Un'onda di sangue gli salì al cervello e secondo l'energica espressione popolare, vide tutto rosso… Una volta almeno in vita sua voleva vincere… Dovesse pur morirne, sarebbe morto anche l'altro… Balzò verso il fuoco e s'impadronì d'un tizzone che avvicinò alla miccia, poi portò il braccio indietro e si accinse a scagliare il proiettile terribile… Il tempo difettò al gesto micidiale. Fosse la poca destrezza, fosse per un difetto della miccia, la bomba gli scoppiò tra le mani. Risuonò subito una detonazione violenta, la terra tremò, una pioggia di fuoco si riversò attraverso l'apertura della caverna. Un grido d'angoscia fece eco all'esplosione dall'esterno. Hartlepool e i suoi uomini, riconosciuto infine l'errore, giungevano al passo di corsa, in tempo giusto per assistere al dramma. Videro la fiamma, in due lingue ardenti, sprizzare da una parte e dall'altra del Kaw-djer, del quale il piccolo Dick terrificato abbracciava le ginocchia, e che restava ritto, immobile come una statua, in mezzo al cerchio di fuoco. Essi si slanciarono in aiuto del loro capo. Ma egli non abbisognava di aiuto. L'esplosione lo aveva miracolosamente risparmiato. L'aria spostata si era divisa in due correnti, che lo avevano sfiorato senza toccarlo. Immobile e ritto come stava al momento del pericolo, lo ritrovarono a pericolo passato. Egli fermò con la mano quelli che correvano in suo soccorso. — Custodite l'entrata, Hartlepool — ordinò con la voce abituale. Stupefatti dinanzi al suo incredibile sangue freddo, Hartlepool e le guardie obbedirono e una barriera umana si tese attraverso l'apertura della grotta. Il fumo svaniva a poco a poco, ma l'oscurità si era fatta profonda avendo l'esplosione spento il fuoco. — Un po' di luce, Hartlepool — disse il Kaw-djer. Una torcia fu accesa e si penetrò nella caverna.

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Subito, approfittando della solitudine e dell'oscurità sopravvenuta, un'ombra si distaccò dalle rocce dell'entrata. Sirdey ne sapeva ormai abbastanza. Dorick preso o ammazzato, egli giudicava opportuno, in ogni caso, mettersi al sicuro. Lentamente, dapprima, si allontanò. Poi, quando stimò suffìcente la distanza, accelerò la fuga e scomparve nella notte. intanto il Kaw-djer e i suoi uomini esploravano il teatro del dramma. Lo spettacolo appariva spaventoso. Il terreno, inzaccherato di sangue, era coperto di spaventosi avanzi. Si faticò a identificare Dorick, al quale l'esplosione aveva strappato la testa e le braccia. A pochi passi giaceva William Moore col ventre squarciato. Più in là, senza ferite apparenti, Kennedy pareva dormisse. Il Kaw-djer gli si avvicinò. — Vive — disse. L'antico marinaio strangolato a mezzo dal Kaw-djer e incapace perciò di rialzarsi, assai verosimilmente doveva a questa circostanza la sua salvezza. — Non vedo Sirdey — fece osservare il Kaw-djer, guardandosi intorno. — Eppure c'era! La grotta fu invano meticolosamente visitata. Non si trovò nessuna traccia dell'antico cuoco del Jonathan. Invece, sotto il mucchio di fogliame che lo nascondeva, Hartlepool rinvenne il barile di polvere, di cui Dorick non aveva prelevato che una piccola parte. — Ecco l'altro barile!… — esclamò trionfalmente. — Sono gli uomini dell'altra volta. In quel momento una mano prese quella del Kaw-djer, mentre una debole voce gemeva pianamente. — Sand!… Governatore!… Sand!… Dick aveva ragione. Tutto non era finito. Restava ancora da trovare Sand, che, secondo il suo amico, si trovava coinvolto nell'avventura. — Guidaci, figliuolo — disse il Kaw-djer. Dick s'ingaggiò attraverso il passaggio interno e, tranne un uomo lasciato a guardia di Kennedy, tutti gli tennero dietro.

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Seguendolo, attraversarono la seconda grotta, e rimontarono la galleria fino al punto in cui era avvenuta la frana. — Là!… — esclamò Dick indicando l'ammasso di rocce. Egli sembrava in preda a un dolore terribile e la sua faccia smarrita mosse a pietà quegli uomini forti, dei quali implorava l'assistenza. Egli non piangeva, ma i suoi occhi disseccati ardevano per febbre, e le labbra pronunziavano a stento qualche parola. — Là?… — chiese il Kaw-djer con dolcezza. — Ma tu vedi bene, mio piccino, che non si può andare oltre. — Sand! — ripeté Dick con ostinazione, tendendo sempre nella stessa direzione la mano tremante. — Che vuoi dire, ragazzo? — insisté il Kaw-djer. — Non pretenderai, suppongo, che il tuo amico Sand sia là sotto? — Sì… — articolò penosamente Dick. — Prima si passava… Questa sera… Dorick mi aveva preso… Sono scappato… Sand mi stava dietro… Fred Moore stava per raggiungerci… Allora Sand… ha fatto cadere tutto… e tutto gli è crollato… addosso… per salvarmi!… Dick s'interruppe e, gettandosi ai piedi del Kaw-djer: — Oh! Governatore… — implorò. — Sand!… Il Kaw-djer, commosso, si sforzò di tranquillizzare il fanciullo. — Calmati, figliuolo — disse con bontà — calmati… trarremo di là sotto il tuo amico, sta' sicuro… Su, all'opera noialtri!… — ordinò voltandosi verso Hartlepool e i suoi uomini. Ci si mise febbrilmente al lavoro. Le rocce vennero rimosse una ad una e rigettate indietro. Fortunatamente non ve n'erano di mole eccessiva e quelle braccia robuste poterono rimuoverle. Dick, obbedendo al Kaw-djer, si era docilmente ritirato nella prima grotta, dove Kennedy, sorvegliato dal suo guardiano, riprendeva i sensi a poco a poco. Il fanciullo, seduto sopra una pietra, vicino all'entrata, con gli occhi fissi, aspettava, senza fare un movimento, che la promessa del Governatore si compisse. Intanto, alla luce delle torce, nella galleria si lavorava indefessamente. Dick non aveva mentito. Là sotto giaceva un

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corpo. Sgombrate le prime macerie, fu scorto un piede. Ma non era un piede di fanciullo e non poteva quindi appartenere a Sand. Era un piede d'uomo, e di uomo di grossa corporatura. Ci si affrettò. Dopo il piede apparve una gamba, poi un tronco e infine il corpo intiero di un uomo steso riverso. Ma quando vollero trarre quell'uomo alla luce, incontrarono qualche resistenza. Senza dubbio il suo braccio, allungato in avanti e ricoperto dalle macerie, era aggrappato a qualche cosa. Era così infatti; e quando il braccio fu liberato completamente, si vide che la mano stringeva la caviglia di un fanciullo. Staccata la mano, l'uomo fu steso supino, e si riconobbe Fred Moore, con la testa sfracellata e il petto sfondato. Allora si lavorò ancora più febbrilmente. Il piede che Fred Moore stringeva fra le dita contratte, non poteva essere che quello di Sand. La cosa procedette nello stesso ordine di prima. Dopo il piede apparve la gamba. Il salvataggio fu però più rapido, perchè la seconda vittima era meno grande della prima. Il Kaw-djer avrebbe potuto mantenere la promessa fatta a Dick di rendergli il suo amico? Sembrava poco probabile, a giudicare da quanto già si vedeva del disgraziato fanciullo. Le sue gambe, contuse, schiacciate, non erano più che brandelli informi. Per quanta fretta avessero, gli uomini però dovettero arrestarsi a riflettere prima di toccare un blocco più grosso degli altri, che con la massa enorme pesava sulle ginocchia del povero Sand. Il blocco sosteneva tutti quegli altri che lo circondavano e bisognava agire quindi con prudenza per evitare un nuovo crollo. La durata del lavoro fu prolungata da tale complicazione, ma finalmente, centimetro per centimetro, il blocco venne rimosso a sua volta. Gli uomini gettarono una esclamazione di sorpresa. Dietro al blocco c'era il vuoto e in quel vuoto giaceva Sand come in una tomba. Al pari di Fred Moore stava riverso, ma alcune rocce, facendo arco l'una contro l'altra, gli avevano riparato il petto.

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Senza la condizione pietosa delle gambe, egli sarebbe uscito illeso dall'avventura terribile. Con mille precauzioni lo trassero e lo stesero sotto la luce della torcia. Aveva gli occhi chiusi, le labbra bianche e contratte, il viso di una pallidezza livida. Il Kaw-djer si chinò sul fanciullo. Ascoltò a lungo. Se a quel petto restava ancora un soffio, esso era appena percettibile… — Respira… — annunziò finalmente. Due uomini sollevarono il leggero fardello e tutti discesero in silenzio la galleria. Sinistra discesa per quella strada sotterranea, di cui la torcia fuligginosa sembrava rendere tangibili le tenebre profonde! La testa inerte dondolava dolorosamente e più dolorosamente ancora le gambe spezzate, da cui sgorgava il sangue a grosse gocce. Quando il triste corteo apparve nella grotta esterna, Dick si alzò di soprassalto e guardò avidamente. Vide le gambe morte, la faccia esangue… Allora nei suoi occhi spalancati lampeggiò uno sguardo d'agonia e, gettando un grido rauco, s'abbatté al suolo.

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VI.

DURANTE DICIOTTO MESI.

L'alba del 31 marzo si levò, senza che il Kaw-djer, agitato dalle penose emozioni del giorno prima, avesse preso sonno. Quali prove attraversava! Quale esperienza faceva! Aveva toccato il fondo dell'anima umana capace del bene e del male, degli istinti più feroci e della più pura abnegazione. Prima di occuparsi dei colpevoli, si era affrettato a soccorrere le vittime innocenti della tragedia spaventosa. Due barelle improvvisate le avevano trasportate rapidamente al Governo. Quando Sand fu spogliato, e deposto nella branda, il suo stato apparve ancora più disperato. Le gambe, letteralmente in poltiglia, non esistevano più. La vista del piccolo corpo martirizzato appariva così pietosa, che Hartlepool ne ebbe il cuore infranto, e grosse lagrime gli caddero sopra le guance abbronzate da tutte le brezze del mare. Con pazienza materna il Kaw-djer bendò quella povera carne a brandelli. Sand era irremissibilmente condannato a non servirsi mai più delle povere gambe così terribilmente straziate e, fino all'ultimo giorno, la sua sarebbe divenuta una vita d'inferno. Ultimata la bendatura, il Kaw-djer fece scorrere qualche goccia di un cordiale fra le labbra scolorite del ferito, il quale cominciò a gemere debolmente e a mormorare parole confuse. Dick, del quale il Kaw-djer si occupò subito dopo, appariva ugualmente in grave pericolo. Bruciava di febbre intensa, con gli occhi chiusi, con la faccia violacea e scossa da tremiti nervosi, col respiro corto e sibilante fra i denti stretti. Il Kaw-djer, constatando i varî sintomi, scosse il capo un poco inquieto. Malgrado l'integrità del corpo e l'aspetto meno

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impressionante, lo stato di Dick era in realtà assai più grave che non quello del suo salvatore. Il Kaw-djer, dopo la cura ai due fanciulli, malgrado l'ora già tarda si recò da Harry Rhodes, che mise al corrente degli avvenimenti. Egli rimase tutto sconvolto dal racconto, e non mercanteggiò il concorso dei suoi. Si convenne che la signora Rhodes e Clary, Tullia Ceroni e Graziella, avrebbero vegliato per turno al capezzale dei due fanciulli, le ragazze durante il giorno, le madri la notte. La signora Rhodes assunse la veglia per la prima e, pronta in un istante, partì col Kaw-djer. Allora soltanto, provveduto in quel modo alle necessità più urgenti, questi si concesse il riposo che non doveva tuttavia trovare. Troppe emozioni agitavano il suo cuore, un troppo grave problema veniva a posarsi dinanzi alla sua coscienza. Dei cinque assassini, tre erano morti, ma due sopravvivevano. Bisognava prendere una decisione a loro riguardo. Sirdey, scomparso, errava per l'isola, ma non avrebbero tardato senza dubbio a riprenderlo e l'altro, Kennedy, aspettava, saldamente legato in prigione che lo si giudicasse. Il bilancio dell'affare che si saldava con tre uomini morti, uno fuggiasco e due fanciulli in pericolo di vita, non poteva, questa volta, venire soffocato. Né si doveva sperare nella segretezza, essendo ormai noto a troppe persone. Bisognava dunque agire. E in quale senso? Certo, i mezzi di azione adottati dalle persone contro le quali egli ritornava dall'aver lottato, non avevano niente di comune con quelli che il Kaw-djer voleva impiegare, ma, in fondo, il principio risultava lo stesso. Si riduceva, insomma, a questo: a quelle persone, come a lui del resto, ripugnava la restrizione e non vi si eran potute rassegnare. La diversità dei temperamenti aveva fatto il resto. Essi volevano abbattere la tirannia, mentre egli si era accontentato di fuggirla. Ma, nel complesso, il loro bisogno di libertà, per quanto opposto nelle sue manifestazioni, rimaneva uguale nell'essenza e quegli uomini non erano, dopo tutto, che rivoltosi, com'egli era stato.

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E, se egli si riconosceva in essi, col pretesto di essere il più forte, poteva arrogarsi il diritto di punirli?

Il Kaw-djer appena alzato, si recò nella prigione, dove Kennedy aveva passata la notte accasciato sopra una panca. Egli si rizzò con prontezza quando lo vide avvicinarsi e, non contento di tale segno di rispetto, umilmente si tolse il cappello. Ma per fare quel gesto, l'antico marinaio dovette alzare insieme le due mani, unite da una breve e solida catena

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di ferro. Dopo, attese con gli occhi bassi. Kennedy sembrava così un animale preso al laccio. Intorno a lui esisteva l'aria, lo spazio, la libertà… Ma gli si era tolto il diritto a quei beni naturali, dei quali egli aveva voluto privare altri uomini e dei quali altri uomini lo privavano ora a sua volta. La sua vista divenne intollerabile al Kaw-djer. — Hartlepool!… — chiamò sporgendo la testa in guardina. Hartlepool accorse. — Toglietegli la catena — disse il Kaw-djer, indicando le mani avvinte del prigioniero. — Ma signore… — cominciò Hartlepool. — Ve ne prego… — interruppe il Kaw-djer con un tono che non ammetteva replica. Poi, rivolgendosi a Kennedy, quando fu libero: — Hai voluto uccidermi. Perchè? — gli chiese. Kennedy senza alzare gli occhi, alzò le spalle, dondolandosi goffamente e girando il berretto da marinaio fra le dita, come se volesse dire che non ne sapeva niente. Il Kaw-djer, dopo averlo considerato un momento in silenzio, spalancò la porta che dava in giardino e, traendosi da parte: — Vattene! — disse. Poi, siccome Kennedy lo guardava con aria indecisa: — Vattene — disse una seconda volta con voce calma. L'antico marinaio uscì senza farsi pregare, curvando la schiena. Il Kaw-djer rinchiuse la porta dietro lui e si recò presso gli ammalati, lasciando Hartlepool alle sue riflessioni e molto perplesso. Lo stato di Sand restava stazionario, ma Dick invece sembrava aggravarsi. In preda a delirio furioso, egli si agitava nel letto pronunziando parole sconnesse. Non si poteva più dubitarne; il fanciullo aveva una congestione cerebrale di tale violenza, da far temere uno scioglimento fatale. La cura necessaria, nelle circostanze attuali, diveniva impossibile. Dove procurarsi il ghiaccio per rinfrescare quella povera fronte ardente? I progressi realizzati nell'isola Hoste non erano tali ancora da offrire questa sostanza, fuori della stagione invernale.

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Ma la natura non avrebbe tardato a fornire una quantità illimitata di ghiaccio, del quale il Kaw-djer deplorava ora la mancanza. L'inverno dell'anno 1884 doveva essere estremamente rigido e fu pure estremamente precoce. Cominciò ai primi d'aprile con tempeste violente che si susseguirono durante un mese quasi senza interruzione. Ne derivò un eccessivo abbassamento della temperatura, che finì col provocare tali nevicate, quali il Kaw-djer non aveva ancor veduto, dopo che si era stabilito in Magellania. Si lottò coraggiosamente contro la neve, finché riuscì possibile, ma, nel mese di luglio, gli implacabili fiocchi caddero in così fitti turbini che bisognò riconoscersi vinti. Malgrado tutti gli sforzi, lo strato nevoso raggiunse verso la metà di luglio l'altezza di più di tre metri e Liberia fu sepolta sotto il bianco lenzuolo. Le finestre sostituirono allora le porte e le case a un sol piano non ebbero altra uscita che un buco praticato nel tetto. La vita pubblica, come è facile concepire, restò completamente sospesa e i rapporti sociali ridotti al minimo. La salute generale si risentì necessariamente di tale rigida clausura. Le malattie epidemiche infierirono da capo e il Kaw-djer dovette prestare aiuto all'unico medico di Liberia, che non bastava più al bisogno. Fortunatamente, in quel momento non aveva più inquietudini né per Dick né per Sand. Sand, per primo, si era avviato verso la guarigione. Una diecina di giorni dopo l'avvenimento del quale era stato la vittima volontaria, si poteva considerarlo fuori di pericolo e presto si ebbe la certezza che l'amputazione sarebbe stata evitata. I giorni seguenti infatti la cicatrizzazione progredì con la rapidità, meglio con la foga, che è la prerogativa dei tessuti giovani e in meno di due mesi Sand poté lasciare il letto. Lasciare il letto?… L'espressione, in verità, è impropria. Sand non poteva più, né avrebbe mai più potuto lasciare il letto, né in alcun modo muoversi senza l'aiuto d'una mano estranea. Le

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gambe morte non avrebbero mai più potuto sostenere il suo corpo, condannato ormai all'immobilità. Il fanciullo non sembrava, del resto, preoccuparsene troppo. Quando riprese la coscienza delle cose, la sua prima parola non fu per compiangere sé stesso, ma per informarsi della sorte di Dick, alla cui salvezza egli si era così eroicamente sacrificato. Un pallido sorriso gli schiuse le labbra, quando lo assicurarono che Dick era sano e salvo, ma questo dopo un po' non gli bastò più e, mano mano che gli ritornavano le forze, incominciò a reclamare l'amico con crescente insistenza. Per molto tempo non fu possibile soddisfarlo. Durante più d'un mese, Dick non uscì dal delirio. La sua fronte scottava letteralmente, nonostante il ghiaccio che il Kaw-djer poteva ora adoperare senza economia. Poi, quando finalmente il periodo acuto si risolse, l'ammalato era tanto debole che la sua vita pareva attaccarsi a un filo. Però, a datare da quel giorno, la convalescenza fece progressi rapidi e il rimedio più efficace per lui fu l'apprendere che anche Sand era salvo. A tale notizia, il viso di Dick si irradiò di gioia sovrumana e, per la prima volta dopo tanti giorni, si addormentò d'un sonno tranquillo. Dall'indomani, egli poté assicurare di persona Sand che non lo avevano ingannato e questi fu liberato così da ogni preoccupazione. Dimenticando la sua disgrazia personale e tranquillo ormai sul conto dell' amico, richiese subito il suo violino e quando poté impugnare l'istrumento prediletto parve al colmo della gioia. Dopo un po' di giorni, si dovette cedere alle preghiere dei fanciulli e riunirli nella stessa stanza. Da allora, il tempo passò per essi con la rapidità di un sogno. Nei loro lettini riavvicinati, si guardavano e si sorridevano felici. Ma triste fu il giorno in cui Sand lasciò il letto. La vista dell'amico così martirizzato immerse Dick, che si alzava già da una settimana, nella più grande disperazione. L'impressione che ne subì fu tanto profonda quanto duratura. Egli si trasformò di un tratto, come al tocco di una bacchetta magica e dalla

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vecchia crisalide venne fuori un altro Dick più rispettoso, più riflessivo, meno indocile e combattivo. Si era allora al principio di giugno, vale a dire nel momento in cui la neve cominciava a bloccare i Liberiani nelle loro case. Un mese dopo, si entrò nel periodo più freddo di quel duro inverno; e non bisognava calcolare sul disgelo prima della primavera. Il Kaw-djer si studiò di reagire contro gli effetti deprimenti di una così lunga prigionia. Sotto la sua direzione, si organizzarono giochi all'aria aperta. Da un canaletto aperto a forza di braccia nella sponda del fiume, l'acqua presa sotto al ghiaccio fu sparsa nella pianura paludosa, che fu trasformata così in meravigliosa sala da pattinaggio. Gli appassionati di tale sport, molto in uso in America, poterono abbandonatisi allegramente. Per coloro ai quali non era familiare, si organizzarono corse su sci e su slitte lungo i pendii delle colline del Sud. A poco a poco i Liberiani si abituarono a quegli sports del ghiaccio e vi presero gusto. Il buon umore, e la salute pubblica a un tempo, se ne avvantaggiarono. Così si giunse all'ottobre, iniziatore del disgelo. Prima si sciolse la neve che copriva la pianura situata dalla parte del mare, poi fu la volta di quella che ricopriva Liberia e le strade si mutarono in torrenti, mentre il fiume spezzava la sua prigione di ghiaccio. Presto il fenomeno si generalizzò, così che il fiume, eccessivamente gonfio, minacciò di straripare e di inondare la città. Bisognava intervenire, se pur si voleva evitare il disastro. Il Kaw-djer mise in moto tutte le braccia. Un'armata di sterratori innalzarono un argine, seguendo un angolo che circondava la città, e il cui vertice era volto al Sud-Ovest. Uno dei lati dello sbarramento si dirigeva obliquamente verso i monti del Sud, mentre l'altro, tracciato a una certa distanza dal fiume, ne seguiva sensibilmente il corso. Un piccolo numero di case, e specialmente quella di Patterson, fabbricata troppo

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vicino alla sponda, restavano fuori dal perimetro di protezione. Avevano dovuto rassegnarsi a tale sacrificio necessario. Il lavoro, continuato giorno e notte, si compì in quarantotto ore. Era tempo. Dall'interno correva un diluvio verso il mare. L'argine a guisa di cuneo biforcò tutta l'immensa massa di acqua: una parte si rigettò nell'Ovest verso il fiume, l'altra, rumorosamente, si riversava nel mare. Nonostante l'inclinazione del terreno, Liberia divenne in poche ore un'isola dentro l'isola. Da ogni parte non si vedeva che acqua, da cui verso l'Est e il Sud emergevano le montagne e verso il Nord-Est le case del Borgo-Nuovo, difeso dalla sua altezza relativa. Tutte le comunicazioni vennero interrotte. Fra la città e il sobborgo, il fiume precipitava muggendo in flutti centuplicati. Otto giorni dopo, l'inondazione non tendeva ancora a decrescere, quando accadde un fatto grave. All'altezza dell'ortaglia di Patterson, la sponda, minata dalle acque furiose, crollò improvvisamente, trascinando la casa dell'Irlandese. Questi e Long scomparvero insieme ad essa, trasportati da un vortice invincibile. … Dopo l'inizio del disgelo, Patterson, sordo a tutte le esortazioni, si era energicamente rifiutato di lasciare la sua casa. Non aveva ceduto neppure nel vedersi escluso dalla protezione dell'argine e neppure quando il basso del suo recinto fu invaso. Né cedette di più, quando l'acqua giunse a battere la soglia della casa. Fu un attimo. Sotto gli occhi di alcun spettatori che dall'alto dell'argine assistevano impotenti alla scena, casa e abitanti furono travolti. Come se il doppio delitto avesse soddisfatto la sua collera, l'inondazione cominciò tosto a decrescere. Il livello dell'acqua diminuì a poco a poco e, finalmente, il 5 novembre, un mese preciso dopo il principio dello sgelo, il fiume riprese il suo solito letto. Ma il fenomeno si lasciava dietro innumerevoli rovine! Le vie di Liberia apparivano devastate, come se vi fosse passato sopra

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l'aratro. Delle strade, sfondate in vari punti e ricoperte in altri da un fitto strato di fango, non restavano che le tracce. Ci si occupò subito a ristabilire le comunicazioni soppresse. La strada che conduceva al Borgo-Nuovo, costruita in piena palude, era quella che aveva subito i danni più gravi. Occorsero più di tre settimane per rendere di nuovo praticabile il passaggio. Con sorpresa generale, la prima persona che la percorse fu precisamente Patterson. Scorto dai pescatori del Borgo-Nuovo nel momento, in cui, avvinghiato disperatamente a un pezzo di legno, giungeva al mare, l'Irlandese aveva avuto la fortuna di uscire sano e salvo da quel cattivo affare. Long, invece, doveva essere perito, perchè tutte le ricerche fatte per ritrovare il suo corpo erano riuscite infruttuose. Tali informazioni si ebbero in seguito dai salvatori, ma non da Patterson che, senza dare la minima spiegazione, si era recato direttamente nel luogo dove prima sorgeva la sua casa. Quando vide che non ne sussisteva traccia, la sua disperazione fu immensa. Con essa scompariva quanto possedeva sulla terra. Ciò che aveva portato all'isola Hoste e accumulato dopo, a furia di fatiche, di privazioni, di crudele durezza verso gli altri e verso se stesso, tutto era perduto senza speranza. Egli che dell'oro aveva fatta la sua unica passione, egli, che non aveva avuto altro scopo oltre quello di ammucchiare, egli non possedeva ora più nulla, e restava il più povero fra i più poveri che lo circondavano. Nudo e sprovvisto di tutto, come quando era venuto al mondo, doveva ricominciare la vita. Per quanto fosse grande il suo accoramento, Patterson non si permise né gemiti né lamenti. Meditò dapprima tacitamente, con gli occhi fissi sul fiume che gli aveva tolto ogni suo bene, poi si recò deliberatamente dal Kaw-djer. Gli si avvicinò con umile cortesia e, dopo essersi scusato per la grande libertà, gli espose che l'inondazione, la quale, per poco non gli aveva tolto la vita, lo riduceva anche alla più spaventosa miseria. Il Kaw-djer, il quale nutriva per lui profonda antipatia, rispose con freddezza:

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— È cosa spiacevolissima, ma che posso farci? Mi chiedete un aiuto? Quale contrappeso alla sua implacabile avarizia, Patterson possedeva una qualità: l'orgoglio. Non aveva mai implorato alcuno. Per quanto poco scrupoloso nella scelta dei mezzi, aveva però tenuto sempre testa a tutti e a tutto da solo e la sua lenta ascesa verso la ricchezza non la doveva che a se stesso. — Non chiedo la carità — replicò, raddrizzandosi sulla persona curvata. — Reclamo giustizia. — Giustizia!… — ripeté il Kaw-djer sorpreso. — Da chi? — Dalla città di Liberia — rispose Patterson, — dall'intero Stato Hostelliano. — A proposito di che? — domandò il Kaw-djer sempre maggiormente stupito. Riprendendo l'atteggiamento ossequiente, Patterson spiegò il suo pensiero in termini insinuanti. Secondo lui, era impegnata la responsabilità della colonia, prima di tutto perchè si trattava di una sventura generale e pubblica, il cui danno doveva essere sopportato proporzionatamente da tutti, poi perchè essa aveva seriamente mancato al suo dovere, non rizzando l'argine a difesa della città in riva al fiume stesso, in modo da proteggere indistintamente tutte le case. Il Kaw-djer si sforzò in ogni modo per spiegargli che il torto cui accennava era immaginario, che se la diga fosse stata rizzata più vicina al fiume, sarebbe crollata insieme alla sponda, sommergendo per con conseguenza l'intera città. Patterson non volle capir ragione e si intestò a riattaccarsi agli argomenti esposti prima. Il Kaw-djer perdette la pazienza e tagliò corto alla inutile discussione. Patterson non tentò di prolungarla. Andò subito a riprendere il suo posto fra i lavoratori del porto. Distrutta così la sua vita, egli si impiegava, senza perdere un minuto, onde riedificarla. Il Kaw-djer, considerando chiuso l'incidente, cessò immediatamente dal pensarvi. Ma l'indomani dovette mutare opinione. No, l'incidente non era chiuso; lo provava una citazione ricevuta da Ferdinando Beauval nella sua qualità di

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Presidente del Tribunale. Poiché una prima volta si era dimostrato all'Irlandese che nell'isola Hoste esisteva una giustizia, ora egli vi ricorreva una seconda volta. Per amore o per forza si fu costretti a discutere la strana causa, che, naturalmente, Patterson perdette. Senza palesare l'ira che doveva destargli l'insuccesso, sordo ai frizzi che nessuno lesinava a una vittima universalmente odiata, egli si ritirò, letta la sentenza, e ritornò placidamente al suo posto di lavoratore. Ma una nuova rivolta gli fermentava nell'anima. Fino allora, egli aveva veduto la terra divisa in due campi: da una parte lui, dall'altra, il resto dell'umanità. Il problema da risolvere consisteva unicamente nel far passare più oro che fosse possibile dal secondo campo nel primo. La cosa implicava la lotta perpetua, non implicava l'odio. L'odio è passione sterile; i suoi interessi non si pagano in moneta corrente. Il vero avaro non la conosce. Ora, Patterson odiava. Odiava il Kaw-djer che gli negava giustizia; odiava tutto il popolo hostelliano che aveva lasciato tranquillamente perire il prodotto, così aspramente conquistato, di tante fatiche e di tanti sforzi. Patterson rinchiuse il suo odio in se stesso e in quell'anima, come in una serra calda favorevole alla vegetazione dei sentimenti peggiori, esso doveva prosperare e crescere. Per il momento, egli era impotente contro i nemici. Ma i tempi potevano mutare… Egli avrebbe aspettato. La maggior parte della bella stagione fu impiegata a riparare i danni causati dall'inondazione. Si lavorò a riattare le strade, a riedificare le fattorie dove c'era bisogno, e già dal febbraio 1885 non restava più traccia della prova subita dalla colonia. Mentre i lavori procedevano, il Kaw-djer- come il solito percorse l'isola ih tutti i sensi. Ora poteva moltiplicare le sue escursioni che faceva a cavallo. Di questi animali se ne erano importati un centinaio. Durante le sue corse, ebbe occasione, a più riprese, d'informarsi di Sirdey. Ma non ottenne che qualche vago ragguaglio. Pochi emigranti poterono fornire qualche vaga notizia sul cuoco del Jonathan. Alcuni soltanto

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ricordavano di averlo scorto, l'autunno precedente, risalire a piedi verso il Nord. Nessuno seppe dire di più.

Nell'ultimo mese del 1884, una nave portò i duecento fucili ordinati dopo il primo attentato di Dorick. Lo Stato hostelliano possedeva ormai quasi duecentocinquanta armi da fuoco, non comprese quelle che un piccolo numero di coloni aveva potuto procurarsi.

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Un mese dopo, al principio del 1885, l'isola Hoste ricevette la visita di parecchie famiglie fuegiane. Come ogni anno, i poveri Indiani venivano a chieder aiuto e consiglio al Benefattore, poiché tale era il significato del nome indigeno decretato per riconoscenza al Kaw-djer. Se egli li aveva abbandonati, essi non potevano dimenticare, e non avrebbero mai dimenticato tutte le prove ricevute della sua devozione e della sua bontà. Tuttavia, per quanto fosse grande l'affetto che nutrivano i Fuegiani per lui, egli non era mai riuscito a decidere uno solo fra essi a stabilirsi nell'isola Hoste. Tali tribù sono troppo indipendenti per piegarsi a una regola qualsiasi. Per esse non c'è vantaggio materiale che valga la libertà. Ora, avere una dimora, vuol già dire essere schiavi. Libero veramente è soltanto l'uomo che non possiede nulla. Ecco perchè, alla certezza dell'indomani, essi preferiscono le corse vagabonde alla ricerca di un nutrimento scarso e incerto. Per la prima volta il Kaw-djer persuase, in quell'anno, tre famiglie di Pescherecci a piantare le loro tende e a fare una prova di vita sedentaria. Esse, che appartenevano alle più intelligenti fra quelle tribù erranti attraverso l'arcipelago, si stabilirono sulla riva sinistra del fiume, fra Liberia e il Borgo-Nuovo, e fondarono un casale, che fu il fulcro dei villaggi indigeni sorti in seguito. In quell'estate accaddero ancora due fatti importanti sotto aspetti diversi. Uno è relativo a Dick. Fin dal 15 del giugno precedente, i due fanciulli si potevano considerare ristabiliti. Specialmente Dick, era ormai completamente guarito e se ancora appariva un po' magro, tale magrezza non poteva sussistere a lungo, dato il suo formidabile appetito. Anche lo stato di Sand non lasciava più nulla da desiderare e per il resto non valeva ormai preoccuparsene, perchè la scienza era impotente ad impedire che egli non fosse condannato all'immobilità sino alla fine dei suoi giorni. Del resto, il piccolo infermo accettava tranquillamente l'inevitabile sventura. La natura gli aveva data un'anima dolce e tanto poco

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incline alla rivolta, quanto il suo amico Dick vi era portato. La sua mansuetudine gli giovò in quella dolorosa circostanza. No, in verità non rimpiangeva i giochi violenti ai quali si abbandonava in passato più per far piacere agli altri che per soddisfare i suoi gusti personali. Codesta sua vita da recluso gli piaceva e gli sarebbe sempre piaciuta, a condizione d'avere il suo violino e che il suo amico Dick gli stesse vicino, quando posava l'istrumento. Riguardo a ciò non poteva lamentarsi. Dick era divenuto il suo infermiere di tutti i momenti. Non avrebbe ceduto il posto a nessuno per aiutare Sand a uscire dal letto, a raggiungere la poltrona sulla quale trascorreva le lunghe giornate. Restava poi vicino al ferito, attento ai suoi minimi desideri, con pazienza inalterabile, della quale nessuno avrebbe creduto capace il bollente ragazzetto d'un tempo. Il Kaw-djer assisteva alla loro commovente intimità. Durante la malattia dei due fanciulli, aveva avuto tutto il tempo per osservarli, ed anch'egli si era loro affezionato. Ma Dick, oltre all'affezione paterna che gli aveva destato, lo interessava anche. Giorno per giorno si era convinto di quale anima retta, di quale squisita sensibilità e vivace intelletto fosse dotato quel fanciullo e, a poco a poco, era giunto a dolersi che doni così rari restassero improduttivi. Fisso in tale idea, risolse di occuparsi in modo particolare del ragazzo, che sarebbe divenuto così l'erede delle sue cognizioni nei rami svariati dell'umana attività. Così aveva fatto per Halg. Ma con Dick i risultati sarebbero stati ben diversi. Sul terreno preparato da una lunga schiera di ascendenti civilizzati, la semente poteva crescere più energicamente, alla sola condizione che Dick volesse valersi dei doni eccezionali di cui l'aveva dotato la natura. Verso la fine dell'inverno, il Kaw-djer iniziò la sua opera educativa. Un giorno, conducendo seco Dick, parlò al suo cuore.

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— Ecco, Sand è guarito — gli disse quando furono soli in mezzo alla campagna. — Ma resterà infermo. Non dovrai mai dimenticare, ragazzo, che egli ha perduto le gambe per salvarti. Dick alzò verso il Kaw-djer gli occhi già umidi di pianto. Perchè il Governatore gli parlava così? Quanto doveva a Sand, non c'era pericolo che potesse mai dimenticarlo. — Tu non hai che un mezzo per ringraziarlo — riprese il Kaw-djer — fare cioè in modo che il suo sacrificio serva a qualche cosa, rendendo la tua vita utile a te stesso e agli altri. Fino ad ora sei vissuto da fanciullo. Bisogna che tu ti prepari ad essere un uomo. Gli occhi di Dick brillarono. Comprendeva quel linguaggio. — Che bisogna fare, Governatore? — domandò. — Lavorare — rispose il Kaw-djer con voce grave. — Se tu mi prometti di lavorare con volontà, io sarò il tuo maestro. La scienza è un mondo che noi percorreremo insieme. — Ah, Governatore!… — disse Dick, incapace d'altre parole. Le lezioni incominciarono immediatamente. Ogni giorno il Kaw-djer dedicava un'ora al suo allievo. Dopo di che, Dick studiava vicino a Sand. E subito, fece progressi meravigliosi che stupivano il maestro. Lo studio compiva la trasformazione cominciata dal sacrificio di Sand. Ora non era più tempo da trastulli. Il fanciullo era morto, generando un uomo precocemente maturato nel dolore. Il secondo importante avvenimento fu il matrimonio di Halg con Graziella Ceroni. Halg aveva allora ventidue anni e Graziella stava per toccare i venti. Quel matrimonio non era proprio il primo celebrato all'isola Hoste. Sin dall'inizio del suo governo, il Kaw-djer aveva organizzato lo stato civile, e la costituzione della proprietà aveva avuto la conseguenza di suscitare nei giovani il desiderio di formarsi una propria famiglia. Ma il matrimonio di Halg assumeva pel Kaw-djer importanza speciale, costituendo il coronamento di una delle opere e, veramente, di quella che, per molto tempo, era stata la più cara al suo cuore. Il selvaggio, da lui trasformato in essere civile, si sarebbe perpetuato nei figli.

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L'avvenire della nuova famiglia appariva largamente assicurato. I prodotti della pesca assicuravano ad Halg e a suo padre larghi profitti. Si parlava già d'impiantare una nuova industria, in prossimità del Borgo-Nuovo, da cui i prodotti marittimi dell'isola Hoste sarebbero stati riversati, debitamente preparati, sul mondo intero. Ma, se anche tale progetto ancora vago non fosse stato realizzato, Halg e Karroly avevano già di che vivere abbastanza comodamente e senza temere il bisogno. Verso la fine dell'estate, il Kaw-djer ricevette dal Governo chileno la risposta alle sue offerte relative al Capo Horn. Nulla di positivo però ancora. Si chiedeva tempo per riflettere, si cavillava. Il Kaw-djer, conosceva troppo bene il mondo ufficiale per meravigliarsi della dilazione. Si armò di pazienza e si rassegnò a continuare una conversazione diplomatica, la quale, a causa delle distanze, non stava certo per giungere alla conclusione. Poi ritornò l'inverno, riportando le brine. I cinque mesi della sua durata non avrebbero presentato nulla d'importante, se una agitazione di ordine politico, del resto piuttosto calma, non si fosse osservata nella popolazione. Circostanza curiosa, l'autore occasionale di essa altri non era se non Kennedy. Nessuno ignorava le gesta dell'antico marinaio. La morte di Lewis Dorick e dei fratelli Moore, l'eroica devozione di Sand, la lunga malattia di Dick, la scomparsa di Sirdey non erano passate inosservate. Si conosceva tutto il fatto, compresa la maniera quasi miracolosa con la quale il Kaw-djer era scampato alla morte. Così, quando Kennedy ritornò in mezzo agli altri coloni, non ricevette buona accoglienza. Ma a poco a poco la prima impressione svanì, mentre, per uno strano fenomeno di cristallizzazione, tutti i malcontenti isolati si raggrupparono intorno a lui. In fondo la sua avventura non era comune. Era un personaggio in vista. Criminale per la maggior parte degli Hostelliani, nessuno, però, poteva contestare che egli fosse uomo d'azione, pronto alle risoluzioni energiche. Tale qualità fece di lui il capo naturale dei malcontenti.

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Malcontenti ce ne sono dovunque. Soddisfare tutti è, per ora almeno, chimera irrealizzabile. Dunque ce n'erano anche a Liberia. Oltre agli infingardi, che formavano, s'intende, il grosso dell'esercito, vi si contavano coloro che non erano riusciti ad abbandonare le vecchie abitudini, oppure che le avevano lasciate per ricadervi poi subito. Gli uni e gli altri rendevano responsabile, come il solito, l'Amministrazione della colonia delle proprie delusioni. A questo primo gruppo, venivano ad aggiungersi coloro che erano trascinati, per temperamento, a nutrirsi di verbosità, i politici puri, alcuni che professavano le dottrine che un giorno avevano avuto le preferenze del Kaw-djer, considerandole sfortunatamente da un punto di vista meno alto, alcuni comunisti sul tipo di Lewis Dorick, o collettivisti secondo il vangelo di Carlo Marx e di Ferdinando Beauval. I diversi elementi, per quanto fossero eterogenei, armonizzavano tra loro, per la ragione che non si trattava se non di fare opera d'opposizione. Finché è questione di distruggere, tutte le ambizioni si alleano facilmente. Solo al momento della conquista gli appetiti appaiono alla luce del sole e trasformano in avversari implacabili gli alleati del giorno prima. Per ora l'accordo appariva dunque completo, e ne risultava una agitazione superficiale, che, nel corso dell'inverno, si tradusse in riunioni e in comizi di protesta. I cittadini presenti alle sedute non erano mai numerosissimi, un centinaio tutto al più, ma facevano chiasso per mille e il Kaw-djer necessariamente se ne accorse. Anziché indignarsi per la nuova prova dell'ingratitudine umana, esaminò freddamente le rivendicazioni formulate e, in un punto almeno, le trovò fondate. I malcontenti avevano ragione, infatti, di sostenere che il Governatore non teneva il suo mandato da nessuno e che s'era attribuito il potere di sua propria volontà, cosa che costituiva atto da tiranno. Egli non deplorava in modo alcuno di avere violentata la libertà. Le circostanze non avevano ammesso esitazioni a suo

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tempo. Ma la situazione, oggi, appariva assai cambiata. Gli Hostelliani si erano incanalati ognuno nella direzione preferita e la vita sociale pulsava vigorosamente. La popolazione poteva forse considerarsi matura per tentare, senza imprudenza, una organizzazione più democratica. Risolse quindi di soddisfare i malcontenti, sottomettendosi spontaneamente alla prova delle elezioni e facendo nominare nello stesso tempo dagli elettori un Consiglio di tre membri, che dovevano assistere il Governatore nell'esercizio delle sue funzioni. Il collegio elettorale fu convocato per il 20 ottobre 1885, vale a dire al principio della primavera. La popolazione totale dell'isola Hoste si componeva allora di duemila anime, di cui milleduecentosessantacinque uomini maggiorenni. Ma alcuni elettori, troppo lontani da Liberia, non si recarono alle urne e non votarono che mille e ventisette elettori, di cui novecentosessantotto a favore del Kaw-djer. Per formare il Consiglio, gli elettori ebbero il buon senso di scegliere Harry Rhodes con ottocentotrentadue voti, Hartlepool, che lo seguì da vicino, con ottocentoquattro e, finalmente, Germano Rivière con settecentodiciotto. La maggioranza era schiacciante e, per quanto di mala voglia, il partito dell'opposizione dovette riconoscere la sua sconfitta. Il Kaw-djer trasse profitto della libertà relativa che gli assicurava la collaborazione del Consiglio, per compiere un viaggio che desiderava fare da molto tempo. In vista della discussione impegnata col Chili riguardo al Capo Horn, non riteneva inutile percorrere l'arcipelago ed esaminare in modo speciale l'isola che formava oggetto dei negoziati in corso. Partì sulla Wel-Kiej, insieme a Karroly, il 25 novembre per non ritornare, coi suoi piani già definitivamente fissati, che il 10 dicembre, dopo quindici giorni di navigazione, non sempre fortunata. Nel momento in cui sbarcava, un cavaliere entrava pure in Liberia dalla strada del Nord. Dalla polvere che lo ricopriva, si

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deduceva che venisse da lontano e che aveva corso a briglia sciolta. Costui si avviò direttamente al Palazzo raggiungendolo nello stesso momento in cui ritornava il Kaw-djer. Annunziandosi portatore di gravi notizie, chiese un'udienza particolare, che gli venne subito concessa. Un quarto d'ora più tardi il Consiglio veniva riunito ed emissari si sparpagliavano a cercare gli uomini di polizia. E non era trascorsa un'ora dall'arrivo del Kaw-djer, che egli, alla testa di venticinque cavalieri, si slanciava a briglia sciolta verso l'interno dell'isola. La causa della partenza precipitosa non rimase segreta a lungo. Cominciarono presto a circolare voci sinistre. Dicevasi che l'isola Hoste fosse stata invasa, che un esercito di Patagonesi avesse attraversato il canale del Beagle e fosse sbarcato sulla costa Nord della penisola Dumas, marciando su Liberia.

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VII.

L'INVASIONE

Gli allarmi erano giustificati, ma la voce pubblica li esagerava. Come sempre, la verità passando di bocca in bocca si amplificava. L'orda Patagonese, ch'era di circa settecento, sbarcata un giorno prima sulle coste Nord dell'isola, non meritava il nome di esercito. Sotto il nome di Patagonesi, si comprendevano, in linguaggio corrente, l'insieme delle tribù, in realtà assai diverse le une dalle altre dal punto di vista etnologico, che vivono nelle pampas dell'America del Sud. Di esse le più settentrionali, vale a dire quelle che vivono più prossime alla Repubblica Argentina, sono relativamente pacifiche. Dedite all'agricoltura, esse hanno formato numerosi villaggi e il loro paese non è neppure sprovvisto di borgate d'importanza più o meno grande. Ma, mano mano che si discende verso il Sud, tendono a cambiar carattere. Le più australi sono meno sedentarie e più temibili ad un tempo. Gli indigeni che le compongono, i Patagonesi propriamente detti, che vivono soprattutto dei prodotti della loro caccia, sono abili tiratori e cavalieri insuperabili. Praticano ancora la schiavitù, alimentata dai continui saccheggi, le guerre da tribù a tribù sono incessanti e non risparmiano punto i rari stranieri che si avventurano in quelle regioni quasi inesplorate. Sono veri selvaggi. La mancanza di governo regolare, la completa anarchia fomentata fino a non molto tempo addietro dalla rivalità degli Stati civilizzati limitrofi, hanno permesso il perpetuarsi di tali esistenze selvagge dedite al brigantaggio. Nessuno dubita che la Repubblica Argentina e il Chili, ora finalmente d'accordo, non vi sappiano porre fine; ma non bisogna illudersi che l'opera

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non sia lunga e faticosa, data la regione immensa, la popolazione disseminata, senza mezzi di comunicazione e usa, fin dalle origini del mondo, a una indipendenza illimitata. Gli invasori dell'isola Hoste appartenevano a tale categoria di Indiani. Come abbiamo veduto al principio del presente racconto, i Patagonesi hanno l'abitudine di simili incursioni in territori vicini e oltrepassano sovente lo stretto di Magellano per razziare con crudeltà feroce la grande isola della Magellania, conosciuta più specialmente col nome di Terra del Fuoco. Tuttavia, essi non si erano mai spinti fino allora così lontano. Per giungere all'isola Hoste avevano dovuto, o attraversare la Terra del Fuoco da parte a parte e poi il canale del Beagle, oppure seguire, dopo il litorale americano, i canali sinuosi dell'arcipelago. In ogni caso, essi non avevano compiuto simile esodo che a costo di gravissime difficoltà, tanto per approvvigionarsi durante la strada terrestre, come per navigare nei bracci di mare, a rischio di veder capovolgersi le loro leggere piroghe sotto il peso dei cavalli. Il Kaw-djer, galoppando alla testa dei suoi venticinque compagni, si chiedeva quale motivo avesse deciso i Patagonesi a una impresa così fuori delle loro abitudini secolari.

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Senza dubbio la fondazione di Liberia poteva spiegare, in qualche modo, il fatto anormale. Forse la reputazione della città novella si era sparsa nelle regioni circostanti, e la voce pubblica le aveva attribuito ricchezze meravigliose, ricchezze ingrandite anche maggiormente dall'immaginazione selvaggia. Nulla quindi di più naturale che esse avessero destato un senso di cupidigia.

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Sì, le cose, potevano spiegarsi così. Ma malgrado tutto, l'audacia degli invasori restava sorprendente e, benché si conoscesse la loro rapacità, riusciva difficile concepire che si fossero arrischiati ad affrontare un numeroso agglomeramento di uomini bianchi. Per slanciarsi in tale avventura, essi avevano avuto verosimilmente ragioni speciali, che il Kaw-djer cercava senza trovare. Egli ignorava in quale punto dell'isola avrebbe incontrato il nemico. Forse essi erano già in marcia. Forse non avevano ancora lasciato il luogo di sbarco. In questo caso, riferendosi alle informazioni dell'emissario, si sarebbe trattato di un percorso da centoventi a centoventicinque chilometri. Il viaggio avrebbe richiesto almeno due giorni, perchè le grandi velocità erano interdette sulle strade hostelliane, che lasciavano ancora molto a desiderare dal lato della viabilità. Partito di buon mattino il 10 dicembre, il Kaw-djer non poteva giungere che l'11 sera. Un po' oltre Liberia, la strada, dopo avere attraversato la penisola Hardy in tutta la sua larghezza, si orientava verso il Nord-Ovest e ne seguiva, dapprima per una trentina di chilometri, la spiaggia Ovest, battuta dai flutti del Pacifico; poi risaliva al Nord e, attraversando una seconda volta l'isola, in senso contrario, secondo il capriccio delle vallate, sfiorava, trentacinque chilometri più lungi, il fondo di Tekinika Sund, profonda frastagliatura dell'Atlantico, delimitante il Sud della penisola Pasteur, che un altro golfo più profondo ancora, il Ponsunby Sund, separa al Nord dalla penisola Dumas. Al di là, la strada, con svolte numerose, raggiungeva un colle elevato dell'importante catena di montagne, che, venute dall'Ovest, si prolungano fino all'estremità orientale della penisola Pasteur, poi si piegava, da capo, nell'Ovest, all'altezza dell'istmo che riunisce tale penisola all'insieme dell'isola Hoste. Finalmente, dopo aver lasciato dietro di sé il fondo del Ponsunby Sund, si ricurvava verso l'Est e, oltrepassando a ottantacinque chilometri da Liberia lo stretto istmo della penisola Dumas, ne costeggiava la spiaggia Nord, bagnata dalle acque del canale del Beagle.

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Tale la strada che il Kaw-djer doveva seguire. Cammin facendo, la truppa che guidava aumentò di qualche unità. Coloro fra i coloni che possedevano un cavallo, si unirono ad essi. Agli altri il Kaw-djer impartiva, passando, le istruzioni necessarie. Dovevano chiamare a raccolta e riunire il maggior numero di combattenti. Coloro che possedevano un fucile avevano ordine di piazzarsi da una parte e dall'altra della strada carreggiabile, scegliendo i posti più inaccessibili, in modo che i cavalieri non potessero inseguirli. Di là dovevano sparare con prontezza sugli invasori al loro apparire, battendo poi subito in ritirata verso un punto più elevato della montagna. La consegna era di mirare preferibilmente il cavallo: un Patagonese a piedi cessa di essere temibile. Quanto ai coloni, i quali non avevano che le proprie braccia, furono adibiti a rompere la strada e ritirarsi dietro un deserto. Sopra la distesa di un chilometro, da ogni parte della strada, i campi dovevano venire devastati entro le ventiquattro ore, le fattorie vuotate di utensili e di provvigioni. In tal modo si sarebbe reso più difficile il vettovagliamento degli invasori. Poi, per tutti, tanto per quelli armati quanto per coloro i quali non possedevano che la falce e l'ascia, l'ordine era di concentrarsi presso i Rivière. Il recinto circondato da una solida palizzata e difeso da numerosa guarnigione, poteva considerarsi una vera piazza forte, che non correva rischio di essere espugnata. Conformemente alle sue previsioni il Kaw-djer raggiunse l'istmo della penisola Dumas l'11 dicembre, verso le sei di sera. Nessuna traccia ancora dei Patagonesi! Ma, a partire da quel punto, si avvicinavano al luogo dello sbarco ed era necessaria prudenza estrema. Si trovavano anche nel periodo delle giornate lunghe e quindi l'oscurità non sarebbe venuta che tardi. Impiegarono quasi cinque ore per giungere in vista del campo nemico. Era quasi mezzanotte e un'oscurità relativa copriva la terra. Si scorgevano chiaramente le luci dei fuochi. I Patagonesi non si erano mossi. La necessità di far riposare i cavalli li aveva fatti fermare nel luogo di sbarco.

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La piccola armata del Kaw-djer contava ora trentadue fucili, compreso il suo. Ma, dietro, centinaia di braccia erano occupate a rovinare la strada, ad accumularvi tronchi di alberi, ad innalzare barricate, in modo da complicare, il più possibile, la marcia degl'invasori. Riconosciuto il campo avversario, essi retrocessero, e sostarono a cinque o sei chilometri prima dell'istmo della penisola Dumas. I cavalli furono allora ricondotti al di là dell'istmo da alcuni coloni che li dovevano tenere in riserva nelle montagne, poi i cavalieri appiedati, nascosti sui pendii scoscesi che costeggiavano il Sud della strada, attesero il nemico. Il Kaw-djer non aveva intenzione d'impegnare una vera battaglia, che la sproporzione delle forze avrebbe resa insensata. Indicatissima invece una tattica di guerriglie. Dai loro posti elevati, i difensori dell'isola potevano tirare a piacere sugli avversari, poi, mentre costoro avrebbero perduto il tempo a sbarazzarsi degli ostacoli accumulati loro dinanzi, essi si sarebbero ripiegati di cresta in cresta in scaglioni, in modo da assicurarsi successivamente protezione reciproca. Non esisteva pericolo serio, se non nel caso che i Patagonesi si fossero risolti ad abbandonare i loro animali, per slanciarsi all'inseguimento dei tiratori. Ma tale eventualità non si doveva temere. I Patagonesi non avrebbero indubbiamente rinunziato alla abitudine inveterata di non combattere che a cavallo, per avventurarsi sopra un terreno caotico, ove ogni roccia poteva nascondere un'imboscata. Erano le nove del mattino, quando il giorno dopo, 12 dicembre, cominciarono ad apparire i primi Patagonesi. Partiti alle sei, avevano impiegato tre ore a percorrere venticinque chilometri. Turbati per essere così lontani dalla loro base in una regione totalmente sconosciuta, seguivano cautamente la strada, limitata da una parte dal mare e dall'altra da montagne scoscese. Marciavano gomito contro gomito, in fila serrate, così da render più facile il compito dei tiratori.

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Tre scariche che scoppiarono d'un tratto alla loro sinistra, gettarono lo scompiglio tra loro. La testa della colonna retrocesse, disordinando le file seguenti. Ma poiché nessun'altra scarica seguì la prima, gli invasori ripresero fiducia e avanzarono di nuovo. Tutti,i colpi avevano mirato giusto, però. Un uomo si torceva sul ciglio della strada nelle convulsioni dell'agonia. Due cavalli giacevano per terra, uno col petto perforato, l'altro con la gamba rotta. Cinquecento metri più in là, i Patagonesi urtarono contro una barricata di tronchi d'alberi ammucchiati. Mentre erano occupati a rimuoverla, risuonarono ancora altre fucilate Uno dei proiettili mise un altro cavallo fuori servizio. Dieci volte era stata rinnovata la tattica con successo, quando la colonna pervenne all'istmo della penisola Dumas. In quel punto in cui la strada incassata non aveva altra uscita che una stretta gola, la difesa si era fatta più seria. Prima d'una barricata più solida e più alta delle precedenti, un fossato largo e profondo tagliava la strada e nel momento in cui i Patagonesi raggiunsero l'ostacolo, la fucileria crepitò sul loro fianco sinistro. Ma dopo un primo momento di rinculo, gl'invasori ritornarono alla carica e risposero ai colpi, mentre un centinaio dei loro cercavano ogni mezzo per ristabilire il passaggio. Allora la fucileria raddoppiò d'intensità. Un vero nugolo di proiettili sibilò attraverso il sentiero, che divenne intenibile. I primi che si avventurarono nella zona pericolosa vennero colpiti senza pietà, il che dette da pensare ai compagni e l'orda tutta intiera parve esitasse a spingersi più oltre. I tiratori hostelliani la vedevano per intero svolgersi sopra più di seicento metri di strada. Percorsa da violente scosse, oscillava talvolta in massa, mentre alcuni cavalieri galoppavano da una estremità all'altra, come se avessero portato gli ordini di un capo. Ogni volta che uno dei cavalieri giungeva alla testa della colonna, si rinnovava un altro tentativo contro la barricata, tentativo subito seguito da un nuovo moto indietreggiante,

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quando la caduta di un uomo o di un cavallo veniva a dimostrare quanto la posizione fosse pericolosa. Il tempo trascorse così. Finalmente, solo all'avvicinarsi della sera, la barricata fu rovesciata. Ormai la strada non era sbarrata che dai proiettili. I Patagonesi presero una risoluzione disperata. Riunirono improvvisamente i cavalli e incitandoli a un galoppo furibondo, si rovesciarono come un turbine attraverso il passaggio. Vi restarono tre uomini e dodici cavalli, ma l'orda passò. Cinque chilometri più in là, approfittando di uno spazio scoperto nel quale non erano possibili altre insidie, essa si fermò e prese le disposizioni per la notte. Gli Hostelliani invece, senza concedersi un istante di riposo, continuarono la loro sapiente ritirata e andarono a prender posizione per il giorno veniente. La giornata era buona. Costava agli invasori trenta cavalli e cinque uomini fuori combattimento, contro un solo colono leggermente ferito. Gli uomini appiedati non erano più calcolabili. Cattivi camminatori, sarebbero rimasti indietro e ridotti subito, così sbrancati, all'impotenza. Nel giorno seguente venne adottata la stessa manovra. Verso le due del pomeriggio, i Patagonesi, avendo già percorso in totale una sessantina di chilometri, raggiunsero la sommità del colle, fino al quale saliva la strada per superare la catena centrale dell'isola. Uomini e bestie apparivano ugualmente estenuati. Prima di inoltrare nella strettoia che cominciava in quel posto, sostarono. Il Kaw-djer ne approfittò per appostarsi qualche poco più innanzi. La sua truppa, ingrossata dai tiratori radunati durante la ritirata e da quelli che già si trovavano sulla cima del colle, contava in quel momento quasi sessanta fucili. Egli dispose i sessanta uomini sul culmine dell'argine che dominava la strada e, assai bene protetti dalle enormi rocce che cadevano a piombo, gli Hostelliani potevano ridersi dei proiettili nemici e decimare impunemente l'invasore. Appena i Patagonesi ripresero la marcia, dalla cresta rimbalzò una pioggia di palle, che falciò le prime file. Essi

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indietreggiarono in disordine, poi ritornarono alla carica, ma senza esito. Durante due ore, l'alternativa si rinnovò. I Patagonesi, che erano coraggiosi, non apparivano intelligenti. Soltanto quando videro stesi a terra un grande numero dei loro, si ricordarono della manovra del giorno prima, così bene riuscita. Risuonarono alcuni richiami. I cavalli si riunirono, l'orda formò un sol blocco. Poi, pronta finalmente alla carica, essa si slanciò tutta intera, in una sol volta e partì a un galoppo furioso. Gli zoccoli calpestavano il terreno col rumore del tuono, la terra tremava. E i fucili hostelliani sparsero più attivamente la morte. Era uno spettacolo superbo. Nulla poteva trattenere i cavalieri, mutati in meteore. Uno di essi lasciava vuoto l'arcione? Colui che lo seguiva lo calpestava senza pietà. Un cavallo cadeva ferito o morto? Gli altri saltavano sopra l'ostacolo e continuavano senza titubanza la corsa sfrenata. Gli Hostelliani non pensavano certo ad ammirarne la prodezza. Per essi era questione di vita o di morte. Non pensavano che a questo: caricare, mirare, sparare, poi caricare e mirare e sparare, e così di seguito, senza un momento di riposo. Le canne dei fucili bruciavano loro le mani; ma sparavano ancora. Nell'impazzamento della battaglia, dimenticavano ogni prudenza. Uscivano dai nascondigli, si offrivano ai colpi nemici. E i nemici avrebbero vinto, se fosse stato loro possibile rispondere ai colpi. Ma i Patagonesi, nella loro corsa, non potevano adoperare le armi. A che scopo, del resto? La distesa mediocre del fronte di battaglia rivelava il piccolo numero degli avversari e quindi il loro solo obbiettivo era oltrepassare la zona pericolosa, disposti a compiere, pur di raggiungerlo, i sacrifici necessari. La superarono in fatti. Le palle non fischiarono più. Allora rallentarono la corsa e seguirono al gran trotto la strada, che, dopo aver superato il culmine del colle, digradava adesso verso la pianura con brusche svolte. Tutto, intorno, era tranquillo. Tratto tratto, raramente, un colpo scoppiava alla loro destra o alla loro sinistra, quando le rocce guardavano a picco la strada.

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Del resto, quei colpi, tirati da qualche colono trasformato in guerriero, fallivano, generalmente, la mira. In ogni modo, i Patagonesi rispondevano con una grandine di palle, poi proseguivano il cammino. Forti dell'esperienza fatta, non commisero l'errore di fermarsi a troppo breve distanza dal luogo dell'ultimo combattimento. Fino a notte inoltrata essi scesero rapidamente il pendìo e per accamparsi non si fermarono che alla piana. Era stata per loro una dura giornata. Avevano percorso sessantacinque chilometri, dei quali trentacinque oltre il colle. Ora potevano scorgere alla loro destra le onde del Pacifico, che lambivano la spiaggia sabbiosa e a sinistra si stendeva una vasta pianura, dove le sorprese non erano più da temere. Domani sarebbero giunti di buon'ora alla mèta, dinanzi a Liberia, distante soli trenta chilometri. Ormai, non restava altro al Kaw-djer che portarsi davanti agli invasori. Ma oltre alla natura del paese, che non si prestava alla manovra così bene riuscita fino allora, lo separava anche dai nemici una troppo grande distanza. Dietro suo ordine, non ci si ostinò quindi in un inutile inseguimento, e ci si concesse invece, stesi sulla nuda terra, alla luce delle stelle, qualche ora di riposo, reso necessario dalle fatiche sopportate durante tre notti consecutive. Il Kaw-djer non ebbe da dolersi del risultato della sua tattica. In quell'ultima giornata, i nemici avevano perduto almeno cinquanta cavalli e una quindicina di uomini. Restavano quindi diminuiti di circa cento cavalli e la truppa sarebbe giunta in Liberia moralmente scossa. Contrariamente poi a quanto essi si attendevano, non vi sarebbe entrata senza gravissime perdite. L'indomani mattina, riavuti i cavalli, cosa che non fu possibile prima di mezzogiorno, i tiratori, ridivenuti cavalieri e ridotti di conseguenza a trentadue, poterono iniziare, a loro volta, la discesa. Nessun ostacolo impediva loro di proseguire celermente. La prudenza non appariva più necessaria, essendo stati informati che i Patagonesi continuavano la marcia in avanti ed essi non

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correvano quindi il rischio di urtare ad un tratto nella coda della colonna nemica.

Verso le tre fu raggiunto il posto dove l'orda si era accampata. Se ne scorgevano tracce numerose. Ma dalle prime ore del mattino essa si era rimessa in moto e assai probabilmente doveva trovarsi, in quel momento, sotto Liberia. Dopo due ore essi cominciavano a fiancheggiare la palizzata che chiudeva la fattoria dei Rivière, quando sulla strada scorsero un forte gruppo di uomini appiedati. Erano più di

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cento e avvicinandosi compresero che si trattava di Patagonesi privati dei loro cavalli durante gli scontri precedenti. All'improvviso, dall'interno del recinto partirono alcuni colpi di arma da fuoco. Una diecina di Patagonesi caddero. Taluni dei superstiti risposero e diressero contro la palizzata palle inoffensive, altri tentarono un movimento di fuga, e solo allo scoprirono i trentadue cavalieri, che ostacolavano loro la ritirata scaricando le carabine. Al rumore della detonazione più di duecento uomini armati di forche, di falci e di ascie irruppero dal recinto, sbarrando la strada verso Liberia. Circondati da tutte le parti, a destra da rocce insormontabili, davanti da contadini resi temibili dal loro numero, a sinistra dai fucili, le cui canne luccicavano sopra la palizzata, di dietro finalmente dal Kaw-djer e dai suoi cavalieri, i Patagonesi, perduta ogni speranza, gettarono a terra le armi. Vennero catturati senz'altro spargimento di sangue. Legati mani e piedi, furono rinchiusi in un granaio, alla porta del quale si posero uomini di guardia. L'operazione era riuscita a meraviglia. Non soltanto gli invasori avevano perduto un centinaio di cavalieri, ma anche un centinaio di fucili, di mediocre valore sicuramente, ma che avrebbero aumentato invece la forza degli Hostelliani. Questi potevano ora disporre di trecentocinquanta armi da fuoco, contro seicento circa del nemico. La partita diveniva quasi uguale. La guarnigione riunita dai Rivière poté informare il Kaw-djer sulla marcia dei Patagonesi. Passando al mattino davanti alla palizzata non avevano fatto che lievi tentativi per superarla. Ma fin dalle prime fucilate, vi avevano rinunciato, accontentandosi di scambiare qualche proiettile, senza impegnarsi in un attacco più serio. Decisamente, quei selvaggi potevano essere prodi, ma non certo uomini di guerra. Il loro obbiettivo era Liberia e vi andavano direttamente, senza curarsi dei nemici che si lasciavano alle spalle. Avendo avuto la fortuna di fare così numerosi prigionieri, il Kaw-djer non volle allontanarsi senza interrogarne qualcuno.

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Nel granaio ove stavano rinchiusi regnava profondo silenzio. Rannicchiati contro i muri, quei cento uomini aspettavano, con immobilità feroce, che si decidesse la sorte loro. Vincitori avrebbero fatto schiavi i vinti. Vinti, ritenevano naturale che simile trattamento venisse loro inflitto. Non uno fra essi si degnò osservare la presenza del Kaw-djer. — Qualcuno di voi capisce lo spagnuolo? — chiese questi a voce alta. — Io — disse un prigioniero alzando la testa. — Il tuo nome? — Athlinata. — Cosa sei venuto a fare in questo paese? L'indiano, senza un gesto, rispose: — La guerra. — Perchè farci la guerra? — osservò il Kaw-djer. — Noi non siamo nemici del tuo popolo. Il Patagonese tacque. Il Kaw-djer riprese: — I tuoi fratelli non sono mai venuti qui. Perchè questa volta vi siete spinti così lontani dal vostro paese? — Il capo ha ordinato — disse l'Indiano calmo. — I guerrieri hanno obbedito. — Ma, insomma, — insisté il Kaw-djer — il vostro scopo quale è? — La grande città del Sud — rispose il prigioniero. — E gli indiani sono poveri. — Ma quelle ricchezze bisognerà prenderle — replicò il Kaw-djer — e gli abitanti della città le difenderanno. Il Patagonese sorrise ironicamente. — La prova è nel fatto che tu e i tuoi fratelli siete ora prigionieri — soggiunse il Kaw-djer sotto forma di argomento ad hominem. — I guerrieri Patagonesi sono numerosi — rispose l'Indiano senza lasciarsi turbare. — Gli altri ritorneranno nella loro patria, trascinando i tuoi fratelli alla coda dei loro cavalli. Il Kaw-djer alzò le spalle.

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— Tu farnetichi, ragazzo, non uno di voi entrerà in Liberia. Il Patagonese tornò a sorridere con aria incredula. — Non lo credi? — chiese il Kaw-djer. — L'uomo bianco ha promesso — replicò l'Indiano con sicurezza. — Egli darà la grande città ai Patagonesi. — L'uomo bianco?… — ripeté il Kaw-djer. — C'è dunque un bianco tra voi? Ma tutte le sue domande riuscirono vane. L'Indiano aveva evidentemente detto quanto sapeva e fu impossibile ottenere maggiori schiarimenti. Il Kaw-djer si ritirò preoccupato. Chi era l'uomo bianco, traditore della sua razza, che si alleava a un'orda di selvaggi contro altri bianchi? In ogni modo ecco una buona ragione per affrettarsi. Benché Hartlepool, conformandosi agli ordini ricevuti, avesse preso sicuramente le misure più urgenti, diveniva necessario portare rinforzi alla guarnigione di Liberia. Si mossero verso le otto di sera. La truppa guidata dal Kaw-djer contava ora centocinquantasei uomini, di cui centodue armati a spese dei Patagonesi e si componeva esclusivamente di fanti perchè i cavalli erano stati lasciati presso i Rivière. Per introdursi in Liberia e oltrepassare la linea nemica, il Kaw-djer non aveva intenzione, infatti, di adoperare il metodo, certamente ardito, ma insensato, usato dai Patagonesi per forzare i passaggi difficili. Il suo piano consisteva nell'adoperare la scaltrezza anziché la forza e in questo caso i cavalli divenivano imbarazzanti piuttosto che utili. Dopo tre ore di marcia, si giunse in vista della città. Nella notte, già completamente caduta, una linea di fuochi indicava il campo dei Patagonesi, steso in vasto semicerchio tra la palude e il fiume. L'investimento era completo. Diveniva impossibile quindi, attraversare non visti la linea delle sentinelle, poste a un centinaio di metri di distanza l'una dall'altra. Il Kaw-djer fece fermare tutta la sua gente. Prima di spingersi più oltre,

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bisognava decidere la tattica da seguire. Certo gli invasori non stavano tutti sulla riva destra del fiume. Alcuni, almeno, avevano dovuto guadagnare l'acqua a monte della città. Mentre il Kaw-djer rifletteva, una viva luce splendè improvvisamente nel Nord-Ovest. Le case del Borgo-Nuovo bruciavano.

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VIII.

UN TRADITORE.

Harry Rhodes e Hartlepool sui quali, in assenza del Kaw-djer, ricadeva naturalmente il peso del potere, non avevano perduto tempo, mentre questi ostacolava nel miglior modo possibile la marcia dei Patagonesi. I quattro giorni di respiro che Liberia doveva alla tattica del suo Governatore, erano bastati per mettere la città in istato di difesa. Due fossati lunghi e profondi, sopra i quali la terra rigettata aveva formato uno spalto a prova di fucile, rendevano impossibile un colpo di mano. Uno dei fossati, quello del Sud, lungo circa due mila passi, partiva dal fiume, poi, curvandosi a semicerchio, abbracciava la città fino alla palude, che costituiva già di per se stessa un ostacolo insormontabile. L'altro, quello del Nord, lungo cinquecento passi soltanto, nasceva parallelamente al fiume per andare a morire nella palude, attraversando la strada che riuniva Liberia al Borgo-Nuovo. La città era così difesa da tutti i lati. A Nord e al Nord-Est dalla palude, nella quale un cavallo sarebbe affondato fino al ventre, al Nord-Ovest e al Sud-Est da bastioni improvvisati; all'Ovest dal corso d'acqua, che opponeva agli assedianti la sua barriera liquida. Il Borgo-Nuovo era stato evacuato. Gli abitanti rifugiatisi a Liberia con tutto quanto possedevano, avevano lasciato le case, condannate a sicura distruzione. Fin dalla prima sera, prima ancora che i lavori difensivi fossero stati ultimati e quando il pericolo non appariva imminente, non si trascurò di stabilire guardie vigilanti tutt'intorno alla città. Circa cinquanta uomini furono costantemente adibiti a tale

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servizio, e incaricati di dare l'allarme al primo indizio di pericolo. Centosessantacinque uomini, armati dei residui fucili e riuniti nel cuore della città, si tenevano in riserva, pronti ad accorrere al primo richiamo. Tutti i cittadini prendevano parte per turno a questi tre servizi. La difesa non poteva essere meglio organizzata. Dinanzi, la linea di copertura formata dalle cinquanta sentinelle, che, a intervalli fissi, erano rilevate dai centosessantacinque uomini della riserva centrale. In terzo luogo, il resto dei Liberiani, che non avrebbero tardato a prestar mano forte al minimo allarme. Questi ultimi non possedevano in verità migliori armi offensive che scuri, spranghe o coltelli, armi però non trascurabili nel caso di un assalto e quindi di un combattimento corpo a corpo. L'obbligo della guardia era generale e nessuno poteva sottrarvisi. Patterson vi si dovette assoggettare al pari di tutti gli altri. D'altronde, qualunque fosse il sentimento che lo animava, parve adattarsi di buon animo, e in verità lo agitavano pensieri così contraddittori, che egli stesso non avrebbe potuto dire se ne provasse contrarietà o soddisfazione. Durante le ore di fazione, egli rifletteva su tale problema e, per la prima volta in vita sua, faceva un po' di analisi. L'animosità già concepita contro i suoi concittadini, contro la città di Liberia, contro l'intera isola Hoste, esisteva sempre in fondo al suo cuore e quindi gli sembrava duro contribuire, in un modo o in un altro, alla salvezza di persone esecrate. Considerata da quel punto di vista, la fazione lo esasperava. Ma l'odio, in Patterson, non veniva che in terza linea. Per l'odio sincero, come per il sincero amore, ci vogliono anime ardenti e vaste e quella meschina di un avaro non può albergare passioni così ampie. Dopo la cupidigia, il sentimento predominante in lui era la paura. Ora la sua sorte si legava a quella degli altri concittadini e tutti i Liberiani erano solidali; la paura quindi gli consigliava di soffocare l'odio. Gli sarebbe certo piaciuto vedere in fiamme la città che ormai abborriva, ma a condizione però di poter prima porre in salvo se stesso. Ora non v'era alcuna possibilità di

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scampo. L'isola brulicava di Patagonesi, la cui ferocia era leggendaria, che sarebbero stati presto in vista di Liberia. Patterson, difendendola, difendeva, dopo tutto, sé stesso. A conti fatti, preferiva dunque montare la guardia, benché la cosa gli fosse fonte delle più penose sensazioni. Non provò infatti nessun piacere a restare solo, talvolta di notte, in posti avanzati, a rischio di venire sorpreso dal nemico. Così la paura faceva di lui un'ottima sentinella. Con quale forza spalancava gli occhi nell'ombra! Con quanta coscienza frugava le tenebre, col fucile spianato e col dito sul grilletto, al più piccolo rumore! I primi quattro giorni passarono senza incidenti, ma così non fu del quinto. Verso mezzogiorno si videro i Patagonesi apparire ed accamparsi al Sud della città. La fazione diveniva cosa seria. Ormai il nemico era minaccioso. La sera di quel giorno Patterson stava di guardia sullo spalto settentrionale tra il fiume e la strada del Borgo-Nuovo, quando una luce intensa brillò in direzione del porto. Non c'era da illudersi; i Patagonesi incominciavano la danza. Forse stavano per dare l'assalto senz'altra attesa e molto verosimilmente proprio in faccia a lui, perchè la sua cattiva stella l'aveva voluto vicinissimo alla strada del Borgo-Nuovo. Quale terrore non lo prese quando, precisamente su quella strada, scoppiò all'improvviso un grande baccano. Certo, e Patterson lo sapeva, la strada era tagliata da un fossato che una derivazione aveva riempito di acqua. Ma, nel momento del pericolo, quella difesa che durante il giorno gli inspirava fiducia, sembravagli assai debole! Vide il fossato guadato, la spallata scavalcata, la città invasa… Tuttavia i presunti assedianti avevano sostato in riva al fiume. Patterson, troppo lontano per distinguere le parole, udì tuttavia che si parlottava. Poi ci fu un grande rimescolìo. Si trascinavano assi, traversini, pertiche, con l'intenzione di stabilire un ponte provvisorio. Qualche momento dopo, Patterson, rassicurato, osservò sfilare i nuovi venuti. Le canne dei loro fucili scintillavano debolmente sotto il raggio della

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luna, la quale entrava nell'ultimo quarto. Alla testa marciava un uomo robusto intorno al quale ci si stringeva. Il suo nome correva di bocca in bocca. Era il Kaw-djer. Patterson risentì, ad un tempo, ira e gioia. Ira, perchè detestava il Kaw-djer sopra tutti, ma gioia altresì sentendosi rassicurato dalla presenza di tanti nuovi difensori. Se il Kaw-djer arrivava da quella parte, voleva dire che veniva effettivamente dal Borgo-Nuovo. Infatti, scorta nel buio la luce dell'incendio che distruggeva il Borgo-Nuovo, egli aveva ideato un piano d'azione. Varcando il fiume, sull'esempio dei Patagonesi, a tre chilometri a monte, con la sua piccola armata si era avviato attraverso la campagna nella direzione delle fiamme che lo guidavano come un faro. Dal numero dei fuochi di bivacco che brillavano al Sud della città, supponeva giustamente che vi fosse accampato il grosso degli invasori. Nel quale caso, in direzione del Borgo-Nuovo, non ne avrebbe trovato che un piccolo nucleo, facilmente disperdibile. Fatto ciò, avrebbero potuto entrare in Liberia, tranquillamente, dalla strada. Le cose si erano svolte conformi alle sue previsioni. Gli incendiari del porto furono sorpresi mentre, per l'ira di non avervi trovato nulla che valesse la pena di essere saccheggiato, stavano ancora occupatissimi a compiere la distruzione. Giunti senza la più piccola resistenza fino a quel raggruppamento di case trovate deserte completamente, erano così tranquilli che non si davano neppure il pensiero di vigilare. Il Kaw-djer piombò su costoro come un fulmine. La fucileria crepitò intorno all'improvviso da tutte le parti. I Patagonesi presero la fuga, lasciando nelle mani dei vincitori altri quindici fucili e cinque prigionieri. Non si tentò di inseguirli. Le detonazioni potevano essere state udite dall'altro lato del fiume e diveniva possibile un ritorno offensivo. Senza attendere, gli Hostelliani ripiegarono su Liberia. La battaglia non era durata dieci minuti. Il ritorno inatteso del Kaw-djer non fu la sola emozione che il destino serbasse a Patterson. Tre giorni dopo ne provò una

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seconda, molto più intensa, le cui conseguenze dovevano divenire assai gravi.

Il suo turno di guardia lo aveva posto questa volta, dalle sei della sera alle due di notte, sulla sponda alta del fiume, a un centinaio di metri dal punto dove si appoggiava lo spalto settentrionale. Tra lui e lo spalto erano scaglionate altre tre

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sentinelle. Il posto non sembrava cattivo. Si era protetti da ogni lato. Quando Patterson vi giunse, ci si vedeva ancora e la posizione gli sembrò eccellente. Ma, poco a poco, scese la notte ed egli venne ripreso dai soliti terrori. Daccapo tese l'orecchio ai più piccoli sussurri e scandagliò con lo sguardo in tutti i sensi, sforzandosi di sorprendere un possibile movimento sospetto. Egli guardava lontano e il pericolo invece gli era vicinissimo. Quale non fu il suo spavento, quando all'improvviso udì chiamarsi sottovoce: — Patterson!… — si mormorava a due passi da lui. Egli soffocò un grido pronto a sfuggirgli dalle labbra, perchè, con tono minaccioso, gli si ordinava già sordamente: — Silenzio! Mi riconosci? E poiché l'Irlandese, incapace d'articolare parola, non rispondeva: — Sirdey — fu detto nell'ombra. Patterson respirò. Parlava un camerata. L'ultimo, per esempio, che avesse immaginato di incontrare in un posto simile. — Sirdey?… — ripeté interrogativamente, smorzando a sua volta il tono della voce. — Sì… Sii prudente… Parla piano… Sei solo?… Non c'è nessuno intorno? Patterson frugò con gli occhi le tenebre. — Nessuno — disse. — Non muoverti… — raccomandò Sirdey. — Resta in piedi… Che ti si veda… Io mi avvicino, ma tu non voltarti dalla mia parte. Vi fu un fruscio tra l'erbe della sponda. — Eccomi — disse Sirdey che restò steso a terra. Malgrado il divieto, Patterson arrischiò un'occhiata dalla parte del compagno e constatò che egli era bagnato dalla testa ai piedi. — Di dove vieni? — interrogò riprendendo l'atteggiamento di prima. — Dal fiume… Sono coi Patagonesi. — Coi Patagonesi!… — esclamò sordamente Patterson.

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— Sì!… Diciotto mesi fa, quando cioè ho lasciato l'isola Hoste, alcuni Indiani mi hanno fatto passare il canale del Beagle. Io volevo andare a Punta-Arenas e di là in Argentina, o altrove. Ma i Patagonesi mi hanno colto per strada. — Che hanno fatto di te? — Uno schiavo. — Uno schiavo!… — ripeté Patterson. — Ma ora sei libero, mi sembra. — Guarda, — rispose Sirdey semplicemente. Patterson, obbedendo all'invito, distinse una corda che il suo interlocutore gli mostrava e che sembrava legata alla sua cintura. Ma avendo l'altro agitato la pretesa corda, egli riconobbe che si trattava d'una sottile catena di ferro. — Ecco come sono libero — riprese Sirdey. — Senza contare che là, a dieci passi, nascosti entro l'acqua fino al collo, ci sono due Patagonesi che mi sorvegliano. Quando anche giungessi a spezzare questa catena, di cui essi tengono l'altro capo, essi saprebbero ben riprendermi prima che fossi lontano. Patterson tremò in modo così evidente, che Sirdey se ne avvide. — Che hai? — chiese. — Due Patagonesi!… — balbettò Patterson spaventato. — Non aver paura — disse Sirdey. — Non ti faranno niente. Hanno bisogno di noi. Ho detto loro che potevo contare su te e per conseguenza mi hanno mandato qui come ambasciatore. — Cosa vogliono? — balbettò Patterson. Ci fu un momento di silenzio, prima che Sirdey si decidesse a parlare. — Che tu li faccia entrare in città. — Io?… — protestò Patterson. — Sì, tu. Bisogna che tu lo faccia… Ascolta!… Per me è questione di vita o di morte. Quando caddi nelle loro mani, divenni loro schiavo, te lo dissi. Mi hanno torturato in mille modi. Un giorno hanno capito da alcune parole che mi sono sfuggite, che io ero di Liberia. Ebbero l'idea di servirsi di me per saccheggiare la città, che conoscono già per fama, e mi

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hanno offerto la libertà se volevo aiutarli. Io, tu comprendi bene… — Zitto! — interruppe Patterson. Una delle sentinelle vicine, stanca della sua immobilità, si avanzava dalla loro parte. Ma a una quindicina di metri si fermò, perchè era arrivata al limite del settore sottoposto alla sua sorveglianza. — Fa un po' fresco, questa sera — rimarcò l'Hostelliano prima di tornare indietro. — Sì — rispose Patterson con voce strozzata. — Buona sera, camerata! La sentinella fece voltafaccia, s'allontanò e sparve nell'ombra. Sirdey riprese subito: — Io, capirai, ho promesso… Allora, hanno organizzato la spedizione, e mi hanno trascinato con loro, sorvegliandomi notte e giorno. Ora essi mi costringono a mantenere la promessa. Invece di trovare passaggio libero, hanno perduto molta gente e cento prigionieri. Sono furiosi… Questa sera ho detto che avevo qualche intelligenza nella piazza, un camerata che non avrebbe rifiutato di aiutarmi… Ti avevo riconosciuto da lontano… Se scoprono che li ho ingannati, io sono un uomo finito! Mentre Sirdey lo metteva al corrente della sua storia, Patterson rifletteva. Certo, avrebbe avuto piacere di vedere la città distrutta e tutti gli abitanti, il capo specialmente, massacrati o dispersi. Ma quanti rischi avrebbe corso egli pure in simile avventura! A conti fatti, Patterson si decise per la sua tranquillità: — Cosa potrei fare? — chiese freddamente. — Aiutarci a passare — rispose Sirdey., — Non avete bisogno di me, — obbiettò Patterson. — La prova n'è la tua presenza qui. — Un uomo solo passa senza essere visto — replicò Sirdey. — Cinquecento uomini è ben altro. — Cinquecento!…

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— Perbacco!… T'immagini forse che sia per fare una passeggiata in città che mi rivolgo a te? Per me Liberia è malsana, quanto la compagnia dei Patagonesi… A proposito… — Silenzio! — ordinò bruscamente Patterson. Si udiva il rumore di passi che si avvicinavano e presto tre uomini emersero dall'ombra. Uno di essi si accostò a Patterson e, smascherando una lanterna che teneva nascosta sotto il mantello, ne proiettò un istante la luce sulla faccia della sentinella. — Nulla di nuovo? — domandò il nuovo venuto che altri non era se non Hartlepool. — Nulla. — Tutto è tranquillo? — Sì. La ronda continuò il suo cammino. — Dicevi?… — domandò Patterson, quando essa fu sufficentemente lontano. — Dicevo: a proposito che ne è stato, degli altri? — Quali altri? — Dorick? — Morto. — Fred Moore? — Morto. — William Moore? — Morto. — Diavolo!… E Kennedy? — Sta come me e come te. — Non è possibile!… È riuscito a salvarsi? — Probabilmente. — Senza essere sospettato? — Bisogna crederlo, perchè non ha mai cessato di circolare liberamente. — Dov'è ora? — Monta la guardia in qualche posto, da una parte o dall'altra. Non so dove… — Non potresti informartene?

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— Impossibile. Mi è proibito di lasciare il mio posto. D'altronde cosa vuoi da Kennedy? — Rivolgermi a lui giacché la mia proposta non ti piace. — E tu credi che io ti aiuterei? — protestò Patterson. — Tu credi che io aiuterò i Patagonesi perchè vengano a massacrarci tutti? — Non c'è pericolo — affermò Sirdey. — I camerati non avranno nulla da temere, anzi avranno la loro parte nel bottino. È stabilito così. — Uhm!… — mormorò Patterson che sembrava poco convinto. Tuttavia era un poco turbato. Vendicarsi degli Hostelliani e nello stesso tempo arricchire da capo con le loro spoglie, era cosa tentatrice!… Ma come fidarsi delle promesse di quei selvaggi?… Una volta di più, ebbe il sopravvento la prudenza. — Coteste non sono che parole in aria — disse decisamente. — E quand'anche lo volessimo, né Kennedy, né io, si potrebbe far passare cinquecento uomini in incognito. — Non c'è bisogno che entrino tutti in una volta — obbiettò Sirdey. — Una cinquantina, anche trenta, saranno sufficenti. Mentre i primi sosterranno l'urto, gli altri passeranno. — Cinquanta, trenta, venti, dieci, sono ancora troppi. — È la tua ultima parola? — La prima e l'ultima. — Dunque no? — Proprio no. — Non parliamone più — concluse Sirdey, che incominciò a strisciare nella direzione del fiume. Ma quasi subito si fermò e rialzò gli occhi su Patterson: — Sai, i Patagonesi pagherebbero. — Quanto? La parola uscì involontaria dalle labbra di Patterson. Sirdey si riavvicinò. — Mille piastre — annunciò. Mille piastre!… Cinquemila franchi!… Malgrado l'importanza della somma, Patterson, in altri tempi, non ne sarebbe stato

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sbalordito. Il fiume gli aveva portato via molto di più. Ma ora non possedeva nulla. A stento, dopo un anno, a prezzo di lavoro accanito, era riuscito ad economizzare venticinque piastre, che costituivano tutta la sua ricchezza. Senza dubbio, essa si sarebbe accresciuta adesso con maggiore rapidità. Le occasioni non sarebbero mancate. Il più duro, lo sapeva per esperienza, è sempre il primo risparmio. Ma mille piastre!… Guadagnare in un attimo quaranta volte il prodotto di diciotto mesi di sforzi!… Senza calcolare poi che poteva ottenere anche più, perchè in qualsiasi mercato è doveroso contrattare. — Non è troppo davvero! — disse atteggiandosi a disgusto. — Per un affare dove si arrischia la pelle, bisognerebbe arrivare almeno fino a duemila… — In questo caso, buona sera — replicò Sirdey, abbozzando un nuovo movimento di ritirata. — O, almeno, fino a millecinquecento — proseguì Patterson, senza lasciarsi intimidire dalla minaccia d'una rottura. Ora si trovava sul suo terreno: quello del contrattare. Aveva l'esperienza di certe transazioni. Che l'oggetto in gioco fosse merce o coscienza, si trattava, pur sempre, di compra e vendita. Ora le compere e le vendite sono sottomesse a regole immutabili, che egli conosceva in ogni dettaglio. È abituale, ognuno lo sa, che il venditore richieda troppo, e che il compratore non offra abbastanza. La discussione stabilisce 1'equilibrio. A contrattare c'è sempre da guadagnar qualche cosa, non mai da perdere. Ma poiché il tempo strideva Patterson si era rassegnato a doppiare le tappe ed ecco perchè era disceso d'un sol tratto da duemila piastre a millecinquecento — No — disse Sirdey con fermezza. — Almeno fossero millequattrocento — sospirò Patterson — si potrebbe vedere!… Ma mille piastre!… Patterson ebbe, come si suol dire, buon fegato. — Allora è impossibile, — dichiarò tranquillamente.

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A sua volta Sirdey fu inquieto. Un affare così bene avviato! Doveva dunque andare a monte per poche centinaia di piastre?… Egli tornò indietro. — Dividiamo la pera — propose. — Si arriverà a milleduecento. Patterson si affrettò ad accettare. —È solo per farti piacere, — accondiscese. — Vada pure per milleduecento piastre! — Convenuto?… — chiese Sirdey. — Convenuto — assentì Patterson. Restavano, tuttavia, da regolare i dettagli. — Chi mi pagherà? — riprese Patterson. — Sono così ricchi i Patagonesi, da seminare così mille e duecento piastre? — Poverissimi invece — replicò Sirdey — ma sono in molti. Si salasseranno pur di riunire la somma. D'altra parte non ignorano che il saccheggio di Liberia renderà loro cento volte di più. — Non dico di no, — concesse Patterson. — Ma ciò non mi riguarda. A me interessa essere pagato. Come mi pagheranno? Prima o dopo? — Metà prima e metà dopo. — No — dichiarò Patterson. — Ecco le mie condizioni. Entro domani sera ottocento piastre… — Dove? — interruppe Sirdey. — Dove sarò di guardia. Cercami… Per il resto, nel giorno fissato, passeranno prima soli dieci uomini e il primo di essi mi verserà la somma. Se non mi si paga, chiamo. Se si paga, bocca chiusa, e io filo da un'altra parte. — D'accordo — approvò Sirdey. - Per quando il passaggio? — La quinta notte dopo questa. Ci sarà la luna nuova. — Dove? — Da me… Nel mio recinto. — Ma appunto!… — disse Sirdey — non vedo più la tua casa. — L'ha travolta il fiume, un anno fa — spiegò Patterson — Ma non abbiamo bisogno della casa. Basterà la palizzata. — È demolita per tre quarti.

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— La riparerò. — Benissimo! — approvò Sirdey. — A domani. — A domani — rispose Patterson. Egli udì frusciare tra l'erba, poi un debole gorgoglìo gli fece capire che Sirdey entrava prudentemente nel fiume e nulla turbò più il silenzio notturno. Il giorno dopo, con grande meraviglia dei compagni, si vide Patterson intento a riparare la palizzata mezzo divelta, che limitava il suo recinto. Parve a tutti che il momento non fosse troppo propizio a simile lavoro. Ma il terreno era suo, dopo tutto. Ne aveva in tasca i titoli di proprietà, dei quali, dopo l'inondazione, gli si era rilasciato, il duplicato. Aveva quindi il diritto di utilizzarlo come meglio gli piaceva. Lavorò tutta la giornata. Dal mattino alla sera, rialzò i pali, li riunì mercè solide traverse, otturò le connessure con altre assi, indifferente ai commenti che poteva destare. La sera volle il caso che fosse posto di sentinella sullo spalto meridionale, in faccia alle montagne che si rizzavano da quella parte. Montò di guardia senza dir nulla e attese con pazienza gli avvenimenti. Il suo turno giunse più presto del giorno prima. Era ancora giorno, ma non doveva smontare che a notte fatta e Sirdey avrebbe avuto tutto l'agio per avvicinarsi allo spalto. A meno… A meno che la proposta dell'antico cuoco del Jonathan non fosse seria. Non era infatti possibile che si fosse teso un laccio a Patterson e che egli vi si fosse lasciato stupidamente prendere? L'Irlandese fu tosto tranquillizzato a questo riguardo. Sirdey era là, di fronte a lui, nascosto entro l'erbe, invisibile per tutti, ma visibile a un occhio prevenuto. A poco a poco scese la notte. La luna, nel suo ultimo quarto, solo all'alba avrebbe mostrato all'orizzonte la minuscola falciuola. Appena l'oscurità divenne profonda, Sirdey strisciò fino al complice, poi ripartì senza destare l'attenzione di nessuno. Tutto era andato secondò il convenuto. Le due parti si trovavano in perfetto accordo.

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— La quarta notte dopo questa — aveva mormorato in un soffio Patterson. — Sta bene — aveva risposto Sirdey. — Che non si dimentichino le piastre!… Senza di che non si fa nulla. — Sii tranquillo. Sirdey, dopo il breve dialogo, si allontanò. Ma prima aveva deposto ai piedi del traditore un sacco, che, toccando terra, diede un suono cristallino. Erano le ottocento piastre promesse. Era il salario di Giuda.

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IX.

LA PATRIA HOSTELLIANA.

Il giorno dopo Patterson continuò a riparare la palizzata. Tuttavia egli immaginava i commenti che doveva suscitare la sua occupazione insolita ed ora, che era stato pagato a mezzo, aveva tutto l'interesse a farli cessare. Perciò approfittò della prima occasione favorevole, per dare una spiegazione semplicissima. L'occasione anzi la provocò egli stesso, andando da Hartlepool di buon mattino per chiedergli arditamente di essere posto di sentinella da ora in poi esclusivamente nel suo recinto. Proprietario rivierasco, era più logico che facesse la guardia in casa sua, anziché cedere il suo posto a un altro, per essere mandato poi altrove. Hartlepool, che non provava per lui simpatia alcuna, non poteva però muovergli nessun rimprovero. Anzi, sotto certi riguardi, Patterson meritava la sua stima. Era un uomo tranquillo, un lavoratore infaticabile. D'altronde non vedeva motivo per non accogliere favorevolmente la sua domanda. — Avete scelto uno strano momento per compiere le vostre riparazioni, — gli fece tuttavia osservare. Tranquillamente l'Irlandese rispose che non ne avrebbe potuto trovare uno più propizio. I lavori pubblici si erano arenati ed egli ne approfittava per occuparsi dei suoi interessi personali. Così non sciupava il tempo. La spiegazione appariva naturalissima e calzava a pennello con le abitudini laboriose di Patterson. Hartlepool ne fu pago.

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— Per il resto siamo d'accordo — concluse senza insistere. Dava così poca importanza alla decisione presa, che non ritenne neppure necessario informare il Kaw-djer.

Fortunatamente, per l'avvenire della colonia Hostelliana un altro si incaricava nello stesso momento di destare i sospetti del Governatore. Il giorno prima, nel momento in cui Patterson giungeva al suo posto di fazione, egli non era solo, come a

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torto credeva. A meno di venti metri, Dick era coricato tra l'erba. Del resto egli non vi si trovava punto per spiare l'Irlandese: il caso l'aveva guidato. Dick non si preoccupava in modo alcuno di Patterson. Quando questi venne a prender posto a pochi passi da lui, egli non gli rivolse che un'occhiata distratta e si rimise subito all'occupazione assorbente di sorvegliare — oh! a titolo ufficioso, perchè la sua età lo dispensava dalla guardia — i fatti e i gesti dei Patagonesi, i nemici feroci che facevano tanto lavorare la sua immaginazione d'adolescente. Se l'Irlandese non fosse stato così intento a cercare lontano Sirdey, forse avrebbe veduto il ragazzo, che non si nascondeva e che gli sterpi dissimulavano solo a metà. Dick, invece, come si è detto, vide Patterson perfettamente, ma senza notarlo più di quanto non avrebbe notato qualsiasi altra sentinella Hostelliana. Presto, anzi, dimenticò la sua presenza, assorbito da una scoperta straordinaria che richiamava tutta la sua attenzione. Che aveva dunque veduto, laggiù, lontanissimo, dalla parte dei Patagonesi, nascosto dietro uno dei boschetti innumerevoli, sparsi sui primi pendii delle montagne? Un uomo?… No, non un uomo, un volto. Neppure un volto, null'altro che una fronte e due occhi fissi nella direzione di Liberia. Quella fronte e quegli occhi appartenevano a uno degli Indiani, dei quali più lungi si scorgevano gruppi numerosi in movimento. Senza esitare Dick rispose negativamente. Non soltanto aveva la certezza che quella fronte e quegli occhi non fossero di un Indiano, ma metteva anche un nome sulla parte di quel viso, un nome che era il vero, il nome di Sirdey. Perbacco! Lo conosceva bene, l'avrebbe riconosciuto fra mille quel Sirdey che stava con gli altri nella grotta, nel giorno in cui Sand aveva arrischiato di morire! Che veniva a fare là quell'essere nefasto? Istintivamente Dick si era appiattato dietro i ciuffi di erbe. Senza spiegarsene il perchè, ora non voleva essere veduto.

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Il tempo passava: il lungo crepuscolo delle alte latitudini si cangiò poco a poco in notte profonda. Dick rimase ostinatamente rannicchiato nel nascondiglio, con l'occhio e l'orecchio in agguato. Ma il tempo scorse, senza che egli percepisse alcuna luce, alcun rumore. Tuttavia, a un certo punto, credette di distinguere nell'ombra un'altra ombra mobile che strisciava per terra, che si avvicinava a Patterson; credette di udire fruscii misteriosi, un sussurrar di voci, un tintinnìo metallico, come di monete d'oro che si urtassero… Ma non era che una impressione, una sensazione vaga e imprecisa. Finito il suo turno, l'Irlandese si allontanò. Dick non lasciò il suo posto e, fino all'alba, tenne gli orecchi e gli occhi aperti alle sorprese delle tenebre. Perseveranza inutile. La notte trascorse tranquilla e quando il sole si levò non era accaduto nulla d'insolito. Dick pensò immediatamente di recarsi dal Kaw-djer. Tuttavia, non sapendo bene se il passare la notte all'aperto fosse o no cosa lecita, anziché metterlo subito al corrente, tastò prudentemente il terreno. — Governatore, devo dirvi qualche cosa… — incominciò. — Poi, dopo una sapiente sospensione, precipitosamente soggiunse: — Ma non mi sgriderete però!… — Secondo, — rispose il Kaw-djer sorridendo. — Perchè non dovrei sgridarti se tu avessi fatto qualcosa di male? Alla domanda, Dick rispose con un'altra domanda. Era un gran politico messer Dick! — Passare tutta la notte sullo spalto meridionale è una brutta cosa, Governatore? — Secondo quello che facevi sullo spalto meridionale. — Guardavo i selvaggi. — Tutta la notte? — Tutta la notte. — Perchè? — Per sorvegliarli. — E perchè sorvegliarli? Non ci sono le sentinelle? — Perchè, insieme ad essi, ho visto qualcuno che conosco.

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— Qualcuno che tu conosci coi Patagonesi?… — esclamò il Kaw-djer al colmo dello stupore. — Sì, Governatore. — E chi dunque? — Sirdey. Sirdey!… Il Kaw-djer pensò repentinamente a ciò che gli aveva detto Athlinata. Sirdey era dunque l'uomo bianco, nelle promesse del quale l'Indiano riponeva tanta fiducia? — Ne sei sicuro? — chiese vivamente. — Sicuro, Governatore — affermò Dick. — Ma non sono sicuro del resto… — Del resto? Che c'è ancora? — Quando è stato buio, mi è parso che qualcuno si avvicinasse allo spalto. — Sirdey? — Non lo so… Qualcuno… Dopo m'è sembrato che risuonasse qualche cosa… forse dollari… Ma non sono sicuro… — Chi era di guardia in quel posto? — Patterson, Governatore. Quel nome suonava male al Kaw-djer, che quelle strane novelle immergevano in profonde riflessioni. Quanto aveva veduto e udito Dick, o meglio quanto aveva creduto di vedere e di udire, poteva avere qualche rapporto col lavoro intrapreso da Patterson? O poteva spiegare l'inazione degli assedianti, inazione della quale gli assediati cominciavano a sentirsi immensamente sorpresi? I Patagonesi calcolavano forse su altri mezzi che non la forza, per impadronirsi di Liberia e perseguivano, nell'ombra, l'esecuzione di qualche piano tenebroso? Tutte domande che restavano senza risposta. In ogni modo, le informazioni troppo vaghe e troppo imprecise non permettevano di prendere una risoluzione in qualsiasi senso. Bisognava aspettare e soprattutto sorvegliare Patterson, dal momento che, ingiustamente forse, il suo contegno sembrava losco.

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— Non hai fatto niente di male — disse il Kaw-djer a Dick che aspettava la sua sentenza — anzi hai fatto molto bene. Ma tu mi devi dare la tua parola di non ripetere ad alcuno quanto mi hai raccontato. Dick stese la mano con solennità. — Lo giuro, Governatore. Il Kaw-djer sorrise. — Va bene — disse. — Ora va' a dormire per guadagnare il tempo perduto. Ma non dimenticare. A nessuno, capisci. Neanche ad Hartlepool, neanche al signor Rhodes… Ho detto: a nessuno. — Dal momento che ho giurato, Governatore — fece osservare Dick con importanza. Il Kaw-djer, desideroso di ottenere qualche informazione complementare, senza rivelare nulla di ciò che aveva saputo, si diede a cercare subito Hartlepool. — Nulla di nuovo? — gli chiese avvicinandosi. — Nulla, signore — rispose Hartlepool. — La guardia è fatta regolarmente?… È la cosa principale, lo sapete. Bisogna che ispezioniate di persona, per assicurarvi che ognuno adempia il suo dovere. — Non manco di farlo — affermò Hartlepool. — Tutto va bene. — Non si lamentano del servizio faticoso? — No, signore. Son tutti troppo interessati in proposito. — Neppure Kennedy?… — Lui?… È uno dei migliori. Una vista superba. E un'attenzione!… Per quanto non sia gran che, il marinaio è sempre pronto al bisogno. — Né Patterson… — Neppure. Nulla da dire… A proposito di Patterson, non meravigliatevi se non lo vedrete più. Ormai monterà la guardia in casa sua, sulla riva del fiume. — Perchè? — Me lo ha chiesto. Non ho creduto di rifiutarglielo. — Avete fatto bene, Hartlepool — approvò il Kaw-djer, allontanandosi. — Continuate a vigilare. Ma se fra qualche

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giorno i Patagonesi faranno ancora il morto, andremo a trovarli noi. Le cose cominciavano a delinearsi con evidenza. Patterson aveva avuto uno scopo presentando ad Hartlepool la domanda e questi, non essendo prevenuto, non poteva trovarvi alcun carattere sospetto. Per il Kaw-djer era altrimenti. La ricomparsa di Sirdey, i probabili conciliaboli fra i due uomini, la palizzata rifatta e, finalmente, la domanda di Patterson che dimostrava il suo desiderio di non lasciare il suo recinto e di tenerne lontani gli altri, tutti questi fatti convergevano e tendevano a provare… Ma no: non provavano niente, in fin dei conti e tutto ciò non era sufficiente per incriminare l'Irlandese. Non si poteva che raddoppiare di prudenza e vigilare più che mai. Patterson, ignorando i sospetti che gravavano su di lui, continuava tranquillamente il lavoro incominciato. I pali si rizzavano di nuovo, si univano gli uni con gli altri. Gli ultimi vennero piantati nella stessa acqua del fiume e resero il recinto impenetrabile allo sguardo. Nel giorno da lui stabilito, il quarto dopo la seconda intervista con Sirdey, il lavoro fu terminato. Da commerciante leale aveva mantenuto i suoi impegni all'epoca fissata. Agli acquirenti non restava più che farsi avanti. Il sole tramontò. Venne la notte. Una notte senza luna e quindi profondamente oscura. Dietro la palizzata del recinto, Patterson attese, fedele all'appuntamento. Ma non si pensa mai a tutto. La chiusura così impenetrabile che poneva lui al riparo dagli sguardi altrui, rimetteva nello stesso tempo gli altri al riparo dai suoi. Se nessuno poteva vedere quello che accadeva in casa sua, egli non poteva nemmeno veder più quello che accadeva all'esterno. Tutto intento a sorvegliare la riva opposta del fiume, non si accorse quindi che un gruppo numeroso di uomini circondava silenziosamente il recinto, né che altri uomini prendevano posizione alle due estremità della palizzata.

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Era quasi la mezzanotte, quando i dieci primi Patagonesi guadarono il fiume e guadagnarono il recinto. Nessuno aveva potuto vederli, almeno così ritenevano. Dietro essi seguivano quaranta guerrieri e dietro i guerrieri tutta l'orda Importava poco che essa venisse scoperta prima che tutti avessero toccato terra, purché in quel momento fossero passati abbastanza uomini per dare ai compagni il tempo di passare a loro volta. Se anche i primi avessero dovuto farsi uccidere, la messe sarebbe rimasta egualmente agli altri. Uno degli Indiani tese a Patterson una manata d'oro, che questi trovò assai leggera. — Non è abbastanza — osservò per ogni evento. Il Patagonese non ebbe l'aria di comprendere. Patterson si sforzò di spiegarsi con segni e, a titolo di prova, si sentì in obbligo di controllare la somma, facendo scivolare ad una ad una dalla mano destra alla sinistra le monete, che seguiva con lo sguardo e con la testa chinata. Un colpo violento alla nuca lo tramortì all'improvviso. Egli cadde, fu imbavagliato, legato e gettato in un canto, senz'altra forma di processo. Era morto? Gli Indiani non se ne curarono. Se viveva ancora, sarebbe stata partita rimessa, ecco tutto! Per il momento mancava il tempo di assicurarsene. Più tardi avrebbero finito con comodo quel traditore, se ce ne fosse stato il bisogno, dopo avere spogliato il cadavere del prezzo del tradimento. I Patagonesi si avvicinarono alla riva strisciando. Tenendo alte le armi sull'acqua, altri fantasmi giungevano a riva gli uni dopo gli altri e riempivano il recinto. Ben presto furono più di duecento. Repentinamente, dalle due estremità della palizzata, scoppiò una violenta scarica di fucileria. Gli Hostelliani, entrati in acqua fino alla cintola, prendevano il nemico alle spalle. Gli Indiani, smarriti, restarono un istante immobilizzati, poi, i proiettili scavando nella massa solchi sanguinosi, corsero verso la palizzata. Ma anche la cima del riparo fu presto coronata da fucili che vomitavano, a loro volta, la morte. Allora, spaventati,

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smarriti, impazziti, si misero a correre girando stupidamente intorno al recinto, come selvaggina offrentesi all'arma del cacciatore. In pochi minuti, perdettero la metà del loro effettivo. Finalmente, ritrovando un po' di sangue freddo, i superstiti si riversarono verso il fiume, malgrado i fuochi convergenti che ne difendevano le sponde, e nuotarono verso l'altra riva con tutta la forza delle loro braccia. A quei colpi di fucile, altre detonazioni lontane avevano risposto, eco di un secondo combattimento che si svolgeva sulla strada. Nella supposizione che i Patagonesi avessero concentrati tutti i loro sforzi nel punto in cui credevano di penetrare senza colpo ferire e che non avessero quindi lasciato a guardia del campo che forze insignificanti, il Kaw-djer aveva sbozzato tutto un piano eccellente. Mentre il maggior numero degli uomini di cui poteva disporre veniva riunito sotto i suoi ordini diretti intorno al recinto di Patterson, ove prevedeva si sarebbe svolta l'azione principale, un'altra spedizione era pronta a varcare lo spalto meridionale sotto il comando d'Hartlepool, per operare una diversione nel campo dei Patagonesi. Questo secondo gruppo segnalava ora la sua presenza. Senza dubbio, ora, era alle prese coi pochi guerrieri rimasti a custodia dei cavalli. Anche quella scarica di fucileria, del resto, non durò che pochi istanti. Ambedue i combattimenti erano stati ugualmente brevi. Scomparsi i Patagonesi, il Kaw-djer si spinse verso il Sud e incontrò subito la truppa comandata da Hartlepool, mentre risaliva lo spalto per rientrare in città. La spedizione era meravigliosamente riuscita. Hartlepool non aveva perduto neppure un uomo ed anche le perdite del nemico, del resto, dovevano essere nulle. Ma, risultato molto più utile, avevano catturato quasi trecento cavalli, che riconducevano seco. La lezione troppo severa ricevuta dai Patagonesi toglieva dall'ordine delle cose probabili un ritorno offensivo da parte

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loro. La guardia fu tuttavia organizzata come nelle sere precedenti, e, solo dopo essersi assicurato della sicurezza generale, il Kaw-djer ritornò nel recinto di Patterson. Alla luce pallida delle stelle, il suolo gli apparve tutto seminato di cadaveri e di feriti, dei quali, nella notte, si udivano i lamenti. Egli si affrettò a soccorrerli. Ma dove giaceva Patterson? Lo scoprirono finalmente sotto un mucchio di corpi, imbavagliato, legato, svenuto. Era anch'egli una vittima forse? Il Kaw-djer si rimproverava già d'averlo giudicato ingiustamente, quando, nel momento in cui veniva rialzato, dalla cintura gli scivolarono fuori alcune monete d'oro, che caddero per terra. Il Kaw-djer, accorato, distolse gli sguardi. Con generale sorpresa, Patterson fu condotto in prigione, dove il medico di Liberia, chiamato, dovette andare a prestargli le sue cure. Questi assicurò poi il Governatore che l'Irlandese non era in pericolo, e si sarebbe anzi completamente rimesso in breve tempo. Il Kaw-djer non rimase soddisfatto della notizia. Avrebbe preferito assai di più, che tale vicenda dolorosa si fosse risolta da se stessa con la morte del colpevole. La sopravvivenza del colpevole, invece, implicava necessariamente un seguito penoso. Non si poteva infatti risolverla con un atto di clemenza, come quello di cui aveva beneficiato Kennedy. Questa volta vi era interessata la popolazione intera e nessuno avrebbe compreso l'indulgenza verso un miserabile che, freddamente, aveva tentato di sacrificare un numero così grande di uomini alla sua insaziabile cupidigia. Bisognava dunque procedere al giudizio e punire, fare atto da giudice e da padrone. Ora, nonostante l'evoluzione delle sue idee, quegli atti ripugnavano in sommo grado al Kaw-djer. La notte trascorse senz'altri incidenti. Tuttavia, è superfluo dire, che a Liberia non si dormì. Nelle case e nelle strade tutti si intrattenevano febbrilmente sopra i gravi avvenimenti accaduti, felicitandosi del modo con cui erano stati risolti. Ne

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facevano risalire il merito al Kaw-djer, che aveva così esattamente indovinato il piano nemico.

Si era nel solstizio d'estate. La notte vera durava a stento quattro ore. Già, fino dalle due mattino, il cielo si imporporò dei primi chiarori dell'alba. Simultaneamente, tutti gli Hostelliani si riversarono sullo spalto meridionale, da cui si poteva scorgere la linea del campo nemico.

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Un'ora dopo, urrà di gioia sfuggirono da tutti i petti. Nessun dubbio: i Patagonesi iniziavano i preparativi della partenza. Ciò non sorprendeva, perchè il macello della notte precedente aveva dovuto insegnare loro che nell'isola Hoste non c'era nulla da fare. Con gioia orgogliosa si faceva il bilancio delle loro perdite. Più di quattrocento cavalli, di cui trecento presi e gli altri ammazzati durante l'invasione, o nella scaramuccia del Borgo-Nuovo. Ne restavano forse appena trecento a quegli intrepidi cavalieri. Più di duecento uomini, dei quali cento prigionieri nella fattoria Rivière, e un maggior numero uccisi o feriti negli scontri successivi e specialmente nell'ecatombe del recinto di Patterson. Ridotti a quasi un terzo del loro effettivo, quasi la metà dei superstiti trasformati in fanti, era naturali che gli Indiani non desiderassero fermarsi ancora in quella regione lontana, ove avevano ricevuto così dura accoglienza. Verso le otto, un grande movimento percorse l'orda e la brezza portò a Liberia un vociferare spaventoso. Tutti i guerrieri si riversavano sopra un sol punto, come se assistessero a uno spettacolo che gli Hostelliani non potevano vedere. La distanza non permetteva infatti di distinguere i dettagli. Si scorgeva soltanto il formicolare generale dell'orla e tutti gli urli individuali si fondevano in un clamore immenso. Che facevano? In quali violente discussioni si erano impegnati? La cosa durò a lungo. Almeno un'ora. Poi, parve, che la colonna si organizzasse. Si divise in tre gruppi: i guerrieri appiedati al centro, preceduti e seguiti da uno squadrone di cavalieri. Uno dei guerrieri d'avanguardia portava alta, al di sopra delle teste, qualche cosa che non si poteva ben definire. Una cosa rotonda… Si sarebbe detta una palla infissa sopra un bastone… L'orda si mosse verso le dieci. Regolandosi sul passo dei pedoni, sfilò lentamente sotto gli occhi dei Liberiani. Il silenzio, ora, da una parte e dall'altra, era profondo. Non più vociferazioni dalla parte dei vinti, non urrà fra i vincitori.

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Nel momento in cui la retroguardia dei Patagonesi si metteva in marcia, corse un ordine fra gli Hostelliani. Il Kaw-djer chiedeva che tutti i coloni capaci di montare a cavallo si presentassero immediatamente. Chi avrebbe creduto che Liberia possedesse un numero così grande di abili cavallerizzi? Quasi tutti si offersero, animosi di prendere parte all'ultimo atto del dramma. Si dovette scegliere. In meno di un'ora fu riunita una piccola armata di trecento uomini. Comprendeva cento pedoni e duecento cavalieri e, col Kaw-djer alla testa, i trecento uomini si mossero, raggiunsero la strada e sparvero verso il Nord, dietro l'orda in ritirata. Sopra alcune barelle i coloni trasportavano i feriti raccolti nel recinto di Patterson, la maggior parte dei quali non avrebbero raggiunto viventi il litorale americano Si fece una prima sosta alla fattoria dei Rivière. Tre quarti d'ora prima i Patagonesi erano passati davanti alla palizzata, ma questa volta senza tentare di superarla. Nascosta dietro il baluardo, la guarnigione li aveva visti sfilare e benché non si fosse ancora al corrente degli avvenimenti accaduti nella notte precedente, nessuno di quelli che la componevano aveva avuto il pensiero di scaricare una fucilata contro gli Indiani. Avanzavano con l'aspetto così depresso e stanco, che non si dubitò della loro disfatta. Non serbavano più nulla che intimorisse. Non erano più nemici, ma infelici, che destavano pietà. Uno dei cavalieri di avanguardia portava ancora in cima a una picca quell'oggetto rotondo, che si era già scorto dagli spalti di Liberia. Ma, al pari dei Liberiani, anche la guarnigione della fattoria Rivière non aveva potuto riconoscere cosa fosse quello strano oggetto. Per ordine del Kaw-djer, si sbarazzarono i prigionieri patagonesi dai loro legami e si spalancarono le porte dinanzi ad essi. Gli Indiani non si mossero. Evidentemente non credevano alla libertà e, giudicando gli altri da sé stessi, temevano di cadere in un agguato. Il Kaw-djer si avvicinò a quell'Athlinata, col quale aveva già scambiata qualche parola.

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— Che aspettate? — chiese. — Conoscere la sorte che ci è riserbata — rispose Athlinata. — Non temete di nulla — affermò il Kaw-djer. — Siete liberi. — Liberi!… — ripeté l'Indiano sorpreso. — Sì, i guerrieri Patagonesi hanno perduto la battaglia e ritornano in patria. Partite con loro. Siete liberi. Direte ai vostri fratelli che gli uomini bianchi non hanno schiavi e che essi sanno perdonare. Possa tale esempio renderli più umani! Il Patagonese guardò il Kaw-djer dubitoso, poi, seguito dai compagni, si avviò a passi lenti. La truppa disarmata passò fra la doppia siepe della guarnigione silenziosa, uscì dalla cinta e prese a destra, verso il Nord. A cento metri lontano, il Kaw-djer e i suoi trecento uomini la scortavano sbarrando la strada del Sud. Verso sera fu scorto il grosso degli invasori, accampati per la notte. Nessuno durante la ritirata li aveva molestati, non era stata sparata una sola fucilata. Ma tale prova di misericordia da parte degli avversari non valse a tranquillizzarli, e vedendo che si avvicinava una così grande massa di cavalieri e di fanti, furono assaliti da viva inquietudine. Gli Hostelliani sostarono a due chilometri per rassicurarli, mentre i prigionieri liberati, traendo seco i feriti, continuavano il cammino per raggiungere i compagni. Quali dovettero essere i pensieri degli Indiani tanto selvaggi, quando rividero liberi coloro che essi ritenevano già schiavi? Athlinata fu mandatario fedele? E gli altri conobbero le parole che egli doveva loro ripetere? Avrebbero paragonato i suoi fratelli, come lo sperava il Kaw-djer, il loro solito modo di procedere con quello di quei bianchi che essi volevano crudelmente sterminare e che li trattavano invece con tanta clemenza? Il Kaw-djer non l'avrebbe mai saputo, ma se anche la sua generosità fosse riuscita inutile, non era uomo da rimpiangerla. Solo continuando a spargere il buon grano, la semente finisce per cadere entro la zolla fertile.

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Durante tre giorni ancora, la marcia continuò verso il Nord senza incidenti. Talora appariva qualche colono sulle colline e guardava a lungo l'orda e la truppa che la seguiva. Finalmente, la sera del quarto giorno, i Patagonesi pervennero al punto stesso dov'erano sbarcati. L'indomani all'alba, essi spinsero in mare le piroghe che avevano nascoste fra le rocce del litorale. Alcune, cariche di soli uomini, volsero la prora all'Ovest per costeggiare la Terra del Fuoco, le altre, oltrepassando il canale del Beagle, andarono a prender terra nella grande isola che i cavalieri avrebbero attraversata. Ma dietro lasciarono qualche cosa. In cima a una lunga pertica piantata nell'arena della spiaggia, abbandonarono quell'oggetto rotondo, portato fino da Liberia con sì strana ostinatezza. Quando l'ultima piroga scomparve all'orizzonte, gli Hostelliani, avvicinatisi alla riva, poterono scorgere con orrore che il trofeo era una testa umana. Pochi passi ancora e riconobbero la testa di Sirdey. Tale scoperta li riempì di stupore. Nessuno sapeva spiegarsi in quale modo Sirdey, scomparso da lunghi mesi, si trovasse coi Patagonesi. Il Kaw-djer solo non ne fu sorpreso. Conosceva, o meglio sospettava, la parte avuta dall'antico cuoco del Jonathan e il dramma gli appariva con chiarezza. Sirdey era l'uomo bianco, nel quale gli Indiani nutrivano ampia fiducia. Essi si erano mendicati dell'insuccesso. Il mattino dopo, il Kaw-djer si incamminò verso Liberia. Vi entrava la sera del 30 dicembre con la sua scorta estenuata. L'isola Hoste aveva conosciuto la guerra. Grazie a lui, essa usciva illesa dalla prova e gli invasori erano cacciati fino all'ultimo dal suo territorio. Ma alla terribile avventura mancava ancora l'ultima parola. Restava un dovere crudele da compiere. Patterson, nel carcere in cui lo detenevano, si sentiva agitato dal susseguirsi di sentimenti diversi. Prima di tutto, lo stupore di essere imprigionato. Che gli era mai accaduto? Poi,

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lentamente, ricordò Sirdey, i Patagonesi, il loro orribile tradimento… E dopo cos'era avvenuto? Se i Patagonesi fossero riusciti vincitori, avrebbero certo finito di massacrarlo ed egli sarebbe già morto. Poiché si destava invece in quella prigione, doveva concluderne ch'erano stati respinti. Stando così le cose, dal momento che l'avevano incarcerato, voleva dire che il suo tradimento era noto! E in tal caso che cosa non aveva da temere?… Allora Patterson tremò. Tuttavia, riflettendo meglio, si tranquillizzò. Poteva esistere un dubbio a suo carico, sia, ma la certezza no! Nessuno lo aveva veduto, nessuno lo aveva colto sul fatto, ciò era sicuro. Dunque, egli sarebbe uscito incolume da tale avventura, la quale non si poteva saldare che con profitto vistoso. Cercò il suo oro e non lo trovò. Eppure non aveva sognato! Lo aveva ricevuto! Quanto? Non sapeva esattamente. Però non le milleduecento piastre stipulate, poiché quei malfattori lo avevano derubato, ma almeno novecento, forse mille. Chi era stato il ladro del suo oro? I Patagonesi? Forse. Ma più verosimilmente i suoi carcerieri. Allora il cuore di Patterson si gonfiò di collera e odio. Indiani e coloni, fossi e bianchi, contro tutti, ugualmente ladri e vili, egli imprecò con uguale furore! Da allora non ebbe più riposo. Angosciato, non vivendo che per odiare, esitante fra mille ipotesi, attese con impazienza febbrile di conoscere la verità. Ma coloro che Io detenevano non si preoccupavano della sua ira impotente e i giorni succedettero ai giorni, senza modificare la sua situazione. Pareva l'avessero dimenticato. Egli uscì finalmente di carcere il 31 Dicembre, sotto la guardia di quattro uomini armati, dopo più di una settimana di prigionia. Ora avrebbe saputo!… Ma, giungendo sul piazzale del governo, si fermò interdetto. La scena appariva realmente imponente, perchè il Kaw-djer aveva voluto circondare di solennità il giudizio che si stava per formulare contro il traditore. Dinanzi al Palazzo del Governo si rizzava una tribuna elevata, nella quale presero posto, oltre al

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Kaw-djer, i tre membri del Consiglio e il giudice titolare, Ferdinando Beauval. Ai piedi del tribunale stava il posto riservato all'accusato. Più indietro, trattenuta da steccati, si addensava la popolazione intera di Liberia. Quando apparve Patterson, scoppiò, da mille petti, un grido di riprovazione. Un cenno del Kaw-djer impose silenzio. Incominciò subite l'interrogatorio dell'accusato. L'Irlandese insistette a negare sistematicamente. Ma era facile cosa persuaderlo delle sue menzogne. Il Kaw-djer, una dopo l'altra, enumerò le accuse che gravavano su di lui. Anzitutto la presenza di Sirdey fra i Patagonesi. Sirdey era stato veduto effettivamente e d'altronde la sua presenza non risultava più dubbia, perchè gli Indiani, furenti per il loro insuccesso, avevano issato la sua testa come trofeo di vendetta. Patterson, alla notizia della morte del suo complice, trasalì. Quella morte per lui era un presagio funebre. Il Kaw-djer continuò la requisitoria. Non solo Sirdey stava fra i Patagonesi, ma si era abboccato con Patterson e in seguito all'accordo concluso fra loro, egli, Patterson, aveva ripreso possesso del suo terreno, riattata la cinta, e chiesto infine di montarvi la guardia esclusivamente. I Patagonesi stessi avevano fornito la prova dell'intesa criminale, entrando nel recinto di Patterson, e l'oro trovato su di lui ne era prova ancora più palese. Poteva egli spiegare la provenienza dell'oro trovato in suo possesso, egli che un anno prima, per sua confessione, aveva perduto quanto possedeva? Patterson abbassò il capo. Si sentì perduto. Finito l'interrogatorio, il Tribunale deliberò, poi il Kaw-djer pronunciò la sentenza. I beni del colpevole erano confiscati. Il terreno, al pari dell'oro, prezzo del delitto, ritornavano allo Stato. Inoltre, Patterson era condannato all'esilio perpetuo, e il territorio dell'isola Hoste gli veniva interdetto per sempre. La sentenza fu eseguita immediatamente. L'Irlandese venne condotto alla rada, a bordo d'una nave in partenza, ove doveva restare prigioniero, con le catene ai piedi, le quali non gli sarebbero state tolte che fuori delle acque hostelliane.

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Mentre la folla s'allontanava, il Kaw-djer si ritirava nel Palazzo. Aveva bisogno di essere solo per calmare la sua anima agitata. Chi avrebbe detto, un giorno, che egli, feroce egualitario, sarebbe giunto ad erigersi giudice di un altro uomo? Egli, l'amante appassionato della libertà, a ripartire la terra, proprietà comune dell'umanità, a erigersi a padrone di una frazione del vasto mondo, ad arrogarsi il diritto di interdirne l'accesso a uno dei suoi simili? Eppure egli aveva fatto tutto questo e se ne sentiva commosso, ma non pentito. Aveva agito bene: ne era sicuro. La condanna del traditore compiva il miracolo cominciato dalla lotta contro i Patagonesi. L'avvenimento costava il Borgo-Nuovo, ridotto in cenere, ma la trasformazione avvenuta si pagava a buon mercato. Il pericolo corso da tutti, gli sforzi compiuti in comune, avevano creato fra gli emigranti un legame, di cui essi stessi ignoravano la forza. Prima del succedersi di tali avvenimenti, l'isola Hoste non era che una colonia, ove erano fortuitamente rimasti gli uomini di venti nazionalità diverse. Ora i coloni avevano ceduto il posto agli Hostelliani. L'isola Hoste era ormai la Patria.

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PARTE QUINTA

I.

CINQUE ANNI DOPO.

Cinque anni dopo gli avvenimenti testé raccontati, la navigazione nei paraggi dell'isola Hoste non presentava più ne le difficoltà, né i pericoli del passato. All'estremità della penisola Hardy un fuoco lanciava la sua grande luce. Non quei fuochi da Pescherecci, quali brillano negli accampamenti della terra fuegiana, ma un vero faro che illuminava i passi e permetteva di evitare gli scogli nelle cupe notti invernali. Quello, invece, che il Kaw-djer progettava di innalzare sul Capo Horn, non era neppure iniziato. Da sei anni, egli perseguiva invano la soluzione di quell'affare con instancabile perseveranza, senza mai riuscire a nulla. Secondo le note scambiate fra i due Governi, sembrava che il Chili non potesse rassegnarsi all'abbandono dell'isolotto del Capo Horn e che tale condizione essenziale posta dal Kaw-djer fosse un ostacolo insormontabile. Tuttavia, il faro della penisola Hardy non era il solo che rischiarasse quei mari. Al Borgo-Nuovo, risorto dalle rovine e triplicato di importanza, ogni sera si accendeva un fuoco di porto, che guidava le navi verso il capo della diga. La diga, completamente finita, trasformava il seno in un porto vasto e sicuro. Protetti da essa, e quindi in acqua tranquilla, i bastimenti caricavano e scaricavano le loro merci sulla calata, parimenti compiuta. Perciò il Borgo-Nuovo era ora

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frequentatissimo. A poco a poco aveva allacciato relazioni commerciali col Chili, con l'Argentina e, persino, col Vecchio Continente. Un servizio mensile regolare collegava l'isola Hoste a Valparaiso e a Buenos Ayres. Liberia si era enormemente sviluppata sulla riva sinistra del suo fiume. Stava per divenire città di reale importanza in un avvenire prossimo. Le sue vie simmetriche, tagliate ad angolo retto, secondo la moda americana, erano fiancheggiate da numerose case in legno o muratura, precedute da una corte e arricchite da un giardinetto. Alberi robusti, quasi tutti faggi antartici a fogliame persistente, ombreggiavano alcuni piazzali, Liberia aveva due stamperie e un piccolo numero di veri monumenti. Possedeva inoltre la posta, la chiesa, due scuole, e un tribunale, meno modesto della sala decorata di quel nome, che Lewis Dorick aveva tentato un giorno di distruggere. La casa improvvisata, che altra volta solevano designare con quel nome, era stata abbattuta e rimpiazzata da un edificio importante ove continuava a risiedere il Kaw-djer, che vi aveva anche accentrati tutti i servizi pubblici. Non lungi si rizzava la caserma, nella quale giacevano depositati più di mille fucili e tre cannoni. Ivi tutti i cittadini maggiorenni passavano un mese per turno. La lezione dei Patagonesi non era stata inutile. Un'armata, che avrebbe compreso nelle sue file tutti gli Hostelliani, era sempre pronta per la difesa della patria. Liberia aveva anche un teatro, assai rudimentale, è vero, ma di proporzioni piuttosto vaste e, ciò che più vale, illuminato a elettricità. Il sogno del Kaw-djer si era realizzato. Dall'officina idro-elettrica, posta a tre chilometri all'insù del fiume, giungevano alla città forza e luce a profusione. La sala del teatro, specialmente durante le lunghe giornate invernali, diveniva veramente utile. Serviva alle riunioni e il Kaw-djer, o Ferdinando Beauval, assai rinsavito ora e divenuto una persona importante, vi tenevano, talvolta, belle conferenze.

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Vi si davano anche buoni concerti, sotto la direzione di una bacchetta, quale non è facile bene spesso trovare.

Il direttore, vecchia conoscenza nostra, altri effettivamente non era che Sand. A forza di perseveranza e tenacità, aveva reclutato fra gli Hostelliani gli elementi di una vera orchestra, che dirigeva magistralmente. Nei giorni di concerto lo trasportavano al suo scanno e, quando dominava la squadra dei

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musicisti, il viso gli si trasfigurava e il fuoco sacro dell'arte lo rendeva l'uomo più felice. Nei concerti figuravano opere antiche e moderne; talvolta anche composizioni di Sand stesso, che non riuscivano né le meno gradevoli, né le meno applaudite. Erano trascorsi poco più di nove anni dacché il Jonathan aveva naufragato sugli scogli della penisola Hardy. Ed ecco il risultato raggiunto, in così breve periodo di tempo, mercè l'energia, l'intelligenza, lo spirito pratico dell'uomo incaricatosi del destino degli Hostelliani, quando l'anarchia trascinava l'isola alla rovina. Di quell'uomo si continuava a non saper niente, ma nessuno pensava a chiedergli conto del passato. La curiosità pubblica, se pure fosse mai esistita, si era attutita per abitudine e gli Hostelliani ormai pensavano che per non ignorare quello che era essenziale conoscere, bastava ricordare i servizi innumerevoli da lui resi. Ma le preoccupazioni opprimenti di nove anni di potere pesavano sul Kaw-djer. Egli conservava intatto il vigore erculeo e l'età non aveva curvata la sua persona quasi gigantesca, ma la barba e i capelli apparivano ora d'una bianchezza di neve e rughe profonde gli solcavano il volto, sempre maestoso e già venerando. La sua autorità non conosceva limiti. I membri del consiglio, che egli stesso aveva formato, Harry Rhodes, Hartlepool e Germano Rivière, rieletti regolarmente ad ogni votazione, non prendevano parte alle sedute che pro forma. Lasciando al capo e all'amico carta bianca, si limitavano ad esprimere rispettosamente il loro parere, se ne venivano richiesti da lui. Gli avvenimenti accaduti nell'isola Hoste, l'indipendenza che le aveva concesso il Chili, la prosperità che aumentava sempre più sotto la salda amministrazione del Kaw-djer, destarono presto l'attenzione del mondo commerciale e industriale. Altri coloni vi furono attratti e ad essi si concessero i terreni liberamente, a condizioni vantaggiose. Né si tardò a conoscere che le sue foreste, ricche di legnami di qualità superiore a

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quella dei legnami d'Europa, rendevano fino al quindici e al venti per cento; da ciò lo stabilirsi di altre segherie. Nello stesso tempo, si trovarono acquirenti di terreni a mille piastre la lega in superficie per coltivazioni agricole e il numero dei capi di bestiame nei pascoli dell'interno in poco tempo si elevò fino a parecchie migliaia. La popolazione si accrebbe rapidamente. Ai milleduecento naufraghi del Jonathan, erano venuti ad aggiungersi, in numero tre o quattro volte maggiore, emigranti dell'ovest degli Stati Uniti, del Chili e dell'Argentina. Nove anni dopo la proclamazione d'indipendenza, otto anni dopo il colpo di Stato del Kaw-djer, e cinque dopo l'invasione dell'orda patagonese, Liberia contava più di duemila cinquecento anime, e l'isola Hoste più di cinquemila. Si capirà facilmente che oltre al matrimonio di Halg con Graziella, altri ne erano avvenuti. Citiamo quelli di Edward e Clary Rhodes. Il giovane aveva sposato la figlia di Germano Rivière, la fanciulla il dottor Samuel Arvidson. Ora, nella bella stagione, il porto ricettava numerose navi. Il cabotaggio faceva ottimi affari fra Liberia e le varie agenzie commerciali fondate su altri punti dell'isola, sia nelle adiacenze della punta Roos, sia sulle spiagge settentrionali bagnate dal canale del Beagle. Erano, in massima parte, bastimenti dell'arcipelago delle Falkland, il cui traffico assumeva ogni anno maggiore estensione. Il traffico si alimentava in gran parte dalle pescagioni, che, in ogni epoca, hanno dato risultati ottimi nei paraggi della Magellania. Ma si capisce che tale industria dovette essere severamente regolamentata dalle ordinanze del Kaw-djer. Infatti, non si doveva provocar a breve scadenza, con l'abuso della distruzione, la scomparsa, l'esaurimento degli animali marini che frequentavano quei mari così volontieri. Sul litorale si erano fondate, in località diverse, colonie di cacciatori di lupi marini, gente di ogni origine, di ogni specie, senza patria; e Hartlepool, in principio, durò molta fatica a tenerli in freno. Ma a poco a poco gli avventurieri si umanizzarono, si civilizzarono

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sotto l'influenza di una vita nuova. A tali vagabondi senza casa né tetto l'esistenza sedentaria diede, progressivamente, costumi più dolci. D'altronde ora che avevano molta minor miseria da soffrire nel loro rude mestiere, essi erano più felici. Infatti lavoravano in condizioni migliori del passato. Non si trattava più di spedizioni effettuate a spese comuni, che li trascinavano su qualche isola deserta, dove troppo spesso morivano di freddo e di fame. Ora erano sicuri di smerciare il prodotto della loro pesca, senza dovere aspettare, per lunghi mesi, il ritorno di una nave che non sempre tornava. Lo sfruttamento poi delle spiagge coperte da miliardi di conchiglie di ogni specie, aveva dato vita a un altro ramo di commercio. Degno di particolare menzione il myllones, mollusco di qualità eccellente e d'incredibile abbondanza. Le navi ne esportavano carichi completi, che si vendevano poi persino a cinque piastre al chilogrammo nelle città del Sud-America. Ai molluschi si aggiungano i crostacei. Gli studiosi dell'isola Hoste si sono particolarmente interessati a un granchio di mare gigantesco, un frequentatore di alghe sottomarine, il cutoya. Due cutoyas bastano al nutrimento quotidiano di un uomo d'appetito. Ma tali granchi non sono gli unici rappresentanti del genere. Sulla costa si trovano pure l'aragosta, la locusta, e il dattero marino; ricchezze che venivano largamente sfruttate. Halg, realizzando uno dei progetti formati in passato dal Kaw-djer, dirigeva al Borgo-Nuovo una industria prosperosa di crostacei conservati in modo speciale, che venivano spediti nel mondo intiero. Halg, che contava allora ventotto anni, riuniva intorno a sé tutte le condizioni per essere felice. Moglie amorosa, tre bei figlioli, due bambine e un maschio, salute perfetta, rapida ascesa alla ricchezza; non gli mancava nulla. Egli era felice e il Kaw-djer poteva essere soddisfatto della sua opera. Karroly, invece aveva anche rinunziato alla pesca. Data l'importanza marittima del porto dell'isola Hoste, situata fra il Darwin Sund e la baia di Nassau, le navi vi giungevano numerose, preferendolo anche a Punta Arenas. Vi trovavano

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ancoraggio ottimo e più sicuro di quello del posto chileno, e più frequentato, inoltre, dagli steamers passanti da un oceano all'altro, per lo stretto di Magellano. Karroly, per questo motivo, aveva deciso di riprendere il suo antico mestiere. Divenuto capitano di porto e pilota in capo dell'isola Hoste, era ricercatissimo dai bastimenti con destinazione a Punta Arenas o alle agenzie marittime stabilite sui canali dell'arcipelago e il lavoro non gli mancava. Possedeva ora un cutter di cinquanta tonnellate, costruito a prova dei più violenti marosi. Col suo solido battello, manovrato da un equipaggio di cinque uomini, e non più con la scialuppa, egli, con ogni tempo, andava incontro alle navi. La Wel-Kiej esisteva sempre, però, ma non si adoperava più. Restava generalmente in porto, vecchia e fedele servente in meritato riposo. Il Kaw-djer, al pari di un bravo operaio che, compiuto un lavoro, si interessa subito di iniziarne uno nuovo, quando giunse il momento di lasciare che Halg, divenuto a sua volta un uomo, spaziasse liberamente nella vita, si impose gli obblighi di una seconda adozione. Dick non aveva sostituito Halg, si era aggiunto a lui nel suo cuore, ingrandito. Dick contava allora circa diciannove anni e da più di sei era il suo allievo. L'adolescente aveva mantenuto le promesse del fanciullo. Sì era assimilata, senza sforzo, la scienza del maestro e incominciava già a meritare per conto suo il nome di sapiente, ond'è che il Kaw-djer, il quale ammirava la vivezza e la profondità della sua intelligenza, non avrebbe presto saputo che altro insegnargli. A Dick non conveniva già più il nome d'allievo. Maturato precocemente alla rude scuola della sua infanzia e dei drammi terribili nei quali era stato coinvolto, egli, nonostante la giovane età, più che l'allievo, poteva considerarsi il discepolo e l'amico del Kaw-djer, il quale aveva in lui fiducia assoluta e si compiaceva di considerarlo come suo successore. Germano Rivière e Hartlepool erano certamente brave persone, ma il primo non avrebbe mai lasciato la sua impresa forestale, che

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dava risultati meravigliosi, per dedicarsi completamente alla cosa pubblica e Hartlepool, ammirabile e fidato esecutore di ordini, non era a suo posto che in seconda linea. Ambedue, del resto, mancavano troppo di idee generali e di coltura intellettuale per governare un popolo, il quale aveva ben altri interessi che non quelli materiali. Harry Rhodes sarebbe stato meglio adatto. Ma invecchiava, mancava, d'altra parte, dell'energia necessaria e si sarebbe rifiutato. Dick, invece, riuniva tutte le qualità di un capo. Era una natura di prim'ordine. Aveva il sapere, l'intelligenza, il carattere e la stoffa d'un uomo di Stato e bisognava dolersi che tali brillanti qualità fossero destinate a una così piccola cornice. Ma un'opera, quando è perfetta, non è mai piccola: assicurare la felicità di poche migliaia di esseri è opera di bellezza non inferiore ad alcun'altra. Dal punto di vista politico la situazione si presentava pure favorevolissima. Le relazioni fra l'isola Hoste e il Governo chileno erano eccellenti sotto tutti i rapporti. Il Chili, ogni anno di più, si compiaceva della determinazione presa. Otteneva vantaggi morali e materiali che mancheranno sempre alla Repubblica Argentina, finche non modificherà i suoi metodi amministrativi e i suoi principi economici. All'inizio, vedendo alla testa dell'isola Hoste quel personaggio misterioso, la cui presenza nell'arcipelago magellanico gli era parsa sospetta, non aveva dissimulato le sue inquietudini e il suo malcontento. Malcontento forzatamente platonico. Sopra quell'isola indipendente dove si era rifugiato, non si poteva indagare sulla persona del Kaw-djer, né verificare la sua origine, né chiedergli conto del passato. Tutto in lui autorizzava l'ipotesi che fosse, uomo incapace di sopportare il giogo di un'autorità qualsiasi, che fosse stato ribelle, un giorno, a tutte le leggi sociali, e scacciato probabilmente da tutti i paesi sottomessi a qualsiasi legge e, certo, se egli fosse rimasto all'Isola Nuova, non sarebbe sfuggito alle inchieste della Polizia chilena. Ma quando si constatò, dopo i torbidi provocati dall'anarchia iniziale, la tranquillità perfetta dovuta alla ferma

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amministrazione del Kaw-djer, il commercio nascere ed aumentare; la prosperità accrescersi, largamente, non si trovò, nulla di meglio che lasciarlo fare. E, in complesso, mai nessuna nube, sorse tra il Governatore dell'isola Hoste e il Governatore di Punta Arenas. Trascorsero così cinque anni, durante i quali i progressi dell'isola Hoste non cessarono di consolidarsi. Rivali di Liberia, ma di rivalità generosa e feconda, si fondarono tre altre borgate: una sulla penisola Dumas, una sulla penisola Pasteur, e la terza all'estrema punta occidentale dell'isola, sul Darwin Sund, di fronte all'isola Gordon. Esse dipendevano dalla capitale e il Kaw-djer vi si recava, sia per mare, sia per strade tracciate attraverso le foreste e le pianure dell'interno. Sulle coste si erano stabilite parecchie migliaia di Pescherecci, fondandovi villaggi fuegiani, seguendo l'esempio di coloro che, per primi, avevano acconsentito ad abbandonare le loro abitudini secolari di vagabondaggio per stabilirsi nei pressi del Borgo-Nuovo. In quell'epoca, nel mese di dicembre del 1890, Liberia ricevette per la prima volta la visita del Governatore di Punta-Arenas, il signor Aguire. Egli ammirò la nazione prosperosa, le savie misure prese per aumentarne le risorse, l'omogeneità perfetta di una popolazione di origini differenti, l'ordine, l'agiatezza, la felicità che regnavano in tutte le famiglie. Si capisce che osservò anche da vicino l'uomo che aveva creato tante cose belle e al quale bastava di essere conosciuto col titolo di Kaw-djer, Gli prodigò molti complimenti. — Questa colonia è opera vostra, signor Governatore, — disse — e il Chili si compiace di avervi fornito l'occasione di crearla. — Un trattato — si accontentò di rispondere il Kaw-djer,— aveva posto quest'isola, la quale non apparteneva che a sé stessa, sotto il dominio chileno. Era giusto che il Chili le rendesse l'indipendenza. Il signor Aguire comprese che la risposta significava restrizione. Il Kaw-djer non voleva ammettere che l'atto di

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restituzione dovesse valere un tributo di riconoscenza al Governo chileno. — In ogni modo — riprese il signor Aguire, mantenendosi in prudente riserbatezza — non credo che i naufraghi del Jonathan possano rimpiangere la concessione della baia di Lagoa… — Infatti, signor Governatore, perchè là sarebbero stati sotto il dominio portoghese, mentre qui non dipendono da nessuno. — Così tutto è per il meglio! — Speriamolo — approvò il Kaw-djer. — Come noi speriamo — aggiunse con deferenza il signor Aguire — che continuino i buoni rapporti tra il Chili e l'isola Hoste. — Lo speriamo anche noi — rispose il Kaw-djer — e forse, constatando i risultati del sistema applicato alla isola Hoste, chissà che la Repubblica Chilena non si decida a estenderlo anche alle altre isole dell'arcipelago magellanico. Il signor Aguire rispose con un sorriso che significava tutto quello che si voleva. Harry Rhodes, che desiderava trascinare la conversazione fuori da tale terreno scabroso e che assisteva all'intervista insieme con i due colleghi del Consiglio, cambiò argomento. — La nostra isola Hoste, — disse — paragonata alle possessioni argentine della Terra del Fuoco, può dare materia a riflessioni interessanti. Come vedete, signore, da una parte la prosperità, dall'altra il deperimento. I coloni argentini indietreggiano davanti alle esigenze del Governo di Buenos Aires e alle formalità che esso impone e anche le navi fanno lo stesso. La Terra del Fuoco, malgrado i reclami del suo Governo, non fa progresso alcuno. — Ne convengo — rispose il signor Aguire. — Il Governo Chileno invece, ha agito affatto diversamente anche con Punta-Arenas. Senza proprio accordarle indipendenza completa, le si sono conceduti buon numero di privilegi che assicurano il suo avvenire.

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— Signor Governatore — interruppe il Kaw-djer, — c'è tuttavia una piccola isola dell'arcipelago, semplice roccia sterile, isolotto senza valore, del quale chiedo al Chili la cessione. — Quale? — chiese il signor Aguire. — L'isolotto del Capo Horn. — Cosa diavolo ne volete fare? — esclamò il signor Aguire stupito. — Innalzarvi un faro, che è di prima necessità in quest'ultima punta del continente americano. Sarebbe utilissimo rischiarare questi paraggi alle navi, non soltanto a quelle che vengono all'isola Hoste, ma anche alle altre che vogliono doppiare il capo fra l'Atlantico e il Pacifico. Harry Rhodes, Hartlepool e Germano Rivière, edotti dei progetti del Kaw-djer, appoggiarono la sua richiesta, avvalorandone l'importanza reale, che il signor Aguire non aveva voglia alcuna di contestare. — Dunque — egli chiese — il Governo dell'isola Hoste sarebbe disposto a costruire il faro? — Sì — disse il Kaw-djer. — A sue spese? — A sue spese, ma a condizione però che il Chili gli conceda la proprietà integrale dell'isola Horn. Sono più di sei anni che ho fatto tale proposta al vostro Governo, senza nessun risultato. — Che vi si risponde? — chiese il signor Aguire. — Parole, nient'altro che parole. Non si dice no, ma neppure sì. Si sofistica. La discussione, così com'è impostata, può durare qualche secolo. E intanto le navi continuano a perdersi contro l'isolotto sinistro, che non è loro segnalato nell'oscurità. Il signor Aguire espresse vero stupore. Conscio più del Kaw-djer dei metodi prediletti alle Amministrazioni del mondo intiero, forse, nel fondo del suo cuore, non li approvava. Egli promise di appoggiare la proposta, con tutta la sua influenza, presso il Governo di Santiago, ove si recava lasciando l'isola. E si deve ritenere che mantenesse la parola e che il suo appoggio fosse efficace, perchè dopo meno di un mese, la

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questione che si trascinava da tanti anni venne infine risolta e il Kaw-djer ricevette la comunicazione ufficiale che le sue proposte erano state accettate. Il 25 dicembre si stipulò, tra il Chili e l'isola Hoste, un atto di cessione, ai termini del quale lo Stato Hostelliano diveniva proprietario dell'isola Horn, a condizione però che esso elevasse e mantenesse un faro sul suo punto più culminante. Il Kaw-djer cominciò subito i lavori, i cui preparativi erano iniziati da molto tempo. Secondo le previsioni più pessimiste, dovevano bastare due anni per condurli a buon esito e per garantire la sicurezza della navigazione nei pressi del capo terribile. Quell'impresa rappresentava per il Kaw-djer il coronamento della sua opera. L'isola Hoste pacificata e organizzata, la miseria del passato rimpiazzata dal benessere, l'istruzione profusa a piene mani e, infine, migliaia e migliaia di vite umane salvate nel punto terribile ove si incontrano i due più vasti oceani del globo: ecco il suo compito quaggiù. Il compito era bello. E quando fosse stato ultimato, egli avrebbe avuto il diritto di pensare a se stesso e di rinunziare a funzioni, che ripugnavano al suo essere fino nelle fibre più intime. Benché il Kaw-djer governasse e, praticamente, fosse il despota più assoluto, non era, però, un despota felice. Il lungo esercizio del potere non gliene aveva dato il gusto e governava a malincuore. Refrattario personalmente a ogni autorità, gli era sempre penoso imporre la propria agli altri. Era rimasto lo stesso uomo energico, freddo e triste, apparso come un salvatore nel giorno lontano in cui il popolo hostelliano stava per perire. Egli aveva salvato gli altri, iti quel giorno, ma condannato sé stesso. Costretto a rinnegare la sua chimera, obbligato ad inchinarsi davanti ai fatti, aveva compiuto coraggiosamente il sacrifizio. Ma il sogno rinnegato gli protestava entro il cuore. Quando i nostri pensieri, sotto la falsa apparenza della logica, non sono che il germogliare dei nostri istinti naturali, hanno una vita propria, indipendente dalla

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nostra ragione e dalla nostra volontà. Essi lottano oscuramente, fosse anche contro l'evidenza, come esseri che non vogliano morire. Bisogna che la prova del nostro errore ci sia data a sazietà, perchè ne restiamo convinti e tutto è pretesto per farci ritornare a ciò che fu la nostra fede.

Il Kaw-djer aveva immolato la sua al bisogno di dedizione, alla sete di sacrifizio, alla pietà verso i fratelli infelici, che, sopra la sua stessa passione di libertà, formavano il fondo della sua

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magnifica natura. Ma ora che la dedizione non aveva più ragione di prolungarsi, che il sacrifizio era superfluo, che gli Hostelliani non inspiravano più nulla che somigliasse alla pietà, l'antica fede riprendeva, lentamente, la sua apparenza di verità e il despota ridiventava gradatamente l'ardente libertario del passato. Harry Rhodes aveva constatato tale trasformazione con chiarezza crescente, mano mano che si affermava la prosperità dell'isola Hoste. Essa divenne più evidente ancora, quando, incominciato il faro del Capo Horn, il Kaw-djer poté considerare come quasi compiuto il dovere che si era imposto. Allora espresse chiaramente il suo pensiero. Harry Rhodes, conversando con lui, evocava un giorno i tempi passati, ed esaltava i benefici dei quali tutti gli erano debitori, ma il Kaw-djer rispose con una dichiarazione che non lasciava dubbi. — Assunsi il dovere di organizzare la colonia — disse. — Ho cercato di adempirlo. Ma terminata l'opera, cesserà anche il mio mandato. Vi avrò così provato, lo spero, che ci può essere almeno un canto di questa terra, ove l'uomo non abbia bisogno di padroni. — Un capo non è un padrone, amico mio — replicò con emozione Harry Rhodes — e voi stesso lo dimostrate. Ma nessuna società è possibile che non sia retta da un'autorità superiore, qualunque sia il nome di cui la si rivesta. — A mio parere — rispose il Kaw-djer — penso che l'autorità debba cessare, quando non sia più imperiosamente necessaria. Così, dunque, il Kaw-djer accarezzava sempre le sue antiche utopie e, malgrado l'esperienza fatta, si illudeva ancora sulla natura degli uomini, al punto da ritenerli capaci di regolare, senza l'aiuto di alcuna legge, le innumerevoli difficoltà che nascono dal conflitto degli interessi individuali. Harry Rhodes constatava con malinconia il sordo lavorìo che si compiva nella coscienza dell'amico e ne traeva le peggiori previsioni. Giungeva ad augurarsi che un incidente, il quale agitasse per un momento l'esistenza placida degli Hostelliani, dimostrasse nuovamente al loro capo il suo errore.

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Il suo desiderio doveva, sfortunatamente, realizzarsi e l'incidente nascere anche più presto di quello che non si pensasse. Nei primi giorni di marzo 1891, corse improvvisamente la voce che si era scoperto un giacimento aurifero di grande ricchezza. In sé la cosa non aveva nulla di tragico, Anzi, tutti ne gioirono e i migliori, non escluso lo stesso Harry Rhodes, divisero il gaudio generale. Fu una giornata di festa per la popolazione di Liberia. Il solo Kaw-djer ebbe una specie di chiaroveggenza. Egli solo previde, in un attimo, le conseguenze della scoperta e ne comprese la forza latente di distruzione. Ecco perchè, mentre tutti si esaltavano, egli solo rimase tetro, già accasciato dalle tristezze che riserbava l'avvenire.

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II.

LA FEBBRE DELL'ORO.

La scoperta era avvenuta nella mattina del 6 marzo. Una comitiva, di cui faceva parte Edward Rhodes, progettando una partita di caccia, aveva lasciato Liberia di buon mattino per recarsi in carrozza a una ventina di chilometri nel Sud-Ovest, sul versante occidentale della penisola Hardy, al piede dei monti Sentry Boxs che la limitano. Ivi si stendeva una foresta profonda, non ancora abbattuta, covo preferito dalle bestie feroci dell'isola Hoste, puma e giaguari, che conveniva distruggere fino all'ultimo, perchè avevano fatte già troppe vittime fra i montoni. I cacciatori batterono la pista, uccisero per strada due puma, e raggiunsero un ruscello torrentizio che delimitava il confine opposto, quando fu scorto un grosso giaguaro. Edward Rhodes, ritenendolo a buona portata, gli sparò una prima fucilata che lo colpì al fianco sinistro. Ma l'animale, non mortalmente ferito, dopo un ruggito di rabbia più che di dolore, spiccò un salto nella direzione del torrente, rientrò sotto le piante e scomparve. Non così presto, però, che Edward Rhodes non avesse avuto il tempo di inviargli un secondo colpo. La palla, che non raggiunse la mèta, colpì invece un angolo di roccia. La pietra rimbalzò in frantumi. I cacciatori se ne sarebbero forse andati subito, se uno dei frammenti di roccia non fosse caduto ai piedi di Edward Rhodes, il quale, incuriosito del suo aspetto particolare, lo raccolse e lo esaminò. Era un pezzetto di quarzo, striato da vene caratteristiche, fra le quali gli riuscì facile distinguere alcune particelle di oro. Edward Rhodes rimase assai impressionato della scoperta.

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Oro!… C'era dunque l'oro nel terreno dell'isola Hoste? Quel frammentò di roccia lo testimoniava. D'altronde perchè stupirne? Non si erano forse trovati filoni del prezioso metallo, nelle adiacenze di Punta-Arenas come alla Terra del Fuoco, in Patagonia, ed anche in Magellania? Non è forse una catena d'oro la gigantesca spina dorsale delle due Americhe che, sotto il nome di Montagne Rocciose e di Cordigliera delle Ande, va dall'Alaska al Capo Horn e dalla quale, in quattro secoli, si sono estratti per quarantacinque miliardi di lire? Edward Rhodes comprese l'importanza della scoperta. Avrebbe voluto tenerla segreta, non parlarne che a suo padre, il quale ne avrebbe parlato, a sua volta, al Kaw-djer. Ma non era solo. I compagni di caccia avevano esaminato il pezzo di roccia e raccolti altri frammenti, che contenevano tutti un po' d'oro. Non bisognava quindi calcolare sul segreto e il giorno stesso infatti l'isola intiera sapeva di non dovere invidiare nulla al Klondyke, al Transvaal o all'Eldorado. Fu come una fiammata, che si propagò in un istante attraverso tutta Liberia e le altre borgate. Tuttavia, data la stagione, non si poteva neppure pensare a trar profitto della scoperta. Fra non molto sarebbero entrati nell'equinozio d'autunno e sotto il parallelo dell'isola Hoste non è possibile intraprendere lavori all'aria aperta, all'avvicinarsi dell'inverno. Quindi la scoperta di Edward Rhodes non ebbe e non poteva avere alcuna conseguenza immediata. L'estate finì in condizioni climatiche piuttosto favorevoli. Quell'annata, la decima della fondazione della colonia, diede il beneficio di un raccolto eccezionale. Intanto, nell'interno dell'isola, si erano organizzate altre segherie, talune mosse dal vapore, altre dall'elettricità generata dalle cascate d'acqua. Le pescagioni e l'industria del pesce conservato avevano prodotto un traffico considerevole e il carico delle navi in entrata e in uscita dal porto si enumerava a trentaduemilasettecentosettantacinque tonnellate.

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Con l'inverno si dovettero interrompere tutti i lavori intrapresi al Capo Horn per l'erezione del faro e la costruzione delle sale ove dovevansi collocare le macchine motrici e le dinamo. I lavori avevano proseguito fino allora in modo soddisfacente, malgrado la lontananza dell'isola Horn, situata circa a settantacinque chilometri dalla penisola Hardy, e la necessità di trasportare il materiale a traverso un mare seminato di scogli e reso impraticabile dalle tempeste invernali. Però, la stagione che, come il solito, portò molte raffiche e tormente di grande violenza, non fu eccessivamente fredda ed anche in luglio la temperatura non scese oltre i dieci gradi sotto zero. Gli abitanti di Liberia ora non temevano più né il freddo né le intemperie, perchè l'agiatezza generale permetteva che tutte le famiglie rendessero assai comode le proprie abitazioni. Sull'isola Hoste non si conosceva più la miseria e nessun delitto contro le persone e le proprietà aveva turbato l'ordine pubblico. Non accadeva che qualche rara contestazione civile, transatta generalmente ancor prima di accedere al Tribunale. Sembrava che nessun turbamento minacciasse la colonia, senza quella scoperta di giacimento aurifero, le cui conseguenze, data l'avidità umana, potevano divenire estremamente gravi. Il Kaw-djer non si era sbagliato. La notizia gli aveva fatto concepire i più cupi pronostici e la riflessione li rese anche più neri. Alla prima riunione del Consiglio, non nascose i suoi timori. — Così — disse egli — proprio nel momento in cui la nostra opera è ultimata e quando non ci resta che raccogliere il frutto dei nostri sforzi, il caso, un caso maledetto, getta in mezzo a noi questo fermento di torbidi e di rovine… — Il nostro amico va troppo lontano — intervenne Harry Rhodes, che considerava il fatto in modo meno pessimista. — La scoperta dell'oro può essere una causa di torbidi, sia pure, ma non di rovine. — Sì, di rovine — affermò il Kaw-djer con forza. — La scoperta dell'oro ha lasciato sempre la rovina dietro di sé.

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— Tuttavia — obbiettò Harry Rhodes — l'oro è una mercanzia come un'altra… — La più inutile. — Niente affatto. La più utile, perchè si può scambiare contro tutte le altre. — Che importa — replicò il Kaw-djer con calore — quando per ottenerla bisogna sacrificare tutto! La maggior parte dei cercatori d'oro muoiono nella miseria. Quelli poi che riescono, perdono addirittura il senno data la facilità del successo. Si appassionano ai piaceri, così comodamente ottenuti, per essi il superfluo diviene necessario e, rammolliti dai godimenti materiali, diventano incapaci del più piccolo sforzo. Si sono forse arricchiti, nel senso sociale della parola, ma impoveriti secondo il significato umano, che è il vero. Non sono più uomini. — La penso anch'io come il Kaw-djer — disse allora Germano Rivière. — Senza calcolare che, abbandonando i campi, i raccolti perduti non potranno essere surrogati. Misera cosa invero essere ricchi e morire di fame! Io temo che la nostra popolazione non resista a quell'influenza funesta. I nostri coltivatori non abbandoneranno i campi e gli operai il lavoro, per correre alle miniere? — L'oro!… l'oro!… la sete dell'oro!… — ripeteva il Kaw-djer. — Un flagello più terribile non poteva colpire il paese. Harry Rhodes era scosso. — Ammettendo che abbiate ragione — disse — non potete scongiurare il flagello? — No, mio caro Rhodes — rispose il Kaw-djer. — È possibile lottare contro un'epidemia, circoscriverla. Ma alla febbre dell'oro non c'è rimedio. È l'agente più distruttivo di ogni organizzazione. Possiamo dubitare, dopo quanto è avvenuto nei distretti auriferi dell'Antico e del Nuovo Mondo, in Australia, in California, nel Sud-Africa? Si abbandonarono i lavori utili dall'oggi al domani, i coloni disertarono i campi e le città, le famiglie si sparsero sui giacimenti. Poi si dissipò stupidamente l'oro estratto con tanta avidità, come accade di tutti i troppo

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facili guadagni, si dissipò in follie senza nome e a tanti insensati non rimase più nulla! Il Kaw-djer parlava con una eccitazione, che dimostrava la forza del suo convincimento e la profondità della sua inquietudine. — E non soltanto c'è il pericolo interno, ma anche quello esterno — aggiunse: — tutti gli avventurieri, gli spostati che invadono i paesi auriferi e li turbano e li sconvolgono per strappare dalle loro viscere il metallo maledetto. Ne vengono da tutte le parti del mondo! È una valanga, che non lascia dietro di sé se non il nulla. Ah! perchè la nostra isola deve essere minacciata da simile disastro?… — Non dobbiamo conservare più nessuna speranza? — chiese Harry Rhodes assai emozionato. — Se la notizia non dilaga, saremo preservati da quell'invasione. — No — rispose il Kaw-djer: — è già troppo tardi per impedire il male. Nessuno può immaginare con quale rapidità il mondo intiero conosca la scoperta, in una regione qualsiasi, per quanto lontana, dei giacimenti auriferi. Pare in verità, che la notizia si trasmetta con l'aria, che i venti trascinino seco il bacillo di tal peste, che contagia anche i più savi e migliori. Il Consiglio si sciolse senza prendere alcuna decisione. E, in verità, non era il caso di prenderne alcuna. Come il Kaw-djer aveva giustamente detto, non si lotta con la febbre dell'oro. Del resto, tutto non appariva ancora completamente perduto. Non poteva infatti accadere che il giacimento non fosse così ricco come lo si riteneva, e che l'oro vi fosse così disseminato in modo da renderne impossibile lo sfruttamento? Per saperlo bisognava aspettare la scomparsa della neve, che durante l'inverno ricopriva l'isola di un manto gelido. Ai primi soffi della primavera, i timori del Kaw-djer cominciarono ad avverarsi. Appena s'iniziò lo sgelo, i coloni più intraprendenti e più avventurieri si trasformarono in cercatori di oro, lasciarono Liberia e partirono in cerca del prezioso metallo. I più impazienti si recarono al Golden Creek — così fu battezzato il torrentello, del quale la palla

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malaugurata d'Edward Rhodes aveva sfiorata la sponda dove l'oro era stato scoperto. Molti altri ne seguirono l'esempio, malgrado tutti gli sforzi del Kaw-djer e dei suoi amici, e le partenze si moltiplicarono. Fino dal 5 novembre, parecchie centinaia d'Hostelliani, in preda all'idea dell'oro, si erano riversate verso i giacimenti, ed erravano per le montagne alla ricerca di un filone o di una vena ricca di pepite. In principio lo sfruttamento dei terreni non impose gravi difficoltà. Quando si tratta di filoni basta seguirli, intaccando la roccia con la picca, poi si frantumano i pezzi ottenuti per estrarne il metallo che contengono. Così si pratica nelle miniere del Transvaal. Tuttavia, seguire un filone è presto detto. In pratica, non è gran che comodo. Talvolta i filoni si imbrogliano e scompaiono e la scienza dei tecnici sperimentati non vale a rintracciarli. Spesso essi si addentrano profondissimamente nelle viscere della terra. Seguirli, vuol quindi dire scavare una miniera con tutte le sorprese e i pericoli inerenti a tal genere di imprese. D'altra parte, il quarzo è roccia di durezza estrema e per frantumarlo non si può fare a meno di macchine costose. Ne risulta che lo sfruttamento di una miniera d'oro è interdetto ai lavoratori isolati e che ne possono trar profitto soltanto società potenti, che dispongano di abbondante mano d'opera e di capitali considerevoli. Così i cercatori di oro, quando hanno la fortuna di scoprire un giacimento, si accontentano di assicurarsene la concessione, che cedono poi, il più presto possibile, a banchieri o a grandi imprenditori. Coloro che preferiscono invece lavorare per proprio conto e con le loro risorse personali, rinunziano assolutamente a qualsiasi sfruttamento minerario e cercano, nelle adiacenze delle rocce aurifere, terreni alluvionali, formati a spese di tali rocce dall'azione secolare delle acque. Sfaldando la roccia, l'acqua — ghiaccio, pioggia o torrente — ha necessariamente trasportato seco le particelle d'oro che è facilissimo isolare. Basta un semplice piatto per raccogliere le sabbie e un po' d'acqua per lavarle.

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Gli Hostelliani, si capisce, operavano con tali attrezzi rudimentali. I primi risultati furono abbastanza incoraggianti. Sulla riva del Golden Creek, sopra una lunghezza di parecchi chilometri e una larghezza di due o trecento metri, si stendeva uno strato fangoso, profondo otto piedi. In ragione di nove a dieci piatti per piede cubo, la riserva pareva dunque abbondante, perchè, quasi sempre, un piatto rendeva almeno alcuni grani d'oro. Le pepite, è vero, non erano che allo stato di polvere, e tali terreni non sembravano doverne produrre le centinaia di milioni che hanno dato altri terreni auriferi in altre regioni. Ma tuttavia apparivano ricchi abbastanza per far girare la testa a quei coloni, che fino allora avevano guadagnato il loro pane a costo di un lavoro ostinato. Sarebbe stata cattiva amministrazione non regolamentare lo sfruttamento dei terreni auriferi. Il giacimento, insomma, era proprietà collettiva, spettava quindi alla collettività l'alienarlo a favore dei singoli individui. Il Kaw-djer aveva fatto tavola rasa delle sue idee personali e, costringendosi a considerare il problema sotto lo stesso aspetto della generalità degli uomini, aveva cercato la soluzione più utile a quel gruppo sociale di cui era il capo. Durante l'inverno, aveva avuto, al riguardo, numerose conferenze con Dick, che ormai egli associava ad ogni sua decisione, e dall'avvenuto scambio di idee si giunse alla conclusione che bisognava raggiungere un triplice scopo; limitare il più possibile il numero degli Hostelliani che sarebbero partiti alla ricerca dell'oro; beneficiare l'insieme della colonia delle ricchezze strappate alla terra e, finalmente, limitare, respingere anzi, se si poteva, l'afflusso degli stranieri poco raccomandabili, che sarebbero accorsi da tutte le parti del mondo. La legge che venne promulgata alla fine dell'inverno, soddisfaceva a questi tre desiderata. Subordinava, anzitutto, il diritto di sfruttamento alla deliberazione anteriore di una concessione, poi fissava l'estensione massima di tali concessioni e decretava, a carico dei concessionari, tanto una indennità d'acquisto, quanto il versamento di un quarto del

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prodotto dell'estrazione metallica a profitto della collettività. Ai termini di questa legge, le concessioni restavano riserbate ai cittadini hostelliani, titolo che in avvenire non poteva acquistarsi che dopo un anno di dimora effettiva e su conforme decisione del Governatore.

Promulgata la legge, ne restava l'applicazione. Essa urtò, fin dall'inizio, contro grandi difficoltà. Indifferenti alle disposizioni che conteneva in loro favore, i coloni non

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furono sensibili che agli obblighi che loro imponeva. Che bisogno c'era di ottenere e di pagare una concessione, dal momento che bastava prendersela? Scavare la terra, lavare il fango dei fiumi, non è diritto di ogni uomo? Perchè essere costretti, per esercitare liberamente un diritto naturale, a versare una parte qualsiasi del prodotto del proprio lavoro a coloro che non vi avevano in modo alcuno partecipato? In fondo al suo cuore, il Kaw-djer condivideva quelle idee. Ma colui che si è assunta la missione di governare i suoi simili, deve saper dimenticare le sue preferenze personali e sacrificare, quando ce ne sia il bisogno, i suoi principi alle necessità del momento. Ora era indispensabile incoraggiare i coloni più saggi che avrebbero avuto l'energia di resistere al contagio e di restare applicati al loro lavoro abituale, e l'incoraggiamento migliore consisteva nella sicurezza di ottenere la loro parte, ridotta certamente, ma sicura, pure rimanendo a casa. Ma la legge non fu rispettata spontaneamente e allora si dovette imporla. Il Kaw-djer non disponeva a Liberia che d'una cinquantina di uomini, i quali formavano il corpo della polizia permanente, ma altri novecentocinquanta Hostelliani figuravano sulla scheda di leva, in cui i più anziani venivano eliminati per turno, mano mano che vi si aggiungevano i giovani pervenuti all'età necessaria. Così mille uomini armati potevano essere sempre rapidamente riuniti. Fu indetta la convocazione generale. Vi risposero soltanto settecento cinquanta Hostelliani. I duecento refrattari erano partiti essi pure per le miniere e battevano la campagna nelle adiacenze del Golden-Creek.. Il Kaw-djer divise in due gruppi le forze di cui disponeva. Cinquanta uomini furono scaglionati lungo le coste, con la consegna di impedire l'esodo clandestino dell'oro. Egli si pose alla testa degli altri trecento, che divise in venti squadre sotto gli ordini di coloro dei quali poteva fidarsi e con essi partì per la regione aurifera.

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La piccola armata repressiva si dispose traversalmente alla penisola, al piede dei Sentry Boxs, e di là risalì verso il Nord, spazzando via tutto dinanzi a sé. I lavoratori di oro, incontrati per strada, venivano spietatamente ricacciati a meno che non acconsentissero a mettersi in regola. Il metodo ottenne da principio qualche buon successo. Alcuni furono costretti a pagare in danari contanti il diritto di sfruttamento, dopo di che era loro assegnata la concessione prescelta. Altri invece — e in maggioranza — non possedendo la somma richiesta per la concessione, dovettero rinunziare all'impresa. Così il numero dei minatori decrebbe sensibilmente. Ma la situazione si aggravò subito. Coloro che non avevano potuto ottenere la concessione, durante la notte, aggiravano le truppe comandate dal Kaw-djer e ritornavano a stabilirsi sulla riva del Golden Creek, nel punto preciso da cui erano stati scacciati. Nello stesso tempo il male dilagava, come una marea ascendente. Eccitati dalla cupidigia di quanto avevano trovato i primi, entrava: ora in scena una seconda serie d'Hostelliani. Secondo le notizie pervenute al Kaw-djer, l'isola intiera veniva attaccata dal contagio. Il male non era più localizzato al Golden Creek e innumerevoli cercatori di oro frugavano le montagne del Centro e del Nord. Si era naturalmente pensato che, secondo ogni verosimiglianza, i giacimenti auriferi non dovevano incontrarsi esclusivamente nella pianura paludosa posta alla base dei Sentry Boxs. Essendo dimostrata la presenza dell'oro sull'isola Hoste, tutto portava a credere che se ne sarebbe trovato anche lungo gli altri corsi d'acqua dipendenti dallo stesso sistema orografico, Ci si era dunque messi alla caccia da ogni parte, dalla punta della penisola Hardy e dell'estremità della penisola Pasteur fino al Darwin Sund. Le prime ricerche avendo condotto a piccoli successi, ne fu aumentata la febbre generale e il fascino dell'oro divenne anche più imperioso. Una follia irresistibile vuotò in poche settimane

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Liberia, le borgate e le fattorie dei loro abitanti. Uomini, donne e fanciulli andavano a lavorare sui terreni auriferi. Qualcuno arricchiva scovando una di quelle tasche, ove le pepite si sono accumulate sotto l'azione delle piogge torrenziali. Ma la speranza non abbandonava neppure coloro che avevano lavorato in pura perdita per lunghi giorni e al prezzo di dure fatiche. Tutti accorrevano dalla capitale, dalle borgate, dai campi, dalle pescagioni, dalle officine e dalle agenzie del litorale. Quell'oro sembrava dotato di un potere magnetico, al quale la ragione umana non avesse la forza di resistere. In breve, a Liberia non rimase più che un centinaio di coloni, gli ultimi rimasti fedeli alle loro famiglie e agli usati affari, ber che assai provati da tale stato di cose. Per quanto penosa, per quanto desolante ne sia la confessione, bisogna pure riconoscere che, soli fra tutti gli abitanti dell'isola Hoste, gli Indiani che vi si erano stabiliti, resistettero a quella furia trascinatrice generale. Essi soli restarono sordi alle voci della cupidigia. Che ciò sia detto in onore di quegli umili Fuegiani; se parecchie pescagioni, se parecchie imprese agricole non vennero completamente abbandonate, lo si dovette alla loro natura onesta che li preservò dal contagiò. D'altra parte i poveretti non avevano disimparato ad ascoltare il Benefattore e mai avrebbero pensato a ripagare con l'ingratitudine i benefici innumerevoli ricevuti da lui. Le cose si spinsero ancora più avanti. Venne il momento in cui gli equipaggi delle navi ancorate cominciarono a seguire l'esempio funesto che loro era dato. Vi furono diserzioni, che aumentarono di giorno in giorno. I marinai abbandonavano alla chetichella il proprio bastimento e si sperdevano nell'interno del paese, inebbriati dal miraggio del prezioso metallo. I capitani, spaventati dalla dispersione dei loro equipaggi, si affrettarono a lasciare il Borgo-Nuovo, gli uni dopo gli altri, senza neppure aspettare il termine delle operazioni di carico e scarico. Senza alcun dubbio, essi avrebbero raccontato il pericolo corso e l'isola Hoste arrischiava di essere messa in quarantena da tutti i marinai della terra.

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Il contagio non risparmiò neppure coloro, che avevano il dovere di combatterlo. Il corpo organizzato dal Kaw-djer per la sorveglianza delle coste scomparve appena formato. Dei cinquecento uomini che lo componevano nemmeno venti raggiunsero il posto loro assegnato. Nello stesso tempo, la truppa che egli comandava direttamente si fondeva come un pezzo di ghiaccio al sole. Non v'era notte di cui parecchi fuggiaschi non approfittassero e in quindici giorni si ridusse da trecento uomini a meno di cinquanta. A dispetto della sua indomabile energia, il Kaw-djer si sentì allora profondamente scoraggiato. Spinto dall'irresistibile passione del bene, egli si era riavvicinato all'umanità dopo così lunga rottura ed ecco che essa gli si svelava cinicamente, denudando tutti i suoi difetti, tutte le sue vergogne, tutti i suoi vizi. Crollava, in un attimo, quanto egli aveva eretto con tanta fatica e la rovina stava per abbattersi sulla colonia disgraziata, perchè il caso aveva fatto splendere alcune particelle di oro nel frammento d'una roccia. Egli non poteva più lottare. I più fedeli lo abbandonarono al pari degli altri. Non certo, con quel pugno di uomini dei quali ancora disponeva e che forse l'avrebbero abbandonato domani, egli poteva ricondurre alla ragione la moltitudine impazzita. Il Kaw-djer ritornò a Liberia. Non c'era più nulla da fare. Il flagello, come torrente investitore dilagato a traverso l'isola, la devastava tutta. Bisognava aspettare l'esaurimento della sua violenza. Per un istante si poté credere che il momento fosse giunto. Verso la metà di dicembre, quindici giorni dopo il ritorno del Kaw-djer pochi Liberiani cominciarono a rientrare in città. Nei giorni seguenti il movimento si accentuò. Per ogni colono che si metteva tardivamente in campagna, ne rientravano due a riprendere le primitive occupazioni con le orecchie basse. Due cause motivavano quei ritorni. In primo luogo, il mestiere di cercatore d'oro era meno facile di quanto non si fosse supposto. Frangere la roccia a colpi di piccone, o lavare le sabbie dal mattino alla sera, sono fatiche penose, che soltanto la speranza

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di un guadagno fa sopportare. Ora, non era sufficente chinarsi per raccogliere l'oro, come ci si era figurato. Sopra pochi, guidati dalla loro buona stella verso un cantuccio favorito, se ne contavano centinaia ai quali il nuovo mestiere, benché infinitamente più duro del lavoro abituale, aveva reso molto poco. Sulla fede delle dicerie, si era attribuita ai giacimenti una ricchezza incalcolabile. Bisognava ricredersi. Non si poteva contestare che nell'isola ci fosse una certa quantità d'oro, ma non lo si raccattava a palate, come ingenuamente si era creduto di prim'acchito. Ed ecco, per certi coloni, uno scoramento, tanto più rapido quanto maggiori erano state le illusioni. D'altra parte, il rallentamento delle trattazioni commerciali e l'arresto quasi completo delle lavorazioni agricole, cominciavano a produrre i loro effetti. Certo, ancora, non mancavano di nulla. Ma il prezzo degli oggetti di prima necessità era enormemente aumentato. Potevano ridersene soltanto coloro che avevano tratto profitto dalla ricerca dell'oro. Il rincaro, invece, concorreva ad aumentare la miseria degli altri, per i quali le poche pepite di valore rinvenute non avevano compensato la soppressione dei soliti salari. Da ciò i ritorni, il cui numero fu, del resto, limitato ai più deboli e ai più poveri e, in qualche giorno, il movimento cessò. Il Kaw-djer non ne provò disinganno, perchè non si era mai illuso sulla sua ampiezza. Lungi dal considerare la crisi come prossima a calmarsi, il suo sguardo chiaroveggente scopriva pericoli nuovi nell'oscuro avvenire. No: la crisi non era finita. Anzi non faceva che principiare. Fino ad ora, non si aveva avuto da fare che con gli Hostelliani, ma non poteva andare sempre così. Sull'isola disgraziata si sarebbe inevitabilmente abbattuta la razza terribile dei cercatori d'oro, appena fosse stato conosciuto il nuovo campo aperto alla loro insaziabile rapacità. La prima carovana giunse al Borgo-Nuovo il 17 gennaio. Sbarcarono in numero di duecento circa da uno steamer: duecento uomini più o meno in cenci, d'aspetto robusto, risoluti, brutali e feroci. Qualcuno portava alla cintola un largo

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coltello, ma i calzoni di tutti, senza eccezione, per quanto cenciosi, avevano una tasca speciale gonfiata da un revolver. Sulle spalle avevano un piccone e un sacco che conteneva i loro miseri indumenti e, sul fianco sinistro, una zucca, un piatto e una scodella, urtandosi, producevano un rumore di ferramenta. Il Kaw-djer li guardò sbarcare con tristezza. Quei duecento avventurieri rappresentavano il primo giro della catena che avrebbe strettamente inceppata l'isola Hoste. A partire da quel giorno, gli arrivi si susseguirono a intervalli sempre più vicini. I cercatori d'oro appena sbarcati, da gente abituata alle formalità obbligatorie, si recavano direttamente al governo e si informavano delle prescrizioni legali in vigore. Ma le trovavano unanimemente esorbitanti. Rimettendo allora ad altro momento la regolarizzazione della loro situazione, si riversavano in città. Il piccolo numero degli abitanti e le informazioni abilmente raccolte li persuadevano in breve della debolezza dell'Amministrazione hostelliana. Per cui si decidevano tutti a non curarsi di leggi, che gli stessi Hostelliani sfidavano impunemente e, dopo avere vagato un giorno o due nelle vie deserte di Liberia, lasciavano la città e si allontanavano senza altra formalità alla ricerca d'un appezzamento conveniente. Ma venne l'inverno e, nello stesso istante in cui i lavori minerari dovettero essere sospesi, il flusso dei nuovi arrivati cessò del pari. L'ultima nave si allontanò il 24 marzo dal Borgo-Nuovo, dove aveva sbarcato il suo contingente di cercatori di oro. Più di duemila avventurieri calcavano in quel momento il suolo dell'isola. Quella nave portava con sé, in copie numerose, un decreto notificato dal Governo dell'isola Hoste a tutti gli Stati del globo. Il Kaw-djer, che aveva assistito all'invasione con dolore crescente, faceva sapere urbi et orbi che l'isola Hoste, avendo già una popolazione eccedente, avrebbe impedito, fosse pure con la forza, la sbarco di qualsiasi altro nuovo straniero.

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Tale misura sarebbe stata efficace? L'avvenire lo avrebbe detto, ma il Kaw-djer, nel suo interno, ne dubitava. L'attrattiva dell'oro è troppo potente su certe nature, che nulla può frenare. D'altra parte, il male era già fatto. La rivolta degli Hostelliani, che rinnegavano ogni disciplina, l'inevitabile miseria alla quale venivano condannati, l'invasione della turba di avventurieri, gente da sacco e da corda, che portavano seco tutti i vizi della terra, tutto ciò rappresentava un disastro. Che cosa si poteva fare? Nulla. Non altro che temporeggiare nell'attesa di giorni migliori, se ne potevano ancora sorgere. Halg, Karroly, Hartlepool, Harry e Edward Rhodes, Dick, Germano Rivière e una trentina d'altri, erano soli contro tutti. Erano gli ultimi fedeli, il battaglione sacro raggruppato intorno al Kaw-djer, il quale assisteva impotente, alla distruzione della sua opera!

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III.

L'ISOLA DEVASTATA.

Tale fu il primo atto del dramma dell'oro, che doveva, come ogni produzione teatrale ben congegnata, comportarne tre, correttamente separati dagli intermezzi invernali. I fatti deplorevoli che avevano costituito la trama del primo atto, ebbero forzatamente ripercussione immediata sulla vita, fino a quel punto felice, degli Hostelliani. Un piccolo numero di essi era scomparso. Che ne era stato? Lo si ignorava, ma tutto induceva a credere che fossero stati vittime di qualche rissa o accidente. Parecchie famiglie portavano quindi il lutto del padre o del figlio o del marito. Inoltre, il benessere così universalmente esteso in passato sopra l'isola Hoste, era assai diminuito. Non mancava ancora nulla, in verità, di quanto sia essenziale o soltanto utile alla vita, ma ogni cosa aveva raggiunto prezzi tripli e quadrupli di quelli praticati anteriormente. I poveri ebbero da soffrire di questo stato di cose. Gli sforzi del Kaw-djer, che si ingegnava di procurare loro un po' di lavoro, non avevano che scarso successo. L'arresto quasi completo degli affari particolari incitava tutti alla prudenza e nessuno osava intraprendere alcunché. I lavori eseguiti per conto dello Stato erano stati sospesi, essendo vuote le casse dello Stato stesso. Conseguenza ironica della scoperta dell'oro, lo Stato mancava di oro, da quando se che trovava in abbondanza nel suolo. E come procurarsene? Qualcuno soltanto fra gli Hostelliani si era rassegnato a pagare la propria concessione, ma nessuno aveva poi versato la percentuale prescritta dalla legge sull'estrazione; e la miseria generale, sopprimendo ogni

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contribuzione dei cittadini, aveva anche disseccato la fonte alla quale si era alimentata fino allora la cassa pubblica.

Pochi giorni bastarono inoltre ad esaurire i fondi personali del Kaw-djer. Egli li aveva già largamente intaccati durante l'estate, perchè non fossero interrotti i lavori del Capo Horn, malgrado le gravi difficoltà fra cui si dibatteva. E non vi era

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agevolmente pervenuto. La febbre dell'oro non risparmiò più degli altri Hostelliani gli operai che vi lavoravano e le opere subirono un grave ritardo. Nel mese di aprile 1892, otto mesi dopo il primo colpo di zappa, il grosso dell'opera giungeva appena all'altezza di un primo piano, mentre, secondo le previsioni dell'inizio, avrebbe dovuto essere completamente finita. Fra la ventina d'Hostelliani, pei quali il mestiere di cercatore d'oro aveva avuto buoni risultati, figurava Kennedy, l'antico marinaio del Jonathan, trasformato ih nababbo da un fortunato colpo di piccone e che si faceva sufficientemente rimarcare, perchè la sua fortuna non restasse ignorata da alcuno. Quanto possedeva? Nessuno lo sapeva e forse neanche lui, perchè non è certo che fosse capace di contare; molto in ogni modo a giudicare dalle sue spese. Seminava l'oro a piene mani. Non l'oro monetato che ha corso legale in tutti i paesi civilizzati, ma il metallo in pepite o in pagliuzze, delle quali sembrava abbondantemente provvisto. Il suo contegno sbalordiva. Perorava con autorità, si atteggiava a miliardario e annunziava, a chi voleva ascoltarlo, la sua intenzione di lasciare prossimamente una città dove non poteva procurarsi un'esistenza adatta alla sua ricchezza. Tutti ignoravano l'importanza di codesta sua ricchezza, come se ne ignorava l'origine esatta e nessuno avrebbe potuto dire con esattezza dove fosse situato l'appezzamento dal quale era stata estratta. Quando lo si interrogava al riguardo, egli assumeva certe arie misteriose e trinciava l'aria senza dare risposte precise. Tuttavia, alcuni Liberiani lo avevano visto durante l'estate, ma non intento a lavorare in un modo qualsiasi, bensì a passeggiare tranquillamente con le mani in tasca. Costoro non avevano obliato tale incontro perchè coincideva, per alcuni, con una grande disgrazia che li aveva colpiti. Poche ore o pochi giorni dopo avere veduto Kennedy, l'oro strappato da essi alla terra in quantità talvolta considerevole, era stato loro rubato, senza che ne fosse scoperto il colpevole. Quando

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le vittime si trovarono riunite, la regolare concordanza dei furti e della presenza di Kennedy in prossimità della località ove erano avvenuti, necessariamente li colpì e l'antico marinaio cominciò a destare sospetti, contro i quali, però, non si potevano produrre prove. Costui, ad ogni modo, non se ne preoccupava, e si accontentava dell'ammirazione dei gonzi, la cui razza è universale. Quelli di Liberia si lasciavano prendere dalla sua parlantina e la sua disinvoltura si imponeva loro. Benché fosse conosciuto per ciò che valeva, qualcuno, malgrado tutto, lo teneva in una certa considerazione ed egli reclutava quindi una clientela e diveniva una specie di personalità. Il Kaw-djer inasprito si risolse a un atto d'autorità. Kennedy e i suoi compari si ridevano troppo apertamente delle leggi. Finché non aveva potuto fare altrimenti, aveva subito la loro rivolta. Ora che era possibile, si doveva reprimerla. Ormai tutti i coloni, cacciati dall'inverno, erano di nuovo riuniti e, malcontenti in massima parte della campagna mineraria, riprendevano di buon grado le loro occupazioni regolari. La milizia soprattutto, ricostituita, si componeva di uomini i quali, per il momento almeno, sembravano animati dai migliori sentimenti. Una mattina, senza che nulla lontanamente avvertisse gli interessati del colpo che li minacciava, la Polizia irruppe nel domicilio di coloro fra i Liberiani che facevano pompa speciale delle loro ricchezze e, sotto la direzione di Hartlepool, si praticarono regolari e minuziose perquisizioni. Si confiscò spietatamente il quarto dell'oro trovato in loro possesso, e sulla rimanenza si prelevarono ancora duecento pesos, o piastre argentine, prezzo stabilito dal Kaw-djer per le singole concessioni. Kennedy non si vantava a torto. In casa sua fu fatta la messe più abbondante. Vi si scoperse tanto oro infatti per il valore corrispondente a centosettantacinquemila franchi di moneta francese. Ma presso di lui si incontrò altresì la più viva resistenza.

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Mentre si procedeva alla visita del suo domicilio, si fu costretti a tenere in rispetto l'antico marinaio, che scoppiava di bile e urlava imprecando furiosamente. — Massa di ladri! — esclamava mostrando i pugni ad Hartlepool. — Canta pure, ragazzo, — rispose questi, continuando imperterrito la perquisizione. — Me la pagherete! — minacciò Kennedy, esasperato dal sangue freddo del suo antico capo. — Ah! ah!… Mi sembra che, per ora, sii tu a pagare — constatò con spietata ironia Hartlepool. — Ci rivedremo! — Quando vorrai. Ma, secondo il mio desiderio, il più tardi possibile. — Ladro!… — gridò Kennedy, al colmo della collera. — T'inganni — replicò Hartlepool con tono placido — e la prova ne sia, che, sui tuoi cinquantatrè chili di oro, non ne prelevo che tredici chili e duecentocinquanta grammi, vale a dire il quarto, esattamente, più il valore delle duecento piastre che tu sai. S'intende che pel tuo danaro… — Miserabile!… — Hai diritto ad una regolare concessione. — Brigante!… — Non hai che da dirci dov'è il tuo appezzamento. — Bandito! — Non vuoi dirlo?… — Canaglia!… — A tuo piacere, ragazzo! — concluse Hartlepool, mettendo fine alla scena. A conti fatti, le perquisizioni fruttarono al tesoro pubblico quasi trentasette chili d'oro, rappresentanti in moneta italiana un valore di circa centoventiduemila lire. In cambio si accordarono concessioni regolari. Kennedy soltanto non l'ottenne, per non aver voluto ostinatamente indicare il posto dell'appezzamento che gli aveva dato così buona raccolta.

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La somma ricavata entrò nelle casse dello Stato, per essere scambiata con moneta corrente a primavera, quando le relazioni col resto del mondo fossero state riprese. Intanto il Kaw-djer, dopo avere reso pubblico il risultato delle perquisizioni, creò una quantità equivalente di carta-moneta, a cui si accordò piena fiducia, cosa che gli permise di sollevare molte miserie. L'inverno trascorse bene o male e si raggiunse la primavera. Subito, le stesse cause produssero gli stessi effetti. Come l'anno precedente, Liberia fu abbandonata. La lezione non era bastata. Ci si precipitava, forse con maggior frenesia, alla caccia dell'oro, come quei giuocatori, a tre quarti rovinati, che gettano sul tappeto verde l'ultima moneta, nell'assurda speranza di rifarsi. Kennedy partì fra i primi. Messo al sicuro l'oro che gli restava, scomparve una mattina, incamminato senza dubbio verso l'appezzamento misterioso di cui si ostinava a non rivelare la località. Coloro che si erano ripromessi di seguirlo, vi rimisero il tempo. La milizia stessa, guardia fedéle e devota, finché era durata la cattiva stagione, si liquefece daccapo con la neve e il Kaw-djer, ridotto al solo aiuto degli amici migliori, dovette restare spettatore del secondo atto del dramma. Tuttavia, le scene si svolgevano più rapidamente di quelle del primo. Meno di otto giorni dopo la loro partenza, alcuni Liberiani cominciarono a ritornare, poi i ritorni si succedettero, accelerandosi progressivamente. La milizia si ricostituì una seconda volta. Gli uomini riprendevano silenziosamente il posto lasciato, senza che il Kaw-djer muovesse un'osservazione. Non era il momento di mostrarsi severo. Tutte le informazioni attestavano concordemente che la situazione all'interno si modificava in identico modo. Le fattorie, le officine, le agenzie si ripopolavano. Il movimento era generale al pari della causa che lo produceva. I cercatori d'oro avevano trovato, infatti, una situazione ben diversa da quella dell'anno prima. Allora le cose erano rimaste

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fra Hostelliani. Ora era entrato in scena l'elemento straniero e bisognava fare i conti con esso. E quali stranieri! Il rifiuto dell'umanità. Esseri rifiniti, mezzo bruti, abituati a tutto, che non pesavano né la sofferènza né la morte, spietati verso sé stessi e verso gli altri. Bisognava combattere pel possesso degli appezzamenti contro tali uomini avidi, che, fin dall'inizio della stagione, si erano assicurati i posti migliori. Dopo una lotta più o meno lunga, a seconda dei singoli caratteri, la maggior parte degli Hostelliani vi aveva rinunziato. Era tempo che giungessero rinforzi. L'invasione cominciata alla fine dell'estate precedente, ricominciava in maniera assai più intensa. Ogni settimana, due o tre steamers portavano un carico di cercatori d'oro stranieri. Il Kaw-djer si era inutilmente opposto allo sbarco. Gli avventurieri, incuranti di una interdizione non appoggiata dalla forza, sbarcavano malgrado il Governatore e le brigate rumorose percorrevano Liberia prima di mettersi in cammino per i giacimenti. Le navi addette al trasporto dei cercatori d'oro erano quasi le sole che si scorgessero ormai nel porto del Borgo-Nuovo. E infatti, cosa sarebbero venute a fare le altre? Essendo gli affari completamente sospesi, esse non avrebbero trovato carico. Gli stocks di legname da costruzione e di pelliccerie si esaurirono fin dalla prima settimana e il Kaw-djer si opponeva energicamente all'esportazione del bestiame, dei cereali e delle conserve, cosa che avrebbe ridotta la popolazione a tutti gli orrori della carestia. Appena il Kaw-djer poté disporre di duecento uomini, gli invasori ebbero la peggio. Quando duecento baionette appoggiarono le ordinanze del Kaw-djer, esse divennero d'un tratto degne di rispetto e furono rispettate. Dopo aver tentato invano di vincere le proibizioni vigenti, gli steamers dovettero riprendere il largo col detestabile carico che avevano portato. Ma non si tardò a sapere, che la ritirata non era che fittizia. Obbligati a cedere dinanzi alla forza, le navi navigavano lungo la costa occidentale dell'isola e, al riparo entro qualche insenatura, sbarcavano il carico umano in aperta campagna,

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servendosi delle proprie imbarcazioni. Le brigate volanti, create per la sorveglianza delle coste, non servirono a nulla. Furono sopraffatte. Coloro che volevano metter piede sull'isola vi riuscivano, ad ogni modo, e l'onda degli avventurieri non cessò d'ingrossare. Il disordine nell'interno dell'isola raggiunse il colmo. Erano orgie continue, stravizzi, rotti da contese, da risse sanguinose al revolver e al coltello. E come i cadaveri attirano le iene e gli avvoltoi dai confini dell'orizzonte, così quelle migliaia di avventurieri avevano attirato tutta una popolazione ancor più degradata. Coloro che componevano questa seconda serie d'immigrati non pensavano a cercare il prezioso metallo. Le loro miniere erano in fondo alle tasche dei cercatori d'oro e lo sfruttamento ne era assai più comodo. Sopra tutti i punti dell'isola, ad eccezione di Liberia, ove non avrebbero osato sfidare il Kaw-djer così apertamente, pullulavano le taverne e le bische. Erano sorti persino music-halls di bassa sfera, rizzati in aperta campagna con poche travi mal squadrate, in cui femmine da conio affascinavano i minatori ebbri con le loro voci rauche e i volgari ritornelli. Nelle bische, nei music-halls, nelle taverne, l'alcool, generatore di tutte le vergogne, scorreva a torrenti. Nonostante tante tristezze, il Kaw-djer non si perdeva d'animo. Fermo al suo posto, centro intorno al quale si sarebbero ancora riuniti tutti per riedificare, non appena cessata la tormenta, egli si adoprava a riconquistare la fiducia degli Hostelliani, che, lentamente ma sicuramente, ritornavano in sé stessi. Nulla sembrava avere presa su lui e, volontariamente cieco alle defezioni, continuava, imperturbabile, il suo mestiere di Governatore, non trascurando neppure la costruzione del faro, che gli stava tanto a cuore. Per ordine suo, Dick, in estate, aveva compiuto un viaggio d'ispezione all'isola Horn. Malgrado tutto, i lavori, certamente rallentati, non erano stati sospesi neppure di un giorno. Il grosso dell'opera poteva essere terminato alla fine dell'estate e per le macchine, già piazzate in

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quell'epoca, sarebbe stato sufficiente uh mese a compierne il montaggio. Verso il 15 dicembre, si poteva calcolare che la metà degli Hostelliani fossero già ritornati al dovere, mentre all'interno sfrenava tuttavia il sabba infernale. Proprio in quell'epoca, il Kaw-djer ricevette una visita inattesa, le cui conseguenze dovevano essere fortunatissime. Due uomini, un Inglese e un Francese, giunti sulla stessa nave, si presentarono insieme al Governo. Ammessi immediatamente presso il Kaw-djer, declinarono i loro nomi: Maurizio Reynaud, il Francese; Alessandro Smith, l'Inglese; e, senza parole superflue, espressero il desiderio di ottenere una concessione. Il Kaw-djer sorrise con amarezza. — Permettetemi di chiedervi, signori — disse — se siete al corrente di quanto accade in questo momento all'isola Hoste. — Sì — rispose il Francese. — Ma noi preferiamo, lo stesso, essere in regola — terminò l'Inglese. Il Kaw-djer esaminò con maggior attenzione i due uomini. Avevano tra essi, pure essendo di razze differenti, qualche cosa di comune; quel non so che famigliare agli uomini d'azione. Erano giovani entrambi, forse avevano trent'anni, ed entrambi erano robusti e coloriti in volto. Le fronti, lasciate libere dai capelli tagliati a spazzola, denotavano intelligenza, e il mento un po' sporgente, un'energia che avrebbe potuto sembrare durezza, se lo sguardo assai franco dei loro occhi turchini, non ne avesse addolcita l'espressione. Per la prima volta, il Kaw-djer si trovava di fronte a cercatori d'oro simpatici. — Ah! siete già al corrente — disse. — Pure, siete appena giunti. — Cioè ritornati — spiegò Maurizio Reynaud. — L'anno scorso passammo pochi giorni qui. Ne siamo ripartiti, dopo avere rilevato e riconosciuto l'appezzamento che desideriamo sfruttare. — Insieme? — domandò il Kaw-djer.

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— Insieme — rispose Alessandro Smith. Il Kaw-djer, con espressione di rincrescimento sincero, riprese: — Giacché siete così bene informati, saprete pure che non posso soddisfarvi, perchè la legge che voi desiderate rispettare riserba ogni concessione ai cittadini hostelliani. — Per gli appezzamenti — obbiettò Maurizio Raynaud. — Ebbene? — chiese il Kaw-djer. — Si tratta d'una miniera — spiegò Alessandro Smith. — La legge non parla di ciò. — Infatti, — riconobbe il Kaw-djer — ma una miniera è impresa che esige capitali importanti… — Li possediamo — interruppe Alessandro Smith. — Siamo partiti per procurarceli. — È cosa fatta — disse Maurizio Raynaud. — Noi rappresentiamo la Franco-English Gold Mining Company, della quale il mio collega Smith è l'ingegnere-capo ed io il direttore, società costituitasi a Londra il 10 settembre scorso, col capitale di quarantamila lire sterline. Se concluderemo l'affare, come non dubito, lo steamer che ci ha condotti, riporterà i nostri ordini. Fra otto giorni inizieremo i lavori, fra un mese avremo le prime macchine e nel prossimo anno il nostro attrezzaggio sarà già completo. Il Kaw-djer, interessandosi assai all'offerta fattagli, rifletteva circa l'accoglienza da farle e ne pesava il pro e il contro. I due giovani gli garbavano. Ne ammirava il carattere deciso e l'aspetto di sana freschezza. Ma permettere a una società franco-inglese di installarsi sull'isola Hoste e crearvi interessi considerevoli, non valeva come aprire la porta a future complicazioni internazionali? La Francia e l'Inghilterra, sotto pretesto di sostenere i loro sudditi, non avrebbero avuto la tentazione un giorno di ingerirsi dell'amministrazione interna dell'isola? Alla fine il Kaw-djer si risolse per una risposta affermativa. La proposta era troppo seria per essere respinta e, poiché la malattia dell'oro era ormai inevitabile, meglio valeva, anziché lasciarla diffondere attraverso tutto il territorio, localizzarla in qualche focolare di facile sorveglianza,

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dividendo, al bisogno, tutti i giacimenti fra un piccolo numero di società importanti.

— Accetto — disse.— Tuttavia, poiché si tratta di lavori di scavo, reputo che le condizioni previste per le concessioni degli appezzamenti debbano essere modificate. — Come vi piacerà — rispose Maurizio Reynaud. — Si può fissare un prezzo per ettaro. — Sia!

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— Per esempio, cento piastre argentine. — Accettato. — Quale sarà l'estensione della vostra concessione? — Cento ettari. — Si tratterà dunque di diecimila piastre. — Eccole — disse Maurizio Reynaud, spiccando rapidamente un assegno bancario. — Invece — riprese il Kaw-djer — si potrà, in ragione delle spese che saranno più forti che non per lo sfruttamento in superficie piana, abbassare il tasso della nostra compartecipazione alla vostra estrazione. Vi propongo il venti per cento. — Accettiamo — dichiarò Alessandro Smith. — Siamo d'accordo? — Su tutti i punti. — È mio dovere prevenirvi — aggiunse il Kaw-djer — che, durante un certo periodo almeno, lo Stato hostelliano è nell'impossibilità di garantirvi la libera disposizione della concessione che vi accorda e di proteggere efficacemente le vostre persone. I due giovani sorrisero con baldanza. — Sapremo proteggerci da noi stessi — rispose Maurizio Reynaud. La concessione venne firmata, e il titolo rimesso ai due amici, che si congedarono subito. Tre ore dopo avevano lasciato Liberia, dirigendosi verso l'estremità occidentale della catena media dell'isola, ove era situata la loro concessione. Invece di calmarsi, l'anarchia dell'interno non fece che aumentare mano mano che l'estate avanzava. Nell'Antico e nel Nuovo Mondo, l'esagerazione e l'immaginazione se ne erano interessate, scaldando i cervelli, per cui l'isola Hoste veniva considerata ormai come un'isola d'oro. E i cercatori affluivano. Respinti dal porto, s'insinuavano attraverso le baie dell'isola. Negli ultimi giorni di gennaio, il Kaw-djer, riferendosi alle informazioni giuntegli da varie località, poté valutare a non meno di ventimila gli stranieri ospitati per forza, che certo avrebbero finito col divorarsi l'un l'altro. Cosa non si doveva temere da quei forsennati, già in lotta sanguinosa per il

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possesso degli appezzamenti, quando la carestia li avesse gettati gli uni contro gli altri? In quell'epoca il disordine raggiunse l'apice e parecchi Hostelliani caddero vittime nei conflitti feroci, quasi quotidianamente scatenati dalla cupidigia. Il Kaw-djer, appena ne ebbe notizia, si recò coraggiosamente sui terreni auriferi e si slanciò in mezzo alle turbe. Ma i suoi sforzi riuscirono inutili e il suo intervento poco mancò non gli costasse caro. Fu respinto, minacciato e si attentò perfino alla sua vita. La sua visita ebbe però un risultato, che egli era ben lungi dall'aspettarsi. La folla eterogenea degli stranieri comprendeva persone, non soltanto di tutte le razze del mondo, ma anche di tutte le condizioni. Sebbene eguagliate dal decadimento attuale, traevano però origini differenti. Se per la maggior parte uscivano dalle tane ove si nascondono, fra due delitti, i banditi delle grandi città, qualcuno invece discendeva dalle più alte sfere sociali. Parecchi portavano anzi nomi noti e avevano posseduto una ricchezza considerevole, prima di scivolare nell'abisso, rovinati, disonorati, avviliti dalla crapula e dai vizi. Alcuni di costoro, non si seppe mai quali fossero, riconobbero il Kaw-djer, così come l'aveva riconosciuto un giorno il comandante del Ribarto, ma con sicurezza maggiore del capitano chileno, che ricordava soltanto una vecchia fotografia. Costoro, invece, avevano veduto il Kaw-djer in carne ed ossa durante i loro pellegrinaggi attraverso il mondo e, per quanto tempo fosse già passato, non potevano sbagliarsi, occupando egli allora un posto troppo elevato perchè i suoi lineamenti non si fossero incisi nella loro memoria. Il suo nome corse subito di bocca in bocca. Quel nome illustre era, diciamolo subito, giustamente attribuito. Discendente dalla famiglia regnante d'un potente impero del Nord e destinato dalla nascita a signoreggiare, il Kaw-djer era cresciuto sui gradini di un trono. Ma il destino che talvolta si compiace di talune ironie, aveva dato al figlio dei Cesari l'anima d'un San Vincenzo di Paola, convertito all'anarchismo.

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Uscito appena dall'adolescenza, la sua situazione privilegiata gli fu sorgente non di felicità, ma di dolore. Le miserie che lo circondavano offuscarono ai suoi occhi lo splendore della sua grandezza. Egli tentò dapprima di lenirle, ma dovette presto convincersi che tale impresa eccedeva il suo potere. Né la sua ricchezza, benché immensa, né la durata della sua vita, potevano bastare ad alleviare neppure la centomilionesima parte delle sventure umane. Per stordirsi, per attutire il dolore che gli causava il senso della sua impotenza, egli si rifugiò nella Scienza, come altri si sarebbero rifugiati nel piacere. Ma divenuto medico, ingegnere, sociologo di grande valore, anche dal sapere non poté trarre il mezzo per assicurare a tutti l'eguaglianza della felicità. Di disinganno in disinganno, perdette a poco a poco la chiarezza del giudizio. Scambiando l'effetto per la causa, anziché considerare gli uomini come vittime che lottino ciecamente attraverso i secoli contro la materia spietata e che fanno, dopo tutto, del loro meglio, giunse a rendere responsabile della loro infelicità le diverse forme d'associazioni, alle quali, non conoscendone migliori, si sono rassegnate le collettività. L'odio profondo che concepì contro tutte le istituzioni e le organizzazioni sociali, che, secondo lui, rendevano perenne il male, gli rese impossibile il continuare a subire le loro leggi detestate. Per liberarsene, non scorse altro mezzo che separarsi volontariamente dai viventi. Senza prevenire alcuno, era dunque partito un bel giorno, abbandonando la Corte e i suoi beni, e aveva percorso il mondo, fino al momento in cui, giunto nella Magellania, la sola regione ove forse regnasse la libertà assoluta, vi era sbarcato. E là, da dieci anni si prodigava ininterrottamente ai più diseredati fra gli uomini, quando l'accordo chilo-argentino e poi il naufragio del Jonathan erari venuti a turbare la sua esistenza. Tali sparizioni principesche, causate da motivi, se non identici, analoghi almeno a quelli che avevano mosso il Kaw-djer, non sono assolutamente rare. Tutti rammentano il nome di parecchi principi, tanto più celebri — la loro rinunzia apparve

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prodigiosa! — quanto più cercarono appassionatamente di essere obliati. Alcuni hanno abbracciato una professione attiva e l'hanno esercitata come qualsiasi altro mortale. Altri si sono confinati nell'oscurità della vita borghese. Uno di questi grandi, guarito dalle vanità terrene, si è dedicato alla Scienza, ed ha scritto opere magnifiche, ammirate universalmente. La parte del Kaw-djer, che dell'altruismo aveva fatto il polo e la ragione di essere della sua vita, non era, certo, la meno bella. Una volta sola nel momento in cui aveva assunto il governo della colonia, fu costretto a ricordarsi della passata grandezza. Conosceva abbastanza lo spirito delle leggi umane per non prevedere le conseguenze della sua partenza. Pur occupandosi poco delle persone, esse sono però assai scrupolose nella tutela della proprietà individuale. Per cui, pur certo d'essere stato completamente obliato, egli non dubitava che la sua ricchezza non fosse stata severamente rispettata. Una parte di quella ricchezza poteva divenire in quel momento una leva potente e allora, vincendo le sue ripugnanze, aveva svelato la sua vera personalità ad Harry Rhodes, il quale, munito delle necessarie istruzioni, era partito per prelevare quell'oro, che l'isola Hoste prodigava adesso con così perniciosa abbondanza. L'effetto prodotto sugli Hostelliani e sugli avventurieri dalla rivelazione del nome del Kaw-djer, fu assai disparato. Né gli uni né gli altri videro giusto d'altra parte, e il lato sublime di quel magnifico carattere fu da tutti ugualmente disconosciuto. I cercatori di oro stranieri, vecchie volpi che avevano troppo percorso la Terra in tutti i sensi per rimanere sbalorditi dalla distinzione sociale, detestarono ancora più colui che consideravano loro nemico. Non era da meravigliarsi che promulgasse leggi così dure per i miseri. Era un aristocratico. Ciò spiegava tutto. Gli Hostelliani, invece, non rimasero insensibili alla gloria di essere governati da un capo di così alto lignaggio. La loro vanità ne fu deliziosamente solleticata e l'autorità del Kaw-djer ne fu avvantaggiata.

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Questi era tornato a Liberia così disperato, così accorato per i fatti abbominevoli ai quali aveva assistito, che i suoi intimi amici ventilarono la possibilità di abbandonare l'isola Hoste. Tuttavia, prima di ricorrere a tali estremi, Harry Rhodes propose di rivolgersi al Chili. Conveniva forse tentare questa suprema possibilità di salvezza. — Il Governo chileno non ci abbandonerà — fece osservare. — È nel suo interesse che la Colonia ricuperi la sua tranquillità. — Chiedere aiuto allo straniero! — esclamò il Kaw-djer. — Basterebbe — rispose Harry Rhodes — che una delle navi di Punta-Arenas venisse ad incrociare in vista dell'isola. — Che Karroly parta per Punta-Arenas — propose Hartlepool — e prima di quindici giorni… — No — interruppe il Kaw-djer con tono che non ammetteva replica. — Simile passo non sarà mai compiuto col mio consenso, nemmeno se la nazione hostelliana dovesse perire. Tutto, del resto, non è ancora perduto. Noi potremo salvarci da soli col coraggio, come, da soli ci siamo formati. Dinanzi a una volontà espressa così chiaramente non restava che inchinarsi. Dopo pochi giorni, come per giustificare quell'energia che nulla poteva abbattere, si delineò fra gli Hostelliani una corrente di reazione molto più importante delle precedenti. Forse anche perchè la situazione sui terreni auriferi diveniva impossibile. La partita era troppo ineguale per essi, che dovevano competere con avventurieri senza scrupoli, i quali consideravano la coltellata quale argomento naturalissimo di discussione. Rinunziavano dunque alla lotta e venivano a rifugiarsi presso un capo, al quale non erano alieni dall'attribuire potere illimitato, ora che ne conoscevano il vero nome. In pochi giorni, tutti, a Liberia come nel resto dell'isola, avevano ripreso l'antico posto. Fra quelli che ritornavano, si sarebbe vanamente cercato Kennedy, rimasto sui giacimenti insieme con gli avventurieri suoi pari. Cattive voci seguitavano a circolare sul conto dell'antico marinaio.

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Al pari dell'anno precedente, nessuno l'aveva mai visto lavorare, o scavare per conto suo e la sua presenza aveva coinciso, in più riprese, con furti ed anche, per due volte, con assassini, il cui movente era stato il furto. Da tali voci un'accusa aperta, non mancava che un passo. Che, però, per il momento almeno, non era possibile il compiere. In quel paese così agitato, diveniva impossibile ogni sorta d'inchiesta. Fondata o no, bisognava rinunziare a chiarire l'accusa. La natura del Kaw-djer era troppo nobile per conoscere il rancore. Ma, anche se ne fosse stato capace, l'aspetto dei coloni sarebbe bastato a dissiparlo. Ritornavano vinti, in uno stato doloroso di miseria e di stanchezza. Fra quella popolazione nomade, che aveva raccolto i germi ammorbati di tutti i cieli e che formicolava sulle concessioni, quasi senza tetto, esposta alle intemperie di un clima spesso burrascoso in estate, che respirava l'aria delle paludi delle quali rimoveva il fango infetto, la malattia s'era scatenata rabbiosa. I Liberiani ritornavano in città, smagriti, tremanti di febbre, e per un lungo mese il Kaw-djer, più medico che governatore, dovette aiutare il dottor Arvidson, il quale non bastava da solo ad assolvere il suo compito. Ciò malgrado lo confortava una grande speranza. Questa volta egli aveva la coscienza che il suo popolo gli veniva reso. Lo sentiva vibrare nella sua mano, oppresso dalle sue colpe, fremente pel desiderio di farsele perdonare. Con un po' di pazienza ancora, egli avrebbe disposto della forza necessaria per lottare contro il cancro immondo che si era attaccato alla sua opera. Verso la fine dell'estate, l'isola Hoste era infatti divisa in due zone ben distinte. Nell'una, la più grande, cinquemila Hostelliani, uomini, donne e fanciulli, ritornati a riprendere la vita normale. Nell'altra, poche località intorno ai terreni auriferi, ventimila avventurieri, pronti a tutto e imbaldanziti dall'impunità. Ora osavano perfino venire a Liberia e trattavano la città da paese conquistato. Percorrevano le vie

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insolentemente, con la testa alta, facendo risuonare i tacchi e prendendo senza scrupoli ciò che trovavano di loro convenienza. Se l'interessato protestava, rispondevano a bastonate. Ma un giorno finalmente, il Kaw-djer, che si sentiva abbastanza forte per iniziare la lotta, si risolse a dare un esempio. In quel giorno, gli scavatori d'oro che si avventuravano in Liberia, vennero arrestati e imprigionati, senz'altra forma di processo, nell'unico steamer che si trovava al Borgo-Nuovo e che il Kaw-djer aveva noleggiato a tale scopo. L'operazione si rinnovò nei giorni seguenti, così che al 15 marzo, quando lo steamer prese il largo, trasportava seco più di cinquecento di quei passeggeri involontari, solidamente incatenati in fondo alla stiva. Tali espulsioni sommarie ebbero una certa eco all'interno e vi scatenarono ire spaventose. Dalle notizie che pervenivano, tutta la regione aurifera era in tumulto e bisognava aspettarsi una rivolta generale. Non si era già più sicuri in alcuna parte dell'isola. I delitti individuali, segni premonitori dei delitti collettivi, si moltiplicavano. Alcune fattorie erano state saccheggiate, alcuni capi di bestiame rubati. A venti chilometri da Liberia, erano stati commessi uno dopo l'altro tre assassini. Poi si apprese che gli stranieri si concertavano, che avevano tenuto qualche comizio e che dinanzi a un uditorio di migliaia di persone venivano pronunziati discorsi di violenza incredibile. Gli oratori parlavano, nientemeno, che di marciare sulla capitale e distruggerla da cima a fondo. Ma tutto ciò, per uno spirito chiaroveggente, era ancora ben poca cosa. Presto sarebbero mancati i viveri. E quando la fame avesse straziato le viscere di quel popolaccio delirante, la sua rabbia ne sarebbe stata decuplicata. Bisognava aspettarsi di peggio… All'improvviso, tutto si calmò. Era ritornato l'inverno, agghiacciando l'anima tumultuosa degli uomini. E, dal cielo grigio, tutto ovattato di neve, la valanga implacabile dei fiocchi scendeva come un sipario sul secondo atto del dramma.

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IV.

UNA «GIORNATA».

Il traviamento degli Hostelliani non aveva soltanto soppresso, quasi totalmente, la produzione dell'isola, ma una popolazione quintuplicata doveva inoltre vivere sulle riserve quasi esaurite. Così la miseria fu atroce durante l'inverno del 1893. Nei cinque mesi della sua durata, il Kaw-djer dovette addossarsi un compito formidabile. Dovette risolvere giorno per giorno le difficoltà continuamente rinascenti, soccorrere gli affamati, curare gli ammalati innumerevoli, essere, insomma, ovunque ad un tempo. Dinanzi alla sua energia indomabile e all'inalterabile dedizione, i Liberiani furono colpiti di ammirazione e torturati dal rimorso. Ecco come si vendicava colui che aveva rinunziato, ora lo sapevano, a un'esistenza tanto superiore, per condividere la loro vita di miseria, e che essi avevano nonpertanto così vilmente rinnegato! Nonostante tutti gli sforzi del Kaw-djer, a mala pena ci si poté provvedere a Liberia dello stretto necessario. Cosa doveva essere nelle campagne? Cosa, specialmente, sui terreni auriferi, ove si ammucchiavano migliaia di uomini che non avevano preso nessun provvedimento per combattere un clima di cui ignoravano i rigori? Ora era troppo tardi per riparare alla loro imprevidenza. Essi erano bloccati dalle nevi e non potevano calcolare che sulle risorse delle adiacenze più prossime. Ma tante e tante bocche affamate, in pochi giorni, le avrebbero esaurite. Però, come si seppe più tardi, alcuni riuscirono a vincere tutti gli ostacoli e poterono perfino spingersi molto lontano, nell'interno dell'isola. Tra essi e parecchi fattori avvennero battaglie sanguinose. La ferocia umana superava quella della

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natura. L'inverno aveva diminuito ma non arrestato il flusso di sangue che arrossava la terra. Tuttavia, soltanto pochi fra essi, sfidarono con tali audaci escursioni l'ostilità degli uomini e quella insieme delle cose. Come vissero gli altri? Molti, cosa che non si sarebbe mai riuscito a sapere, eran morti di fame e di freddo. E come gli altri, più fortunati, avessero provveduto alla loro esistenza, anche questo restò sempre mistero impenetrabile. Ma il Kaw-djer non aveva bisogno di conoscere i particolari delle cose, per concepire di quali torture fossero preda quei miserabili. Ne immaginava la disperazione e comprendeva che tale sentimento si sarebbe mutato in furore ai primi tepori primaverili. Allora, soltanto, il pericolo avrebbe assunto proporzioni minacciose. Quella gentaglia affamata, trovando dinanzi a sé le strade rese libere dalla neve disciolta, si poteva riversare da tutte le parti e mettere l'isola a sacco… Due giorni dopo il disgelo, si apprese infatti che una banda di forsennati aveva attaccato la concessione della Franco-English Gold Mining Company, diretta dal francese Maurizio Reynaud e dall'inglese Alessandro Smith. Ma i due giovani si erano difesi da soli. Riunendo i loro operai, in numero già di parecchie centinaia, avevano respinto gli assalitori, non senza infliggere loro perdite gravi. Qualche giorno dopo giunse la notizia di una serie di delitti commessi nella regione del Nord. Alcune fattorie erano state saccheggiate é i proprietari scacciati dalle loro abitazioni, o anche, talvolta, puramente e semplicemente uccisi. Se si lasciava fare, quei banditi, in meno di un mese, avrebbero finito per devastare l'isola intiera. Era tempo d'agire. La situazione appariva infinitamente migliore dell'anno precedente. La primavera, che aveva determinato violente agitazioni tra la folla sparsa degli avventurieri, non aveva avuto nessuna influenza sul contegno degli Hostelliani. Questa volta la lezione era stata sufficente. Ad eccezione del centinaio di traviati, incaponitisi a restare sui giacimenti e che senza dubbio dovevano essere ormai tutti periti, la popolazione di Liberia

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non era diminuita di un'unità. Nessuno aveva menomamente pensato a riprendere una terza campagna. Tolti pochi coloni favoriti dal caso, la maggior parte erano ritornati rovinati, con la salute e l'avvenire compromessi per sempre. Inoltre, le piccole ricchezze guadagnate con l'oro in massima parte erano state dissipate, come fatalmente accade, nelle taverne e nelle bische di bassa sfera, ove le detonazioni delle revolverate si confondono alle urla dei giocatori. Tutti si rendevano conto della passata follìa, e nessuno aveva voglia di ricominciare l'esperienza. Il Kaw-djer, dunque, disponeva al completo della milizia. Mille uomini incorporati, disciplinati, obbedienti ai loro capi, rappresentavano una forza rispettabile e, benché gli avversari fossero venti volte più numerosi, egli non dubitava di metterli a dovere. Qualche giorno ancora, per lasciare alle strade imbevute dì acqua il tempo d'asciugare meglio, e poi si sarebbe potuto battere tutta l'isola e spazzarla degli avventurieri che l'infestavano… Ma costoro lo prevennero e provocarono la tragedia, rapida e terribile, che decise la sorte dell'isola. Il 3 novembre, quando le strade erano ancora pantanose, alcuni contadini hostelliani, accorsi a galoppo sui loro cavalli, avvertirono il Kaw-djer che una colonna forte d'un migliaio di avventurieri marciava contro la città. Si ignoravano le intenzioni di quegli uomini, ma esse non dovevano essere pacifiche, a giudicarne dall'atteggiamento e dalle urla minacciose. Il Kaw-djer prese le misure del caso. Dietro suo ordine la milizia fu raccolta dinanzi al Palazzo del Governo e sbarrò le strade che sboccavano sulla piazza. Poi si attesero gli eventi. La colonna annunziata raggiunse Liberia verso le nove, preceduta da canti e da gridi. I cercatori di oro che credevano di sorprendere, ebbero invece la sorpresa di urtarsi contro la milizia hostelliana, schierata in battaglia e il loro slancio ne fu fiaccato.

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Si fermarono interdetti. Avendo perduto il beneficio della sorpresa, conveniva loro parlamentare. Dopo un'animata discussione in famiglia, coloro che stavano alla testa della colonna fecero conoscere ad Hartlepool che desideravano parlare al Governatore. La domanda trasmessa di bocca in bocca fu favorevolmente accolta. Il Kaw-djer acconsentì a ricevere dieci delegati. Si dovettero scegliere i dieci delegati, cosa che motivò una recrudescenza di discussioni e di clamori. Finalmente essi si presentarono dinanzi al fronte della milizia, che aperse le file per lasciarli passare. 11 movimento, a un cenno di Hartlepool, fu eseguito con grande perfezione e i delegati ne rimasero impressionati. E lo furono anche più, quando la milizia, a un nuovo cenno del Capo, manovrando con pari sicurezza, rinchiuse le file alle loro spalle. Il Kaw-djer stava ritto in mezzo alla piazza, nello spazio rimasto libero dietro le truppe. Mentre i delegati avanzavano, si poté comodamente osservarli. Visti da vicino, non apparivano gran che rassicuranti. Di statura alta, con le spalle larghe, sembravano robusti, benché le privazioni invernali li avessero dimagrati. Vestivano quasi tutti di cuoio, di cui uno spesso strato di untume uniformava la tinta primitiva: avevano capelli irti e barbe incolte, che facevano rassomigliare i visi a musi di belve. In fondo alle orbite incavate, rilucevano occhi da lupo e stringevano i pugni nel camminare. Il Kaw-djer restò immobile, senza avanzare di un sol passo incontro ad essi e, quando gli furono vicini, attese tranquillamente che facessero conoscere lo scopo del loro passo. Ma i delegati non avevano fretta di parlare. S'erano scoperti istintivamente il capo nell'avvicinarsi al Kaw-djer e, schierati in semicerchio intorno a lui, si dondolavano goffamente da una gamba all'altra. La loro apparenza feroce era ingannatrice. Sembravano invece ragazzi e assai imbarazzati della loro persona nel trovarsi così isolati dai compagni nella solitudine del vasto piazzale, davanti a quell'uomo che li dominava con la

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testa, dall'atteggiamento grave e freddo e la cui maestà si imponeva loro. Finalmente, attenuatosi un po' il turbamento, ritrovarono lo scilinguagnolo e uno fra essi prese la parola. — Governatore — disse — veniamo a nome dei nostri camerati… L'oratore, intimidito, s'interruppe. Il Kaw-djer non fece moto per aiutarlo a riannodare il filo del discorso e l'altro riprese: — I camerati ci hanno mandato… Nuova pausa dell'oratore e uguale mutismo del Kaw-djer. — Insomma, siamo i loro delegati! — spiegò un altro avventuriero, impazientito da tutte quelle esitazioni. — Lo so — disse il Kaw-djer freddamente. — E poi? I delegati rimasero attoniti! Essi che pensavano di far tremare!… Ecco in che modo erano temuti!… Ci fu ancora un silenzio. Poi un terzo delegato, rimarchevole per l'ampiezza della barba incolta, riunì tutto il suo coraggio ed entrò nel vivo della questione. — Dopo?… Dopo c'è che abbiamo motivo di lagnarci. — Di che? — Di tutto. Non possiamo più tirare innanzi, a motivo del mal volere che ci viene dimostrato qui. Per quanto la situazione fosse seria, il Kaw-djer non poté a meno di sorridere per la piacevole ironia di tale recriminazione, sulle labbra di un invasore dell'isola Hoste. — È tutto qui? — egli chiese. — No — rispose il terzo delegato, che decisamente possedeva la lingua sciolta più degli altri. — Si vorrebbe anche noialtri che gli appezzamenti non fossero proprio di chi vuole prenderseli. Bisogna combattere per averli. I gentlemen — l'avventuriero, un americano dell'Ovest, adoperò quella parola con la maggior serietà del mondo — proferirebbero concessioni in regola, come si pratica dovunque… Sarebbe più… ufficiale — aggiunse dopo un istante di riflessione, con convincimento comico. — È tutto qui? — ripeté il Kaw-djer.

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— Un momento!… — rispose il delegato barbuto. — Ma, prima di passare ad altro, i gentlemen vorrebbero una risposta a proposito delle concessioni. — No — disse il Kaw-djer. — No?… — La risposta è: no — precisò il Kaw-djer. I delegati rialzarono la testa all'unisono. Entro i loro occhi cominciarono a passare bagliori sinistri. — Perchè? — chiese uno di coloro che non avevano ancora parlato. — Ci vuole una ragione da ripetere ai gentlemen. Il Kaw-djer serbò il silenzio. Davvero, osavano chiedergli una ragione! Non la conoscevano forse? La legge, che nessuno aveva rispettata, non fissava forse un prezzo per il conferimento d'una concessione? Ben più, questa legge, conosciuta da tutti, non riservava le concessioni agli Hostelliani soltanto, interdicendo il territorio hostelliano a quella gente che l'aveva audacemente sfidata? — Perchè? — ripeté il delegato, constatando che la domanda non otteneva risposta. Poi, la seconda interrogazione non ottenendo miglior successo della prima, formulò da sé la risposta. — La legge?… — disse. — Oh! la si conosce la legge… Non abbiamo che da naturalizzarci… La terra è di tutti e noi siamo uomini come gli altri, mi pare! Un tempo, il Kaw-djer non si sarebbe espresso diversamente. Ma le sue idee si erano ben mutate adesso, ed egli non comprendeva più tale linguaggio. No, la terra non è di tutti. Appartiene a coloro che la dissodano, che la coltivano, a coloro che, con ostinato lavoro, la trasformano in madre nutritiva e costringono il suolo a tessere il tappeto dorato della messe. — E poi — riprese ancora il delegato barbuto — quando si parla di legge bisognerebbe cominciarla a vedere rispettata questa legge. Quando coloro che la promulgano se ne infischiano, domando io, cosa dovranno fare gli altri? Siamo al 3 novembre. Perchè non si sono fatte le elezioni al primo del mese, visto che il Governo è scaduto?

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L'osservazione inattesa sorprese il Kaw-djer. Chi aveva potuto informare così minutamente il minatore? Certo Kennedy, che non si era fatto più vedere a Liberia. Del resto, l'osservazione era giusta. Il periodo che egli aveva fissato, sottomettendosi spontaneamente al suffragio degli elettori, era già spirato, infatti e, ai termini della legge promulgata un giorno da lui stesso, si sarebbe dovuto procedere sin da due giorni prima a una nuova elezione. Ma se ne era dispensato, trovando inopportuno complicare ancora più una situazione già così turbata per rispetto a una semplice formalità e la sua rielezione essendo assolutamente sicura. D'altra parte, cosa interessava tutto questo a uomini non eleggibili, né elettori? Intanto il minatore, rincorato dalla calma del Kaw-djer, continuava sempre più rassicurato: — I gentlemen reclamano l'elezione e vogliono che i loro voti contino. I loro voti valgono quelli degli altri, non è vero? Perchè cinquemila dovrebbero dettar la legge a ventimila? Non è giusto… L'avventuriero si fermò un momento e attese, inutilmente, che il Kaw-djer rispondesse. Imbarazzato infine dal silenzio persistente e desideroso di far comprendere che la sua missione era finita, concluse: — Ed ecco detto! —È tutto? — chiese per la terza volta il Kaw-djer. — Sì… — rispose il delegato. — È tutto senz'essere tutto… Insomma, è tutto per ora. Il Kaw-djer guardando bene in faccia i dieci uomini attenti, dichiarò allora con grande freddezza: — Ecco la mia risposta: «Voi siete qui contro il nostro volere. Vi do tempo ventiquattr'ore per sottomettervi tutti senza condizione. Passato questo termine, provvederò». Fece un segno e Hartlepool accorse con una ventina di uomini. — Hartlepool — disse — riconducete questi signori oltre le file.

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I delegati erano stupefatti. Per quanto sicuri della loro forza, quella calma glaciale li sconcertava. Si allontanarono docilmente, circondati dagli Hostelliani.

Ma, quando furono riuniti a coloro che avevano designato col nome generico di gentlemen, cambiarono tono. Mentre rendevano conto del loro passo, la loro collera, fino allora repressa, scoppiò furiosamente e per esprimere la loro

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indignazione seppero trovare una quantità sufficente di parole sconce e di bestemmie sonore. Quella specialissima eloquenza trovò eco nella folla e bentosto un concerto di vociferazioni apprese al Kaw-djer che si conosceva la sua risposta. Ci volle molto tempo perchè l'agitazione si calmasse. La notte la diminuì senza spegnerla interamente e fino al mattino l'ombra fu piena di gridi furiosi. Se i minatori non erano visibili, si facevano sentire. Evidentemente, ostinandosi nelle loro idee, si erano accampati a ciel sereno. La milizia fece altrettanto. Ma, dandosi il cambio, vegliò tutta notte, con l'arme al piede. La colonna, infatti, non si era ritirata. All'alba le strade apparvero nere di gente. Molti minatori, stanchi di quella notte d'attesa, si erano sdraiati per terra. Ma ai primi raggi del sole furono tutti in piedi e il baccano del giorno prima ricominciò anche più intenso. Nelle strade le case apparivano ermeticamente chiuse. Nessuno osava uscir fuori. Se da un primo piano un Hostelliano più curioso si permetteva di socchiudere le imposte per dare un'occhiatina, un uragano di urli lo costringeva subito a rinchiuderle in fretta. In principio la mattinata fu relativamente calma. Gli avventurieri indecisi forse ancora su quanto convenisse fare, discutevano animatamente. Il loro numero aumentava man mano che le ore passavano. Da quanto si poteva giudicare, ascendevano ora forse a quattro o cinquemila. Emissari inviati durante la notte, avevano battuto la campagna e radunato e condotto rinforzi. I minatori della regione del Golden Creek avevano avuto il tempo di giungere, ma non coloro che lavoravano nelle montagne del centro, alla punta del Nord-Ovest. I loro compagni che avevano già invasa la città, avrebbero fatto bene ad aspettarli. Quando essi fossero divenuti dieci o quindici mila la situazione di Liberia, già così grave, sarebbe divenuta disperata.

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Ma tali teste calde, incapaci di resistere alla violenza delle loro passioni, non avevano la pazienza dell'attesa. L'agitazione aumentava in ragione del tempo che passava. Sotto la sferza della fatica e delle ripetute eccitazioni degli oratori, la folla si snervava a vista d'occhio. Verso le undici, uno slancio generale la gettò d'improvviso sopra la milizia hostelliana. Questa innestò immediatamente le baionette. Gli assalitori indietreggiarono precipitosamente, sforzandosi di vincere la spinta di quelli che stavano in coda. Il Kaw-djer, per evitare disgrazie involontarie, fece retrocedere la truppa, che si ripiegò in bell'ordine, andando a piazzarsi davanti al Governo. Così si resero libere le vie che facevano capo al piazzale. I minatori, interpretando male il senso di questo movimento, gettarono un assordante clamore di vittoria. Lo spazio reso libero dal ritirarsi degli Hostelliani fu invaso in un attimo da una folla brulicante, la quale non tardò a riconoscere il proprio errore. No; essa non era vittoriosa. La milizia intatta le sbarrava sempre il passaggio. I mille uomini che la componevano, modellando il proprio atteggiamento su quello del capo, serbavano, è vero, impassibili, l'arma al piede, ma non disponevano meno della folgore. I mille fucili, carabine americane che molti minatori conoscevano assai bene, alle quali un serbatoio assicura la riserva di sette cartucce, potevano sparare in meno di un minuto i loro settemila colpi, che in questo caso sarebbero stati sparati a bruciapelo. C'era di che far riflettere anche i più coraggiosi. Ma gli avventurieri non erano più in uno stato d'animo, in cui fosse possibile riflettere e si eccitavano e si ubbriacavano a vicenda. Il loro grande numero li esaltava e presto cessarono di temere quella truppa la cui immobilità fu scambiata per debolezza. Venne il momento in cui perdettero completamente la ragione. Lo spettacolo era tragico. Alla periferia del piazzale una folla urlante e scatenata gridava con migliaia di bocche parole che nessuno percepiva e tendeva migliaia di pugni con gesto minaccioso. A trenta metri da essa e proprio di fronte ad essa,

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la milizia hostelliana, i cui uomini conservavano un'immobilità statuaria, si allineava in bell'ordine lungo la facciata del Governo. Dietro la milizia, sull'ultimo gradino della scalinata che dava accesso al Palazzo, il Kaw-djer, solo, contemplava il quadro movimentato con aria preoccupata, cercando il mezzo di risolvere pacificamente una situazione della quale comprendeva tutta la gravità. Era l'una del pomeriggio quando le ingiurie dirette cominciarono a piovere dalla folla febbricitante. Gli Hostelliani, trattenuti dal loro capo, non risposero. Nella prima fila di quei miserabili si poteva scorgere un viso noto. I rivoltosi avevano spinto in avanti Kennedy, i cui consigli insidiosi dovevano averli influenzati ad avventurarsi in quell'impresa. Egli aveva reso loro nota la legge relativa alle elezioni e suggerito di reclamare la qualità di cittadini e di elettori, affermando che il Kaw-djer, abbandonato da tutti, non avrebbe avuto la forza di resistere. La realtà appariva diversa. Si urtava ora contro mille fucili e sembrava giusto che colui dal quale erano stati condotti fin là, fosse esposto ai colpi. L'antico marinaio che aveva voluto vendicarsi, era il cattivo mercante di quell'affare. Non serbava più la sua iattanza da nababbo, ma pallido, tremante, non faceva più lo spaccone, come si dice familiarmente. Perdendo la folla sempre più il senno, presto le ingiurie non bastarono più a soddisfare l'ira crescente e bisognò passare agli atti. Le prime pietre cominciarono a grandinare sulla milizia impassibile. Le cose prendevano, decisamente, una piega cattiva. La pioggia micidiale continuò per un'ora. Rimasero feriti parecchi uomini, due dei quali dovettero ritirarsi. Un sasso colpì alla fronte lo stesso Kaw-djer. Egli vacillò, ma rizzandosi con sforzo energico, si asciugò tranquillamente il sangue che gli arrossava il viso e riprese il suo atteggiamento osservatore.

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Dopo un'ora di quell'esercizio senza risultato, gli assalitori parvero stanchi. I proiettili si diradarono, e si sentiva che sarebbero presto cessati, quando dalla folla scoppiò improvvisamente un clamore enorme. Che era accaduto? Il Kaw-djer, alzandosi sulla punta dei piedi, si sforzò inutilmente di guardare nelle vie adiacenti. Non vi poté riuscire. Lontano, l'agitazione della folla sembrava più violenta, ecco tutto, senza che fosse possibile discernerne la causa. Ma non si doveva tardare a conoscerla. Pochi minuti dopo, tre minatori, tre ercoli, si aprivano un passaggio e vennero a porsi davanti ai compagni, come per dimostrare che se ne ridevano delle palle. E non le temevano infatti, perchè portavano davanti, a guisa di scudo, tre ostaggi che li proteggevano contro esse. I miserabili avevano avuto un'idea diabolica. Forzata la porta d'una casa, si erano impadroniti delle due giovani donne che vi abitavano, due sorelle con un bimbo, il marito di una di esse essendo morto l'inverno precedente. Due minatori avevano afferrato le donne, un altro il bimbo e, ognuno col suo fardello, sfidavano ora il Kaw-djer e la sua milizia. Chi avrebbe osato sparare, quando i primi colpi sarebbero stati per le creature innocenti? Le due donne, terrorizzate, si erano abbandonate senza resistenza. Il bimbo, che una specie di bruto gigantesco sollevava in alto, come per offrirlo in olocausto, rideva. Ciò superava in orrore tutto quanto il Kaw-djer fosse capace di immaginare. L'atrocità del fatto fece tremare quell'uomo così forte, che ebbe paura. Impallidì. Eppure era giunto il momento delle decisioni supreme. Bisognava, d'urgenza, risolversi. I minatori, gettando grida confuse e furiose, avevano mosso un passo. La loro rabbia era tale, che non seppero attendere di essere vicini per ingaggiare una lotta corpo a corpo, nella quale la superiorità numerica avrebbe assicurato loro la vittoria. Erano a venti metri dalla milizia, irrigidita nel suo atteggiamento

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marmoreo, quando scoppiarono alcune detonazioni. I revolvers scattarono. Un Hostelliano cadde. Non era più possibile esitare. In meno di un minuto si sarebbe stati sopraffatti e tutta la popolazione di Liberia, uomini, donne, fanciulli, senz'altro massacrata. — Puntate! — comandò il Kaw-djer che divenne ancora più pallido. La milizia obbedì con mirabile precisione. I calci dei fucili si alzarono, tutti insieme, fino alla spalla, e le canne si diressero verso la folla minacciosa. Ma questa s'era oramai troppo eccitata, perchè la paura potesse fermarla. Risuonarono altri colpi di revolver, che ferirono altri tre militi. La folla ebbra, scatenata, stava a soli dieci passi. — Fuoco! — comandò il Kaw-djer con voce rauca. Con la loro eroica calma, in mezzo alla bufera, i suoi uomini lo ripagavano in una volta sola di tutto quello che egli aveva fatto per essi. Si erano sdebitati. Ma se nella riconoscenza e nell'affetto che nutrivano per lui, avevano attinto la forza di condursi come soldati, essi non erano soldati tuttavia. Spinto appena il grilletto, la frenesia li colse a loro volta. Non tirarono un sol colpo, li spararano tutti. Fu un rombare di tuono. In tre secondi le carabine vomitarono le settemila palle. Poi si fece un silenzio enorme… I militi guardarono inebetiti. Lontano scomparivano i fuggiaschi. Davanti ad essi non c'era più nessuno. Il piazzale era deserto!… Deserto?… Sì, salvo quel mucchio, quella montagna di cadaveri, dai quali gemeva un torrente di sangue! Quanti erano?… Mille?… Millecinquecento?… Di più?… Non si sapeva. Di sotto alla massa spaventosa, a lato di Kennedy morto, erano cadute le due giovani donne. Una con un proiettile nella spalla, morta o svenuta. L'altra si rialzò senza ferite e si pose in salvo, pazza di spavento. Il bambino giaceva anche là, in mezzo ai morti, in mezzo al sangue. Ma — miracolo! — non aveva nulla

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e, assai divertito da quel gioco nuovo, continuava a ridere di gusto… Il Kaw-djer, in preda ad un dolore spaventoso, aveva nascosto il viso fra le mani per sottrarsi all'orrido spettacolo. Rimase prostrato un momento, poi, lentamente, rialzò il capo. Con uno stesso movimento, tutti gli Hostelliani volsero a lui il viso e lo guardarono in silenzio. Egli non ebbe uno sguardo per essi. Contemplava, immobile, il macello sinistro e sul suo volto scomposto, invecchiato di dieci anni, grosse lagrime scendevano goccia a goccia. Il Kaw-djer piangeva disperatamente.

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V.

L'ABDICAZIONE.

Il Kaw-djer piangeva… Come erano strazianti le lagrime di un tale uomo! Con quale eloquenza esse dicevano il suo dolore! Egli aveva comandato il fuoco!… Proprio lui! Per ordine suo i proiettili avevano tracciato i loro solchi sanguinosi! Sì, gli uomini l'avevano costretto a far ciò e, per colpa loro, era oramai simile ai peggiori tiranni che egli aveva odiati di odio così feroce, giacché anch'egli era scivolato nel delitto, nel sangue! Ben più, bisognava versarne ancora. L'opera non era che abbozzata. Restava da compierla. Malgrado tutte le apparenze contrarie, quello diveniva il dovere inesorabile. Il Kaw-djer guardò quel dovere coraggiosamente in faccia. L'abbattimento fu breve; presto riacquistò tutta la sua energia. Lasciando, ai vecchi e alle donne la cura di seppellire i morti e di sollevare i feriti, si slanciò senza ritardo ad inseguire i fuggiaschi. Costoro, colpiti da terrore, non pensavano più ad opporre resistenza e li si ricacciò indietro, sempre più indietro, come bestiame. In parecchie riprese, le forze hostelliane si urtarono contro alcune bande, le quali accorrevano in ritardo alla riscossa. Anche queste furono disperse senza difficoltà l'una dopo l'altra e rigettate successivamente verso il Nord. L'isola fu frugata in tutti i sensi. In certa località, fu trovato il terreno seminato dei resti dei minatori, che là fame aveva spinto fuori dalle loro tane, e che erano morti fra le nevi durante l'inverno precedente. Il freddo aveva conservato a lungo le misere spoglie. Ora, col disgelo, si disfacevano, e quel

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fango umano si mesceva al fango della terra. In tre settimane, gli avventurieri, in numero di quasi diciottomila, furono ricacciati nella penisola Dumas, di cui il Kaw-djer occupò l'istmo. Alla milizia si aggiunsero trecento uomini forniti dalla Franco-English Gold Mining Company, che arrecarono un aiuto efficace ai difensori del buon ordine. Pure, malgrado il rinforzo, la situazione perdurava preoccupante. Se i cercatori di oro erano rimasti depressi alla prima notizia della carneficina dei compagni e se in seguito erano stati facilmente vinti alla spicciolata, poteva accadere ben diversamente ora che, dopo la lezione ricevuta, si trovavano tutti riuniti e potevano facilmente mettersi d'accordo. La superiorità numerica era così grande, che era possibile un loro ritorno offensivo. L'intervento della Società franco-inglese riparò al pericolo. I due direttori, Maurizio Reynaud e Alessandro Smith, desiderosi di assicurarsi la mano d'opera loro necessaria, proposero al Kaw-djer di procedere a una selezione e di scegliere, dopo severa inchiesta, un migliaio d'uomini, ai quali concedere di restare sull'isola Hoste. La Gold Mining Company li avrebbe impiegati sotto la sua responsabilità e sotto condizione di espulsione immediata alla prima bravata. Il Kaw-djer accolse favorevolmente le proposte, che gli fornivano il mezzo di indebolire le forze dell'avversario e Maurizio Reynaud e Alessandro Smith, senza esitare, dando prova di un coraggio indubbiamente maggiore di quello del domatore che entra nella gabbia delle sue belve, si addentrarono nella penisola Dumas, ove pullulava la folla dei minatori ribelli. Otto giorni più tardi tornarono alla testa di mille uomini, minuziosamente scelti. Ciò cambiò faccia agli avvenimenti. I mille uomini che perdevano gl'insorti, li guadagnavano gli Hostelliani, i quali serbavano inoltre il vantaggio della disciplina e la superiorità degli armamenti. Il Kaw-djer varcò a sua volta l'istmo, di cui affidò la custodia ad Hartlepool. Nella penisola trovò resistenza

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minore di quanto avesse temuto. I minatori non avevano ancora avuto il tempo di riprendere completamente il possesso si se stessi. Si riuscì a separarli, ed ogni frazione venne successivamente costretta ad imbarcarsi su navi spedite dal Borgo-Nuovo, e che incrociavano a quello scopo in vista della costa. L'operazione fu compiuta in pochi giorni. Eccezion fatta per coloro dei quali rispondevano Maurizio Reynaud e Alessandro Smith, i quali del resto costituivano un numero troppo esiguo per essere temibili, il suolo dell'isola venne purgato fin dell'ultimo degli avventurieri, che l'avevano infestata. Ma in quale stato doloroso non la lasciavano essi! La terra non era stata coltivata e la prossima raccolta era perduta al pari della precedente! Molti animali, abbandonati a se stessi, erano morti nei pascoli. Insomma bisognava tornare indietro di parecchi anni, e, come nei primi tempi della loro indipendenza, la carestia minacciava i coloni dell'isola Hoste. Il Kaw-djer scorgeva nettamente il pericolo, ma esso non era superiore al suo coraggio. L'importante era di non perder tempo. Egli lo comprese ed agì a questo scopo da dittatore, per quanto quella parte gli sembrasse penosa. Come in passato, dovette riunire dapprima tutte le riserve dell'isola, per suddividere secondo i bisogni di ogni famiglia. La cosa non avvenne senza mormorii. Ma la misura si imponeva e si passò sopra alle proteste dei ricalcitranti. D'altronde non avrebbe avuto che breve durata. Mentre si radunavano le riserve, grandi acquisti venivano effettuati nell'America del Sud, tanto per conto dello Stato che dei privati. Un mese dopo, i primi carichi giungevano al Borgo-Nuovo e la situazione cominciò a migliorare rapidamente. Grazie a quel dispotismo benefico, Liberia e il sobborgo non tardarono a riacquistare l'animazione del passato. Anche il porto durante l'estate ricoverò un numero di navi più grande che mai. Per un caso fortunato la pesca della balena si annunziò, in quell'anno, particolarmente abbondante. Affluirono perciò al Borgo-Nuovo molti bastimenti americani e

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norvegesi e la preparazione dell'olio impiegò un centinaio di Hostelliani, con salari assai rimunerativi. Nello stesso tempo, venne dato nuovo impulso alle segherie e all'industria dei pesci in conserva e il numero dei cacciatori di lupi marini raddoppiò. Parecchie centinaia di Pescherecci, non potendo assoggettare le loro abitudini nomadi alle severità dell'amministrazione argentina, lasciarono la Terra del Fuoco, traversarono il canale del Beagle e trasportarono i loro accampamenti sul litorale dell'isola Hoste, ove si fissarono definitivamente. Verso il 15 dicembre, le piaghe della colonia, se non erano guarite, erano almeno medicate. Certo essa aveva subito danni considerevoli che non sarebbero stati riparati prima di parecchi anni, ma almeno non ne esistevano più le tracce esterne. Il popolo era ritornato alle sue occupazioni abituali e la vita normale aveva ripreso il suo corso. Lo Stato hostelliano acquistò in quell'epoca uno steamer di seicento tonnellate, che fu battezzato Yacana. Esso doveva stabilire un servizio regolare fra le borgate costiere e le varie industrie e agenzie dell'arcipelago, e avrebbe servito inoltre ad assicurare le comunicazioni col Capo Horn, il cui faro era finalmente compiuto. Il Kaw-djer, negli ultimi giorni dell'anno 1893, ne aveva ricevuto la notizia. Tutto era compiuto: l'alloggio dei guardiani, il magazzino di riserva, il pilone di metallo alto circa venti metri, il fabbricato e il montaggio delle dinamo, alle quali un ingegnoso dispositivo, immaginato da Dick, trasmetteva l'energia delle onde e delle maree. Il funzionamento delle macchine veniva così assicurato senza combustibile di sorta. Per renderlo continuo, sarebbe bastato procedere alle riparazioni necessarie e provedersi di pezzi di ricambio. L'inaugurazione, che il Kaw-djer decise di circondare d'una certa solennità, fu fissata al 15 gennaio 1894. In quel giorno l'Yacana doveva portare all'isola Horn due o trecento Hostelliani, dinanzi ai quali il faro avrebbe lasciato sfavillare il suo primo raggio. Il Kaw-djer, dopo le tristezze sofferte, si

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faceva una festa di quella inaugurazione, che realizzava uno dei suoi sogni, così lungamente accarezzato. Tale il programma e nessuno pensava che qualche cosa potesse intralciarne l'esecuzione, quando, improvvisamente, brutalmente, gli avvenimenti lo modificarono in modo strano. Il 10 gennaio, cinque giorni innanzi la data fissata, un vascello da guerra entrò nel porto del Borgo-Nuovo. All'albero d'artimone sventolava la bandiera chilena. Il Kaw-djer, che dalla finestra del Governo aveva visto, con l'aiuto di un canocchiale da campo, la nave entrare in porto, la seguì nelle varie manovre di approdo e credette distinguere a bordo come un trambusto, del quale non giungeva a conoscere la natura. Stava assorto da un'ora a guardare, quando lo si prevenne che un uomo, giunto trafelato dal Borgo-Nuovo, chiedeva di parlargli immediatamente da parte di Kafroly. — Che c'è? — chiese il Kaw-djer quando l'uomo fu introdotto. — Un bastimento chileno è appena entrato nel Borgo-Nuovo — disse l'uomo, ansante per la corsa rapida. — L'ho visto. E poi? — È una nave da guerra. — Lo so. — Si è afforcata sopra due àncore in mezzo al porto e ha sbarcato un certo numero di soldati sopra i suoi canotti. — Soldati!… — esclamò il Kaw-djer. — Sì, soldati chileni… armati… Cento… duecento… Karroly non si è divertito a contarli… Ha preferito mandarmi qui a dirvelo. Il fatto ne valeva la pena e giustificava ampiamente l'emozione di Karroly. Da quando in qua soldati armati penetravano, in tempo di pace, sopra un territorio straniero? Il fatto che quei soldati fossero chileni, rassicurava in certo modo il Kaw-djer. Secondo ogni probabilità non c'era nulla da temere dal paese al quale l'isola Hoste doveva l'indipendenza, ma lo sbarco dei soldati non diveniva per questo meno anormale e la prudenza

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esigeva che si prendessero a ogni modo le precauzioni necessarie. — Vengono!… — esclamò improvvisamente l'uomo, additando, dalla finestra aperta, in direzione del Borgo-Nuovo. Sulla strada avanzava un gruppo numeroso, che il Kaw-djer valutò con un'occhiata. L'Hostelliano aveva un poco esagerato. Si trattava bene di una truppa di soldati, perchè i fucili scintillavano al sole, ma erano in centocinquanta al massimo. Il Kaw-djer, stupefatto, impartì una serie di ordini chiari e precisi. Gli emissari partirono da ogni parte. Fatto ciò attese tranquillamente. In un quarto d'ora la truppa chilena, seguita dagli occhi degli Hostelliani stupiti, giungeva sulla piazza e prendeva posizione dinanzi al Palazzo governativo. Un ufficiale, in alta tenuta, che doveva essere di grado elevato, a giudicare dalle dorature che l'ornavano, se ne staccò, urtò con l'elsa della sciabola la porta che si aperse subito e chiese di parlare al Governatore. Egli fu condotto in una stanza ove si trovava il Kaw-djer e la porta gli si richiuse dietro silenziosamente. Un minuto dopo, un rumore sordo indicò che anche le porte esterne venivano, a lor volta, richiuse. Senza che ne dubitasse, l'ufficiale chileno era virtualmente prigioniero. Ma egli sembrava non provasse alcuna preoccupazione della sua situazione personale. Si fermò a qualche passo dalla soglia, con la mano al bicorno piumato, con gli occhi fissi sul Kaw-djer che, ritto fra due finestre, serbava una immobilità perfetta. Il Governatore prese la parola per il primo: — Vorreste spiegarmi, signore — chiese con voce breve — cosa significa lo sbarco di forza armata sull'isola Hoste? Non siamo in guerra col Chili, che io mi sappia!… L'ufficiale chileno tese al Kaw-djer una larga busta. — Signor Governatore — rispose — permettete che vi presenti anzitutto la lettera con cui il mio Governo mi accredita presso di voi.

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Il Kaw-djer ruppe i suggelli e lesse con attenzione, senza che nulla gli tradisse le sensazioni che quel foglio poteva procurargli. — Signore — disse con calma quand'ebbe finito — il Governo chileno, come voi già saprete, vi mette a mia disposizione, con questa lettera, per ristabilire l'ordine nell'isola Hoste. L'ufficiale s'inchinò silenziosamente assentendo. — Il Governo chileno, signore, fu male informato — continuò il Kaw-djer. — Al pari di tutti i paesi del mondo, l'isola Hoste ebbe giorni dolorosi. Ma i suoi stessi abitanti seppero ristabilire l'ordine, che ora è perfetto. L'ufficiale che sembrava imbarazzato, non rispose. — In tali condizioni — rispose il Kaw-djer — pure essendo riconoscente alla Repubblica del Chili delle sue intenzioni benevole, credo dovere declinare le sue offerte e vi prego volere considerare la vostra missione come compiuta. L'ufficiale sembrava sempre più imbarazzato. — Le vostre parole, signor Governatore, saranno fedelmente trasmesse al mio Governo — disse — ma voi comprenderete come io non possa sottrarmi, finché non avrò la sua risposta, all'adempimento delle istruzioni che mi furono date. — Istruzioni che consistono?…. — Nell'installare sull'isola Hoste una guarnigione che, sotto la vostra autorità e sotto il mio diretto comando, dovrà cooperare a ristabilire e a mantenere l'ordine. — Benissimo! — disse il Kaw-djer. — Ma se io, per caso, mi opponessi all'insediamento della vostra guarnigione?… Hanno previsto questo caso le vostre istruzioni? — Sì. — E quali sono, eventualmente? — Di passare oltre. — Con la forza? — Occorrendo anche con la forza, ma voglio sperare che non mi ridurrete a tale estremo. — Ecco poche parole nette, — approvò il Kaw-djer, senza la più piccola emozione. — A dire il vero, m'aspettavo alcun che

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del genere… Non importa, la questione è posta chiaramente. Ammetterete, tuttavia, che, in materia così grave, io non voglia agire alla leggera e tollererete, per conseguenza, che mi prenda il tempo di riflettere. — Allora aspetterò, signor Governatore, che mi rendiate note le vostre intenzioni. Da capo, egli salutò militarmente, girò sui tacchi e si avviò alla porta. Ma essa era chiusa e resistette ai suoi sforzi. Egli si volse verso il Kaw-djer, — Sono forse caduto in un agguato? — domandò nervosamente. — Mi permetterete di trovare amena la vostra domanda — rispose con ironia il Kaw-djer. — Chi è, tra noi due, che si è reso colpevole di agguato? Non è forse colui, che, in piena pace, ha invaso, con le armi alla mano, un paese amico? L'ufficiale arrossì lievemente. — Voi conoscete, signor Governatore — disse con evidente imbarazzo — il motivo di ciò che vi piace chiamare invasione. Né il mio Governo, né io stesso, possiamo essere responsabili del vostro modo d'interpretare un avvenimento semplicissimo. — Ne siete sicuro? — replicò il Kaw-djer con la sua voce tranquilla. — Osereste dare la vostra parola d'onore che la Repubblica del Chili non persegue nessun altro scopo che quello ufficiale e confessato? Una guarnigione opprime tanto quanto protegge. Quella che voi avete la missione di piazzare qui, non potrebbe aiutare potentemente il Chili, se, per caso, giungesse a deplorare il trattato del 26 ottobre 1881, al quale dobbiamo la nostra indipendenza? L'ufficiale arrossì di nuovo e questa volta più visibilmente di prima. — Non sta a me discutere gli ordini dei miei capi — disse. — Il mio solo dovere è di eseguirli ciecamente. — Infatti — riconobbe il Kaw-djer — ma, anch'io, ho doveri da adempiere, che si confondono con l'interesse del popolo posto sotto la mia custodia. È dunque semplicissimo che io voglia pesare quello che l'interesse del mio popolo mi ordina di fare.

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— Mi ci sono forse opposto? — replicò l'ufficiale. — Siate sicuro, signor Governatore, che attenderò il vostro beneplacito tutto il tempo necessario. — Non basta — disse il Kaw-djer. — Bisogna aspettare qui. — Qui!… Mi considerate, dunque, vostro prigioniero? — Precisamente — dichiarò il Kaw-djer. L'ufficiale chileno alzò le spalle. — Dimenticate — esclamò facendo un passo verso la finestra — che mi basterebbe un grido, un richiamo… — Provate!… — interruppe il Kaw-djer, che gli sbarrò il passo. — Chi me lo potrebbe impedire? — Io. I due uomini, con gli occhi negli occhi, si guardarono come due lottatori che stanno per venire alle mani. Dopo un lungo momento di attesa, l'ufficiale chileno indietreggiò. Comprese che, malgrado la relativa giovinezza, non avrebbe avuto ragione di quel vegliardo dalle spalle atletiche, il cui atteggiamento maestoso l'impressionava suo malgrado. — Così va bene — approvò il Kaw-djer. — Riprendiamo ognuno il nostro posto, e aspettate con pazienza la mia risposta. Erano tutti e due in piedi. L'ufficiale a breve distanza dalla porta d'entrata, sforzandosi di assumere, nonostante l'inquietudine, un contegno disinvolto. Davanti a lui, il Kaw-djer, fra le due finestre, rifletteva così profondamente, da dimenticare la presenza del suo avversario. Con calma e metodo, studiava il problema che gli veniva posto. Prima di tutto il movente del Chili. Non era difficile indovinarlo. Il Chili invocava invano la necessità di porre fine ai torbidi. Non era che un pretesto! La protezione che si imponeva assomigliava troppo ad annessione, perchè ci si potesse ingannare. Ma perchè il Chili mancava alla parola data? Evidentemente per interesse, ma quale? La prosperità dell'isola non bastava a spiegare quel voltafaccia. Mai nulla, malgrado i progressi degli Hostelliani, aveva autorizzato a credere che la

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Repubblica Chilena rimpiangesse l'abbandono di una contrada priva, in passato, di ogni valore. Del resto, il Chili non poteva lagnarsi del suo gesto generoso. Aveva beneficiato dello sviluppo di quel popolo del quale era, per forza delle cose, il fornitore principale. Ma era intervenuto un nuovo fattore. La scoperta delle miniere d'oro cambiava di punto in bianco la situazione. L'isola Hoste dimostrava di rinchiudere nel suo seno un tesoro: il Chili intendeva di averne la sua parte e deplorava la passata imprevidenza. Era chiaro! La questione importante non consisteva, del resto, nel determinare la causa di quel voltafaccia. Si poneva chiaramente un ultimatum; importava quindi concretare in che modo bisognava rispondere. Resistere?… Perchè no?… I centocinquanta soldati allineati sul piazzale non spaventavano il Kaw-djer e neppure la nave da guerra ancorata davanti al Borgo-Nuovo. Anche se essa conteneva altri soldati, certo non sarebbero stati mai in numero tale dà impedire che la vittoria definitiva decidesse in favore della milizia hostelliana. Quanto alla nave stessa, sarebbe certo stata capace di lanciare fino a Liberia qualche obice che avrebbe fatto più rumore che danno. Ma dopo?… Esaurite le munizioni, avrebbero dovuto togliere l'ancora, ammettendo che i tre cannoni hostelliani non riuscissero a causare qualche seria avaria. No, in verità, la resistenza non era presunzione. Ma resistere voleva dire combattere, voleva dire sangue. Ne avrebbe egli fatto scorrere ancora su quella terra — ohimè! — già satura? Per difendere che cosa? L'indipendenza degli Hostelliani? Ma potevansi considerare liberi quegli Hostelliani, che si erano così docilmente curvati sotto un padrone? Avrebbe dunque cercato di salvaguardare la propria autorità?… Per quale scopo? I suoi meriti eccezionali giustificavano forse che venissero sacrificate tante vittime alla sua causa? Da quando esercitava il potere, si era egli dimostrato diverso da tutti gli altri sovrani che tengono la terra sotto tutela?

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Il Kaw-djer era a questo punto delle sue riflessioni, quando l'ufficiale chileno fece un movimento. Cominciava a trovare il tempo lungo. Il Kaw-djer si accontentò di esortarlo con un cenno e con un po' di pazienza e proseguì la meditazione silenziosa. No; egli non era stato né peggiore né migliore di tutti gli altri padroni di tutte le epoche e ciò semplicemente perchè la funzione di padrone impone obblighi ai quali nessuno può lusingarsi di sfuggire. Benché le sue intenzioni fossero state rette, le mire disinteressate, pure esse non gli avevano per nulla impedito di commettere, a sua volta, gli stessi delitti necessari, che egli rimproverava a tanti altri capi. Il libertario aveva comandato, l'egualitario aveva giudicato i suoi simili, il pacifico aveva fatto la guerra, il filosofo altruista aveva decimato la folla e l'orrore che egli provava per il sangue versato, non era riuscito che a fargliene versare ancora. Non uno dei suoi atti che non fosse in antagonismo con le sue teorie e, su tutti i punti, aveva toccato col dito l'errore del passato. Prima di tutto, gli uomini si erano rivelati con le imperfezioni e le incapacità innate ed egli aveva dovuto condurli per mano, come bimbi. Poi, gli appetiti che formano il fondo di certe nature avevano causato una successione di drammi e dimostrato la legittimità della forza. Gli era stata finalmente data la triplice prova, che la solidarietà dei gruppi sociali non è minore di quella degli individui e che un popolo non potrebbe isolarsi in mezzo ad altri popoli. E perciò, quand'anche uno di essi fosse giunto ad innalzarsi all'ideale inaccessibile, che il Kaw-djer considerava un giorno come verità obbiettiva, quel popolo avrebbe dovuto ancora fare i conti col resto della terra, il cui progresso morale eccede le forze umane e non può essere che il risultato di secoli di sforzi accumulati. La prima di tali prove era l'invasione dei Patagonesi. Simile a tutti gli altri capi, né più ne meno di essi, il Kaw-djer aveva dovuto combattere ed uccidere. In quell'occasione Patterson gli aveva dimostrato a qual grado di decadenza morale possa

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scendere una creatura, e, indulgente ancora, egli si era arrogato il diritto di disporre di un angolo del mondo abitato, come di proprietà sua personale. Aveva giudicato, condannato, esiliato, allo stesso titolo di tutti coloro che egli chiamava tiranni. La seconda prova gliela porgeva la scoperta dei giacimenti auriferi. Le migliaia e migliaia di avventurieri che si erano riversati sull'isola Hoste, stabilivano, sotto la forma più eloquente, l'inevitabile solidarietà delle nazioni. Contro il flagello egli non aveva potuto trovare un rimedio che non fosse conosciuto. Il rimedio era pur sempre la forza, la violenza e la morte. Per suo ordine, il sangue umano era sgorgato a fiotti. La terza prova, finalmente, gliela offriva, perentoria, l'ultimatum del Governo chileno. Doveva egli dare oggi, un'altra volta ancora, il segnale della lotta, di una lotta più sanguinosa forse delle precedenti, solo allo scopo di conservare agli Hostelliani un capo, simile in fin dei conti a tutti i capi di tutti i paesi e di tutti i tempi? Al suo posto un altro avrebbe fatto altrettanto e, qualunque fosse il suo successore, il Chili o chicchessia, esso non poteva essere condotto ad impiegare mezzi peggiori di quelli, ai quali la fatalità delle cose avevano costretto lui. E allora, perchè lottare? E poi, come si sentiva stanco! L'ecatombe ordinata da lui, quel massacro mostruoso, quello spaventevole macello, era un'ossessione che non lo abbandonava mai. Di giorno in giorno, sotto il peso del ricordo opprimente, l'alta figura si curvava, gli occhi perdevano la loro fiamma e il pensiero la sua lucidità. La forza si esauriva in quel corpo d'atleta, in quel cuore d'eroe. Il Kaw-djer parve infine accorgersi della presenza dell'ufficiale chileno, che aspettava con impazienza. — Signore, — disse — mi avete minacciato, poco fa, di adoperare la forza. Vi siete reso un conto esatto della nostra? — La vostra?… — ripeté l'ufficiale sorpreso. — Giudicatene — disse il Kaw-djer, invitandolo ad avvicinarsi alla finestra.

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Sotto ai loro sguardi si stendeva il piazzale. In faccia al Governo, i centocinquanta soldati chileni stavano allineati ordinatamente sotto il comando dei capi.

Tuttavia la loro situazione era critica, perchè li circondavano più di cinquecento Hostelliani coi fucili carichi e le baionette inastate.

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— L'esercito hostelliano conta oggi cinquecento fucili — disse freddamente il Kaw-djer. — Domani ne conterà mille, dopo domani millecinquecento. L'ufficiale chileno era livido. In quale vespaio si era dunque cacciato? La sua missione gli sembrava compromessa. Volle tuttavia fare buon viso ad avversa fortuna. — Ma l'incrociatore… — osservo con voce titubante. — Non lo temiamo — interruppe il Kaw-djer, — non temiamo neppure i suoi cannoni. Anche noi ne siamo provvisti. — Il Chili… — tentò di insinuare l'ufficiale, che non voleva riconoscersi vinto. — Sì — interruppe da capo il Kaw-djer, — il Chili ha altre navi e altri soldati. Si capisce. Ma farebbe un cattivo affare ad usarne contro di noi. Non riuscirà facilmente a sottomettere l'isola Hoste, che conta ora più di seimila abitanti. Senza calcolare i centocinquanta uomini che avete sbarcato e che potrebbero essere ostaggi meravigliosi. L'ufficiale continuò a tacere. Il Kaw-djer con voce grave soggiunse: — Infine, sapete voi chi sono io? Il Chileno considerò quell'avversario che si rivelava così terribile e, senza dubbio, lesse nello sguardo di lui la risposta eloquente alla domanda che egli stesso gli aveva rivolta, perchè si turbò ancora più. — Cosa volete dire? — balbettò. — Dodici o tredici anni fa, al ritorno del Ribatto, corse voce che il comandante avesse creduto di riconoscervi. Ma sembra che si fosse sbagliato, perchè voi stesso lo avete smentito. — Quella voce era fondata — disse il Kaw-djer. — Se mi è piaciuto allora, se mi conviene tuttora dimenticare chi sono, penso che voi farete cosa saggia a ricordarvene. E ne concluderete, mi figuro, che non mi sarebbe impossibile trovare aiuti abbastanza potenti per fare riflettere il Governo chileno. L'ufficiale non rispose. Sembrava accasciato.

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— Credete voi — riprese il Kaw-djer,.— che io sia in situazione, non di cedere puramente e semplicemente, ma di trattare da pari? L'ufficiale chileno rialzò la testa. Trattare?… Aveva capito bene?… L'avventura spiacevole nella quale si era così inconsideratamente imbarcato, poteva dunque sciogliersi in modo favorevole? — Resta a sapersi se è possibile — continuò tuttavia il Kaw-djer — e di quali poteri siate investito. — I più estesi — affermò vivamente l'ufficiale chileno. — Scritti? — Scritti. — In questo caso vi prego di comunicarmeli — disse il Kaw-djer con calma. L'ufficiale trasse dalla tasca interna un secondo plico che rimise al Kaw-djer. — Eccoli — disse. Se il Kaw-djer avesse ceduto senza resistenza alla prima ingiunzione, non avrebbe mai conosciuto quel documento, che lesse con estrema attenzione. — È perfettamente in regola — dichiarò. — La vostra firma avrà per conseguenza tutto il valore compatibile con gli impegni umani, dei quali la vostra presenza qui prova, del resto, la fragilità. L'ufficiale si morse le labbra senza rispondere. Il Kaw-djer dopo una pausa riprese: — Parliamoci chiaro. Il Governo chileno desidera ridiventare padrone dell'isola Hoste. Potrei oppormi: acconsento. Però intendo dettare le mie condizioni. — Ascolto — disse l'ufficiale. — In primo luogo, il Governo chileno non fisserà alcuna imposta all'isola Hoste, all'infuori di quelle concernenti le miniere d'oro e dovrà essere così anche dopo il loro esaurimento. Invece, sulle miniere d'oro avrà le mani completamente libere e fisserà a suo profitto il canone che più gli converrà.

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L'ufficiale non credeva ai suoi orecchi. Ecco che, senza discussioni, senza difficoltà di sorta, gli si cedeva la cosa essenziale! Tutto il resto andava da sé. Intanto il Kaw-djer continuava. — La sovranità del Chili dovrà limitarsi al percepimento di un imposta sulle miniere. Per il resto, l'isola Hoste conserverà la sua autonomia completa e conserverà il suo vessillo. Il Chili potrà collocarvi un residente, il quale, ben inteso, non avrà che semplice diritto di consiglio, ma il Governo effettivo verrà esercitato da un Comitato nominato elettivamente e da un Governatore designato da me. — Il Governatore sarete voi sicuramente? — chiese l'ufficiale. — No — protestò il Kaw-djer. — A me abbisogna la libertà integrale, totale, illimitata, e d'altronde sono stanco tanto di dare ordini, quanto incapace di riceverne. Io mi ritiro, ma mi riservo dì scegliere il mio successore. L'ufficiale ascoltava, senza interromperle, le dichiarazioni inattese. Tanto amaro disinteresse era sincero? Il Kaw-djer non avrebbe stipulato nulla a suo profitto? — Il mio successore si chiama Dick — egli riprese malinconicamente e dopo un breve silenzio — e non ha altro nome. È giovane. Forse non ha ancora ventidue anni, ma l'ho formato io e ne rispondo. Io rassegnerò il potere nelle sue mani, nelle sue sole mani… Queste sono le mie condizioni. — Le accetto — disse l'ufficiale, felicissimo d'avere trionfato sulla questione principale. — Benissimo — rispose il Kaw-djer. — Io redigerò l'atto in iscritto. Egli si mise all'opera, poi le due parti contraenti firmarono il trattato scritto. — Una copia è per il vostro Governo — spiegò il Kaw-djer, la seconda per il mie successore. La terza la serbo io e se gl'impegni assunti non venissero mantenuti siate sicuro che saprei farli rispettare… Ma fra noi non è tutto finito — aggiunse porgendo all'ufficiale un altro documento. — Ci resta da sistemare la mia situazione personale. Abbiate la cortesia di

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dare una scorsa a questo secondo trattato, il quale la regola secondo la mia volontà. L'ufficiale obbedì, ma, mano mano che leggeva, il viso suo esprimeva meraviglia crescente. — Come — esclamò finito di leggere — voi proponete questa cosa seriamente? — Sì, seriamente — riprese il Kaw-djer — e ne faccio condizione sine qua non del mio assenso al resto del nostro accordo. Siete disposto ad accettarla? — Subito — annuì l'ufficiale. Le firme vennero di nuovo scambiate. — Ora, — concluse il Kaw-djer — non abbiamo più nulla da dirci. Fate rimbarcare i vostri uomini che, per nessun pretesto, potranno rimettere piede sull'isola Hoste. Domani verrà inaugurato il nuovo regime. Farò il possibile perchè non sorgano difficoltà. Fino a domani, però, esigo il più assoluto segreto. Rimasto solo, il Kaw-djer fece chiamare Karrply e mentre il suo ordine veniva eseguito, scrisse poche parole che chiuse in una busta, aggiungendovi una copia del trattato firmato col Governo chileno. La lettera che aveva richiesto qualche minuto era già ultimata, quando fu introdotto l'Indiano. — Caricherai la Wel-Kiej con questi oggetti — disse il Kaw-djer, che porse a Karroly una lista sulla quale figuravano oltre a una certa quantità di viveri, polvere, palle e sacchi di semenze di varie qualità. Nonostante le abitudini di cieca devozione, Karroly non poté trattenere una domanda. Partiva per un lungo viaggio il Kaw-djer? E perchè non prendeva piuttosto il battello del porto, anziché la vecchia scialuppa? Ma alle sue domande il Kaw-djer rispose una parola sola: — Obbedisci. Partito Karroly, fece chiamare Dick. — Figliuolo — disse, rimettendogli la busta che aveva suggellata, — ecco un documento che ti regalo. Ti appartiene. L'aprirai domani allo spuntar del sole.

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— Sarà fatto — promise Dick semplicemente. Egli non espresse la sorpresa che doveva provare. Ed era tanto grande l'impero su sé stesso, che non la tradì con segno alcuno. Aveva ricevuto un ordine. Un ordine si eseguisce e non si discute. — Bene! — disse il Kaw-djer. — Ora va', figliuolo, e attieniti scrupolosamente alle mie istruzioni. Il Kaw-djer, rimasto solo, si avvicinò alla finestra e sollevò la tendina. Guardò fuori lungamente, per scolpirsi nella memoria tutto quello che non doveva mai più rivedere. Dinanzi a lui stava Liberia e più lontano il Borgo-Nuovo e, più lontano ancora, gli alberi dei vascelli ancorati in porto. Calava la sera e il lavoro giornaliero cessava. Si animò dapprima la strada del Borgo-Nuovo, poi le finestre delle case brillarono nell'ombra, che ingrandiva. La città, l'attività laboriosa, la calma, l'ordine, la felicità, tutto era opera sua. In un attimo l'intiero passato si ridestò ed egli sospirò di fatica e di orgoglio. Finalmente, era giunto il momento di pensare a sé stesso. Egli stava per sparire, senza mercanteggiare, da quella folla della quale aveva fatto un popolo ricco, felice e possente. Padrone per padrone, codesto popolo non si sarebbe accorto del mutamento. Egli, almeno, sarebbe andato a morire, come aveva vissuto, nella libertà. Egli non avrebbe rattristato con nessun addio quella partenza che era una liberazione. Prima di partire non voleva stringere fra le sue braccia né il fedele Karroly, né il suo amico Harry Rhodes, né Hartlepool, quel leale e devoto servitore, né Halg, né Dick, i suoi figliuoli. A che pro? Egli evadeva dall'umanità per la seconda volta. Da capo, il suo amore si ampliava, diveniva vasto come il mondo, impersonale come quello di un Dio e non aveva più bisogno, per soddisfarsi, di gesti puerili. Voleva scomparire senza un segno, senza una parola. La notte divenne profonda. Come palpebre che si chiudessero al sonno, le finestre delle case si spensero una ad una. Anche l'ultima finalmente si addormentò. Tutto divenne nero.

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Il Kaw-djer uscì dal Palazzo e si avviò verso il Borgo-Nuovo. La strada era deserta e fino al sobborgo non incontrò nessuno. La Wel-Kiej si dondolava presso alla calata. Egli s'imbarcò e sciolse l'ormeggio. Distingueva in mezzo al porto la massa cupa del vascello chileno, a bordo del quale un timoniere batteva, nello stesso istante, la mezzanotte. Stornando il capo, il Kaw-djer si spinse al largo e issò la vela. La Wel-Kiej si mosse e uscì dalla gettata. Poi il suo andamento si accelerò sotto la spinta di una fresca brezza del Nord. Il Kaw-djer pensoso teneva il timone, ascoltando la canzone dell'acqua che ribolliva contro i fianchi della scialuppa. Quando volle gettare uno sguardo indietro, era troppo tardi. Liberia, l'isola Hoste erano scomparse nella notte. Tutto svaniva già nel passato.

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VI.

SOLO!

Dick, attento a non anticipare il momento fissato, aperse al primo raggio di sole il plico che gli aveva lasciato il Kaw-djer. E lesse: «Figlio mio, «Sono stanco di vivere e desidero riposare. Quando tu leggerai le mie parole, avrò lasciato la colonia per non ritornarvi più. Rimetto la sua sorte nelle tue mani. Tu sei ancora molto giovine per assumere simile compito, ma io so che non gli sarai inferiore. «Eseguisci lealmente il trattato firmato da me col Chili, ma esigi rigorosamente la reciprocità. Quando i giacimenti auriferi saranno esauriti, lo stesso Governo chileno rinunzierà, senza dubbio, spontaneamente, a una sovranità puramente nominale. «Tale trattato costa temporaneamente agli Hostelliani l'isola Horn, che diviene mia proprietà personale. Essa ritornerà loro dopo di me. Io mi ritiro colà. Colà intendo vivere e morire. «Se il Chili mancasse ai suoi impegni, tu ti ricorderai del luogo del mio ritiro. All'infuori di questo caso, voglio che tu mi cancelli dalla tua memoria. Non è una preghiera. È un ordine. L'ultimo. «Addio. Non avere che un solo obbiettivo: la Giustizia; un solo amore: la Libertà», Nel momento in cui Dick, agitato, leggeva il testamento dell'uomo al quale doveva tanto, costui, con la fronte oppressa da pensieri gravi, continuava a fuggire, punto impercettibile sulla vasta pianura del mare. Nulla era mutato a bordo della Wel-Kiej, della quale egli teneva sempre il timone con mano ferma.

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Ma l'alba imporporò il cielo e un brivido di raggi d'oro corse sulla superficie palpitante del mare. Il Kaw-djer rialzò il capo e con lo sguardo scrutò l'orizzonte del Sud. L'isola Horn apparve in distanza fra la luce crescente. Il Kaw-djer guardò appassionatamente quel vapore confuso che indicava il termine del viaggio, non di quello che egli compiva in quel momento, bensì del lungo viaggio della sua vita. Verso le dieci del mattino, approdò in una piccola insenatura riparata dal risucchio e cominciò lo sbarco del carico. Una mezz'ora gli bastò. Allora, come un uomo il quale voglia subito sbarazzarsi di un lavoro penoso che però ha risoluto di compiere, egli sfasciò la scialuppa con un colpo furioso d'ascia. L'acqua, gorgogliando, penetrò dalla ferita. La Wel-Kiej, al pari di un essere che colpito a morte vacilli, si inclinò su babordo, oscillò, colò nell'acqua profonda… Il Kaw-djer, con aria tetra, la guardò sommergere… Qualche cosa sanguinava in lui. La distruzione della fedele scialuppa che l'aveva portato per tanto tempo, gli causava dolore e vergogna come di un delitto. Con quel delitto egli aveva ucciso insieme anche il passato. L'ultimo filo che lo allacciava al resto del mondo era definitivamente spezzato. Dedicò l'intera giornata a trasportare fino al faro gli oggetti che aveva con sé e a visitare il suo dominio. Tutto era completamente finito. Il faro, le macchine pronte a funzionare, l'alloggio ammobigliato. D'altra parte, dal lato materiale, la vita gli sarebbe stata facile colà, grazie al magazzino largamente provveduto di viveri, agli uccelli marini che avrebbe abbattuto il suo fucile, alle sementi delle quali si era munito e che egli poteva seminare nei cavi delle rocce. Un po' prima del finir del giorno, completata la sua installazione, egli uscì. A breve distanza dalla soglia, scorse un mucchio di pietre, formato dai detriti estratti nello scavo delle fondamenta.

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Una di quelle pietre attirò subito la sua attenzione. Era rotolata fin sul ciglio dell'altipiano. Sarebbe bastato spingerla col piede perchè si sprofondasse nel mare. Il Kaw-djer si avvicinò. Una fiamma di sprezzo e di odio gli brillava nello sguardo… Non si era sbagliato. La pietra zebrata da linee rilucenti, era di quarzo aurifero. Forse conteneva un'intiera fortuna che gli operai non avevano saputo riconoscere. Giaceva abbandonata, come un blocco senza valore. Così, il metallo maledetto lo perseguitava fino là!… Rivide i disastri che si erano abbattuti sull'isola Hoste, il traviamento della colonia, l'invasione degli avventurieri accorsi da tutte le parti del mondo, la fame… la miseria… la rovina… Spinse col piede l'enorme pepita nell'abisso, poi, alzando le spalle, si inoltrò fino all'estrema punta del promontorio. Dietro lui si rizzava il pilone metallico che portava sulla cima la lanterna, dalla quale, per la prima volta, doveva sprigionarsi, fra un momento, il raggio potente che avrebbe mostrato la buona strada ai bastimenti. Il Kaw-djer, fronteggiando il mare, percorse con gli occhi l'orizzonte. Egli era già venuto, un'altra sera, fino a quel punto estremo del mondo abitabile. In quella sera, il cannone del Jonathan, pericolante, rimbombava lugubremente. Che ricordo!… Ed erano passati tredici anni da allora! Ma oggi la distesa delle acque appariva vuota. Intorno a lui, per quanto lontano giungesse il suo sguardo, ovunque, da ogni lato, null'altro che il mare! E se pure egli avesse superato la barriera di cielo che limitava la sua vista, nessuna vita ancora gli sarebbe apparsa. Al di là, lontanissimo, nel mistero dell'Antartico, c'era un mondo morto, una regione di ghiaccio, ove nulla di ciò che vive potrebbe sussistere. Egli aveva raggiunta la meta e quello era il rifugio. Per quale sinistro sentiero vi era stato condotto? Eppure, egli non aveva sofferto i dolori abituali dell'uomo! Egli stesso era l'autore e la vittima dei suoi mali. Invece di far capo alla roccia sperduta in

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un deserto liquido, non sarebbe dipeso che dà lui essere uno di quei felici che sono invidiati, uno di quei possenti dinanzi cui le fronti si curvano. E tuttavia egli era là!… D'altronde, in nessun luogo egli avrebbe avuto effettivamente la forza di sopportare il fardello della vita. I drammi più dolorosi sono quelli del pensiero. Per chi li ha subiti, per chi ne esce, finito, disarmato, gettato fuori dalle basi sulle quali ha edificato, non c'è altra risorsa che la morte o il chiostro. Il Kaw-djer aveva scelto il chiostro. Quella roccia era una cella e la luce e lo spazio ne costituivano le mura insormontabili. Dopo tutto, il suo destino ne valeva un altro. Noi moriamo, ma i nostri atti non muoiono, perchè si perpetuano nelle loro conseguenze infinite. Viandanti di un giorno, i nostri passi lasciano nella polvere tracce eterne. Nulla accade che non sia stato determinato da ciò che l'ha preceduto e l'avvenire è fatto dai prolungamenti sconosciuti del passato. Qualunque fosse stato l'avvenire, se anche il popolo che egli aveva creato avesse dovuto scomparire, dopo un'esistenza effimera, se anche la terra si fosse dispersa nell'infinito cosmico, l'opera del Kaw-djer non sarebbe perita ugualmente. In piedi, sulla cima dello scoglio, tutto illuminato dai raggi del sole al tramonto, i capelli di neve e la lunga barba fluttuanti alla brezza, così pensava il Kaw-djer, contemplando l'immensa distesa dinanzi alla quale, lontano da tutti, utile a tutti, sarebbe vissuto libero, solo, per sempre.

FINE.