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Kitty Ferguson

La musica di Pitagora

Titolo originale: The Music of Pythagoras

Traduzione di Libero Sosio

© 2008 Kitty Ferguson

© 2009 Longanesi & C., Milano

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Presentazione

Benché Pitagora e il suo famoso teorema siano universalmente noti, sulla sua vita, il suo pensiero e la storia della scuola da lui fondata le notizie sono vaghe. Ciò si deve in larga misura all'atmosfera di segretezza che circondava la sua scuola. La scoperta fondamentale attribuita ai pitagorici è l'intuizione che alla base della natura ci sono relazioni matematiche e che l'universo è razionale. Tale assunto, nonostante la varietà delle interpretazioni, ha dato un importante contributo allo sviluppo scientifico ed è sopravvissuto in qualche forma fino a oggi. Se può essere suggestivo istituire relazioni fra l'Uno della filosofia pitagorica e le moderne teorie unificate in fisica, è tuttavia meno arbitrario, per distinguere la realtà dalla leggenda, affidarsi alla ricostruzione storica del pitagorismo fatta da Platone e Aristotele, vissuti due secoli dopo Pitagora, o ai racconti biografici assai più tardi di Giamblico, Porfirio o Diogene Laerzio. Soprattutto, il pitagorismo ha svolto una funzione fondamentale nel Cinquecento e nel Seicento, fornendo strumenti e stimoli a Copernico, Galileo e soprattutto Keplero, imbevuto di idee pitagoriche, come attestano il suo uso cosmologico dei poliedri pitagorici e il costante studio della musica delle sfere.

Kitty Ferguson, ben nota per le accurate ricostruzioni di personaggi e momenti importanti della storia della scienza, restituisce ora nuova vita (seguendone la fortuna per oltre duemilacinquecento anni) a uno dei più misteriosi sapienti dell'antichità, che i suoi discepoli chiamavano "il divino".

Kitty Ferguson, nata a San Antonio, in Texas, ha compiuto studi musicali alla prestigiosa Juilliard School di New York, esibendosi poi per diversi anni con i maggiori direttori d'orchestra, fra cui Stravinskij, Kodàly e Bernstein. Dal 1986, interrotta l'attività musicale per seguire in Inghilterra il marito, visitingfellow a Cambridge, ha frequentato numerosi corsi e seminari presso il Dipartimento di matematica applicata e fisica teorica di quell'università. Rientrata negli Stati Uniti, si è dedicata alla divulgazione scientifica. Ha esordito nel 1991 con Black Holes in Spacetime, ma il successo internazionale è arrivato l'anno dopo con Stephen Hawking: Quest for a Theory of Everything, cui sono seguiti altri volumi, tra i quali, pubblicati anche in Italia, ricordiamo Dalla Terra alle galassie: l'uomo

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misura l'universo (2001) e L'uomo dal naso d'oro. Tycho Brahe e Giovanni Keplero: la strana coppia che rivoluzionò la scienza (2003).

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CRONOLOGIE DEI PROTAGONISTI E ALTRE DATE SIGNIFICATIVE

Capitolo 1

Anassimandro 610-546 a.C.

Talete floruit circa 585 a.C.

Pitagora e. 570-500 a.C.

Diogene Laerzio fi. c. 193-217 d.C.

Porfirio c. 233-306 d.C.

Giamblico di Calcide c. 260-330 d.C.

Capitolo 2

Cattività babilonese degli ebrei 598-597 e dal 587/586 al 538 a.C.

Governo del tiranno di Samo Policrate 535-522 a.C.

Capitoli 3-6

Arrivo di Pitagora a Crotone 532/531 a.C.

Crotone sconfigge e distrugge Sibari 510 a.C.

Morte o sparizione di Pitagora 500 a.C.

Seconda decimazione dei pitagorici 454 a.C.

Capitolo 7

Filolao c. 474-399? a.C.

Parmenide e. 520-440 a.C.

Melisso inizio-fine del V secolo a.C.

Zenone di Elea c. 490-dalla metà alla fine del V secolo a.C.

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Socrate c. 470-399 a.C.

Capitolo 8

Dionisio il Vecchio c. 430-367 a.C.

Archita 428-347 a.C.

Platone 427-347 a.C.

Dionisio il Giovane 397-343 a.C.

Aristosseno di Taranto fi. IV ste. a.C.

Capitolo 9

Socrate e. 470-399 a.C.

Platone 427-347 a.C.

Capitolo 10

Eraclide Pontico 387-312 a.C.

Aristotele 384-322 a.C.

Teofrasto 372-287 a.C.

Alessandro Magno 356-323 a.C.

Dicearco di Messina fi. c. 320 a.C.

Euclide fi. c. 300 a.C.

Capitolo 11

Governo di Numa Pompilio c. 715-673 a.

Ocello Lucano c. V secolo a.C.

Marco Fulvio Nobiliore II secolo a.C.

Ennio c. 239-c. 160 a.C.

Catone il Censore 234-149 a.C.

Posidonio c. 135-51 a.C.

Cicerone 106-43 a.C.

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Nigidio Figulo fi. non dopo il 98-45 a.C.

Vitruvio fi. I secolo a.C.

Eudoro di Alessandria fi. c. 25 a.C.

Plinio il Vecchio 23-79 d.C.

Sesto Empirico fi. III secolo d.C.

Capitolo 12

Eudoro di Alessandria fi. c. 25 a.C.

Ovidio 43 a.C.-17 d.C.

Filone di Alessandria 20 a.C.-40 d.C.

Seneca c. 4 a.C.-65 d.C.

Apollonio di Tiana I secolo d.C.

Sestiani» I secolo d.C.

Sozione I secolo d.C.

Moderato di Cadice I secolo d.C.

Plutarco 45-125 d.C.

Nicomaco fi. c. 100 d.C.

Teone di Smirne <r. 70-130/140 d.C.

Alessandro di Abonutico c. 110-170 d.C.

Claudio Tolomeo c. 100-c. 180 d.C.

Numenio di Apamea fi. verso la fine del II secolo d.C.

Giulia Domna m. 217 d.C.

Filostrato 170-c. 245 d.C.

Capitolo 13

Diogene Laerzio fi. c. 193-217 d.C.

Plotino 204-270 d.C.

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Longino 213-273 d.C.

Porfirio c. 233-306 d.C.

Giamblico di Calcide c. 260-330 d.C.

Macrobio 395-423 d.C.

Boezio 470-524 d.C.

Capitolo 14

Hunain ibn Ishaq al-'Ibadi 810-877

Giovanni Scoto Eriugena c. 815-c. 877

Aureliano di Réomé IX secolo Reginone di Priim m. 915

Hasan ibn Shakir ibn Musa X secolo Fratelli della Purezza (Ikhwan ai-Saia') X secolo Ruggero re di Sicilia 1095-1154

Raimondo di Toledo 1125-1152

Bernardo di Chartres XII secolo Nicola d'Oresme XIV secolo Nicola Cusano 1401-1464

Franchino Gaffurio 1451-1522

Capitolo 15

Francesco Petrarca 1304-1374

Nicola Cusano 1401-1464

Leon Battista Alberti 1404-1472

Marsilio Ficino 1433-1499

Pico della Mirandola 1463-1494

Giorgio Anselmi XV secolo Niccolò Copernico 1473-1543

Andrea Palladio 1508-1580

Capitolo 16

Filippo Melantone 1497-1560

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Tycho Brahe 1546-1601

Michael Màstlin 1550-1631

Johannes Kepler (Keplero) 1571-1630

Capitolo 17

Vincenzio Galilei verso il 1530-1591

William Shakespeare c. 1564-1616

Galileo Galilei 1564-1642

René Descartes 1596-1650

John Milton 1608-1674

Robert Boyle 1627-1691

John Dryden 1631-1700

Robert Hooke 1635-1703

Isaac Newton 1642-1727

Gottfried Wilhelm Leibniz 1646-1716

Joseph Addison 1672-1719

Karl von Linné (Linneo) 1707-1778

Pierre Simon de Laplace 1749-1827

Cronologie dei protagonisti Filippo Michele Buonarroti 1761-1837

William Wordsworth 1770-1850

Hans Christian Örsted 1777-1851

Michael Faraday 1791-1867

James Clerk Maxwell 1831-1879

Capitolo 18

Bertrand Russell 1872-1970

Arthur Koestler 1905-1983

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PARTE PRIMA

Il VI secolo a.C.

«ALLA CONGIUNZIONE DI LEGGENDA E STORIA»

Sull'isola egea di Samo, sullo stretto braccio del porto che si protende più lontano in mare, c'è una forte struttura scheletrica. Grandi pezzi squadrati di ferro sembrano caduti dal cielo nella forma di un gigantesco triangolo rettangolo. Un estremo dell'ipotenusa - il lato obliquo - è affondato nel suolo. Invece del cateto verticale, la linea che sale dall'angolo retto, c'è la statua di un uomo, magro, allungato, più alto che al naturale. Egli alza verticalmente il braccio destro come se volesse far apparire per magia il pezzo mancante di ferro che, se fosse completato, formerebbe il cateto. Fra le sue dita e il pezzo di cateto che scende c'è un vuoto, come quello che separa l'indice della mano di Dio e quello della mano di Adamo nel soffitto della Cappella Sistina. Il triangolo non è una creazione di quest'uomo. Esso è antico come l'universo, come la verità.

Questo monumento coglie senza dubbio l'immagine che la civiltà occidentale ha di Pitagora, un figlio di quest'isola magica. Il triangolo è un simbolo classico..., ma, più autenticamente, è diventato l'icona di un dono inspiegato ma innegabile: la capacità della mente umana di collegarsi con la fondamentale razionalità dell'universo.

Dietro tutta la venerazione per Pitagora e l'eredità innegabilmente grande attribuita a lui e ai suoi seguaci, dietro gli assunti sui risultati da lui conseguiti, dietro le prime biografie acritiche, le leggende, le smitizzazioni, le falsificazioni, ci fu una persona reale. La vera identità di Pitagora, al di là di frammenti d'informazione elusivi, si perde nella notte dei tempi.

Pitagora e i devoti discepoli che si raccolsero intorno a lui nel corso della sua vita furono cultori ossessivi della segretezza. A quanto sappiamo non lasciarono scritti. Non ci sono rotoli, testi, frammenti, racconti di prima mano di alcun

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testimone, né manufatti che possano essere esaminati dagli archeologi, né tavolette da decifrare. Se qualcosa del genere esistette, era certamente già scomparso nella tarda antichità. I più antichi documenti scritti sullo stesso Pitagora che gli studiosi moderni accettano come genuini comprendono sei brevi

Cartina Il Mediterraneo e il Vicino Oriente nell'antichità frammenti di testo appartenenti al secolo successivo alla sua morte, e si trovano non nelle opere originali, bensì in scritti di autori antichi che o videro gli originali o li citavano da copie secondarie anteriori.

La dottrina pitagorica della reincarnazione è l'argomento di tre di questi frammenti, due dei quali menzionano anche il coraggio, il sapere e la saggezza di Pitagora. Altri due sono irridenti e spregiativi. Il sesto è un complimento ambiguo dello storico greco Erodoto. All'interno di una storia che non ha alcuna attinenza con Pitagora, Erodoto, nel libro IV delle Storie, definisce Pitagora «non certo il minore fra i sapienti greci». Nessuno nomina le sue scoperte, specifica alcun detto memorabile o alcun contributo scientifico, o fornisce qualche dettaglio della sua biografia. Anche se qualche opera su Pitagora sembra volerci far credere che i suoi contemporanei non si siano quasi accorti della sua esistenza, non fu certamente così, se è vero che tutti i frammenti che ci sono pervenuti danno per scontato che Pitagora era un uomo famoso, il cui nome non sarebbe risultato ignoto ai lettori. Questa situazione ha continuato a essere valida per duemilacinquecento anni, anche se già al tempo di Platone, nel IV secolo a.C., Pitagora e i pitagorici erano un mistero, e oggi vengono spesso descritti come «un antico culto di cui non si sa quasi nulla».

Quei sei antichi frammenti non esauriscono però l'intera documentazione disponibile sui pitagorici: gli uomini e le donne che seguirono Pitagora durante la sua vita e che nelle generazioni successive continuarono a cercare di vivere ispirandosi ai suoi insegnamenti. Da cinquanta a settantacinque anni dopo la morte di Pitagora, Filolao, un pitagorico meno incline al segreto di tanti suoi confratelli, scrisse un libro in cui rivelò che i primi pitagorici sostennero che la Terra si muove e non è il centro del cosmo. Platone conosceva i pitagorici del IV secolo a.C., era fortemente influenzato dall'idea del ruolo dei numeri in natura e nella creazione, e cercò di introdurre nella sua Accademia di Atene quello che pensava fosse un piano di studi pitagorico: il «quadrivio». Qualche anno dopo Aristotele e i suoi allievi si occuparono estesamente dei pitagorici, fondandosi su materiali anteriori ancora esistenti ma successivamente scomparsi e su portavoce viventi del pitagorismo accuratamente scelti, esponenti della tradizione orale pitagorica in un tempo in cui non era ancora stata contaminata da falsi. Torneremo

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spesso sul problema dell'attendibilità delle prove e su come esse furono e sono valutate. Pare che nessun altro gruppo abbia compiuto uno sforzo tanto grande per mantenere il segreto su di sé, o vi sia riuscito così bene come i pitagorici, e sia stato tuttavia tanto celebrato e influente per un periodo di tempo così sorprendentemente lungo.

In un tentativo di penetrare attraverso il velo di venticinque secoli che ci separa da ciò che accadde sull'antica isola di Samo e nella città portuale di Crotone, gli storici scettici del XX secolo hanno insistito nel rifiutare tutte le prove storiche tranne quelle più solide, più concrete. Pur avendo certamente ragione nel pensare che occorresse un correttivo, è presumibile che quegli storici abbiano sfrondato troppo, applicando criteri del loro tempo a un'epoca per la quale una tale operazione era impropria e anche sviante. Il minuscolo «nocciolo di verità» restante dopo aver fatto la tara a tutta la sapienza popolare, alla tradizione semistorica, alla leggenda o a quella che potrebbe essere solo leggenda, ai falsi e alle invenzioni evidenti, può essere formulato come segue: Pitagora di Samo lasciò la sua isola natia nell'Egeo intorno al 530 a.C. e si stabilì nella città della Magna Grecia di Crotone, sulla costa calabra. Benché la data della sua nascita non sia certa, a quest'epoca aveva probabilmente una quarantina d'anni ed era un individuo carismatico e arricchito da grandi esperienze. A Crotone esercitò una notevole influenza, come insegnante e come capo religioso; insegnò una dottrina della reincarnazione, divenne una figura importante nella vita politica, si fece nemici pericolosi e infine, intorno al 500 a.C., fuggì in un'altra città della costa, Metaponto, dove morì. Durante i trent'anni del suo soggiorno a Crotone, alcuni degli uomini e delle donne che seguivano il suo insegnamento cominciarono insieme a lui a ponderare e a investigare il mondo. Facendo esperimenti sulla lunghezza delle corde di una lira e i suoni prodotti, e domandandosi perché solo certe combinazioni di lunghezze di corde producessero bei suoni mentre altre producevano solo suoni discordanti, Pitagora e altri, incoraggiati e ispirati da lui, scoprirono che le connessioni fra le corde della lira e l'orecchio umano non sono arbitrarie o accidentali. I rapporti che sono alla base dell'armonia musicale hanno senso in un modo notevolmente semplice. In un lampo di straordinaria chiarezza, i pitagorici trovarono che dietro l'apparente varietà e confusione della natura ci sono una regolarità e un ordine, e che è possibile capirlo attraverso i numeri. La tradizione dice che, letteralmente e in modo figurato, dopo avere scoperto che l'universo è razionale, i pitagorici caddero in ginocchio. Almeno «in modo figurato» quest'affermazione è sicuramente giusta, poiché essi abbracciarono questa scoperta al punto di farsi guidare dai numeri, forse già durante la vita di Pitagora, e certamente poco dopo la sua morte, da qualche nozione prematura

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estremamente lungimirante e da qualcuna anche stravagante, sul mondo e il cosmo.

Si potrebbe supporre che quanto appena detto sia un compendio che si limita a illustrare i punti salienti di quel che si conosce sugli eventi della Crotone del VI secolo a.C., ma in realtà esso riporta tutto quel che si conosce. Anche se noi vorremmo poter fare molte altre domande, le risposte sono andate irrimediabilmente perdute. Nessuno può pretendere di poter dire in che modo Pitagora e i suoi seguaci pervennero alle dottrine religiose e filosofiche che abbracciarono, o anche quali fossero precisamente tali dottrine... o in quali modi specifici Pitagora e i suoi seguaci influenzarono e modificarono la cultura e la struttura civica di Crotone e dell'area circostante... o se ciò che condusse Pitagora e i suoi seguaci a farsi nemici così pericolosi fosse qualcosa che noi oggi condanneremmo o applaudiremmo... o ancora se la grande scoperta fatta in musica del potere dei numeri di rivelare la verità sull'universo sia stata compiuta dallo stesso Pitagora. Può sorprenderci che in questo «nocciolo di verità» su Pitagora non si faccia menzione di un triangolo pitagorico o di un teorema di Pitagora.

Mentre gli storici del XX secolo stavano facendo piazza pulita, anche gli archeologi stavano dando un loro contributo per smontare la leggenda di Pitagora. Essi scoprirono che il «teorema di Pitagora» (o piuttosto la «regola pitagorica», poiché il termine «teorema» implica un concetto che non era ancora conosciuto a questa epoca) era noto già molto tempo prima di Pitagora. Queste rivelazioni non misero fine alla discussione perché, in relazione al cosiddetto teorema pitagorico, ci sono molte altre domande oltre a quella di chi sia stato il primo a introdurlo. Il modo in cui esso passò - o potrebbe essere passato, o non passato, da una società a un'altra e da un'epoca a un'altra è un argomento complesso. Era noto e poi andò perduto? O andò perduto solo in parte? Il teorema fu scoperto più volte in modo indipendente? Altrettanto interessante è il modo in cui diverse società e diverse epoche considerarono tale conoscenza, il significato che le attribuirono. Era una conoscenza utile per l'agrimensura e per l'architettura?

Fu apprezzata per il modo in cui aiutava a produrre bei progetti? Era considerata sacra? Era qualcosa da condividere, o da conservare nel segreto più rigoroso, o da insegnare solo a pochi? Era interessante in sé e per sé? O implicava qualcosa - o sollevava interrogativi — sulla natura dell'essere? Rafforzava - o distruggeva - una fede nel potere dei numeri di scoprire verità segrete sull'universo? C'era una «dimostrazione» del «teorema»? Che cosa poteva costituire una «dimostra zione» prima del moderno concetto di «dimostrazione»?

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Con domande come queste, l'origine del «teorema di Pitagora» diventa un problema estremamente interessante e complicato.

I numeri e la matematica erano in uso da moltissimo tempo prima che nascesse Pitagora, e a volte con una comprensione più complessa di quella del maestro e dei suoi seguaci. La comprensione pitagorica dei numeri in campo musicale era straordinaria in un modo diverso: diverso dall'uso pratico dei numeri o dall'apprezzamento di un artista per una bella figura geometrica, e anche dal pensiero più astratto di un antico insegnante o studente babilonese che trovava interessante calcolare la capacità di un granaio molto più grande di uno effettivamente realizzabile. Immaginiamo un carpentiere che guardi il martello e lo scalpello con cui lavora, da lui dati sempre per scontati come strumenti utili per la sua attività quotidiana, e che in un istante di stupito riconoscimento si renda conto di avere le chiavi che aprono la porta a un vasto sapere segreto. È questo quel che i numeri diventarono per i pitagorici e, attraverso di essi, per il futuro. Con questo nuovo apprezzamento - e in realtà addirittura venerazione - del potere dei numeri, Pitagora e i suoi seguaci fecero una delle scoperte più profonde e significanti nella storia del pensiero umano. Essi si trovavano davanti a una soglia che l'umanità ha varcato solo poche volte.

Questa particolare porta non si sarebbe mai più richiusa.

L'immagine brutalmente impoverita di Pitagora e degli eventi della sua vita offerta dal XX secolo non era più soddisfacente di quella accettata molti secoli prima da persone assai più sprovvedute. Tutto quello che si poteva dire a suo favore era che probabilmente non era sbagliata. Quanto a me, mi ha indotto a riconcentrare drammaticamente la mia attenzione sulla storia immensa, ricca, multistratificata e continuamente reimmaginata di «Pitagora», vista separatamente dalla vita e dalla persona del Pitagora storico. È questa la ragione per cui questo libro termina nel XXI secolo anziché nell'antichità.

È sorprendente l'incertezza su ciò che realmente accadde, sulla realtà storica di Pitagora e del suo pensiero, sulle cose da lui scoperte che permisero a qualcosa di sorprendente di accadere di continuo nel corso dei secoli. Un'idea davvero potente scaturì in effetti da Pitagora e dai suoi seguaci: il riconoscimento che i numeri sono una via che conduce dall'umana ignoranza a una comprensione dei misteri più profondi di un universo che a un qualche livello profondo ha perfettamente senso ed è un tutto unico. Questa visione è stata una guida primaria nello sviluppo della scienza e tale rimane oggi. La scarsità di conoscenze su quasi ogni altra cosa connessa con Pitagora e i pitagorici ha incoraggiato una generazione dopo l'altra,

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partendo da Platone e continuando fino al XXI secolo, a reimmaginare il maestro, a ricrearlo, a comporre le proprie variazioni sul tema. Come fanno i compositori in musica, figure come Platone, Aristotele, Tolomeo, Copernico, Keplero, gli eroi della Rivoluzione francese, Bertrand Russell, Einstein e quelli che oggi stanno cercando esseri intelligenti extraterrestri, hanno preso un tema molto esile, componendo variazioni complesse, a volte stravaganti, a volte misteriose, spesso splendide: una metafora non inappropriata per una storia che cominciò con le corde di una lira.

Due millenni e mezzo di scrittura e pensiero e mitizzazione e di composizione di variazioni su Pitagora in un contesto dopo l'altro, con un ordine del giorno dopo l'altro, hanno ovviamente moltiplicato le difficoltà per un «biografo». Ancora più difficili da classificare dei detrattori dichiarati e delle distorsioni e falsificazioni evidenti sono coloro che, imbattendosi nel pensiero pitagorico o pseudopitagorico, ne hanno gioiosamente riconosciuto i collegamenti col proprio pensiero e hanno addirittura attribuito le loro idee migliori allo stesso Pitagora, come fece, fra tutti, Isaac Newton. Oppure non hanno usato apertamente il termine pitagorico, lasciando però aperta la strada perché altri lo facessero per loro conto. Forse, in una situazione così complessa, un autore dovrebbe abbandonare ogni speranza di scrivere un'opera storica per scrivere invece un romanzo. In una certa misura, questo è ciò che si è fatto per due millenni e mezzo.

Tutto questo potrebbe indurre qualcuno a scrivere che questo libro dev'essere una parabola postmoderna. Sarebbe difficile trovare un esempio migliore di idee, di narrazione biografica, o di una persona che venga reimmaginata un'epoca dopo un'altra, un secolo dopo l'altro. Io sono invece pervenuta a vedere «Pitagora» come un dipinto cubista, di Picasso o di Braque, i quali avrebbero sostenuto entrambi che c'è più verità nei loro dipinti cubisti che in un ritratto naturalistico. È impossibile comporre insieme vita e storia in un'immagine coerente del tutto soddisfacente: esse vengono continuamente reinventate nell'occhio di chi guarda.

Questo libro comincia in modo simile a una «biografia» convenzionale, indulgendo in speculazioni calcolate, raccontando leggende e dicerie, riferendo informazioni interessanti e a volte conflittuali, e cercando di discernere quel che accadde con la massima probabilità, o che sarebbe potuto accadere dati tempo, luogo e contesto. Gran parte delle informazioni provengono dalle ricerche di tre autori che scrissero biografie di Pitagora da settecento a ottocento anni dopo la sua morte, nel III secolo d.C. e all'inizio del IV. Essi raccolsero notizie di seconda, terza e quarta mano da racconti, leggende e dicerie, dalla tradizione orale, da ciò che la gente credeva o congetturava, e dai riferimenti di altri autori a opere andate

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perdute: materiali antichi che variavano da informazioni attendibili a considerazioni sensate e intelligenti a osservazioni ridicole. Pitagora era già un dipinto cubista, ma questi tre testi hanno influenzato più di qualsiasi altra fonte quel che il mondo ha pensato di sapere e quel che ancora pensa di sapere su di lui.

Dal tempo di quelle biografie, la storia dei pitagorici ha percorso la sua strada sinuosa attraverso il Medioevo fino a entrare nel mondo moderno. Essa non ha certo seguito un percorso lineare soddisfacente. C'è un'infinità di fili e di tendenze, ma più notevole è l'impressione inevitabile che l'idea di Pitagora esistesse e ancora esista a un livello quasi subliminale. Essa si rivela non solo là dove potremmo attendercela, alla base delle opere di Copernico, Keplero, Newton e Stephen Hawking, ma anche in luoghi strani e improbabili come l'architettura del Palladio e l'interpretazione filosofica della Rivoluzione francese, e nella figura di un nonno in un romanzo di Louisa May Alcott. Nonostante tutto lo scetticismo del XX secolo, autori imponenti come Bertrand Russell, Arthur Koestler e Jacob Bronowski considerarono Pitagora una figura torreggiante, fondamentale.

Princìpi pitagorici sono oggi integrati nella nostra visione del mondo, e la originale decifrazione pitagorica del codice della natura è alla base del continuo sviluppo della scienza.

Deplorate pure la storia perduta della vita e della persona di Pitagora, se volete, ma unitevi a me nel tentativo di capire perché e come essa abbia generato e alimentato una così complessa tradizione e ricchezza di interpretazioni, e nel celebrare quello che non è un mito, una menzogna e nemmeno una leggenda... bensì un bell'esempio di presa di coscienza della verità dell'universo.

1 «IL CHIOMATO DI SAMO» VI secolo a. C.

Secondo un mito popolare diffuso nella Roma imperiale, l'antico sapiente Pitagora sarebbe stato figlio di Apollo. La storia fu diffusa nel I secolo d.C. da Apollonio di Tiana, un pittoresco personaggio itinerante a cui si attribuivano miracoli, e che sosteneva di essere Pitagora reincarnato e di poter parlare con autorità. L'imperatrice Giulia Domna, moglie dell'imperatore Settimio Severo, provvide a che i racconti di Apollonio fossero ben pubblicizzati nella speranza

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che egli potesse rivaleggiare con Gesù di Nazaret, i cui seguaci credevano che fosse il figlio del dio degli ebrei.

Un secolo dopo Giulia Domna (otto secoli dopo Pitagora), la storia dell'ascendenza divina di Pitagora pervenne allo storico e filosofo neoplatonico Giamblico di Calcide, che stava scrivendo un libro intitolato Vita pythagorica. (1) Vivendo in un'epoca superstiziosa, Giamblico non fu un biografo particolarmente critico quando si trovò di fronte a miracoli. Egli soppesò attentamente non se dovesse credere a racconti «meravigliosi», ma a quali credere, e recalcitrò all'idea che Pitagora fosse disceso da un dio. Era una cosa che non era «in alcun modo ammissibile» (Giamblico, II, 7). Giamblico, però, non ignorò semplicemente i miti che non riusciva ad accettare come verità, ma si comportò come doveva fare uno storico nel vagliare materiali del VI secolo a.C., l'epoca che Bronowski chiamò la «congiunzione di leggenda e storia». Giamblico amava fare congetture su perché fosse sorto un mito. Ecco la sua versione della storia della nascita di Pitagora, ripulita da tutti quelli che egli considerava dettagli soprannaturali indebiti.

In uno dei primi decenni del VI secolo a.C., un mercante di nome Mnesarco fece un viaggio per mare ignorando che la moglie si trovava in uno dei primi mesi di gravidanza. Come facevano i più importanti mercanti del tempo quando ne avevano l'opportunità, Mnesarco incluse Delfi nel suo itinerario e interrogò l'oracolo - l'Apollo Pizio — sulla parte successiva del suo viaggio, in Siria. L'oracolo rispose che «il viaggio sarebbe stato assai favorevole e vantaggioso economi camente» e gli annunciò che sua moglie «era incinta e avrebbe generato un figlio più bello e sapiente di chiunque fosse mai esistito, destinato a recare in ogni aspetto della vita grandissimo giovamento all'intero genere umano» (II, 5). Era un annuncio sorprendente ma Giamblico sottolinea che non c'era alcuna indicazione che il figlio non fosse di Mnesarco. Fu in onore dell'oracolo, e non per lasciare intendere la paternità di Apollo, che Mnesarco cambiò il nome di sua moglie da Parthenis (Partenide) a Pythais (Pitai) e decise di chiamare il ragazzo Pythagoras. Il viaggio continuò e Pitai partorì il figlio a Sidone in Fenicia. Poi la famiglia tornò in patria a Samo. Come aveva predetto l'oracolo, il viaggio aveva avuto successo e contribuì notevolmente all'aumento delle sostanze della famiglia. Mnesarco costruì un tempio all'Apollo Pizio (II, 9) di cui non sopravvive alcuna traccia identificabile, ma l'isola di Samo è cosparsa di rovine di templi e santuari di quel periodo che oggi non possono essere messi in relazione ad alcun dio o ad alcun donatore.

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Gli altri due autori che vissero al tempo dell'impero romano e scrissero biografie di Pitagora nel III secolo d.C. e inizio del IV Diogene Laerzio e Porfirio - concordano con Giamblico sull'esistenza di molte prove del fatto che la madre di Pitagora, Pitai, era discesa dai più antichi colonizzatori di Samo. (*) Non c'è invece in altre parti della biografia di Pitagora, fino agli eventi che circondano la sua morte, un argomento sul quale la controversia fra i tre biografi si fece animata e contraddittoria come sull'origine di suo padre Mnesarco.

Secondo le ricerche di Giamblico entrambi i genitori di Pitagora derivavano dai primi coloni di Samo. Porfirio era in possesso di una relazione di uno storico del III secolo a.C. di nome Neante - che non perdeva occasione per contrapporre informazioni conflittuali - secondo il quale Mnesarco non sarebbe stato samio di nascita.

Neante aveva appreso da una fonte che Mnesarco era nato a Tiro in Siria e da un'altra che era un etrusco (tirreno) proveniente da Lettino. Forse la confusione era stata causata dalla somiglianza fra i nomi «Tiro» e «tirreno». Porfirio si riferì anche a un'altra fonte, un libro dal titolo curioso, Sulle cose incredibili al di là di Tule, che menzionava anch'esso le origini etrusche di Mnesarco a Lemno. Diogene Laerzio, il più vecchio dei tre biografi, sottolineò che anche l'attendibile storico antico Aristosseno di Taranto - che aveva fonti eccellenti, come Dionisio il Giovane di Siracusa e pitagorici del IV secolo

* Le storie di tutt'e tre i biografi sono narrate nel capitolo 13.

a.C. - diceva che Mnesarco era un tirreno. Tutt'e tre i biografi concordavano che, se Mnesarco non era samio di nascita, era stato naturalizzato sull'isola. Diogene Laerzio aggiunse anche di avere imparato da un tale Ermippo, nato a Samo nel III secolo a.C., che Mnesarco era un incisore di gemme.

L'isola di Samo, dove Pitagora aveva trascorso la sua infanzia, è l'isola greca più scoscesa e più fittamente coperta di foreste. Jacob Bronowski la definì «un'isola magica. Altre isole greche potrebbero andar bene come scenario per La tempesta, ma per me è questa l'isola di Prospero, la spiaggia dove lo studioso si trasformò in mago». (2) Il ragazzo Pitagora dovette conoscere bene i pendii montani coperti di foreste, con le profonde gole alberate e i profili nebbiosi di coste semidesertiche su un mare di cobalto. Per una famiglia della classe latifondista la vita in campagna, in quel clima in cui i fiori sbocciano per la maggior parte dell'anno, e in cui le viti e gli olivi danno frutti abbondanti, doveva essere piacevole, probabilmente sfarzosa, tanto più grazie ai beni che Mnesarco portava dai suoi viaggi all'estero.

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In una poesia di cui sopravvivono solo frammenti, Asio descrisse l'aristocrazia samia, con le sue «tuniche candide come neve», le «spille dorate», i «braccialetti abilmente lavorati» e le «trecce», che «ondeggiavano al vento con nastri dorati». (3)

Nella città portuale e nel sacro recinto del tempio della dea Era c'erano beni, tesori e curiosità sufficienti a portare l'immaginazione di un giovane fino ai confini del mondo. Il tempio aveva acquistato una collezione di ornamenti preziosi provenienti dall'Iran, dalla Mesopotamia, dalla Libia, dalla Spagna e persino da più lontano. Gli archeologi non hanno trovato alcun altro sito greco così ricco di materiali stranieri, nessun tempio antico con una varietà geografica così ampia di offerte. Non era soltanto Era ad acquistare tesori. Oggetti domestici e di lusso importati introdussero nelle case di Samo tessuti, profumi e colori stranieri e senza dubbio nutrirono i sogni e lo spirito avventuroso di giovani come Pitagora e i suoi fratelli. Samo era in stretto contatto con la cultura molto più antica e misteriosa della Mesopotamia.

Quel che si conosce della storia di Samo è una combinazione di folklore, di storia orale e di archeologia. Secondo la leggenda, i primi coloni dell'isola furono guidati da Anceo, un eroe figlio di Zeus che era partito con gli argonauti, insieme a Eracle e a Orfeo, nella favolosa ricerca del vello d'oro. Su esortazione dell'oracolo pizio di Delfi, Anceo aveva deciso di fondare una colonia e di portarvi famiglie dall'Arcadia, dalla Tessaglia, da Atene, da Epidauro e da Calcide. L'o racolo impose il nome della futura grande città dell'isola, Samo. Samo implicava grandi altezze, e Samo ha grandi montagne. Antiche storie riconducevano la genealogia della famiglia di Pitagora allo stesso Anceo.

Oggi, a più di trenta secoli dalla colonizzazione di Samo, gli archeologi sono in grado di datare le storie. Essi concordano sul fatto che l'antica storia di Samo fu in gran parte in accordo con la leggenda. Verso la fine del II millennio a.C. arrivarono degli ioni dalla regione di Epidauro, e a quel tempo l'oracolo pizio a Delfi era molto frequentato, anche se ad esso non era ancora associato il nome di Apollo. I coloni che arrivarono, forse guidati da Anceo, facevano parte di grandi migrazioni dalla terraferma greca verso le isole dell'Egeo e le coste dell'Asia Minore.

Gli archeologi hanno scoperto anche che questi coloni ioni non furono i primi a metter piede a Samo, cosa che concorda con un'altra leggenda: che molti dei micenei che assediarono Troia e fecero entrare il grande cavallo di legno nella città condannata si insediarono poi sulla costa turca e nelle isole vicine. Gli scavi

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mostrano che a Samo c'erano popolazioni che vi vissero più di un migliaio di anni prima dei coloni ioni, e che fra di esse c'erano probabilmente dei micenei.

Quelli che arrivarono sull'isola dopo la Guerra di Troia erano in realtà dei ritardatari.

Forse i rapporti fra la popolazione anteriore e i nuovi coloni ioni furono facilitati in qualche misura dal fatto che questi ultimi riconoscessero immediatamente nella preistorica Dea Madre della fecondità di Samo la divinità che essi già conoscevano e veneravano col nome di Era. Tanto forte fu la convinzione che questa dea fosse Era che un sito consacrato alla Dea Madre, sulle rive del fiume di Samo Imbrasos, fu identificato come il luogo di nascita di Era. Si credeva che lì un cespuglio di vimini avesse protetto la sua nascita. Al tempo della nascita di Pitagora, quello che era stato per secoli un semplice altare in pietra, con una semplice struttura che proteggeva un'effigie in legno e un cespuglio di vimini, era diventato uno dei più splendidi complessi templari del mondo. Il grande tempio di Artemide a Efeso, in prossimità dello stretto di Samo, non riuscì a uguagliarne lo splendore.

Prima della fine del II millennio a.C., sbarcò sulle spiagge di Samo e assunse il controllo dell'isola un'altra ondata di coloni, guidati questa volta da un uomo di nome Prode, da Pityous (Pizio). La gente di Prode vi governò per circa quattrocento anni, fino all'VIII secolo a.C. Poi ripresero il controllo della situazione i discendenti degli an tichi coloni. Questi proprietari facoltosi si chiamavano geomori (geomorot), ossia «coloro che spartirono la terra». L'epoca del loro dominio fu il periodo «geometrico», termine che si applicò non solo a Samo ma anche a una fase della storia nelle aree greche circostanti. (4) La parola «geometria» derivò dal modo in cui i geomori divisero «geometricamente» la loro terra. Gli antenati di Pitagora, almeno per il ramo materno, appartennero a questa classe di proprietari.

I secoli del governo dei geomori furono per Samo un'epoca di crescente prosperità, e anche il tempo del più ricco interscambio culturale fra l'isola greca e i popoli dell'Egitto e del Vicino Oriente. La posizione di Samo vicina alla costa occidentale dell'attuale Turchia la collocava al crocevia delle grandi rotte mercantili che collegavano il mar Nero con l'Egitto, e l'Italia e la terraferma greca con l'Oriente.

La costa della terraferma al di là dell'angusto stretto di Samo era il capolinea occidentale dei percorsi commerciali via terra di carovane cariche di merci esotiche provenienti dall'Oriente. Samo divenne un porto di riferimento

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fondamentale per navi che percorrevano tutto il mondo conosciuto. I naviganti di Samo portarono navi innovative più grandi, progettate e costruite da costruttori navali samii, oltre lo stretto di Gibilterra, forse fino all'Inghilterra meridionale. Il semimitico Coleo (Kolaios) ha fama di avere compiuto quel viaggio e di avere donato una parte dei suoi profitti al tempio di Era. Samo controllava terre fertili sulla terraferma al di là dello stretto, assicurandosi un'abbondante disponibilità di grano. Nel VI secolo a.C., quando nacque Pitagora, Samo stava fondando colonie nella città siciliana di Minoa, in Tracia e in Cilicia. Espatriati samii vivevano in Egitto, rafforzando le relazioni commerciali con i faraoni.

Anche se la prosperità dell'isola continuava a crescere, l'epoca dei geomori era terminata al tempo della nascita di Pitagora. Verso la fine del VII secolo a.C. gli aristocratici geomori avevano dovuto soccombere all'ascesa di un regime tirannico. Il colpo di mano avrebbe avuto luogo quando la maggior parte dei cittadini era fuori della città, al tempio per partecipare a una festa di celebrazione della dea.

Pitagora era nato intorno al 570 a.C., o forse un po' prima. Coleo doveva essere tornato press'a poco a quest'epoca dal suo eroico viaggio. Anche se i geomori avevano perso il controllo dell'isola, l'ascesa di Samo verso il suo apogeo economico e culturale proseguiva. Questa fu la sua epoca aurea. Per la famiglia della madre di Pitagora, che come abbiamo accennato apparteneva all'aristocrazia terriera dei geomori, l'ascesa della tirannide dev'essere stata un serio colpo in termini di potere e forse di ricchezza. Mnesarco era però un mercante la cui situazione commerciale dovrebbe essere migliorata piuttosto che peggiorata in questo cambiamento ai vertici del governo. Il matrimonio di Partenide e Mnesarco dev'essere stato sicuramente vantaggioso, con Partenide che apportava eredità e terre della sua famiglia di antica aristocrazia e Mnesarco che portava una nuova fortuna guadagnata nel prospero impero mercantile di Samo.

È probabile, data la professione di Mnesarco, che Pitagora non abbia trascorso l'intera infanzia e giovinezza a Samo. Secondo lo storico Neante (una delle fonti più attendibili usate dai tre biografi), egli avrebbe viaggiato col padre, visitando Tiro, l'Italia e altri luoghi.

Secondo lo stesso Neante, e anche altri, avrebbe avuto due fratelli maggiori, Eunosto e Tirreno, e forse un fratellastro, che avrebbero condiviso con lui queste esperienze. Se è vero che il padre di Pitagora non sarebbe stato solo un mercante ma anche un incisore di gemme, i suoi figli dovrebbero avere fatto un apprendistato di questa professione. Giamblico era certo che Pitagora avesse

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avuto la migliore istruzione possibile e che avesse studiato con uomini dotti di Samo e persino in Siria, specialmente con «tutti coloro che erano preposti agli affari di religione» (II, 9). È plausibile che la sua famiglia abbia continuato ad avere connessioni commerciali o personali con l'area intorno a Sidone, in Siria, dove la biografia di Giamblico pone la nascita di Pitagora.

Descrivendo il giovane Pitagora, Giamblico non indulge nell'eccessiva adulazione che avrebbe adottato in capitoli posteriori del libro, ma ci trasmette un'immagine più realistica di un giovane dotato di un'eleganza naturale di linguaggio e di comportamento che impressionavano favorevolmente anche persone molto più mature di lui. Giamblico scrive che egli era sereno, riflessivo ed esente da eccentricità. Le statue presenti nei musei di Samo — i kouroi risalenti a questo periodo — suggeriscono che questo fosse l'ideale dell'epoca: un giovane umano, che accennava però a qualcosa di più centrale, misterioso e sacro.

A Samo, Pitagora si trovò nell'epicentro del mondo commerciale, ma non in quello della scienza e della filosofia naturale greca. Soltanto un angusto stretto di mare divideva però Samo da Mileto, dove aveva il suo quartier generale Talete, «il primo a introdurre lo studio della natura presso i greci». Una quindicina d'anni prima della nascita di Pitagora Talete osservò e registrò un'eclisse. Quell'evento fu scelto per contrassegnare, o almeno simboleggiare, l'inizio della scienza e della filosofia naturale greca e, poiché l'evento osservato da Talete fu un'eclisse di Sole, è possibile idenuficarne la data: era il 28 maggio del 585 a.C.

Ben poco si sa di Talete tranne che studiò la natura e l'astronomia e che, insoddisfatto delle spiegazioni mitologiche, rifletté su problemi come l'inizio del mondo e che cosa esistette prima di qualsiasi altra cosa. Platone, nel dialogo Teeteto, usò Talete come un esempio di un uomo troppo preoccupato dei suoi studi:

Talete [...], mentre stava mirando le stelle e aveva gli occhi in su, cadde in un pozzo; e allora una sua servetta di Tracia, spiritosa e graziosa, lo motteggiò dicendogli che le cose del cielo si dava gran pena di conoscerle, ma quelle che aveva davanti e tra i piedi non le vedeva affatto. (5)

Talete aveva capacità pratiche molto spiccate. Era famoso per la sua capacità di trovare soluzioni semplici, ingegnose, a problemi che mettevano in imbarazzo altri. Giunse probabilmente a Samo, se la storia era vera (e anche se non lo era) la notizia che quando l'esercito del re Creso (quello favolosamente ricco) fu fermato

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dalla mancanza di un ponte sul fiume Halys (l'attuale Kizil Irmak), Talete fece scavare a monte della posizione dell'esercito di Lidia un canale che deviò il corso del fiume dall'altra parte delle truppe di Creso, così che questi e i suoi soldati si trovarono ad avere attraversato il fiume senza muoversi di un passo. (6)

Si potrebbe dire che Talete avesse una speciale affinità con l'acqua, si trovasse essa in un fiume o in un pozzo, poiché pensava che essa fosse il primo principio da cui fossero scaturite tutte le cose, e che la Terra stessa galleggiasse sull'acqua «come un pezzo di legno, o alcunché altro di simile» (De caelo, II, 294z 30), come commentò in seguito in modo un po' spregiativo Aristotele. Il biografo di Talete Diogene Laerzio scrisse che egli visse fino a un'età così tarda che «il vecchio ormai più non poteva vedere dalla Terra gli astri» (I, 39). Talete era uno dei «sette sapienti» dell'antica storia greca, ognuno dei quali era associato a un detto famoso; quello di Talete era «L'acqua è meglio». Che bello se tutti i filosofi fossero stati così concisi.

Essendo cresciuto a Samo, Pitagora fu sicuramente informato su Talete. Giamblico ritenne che egli abbia attraversato più volte lo stretto in gioventù per sedersi ai piedi del vecchio sapiente. Pitagora ricevette un soprannome: «il chiomato di Samo» (II, 11). Apollonio di Tiana fornì ai biografi di Pitagora l'informazione che egli studiò anche con l'astronomo Anassimandro, pure lui appartenente alla Scuola di Mileto. Come nel caso di Talete, una data viene abitualmente associata anche ad Anassimandro: aveva sessantaquattro anni quando morì nel 546. Avrebbe avuto venticinque anni circa quando Talete registrò l'eclisse di Sole, e sarebbe stato da maturo a vecchio quando Pitagora potrebbe essere stato suo allievo.

Lo stesso Anassimandro potrebbe essere stato un allievo di Talete, ma le loro idee non collimavano perfettamente. Anassimandro usò l'aritmetica e la geometria in tentativi di costruire carte del cielo e della Terra e disegnò una delle primissime carte del mondo. Per un giovane desideroso di conseguire conoscenze esatte come Pitagora, sarebbe stato interessante apprendere che Anassimandro rifiutò l'idea che la Terra galleggiasse su qualcosa, o fosse sospesa su qualcosa, o fosse sostenuta da qualcosa in cielo. La Terra, disse Anassimandro, rimane immobile nel suo luogo perché l'universo è simmetrico e la Terra non ha ragione di muoversi in una direzione piuttosto che in un'altra. Anassimandro introdusse la nozione del «senza limite» o «illimitato» come fondamentale per tutte le cose. Quest'idea riemerse di nuovo con evidenza quando la dottrina pitagorica fu messa per iscritto da Filolao nel secolo seguente.

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Per Anassimandro, quando l'«illimitato» veniva «separato», ne risultavano contrari, come maschio-femmina, pari-dispari, caldofreddo. I contrari erano centrali nel suo schema di creazione. In seguito la separazione in opposti divenne un elemento importante nel pensiero pitagorico. Cosa particolarmente significativa, Anassimandro credeva che ci fosse un'unità alla base di tutti i contrasti, della diversità e della molteplicità nell'universo: un'idea che sarebbe riemersa con molta maggiore forza con i pitagorici. I paralleli fra Anassimandro e i pitagorici potrebbero far pensare che Pitagora avesse studiato con Anassimandro, ma in realtà le idee di Anassimandro potrebbero essere giunte a Pitagora o a Filolao per altre vie. Il giovane Pitagora potrebbe anche avere conosciuto l'allievo di Anassimandro Anassimene.

Secondo Giamblico (II, 12), sarebbe stato Talete a convincere Pitagora ad andare in Egitto. Questo gentile e modesto insegnante, scrisse Giamblico, si scusò per la «sua vecchiaia e la sua debolezza» e raccomandò al suo brillante allievo di proseguire la sua strada, sostenendo che la propria sapienza era derivata dagli egizi e che Pitagora era ancora più dotato di lui per beneficiare del loro insegnamento.

Talete o si era recato personalmente in Egitto o lo conosceva da quanto ne avevano raccontato altri. Egli scrisse infatti una descrizio ne delle inondazioni del Nilo (di nuovo acqua) e congetturò che fossero causate da venti da nord che soffiavano in estate, i quali impedivano alle acque del fiume di gettarsi nel Mediterraneo. (7) Porfirio insegnava che quel che Talete e Pitagora avevano soprattutto da imparare dagli egizi era la geometria. «Gli antichi egizi eccelsero nella geometria, i fenici nei numeri e nelle proporzioni e i caldei in teoremi astronomici, riti divini e culto degli dèi.» «Si dice», nicchiò Porfirio, «che Pitagora abbia imparato da tutti loro». (8)

Riferendo i racconti e le tradizioni sui rapporti di Pitagora con Talete, con Anassimandro e forse anche con Anassimene sulla costa della terraferma più vicina a Samo, e i viaggi di studio che egli stava per intraprendere, Porfirio e Giamblico fecero spesso ricorso all'espressione «dicono», senza rivelare chi lo dicesse. Quelle storie facevano parte di una lunga tradizione semistorica. Purtroppo nei secoli anteriori a Giamblico, a Porfirio e a Diogene Laerzio, questa tradizione era stata abbellita, con grave rischio, da un diluvio di letteratura «pseudopitagorica». I tre storici cercarono di aggirare questo problema usando fonti anteriori ma non poterono lasciar fuori, o almeno non completamente, informazioni probabilmente spurie.

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La tradizione secondo cui Pitagora avrebbe studiato con Talete, con Anassimandro e con Anassimene, e avesse addirittura visitato l'Egitto e la Mesopotamia, non è del tutto destituita di ogni fondamento. La posizione di Samo nel mondo, nel senso geografico e in quello economico, e quel che pare probabile sulla situazione economica di Pitagora e sulla sua famiglia, rendono credibili queste storie.

Pitagora aveva ragione di sentirsi perfettamente a suo agio nel vasto mondo grazie ai commerci e alle connessioni di suo padre, era abbastanza ricco da poter viaggiare e da potersi concedere il lusso di un'istruzione avventurosa, di un'autoeducazione eclettica, ed era con ogni probabilità insaziabilmente curioso. Ammettendo che Pitagora non abbia fatto viaggi come questi, che cosa avrebbe potuto impedirglielo?

Giamblico scrisse che Talete non si limitò a dire a Pitagora di andare in Egitto. Gli raccomandò di non sprecare tempo e di esercitare un attento controllo su ciò che mangiava. Pitagora si limitò a «nutrirsi di alimenti leggeri e digeribili, ottenendone necessità di poco sonno, facilità alla veglia, purezza dell'animo, e insieme perfetta e incrollabile salute fisica» (III, 13). Forse Pitagora seguì il consiglio del vecchio maestro e riuscì a mantenere questa condizione invidiabile, ma secondo Giamblico non si affrettò a recarsi in Egitto. Passò prima per Sidone, dove probabilmente era nato.

2 «REGOLE MOLTO DIFFICILI, DEL TUTTO DIVERSE

DA QUELLE DELLE ISTITUZIONI DEI GRECI» VI secolo a. C.

Il viaggio del giovane Pitagora, come lo raccontò Giamblico, era l'antico equivalente di un anno trascorso oggi all'estero da un giovane in un paese ad alto rischio. Pitagora si sistemò in un tempio sulla costa mediterranea ai piedi del monte Carmelo, una montagna associata al profeta Elia e al suo dio, oltre che a divinità locali pagane. C'è un'affermazione molto contestata dello storico Giuseppe secondo il quale Pitagora sarebbe stato influenzato dall'insegnamento giudaico. Pitagora potrebbe essersi imbattuto in questo insegnamento proprio al

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monte Carmelo, anche se gran parte della popolazione ebraica era in esilio in Babilonia. Giamblico scrisse che egli «si incontrò con i discendenti del profeta Moco [...] e con gli altri ierofanti fenici» e fu iniziato ai misteri di Biblo e di Tiro, «non certo per superstizione» ma «per timore di restare all'oscuro di quanto, custodito nei riti arcani degli dèi o nelle cerimonie misteriche, fosse degno di essere appreso» (III, 14). Pur essendo vissuto in un'epoca superstiziosa, Giamblico fu sorprendentemente ansioso di sottolineare che Pitagora non fu influenzato dalla «superstizione» di quest'area, pur non facendo alcuna osservazione del genere su ciò che Pitagora potrebbe avere assimilato in Egitto o in Mesopotamia. Giamblico scriveva in un'epoca in cui molti temevano che il cristianesimo, con le sue radici nella fede ebraica, potesse distruggere la filosofia greca.

Dopo un po' Pitagora proseguì il suo viaggio verso l'Egitto, e Giamblico moltiplicò i dettagli del suo racconto per riferire una storia avventurosa e molto gradevole. Fortuitamente, o così parve dapprima, una nave egizia attraccò sulla costa fenicia in vicinanza del tempio dove viveva allora Pitagora. I marinai furono compiaciuti di dargli il benvenuto a bordo, pensando di poter vendere a un buon prezzo un giovane di così bell'aspetto e dalle maniere così aggraziate.

Durante il viaggio, però, cambiarono opinione. In quel giovane modesto c'era qualcosa di diverso da quel che ci si attendeva di solito da un essere umano. I marinai ricordavano com'era loro apparso scendendo dal monte Carmelo, come non avesse detto nulla, chiedendo solo «Si va in Egitto?» (III, 15), e come fosse poi salito a bordo sedendosi in disparte in silenzio per non disturbarli, rimanendo per due notti e tre giorni senza toccare cibo o bevande e senza dormire, almeno quando qualcuno di loro lo osservava. Il viaggio andò inoltre eccezionalmente bene, con bel tempo e venti favorevoli. I marinai sbarcarono Pitagora sulla costa egiziana e lo aiutarono a scendere dalla nave (era debole per il digiuno e per la lunga veglia), dopo di che costruirono dinanzi a lui un altare su cui posarono dei frutti, che egli mangiò con voracità quando i marinai se ne furono andati. Si potrebbe considerare questa storia una prova della sua natura quasi divina, o come un'indicazione del fatto che era un giovane viaggiatore prudente, attento alla sua sicurezza.

Le fonti di Giamblico indicano che in Egitto Pitagora frequentò templi, che sedette ai piedi di sacerdoti e profeti, che ricercò uomini famosi celebrati per il loro sapere e che visitò «quei luoghi in cui pensava di trovare qualcosa di particolarmente importante» (IV, 18), come astronomia e geometria. Isocrate, un contemporaneo di età un po' maggiore di Platone all'inizio del IV secolo a.C.,

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apprezzò molto l'informazione che Pitagora avesse trascorso del tempo in Egitto. Isocrate intendeva dimostrare che i greci dovevano il loro sapere agli egizi e che avevano aggiunto per parte loro ben poco alla conoscenza.

Nelle parole sprezzanti di Isocrate, Pitagora, «andato in Egitto e diventato loro discepolo, fu il primo a introdurre in Grecia ogni genere di filosofia, e si occupò più di ogni altro di sacrifici e di purificazione dei templi, pensando che, se anche non ne avesse tratto alcun vantaggio dagli dèi, ne avrebbe almeno guadagnato fama fra gli uomini. E così fu». E nel racconto del modo sagace usato da Pitagora nel trattare con i marinai egizi, c'è un accenno al fatto che, nonostante tutta la sua presunta purezza, non fu ingenuo ma forse piuttosto un po' opportunista.

L'Egitto, al tempo in cui potrebbe esservi stato Pitagora, era governato dal faraone Amasi II (Ahmose II), che ebbe in seguito rapporti col tiranno di Samo Policrate. Era inusuale ma non senza precedenti che un greco visitasse l'Egitto. Nel VII secolo a.C. il faraone Psammetico I aveva arruolato mercenari greci, e al tempo di Pitagora c'erano greci che vivevano a Naucrati, nel delta del Nilo, poiché Amasi voleva promuovere il commercio con le città greche e fece addirittura una donazione per un progetto di ricostruzione a Delfi. Tuttavia confinò i mercanti nella città del delta e non permise loro di muoversi liberamente in Egitto, come invece sarebbe stato permesso a Pitagora.

Porfirio riferì una versione diversa del soggiorno di Pitagora in

Egitto, fondandosi sull'opera di Antifonte Sugli uomini virtuosi illustri. Secondo questa narrazione, Pitagora sarebbe partito per l'Egitto con una lettera di presentazione di Policrate per Amasi. Questa informazione prospetterebbe però per il viaggio di Pitagora una data troppo avanzata, poiché il regno di Policrate ebbe inizio nel 535, poco tempo prima che Pitagora si trasferisse a Crotone. Il racconto di Porfirio è tuttavia interessante: Pitagora, in Egitto, si era recato prima dai sacerdoti di Eliopoli, i quali lo indirizzarono poi a Menfi, dicendogli che quei sacerdoti avevano informazioni più antiche. Questi lo mandarono con la stessa scusa a Diospolis (l'antica Tebe), imponendogli un viaggio di quasi 500 chilometri verso sud. I sacerdoti di Diospolis non avevano altri luoghi in cui mandarlo, ma pensarono che se gli avessero reso la vita abbastanza difficile se ne sarebbe andato. Gli imposero «regole molto difficili, del tutto diverse da quelle delle istituzioni dei greci», che egli seguì fedelmente, guadagnandosi così la loro ammirazione; essi gli insegnarono perciò la loro sapienza segreta e gli permisero di offrire sacrifici ai loro dèi, cosa che normalmente non veniva consentita a uno

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straniero. In seguito Pitagora avrebbe adottato lo stesso rispetto della segretezza per i propri insegnamenti, un uso non comune nel mondo greco.

Se Pitagora andò in Egitto, che cosa potrebbe avervi imparato?

Nei complessi templari c'erano «case della vita» con scriptoria - in cui molti uomini dotti copiavano manoscritti —, grandi biblioteche e a volte scuole. Le classi dominanti erano colte, come dobbiamo supporre che fosse Pitagora, ma egli non conosceva le lingue dell'Egitto. Se i sacerdoti lo accettarono, come Porfirio crede sia avvenuto, Pitagora, pur essendo molto più vecchio degli scolari dei primi anni, deve avere cominciato i suoi studi a un livello elementare con una lingua, un alfabeto e dei numeri che gli erano estranei, prima di poter capire la liturgia e la sapienza dei sacerdoti. Egli dovette prima studiare la scrittura corsiva ieratica, passare poi alla copiatura di libri della letteratura egizia e infine dedicarsi allo studio dei geroglifici.

Dovette poi studiare un sistema numerico decimale con numeri equivalenti a 1, 10, 100, 1000 e 10.000 ma senza alcun simbolo per lo zero. Per moltiplicare, un egizio doveva sommare un numero a se stesso per il numero di volte necessario. Per dividere, sottraeva il divisore dal dividendo finché il resto era troppo piccolo per continuare: il risultato della divisione coincideva col numero delle divisioni eseguito. Il pi greco era sconosciuto, ma si poteva calcolare con buona approssimazione l'area di un cerchio misurando il diametro di un cerchio, sottraendo 1/9 ed elevando al quadrato il risultato.

Questa conoscenza matematica era sufficiente a fini pratici: per la costruzione o - nel caso del cerchio - per la misurazione di cose come la capacità di un granaio, ma questa era una cultura la cui visione del mondo comprendeva fatti fisici tangibili e nozioni mitologiche o metaforiche senza demarcazioni visibili, non tracciando confini fra conoscenza pratica ed esoterica, o fra la realtà quotidiana e il sacro. Le elaborate preparazioni degli egizi per l'ingresso in un altro mondo dopo la morte avevano un motivo pratico: quello di fornire al defunto ciò di cui aveva bisogno per andare a vivere nell'aldilà. La magia era una categoria elevata di sapere, così come il rituale religioso, il mito e la medicina. Pitagora studiò probabilmente la gerarchia egizia degli dèi e delle dee e le credenze sull'oltretomba, ma non una dottrina della reincarnazione. (1) Probabilmente non imparò invece in Egitto il vegetarianesimo, perché le classi superiori mangiavano piuttosto spesso carne bovina e altri tipi di carne.

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Gli egizi eccellevano da molto tempo nell'agrimensura e nella topografia. La base quasi perfettamente quadrata e l'eccellente orientamento nord-sud della Grande Piramide di Cheope a Giza è una prova della loro stupefacente precisione, e Pitagora vide certamente la piramide se viaggiò nel paese come ritenne Porfirio. La piramide esisteva dal 2500 a.C. circa, due millenni prima di lui. Non possiamo sapere con certezza se nel VI secolo a.C. gli egizi avessero ancora la genialità tecnica di quei loro lontani progenitori, ma le misurazioni per determinare gli esatti confini di terreni, e per disegnare piante di città ed edifici, erano attività di routine, e le splendide strutture del passato più lontano che ancora oggi suscitano la nostra meraviglia erano allora molto ordinate e imponenti per persone che non si fossero ancora imbattute in oggetti costruiti dall'uomo su quella scala.

Dai tetti dei templi, Pitagora potrebbe avere osservato i moti della Luna e delle stelle, appreso i cicli della Luna e imparato come fossero connessi al calendario egiziano di dodici mesi e all'anno di 365 giorni. Gli egizi pensavano che il loro paese fosse il centro del cosmo, e che ci fossero connessioni precise fra le stelle e gli eventi che accadevano sulla Terra. Per esempio, alla metà di luglio la stella Sirio (Sopdet), invisibile per vari mesi, sorgeva come stella del mattino poco prima del levar del Sole («levata eliaca di Sirio»), annunciando l'inizio dell'inondazione annuale del Nilo e l'inizio del nuovo anno.

I vari templi avevano diverse specialità. Se Pitagora non fosse ripartito abbastanza rapidamente (nello scenario di Porfirio) da Eliopoli, avrebbe potuto imparare una teologia della creazione che spiegava come la diversità della natura derivasse da una singola sorgente, il dio Atum, che significa «il Tutto». Atum esisteva in uno stato di potenzialità irrealizzata non molto diverso dall'«illimitato» nell'insegnamento di Anassimandro e in seguito nel pensiero pitagorico. A

Menfi, dove, come disse Porfirio, Pitagora trascorse un po' di tempo prima di proseguire il suo viaggio, avrebbe potuto imparare una teologia di creatività divina più notevole, la quale forniva un agente attraverso il quale un'idea nella mente del creatore diventava una realtà fisica. In molte culture antiche si pensava che una parola pronunciata o scritta avesse un potere creativo. Nella creazione come è vista nella Genesi, Dio disse e così fu. La teologia dei sacerdoti a Menfi divideva la «parola» creativa in due ruoli diversi. Si richiedeva una connessione, un intermediario divino, fra un'idea nella mente del creatore e la creazione fisica reale. La teologia di Menfi era pervenuta a un concetto che avrebbe trovato in seguito espressione nell'inizio del Vangelo cristiano di Giovanni (1: 3), dove il Logos - Gesù, il secondo membro di una trinità — valica la lacuna creativa fra Dio e l'uomo: «tutte le cose sono state fatte per mezzo di lui [non 'da lui'], e senza

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di lui non è stata fatta nessuna delle cose fatte». Il «demiurgo» di Platone valicò la stessa lacuna. Il dio che svolse lo stesso ruolo nella teologia di Men fi, Ptah, operava in modo simile al livello umano, assicurando che un'idea in una mente umana (di un artigiano o un artista) diventasse un prodotto del mondo reale. Questo ruolo o forza era «efficacia» o «magia». Senza di essa una parola o un'idea o qualcosa di scritto su una pagina non aveva alcuna capacità creativa. Con essa si aveva un potere creativo. Pitagora e i suoi seguaci avrebbero in seguito assegnato quel potere ai numeri, anche se, attraverso talune interpretazioni, avrebbero inteso i numeri allo stesso tempo come l'idea nella mente del creatore, e la creazione, e la connessione fra i due livelli.

A Tebe, dove Porfirio pensava che Pitagora avesse infine trascorso un lungo periodo e fosse stato ammesso dai sacerdoti ai loro misteri più segreti, la teologia egizia aveva un monoteismo vicino a quello espresso nel concetto cristiano di Trinità, ma con più «membri».

Il dio Amon (che significa «il Nascosto») era il più grande di tutti gli dèi, «inconoscibile» e trascendente. Gli altri erano sue diverse manifestazioni.

Secondo Porfirio, Pitagora sarebbe poi tornato da Tebe a Samo, ma Giamblico scrisse un'aggiunta di grande interesse alla storia: Pitagora sarebbe poi stato «preso prigioniero dai soldati di Cambise» (IV, 18) e portato dall'Egitto in Babilonia. Se l'informazione di Giamblico è corretta, Pitagora sarebbe arrivato in Babilonia durante il periodo di regno della dinastia caldea, che ebbe inizio nel 625 a.C., nel secolo precedente a quello della sua nascita, e che durò fino al 539, quando Pitagora doveva avere una trentina d'anni. Durante questo periodo Babilonia godette della seconda epoca aurea della sua lunga storia, periodo che gli studiosi chiamano neobabilonese.

La cronologia di Giamblico è però problematica, come lascia intendere il riferimento ai «soldati di Cambise». Cambise I fu un principe persiano appartenente a una linea reale che governò nella parte sudoccidentale dell'attuale Iran. Fu il padre di Ciro il Grande, che avrebbe in seguito conquistato Babilonia e il cui impero era molto più grande di quello babilonese. Cambise I regnò dal 600 a.C. circa fino al 559. Nel 559 Pitagora aveva probabilmente solo undici anni.

Fra egizi e babilonesi ci furono frequenti scontri, e i babilonesi presero sicuramente dei prigionieri, ma solo dopo il 529 l'Egitto fu conquistato da un altro Cambise, Cambise II, figlio di Ciro il Grande; a quel tempo Pitagora si era già trasferito nell'Italia meridionale.

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Giamblico stimò che Pitagora fosse vissuto a Babilonia per circa dodici anni. Qualsiasi giovane avventuroso gli avrebbe invidiato questa opportunità, poiché Babilonia era una splendida città cosmopolita al culmine del suo potere e della sua ricchezza, era molto più anti ca di Samo e molto più mondana e raffinata dell'Egitto. Un migliaio di anni prima, l'epoca della «dinastia di Babilonia», durata dal 1894 al 1595, e specialmente il regno di Hammurabi - un periodo di supremo successo e prosperità —, era stata uno dei culmini della civiltà antica. Nel millennio intercorso fra quel periodo e il tempo della vita di Pitagora, la Mesopotamia aveva sperimentato varie ondate di migrazioni, scontri militari e cambiamenti di dinastie, e una città dopo l'altra avevano lottato per il proprio momento nel sole mesopotamico. Ora era di nuovo il turno di Babilonia. Se le date di Giamblico sono corrette, la visita di Pitagora ebbe luogo probabilmente dopo il regno di Nabucodonosor II, quando Babilonia era governata dai sovrani minori, di breve vita, della stessa dinastia. Nabucodònosor II era morto nel 562 a.C., quando Pitagora aveva circa otto anni.

Pitagora sarebbe arrivato a Babilonia o viaggiando per terra con una carovana o navigando l'Eufrate. (2) In ogni modo la torreggiante ziqqurat a sette livelli era visibile già molto tempo prima che fosse avvistabile la città. Pur essendo giovane rispetto alla grande piramide di Giza (e non essendo paragonabile con essa in altezza: la grande ziqqurat era alta infatti circa 90 metri, mentre la piramide di Cheope era alta 146 metri*, (*) la ziqqurat era tuttavia un monumento molto antico, che risaliva all'anteriore epoca aurea di Babilonia. Nabucodònosor si era accertato che essa fosse splendidamente restaurata per collegare il suo regno con quella gloria anteriore. Il principale accesso alla città da nord era un viale largo venti metri, realizzato con gigantesche lastre di calcare che coprivano una fondazione di mattoni e asfalto. Ai due lati del viale sessanta leoni raffigurati su mattonelle rosse, bianche e gialle sugli alti muri sembravano guardare gli uomini e le donne sulla strada. Alla porta urbana di Ishtar, ai leoni subentravano tori e draghi. Questo ingresso era uno di otto massicci portali rivestiti di bronzo in un sistema di fortificazione a doppio muro con fossato che circondava la città. Il viale continuava all'interno e attraversava l'Eufrate su un ponte con piloni abbastanza alti e distanziati da permettere il passaggio delle navi più grandi. Un complesso templare custodiva, in una camera rivestita d'oro, lo scrigno costellato di

* La piramide di Cheope, alta in origine poco più di 146 metri, misura oggi 137 metri, come la piramide di Chefren, che a differenza di quella di Cheope ha

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conservato sulla punta il rivestimento liscio. Molto più bassa delle due piramidi maggiori di Giza è la terza, quella di Micerino, che è alta solo 66 m. (N.d.T.)

diamanti di Marduk, il dio della città. Pitagora e gli altri che non appartenevano alla famiglia reale né all'élite dei sacerdoti, non potevano entrare in questa camera ma potevano esserne a conoscenza.

Fuori dei recinti templari, la città si estendeva su entrambe le rive dell'Eufrate e comprendeva un palazzo reale con sale di stato, abitazioni private, cortili e un harem per la regina e le concubine portate lì da tutte le parti dell'impero. Quanto ai famosi giardini pensili, se non erano del tutto leggendari (la documentazione è ambigua ma non del tutto assente), facevano parte di questo complesso ed erano, come la ziqqurat, visibili a distanza sopra gli edifici circostanti: una collina di terra scandita da terrazzamenti, sostenuta da massicce volte, costruite in modo tale che i loro solai fossero impermeabili e potessero sostenere abbastanza terra per piantarvi grandi alberi. Il tutto era irrigato con acqua trasportata dall'Eufrate con un complesso meccanismo di canali. Simili magie tecniche e una serie di canali permettevano di irrigare orti e frutteti nella parte più nuova della città e portavano acqua nei sobborghi più lontani. La conoscenza pratica dell'aritmetica e della geometria che rese possibili questi edifici e il rilevamento topografico ai fini dell'irrigazione era una prova di quanto bene gli scribi babilonesi comprendessero questi argomenti, o almeno li avessero compresi molti secoli prima, quando erano state sviluppate le tecniche di costruzione. È probabile che la teoria e la più profonda comprensione matematica sottostanti a quelle tecniche fossero state dimenticate al tempo di Pitagora, anche se le tecniche stesse erano diventate di routine ed erano ancora in uso.

Poiché le persone che per qualsiasi ragione andavano a Babilonia spesso decidevano di rimanervi, le strade e i vicoli della grande città erano una cacofonia di lingue. C'erano hurriti, cassiti, ittiti, elamiti, ebrei, egizi, aramei, assiri, caldei, tutti mischiati insieme. Per secoli, prigionieri (compresi gli ebrei portati dalla Giudea e da Israele, che vi furono presenti durante il regno di Nabucodònosor), conquistatori e visitatori erano convissuti nella città, mescolandovisi abbastanza a lungo da incrociarsi, fino a quando Babilonia era diventata, nelle parole dello studioso del XX secolo H.W.F. Saggs, «una città profondamente imbastardita». Antiche tavolette attestano una sorprendente varietà di occupazioni, carriere e categorie artigianali e l'arrivo di una grande varietà di merci, alcune trasportate da carovane, ma la maggior parte arrivate per fiume. Le donne avevano autorità su schiavi o servi nelle loro case, ma probabilmente portavano veli in pubblico.

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Pitagora, esplorando queste strade e ascoltando tutte le lingue, de ve aver visto i muri delle case risplendere in bande alternate di luce e d'ombra: effetto prodotto ingegnosamente per mezzo di un trattamento «a denti di sega» in conseguenza del quale la superficie rifletteva in questo modo variato l'intensa luce solare del deserto. Egli deve aver soggiornato in case private orientate quasi per intero verso cortili interni, con l'ingresso principale sorvegliato da un portinaio e un ingresso indiretto destinato a confondere e a scoraggiare visitatori indesiderati e chi voleva sbirciare. Sia che vivesse in una casa come questa o all'interno di un recinto templare - dato che il suo successo presso i sacerdoti e gli scribi non dovrebbe essere stato minore qui che in Egitto - la sua dieta fu probabilmente soprattutto vegetariana, non per scelta ma perché, in una città che si nutriva con i prodotti di campi irrigati circondati da deserti, la carne doveva essere un lusso.

Che cosa potrebbe avere imparato Pitagora in Babilonia? Egli aveva già familiarità con l'arte e il disegno babilonesi, poiché il tempio di Era a Samo ne conteneva molti esempi. È presumibile che abbia cercato di avere contatti con gli scribi. Le loro attività primarie erano scrittura e calcolo. Alcuni di loro facevano parte di comunità governative e templari, altri lavoravano per i militari, altri ancora erano al servizio di privati cittadini o insegnavano. Molti esercitavano la libera professione, offrendo i loro servigi al mercato a persone che dovevano scrivere lettere, redigere documenti legali o fare calcoli. A parte gli scribi, erano ben pochi i babilonesi in grado di leggere, scrivere o calcolare. Al vertice della professione c'erano i sacerdoti di rango più alto al tempio di Marduk, che dovevano essere in grado di leggere i testi per i rituali che praticavano. Questi testi erano spesso scritti in ideogrammi, cosa che li rendeva inaccessibili a coloro che non erano addestrati nella lettura di questo particolare tipo di testo, e spesso contenevano l'ammonimento che solo agli iniziati era permesso vederli. Una simile segretezza dev'essere parsa prudente a Pitagora, che in seguito la istituì a Crotone.

Gran parte delle informazioni che gli studiosi moderni hanno sul sapere nell'antica Mesopotamia proviene non da questo periodo neobabilonese, bensì dalla prima grande èra di Babilonia di un millennio prima (1894-1595 a.C.). Le tavolette, che erano i libri di testo di allora, mostrano che docenti e studenti conoscevano il valore del pi greco (ossia, più propriamente, del rapporto fra il diametro di un cerchio e la sua circonferenza), sapevano calcolare radici quadrate e cubiche e comprendevano quel che è noto oggi come il «teorema di Pitagora». Il sistema matematico che usavano era già pienamente sviluppato e veniva comunemente insegnato agli allievi degli scribi. Ma il «teorema di Pitagora», che

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era entrato nei libri di testo del II millennio a.C., era ancora noto a Babilonia al tempo di Pitagora? Gli esperti sull'antica Mesopotamia pensano di no; se invece lo era, Pitagora potrebbe ovviamente averlo imparato dagli scribi. Se portò via con sé la conoscenza del loro sistema numerico sessagesimale - fondato sul sessanta anziché sul dieci - nulla di tutto questo traspare nelle storie posteriori su di lui o sui suoi seguaci.

Se avesse ricercato contatti con i babilonesi che studiavano le stelle, Pitagora si sarebbe imbattuto in una raffinata astronomia. Se è vero che «l'antica scienza e l'antica filosofia naturale dei greci» potevano avere avuto inizio con l'osservazione da parte di Talete dell'eclisse di Sole del 28 maggio del 585 a.C., i dotti mesopotamici sapevano predire le eclissi già da moltissimo tempo prima. Anche qui non abbiamo prove che quel sapere così impressionante, e così ben documentato da tavolette scritte un migliaio di anni prima, fosse ancora noto agli scribi e astronomi mesopotamici del tempo di Nabucodònosor II. Il fatto che durante un'eclisse i babilonesi avessero predisposto un timpano sacro e lo percuotessero per scacciare i demoni che stavano oscurando la Luna non è un'indicazione sicura del fatto che l'antico sapere fosse andato perduto. È difficile immaginare persino una società moderna che rinunci a un tale spettacolo e divertimento solo a causa di una spiegazione scientifica! In seguito, nei periodi persiano ed ellenistico, un'astronomia mesopotamica altamente matematica usò dati d'osservazione che erano stati raccolti per secoli nei templi.

Pitagora non imparò la dottrina della reincarnazione a Babilonia.

Un babilonese - se si escludono le circostanze insolite che lo facevano svolazzare intorno come uno spirito funesto — moriva, andava nel triste mondo degli inferi e vi rimaneva.

Anche se Giamblico non può avere ragione quando sostiene che Pitagora trascorse circa trentaquattro anni in Egitto e in Babilonia (nessuna cronologia accettabile gli concede tutto quel tempo), ha probabilmente ragione quando dice che al tempo del suo ritorno a Samo solo pochi abitanti della sua isola natale lo riconobbero. Tuttavia, scrisse Giamblico, fece un'eccellente impressione col sapere che aveva accumulato e con le cose che raccontava, e molti gli chiedevano di mettere a parte di questo sapere i suoi concittadini. Pitagora accettò e cominciò a tenere le sue lezioni usando il «metodo simbolico», «analogo all'insegnamento egizio nel quale era stato educato» (V,

20). Questa parve un'idea eccellente a molti samii, ma lo sforzo mentale richiesto da tale insegnamento ne diminuì ben presto l'entusiasmo. Gli ascoltatori

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di Pitagora cominciarono a scemare, coloro che continuarono a seguirlo si impigrirono, e ben presto egli si ritrovò solo. Giamblico ritiene che Pitagora non si sia adombrato per questo.

Egli era ancora deciso a comunicare ai suoi concittadini il gusto della bellezza delle scienze ed era preoccupato di poter perdere le sue capacità e il suo sapere con l'avanzare dell'età. Adottò allora una nuova strategia: piuttosto che insegnare a una moltitudine, scelse un discepolo promettente.

Giamblico descrisse il discepolo di Pitagora come un giovane atleta povero ma dotato di talento, che Pitagora scoprì vedendolo giocare a palla nel ginnasio «con innata abilità ed eleganza». I due conclusero un accordo. Pitagora avrebbe fornito al giovane povero i mezzi per far fronte alle necessità della vita e l'opportunità di continuare a praticare le sue attività sportive, a condizione che egli permettesse a Pitagora di educarlo, a dosi facili (almeno secondo i canoni di Pitagora). Dapprima il giovane parve motivato soprattutto dalla ricompensa di tre oboli che Pitagora gli dava come premio per l'apprendimento di ogni dimostrazione con l'aiuto dell'abaco. Col passare del tempo Pitagora osservò che l'interesse del giovane cresceva, tanto da fargli sospettare che avrebbe continuato a seguire le lezioni anche senza gli oboli, persino a costo di soffrire per la sua situazione di bisogno. Per verificare questa sua impressione, fìnse di avere avuto un rovescio di fortuna, e di essere quindi costretto a rinunciare a proseguire le lezioni. Come Pitagora aveva sperato, il giovane dichiarò di essere pronto a imparare anche senza un compenso, e promise che avrebbe trovato un modo per provvedere non solo a se stesso, ma anche a Pitagora. Giamblico scrisse che questo giovane, per onorare il suo maestro, prese il nome di «Pitagora, figlio di Eratocle» e, unico fra i conoscenti di Pitagora a Samo, si trasferì con lui nell'Italia meridionale. Giamblico non dice da chi abbia preso quest'informazione, anche se menziona che la tradizione attribuiva a Pitagora, figlio di Eratocle, tre libri Sull'atletica, in cui si raccomandava agli atleti «un'alimentazione basata sulla carne anziché sui fichi secchi» (V, 25). Se egli trasse questa informazione dal suo maestro, essa sarebbe in contraddizione con notizie tratte da altre fonti, secondo le quali Pitagora sarebbe stato un vegetariano e avrebbe chiesto di seguire questa pratica anche ai suoi studenti e seguaci.

Con la fama di Pitagora come stretto vegetariano contrasta anche una storia concernente un altro suo discepolo. Anche Eurimene era un atleta, ma era piccolo. Mentre ci si preparava per i giochi olimpici c'era l'uso di mangiare solo formaggio fresco, fichi secchi e pane bianco. Pitagora consigliò invece a Eurimene di mangiare carne.

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Gli consigliò inoltre di non andare ai giochi per vincere ma per addestrarsi e apportare benefici al corpo. La dieta e la psicologia sportiva pitagorica fecero miracoli. Eurimene, nelle parole di Porfirio, «vinse a Olimpia grazie alla superiore conoscenza della sapienza di Pitagora». (*)

Secondo Porfirio, questi due atleti non furono gli unici discepoli di Pitagora in questo periodo. Egli aveva letto di un altro discepolo nel libro Sulle cose incredibili al di là di Tule, che usò per desumerne informazioni sul padre di Pitagora, insistendo che il suo autore vi aveva «trattato con tanta cura gli affari di Pitagora che penso non si debba ignorare il suo racconto». Porfirio non disse che si doveva credere necessariamente alle parole del suo autore. Nel corso di un viaggio d'affari, il padre di Pitagora, Mnesarco, scoprì sotto un pioppo un bambino piccolo, che giaceva supino e guardava senza batter ciglio il sole, bevendo le gocce di rugiada che gli cadevano in bocca dall'albero passando per una canna. Questo fatto colpì Mnesarco come una manifestazione divina, e prese accordi affinché il bambino fosse allevato da un amico nativo di quel paese; in seguito pagò per la sua educazione, lo chiamò Astreo e lo allevò insieme ai suoi figli. Pitagora accolse questo suo fratello adottato più giovane come

* Nel 588 a.C. ci fu un vincitore dei giochi olimpici di nome Pitagora di Samo, registrato negli elenchi molto attendibili di Eratostene, il famoso direttore della biblioteca di Alessandria che misurò per primo la circonferenza terrestre. Eratostene congetturò che quest'uomo e Pitagora il filosofo fossero la stessa persona. Ma perché quest'asserzione fosse vera, Pitagora il filosofo avrebbe dovuto nascere qualche decennio prima di quando si suppone, verso la fine del VII secolo. E avrebbe dovuto nascere ancora prima perché il Pitagora di Olimpia potesse essere identificabile con Eurimene (nell'ipotesi che egli avesse adottato il nome del suo maestro come aveva fatto il figlio di Eratocle). L'apparizione del nome di Pitagora di Samo fra i vincitori di Olimpia significa probabilmente solo che il nome Pitagora era già corrente a Samo prima che Mnesarco decidesse di chiamare così suo figlio in onore dell'oracolo pizio a Delfi. [L'aggettivo «pizio» usato in connessione con l'oracolo di Delfi o con l'Apollo di Delfi - donde anche il nome Pizia con cui si indicava la sibilla - deriva da «Pito» (Pythios), l'antico nome di Delfi. Così chiama Delfi Omero nel libro IX dell'Iliade (trad. di V.

Monti: «... quanto / tesor si chiude nel marmoreo tempio / del saettante Apollo in sul petroso / balzo di Pito». (N.d.T.)]

suo discepolo. Porfirio menziona anche un quarto discepolo, Zalmossi di Tracia, che «secondo alcuni» avrebbe preso anche il nome di Talete. Pur non

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avendo mai partecipato ai giochi di Olimpia, deve avere avuto una struttura fisica imponente, poiché dei barbari lo scambiarono per Eracle e lo adorarono.

Il libro Sulle cose incredibili al di là di Tule elencava le qualità che Pitagora cercava nei suoi discepoli. Il suo autore aveva appreso (non si sa da chi) che Pitagora non amava insegnare a chiunque si presentasse da lui, e che le sue scelte non si fondavano solo sull'intelligenza o sulla parentela. Egli osservava l'espressione facciale di un candidato, il suo linguaggio corporeo e la sua disposizione. Ricercava la modestia, e considerava la capacità di stare in silenzio più importante della prontezza a parlare. Osservava se il candidato era trasportato da desideri o passioni smodate, quanto si lasciasse prendere dall'ira, se fosse litigioso o ambizioso, se fosse incline più all'amicizia o alla discordia. Dopo che un candidato aveva superato quelle prove, Pitagora teneva conto della sua capacità di imparare, di memorizzare e di seguire rapidamente quel che si diceva. Era di primaria importanza quanto un giovane fosse motivato dalla temperanza e dall'amore.

Erano essenziali una gentilezza naturale e la «cultura», mentre erano decisamente negativi crudeltà, impudenza, pigrizia e licenziosità. Pitagora espelleva come «estranei e barbari» gli allievi che non si dimostravano all'altezza di queste attese.

Nel 535 a.C., quando la tirannide aveva sottratto il controllo ai geomori che avevano governato per vari decenni, salì al potere a Samo il più scellerato fra tutti tiranni, Policrate. Dapprima governò con due fratelli, ma ben presto si sbarazzò di loro. Samo continuò a crescere in potere e ricchezza ma non in popolarità fra i suoi vicini, poiché Policrate divenne un protagonista molto odiato e temuto nella politica del Mediterraneo orientale. La sua flotta era, a seconda di chi la descriveva, una delle flotte da guerra più superbe del mondo antico o una banda di pirati estremamente efficiente. Policrate si recò di persona in altri paesi per suggellare nuovi accordi e contrarre legami con sovrani come il faraone Amasi, ma tali accordi avevano in realtà ben poco significato in quanto egli faceva e disfaceva alleanze con spietata noncuranza.

Sotto Policrate Samo raggiunse il vertice delle sue fortune, non solo in termini di preminenza economica e politica (esercitata in senso alquanto negativo), ma anche nell'arte, nella letteratura e nell'in gegneria. Per qualche tempo fu la più potente di tutte le città-stato.

Pitagora visse a Samo solo per una parte di questo periodo, ma abbastanza a lungo per sperimentare l'animazione e la stimolazione intellettuale che

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caratterizzarono il regno altrimenti deplorevole di Policrate. Il tiranno fu il protettore del poeta Anacreonte e assunse l'ingegnere Eupalino per fargli costruire un nuovo porto e una galleria adduttrice per il trasporto d'acqua che fu una delle opere di ingegneria più sorprendenti del mondo antico. La galleria trasportava acqua da sorgenti sulla montagna sopra la città di Samo, mettendo fine così alla scarsità d'acqua per quanto secca fosse l'estate. (*) La flotta crebbe fino a raggiungere un centinaio di navi, ognuna con un migliaio di arcieri. Nonostante la diffusa impopolarità di Policrate e le sue lunghe assenze, nessuno lo scalzò dal trono finché nel 552 - dopo che Pitagora aveva abbandonato Samo — un governatore persiano della città di Sardi, in Lidia, ebbe la meglio su di lui con un inganno. Policrate accettò l'invito di una visita di stato, ma, quando arrivò, il governatore di Sardi lo fece prendere e crocifiggere.

È ragionevole credere, con Giamblico, che Pitagora non sia rimasto a Samo senza interruzioni prima del suo finale trasferimento a Crotone, in Italia, ma che abbia visitato oracoli, trascorso del tempo a Delfi, e che si sia recato a Creta e a Sparta per impararne le leggi, che erano diverse da quelle di Samo. Giamblico menziona proprio in relazione a quest'epoca la nascita di un interesse di Pitagora per gli affari pubblici. Anche Porfirio riteneva che Pitagora avesse lasciato per breve tempo Samo per andare a sottoporsi a una cerimonia d'iniziazione a Creta. Il supplicante che ricercava la purificazione presso «i sacerdoti di Morgos, uno dei Dattili dell'Ida», veniva purificato con una meteorite («la pietra del tuono meteorico»), giaceva a faccia in giù sulla spiaggia del mare e di notte accanto a un fiume, incoronato con una fascia di lana di agnello nero. Poi, avvolto in lana nera, scendeva nella caverna del monte Ida, dove rimaneva per ventisette giorni. Infine rendeva sacrificio a Zeus e gli veniva permesso di vedere il letto che i sacerdoti preparavano ogni anno per il «padre degli dèi». Pitagora, dopo avere terminato l'iniziazione, fece iscrivere sulla tomba di Zeus un epigramma che cominciava così: «Qui giace morto Zan,

* La galleria adduttrice e il porto esistono ancora, benché il porto sia sotto il livello del mare, coperto da costruzioni più recenti. È possibile visitare la galleria adduttrice e percorrerne un buon tratto a piedi. Il passaggio pedonale è separato e corre sopra il flusso d'acqua.

che gli uomini chiamano Zeus», lasciando intendere, a quanto sembrerebbe, che egli conoscesse o avesse conosciuto questo dio su una base più personale di altri uomini.

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Col passare del tempo la fama di Pitagora prese a diffondersi sempre più, uomini dotti venivano da altri paesi per avere conversazioni con lui, e potenziali discepoli accorrevano a lui. Egli servì Samo in compiti amministrativi, come ci si attendeva in quest'epoca da dotti importanti nel mondo greco. Spesso, però, si ritirava in una caverna fuori della città per discutere con alcune persone a lui strettamente legate. Gli abitanti di Samo identificano oggi come la caverna di Pitagora una caverna sui ripidi pendii boschivi del monte Kerketea, la montagna più alta dell'isola. Al crescere delle responsabilità pubbliche divenne però impossibile per Pitagora proseguire i suoi studi.

Inoltre, osservò Porfirio, egli vide che «il governo di Policrate stava diventando così violento che ben presto un uomo libero sarebbe diventato vittima della sua tirannia» e che «la vita in un tale stato non era adatta per un filosofo». Il coinvolgimento in una corte come quella di Policrate era pericoloso per un uomo che parlava onestamente. Motivato anche dall'insufficienza dei samii in tutte le cose concernenti l'educazione, Pitagora partì infine per l'Italia meridionale. Aveva sentito dire, riferì Giamblico, che in Italia «c'era una grandissima abbondanza di uomini ben disposti verso il sapere».

3. «UN UOMO DI IMMENSO SAPERE» 530-500 a. C.

All'inizio del settimo decennio del VI secolo a.C., una nave con a bordo Pitagora attraversò le acque a sud-ovest di Taranto alla volta della punta dello stivale italiano e della città portuale di Crotone.

Questa data è quella meglio stabilita nella vita di Pitagora. Una delle fonti antiche più attendibili, Aristosseno di Taranto, datò questo evento al 532/531 a.C. (*) La nave entrò in porto subito prima di un promontorio dove uomini e donne di Crotone veneravano nel loro santuario la dea Era. I passeggeri sbarcarono su moli brulicanti di altri viaggiatori, schiavi, marinai, artigiani e lavoratori provenienti dai cantieri, poiché Crotone era un porto importante e un altrettanto importante centro cantieristico in questa regione del Mediterraneo.

Le merci scambiate o commerciate qui venivano dalle coste della penisola italiana, non solo dalle città greche ma anche dalle comunità latine più a nord e da numerose altre regioni del Mediterraneo.

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Entro il perimetro della città di Crotone ci sono stati pochi scavi archeologici. La città moderna copre l'antica Crotone di Pitagora, e gli archeologi, frustrati, devono accontentarsi di quel che viene più o meno casualmente in luce quando si scavano le fondamenta di nuovi edifici. Oggi tuttavia sappiamo abbastanza per farci un'idea di com'era la città quando vi arrivò Pitagora. (1) Dietro il porto, il terreno saliva ripidamente fino alla cima di una collina, dove i coloni achei avevano costruito per la prima volta le loro case due secoli prima dell'arrivo di Pitagora. La collina era diventata in seguito un'acropoli, cosa che durò fino a quando i crotoniati non cominciarono a dedicare un'attenzione molto maggiore al tempio di Era sul promontorio. La Crotone del VI secolo a.C. comprendeva a quanto pare tre grandi blocchi di case orientati perpendicolarmente alla linea di co

* Giamblico collegò questa data con la vittoria ai giochi olimpici di Erissida di Calcide, la sua città natale. Diogene Laerzio concordò che la vittoria di Erissida doveva essersi verificata fra il 532 e il 528 a.C.

sta, con una divergenza di 30 gradi fra loro, in un tracciato geometrico impressionante ma non insolito a quel tempo, come ha evidenziato l'attività dei geomori a Samo. Pitagora camminò lungo strette strade esattamente allineate, intersecantisi ad angoli retti con viuzze più strette che isolavano singole case. I crotoniati avevano costruito questi edifici con grossolani blocchi in pietra, a volte anche con mattoni non cotti, con tetti di tegole e grandi pezzi di ceramica e mattonelle per proteggere i plinti delle pareti. Essi vivevano in stanze raccolte intorno a cortili, quasi senza finestre, affacciate sulle strade e sulle viuzze. Un uomo che fosse già stato a Babilonia si faceva l'idea che i crotoniati fossero più fiduciosi e amichevoli di coloro che vivevano in case simili a Babilonia, poiché a Crotone gli ingressi immettevano direttamente nei cortili.

Pitagora potrebbe forse aver conosciuto Crotone già da prima, poiché il porto e i cantieri della città calabrese si trovavano sulla rotta dalla Grecia allo stretto di Messina, alla Sicilia e al mar Tirreno, e c'erano storie che collegavano suo padre, mercante e navigante, con la costa tirrenica. A Crotone il clima era splendido e la regione era famosa per essere particolarmente salubre. Il mare non aveva il colore cobalto opaco del mare nativo di Pitagora, ma era di un azzurro gaio e trasparente, e la linea di costa sembrava senza fine, poiché ogni rialzo del terreno rivelava baie e cale e promontori fin dove poteva spingersi lo sguardo. Le basse colline erano coperte da foreste, così come alcuni promontori e le coste di piccole baie in prossimità della città, come pure le montagne sugli orizzonti settentrionale e

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occidentale. Gli alberi erano una delle risorse economiche più preziose di Crotone, così come per Samo, fornendo abbondanza di legname ai cantieri navali.

Pitagora sapeva certamente che la sua nuova città aveva prodotto almeno un grandissimo atleta e un grande medico. I successi conseguiti da Crotone ai giochi di Olimpia la facevano invidiare nel mondo greco, e nessun giovane greco, per quanto potesse essere assorbito da interessi culturali, poteva ignorare questa preminenza di Crotone nell'atletica. Ogni quattro anni gli atleti della città si recavano a gareggiare a Olimpia, sulla terraferma greca, e da circa due decenni prima della nascita di Pitagora avevano colto una messe continua di trionfi. Milone di Crotone vinse le gare di lotta in sei giochi olimpici coprendo un periodo di almeno ventiquattro anni - una lunga sequenza di successi per qualsiasi atleta, antico o moderno - e in sei giochi pitici, una competizione simile che si svolgeva a Delfi. Tutti avevano sentito dire che si era caricato un bue sulle spalle e che lo aveva trasportato per l'intera lunghezza dello stadio a Olimpia. Nel campo della medicina, Democede di Crotone aveva praticato la professione ad Atene, diventando poi il medico del tiranno Policrate a Samo. La fama e il successo di Democede furono tanto grandi che in seguito avrebbe prestato i suoi servigi addirittura per il persiano Dario il Grande. Pitagora, avendo deciso che «sua patria sarebbe stato quel paese che avesse il maggior numero di persone disposte ad apprendere (tò manthànein)», come riferì Giamblico (VI, 28), sbarcò nella celeberrima città di Crotone.

Il monumento religioso più importante di Crotone, il tempio di Era Lacinia, era situato su un promontorio al termine di una penisola che si protendeva in mare nei pressi della città. Quando arrivò a Crotone Pitagora, l'edificazione delle strutture principali del tempio era, nella migliore delle ipotesi, appena cominciata, ma ben presto la costruzione del tempio di Era a Crotone avrebbe rivaleggiato con quella del tempio di Samo dedicato alla stessa dea. Fra i tesori del tempio di Crotone c'era uno degli oggetti più belli ancora esistenti del mondo antico, un diadema di fiori d'oro squisitamente lavorati, custodito oggi in una teca di vetro nel museo della cittadina calabrese. Pitagora potrebbe averlo visto ornare la testa della statua della dea. I crotoniati che facevano doni al tempio erano cittadini cosmopoliti che veneravano Era, la madre di Zeus, come protettrice di tutte le donne e di tutti gli aspetti della vita femminile, e come Madre Natura, che guardava con occhio benevolo animali e naviganti.

Il diadema d'oro, risalente al VI secolo a.C., proveniente dal tempio di Era Lacinia a Crotone e custodito nel locale Museo Archeologico.

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I crotoniati governavano la loro città in un modo che poteva sembrare all'antica a un uomo abituato a vivere sotto Policrate. Il governo era un'oligarchia, com'era stato a Samo prima della tirannide di Policrate. Gli oligarchi si chiamavano i Mille, e sostenevano tutti di essere discesi da coloni arrivati due secoli prima di Pitagora dall'Acaia. La popolazione era cresciuta al punto che la terra arabile nelle strette valli di montagna era diventata insufficiente ai suoi bisogni, cosicché una parte degli abitanti, guidata da un uomo di nome Myskellos, aveva preso il mare verso occidente per tentare la fortuna nel golfo fra l'alluce e il tallone dello stivale italico. (2) Non erano «coloni» nel senso di rimanere subordinati e legati a una madrepatria.

Quel che era vero per molte città greche - anche se non c'è una definizione che si adatti a tutte — era vero per Crotone e per i loro vicini: la «sciamatura», come avviene nel caso delle api, è un termine descrittivo migliore di «colonizzazione». I greci delle città marittime indipendenti dell'Italia meridionale e della Sicilia avevano fatto bene ad abbandonare le loro strette valli di montagna ed erano probabilmente, al tempo di Pitagora, altrettanto ricchi e cosmopoliti di quelli che vivevano ad Atene. Le scoperte archeologiche dimostrano che i coloni di Myskellos non furono le prime persone a vivere a Crotone, ma che avevano spinto gli abitanti originari nell'interno e sulle montagne.

I rapporti fra le città attorno al collo dello stivale erano spesso antagonistici, ma a quanto pare Crotone non aveva una cinta di mura né possedeva fortificazioni. Forse queste difese erano rese superflue dalle distanze considerevoli fra le città. Tuttavia i crotoniati facevano visita alle altre comunità. Potevano forse esitare a recarsi a Sibari, la principale rivale e nemica di Crotone al tempo di Pitagora, che si crogiolava in un languore «sibaritico» su una vasta e fertile pianura costiera, circa 110 chilometri più a nord. Troviamo invece Pitagora in varie occasioni a Metaponto, 110 chilometri circa a nord di Sibari.

Tanto Sibari quanto Metaponto erano state, come Crotone, insediamenti achei, mentre gli spartani avevano colonizzato Taranto, una cinquantina di chilometri oltre Metaponto seguendo la linea di costa, o 225 chilometri per mare da Crotone. Gli abitanti di queste città potevano essere rimasti fedeli a una qualche identità achea o spartana, ma il più ampio mondo greco li raccoglieva insieme nel nome collettivo di italioti, mentre invece i loro vicini a nord-ovest, nelle regioni latina ed etrusca, li chiamavano greci. Per i greci questa regione era la Megale Hellas,

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per i latini la Magna Graecia. Infine avrebbe attecchito il nome latino, poiché uno di quei vicini latini, 560 chilo

Cartina La Magna Grecia nell'antichità metri circa a nord-est, sulla costa tirrenica della penisola, era Roma, destinata a dominare in seguito l'intera regione e gran parte del mondo occidentale e del Vicino Oriente.

Coloro che vissero nell'Italia meridionale al tempo di Pitagora non ebbero alcuna premonizione del fatto che alcuni progetti insolitamente ambiziosi in corso a Roma - la trasformazione di una piccola comunità vecchia di secoli in una città progettata secondo linee etrusche, che cresceva su un colle dopo l'altro e si espandeva lungo le loro pendici in un territorio più paludoso, prosciugando gli acquitrini nella valle e pavimentandola per farne un foro — erano solo le prime manifestazioni di una propensione alle costruzioni, alla conquista e all'espansione che avrebbe infine fatto sembrare la Magna Grecia quasi un sobborgo. Gli storici greci non si accorsero di Roma finché questa non fu sul punto di completare la sua conquista, 250 anni dopo Pitagora. Roma, per parte sua, era troppo assorbita dalla pianificazione e costruzione della città e dalle guerre che si stavano combattendo all'epoca in cui visse Pitagora per avere una piena consapevolezza di ciò che stava accadendo nella Magna Grecia. Mentre stava emergendo come potenza mondiale, avrebbe però creato per se stessa una tradizione e una storia che la ricollegavano ai nemici dei greci, a Troia, ai troiani, e che avrebbe fatto di Pitagora il maestro di uno dei suoi primi re, Numa Pompilio. Pitagora non fu certamente maestro di Numa, che mori molto tempo prima della sua nascita, ma i romani istruiti non potevano credere che i loro antenati del tempo di Pitagora non sapessero nulla di quel grande sapiente. Benché Crotone e le città vicine stessero commerciando attivamente, su un piano di uguaglianza, e probabilmente anche di superiorità, con Roma e altri centri latini ed etruschi, i più importanti amici e nemici di Crotone erano più vicini a Roma, sulle coste meridionali e nel più vasto mondo dell'Egeo e del Mediterraneo a est, sud e ovest. A volo d'uccello, e anche seguendo la più tortuosa ma più sicura rotta costiera, Crotone era più vicina alla terraferma greca che a Roma. (*)

Pitagora aveva una quarantina d'anni quando si insediò a Crotone, dove sarebbe vissuto per tre decenni circa. Si procurò rapidamente rinomanza e rispetto e ben presto raccolse intorno a sé un gruppo locale di persone in una società che prese il suo nome. I membri della società lo trattavano con grande riverenza, e quel che aveva detto Pitagora diventava l'ultima parola su ogni argomento. Fra coloro che entrarono nella sua associazione c'erano comuni cittadini, nobili e donne.

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Giamblico e Porfirio si basarono su Dicearco — un discepolo di Aristotele i cui scritti erano una delle fonti più antiche disponibili a qualsiasi studioso di Pitagora - nel descrivere il modo usato da Pitagora per rivolgersi alla gente di Crotone. Originario di Messina, a breve distanza per mare da Crotone, Dicearco era al culmine della sua carriera nel 320 a.C., 180 anni circa dopo la morte di Pitagora.

Quando Giamblico aggiunse particolari - ampliando notevolmente le esposizioni di Porfirio o di Diogene Laerzio — non diede alcuna indicazione sulle sue fonti. Si ha l'impressione che egli potesse supporre senza correre rischi che i suoi lettori sapessero - o pensassero di sapere — molte cose su Pitagora. Il sapiente di Samo era l'equivalente di molti personaggi moderni che possono essere menzionati in un te

* Nel XXI secolo, dopo 2600 anni, la popolazione dell'ex Magna Grecia non si identifica ancora totalmente con l'Italia centralizzata moderna. I vecchi atteggiamenti e le vecchie identità sono duri a morire.

legiornale o in una situation comedy, o anche in una caricatura, senza che ci sia alcun bisogno di dare spiegazioni.

Ci fu una possibile fonte di informazioni, poi andata perduta, sugli anni trascorsi da Pitagora a Crotone, che aggiungerebbe credibilità ai dettagli della tradizione, se solo si potesse essere certi che essa sia effettivamente esistita. Gli studiosi più scettici la rifiutano, mentre altri ipotizzano come non improbabile la sua esistenza. Porfirio la ritenne vera. Riferendosi a un periodo successivo alla morte di Pitagora, quando molti membri della sua setta erano stati uccisi, Porfirio scrisse:

Ora i pitagorici evitarono il consorzio umano, essendo solitari, rattristati e dispersi. Temendo tuttavia che fra gli uomini si estinguesse totalmente il nome della filosofia [...], ognuno si fece una propria collezione di autori scritti e di proprie memorie, e alla propria morte incaricava le vedove, i figli e le figlie di conservarle all'interno della loro famiglia. Questo mandato di trasmissione delle memorie all'interno della propria famiglia fu osservato per molto tempo. (3)

Secondo Porfirio, questi diari e collezioni personali, davano probabilmente alla tradizione semistorica un fondamento di fatto migliore di quello che si sarebbe altrimenti avuto, e ad essi si doveva probabilmente la sua maggiore abbondanza di

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dettagli, molti dei quali non sono identificabili, come avviene con la pura leggenda. Alcuni di questi materiali circolanti in seguito nella letteratura pseudopitagorica erano certamente dei falsi, e sulla loro presunta autenticità potrebbe essersi fondata la fede di Porfirio e di altri nella realtà dei diari.

D'altro canto, l'esistenza di diari o memorie con particolari inventati non significa necessariamente che quei materiali non fossero autentici, ma solo che intorno a Pitagora erano circolate molte voci e che la presentazione di uno di quei testi come un «libro di memorie» pitagoriche poteva assicurarne un buon successo di vendite.

Nella narrazione di Giamblico, fondata probabilmente su Dicearco, Pitagora cominciò a rivolgersi ai crotoniati conversando con qualche giovane incontrato nel gymnasium. Difficilmente si sarebbe potuto trovare un modo più sicuro per ingraziarsi i genitori che esortando i giovani a onorare gli anziani (VIII, 37-40), a praticare la temperanza e a coltivare l'amore per il sapere, ma Pitagora doveva avere anche un carisma sorprendente, poiché pare improbabile che un tale insegnamento potesse sollevare un grande entusiasmo fra i giovani.

Sentendo parlare di lui dai loro figli, i membri dei Mille invitarono Pitagora a partecipare alle loro assemblee, condividendo con loro quelli fra i suoi pensieri che riteneva vantaggiosi per i crotoniati in generale. Un tale invito non era insolito in una città greca, specialmente quando la genealogia di un uomo nel suo paese natale era altrettanto inappuntabile di quella di un qualsiasi dignitario locale.

L'apostolo Paolo, subito dopo il suo arrivo ad Atene, fu similmente invitato a parlare davanti all'Areopago, dove ateniesi e forestieri «non passavano il tempo in altro modo che a dire o ad ascoltare quel che c'era di più nuovo». (4) In una città cosmopolita come Crotone, i cittadini di alto rango erano ansiosi di ascoltare un uomo arrivato da una località straniera ancora più cosmopolita.

Pitagora accettò l'invito. Alcuni suoi consigli (a quanto riferisce Giamblico) erano prevedibili, altri insoliti: egli suggerì di costruire un tempio alle Muse per celebrare consonanza, armonia e ritmo, e tutte le cose in grado di condurre alla concordia. Consonanza, armonia e concordia avrebbero avuto un posto centrale nella dottrina pitagorica, e anche nel neopitagorismo dell'epoca di Giamblico. Consideratevi uguali a coloro che governate, non loro superiori, consigliò Pitagora a coloro che gestivano il potere. Esercitate la giustizia, senza che alcun

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membro del governo se la prenda a male se qualcuno lo contraddice. Non rimandate mai la realizzazione di un progetto. A casa, sforzatevi consapevolmente di procurarvi l'amore dei vostri figli, poiché mentre altri patti sono registrati su tavolette e iscrizioni, i patti della famiglia sono registrati nei figli. Non separate mai i genitori dai loro figli: sarebbe il più grande di tutti i mali. Evitate i rapporti sessuali con chiunque non sia vostro coniuge. Se cercate un onore cercatelo come fa un corridore, evitando di danneggiare i vostri competitori, e cercando di conseguire la vittoria solo per i vostri meriti. Se cercate la gloria, cercate di diventare quel che vorreste sembrare di essere (IX, 49).

La semplicità e il fascino di questo elenco - e la sua mancanza di pomposità e di ricercatezza - gli conferiscono un'aria di genuinità.

Questi insegnamenti potrebbero essere solo idee tardo-romane di Giamblico attribuite a Pitagora, ma erano il tipo di consigli che sarebbero stati ricordati in una storia orale o in un diario e che sarebbero apparsi, attinti da antiche fonti pitagoriche o coniati ex novo, negli insegnamenti dei vari gruppi che si considerarono pitagorici nei secoli che separarono Pitagora da Giamblico. Il racconto di Giamblico prosegue dicendo che gli anziani furono impressionati dal suo discorso. Essi fecero costruire il tempio alle Muse e molti mandarono via le loro concubine. Chiesero a Pitagora di rivolgersi ai giovani in un ambiente formale, il tempio di Apollo Pizio, e di parlare anche, nel tempio di Era, alle donne della città, la cui inclusione nella comunità pitagorica fu un tema forte nella tradizione di questa corrente filosofica (IX, 50).

Nel discorso ai giovani, scrisse Giamblico, Pitagora ripetè quel che già aveva insegnato ai giovani incontrati nel gymnasium, aggiungendo che non dovevano offendere nessuno, né vendicarsi di qualcuno che li avesse offesi, e che dovevano abituarsi ad ascoltare come modo per imparare a parlare. Giamblico interpolò qui un'opinione personale, dicendo che Pitagora meritava di essere chiamato divino già per questi insegnamenti morali.

Nel discorso alle donne, scrisse sempre Giamblico, Pitagora espresse un alto elogio alla pietà femminile, particolarmente importante in una città la cui dea era connessa con tutte le questioni concernenti le donne. Egli raccomandò equità e modestia e offerte appropriate anziché sangue e animali morti o qualcosa di eccessivamente costoso. Le donne dovevano essere gaie nella conversazione e comportarsi in modo che gli altri potessero parlare solo bene di loro. Una donna doveva sapere che era giusto che amasse il marito più dei genitori. Non doveva opporsi al marito, anche se era accettabile che discutesse delle cose con lui e fosse

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di diverso parere; e se il marito avesse accettato le sue ragioni, lei non doveva interpretare questa disponibilità nel senso che si fosse assoggettato a lei. Giamblico riferì poi un altro successo di Pitagora che sembra troppo bello per essere vero: a Crotone la fedeltà dei mariti divenne proverbiale. Le donne offrivano i loro indumenti più costosi al tempio di Era, «per poter conseguire la medesima buona reputazione» dei loro mariti (XI, 57).

Benché Giamblico fornisca un maggior numero di particolari rispetto a Diogene Laerzio e a Porfirio, gli ultimi due dedicano maggiore attenzione a quel che Pitagora insegnò ai crotoniati. Diogene Laerzio riferì un insegnamento di cui Giamblico non fa menzione: alcuni uomini sono «schiavi della gloria», come quelli che vanno a gareggiare in grandi giochi «per lottare». Altri sono «cacciatori di guadagno», come quelli che vanno ai giochi per «commerciare». Altri vanno ai giochi semplicemente «per assistervi». Questi sono i «filosofi avidi della verità». Ventisei secoli dopo Pitagora (e circa diciassette dopo Diogene Laerzio), Bertrand Russell avrebbe tratto grande vantaggio da questa distinzione pitagorica. Diogene Laerzio menzionò anche il consiglio di non «pregare per noi stessi, perché non sappiamo che cosa ci sia utile». (5)

Giamblico compendiò l'insegnamento di Pitagora in quella che chiamò l'«epitome che Pitagora fece delle proprie opinioni», opinioni che avrebbe continuato a sottolineare in privato e in pubblico: si doveva tentare con tutti i mezzi possibili di estirpare la malattia dal corpo, l'ignoranza dall'anima, il superfluo dal ventre, la sedizione dalla città, la discordia dalla famiglia e l'eccesso da tutte le cose.

Giamblico elogiò anche il metodo d'insegnamento di Pitagora: non elencare fatti e precetti ma insegnare cose (come la capacità di restare in silenzio) che potessero preparare i suoi ascoltatori a imparare la verità anche in altre materie.

Porfirio descrisse la splendida impressione fisica fatta da Pitagora: «aveva aspetto nobile e grande, e moltissima grazia, e grande decoro nel parlare e nel comportarsi». «Aveva ottenuto dalla fortuna ottima natura» (*) (Vita Pythagorae, 18).

Secondo Giamblico i seguaci che ben presto si raccolsero intorno a Pitagora assommarono a seicento (VI, 29). I membri del cenacolo ricevettero il consiglio di non considerare alcuna cosa come esclusivamente propria, scrisse Diogene Laerzio. Pitagora sarebbe stato il primo «a proclamare comuni i possessi degli

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uomini e l'uguaglianza» (VIII, 10). Essi dovevano mettere in comune tutto ciò che possedevano e portare tutti i loro beni in un deposito. A quanto pare, come sembra confermare un incidente accaduto più tardi, a Siracusa, moltissimi pitagorici si erano uniformati a questa disposizione. A causa di questa condivisione, i seguaci di Pitagora divennero noti come cenobiti, dal termine greco per designare «la vita in comune».

Non tutti i pitagorici avevano però una posizione uguale all'interno della comunità. I seicento erano i discepoli di Pitagora, i «filosofi», scrissero Giamblico, Porfirio e la loro fonte Nicomaco. C'era poi un gruppo molto più numeroso, quello degli «uditori, chiamati 'acusmatici'» (VI, 30), circa duemila uomini che insieme alle loro mogli e ai loro figli si raccoglievano in una casa così grande da assomigliare a una città, costruita al fine di andare a imparare leggi e precetti da Pitagora. Pare difficile credere che queste persone, fra le quali c'erano probabilmente molti dei cittadini più influenti e prosperi di Crotone, lasciassero le loro occupazioni per andare ad ascoltare il filosofo.

Secondo i tre filosofi, però, essi vissero tutti insieme in pace per un

* Porfirio dice di aver tratto quest'informazione direttamente da Dicearco.

certo periodo, si tennero l'un l'altro in grande stima e misero in comune almeno una parte delle loro proprietà. Molti, a quanto pare, avevano una riverenza tanto grande per Pitagora da metterlo allo stesso livello degli dèi e considerarlo una divinità benefica, ma Giamblico osservò, contro la narrazione di Nicomaco, che forse non tutti lo consideravano veramente un dio. Nel trattato Sulla filosofia pitagorica,, Aristotele scrisse che secondo i pitagorici, «degli esseri viventi dotati di ragione uno è dio, l'altro è l'uomo e il terzo ha la natura [intermedia] di Pitagora» (VI, 31).

Quando Pitagora arrivò a Crotone, la città si trovava in un periodo di riflusso di potenza militare e di influenza. Le comunità della Magna Grecia erano in uno stato cronico di conflitto, interno ed esterno, e ognuna tentava, con vario successo, di dominare e asservire l'altra.

L'ultimo triste capitolo in questa storia era stata l'imbarazzante sconfitta di Crotone da parte dell'esercito della città di Locri, sul fiume Sagra, qualche chilometro verso sud. Giamblico chiamò la città di Crotone «celeberrima» (VI, 29), ma nel 530 a.C. la città stava leccandosi le ferite conseguenti a quel disastro, mentre Sibari era ancora un gioiello nella corona delle città coloniali greche.

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Crotone controllava tuttavia un territorio considerevole. La sua chora normalmente riconosciuta si estendeva almeno fino a quelli che sono oggi i fiumi Neto a nord, in direzione di Sibari, e Tacina a sud. Appartenevano a Crotone i territori costieri compresi fra le foci dei due fiumi (con la città in posizione centrale), e lontano dalla costa il territorio di Crotone si estendeva sulle montagne, dove i tributari dei due fiumi hanno origine fra ripidi pendii e valli strette e profonde, (*) che ricordano la madrepatria degli antichi coloni nell'Acaia. Nei due secoli trascorsi da quando Myskellos aveva trasportato a Crotone quei coloni, le foreste costiere avevano cominciato a sparire e i terreni più vitali per la popolazione crotoniate erano ora pianure argillose a sud della città, bagnate da numerose sorgenti e da altri due

* In alcuni fra i villaggi più remoti su quelle montagne, le popolazioni del XXI secolo parlano ancora una forma di greco che i linguisti non identificano né col greco moderno né col greco bizantino portato in Italia all'inizio del Medioevo da greci cristiani dell'impero di Bisanzio, bensì con una forma antica della lingua, che oggi non è più parlata quasi in nessun'altra parte del mondo.

fiumi e divise in fattorie che coltivavano grano e cereali. Altre aree disboscate a nord erano adatte all'allevamento del bestiame.

Una comunità si attendeva inevitabilmente che un uomo come Pitagora assumesse un ruolo pubblico, e lui e i suoi amici lo fecero subito, o consigliando i capi dell'oligarchia o entrandone a far parte loro stessi. I pitagorici divennero influenti, forse anche molto influenti, non solo nella città e nei suoi dintorni, ma anche in altre comunità della regione. Porfirio riferì che Pitagora fu così straordinariamente convincente che il tiranno di Centuripe, Simico, «udito il discorso di Pitagora, abdicò al suo ruolo e divise la sua proprietà fra sua sorella e i cittadini». Le tradizioni locali concordano ancor oggi con gli storici antichi nel ritenere che Pitagora ispirò un amore di libertà nelle città della Magna Grecia e ne ripristinò l'indipendenza individuale, e che lui e i suoi seguaci ebbero un tale successo nello sradicare faziosità, discordia e sedizione e nello stabilire giuste leggi, che le città fiorirono in pace per varie generazioni e divennero modelli per le altre prima di ricadere nelle controversie e in uno stato di guerra. L'«amore per la libertà» potrebbe essere un ideale posteriore attribuito ai pitagorici col senno di poi. Il pensiero politico nel mondo greco al tempo di Pitagora vedeva il buon governo non in termini di quanta libertà venisse concessa ma in termini di ordine e benessere della comunità. (6) Diogene Laerzio raccolse l'informazione che Pitagora diede ai crotoniati una costituzione, e che lui e i suoi seguaci furono

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un'«aristocrazia» nel senso più alto e letterale della parola: «governo dei migliori».

Nel 510 a.C., vent'anni dopo l'arrivo di Pitagora in Calabria, il lottatore vincitore dei giochi olimpici Milone, capace di caricarsi un bue sulle spalle, guidò l'esercito di Crotone contro la sua opulenta vicina Sibari. Come un Talete redivivo, Milone - che era diventato un seguace di Pitagora - avrebbe messo in pratica il suo tipo personale di idraulica militare, deviando il corso del fiume Crati per inondare la città nemica, e l'esercito della Crotone pitagorica rase al suolo Sibari. La Sibari moderna occupa un sito diverso da quello della Sibari greca. Poiché l'antica Sibari perì definitivamente in conseguenza della sconfitta a opera di Crotone, il suo sito archeologico, sepolto sotto una città romana e sotto parte della Via Appia, ha fornito una ricchissima varietà di manufatti. Fra questi ci sono recipienti in ceramica del VII secolo a.C. grandi come zuccheriere moderne, i cui coperchi sono decorati con quelli che sarebbero stati chiamati in seguito triangoli pitagorici. Quella distrutta da Milone fu una città ricchissima, colta - in effetti «sibaritica» —, ma benché gli archeologi abbiano compiuto estese ricerche, l'unica traccia dell'antica città greca visibile ai moderni visitatori è una buca piena d'acqua sotto gli scavi della città romana.

Scomparsa Sibari, l'influenza di Crotone nella regione raggiunse un apogeo, e gli storici attribuiscono a Pitagora, e in particolare all'insegnamento e all'addestramento da lui iniziati, il merito di avere determinato questa ascesa delle fortune della città. Se dobbiamo credere a Diogene Laerzio, a Porfirio e a Giamblico - e gli studiosi moderni non rifiutano le loro informazioni - Pitagora fu un esempio ante litteram, e si potrebbe dire anche quello di maggiore successo nella storia, del «re filosofo» di Platone.

Oppure tutto ciò fu solo una mistificazione? In effetti c'è una versione più fosca della tradizione, secondo la quale Pitagora e i suoi seguaci avrebbero governato in un modo autocratico, repressivo. In questa rilettura della storia, la guerra con Sibari ebbe inizio quando Crotone, su insistenza di Pitagora, diede asilo a cinquecento cittadini di Sibari che erano stati privati delle loro proprietà e banditi. Una riforma sociale a Sibari aveva giustificabilmente confiscato le eccessive ricchezze di questi cinquecento cittadini distribuendole ai poveri, e la simpatia di Pitagora per gli esiliati in precedenza molto ricchi lo mise in una luce sfavorevole come difensore di uno status quo autocratico e repressivo. Questa storia non è in realtà in contraddizione col presunto egualitarismo dei pitagorici, in quanto non c'è alcuna prova del fatto che il loro egualitarismo si applicasse alla società in generale al di fuori della fratellanza pitagorica. Nessuno sa quali ragioni

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potesse avere Pitagora per ripristinare lo status quo a Sibari, o se le sue riforme a Crotone fossero motivate da demagogia personale, dalla volontà di rafforzare la struttura di classe aristocratica, o da un desiderio di trasformare le comunità per conformarle a norme morali più alte. Tutti gli antichi biografi - e i ferventi rivoluzionari dell'Europa del Settecento e dell'Ottocento — erano convinti che la sua ragione fosse l'ultima.

Prove indipendenti parlano a favore dell'impatto di Pitagora sull'economia di Crotone. I numismatici attribuiscono a lui e ai suoi seguaci l'introduzione di monete con un disegno incuso (col disegno della moneta incavato anziché in rilievo, il tipo di coniazione usato a Crotone e nell'area da essa governata). Queste monete erano belle e difficili da coniare, e coloro che hanno familiarità con la storia della monetazione riconoscono la stranezza e l'importanza della loro improvvisa apparizione in questo tempo e luogo, senza alcun processo di evoluzione apparente che ne determini o ne spieghi l'emergere. La storia della monetazione non funziona normalmente in questo modo. Non che queste fossero le prime monete coniate. Ce n'erano già state, per esempio in Lidia, la regione a est di Mileto, prima del 700 a.C. Ma un'innovazione come quella delle monete coniate a Crotone sembrerebbe presupporre un uomo sapiente in molti campi, un «genio della statura di Leonardo da Vinci», nelle parole dello storico C.T. Seltman. (7) Data l'area in cui le monete furono usate e l'epoca della loro apparizione, l'inventore per eccellenza sembra essere stato Pitagora, figlio di un mercante importante con esperienza di un mercato a livello mondiale, che aveva familiarità (se suo padre era un incisore di gemme) con bei disegni di piccole dimensioni, e che era abile nei numeri. Aristosseno, che aveva amici fra i pitagorici del IV secolo a.C., scrisse che Pitagora introdusse certi tipi di pesi e misure ma staccò lo studio dei numeri dalla mera pratica mercantile, implicando che Pitagora aveva capito l'uso dei numeri anche in connessione con quella pratica. È difficile credere che egli non abbia avuto niente a che fare con l'invenzione e l'introduzione della considerevole coniazione crotoniate.

Benché Pitagora si sia fatto indubbiamente molti nemici, pare che per molti anni questo fatto non abbia granché ostacolato lui o i suoi seguaci. La leadership dei pitagorici si estese molto oltre l'area dominata da Crotone sia mentre Pitagora visse qui sia nei cinquant'anni seguiti alla sua morte o al suo esilio, fino a Caulonia nel sud (quasi alle porte della vecchia nemica Locri) e al santuario di Apollo Aleo a Ciro Marina nel nord (molto vicino a Sibari). L'acquisizione di Ciro Marina fu un'impresa da celebrare, giacché già a quest'epoca la località era famosa per il suo ottimo vino. A ovest l'influenza di Crotone si estese fin quasi al

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mar Tirreno, a Terina. Questa fu la massima espansione raggiunta da Crotone. La città calabrese, dopo tutto, non era Roma.

Porfirio, più di Giamblico o di Diogene Laerzio, sottolineò il silenzio dei pitagorici e ne riconobbe non soltanto il valore positivo ma anche la misura in cui si sarebbe rivelato disastroso per la tradizione pitagorica. È frustrante trovare che, benché Porfirio abbia menzionato la grande impressione fatta da Pitagora sull'oligarchia crotoniate e abbia descritto gli inviti dei Mille a Pitagora a rivolgersi ai ragazzi e alle donne — e benché sia stato lo stesso Porfirio a identificare Dicearco come fonte di quest'informazione -, non abbia poi sostenuto di essere in grado di riferire con qualche sicurezza i dettagli di ciò che Pi tagora diceva ai suoi uditori. Porfirio attribuì la mancanza di quest'informazione al silenzio pitagorico. Poiché tutt'e tre i biografi sbagliarono nel senso di credere troppo alle loro fonti piuttosto che troppo poco, la riluttanza di Porfirio rende particolarmente credibile quel che egli disse sul silenzio pitagorico. Secondo lui Pitagora e coloro che lo seguirono durante la sua vita non rivelarono le loro idee, princìpi o insegnamenti, o i dettagli della loro disciplina ad altri. Essi non si limitarono a rimanere in silenzio, ma non misero nulla per iscritto.

In gran parte a causa di questo segreto, molte delle informazioni su Pitagora ci sono pervenute nei secoli in forma frammentaria, per sentito dire, consistendo in ciò che altre persone pensavano che lui e i suoi confratelli insegnassero, e nel loro modo di vita.

Porfirio non fu l'unico a insistere sul silenzio pitagorico. Diogene Laerzio sottolineò che ce n'erano due tipi. Da un lato il «silenzio» consisteva nel mantenere la dottrina segreta agli estranei; dall'altro significava mantenere un silenzio personale per ascoltare e imparare, e questo silenzio si applicava particolarmente agli aspiranti discepoli.

Per cinque anni essi rimanevano silenziosi ascoltando gli insegnamenti. Solo a quel punto, se erano stati approvati, veniva loro permesso di incontrare il maestro e venivano ammessi nella sua casa.

Il vantaggio che si conseguiva dal fatto di restare in silenzio era un tema antico, che si trova anche nei capitoli della Sapienza (Liber Sapientiae) nell'Antico Testamento e che fu raccolto dai Padri della Chiesa qualche generazione dopo Giamblico.

Il primo tipo di silenzio si estese al punto di non mettere nulla per iscritto? Dei tre biografi di Pitagora del III e IV secolo d.C., Diogene Laerzio fu l'unico a

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insistere che Pitagora mise per iscritto alcune delle sue dottrine, ma la sezione della sua biografia dedicata alle opere di Pitagora è confusa e poco convincente. Egli cominciò procedendo su un terreno malfermo:

Alcuni affermano che Pitagora non lasciò neppure uno scritto, ma sbagliano. Eraclito il Fisico parla abbastanza chiaro di lui, quando dice: «Pitagora, figlio di Mnesarco, superò di gran lunga tutti gli uomini nell'esercizio della ricerca. E si fece una scelta di questi scritti da cui derivò la vasta sapienza, che così risulta varia erudizione e ambiguo artifìcio». (VIII, 6).

Sembrerebbe, contro Diogene Laerzio, che quel che Eraclito dice fosse che Pitagora sapeva leggere e plagiare, non che scrisse qualcosa di suo. Diogene Laerzio aveva però ragione nel ritenere che le parole di

Eraclito meritassero un serio esame perché il periodo della sua vita coincise probabilmente in parte con quello di Pitagora e i suoi commenti su di lui sono fra i più antichi che ci siano pervenuti. Benché la filosofia di Eraclito sembri a volte riecheggiare toni pitagorici, se egli ebbe mai qualcosa di buono da dire su Pitagora non ne rimane traccia. Eraclito fu del resto raramente ben disposto verso chiunque altro.

Egli ebbe un atteggiamento di spregio nei confronti della maggior parte dell'umanità, e in particolare dei sapienti eruditi in molte discipline, uscendosene con osservazioni sprezzanti come: «L'erudizione non insegna ad avere intelligenza; altrimenti l'avrebbe insegnato a Esiodo e a Pitagora e inoltre a Senofane e a Ecateo» (Diogene Laerzio, IX, 1). In ogni modo non è il caso di considerare la diatriba di Eraclito una prova che Pitagora abbia scritto un libro.

Diogene Laerzio non era neppure convinto che Pitagora fosse autore di tutte le opere che gli venivano attribuite, ma credeva che si dovessero a Pitagora tre libri che ancora esistevano al suo tempo.

In tal caso, però, essi dovettero sparire rapidamente o essere screditati, poiché solo qualche anno dopo Porfirio scrisse: «Non lasciò libri». C'erano molte ragioni per essere scettici sulla paternità dei libri elencati da Diogene Laerzio, considerando il numero di falsi testi pitagorici apparsi durante i periodi ellenistico e romano. L'informazione che Pitagora scrisse poemi sotto il nome di Orfeo venne però da una fonte anteriore, più attendibile. Ione di Chio, un dotto, poeta tragico e biografo nato poco dopo la morte di Pitagora, tentò di determinare la vera fonte di

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alcune poesie che molti pensavano fossero state scritte da Orfeo. Egli decise che il loro autore dovesse essere Pitagora e che proprio lui le avesse attribuite a Orfeo.

4 «LA MIA VERA RAZZA È CELESTE» VI secolo a. C.

Un'infanzia trascorsa in una prospera famiglia agraria, coinvolta anche nel mondo dei commerci incentrato su Samo, col suo tempio di Era, aveva collocato Pitagora a un crocevia di credenze diverse sulla vita dopo la morte. Se nel mondo degli antichi greci c'era una visione ortodossa dell'aldilà e dell'immortalità, era quella che si rifletteva nell'epica di Omero e in seguito nei culti ufficiali delle città e in molta della grande letteratura. Un'anima umana, o psyche, sopravviveva sì dopo la morte, ma questa sopravvivenza non esercitava una grande attrazione. Per gli eroi omerici il vero «sé» era il corpo, e la vita stessa era strettamente legata ad esso. Che valore poteva avere sopravvivere in una forma che non poteva più trarre alcun piacere dalle feste, dai combattimenti, dall'amore umano, dal sesso, dal cameratismo? La morte separava l'individuo da tutto questo, lasciando l'anima in uno stato debole ed esangue: un'ombra, un sogno, un fumo, uno stridente pipistrello. Soltanto gli dèi godevano di un tipo migliore di immortalità, ma non nel senso che sopravvivessero alla morte, poiché non morivano mai. Inoltre essi vigilavano gelosamente sulla loro immortalità. Guai a qualsiasi essere umano avesse tentato di superare i limiti e conseguire l'immortalità degli dèi.

Parallelamente a questo complesso principale di credenze, le persone che vivevano in campagna, e in parte anche nelle città, si aggrappavano a centinaia di piccoli aggregati di nozioni diverse, così antiche che nessuno poteva determinarne l'origine, i quali fornivano risposte migliori a domande sollevate da un mondo ingiusto e suggerivano che ci sarebbero stati futuri compensi per l'ingiustizia e le sofferenze patite. Un «culto misterico» aveva trovato il suo centro nella cittadina di Eleusi, e quando questa cittadina divenne parte di Atene qualche anno prima della nascita di Pitagora, il culto crebbe al di là della sua origine locale e si diffuse nel mondo greco. Esso richiedeva l'iniziazione ai misteri della dea madre Demetra e di sua figlia Persefone: una sorta di adozione nella famiglia degli dèi che comportava una vita più felice nell'aldilà. Dopo l'iniziazione si potevano

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proseguire le normali attività della propria vita quotidiana senza essere soggetti a nuovi gravosi oneri.

Il culto orfico implicava invece un insieme complicato di credenze in cui l'anima era un miscuglio di divino e di terreno. Lo sviluppo della parte divina e la soppressione di quella terrena richiedevano un perseguimento incessante della purezza, comprendente cerimonie di purificazione rituale e l'astensione dal consumo di carne. L'assolvimento di questo compito richiedeva più di una vita. Un'anima rinasceva più volte, reincarnandosi ogni volta in un essere diverso, e la condotta che aveva tenuto in una vita determinava la sua sorte nella vita seguente. L'obiettivo ultimo era quello di ridiventare uno con Bacco, ossia «un Bacco».

L'orfismo aveva radici, prima dell'epoca storica, nel culto di Dioniso, altro nome dello stesso Bacco, che in principio era stato probabilmente un dio della fecondità e solo in seguito era stato identificato col vino e con l'ebbrezza. Era un dio dei traci, un popolo agricolo che viveva a nord della Grecia di terraferma, nell'area delimitata dal mare Egeo, dal mar Nero e dal Danubio. I greci consideravano i traci dei barbari primitivi, e lo storico del V secolo a.C. Erodoto li descrisse come un popolo che «conduceva una vita miserabile ed era piuttosto stupido». Quando, all'inizio dell'epoca storica, il culto di Dioniso/

Bacco raggiunse la Grecia, fu accolto con ostilità, ma il suo carattere eterodosso e sfrenato gli conferì un fascino irresistibile, che fu descritto nella tragedia di Euripide Le Baccanti. Quel culto esaltava la condizione delle donne, e, se dobbiamo credere al grande poeta tragico, donne sposate e nubili si ritiravano sulle montagne in grandi bande per danzare in preda al furore dionisiaco, fare a pezzi animali selvatici e mangiarli crudi. Una tradizione di donne forti e impegnate potrebbe essere venuta ai pitagorici attraverso l'orfismo, ma in una forma meno assetata di sangue.

Al tempo di Pitagora le comunità orfiche erano diffuse in tutto il mondo greco, comprese l'Italia meridionale e la Sicilia. Il culto primitivo di Dioniso/Bacco si era evoluto in qualcosa di più ascetico, stimolando la mente invece del corpo e della psiche (o in aggiunta ad essi). Gli adepti di questo culto ne attribuivano la riforma a Orfeo, che secondo una tradizione sarebbe stato fatto a pezzi da baccanti per punirlo dei suoi sforzi. Orfeo fu probabilmente una persona reale avvolta in tratti leggendari. Pare che sia stato considerato dapprima una figura sacerdotale, mentre la sua lira e la sua connessione con la musica, e lo status di eroe semimitico, sarebbero posteriori. Alcuni lo considerarono un dio. (1)

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Se le storie sui viaggi compiuti in gioventù da Pitagora sono vere, egli dovette avere familiarità con tradizioni religiose in Egitto e in Mesopotamia e forse (se aveva ragione Flavio Giuseppe) con le credenze degli ebrei nei pressi del monte Carmelo o in Babilonia. A prescindere dall'autenticità dei dettagli, si ha l'impressione - rafforzata dalla storia dell'iniziazione di Pitagora ai riti di Morgos a Creta — di un uomo intento a esplorare in profondità e pronto a coinvolgersi personalmente in molte idee e credenze religiose.

A Crotone Pitagora e i suoi seguaci non abbandonarono il politeismo della tradizione omerico-olimpica. Qualcuno pensava che Pitagora fosse un'incarnazione di Apollo, e che l'associazione del dio con la moderazione, l'intelligenza e l'ordine ben si accordasse con gli ideali pitagorici. Quanto agli altri dèi, non è probabilmente una semplice coincidenza che la fase di costruzione più intensa del tempio di Era si sia verificata quando a Crotone era forte l'influenza di Pitagora. Quando però Pitagora scelse quel che avrebbe creduto e insegnato sull'argomento dell'immortalità, si avvicinò decisamente al culto orfico, con la dottrina della trasmigrazione delle anime o reincarnazione. Questo non era un segreto. Era cosa «ben nota a tutti», scrisse Porfirio.

Un antico frammento attesta che secondo Pitagora un uomo buono sarebbe stato premiato nell'altra vita. Il frammento è di Ione di Chio, il quasi contemporaneo di Pitagora che gli attribuì una poesia e che, pur non essendo forse un membro della comunità pitagorica, adottò le idee del filosofo:

Così un uomo buono, dotato di coraggio e di modestia, ha per la sua anima una vita gioiosa persino nella morte, se effettivamente Pitagora, sapiente in tutte le cose, conobbe e comprese davvero le menti degli uomini.

Pitagora andò oltre la fede nella reincarnazione. Egli sostenne che era in grado di ricordare le proprie vite passate. Anche questa credenza aveva le sue radici nell'orfismo. Un'iscrizione su un documento orfico noto come la tavoletta di Petelia istruisce un'anima su come mostrarsi meritevole di unirsi al divino e degna della «Memoria», un riferimento orfico allo speciale tipo di memoria che Pitagora sosteneva di avere. (2)

Il primo riferimento alla capacità di Pitagora di ricordare il suo passato si trova nel poeta-filosofo del V secolo Empedocle, originario di Agrigento (Akragas) in Sicilia, che come Ione era nato press'a poco al tempo della morte di Pitagora. Egli fu spesso chiamato Empedocle il pitagorico, ma gran parte della sua filosofia era

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diversa dall'insegnamento di Pitagora. Sulla dottrina della metempsicosi Empedocle era entusiasticamente d'accordo con Pitagora:

Vi era tra quelli un uomo di immenso sapere, il quale possedeva massima ricchezza di intelligenza e soprattutto d'ausilio in opere sagge di ogni specie, quando infatti egli si tendeva con tutta la sua intelligenza, facilmente scorgeva ciascuna delle cose che sono, nessuna esclusa come possono solo dieci o venti età di uomini. (DKr, 31 B 129)

Giamblico accettò senza alcuna opposizione la capacità di Pitagora di ricordare le sue vite passate, ma non tutti i dettagli di come avesse acquisito tale capacità e di che cosa ricordasse. I ricordi cominciavano con la vita di Pitagora come Etalide, un figlio del dio Ermete: il tipo di paternità a cui Giamblico trovava impossibile credere. In ogni caso, Ermete permise a Etalide di scegliersi un dono, qualcosa che era poco meno dell'immortalità degli dèi. Etalide chiese di poter ricordare tutto ciò che gli era accaduto nelle vite precedenti. Così Pitagora potè ricordare non solo la sua vita come Etalide, ma anche come Euforbo, come Ermotimo e come Pirro, un pescatore di Delo e molte altre cose ancora. Euforbo era un eroe della guerra di Troia che fu immortalato nell'Iliade di Omero. Tanto Giamblico quanto Porfirio ritrassero Pitagora mentre cantava i versi scritti da Omero per celebrare la morte di Euforbo per mano del re Menelao, accompagnandosi «nel modo più elegante» con una lira:

Ei cadde, e sopra gli tonar l'armi; e della chioma, a quella delle Grazie simìl, le vaghe anella d'auro avvinte e d'argento insanguinarsi. tal l'Atride prostese il valoroso figliuol di Panto Euforbo, e a dispogliarlo corse dell'armi. (3)

Diogene Laerzio (VIII, 4-5) fornì la versione completa di un racconto che molti consideravano una prova dei ricordi di Pitagora, ma che Giamblico rifiutò considerandolo «troppo popolare» e che Porfirio riteneva «troppo noto» perché valesse la pena di raccontarlo. Dopo la morte di Euforbo per mano del re Menelao nella guerra di Troia, la sua anima (o direttamente o dopo varie altre reincarnazioni) passò a Ermotimo. Questo, a sua volta, era stato in grado di dimostrare che il fatto era effettivamente accaduto. In alcune versioni della storia a Branchide, nella Turchia occidentale, in altre ad Argo, sulla terraferma greca; ma dovunque sia avvenuto, Ermotimo entrò in un tempio, dove vide appeso a una parete uno scudo malconcio, nel quale c'era poco di intatto tranne la borchia di

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avorio. Questo cimelio o era stato lasciato da Menelao come tributo ad Apollo o era semplicemente compreso nel bottino della guerra di Troia. Alla vista del vecchio scudo così mal ridotto, Ermotimo eruppe in lacrime. Le persone vicine a lui gli domandarono che cosa lo avesse tanto commosso, ed egli mormorò che lo aveva usato a Troia lui stesso, quando era stato Euforbo. I presenti pensarono che fosse pazzo, ma egli disse loro che avrebbero trovato il nome Euforbo iscritto sulla parte posteriore dello scudo stesso. Essi staccarono lo scudo dalla parete e poterono vedere, scritto in lettere arcaiche, lo stesso nome. (4) Quando Ermotimo infine morì divenne Pirro, un pescatore di Delo, e un po' di tempo dopo divenne Pitagora. Tutte queste reincarnazioni non esaurivano i ricordi di Pitagora, la cui anima era passata anche in molte piante e animali. Pitagora poteva ricordare anche le sue sofferenze nell'Ade, come pure le sofferenze che vi erano state sopportate dagli altri.

Nella dottrina della metempsicosi come la insegnava Pitagora, un'anima non era irrevocabilmente condannata a un'eterna successione di esistenze animali e vegetali. Era possibile sottrarsi a questo ciclo, come nell'orfismo. La possibilità e il modo di questa fuga dal ciclo delle rinascite divennero un fulcro della visione pitagorica del mondo. C'era un livello divino di immortalità da cui ogni anima veniva staccata come un frammento, una semplice «scintilla del fuoco divino», tenuta prigioniera in una lunga catena di corpi avviati alla morte. (5) Il fine di un uomo sapiente era quello di liberarsi da questa ruota di reincarnazioni terrene e raggiungere il livello sublime.

Per tradizione, sarebbe stato Pitagora a coniare il termine «filosofo», che significa «amante della sapienza», ma probabilmente è più corretto dire che diede alla parola il suo nuovo significato. Un filosofo non amava semplicemente il sapere, ma lo perseguiva con tutte le sue forze, poiché quella era la via per riguadagnare la vera, divina vita dell'anima. Lo storico Aristosseno scrisse, del Pitagora che conosceva: «Ogni distinzione su ciò che si dovrebbe o non si dovrebbe fare mira alla conformità col divino. Questo è il loro punto di partenza; tutta la loro vita è ordinata con un intento a seguire Dio, e questo è il principio che governa la loro filosofia». (6) Tutta la filosofia e la ricerca - ogni uso dei poteri della ragione e dell'osservazione per conseguire una comprensione della natura, della natura umana, del mondo e del cosmo, compresa quella che in seguito sarebbe stata chiamata «scienza» - erano connesse con lo sforzo di purificare l'anima e sfuggire al ciclo delle reincarnazioni, anzi in effetti erano proprio tale sforzo. Questa connessione, per i pitagorici, era l'esperienza più alta della dottrina dell'«unità dell'intero essere».

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Un tale sforzo incessante era stato raccomandato in scritti sapienziali molto più antichi, compresi i Proverbi nell'Antico Testamento.

Soltanto nei pitagorici, però, la ricerca della sapienza di Dio o degli dèi incluse in modo così generale la ricerca della conoscenza sull'universo fisico. Come si espresse lo studioso W.K.C. Guthrie:

È a quest'idea dell'assimilazione al divino come fine legittimo ed essenziale della vita umana che Pitagora rimase sempre fedele, sostenendola con tutta la forza di un genio filosofico e matematico, oltre che religioso. In ciò risiede l'originalità del pitagorismo. (7)

In modo meno deferente, Diogene Laerzio cita il filosofo e poeta Senofane di Colofone, che visse la maggior parte della sua vita adulta in Sicilia e in Italia ed era probabilmente contemporaneo di Pitagora, pur essendogli sopravvissuto di molti anni. Senofane scrisse anche poemi satirici, e nelle parole che seguono tratta in tono scherzoso la credenza di Pitagora nella metempsicosi:

Dicono che egli passando accanto a un cagnolino che veniva percosso ne abbia avuto pietà e abbia detto a chi lo percuoteva così: «Cessa, non percuoterlo, perché d'un uomo amico è l'anima che io riconobbi, udendo la sua voce». (*)

Queste parole vengono intese di solito nel senso che Pitagora dicesse di avere riconosciuto la voce di un amico morto che si era reincarnato

* Gli studiosi considerano questa citazione probabilmente genuina proprio perché tratta scherzosamente questa credenza di Pitagora, anziché esaltarla come si sarebbe fatto in seguito. [Il frammento di Senofane è citato in Diogene Laerzio, VIII, 36, in DKr, 21 B 7, e in A. Maddalena (a cura di), I

Pitagorici, Laterza, Bari 1954, p. 63. [N.d.T.)]

nel cane, ma per lui potrebbero avere avuto un significato più profondo. Un «amico» era qualsiasi membro di una vasta fratellanza che abbracciava l'intera natura, compresi gli animali e i vegetali e le anime degli esseri umani. In nessun'altra società greca la parentela ideale di tutti gli esseri viventi era più celebrata che fra i pitagorici, e nessun altro credeva altrettanto fortemente che fosse non un calderone dai contenuti indifferenziati bensì un'unità ben ordinata; nelle parole di Guthrie: «un kosmos [cosmo], la parola intraducibile che unisce,

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come forse solo lo spirito greco poteva fare, la nozione di ordine, organizzazione o perfezione strutturale con quella della bellezza». (8)

Alcuni pitagorici estendevano l'unità al tempo. Il discepolo di Aristotele Eudemo scrisse che «se dobbiamo credere ai pitagorici e ritenere che le cose si ripetano le stesse in numero - che tu stia seduto lì, e io ti parli, tenendo questo bastone, e così via per qualsiasi altra cosa -, allora è plausibile che ritorni anche lo stesso tempo». (9)

Ci si potrebbe attendere che la fede nella reincarnazione delle anime, le quali potevano trasmigrare alla morte in altre persone, in animali o in piante, abbia avuto implicazioni per ciò che i pitagorici mangiavano e non mangiavano, proprio com'era avvenuto per gli adepti del culto orfico. I particolari della dieta pitagorica non sono però mai stati chiari a nessuno tranne lo stesso Pitagora e i suoi seguaci più immediati, e fin dall'antichità sono stati oggetto di molte congetture, molte opinioni e molte battute irriverenti. Ogni astensione dev'essere stata però motivata da ragioni diverse da quella di evitare di mangiare un'altra anima, poiché un essere umano poteva reincarnarsi con altrettanta probabilità in un vegetale, e si doveva pur mangiare qualcosa. Empedocle avrebbe osservato che, se ci si poteva scegliere la prossima vita, sarebbero state buone scelte un leone o un arbusto di alloro. Giamblico pensava che l'astinenza dal consumo di carne prescritta da Pitagora conducesse a «favorire la pace». «Infatti, una volta che ci si fosse assuefatti a odiare come illecita e contro natura la soppressione di animali, si sarebbe reputato ancora più empio uccidere un uomo e non si sarebbero più fatte guerre» (XXX, 186).

Aristotele era sicuro che Pitagora e i suoi seguaci mangiassero la carne di animali, eccezion fatta per l'utero e il cuore e i ricci di mare.

Forse evitavano anche la triglia di scoglio, aggiunse Plutarco. Diogene Laerzio insistette che erano proibiti la triglia di fango, il melanuro e il cuore di animali, ma riferì che secondo Aristosseno egli permetteva di cibarsi di tutti gli altri animali, eccezion fatta per gli agnelli, per i buoi, che erano spesso usati per arare i campi, e per i montoni (VIII, 19-20). Porfirio, fondando la sua conclusione su un'antica fonte del IV secolo a.C. o inizio del III, pensava che Pitagora osservasse un doppio livello. Chi non era impegnato nel perseguimento pitagorico della sapienza, che durava per tutta la vita — per esempio un atleta o un soldato (ricordiamo il consiglio di Pitagora ai giovani atleti olimpici) - poteva mangiare carne. Ai membri della propria scuola permetteva invece solo un assaggio rituale della carne che veniva offerta in sacrificio agli dèi. Secondo Porfirio

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quest'astinenza era motivata solo dalla riverenza per l'unità e parentela fra tutti gli esseri viventi, e la dieta preferita di Pitagora comprendeva miele, pane di miglio, orzo, e verdure, crude o lessate. Porfirio fornì addirittura ricette che si diceva fossero quelle preferite di Pitagora:

Faceva un miscuglio di semi di papavero e di sesamo, pelle di Scilla, ben lavata finché avesse perso completamente i succhi esterni, fiori di pseudonarciso o trombone e foglie di malva, pasta d'orzo e ceci, e prendendo gli ingredienti in peso uguale e sminuzzandoli, con miele dell'Inietto ne faceva una pasta.

Contro la sete prendeva semi di cocomeri e le migliori uvette essiccate da cui estraeva i semi, fiori di coriandolo, semi di malva, portulaca, formaggio a piccole scaglie, farina e crema di frumento, il tutto mescolato con miele selvatico.

Porfirio scrisse che Pitagora non rivendicò a sé l'invenzione di queste ricette, ma disse che erano state insegnate da Demetra a Eracle quando fu inviato nel deserto libico.

Informazioni sulla dieta dei pitagorici posteriori, che non era necessariamente la stessa consigliata da Pitagora più di un secolo prima, provengono da commedie del IV secolo a.C. di Antifane, Alessi e Aristofonte. (10) Le loro rappresentazioni potrebbero essere state esatte o magari furono solo stereotipi accettati; comunque questi furono tutti commediografi altamente apprezzati. Antifane, che fu molto noto per le sue parodie e le sue intelligenti critiche della letteratura e della filosofia, scrisse che «qualche misero pitagorico era nel canalone a masticare prezzemolo e a raccogliere in sacchi gli avanzi di pessimi cibi». Nella sua commedia Il sacco c'è un personaggio che, «come un pitagorico, non mangia carne ma prende e mastica un pezzo annerito di pane a buon mercato». Nella commedia di Alessi I tarantini, questi «si nutrono di 'pitagorismi', di bei ragionamenti e di pensieri ben sminuzzati», mangiando ogni giorno «solo una pagnotta ciascuno e bevendo un bicchiere d'acqua: una dieta carceraria! Tutti gli uomini sapienti vivono così?» Evidentemente no, se un altro personaggio risponde che alcuni pitagorici «pranzano ogni quattro giorni con una sola scodella di crusca». Aristofonte, nella commedia Il pitagorico, scrisse:

Per bere acqua [e non vino] sono rane; per mangiare timo e verdure, sono bruchi; per non essere lavati, sono vasi da notte; per stare fuori di casa tutto l'inverno sono merli; per stare al caldo a chiacchierare a mezzogiorno sono cicale;

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per non ungersi mai d'olio sono nubi di polvere; per andare in giro all'alba senza scarpe sono gru; per non dormire mai sono pipistrelli.

Alessi, nella commedia I tarantini, presentò una scenetta divenuta così famosa e ricorrente da essere probabilmente salutata infine con mormorii di fastidio. «I pitagorici, a quanto si dice, non mangiano pesce né alcun'altra cosa animata; e sono gli unici a non bere vino.» «Ma Epicaride mangia cani, ed è un pitagorico.» «Però prima li uccide, e quindi non sono più animati.» Diogene Laerzio (VIII, 44) riprese lo stesso tema qualche secolo dopo in un «epigramma di derisione» nella sua biografia di Pitagora:

Non tu solo tenesti le mani lontane dagli esseri animati, ma anche noi: chi assaggiò mai esseri animati, o Pitagora?

Ma quando essi siano lessati, arrostiti o salati, allora non hanno più anima e li mangiamo.

La controversia più nota sulla dieta di Pitagora ha a che fare col suo atteggiamento verso le fave: non è una cosa così banale come potrebbe sembrare, perché questo atteggiamento potrebbe in seguito avere contribuito addirittura alla sua morte.

Il poeta Callimaco visse nel III secolo a.C. e, oltre a molte splendide opere poetiche, produsse un catalogo critico e biografico degli autori le cui opere erano possedute dalla Biblioteca di Alessandria.

Callimaco aveva familiarità con molte opere che non furono più disponibili a dotti posteriori perché perirono nel famoso incendio della biblioteca in epoca romana. Callimaco concordava con un'idea che aveva attribuito allo stesso Pitagora: che le fave sono un cibo «doloroso». Cicerone scrisse, citando Platone, che ai pitagorici era proibito mangiare fave perché causano flatulenza e quindi non conducono alla pace della mente e a un buon sonno notturno. Secondo altri la flatulenza era un'indicazione del fatto che le fave contengono aria.

Poiché si riteneva che l'anima stessa fosse aria, la flatulenza provocata dalle fave poteva essere interpretata come una prova del fatto che quando si mangiava una fava si mangiava un'anima. Diogene Laerzio scrisse che Pitagora «prescriveva di astenersi dalle fave perché sono ventose»; perciò «lo stomaco,

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non ricevendole, si fa più regolato e [...] i nostri sogni saranno piani, senza turbamenti» (VIII, 24). Il discepolo di Platone Eraclide Pontico collegò l'astensione dalle fave con la scoperta che una fava, deposta in una nuova tomba, sepolta nel letame e lasciatavi per quaranta giorni, assunse l'aspetto di un essere umano. Un racconto sul potere di Pitagora di comunicare con gli animali riferisce che un giorno il filosofo, avendo visto un bue mangiare delle fave, disse al mandriano di non lasciargliele mangiare.

Dopo che il mandriano si fu rifiutato con aria irridente di accogliere il suo consiglio, Pitagora si avvicinò al bue e gli bisbigliò qualcosa nell'orecchio. Da quel momento in poi il bue non toccò più una fava.

Pitagora lo condusse poi al tempio di Era, dove l'animale visse per molti anni venerato come il «bue sacro».

Aulo Gellio, autore del II secolo d.C. i cui scritti ci conservano frammenti di opere altrimenti perdute, fu in forte disaccordo con l'idea che Pitagora impedisse di mangiare le fave. Egli sottolineò che, secondo Aristosseno, Pitagora ne mangiava molte, in effetti molte di più di qualsiasi altro legume, «perché avevano la proprietà di esser facilmente digeribili e liberare il ventre». Aulo Gellio credeva anche di poter spiegare lo sfortunato fraintendimento: esso derivava da un'interpretazione troppo ingenua di alcuni versi di Empedocle in cui figurava la frase:

Sventurati, gran sventurati, le fave In man non prendete.

Gellio spiegò qui che la parola «fave» non significava il legume, bensì i «testicoli». I pitagorici usavano aforismi oscuramente simbolici che potevano essere decifrati solo da altri pitagorici, e quando Empedocle parlò di «fave», sottolineò Gellio, intendeva simboleggiare con esse la causa della gravidanza umana e l'impulso alla riproduzione. La fava è, dopo tutto, un seme, dalle potenzialità simili. Gellio interpretò quindi la frase di Empedocle nel senso di guardarsi «dai capricci dei rapporti sessuali». (11)

A quanto pare Pitagora non incoraggiò il celibato; molte testimo nianze ci dicono infatti che egli raccomandava ai suoi seguaci di fare figli al fine di lasciare servi di Dio che prendessero il loro posto nella generazione seguente. Pare però che il suo interesse per il sesso si fermasse qui. Secondo Diogene Laerzio, Pitagora «non fu mai visto esercitare i piaceri d'amore» e consigliò agli altri di

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fare sesso solo «quando si vuole essere più deboli di se stessi». In contrasto con tutti i motteggi di cui furono oggetto i pitagorici, lo stesso Pitagora, almeno nella biografia di Diogene Laerzio, ci appare come un uomo incapace di ridere, anche se non necessariamente di gioire. «Non irrideva e si teneva lontano da ogni leziosaggine, come le facezie e le storielle volgari», ammonendo anche che «Pudore e cautela consistono nel non lasciarsi dominare dal riso e nel non assumere un atteggiamento arcigno e scontroso» (VIII, 20, 16, 23), cosa che, se fosse vera, indicherebbe che Pitagora non avrebbe mai apprezzato gli epigrammi scherzosi di Diogene Laerzio. La descrizione di Porfirio mostrava Pitagora come un uomo non privo del senso dell'umorismo ed estremamente equilibrato, non «esaltato dal piacere, non abbattuto dal dolore, e nessuno lo vide mai esultante o afflitto». Porfirio attribuì questa «costanza» all'accurata dieta di Pitagora.

Secondo la tradizione, Pitagora ebbe dei figli. Dopo avere introdotto il suo paragrafo concernente la famiglia di Pitagora con la parola «dicono», Porfirio ricordò che Pitagora sposò «Teano di Pitonatte, di stirpe cretese». Pitagora e Teano ebbero una figlia di nome Muia, che «guidava a Crotone il coro delle fanciulle quando era fanciulla, e poi, quando fu sposata, il coro delle donne», e anche un figlio, Telauge, e forse anche un secondo figlio di nome Arignota.

Giamblico scrisse che il «successore riconosciuto» di Pitagora, Aristeo, ne sposò la vedova Teano dopo la morte del maestro, «portò avanti la scuola» ed educò i figli di Pitagora. Fra quei figli Giamblico non ne menzionò nessuno che avesse un nome fra quelli elencati da Porfirio, ma parlò solo di un altro figlio che aveva ripreso il nome del padre di Pitagora, Mnesarco, e che assunse a sua volta la direzione della «scuola» quando Aristeo divenne troppo vecchio. Giamblico confuse ancor più le cose menzionando una «Teano» che era la moglie di Brontino di Crotone e una delle «più illustri donne pitagoriche». Forse Pitagora ne sposò la moglie quando Brontino morì, o viceversa? Diogene Laerzio registrò entrambe le tesi, che «Pitagora ebbe [...] una moglie, Teano, figlia di Brontino crotoniate; secondo alcuni, questa fu moglie di Brontino e discepola di Pitagora» (VIII, 42). È più probabile che ci siano state due Teano, madre e figlia.

Il nome di Teano fu conservato in un elenco - che si pensa sia stato tramandato da Aristosseno - di diciassette «illustrissime donne pitagoriche» comprendente anche Muia, la moglie del lottatore olimpico Milone. A quanto pare le donne svolsero una parte attiva nella «confraternita pitagorica». Diogene Laerzio dice che Teano aveva scritto libri ancora esistenti al suo tempo. Anche se si trattava quasi certamente di libri «pseudopitagorici» apparsi nella tarda antichità, Diogene Laerzio si sentiva abbastanza fiducioso della sua fonte da citare un franco parere

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di Teano. Rispondendo a una donna che le aveva domandato in quanti giorni una donna sarebbe ridiventata pura dopo un rapporto con un uomo, avrebbe risposto: «Dal contatto del proprio uomo subito, dal contatto dell'altrui uomo mai» (VIII, 43). Consigliava a una donna che si accingeva a fare sesso col marito di «deporre insieme con le vesti il pudore», cosa che sembra un grande spreco se queste erano effettivamente le parole della moglie di Pitagora e se Pitagora si asteneva davvero del tutto dai piaceri dell'amore!

La vita di Pitagora a Crotone fu davvero, a quanto pare, una buona vita, con la procreazione di figli che sarebbero stati nuovi pitagorici e avrebbero potuto essere istruiti in un nuovo meraviglioso approccio al mondo e all'universo..., con cibi scelti in modo appropriato..., e con uomini e donne impegnati in studi affascinanti che miglioravano anche le loro possibilità nella vita futura. All'interno della comunità, inoltre, circolavano voci di fatti difficili da spiegare e che indicavano che il loro capo non era un uomo comune.

Diversamente dagli antichi miracoli contenuti nell'Antico e nel Nuovo Testamento, i «miracoli» attribuiti a Pitagora non erano associati ad alcun insegnamento o rivelazione divina, né erano esempio di una disposizione di Pitagora ad aiutare o guarire alcuno. Avevano una natura più casuale, erano più barlumi di un'esistenza a un livello più divino di quello sperimentato dagli uomini e dalle donne che lo circondavano, in cui si poteva vedere più facilmente l'unità di tutto l'essere: di tutte le cose, luoghi, animali e dèi; del passato, presente e futuro. Aristotele riferì di relazioni le quali dicevano che Pitagora apparve uno stesso giorno alla stessa ora a Crotone e a Metaponto, e che una volta, «in un teatro, si alzò e mostrò agli spettatori che la sua coscia era d'oro» (DKr, 14 B 7). In Etruria (Toscana) un serpente velenoso lo morse, ed egli gli restituì il morso. Il serpente morì, lui no.

Vari testimoni affermano di aver sentito il fiume Casas salutarlo per nome mentre lo attraversava, ed egli predisse correttamente che a

Caulonia sarebbe stata avvistata un'orsa bianca. Una volta, dopo avere predetto seri contrasti, scomparve da Crotone e apparve a Metaponto. Secondo «le testimonianze concernenti Pitagora offerte da tanti antichi e autorevoli autori», scrisse Giamblico (XIII, 60, 62), senza peraltro nominarli, uccelli e animali ascoltarono Pitagora e seguirono i suoi consigli, lo stesso effetto che Orfeo aveva anche sugli animali più selvaggi.

Alle relazioni sui poteri miracolosi di Pitagora si contrapponevano i giudizi di coloro che consideravano Pitagora un ciarlatano. Diogene Laerzio riprese una

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storia tratta da Ermippo, l'autore del III secolo a.C. nativo di Samo che aveva detto che Mnesarco era un incisore di gemme. Pitagora era scomparso per qualche tempo ritirandosi in un'abitazione sotterranea che si era fatto costruire, incaricando la madre di prendere nota su una tavoletta di tutto ciò che accadeva, di registrare le date e di mandargliela giù. Infine Pitagora riapparve, con un aspetto cadaverico, annunciando di essere tornato dall'Ade.

Quando raccontò dettagliatamente a coloro che si erano riuniti intorno a lui ciò che era accaduto in sua assenza, essi rimasero stupiti, dissero che era un dio, piansero ed emisero lamenti e «gli affidarono le loro donne perché anch'esse apprendessero qualcosa della sua dottrina: queste furono chiamate 'pitagoriche'» (VIII, 41). La stessa storia fu raccontata da Erodoto (piuttosto scettico in proposito) in relazione a un certo Salmoside, un trace che sarebbe stato schiavo di Pitagora a Samo. Restituito alla libertà, Salmoside tornò in Tracia e usò lo stesso stratagemma di Pitagora per crearsi un'aura di potere magico fra la gente credulona. In un interessante rovesciamento della situazione, alcuni studiosi della tarda antichità credettero che le storie miracolose, come pure tutte le voci di ciarlatanismo, fossero altrettante invenzioni propalate per screditare Pitagora, in un periodo in cui la gente si faceva beffe del miracolo come non sarebbe più accaduto in quei secoli. (12)

5. «TUTTE LE COSE CHE SI CONOSCONO HANNO NUMERO» VI secolo a. C.

La scoperta pitagorica che «tutte le cose che si conoscono hanno numero», poiché «senza il numero non sarebbe possibile pensare né conoscere alcunché» (DKr, 44 B 4), fu fatta in musica. È ben stabilito, come poche cose di Pitagora lo sono, che la prima legge matematica che sia mai stata formulata matematicamente fu la relazione fra l'altezza dei suoni e la lunghezza di una corda d'arpa vibrante, e che essa fu espressa dai primissimi pitagorici. Antichi studiosi, come il discepolo di Platone Senocrate, pensavano che la scoperta fosse stata fatta dallo stesso Pitagora.

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Al tempo di Pitagora, i musicisti accordavano da secoli strumenti a corde. Quasi tutti erano consapevoli che a volte una lira o un'arpa producevano suoni gradevoli e altre volte no. Quelli abili sapevano come produrre e accordare uno strumento così che il risultato fosse gradevole. Come in molte altre scoperte, l'uso quotidiano e la familiarità precedettero di molto tempo una comprensione più profonda.

Che cosa significa «gradevoli»? Quando gli antichi greci pensavano all'«armonia», la pensavano nello stesso modo in cui l'avrebbero pensata i posteriori musicisti e amanti della musica? Le corde delle lire, per quanto possiamo sapere a una distanza di tempo così grande, non venivano pizzicate come in una chitarra moderna o suonate con un archetto come un violino. Più difficile è dire se le note venissero suonate insieme nello stesso tempo, ma gli storici di musica pensano di no. Erano le combinazioni di intervalli in melodie e scale - come suonavano le note quando si susseguivano l'una all'altra - a essere gradevoli o sgradevoli. Chiunque abbia però suonato uno strumento in cui le corde sono pizzicate, o colpite con un martelletto, sa che una corda continua a suonare a meno che non venga premuta. Anche se le corde di una lira non erano state suonate insieme in un accordo, si udiva nello stesso tempo più di un tono, e spesso vari toni, tanto più se c'era anche un'eco. Anche quando le note sono suonate in successione e poi smorzate, l'orecchio e il cervello umano hanno una memoria tonale che fa loro riconoscere armonia o dissonanza. In ve rità gli antichi greci, compreso lo stesso Pitagora, udivano l'armonia in entrambi i modi, fra toni suonati nello stesso tempo e toni suonati in successione.

Lo strumento suonato da Pitagora era probabilmente la lira a sette corde. La suonava con quattro delle sette corde a intervalli fìssi. Non c'era scelta su come dovessero essere quegli intervalli. I suoni più bassi e più alti delle corde a intervalli fissi erano accordati in modo che fossero separati da un'ottava. La corda di mezzo sulla lira (la quarta delle sette corde) era accordata in modo che suonasse una quarta sopra la corda più bassa, e quella successiva era accordata in modo che suonasse una quinta sopra la corda più bassa. (*) Gli intervalli dell'ottava, della quarta e della quinta furono considerati concordanti o armonici. Sulla lira a sette corde il musicista greco poteva regolare le altre tre corde (la seconda, la terza e la sesta), a seconda del tipo di scala desiderata.

Premendo una corda esattamente a metà fra i due estremi si produce un tono più alto di un'ottava rispetto a quello prodotto dalla corda libera, non premuta. Il rapporto fra queste due lunghezze della corda è di 2:1 e produce sempre un'ottava. L'ottava non è però una cosa che il musicista possa creare premendo la corda.

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Pizzicando una corda libera non premuta, la si fa vibrare nella sua interezza, cosicché essa suona la «nota fondamentale», ma varie parti della corda stanno anche vibrando indipendentemente producendo suoni «armonici». Anche senza che la corda venga premuta nel punto di mezzo per suonare un'ottava, questa è presente nel suono della corda libera.

Premendo la corda si liberano toni provenienti dall'ottava, dalla quinta, dalla quarta e così via — a seconda di dove si preme - che erano sempre stati presenti nella nota fondamentale, ma più difficili da udire. (**)

La tradizione attribuisce a Pitagora l'invenzione del kanon, uno strumento con una sola corda, e il suo uso per fare esperimenti sul

* Pensiamo di avere la corda più bassa nel pianoforte accordata sul do, la quarta corda accordata sul fa sopra il do, la successiva sul sol un passo sopra, e poi l'ultima corda accordata sul do un'ottava sopra il do inferiore.

** Gli strumenti musicali e la voce umana, a causa delle complesse differenze nel modo in cui la loro struttura entra in risonanza e amplifica il suono, sottolineano o mettono in evidenza certi armonici più di altri, ed è proprio questo fatto a causare la grande varietà dei suoni prodotti. Ecco perché una tromba suona come una tromba e un clarinetto come un clarinetto.

Figura Una lira a sette corde suono. Pitagora avrebbe trovato che le note che erano in armonia con la nota fondamentale erano quelle prodotte dividendo la corda in parti uguali. Dividendola in due parti uguali si produceva una nota più alta di un'ottava rispetto alla corda non premuta. Se si premeva in modo da dividerla in tre parti uguali, la corda suonava una nota di una quinta sopra l'ottava; se la si divideva in quattro parti uguali suonava una quarta sopra l'ottava. La serie prosegue passando poi a una terza maggiore, poi a una terza minore, e infine a intervalli sempre più piccoli, ma non c'è alcuna indicazione del fatto che i pitagorici abbiano portato il processo oltre l'intervallo della quarta. (*)

* Sul pianoforte potrebbero essere note equivalenti, per esempio, il Do centrale (nota fondamentale), il do (l'ottava sopra la nota fondamentale), il sol (quinta sopra quell'ottava), il do (quarta sopra quel sol). Per una dimostrazione che usi il piano: premere delicatamente sul do sopra il Do centrale senza lasciarlo suonare (togliere lo smorzatolo dalle corde). Battendo il Do centrale (la nota

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fondamentale) udirete chiaramente l'ottava. Premete con cura sul sol sopra quell'ottava. Se battete sul do centrale udirete quella quinta sopra l'ottava. Un pianoforte non è accordato al sistema pitagorico, ma è abbastanza vicino perché si possano udire questi suoni armonici.

Guardando oltre il compito di ottenere buoni risultati pratici da uno strumento musicale, la formulazione di domande più profonde su quel che stava accadendo, e l'interrogativo se ciò potesse avere implicazioni più ampie, richiedevano un orizzonte mentale più vasto.

Anche se, col senno di poi, lo spostamento dell'attenzione da una conoscenza utile al riconoscimento di princìpi più profondi può sembrare semplice, non era però un cambiamento banale. Una lira emetteva un suono piacevole se usata in un modo ma non in un altro..., ma perché? Spesso, negli scritti sui pitagorici, una clausola aggiunta a questa domanda consisteva nel domandare se non ci fosse una qualche regolarità significativa, una struttura ordinata. Ma i pitagorici non cercavano ancora necessariamente una regolarità o un ordine, poiché nessun precedente li avrebbe condotti ad attenderselo. Tuttavia furono sul punto di scoprirli.

Quando Pitagora e suoi discepoli videro che certi rapporti di lunghezza di corde producevano sempre l'ottava, la quinta e la quarta, balenò nella loro mente l'idea che dietro la bellezza che essi udivano nella musica doveva esserci una regolarità nascosta: una regolarità che riuscivano a capire, ma che non avevano creato o inventato loro, e che non potevano cambiare. Senza dubbio questa regolarità non poteva essere un caso isolato. Regolarità aritmetiche e geometriche simili dovevano celarsi dietro tutta la quotidiana confusione e complessità della natura. Nell'universo c'era ordine, e quest'ordine era fatto di numeri. Questa fu la grande intuizione pitagorica, ed era diversa da tutte le precedenti concezioni della natura e dell'universo. Benché i pitagorici non sapessero come usare il tesoro che avevano trovato - e benché matematici e scienziati moderni stiano ancora imparando - la loro scoperta ha guidato il pensiero umano da allora. Pitagora e i suoi seguaci avevano scoperto anche che c'era evidentemente un potente legame fra le percezioni dei sensi umani e i numeri che pervadevano e governavano ogni cosa. La natura seguiva una logica fondamentale, razionale, bella, e gli esseri umani erano in accordo con essa, non solo a un livello intellettuale (potevano scoprirla e comprenderla) ma anche a quello dei sensi (potevano percepirla attraverso l'udito nella musica).

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Alla base dell'esperienza della musica esistono anche altre relazioni nascoste che né Pitagora né altri della sua epoca potevano scoprire.

I rapporti da lui trovati rappresentavano la rapidità di vibrazione di una corda, ma non c'era alcun modo in cui egli potesse studiare le vibrazioni. Dopo la scoperta iniziale, fatta usando un kanon o una lira, Pitagora e/o i suoi primi discepoli avrebbero però potuto comin ciare ad ascoltare ottave, quarte e quinte in altri suoni, e tentato di scoprire che cosa poteva, e che cosa non poteva, produrre gli intervalli. Forse dietro varie antiche storie sconcertanti, nelle quali Pitagora fece la scoperta delle relazioni in modi nei quali non avrebbe potuto farla, c'è il ricordo di alcuni suoi esperimenti.

Secondo una di quelle storie, Pitagora stava passando davanti alla fucina di un fabbro quando osservò che gli intervalli fra i toni prodotti dai martelli quando colpivano un pezzo da lavorare erano di una quarta, una quinta e un'ottava. Questa parte della storia è possibile, ma non la successiva: le uniche differenze fra i martelli stavano nel loro peso, e Pitagora trovò che quei pesi stavano fra loro nei rapporti di 2:1, 3:2 e 4:3, presupponendo che la vibrazione e il suono dei martelli fossero direttamente proporzionali al loro peso, cosa che non è. Poi Pitagora prese dei pesi uguali a quelli dei martelli, e li sospese a corde di ugual lunghezza. Pizzicò le corde tese e udì gli stessi intervalli: un'altra presunta scoperta fondata su false premesse, poiché il racconto suppone erroneamente che la frequenza di vibrazione di una corda sia proporzionale al numero di unità di peso ad essa sospese. È tuttavia facile immaginare che Pitagora, o i suoi seguaci, o l'uno e gli altri, abbiano compiuto quegli esperimenti e abbiano considerato, con più comprensione e abilità di coloro che in seguito si limitarono a ripetere quel racconto senza capirlo, che cosa si potesse apprendere dai successi e dagli insuccessi. Il modo in cui queste storie furono tramandate, presentandole come la maniera in cui Pitagora fece la scoperta, potrebbe essere un esempio di come a volte si conserva la conoscenza, mentre il vero modo della scoperta e la sua vera comprensione vanno perdute. Una tale perdita si spiegherebbe se, come hanno supposto alcuni, la conoscenza più raffinata di Pitagora fu in gran parte dimenticata in coincidenza con la disgregazione delle comunità pitagoriche dopo la morte del maestro.

Aristosseno narrò una storia concernente un altro esperimento sui rapporti armonici, un esperimento che implicò Ippaso da Metaponto e che ebbe un particolare significato perché rappresenta una delle ragioni per cui gli studiosi sono inclini ad attribuire la scoperta dei rapporti musicali a Pitagora e ai suoi immediati successori. Ippaso, che era un contemporaneo di Pitagora, costruì

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quattro dischi di bronzo, tutti di ugual diametro ma di diverso spessore. Lo spessore di uno «era 4/3 di quello del secondo, 3/2 di quello del terzo e 2/1 di quello del quarto». Ippaso sospese i dischi in modo che potessero oscillare liberamente. Poi li colpì, e i dischi produssero intervalli con sonanti. Questo esperimento è corretto nei termini dei principi fisici in gioco, poiché la frequenza di vibrazione di un disco che oscilla liberamente è direttamente proporzionale al suo spessore. Chiunque abbia progettato ed eseguito questo esperimento capiva i rapporti armonici fondamentali o imparò a capirli eseguendo l'esperimento, e il modo in cui viene raccontata la storia fa pensare che i rapporti musicali fossero già noti e che Ippaso abbia costruito i quattro dischi per poterne fornire una dimostrazione. Secondo Aristosseno, il musicista Glauco di Reggio suonò con i dischi di Ippaso, e l'esperimento si trasformò in uno strumento musicale.

Per Walter Burkert, un meticoloso studioso del Novecento, i racconti del fabbro hanno «un certo senso». Nell'antico folklore, i Dattili del monte Ida erano maghi, e furono gli inventori della musica e dell'arte del fabbro. Secondo Porfirio, Pitagora fu iniziato dai sacerdoti di Morgos, uno dei Dattili idei. Un aforisma di Pitagora affermò che quando veniva colpito il bronzo, il suo suono era la voce di un demone, un'altra connessione fra l'arte del fabbro e la musica o il suono magico. «La tesi che Pitagora abbia scoperto la legge fondamentale dell'acustica nell'officina di un fabbro», scrive Burkert, potrebbe essere stata «una razionalizzazione — fisicamente falsa - della tradizione secondo la quale Pitagora conosceva il segreto della musica magica che era stato scoperto dai mitici fabbri». (1)

Quando i pitagorici, con la loro scoperta dei rapporti matematici alla base dell'armonia musicale, colsero un barlume della misteriosa struttura razionale profonda della natura, si affermò la convinzione che nei numeri ci fosse un potere, anzi forse il potere stesso che aveva creato l'universo. I numeri erano la chiave di quel vasto sapere: quella sorta di conoscenza che potrebbe innalzare la propria anima a un livello più alto di immortalità, fino a unirsi col divino.

Per quanto rivoluzionaria, una delle percezioni profonde più significative nella storia della conoscenza dovette essere elaborata, all'inizio, nel contesto di un'antica comunità, di antiche superstizioni, di antiche credenze religiose, senza alcuno degli strumenti o degli assunti della posteriore aritmetica, geometria o scienza, senza alcun precedente scientifico o «metodo scientifico». Come si poteva cominciare? I pitagorici si volsero al mondo stesso e continuarono cercando di verificare se ci fosse qualcosa di speciale nei numeri 1, 2, 3 e 4 che

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apparivano nei rapporti musicali. Quei numeri stavano saltando fuori anche in un'altra linea di ricerca perseguita dai pitagorici.

Questi avevano sulla punta delle dita un modo semplice ma produttivo di lavorare con i numeri. Forse dapprima fu un gioco: quello di ordinare dei sassolini in disposizioni piacevoli. La maggior parte delle informazioni sulle figure di sassolini e sulle connessioni col cosmo e con la musica che i pitagorici trovarono in esse ci viene da Aristotele. Egli conosceva bene le idee dei pitagorici sui «numeri triangolari», sul numero «perfetto» 10 e sulla tetrade (tetraktys).

I punti che appaiono ancora oggi sui dadi e sui pezzi del domino sono un vestigio di un antico modo di rappresentare i numeri naturali, gli interi positivi con i quali normalmente quasi tutti contano.

Punti e tratti stavano per numeri nel Lineare B, la scrittura che i micenei usavano per l'amministrazione economica dei loro palazzi un migliaio di anni prima di Pitagora, e anche nella scrittura cuneiforme, ancora più antica. Le figure costruite con sassolini erano un modo affine di visualizzare aritmetica e numeri, ma pare siano state usate esclusivamente dai pitagorici.

Secondo la tradizione, lo stesso Pitagora riconobbe per primo l'esistenza di connessioni fra le disposizioni di sassolini e i numeri che lui e i suoi seguaci avevano scoperto nei rapporti dell'armonia musicale. Due delle disposizioni più fondamentali funzionavano nel modo seguente: sistema un sassolino, dopo di che disponine tre, poi cinque, poi sette ecc. — tutti i numeri dispari - secondo gli angoli o «gnomoni» del carpentiere, per formare una disposizione quadrata. (*)

Oppure comincia con due sassolini, e poi sistemane quattro, poi sei, otto ecc. - tutti i numeri pari — e ne risulterà un rettangolo.

Ciò è più facile da capire visivamente che verbalmente: una ragione per usare i sassolini.

Pitagora e i suoi seguaci furono attenti alle connessioni nascoste.

* Uno gnomone è uno strumento per misurare angoli retti, come la «squadra del carpentiere».

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Le figure del quadrato e del rettangolo formate da sassolini dettavano una divisione del mondo dei numeri in due categorie, dispari e pari, fatto che li colpì come importante. Era una connessione fra quelli che essi consideravano i due princìpi basilari dell'universo, il «limitante» e l'«illimitato». Essi associavano il «dispari» al «limitante» e il «pari» all'«illimitato».

Un altro modo di manipolare i sassolini era quello di ritagliare un triangolo o dal quadrato o dal rettangolo.

Nella linea di sassolini che allora forma la diagonale o ipotenusa del triangolo, i sassolini non si trovano alle stesse distanze l'uno dall'altro che negli altri due lati, né sono a contatto fra loro. Per avere tutti i sassolini in tutti e tre i lati del triangolo a distanze uguali dai loro vicini immediati, o tutti a contatto fra loro, si richiede una nuova figura. Collocate un sassolino, poi disponetene due, poi tre, poi quattro, facendo in modo che ognuno di essi tocchi i suoi vicini.

Ne risulta un triangolo in cui tutt'e tre i lati hanno uguale lunghezza: un triangolo equilatero. Si noti che i quattro numeri in questo triangolo sono gli stessi che abbiamo già trovato nei rapporti musicali fondamentali: 1, 2, 3 e 4. Cominciando a un vertice del triangolo, abbiamo 2:1 (la seconda riga confrontata con la prima), poi 3:2, poi 4:3.

La somma dei numeri compresi in questi rapporti è 10. I pitagorici decisero che 10 era il numero perfetto. Essi conclusero anche che in questo triangolo equilatero, che essi chiamarono tetraktys (la tetrade, l'essenza del «quattro») c'era qualcosa di straordinario. La tetraktys era, in sintesi, l'ordine numerico-musicale del cosmo, un concetto così importante che quando un pitagorico faceva un giuramento giurava «su colui che ha dato alla nostra anima la tetraktys».

La maggior parte degli studiosi pensa che solo dopo la morte di Pitagora i pitagorici scoprirono di poter costruire con quattro triangoli equilateri quella particolare piramide che è un tetraedro — un so lido con quattro facce (uguali) — e che probabilmente ne vennero a conoscenza all'epoca in cui Filolao scrisse il primo libro pitagorico nella seconda metà del V secolo a.C. (*) La parola tetraktys era però già in uso nel periodo di Pitagora. Essa lasciava intendere che nell'idea c'era qualcosa di più del fatto che il 4 era il numero maggiore nei rapporti. Il tetraedro è un solido in cui ogni faccia è una tetraktys, ma che usa anche il numero 4 in altre maniere: 4 facce, 4 vertici.

Quando Aristotele, nel IV secolo a.C., fece ricerche sui pitagorici, trovò un elenco di connessioni che essi istituivano fra numeri e concetti astratti. Pare che

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egli non sia riuscito a scoprire che cosa i pitagorici collegassero con i numeri 6 e 8.

1 Mente 2 Opinione 3 Il numero del tutto 4 Giustizia 5 Matrimonio 6 ?

7 Tempo giusto, giusta stagione o opportunità 8 ?

9 Giustizia 10 Perfetto

Non è difficile capire come la mente potesse essere 1 e l'opinione 2.

La giustizia appare due volte a causa di un'associazione con l'idea di quadrato. I greci non consideravano l'1 un numero. «Numero» significa pluralità, più di 1. Per loro, quindi, il numero più piccolo

* Un tetraedro è una piramide con quattro facce triangolari. Non tutte le piramidi hanno solo quattro facce. Le piramidi di Giza, che Pitagora poteva aver visto in Egitto, non sono tetraedri. Esse hanno cinque facce: una base quadrata e quattro facce triangolari.

che sia il quadrato di un numero intero era il 4. (*) Il primo numero che sia il quadrato di un numero dispari è il 9, che è quindi associato anch'esso alla giustizia. Il matrimonio (5) era la somma del primo numero pari e del primo numero dispari (2 e 3). Il legame fra 7 e «tempo giusto» o «giusta stagione» rifletteva un pensiero greco più vasto. La vita procedeva in multipli di 7. Un bambino poteva nascere dopo 7 mesi di gestazione, cominciare a mettere i denti 7 mesi dopo, raggiungere la pubertà a 14 anni e (se era un maschio) poteva cominciare ad avere la barba a 21.

I pitagorici seguivano una linea di pensiero che sembra strana a noi oggi, abituati come siamo a pensare ai quadrati o cubi di numeri, ma non ad altre figure geometriche che potrebbero essere collegate ai numeri in modo simile. Il «quadrato» di 4 era 16, ma il «triangolo» di 4 era 10, il numero perfetto. Entrambe le idee erano raffigurabili con sassolini. Se si «impilano» i sassolini in un certo modo si può scoprire che il «cubo» di 4 è 64; impilandoli in un altro modo si può scoprire che la «piramide» di 4 è 20. L'insegnamento della Montessori sfrutta il piacere di fare giochi come questi con piccoli oggetti simili a sassolini o pedine.

Essendo giunti alla conclusione che non solo i numeri, ma gli specifici numeri 1, 2, 3 e 4 e i rapporti fra loro fossero i principi organizzativi primordiali

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dell'universo, i pitagorici mossero in altre direzioni, alcune delle quali ci sembrano strane e primitive, ma non sorprende che essi dessero un'importanza grandissima alla semplicità della razionalità che avevano fugacemente intuito e che si attendessero troppo in termini di applicazioni e risultati immediati. Essi non erano diversi dai primi seguaci di Gesù, che cercavano di applicare

* In alcune matematiche antiche posteriori le cui radici possono essere ricondotte alla tradizione «pitagorica» e che, nell'interpretazione di alcuni studiosi, esistettero separatamente e in parallelo con la tradizione euclidea, nemmeno il numero 2 aveva uno status come «numero». Esso non era considerato né un numero pari né un numero dispari né un numero primo.

Come l'«1», non era affatto un numero, bensì il «primo principio del numero».

al mondo quotidiano quella che era stata per loro un'esperienza trasformatrice, pensando che ben presto ogni problema si sarebbe risolto. I pitagorici avevano scoperto una nuova via alla «verità». Grandi pensatori riflettevano sulla verità e proponevano soluzioni. Soltanto uno sciamano — e molti vedevano Pitagora in questa luce — era sicuro di avere la soluzione. In effetti Pitagora e i suoi seguaci avevano la soluzione, ma percorrevano la loro nuova via gravati da un bagaglio antico. Vivendo ancora nell'epoca degli oracoli, della divinazione e di concezioni mistiche, con tutti i preconcetti connessi sull'universo e la natura, la loro ingenua concezione del mondo li guidò in una concezione ingenua del potere dei numeri.

I giorni alcionii trascorsi da Pitagora a Crotone durarono trent'anni.

La biografia di Giamblico, La vita pitagorica, incluse lunghi elenchi di nomi dei primi pitagorici che egli trasse probabilmente da Aristosseno: chi sedeva ai suoi piedi, chi udì il suo insegnamento, chi argomentò e chi risolse problemi con lui, chi giocò con i sassolini e sperimentò col kanon e con dischi sospesi. Il giovane medico «Alcmeone» era davvero uno di loro? Esistette effettivamente un «Brontino» che era marito e/o padre di Teano? «Leone» e «Badilo» erano persone reali? E che dire delle «donne pitagoriche», delle quali non si sa nulla di più dei nomi che figurano in questi elenchi? È frustrante che non sopravviva alcuna informazione specifica sul modo in cui le nuove monete influirono sull'economia o - eccezion fatta per la sconfitta inflitta da Crotone a Sibari - sul governo dei pitagorici a Crotone o sul loro controllo del territorio circostante, sulle funzioni politiche da loro svolte, o sui ruoli nei quali essi esercitarono il loro potere; l'unica cosa che sappiamo è che i poteri da loro esercitati furono, per la maggioranza dei punti di vista, benefici per la regione. Quel che è chiaro è che intorno al 500 a.C., tre decenni dopo l'arrivo di Pitagora a Crotone, l'ostilità diffusa fra la popolazione

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e forse anche un colpo di mano fra i suoi seguaci misero fine a quell'esperienza. Le informazioni in proposito sono confuse e contraddittorie; pare che su Pitagora e i suoi seguaci aleggiasse il sospetto che essi stessero diventando troppo importanti politicamente o che aspirassero a un potere troppo grande; stranamente pare che i crotoniati fossero allarmati anche dall'eccessivo rispetto di Pitagora per le fave.

Secondo Diogene Laerzio, Pitagora era in visita con alcuni amici nella casa di Milone quando qualcuno appiccò deliberatamente il fuoco all'edificio. Gli incendiari erano o crotoniati timorosi che Pi tagora potesse «aspirare alla tirannide» o persone invidiose e scontente, che avrebbero voluto essere ammesse nella cerchia dei fedeli di Pitagora ma non ne erano state giudicate degne. Pitagora fuggì ma fu catturato e ucciso quando, per non attraversare un campo di fave, fece un percorso più lungo girando intorno a esso. Secondo Diogene Laerzio, egli decise probabilmente che fosse preferibile morire piuttosto che calpestare le fave o parlare con i suoi inseguitori.

Con lui morirono una quarantina dei suoi seguaci (VIII, 39).

Diogene Laerzio era interessato a versioni contrastanti delle notizie, cosicché riferì anche una storia tratta da Ermippo, nella quale Pitagora e i suoi amici erano presentati in una luce militaristica. Essi si erano uniti all'esercito di Agrigento per combattere quello di Siracusa. I siracusani li misero in fuga, e catturarono e uccisero Pitagora mentre faceva una deviazione intorno a un campo di fave. Non ebbero però miglior sorte i suoi compagni che non si fecero problemi a calpestare le fave. Trentacinque di loro furono catturati e bruciati sul rogo a Taranto, sotto l'accusa di aver tentato di imporre un governo rivale in opposizione ai governanti in carica (VIII, 40).

Diogene Laerzio (VIII, 45) dimostrò di avere un macabro senso dell'umorismo mettendo in versi parte di questa storia in un altro dei suoi «epigrammi di derisione»:

Ahi! Ahi! Perché tanto Pitagora venerò le fave?

E morì insieme con i suoi discepoli. V'era un campo di fave: Per non calpestarle fu ucciso dagli agrigentini, in un trivio.

Diogene Laerzio racconta altri due finali alternativi della vita di Pitagora, che riprese dai due autori, solitamente degni di fede, Dicearco ed Eraclide; secondo

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questi autori Pitagora sfuggì ai suoi inseguitori, ma morì poco dopo a Metaponto a causa di un digiuno che si era autoimposto. (*)

Porfirio diede una descrizione più dettagliata di quel che presumibilmente accadde, fondandosi su Aristosseno, che cita nomi e colma i vuoti di altre storie, e Giamblico fornisce qualcuno degli stessi particolari. Secondo questo racconto più completo, il grande successo di Pitagora e dei suoi allievi, e in particolare il loro ruolo nell'ammini

* Questo Eraclide non va confuso con l'Eraclide Pontico che criticò tanto severamente Pitagora. Eraclide Pontico visse nel IV secolo a.C. e fu un allievo di Platone. [L'Eraclide citato da Diogene Laerzio (VIII, 40) sarebbe Eraclide detto Lembo, di Callatis. (N.d. t.)]

strazione e nella riforma delle città, suscitò invidia, soprattutto, e nel modo più funesto, soprattutto in Cilone e nei suoi seguaci, i cilonei.

Cilone era «fra i primi cittadini per nascita, fama e ricchezze, e tuttavia aveva un carattere difficile e violento, turbolento e dispotico» (XXXV, 248), e controllava un gran numero di suoi fedeli sostenitori. Aveva un'alta opinione di se stesso, «si stimava degno del meglio» e supponeva che sarebbe stato accolto a braccia aperte nella comunità dei pitagorici. Quando Cilone avvicinò Pitagora, «decantando i propri meriti», e cercò di conversare con lui, ne fu respinto perentoriamente. Porfirio sottolineò che Pitagora «era abituato a leggere nella natura e nei portamenti del corpo la disposizione dell'uomo». Cilone non prese bene quella ripulsa. Riunì i suoi compari e li istigò a cospirare contro Pitagora e i suoi seguaci. Secondo Giamblico, a Cilone occorse un po' di tempo per mandare a effetto i suoi piani a causa del potere dei pitagorici e della fede che riponevano in loro i cittadini di varie città. I testimoni che avevano più simpatia per Cilone lo presentavano come il capo di un gruppo che si opponeva all'ultraconservatorismo oppressivo dei pitagorici.

Giamblico suggerì che potrebbe avere svolto un ruolo sovversivo Ippaso, che inventò la dimostrazione dei rapporti musicali usando i dischi di diverso spessore. Prima dell'attacco di Cilone, Ippaso appartenne, secondo Giamblico, a una fazione interna che dissentiva da Pitagora e dai membri più ortodossi della scuola. Egli premeva sui pitagorici che svolgevano ruoli importanti nel governo delle città perché adottassero politiche più democratiche, e potrebbe addirittura avere suscitato un'ostilità popolare contro il governo di Pitagora, prestandosi ai piani di Cilone.

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W.K.C. Guthrie descrisse, con una buona comprensione della natura umana, la complessa situazione politica che probabilmente contribuì alla morte o all'esilio di Pitagora.

Questa combinazione pare fosse dovuta da un lato al malcontento popolare per la concentrazione del potere nelle mani di pochi, accoppiata all'avversione dell'uomo comune per quello che considera un gergo incomprensibile, e dall'altro al sospetto dell'aristocrazia locale nei confronti delle fazioni pitagoriche, il cui assunto di superiorità e di sapere esoterico dev'essere stato a volte difficile da sopportare. (2)

Porfirio attinse da Dicearco la versione più lunga e più drammatica della storia. Pitagora si trovava con i suoi amici a casa di Milone quando gli uomini di Cilone vi appiccarono un incendio. I più devoti fra i seguaci di Pitagora si gettarono fra le fiamme per fare con i propri corpi una sorta di ponte, nell'intento di permettere al vecchio sapiente di mettersi in salvo. Poi Pitagora, insieme ai superstiti, tentò di raggiungere la città. Durante la fuga i compagni di Pitagora furono presi gradualmente dagli inseguitori, mentre Pitagora, protetto il più possibile dagli amici durante la fuga, riuscì infine a raggiungere il porto di Caulonia, passando di là a Locri. I locresi gli rifiutarono asilo. Forse pensavano che il tempo della preminenza politica dei pitagorici fosse finito e temevano una punizione da parte di Cilone se lo avessero ospitato. O forse temevano lo stesso Pitagora in quanto, come ricorda Porfirio, il messaggio che gli avevano mandato quando gli avevano rifiutato asilo diceva che ammiravano la sua sapienza ma amavano la loro presente condizione e il loro modo di vita attuale e non volevano cambiare. (*) La storia, in ogni caso, prosegue dicendo che alcuni vecchi furono inviati a intercettarlo prima che uscisse dalle porte, per dirgli che i locresi gli avrebbero dato cibi e rifornimenti ma che doveva «andare in qualche altro luogo». Pitagora si imbarcò allora per Taranto, dopo di che fece ritorno a Crotone. Anche i crotoniati lo scacciarono. Dappertutto, nel modo in cui Porfirio riferì le parole di Dicearco, «la plebe insorse contro di lui, e ancor oggi gli abitanti delle varie città fanno menzione di quei tumulti, chiamandoli le sommosse contro i pitagorici». Secondo il racconto di Dicearco, Pitagora trovò infine asilo nel tempio delle Muse a Metaponto, dove si ammalò fino a morirne, essendo oppresso dal dolore per gli amici che avevano sacrificato la loro vita nel tentativo di salvarlo.

Gli abitanti di Metaponto preferiscono un altro finale della storia.

Secondo la tradizione che si conserva in questa città, dopo che Pitagora vi fu giunto come profugo da Crotone, vi si stabilì e vi creò una scuola. Dopo la sua

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morte la sua casa e la sua scuola furono incorporate nel tempio di Era. Ancora oggi a Metaponto si conservano quindici colonne e alcune parti del pavimento del tempio di Era, ruderi noti come le Tavole Palatine, perché nel Medioevo alcuni cavalieri (paladini) vi si riunirono prima di partire per le crociate, o anche come Scuola di Pitagora. Nel I secolo a.C., quando Cicerone visitò Metaponto, la gente era ancora in grado di indicare la casa in cui si cre

* Parte della loro «condizione presente» era un'economia più primitiva di quella di Crotone. Essi non usavano monete, e non ne avrebbero usato fino a più di un secolo dopo. Vedi Guthrie, 2003, p. 178 nota.

deva che fosse vissuto Pitagora. Cicerone descrive la sua commozione nel visitarla.

Porfirio si dolse che la maggior parte di ciò che aveva insegnato Pitagora fosse morto con lui e con i suoi seguaci. «Con loro», scrisse Porfirio, «morì anche il loro sapere, che fino allora avevano tenuto segreto, eccezion fatta per alcune cose oscure che venivano comunemente ripetute da persone che non le capivano.» Giamblico scrisse che le città non piansero la perdita di Pitagora né parvero essersi rese conto di quel che era accaduto, anche se in verità avevano perduto gli uomini più qualificati a governare. «Allora insieme con quei sapienti vennero meno le loro conoscenze, perché le avevano custodite fino a quel momento nel loro cuore come un segreto ineffabile» (XXXV, 252).

6. «LA FAMOSA FIGURA DI PITAGORA» VI secolo a. C.

Nel I secolo a.C. o all'inizio del II, Plutarco, l'autore delle famose Vite parallele, e il suo gruppo cercarono di trovare il riferimento più antico che collegasse Pitagora al teorema che da lui prende il nome. (*) Essi si imbatterono in uno scritto di un certo Apollodoro, vissuto probabilmente nel secolo di Platone e di Aristotele, in cui si diceva che Pitagora avesse sacrificato un bue per celebrare la scoperta della «famosa figura di Pitagora». (**) Plutarco concluse che questa «famosa figura» doveva essere il triangolo pitagorico. Purtroppo Apollodoro, nella sua descrizione, non andò oltre le parole «la famosa figura di

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Pitagora», le quali suggeriscono che la figura fosse così famosa che non occorresse specificarla ulteriormente.

Anche un autore moderno potrebbe scrivere le parole «la famosa figura di Pitagora» ed essere altrettanto certo di Apollodoro che nessun lettore penserebbe a qualcosa di diverso dal «triangolo di Pitagora». Persino non matematici riescono spesso a ricordare a memoria il «teorema di Pitagora»: il quadrato costruito sull'ipotenusa di un triangolo rettangolo è uguale alla somma dei quadrati costruiti sui due cateti. Per millenni chiunque abbia saputo qualcosa su questo teorema ha pensato che esso fosse stato scoperto da Pitagora.

Per molti che hanno imparato la formula a scuola e hanno sempre pensato ad essa solo in termini di elevazione al quadrato di numeri anziché pensare che si riferisse a veri quadrati, fu una rivelazione quasi agghiacciante quando videro Bronowski, nella sua serie televisiva The Ascent of Man, applicare un quadrato a ogni lato del triangolo

* La parola «teorema», nella terminologia moderna, ha implicazioni che non si applicano all'uso più antico di questo termine. Pur tenendo presente questa nozione, continuerò a usare il termine in questo libro per non dare l'idea di riferirmi a qualcosa di diverso da quello che tutti chiamano teorema di Pitagora.

** È esistito più di un Apollodoro, ma questo fu probabilmente Apollodoro di Cizico, che visse nel IV secolo a.C.

e mostrare quale fosse il vero significato dell'equazione. Lo spazio racchiuso nel quadrato «costruito sull'ipotenusa» è esattamente uguale alla quantità di spazio racchiuso nei quadrati costruiti sugli altri due lati presi assieme. L'intero problema assunse improvvisamente un aspetto decisamente pitagorico. È chiaro che il cosiddetto «teorema di Pitagora» è una cosa che potrebbe effettivamente essere stata scoperta, ed è vero in un modo che non richiede la preparazione di un matematico o neppure una mente matematica per essere riconosciuto. In effetti l'uso di numeri è solo uno di vari modi per scoprirlo e per dimostrarne la verità.

Bronowski sottolineò che gli angoli retti fanno parte dell'esperienza più primitiva e primordiale del mondo:

Il nostro mondo visivo si fonda su due esperienze: che la gravità è verticale, e che l'orizzonte sta ad angoli retti con essa. Ed è questa congiunzione, questo incrocio di linee nel campo visivo, a fissare la natura dell'angolo retto. (1)

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Bronowski non intendeva dire che sperimentando il mondo in questo modo si dovesse pervenire immediatamente - o necessariamente, in qualche tempo - alla scoperta del teorema. In effetti in tutto il mondo antico l'angolo retto veniva usato nelle costruzioni e nell'agrimensura già molto tempo prima di Pitagora, e i triangoli rettangoli erano usati con funzioni decorative. (*) Un disegnatore è in grado di disegnare triangoli rettangoli anche se non ha a disposizione strumenti per il disegno, e un abile disegnatore può tracciare triangoli

* Nessuno ha mai sostenuto che Pitagora abbia scoperto l'angolo retto o il triangolo rettangolo; quel che gli viene riconosciuto è che scoprì la relazione esistente fra i tre lati del triangolo rettangolo: quello che noi chiamiamo il teorema di Pitagora.

rettangoli nei quali nessun occhio umano è in grado di scorgere benché minime imprecisioni: il tutto senza conoscere il teorema di Pitagora. Come l'accordatura di un'arpa richiede orecchio — e fu così già molto tempo prima che qualcuno capisse i rapporti dell'armonia musicale -, così l'uso di triangoli rettangoli nel disegno era una cosa che riguardava l'occhio. Giudizi del genere su armonia, figure e linee sono intuitivi per gli esseri umani, e i rapporti matematici che si celano nella natura e struttura dell'universo si manifestano spesso in modi utili nel mondo quotidiano già molto tempo prima che qualcuno pensi di cercarne spiegazioni o relazioni profonde.

Eppure in certi tempi e luoghi nella storia e nella preistoria - per ragioni su cui si possono solo fare congetture - si sono presentate circostanze giuste per suscitare un desiderio di guardare sotto la superficie. Fra i pitagorici agì una motivazione forte e insolita. Ricerche come queste erano la via seguendo la quale ci si poteva sottrarre al tedioso ciclo delle reincarnazioni e raggiungere il livello di esistenza divino. Non si può rifiutare sommariamente la tradizione che attribuisce ai pitagorici la scoperta del teorema, anche se, contrariamente a quella che fu una convinzione diffusa per secoli, essi non furono decisamente i primi a scoprirlo.

Nessuno sa come o quando il «teorema di Pitagora» sia stato scoperto per la prima volta, ma ciò avvenne certamente molto tempo prima di Pitagora. Gli archeologi hanno trovato il teorema nella Mesopotamia meridionale su tavolette risalenti alla prima metà del II millennio a.C., un migliaio di anni prima del tempo di Pitagora. Il teorema era già così ben noto che veniva insegnato nelle scuole scribali.

In altre regioni le prove di un'antica conoscenza del teorema sono meno conclusive ma ancora interessanti. I costruttori egizi sapevano come produrre

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angoli retti con un grado di precisione sorprendente e misterioso, forse usando una tecnica che valse loro l'appellativo di «tiratori di corde» fra i greci loro contemporanei. C'è un indizio, risalente al 1400 a.C. circa, sul significato di questa espressione in un dipinto in una tomba a Tebe, dove secondo la narrazione di Porfirio Pitagora avrebbe trascorso la maggior parte del suo soggiorno in Egitto. Il dipinto mostra uomini che misurano un campo con una corda, sulla quale si osservano nodi o segni a intervalli regolari. (2) Forse usavano le corde per creare angoli retti, prendendo un pezzo di corda lungo una decina di metri, che suddividevano poi in tre parti pari a 3, 4 e 5 unità. Tre, quattro e cinque sono una «tripletta» di numeri interi che creano un triangolo rettangolo, e bloccando la corda a ciascuno dei tre segni o nodi della corda e tenendo la corda ben tesa, si otteneva un triangolo rettangolo. I nodi o segni nel dipinto murale a Tebe non sono chiaramente spaziati a tali intervalli, ma ciò poteva dipendere dal fatto che l'artista non era un agrimensore.

Il dipinto murale, risalente al 1400 a. C. circa, raffigura degli uomini che misurano un campo.

Gli egizi non lasciarono istruzioni sulle tecniche dei «tenditori di corde», e la conoscenza della tripletta 3-4-5 non è una chiara indicazione del fatto che essi conoscessero il teorema che dava a quella tripletta un senso più profondo. Gli egizi avevano un altro metodo per produrre angoli retti che non implicava corde. La groma era una croce di legno girevole, imperniata centralmente su un'asta piantata nel terreno, agli estremi dei cui due bracci uguali, perpendicolari fra loro, erano sospesi dei fili a piombo. Un agrimensore o un costruttore traguardava ogni coppia opposta di fili, dopo di che ruotava di novanta gradi l'intero dispositivo ripetendo l'operazione; infine spostava uno dei fili per compensare metà della differenza. Il risultato era un angolo retto esatto.

In India i triangoli rettangoli cominciano ad apparire nei disegni su altari sacrificali indù a partire dal 1000 a.C. (3) Una collezione di manuali indù intitolati Sulba Sutras («Regole della corda»), risalenti al 500-200 a.C., spiegano come costruire questi altari e come ingrandirli conservando le stesse proporzioni. In un'epoca di sconvolgimenti, ingrandire un altare era un modo per cercare una protezione più sicura dal dio o dagli dèi, e una condizione per ottenere la risposta giusta era che si fossero mantenute le proporzioni esatte. I costruttori fissavano corde a pioli conficcati nel terreno, come fanno oggi i muratori: di qui le «regole della corda». Nei manuali non appare il teorema di Pitagora, ma pare che gli autori ne fossero informati. Una conoscenza risalente al VI secolo a.C. in Grecia potrebbe avere rag giunto l'India, per esempio con gli eserciti di Alessandro

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Magno, attorno al 327 a.C. Non è eccessivo congetturare che sia stato così. Il filosofo cinico Onesicritico viaggiò con Alessandro e, nei suoi ricordi, dice che un sapiente indiano gli fece domande sulla cultura e dottrina greca. Uno degli argomenti di cui parlarono fu il precetto pitagorico di evitare di mangiare carne. (4) Quando Onesicritico ebbe questa conversazione, il teorema di Pitagora era ben noto nel mondo greco e quasi certamente anche lui lo conosceva. Nel caso indiano c'è però qualcosa di più. Benché i manuali scritti siano posteriori al tempo di Pitagora, esistono attestazioni di altari simili, e del loro ingrandimento proporzionale, già in vari secoli prima. Non sopravvive alcun manuale di quel tempo ed è plausibile che gli autori di manuali posteriori stessero applicando nuove conoscenze a un'arte anteriore. È sufficiente osservare la sorprendente facilità con cui la più umile e isolata donna indiana analfabeta di oggi è in grado di creare disegni geometrici simmetrici altamente complessi con polveri colorate sul gradino della porta di casa sua, riferendosi a un piccolo disegno tenuto immobile da una pietra vicina a lei, per domandarsi se fosse proprio necessaria una comprensione della geometria matematica per creare un disegno complesso e per ingrandirlo mantenendo le proporzioni dell'originale.

Nella Mesopotamia ci sono però prove inconfutabili che il teorema era conosciuto e compreso all'inizio del II millennio a.C. (5) Non abbiamo il minimo accenno su chi lo abbia scoperto e come, o quanto esso possa essersi rivelato utile. Le lezioni scolastiche scritte su tavolette misuravano porte e granai, e uno di questi era così grande che il problema era stato chiaramente formulato solo per la sua utilità come esercizio, senza avere in mente un granaio reale, anche se probabilmente nell'intento di fornire agli allievi la medesima preparazione matematica che avrebbero potuto in seguito applicare nelle situazioni pratiche della vita reale. (6)

Le scoperte fatte nel XX secolo sulle origini mesopotamiche del teorema di Pitagora ebbero inizio nel 1916, quando Ernst Weidner studiò un frammento di una tavoletta scolastica mesopotamica registrato come VAT 6598, risalente al periodo paleobabilonese, all'inizio del II millennio a.C. I due ultimi problemi leggibili sulla tavoletta, anche se lacunosi, richiedevano il calcolo della diagonale di un rettangolo e mostravano metodi per compiere tale calcolo. Mancava qualsiasi riferimento al teorema di Pitagora, ma Weidner stimò la precisione dei metodi e li confrontò col teorema, avvertendo archeo

La tavoletta di testo etichettata Plimpton 322.

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logi e matematici circa la possibilità che il teorema fosse noto più di mille anni prima di Pitagora.

Nel 1945 venne alla luce un testo etichettato dagli archeologi come Plimpton 322, che elencava quindici paia di quelle che sarebbero state note in seguito come triplette pitagoriche: tre numeri interi che, se usati come misure dei lati di un triangolo, avrebbero prodotto un triangolo rettangolo. (7) Le triplette pitagoriche minime sono 3-4-5 e 5-12-13. (*) L'elenco portava gli scribi antichi nel regno di numeri piuttosto grandi per le loro consuetudini. Benché l'elenco della tavoletta 322 non fosse una prova inconfutabile del fatto che chi aveva scritto quelle triplette conoscesse il teorema di Pitagora, era però un altro indizio di tale possibilità.

Negli anni Cinquanta del Novecento, il Dipartimento di Archeologia iracheno scavò, non lontano dall'antica Babilonia, (**) un si

* È ovviamente indifferente che con tali numeri si indichino passi, metri, chilometri o parasanghe.

** Purtroppo la maggior parte della Babilonia dell'inizio del II millennio a.C. non può essere scavata perché si trova molto sotto il livello della to noto come Tell Harmal: una cittadina chiamata Shaduppum che era stata un complesso amministrativo sotto re che avevano governato subito prima del grande legislatore Hammurabi, durante la I dinastia babilonese (1894-1595 a.C.). La Baghdad moderna si è diffusa a tal punto che l'area in cui è situato il Teli Harmal è oggi uno dei suoi sobborghi, ma durante la I dinastia babilonese Shaduppum era una comunità indipendente saldamente fortificata. Gli archeologi iracheni scoprirono mura massicce irrobustite da torri, un tempio con leoni in ceramica in grandezza naturale al suo ingresso, colti nel bel mezzo di un ruggito e, al di là della strada rispetto al tempio, gli edifici che erano stati il centro amministrativo primario e avevano compreso una scuola per scribi. I documenti cuneiformi sepolti fra le loro macerie non erano solo testi amministrativi, lettere e un codice di leggi, ma anche lunghi elenchi di termini geografici, zoologici e botanici, nonché materiale matematico. Molte di queste tavolette erano, come la VAT 6598 di Weidner, testi scolastici, usati e copiati da allievi con gradi diversi di abilità o sciatteria nella scuola per scribi. Essi ammontavano a una sezione trasversale del sapere di Babilonia al suo culmine, quattromila anni fa. Una tavoletta rivelò che gli scribi di quell'epoca comprendevano triangoli, radici quadrate e radici cubiche, e li usavano in un modo che implicava familiarità col teorema di Pitagora. (*) (8)

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Negli anni Ottanta del Novecento Christopher Walker, del British Museum, fece una scoperta straordinaria, non in uno scavo archeologico, bensì nella vasta e disorganizzata collezione di frammenti di tavolette del museo. Un pezzo, numerato BM 96957, risultò combaciare perfettamente col frammento di tavoletta descritto da Weidner nel 1916. I due pezzi insieme presentano tre problemi e tre metodi per risolverli. Il terzo metodo, che si trova sul reperto BM 96957 di Walker, è il teorema di Pitagora (vedi il box a pagina seguente per una quasi-traduzione di una parte del testo).

La conoscenza matematica che gli studenti scribi padroneggiavano nella prima metà del II millennio a.C. era ancora disponibile in Babilonia nel VI secolo a.C., nel periodo neobabilonese, quando Giamblico pensava che Pitagora avesse visitato Babilonia? Noi tendiamo a supporre che la conoscenza, una volta scoperta, rimanga sco falda freatica.

* La tavoletta si trova nell'Iraq Museum, Baghdad, dove è elencata col numero di registrazione 55357.

Box.

I babilonesi usavano il sistema numerico sessagesimale, non quello decimale: in altri termini il loro sistema numerico era fondato su base sessanta, non su base dieci.

(Dal sistema sessagesimale deriva il nostro sistema moderno di contare le ore, i minuti e i secondi.) Nel disegno e nel testo sotto, le parti fra parentesi sono una ricostruzione congetturale di Eleanor Robson, fondata sui contenuti della parte restante della tavoletta di Baghdad55357. I numeri in corsivo fra parentesi danno gli equivalenti nel sistema decimale. Il disegno non e in scala, come non lo era nella tavoletta. La lunghezza della diagonale e un numero irrazionale: 41 più una serie infinita di decimali dopo la virgola.

L'autore della tavoletta si accontentava di una misura imprecisa della diagonale. La misurazione e quella di una porta rettangolare giacente su un lato, cosicché l'«altezza» si riferisce al lato più lungo.

[Qual è l'altezza? Tu: ] Eleva al quadrato [41....... la diagonale].

Il numero quadrato è 28 20 [1700]. Eleva al quadrato [10, la larghezza]. Otterrai 1 40 [100].

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[Sottrai] 1 40 da 28 20 [1700 - 100]. Il resto è [26 40

[1600].

Qual è la radice quadrata? La radice quadrata è 40.

Questa soluzione usa decisamente il teorema che noi oggi chiamiamo di Pitagora. In terminologia moderna: la larghezza della porta è 10, che elevata al quadrato darà 100. L'altezza della porta è 40, che elevata al quadrato dà 1600. la lunghezza della diagonale della porta è un numero vicino a 41.

Radice 100+ 1600 = radice/1700 = 41,23105. (9) fine box.

perta, ma molte cose possono accadere alla conoscenza in mille anni, soprattutto in una regione politicamente instabile come questa. Per esempio, raffinate tecniche di costruzione normalmente usate dai romani erano ignote anche agli architetti e costruttori più brillanti del

Medioevo e dell'inizio del Rinascimento, e furono scoperte come per la prima volta nel Quattrocento. (10) La conoscenza di un computer meccanico con trenta ingranaggi fatto funzionare a mano, noto come il Meccanismo di Anticitera, usato dai greci ellenistici nel 150-100 a.C., e la comprensione tecnologica necessaria per produrlo e usarlo, andarono probabilmente perdute, e trascorse poi un migliaio di anni prima che qualcuno ripensasse anche solo alla possibilità di una tale invenzione. (11) (*) Le tavolette di Shaduppum scomparvero fra le rovine prima del 1600 a.C. e al tempo di Pitagora erano ancora là dove gli archeologi le avrebbero trovate nel XX secolo d.C.

Ci sono pochissime tavolette scolastiche di matematica risalenti al periodo 1600-1350 a.C., e c'è poi un'altra lacuna nella documentazione archeologica fra il 1100 e l'800 a.C. La storica e assiriologa Eleanor Robson, che ha dedicato a questi problemi più riflessioni di forse qualsiasi altro studioso moderno, ha elencato varie spiegazioni possibili, ma ha poi concluso che il crollo dello stato paleobabilonese nel 1600 prima dell'era volgare comportò una massiccia dissoluzione di ogni sorta di cultura scribale. La maggior parte della letteratura sumerica andò probabilmente perduta, e pare che ciò valga anche per la massima parte della matematica paleobabilonese. (12) (**)

Benché la Robson ritenga che i babilonesi posteriori ignorassero con ogni probabilità tutte le conquiste della matematica paleobabilonese, è probabile che siano rimasti in uso per secoli in Mesopotamia e altrove effetti secondari di quella conoscenza perduta, come una tri

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* Questo meccanismo, usato probabilmente nella preparazione di calendari per la semina, il raccolto e le osservanze religiose, fu scoperto nel relitto di una nave romana affondata al largo di Anticitera intorno al 65 a.C. Fu più complesso tecnicamente di qualsiasi strumento noto per almeno un altro millennio.

** Insurrezioni politiche e sociali possono avere creato sconvolgimenti.

Oppure questa penuria di documentazione potrebbe essere colpa degli studiosi moderni, che hanno scavato pochi siti di questi periodi. Questi siti non attraggono molti studiosi, anche perché i documenti sono estremamente difficili da decifrare. Inoltre, quando la complicatissima scrittura cuneiforme fu sostituita dall'alfabeto aramaico, si cominciarono a scrivere i documenti su materiali deperibili e riciclabili. Le scritture paleosumerica, accadica e cuneiforme vennero usate per un numero sempre più ristretto di fini, fra i quali a quanto pare non c'era la matematica, e anche quando si usò la scrittura cuneiforme lo si fece spesso su tavolette di avorio o di legno ricoperte di cera, che venivano cancellate per essere riutilizzate e che non sono sopravvissute.

pletta utile per trovare angoli retti, senza che quanti li utilizzavano ricordassero il rapporto nascosto fra i numeri. (13) E quand'anche Pitagora non fosse mai stato in Babilonia, la Grecia non era certo un deserto se si considerano le sue architetture e la pratica dell'agrimensura: la sorprendente galleria adduttrice d'acqua di Eupalos a Samo fu costruita nel secolo di Pitagora, come anche molti splendidi templi greci. Anche se Pitagora e i suoi seguaci non furono i primi a conoscere il teorema, la loro potrebbe comunque essere stata una scoperta indipendente, o potrebbe essere stata legata all'antica conoscenza, ormai perduta, solo da un qualche vestigio superstite.

I pitagorici in possesso della tripletta 3-4-5, dovunque l'avessero appresa, non l'avrebbero certo lasciata inoperosa riconoscendone l'utilità. E se avessero concentrato la loro attenzione sulla ricerca di una connessione significante fra i tre numeri, non avrebbero presumibilmente impiegato molto tempo a trovare il teorema. Potrebbero non averlo trovato con l'aiuto dei sassolini, che usavano come gettoni per i calcoli più che come unità per misurare distanze, ma la stessa visualizzazione che rendeva interessanti i sassolini li avrebbe condotti ben Pensiamo a dei terreni: Pitagora, dopo tutto, era cresciuto a Samo in una famiglia di geomori, i quali avevano ricevuto questo nome dal modo in cui procedevano alla spartizione dei terreni. Prendiamo 9 appezzamenti di terra, aggiungiamone 16 e ne avremo 25, presto a qualcosa di simile al diagramma qui sotto, dove l'elevazione al quadrato dei numeri della tripletta rivela la relazione nascosta.

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Se i pitagorici trovarono questa relazione dopo avere già scoperto i rapporti armonici, dovettero avere la sensazione che il fulmine avesse colpito due volte, poiché questo era un altro esempio stupefacente della razionalità numerica nascosta dell'universo. Credendo con tanta forza in un'unità di tutte le cose, dovettero pervenire rapidamente alla conclusione corretta che lo stesso tipo di connessione nascosta dovesse applicarsi a tutti i triangoli rettangoli, e forse anche alla conclusione sbagliata che dovesse esser vero per tutti i triangoli.

La seconda parte della tradizione secondo la quale il teorema sarebbe stato scoperto da Pitagora e dai suoi primi seguaci è che in seguito rimase sospesa una spada di Damocle sulla loro testa. L'universo aveva in serbo per loro una sorpresa crudele, l'«incommensurabilità».

La maggior parte dei triangoli rettangoli non ha una tripletta di numeri interi, come 3-4-5. Per esempio, secondo il teorema, un triangolo rettangolo con cateti di 3 m ciascuno, ciascuno dei quali elevato al quadrato dà 9 m2, deve avere un'ipotenusa la cui lunghezza elevata al quadrato darà 18. Non è però semplice trovare la radice quadrata di 18 e quindi la lunghezza dell'ipotenusa, poiché la radice quadrata di 18 non esiste fra numeri interi o frazioni (1/T8 = 4,2426406871...).

Un triangolo isoscele come questo era un incubo per una comunità di studiosi che credevano in un universo razionale fondato sui numeri.

Essi potevano vedere che un tale triangolo isoscele esisteva effettivamente ed era un triangolo rettangolo. Non era qualcosa di ipotetico sospeso confusamente in uno spazio concettuale. Era il triangolo che ottenevano quando tracciavano la diagonale fra due angoli di un quadrato. Nessuna suddivisione della lunghezza dei lati (né in centimetri, né in metri, né in chilometri, né in alcuna frazione di queste unità) divideva la diagonale in numeri interi. Più in generale, anche se si potrebbe pensare che, prese due lunghezze a piacere, dovrebbe esistere una qualche unità in grado di dividerle entrambe, dando un risultato esatto senza residui - forse non in centimetri o in millimetri o in qual siasi unità che abbia un nome, ma comunque in una qualche unità piccola a piacere —, il fatto è che non è così che la realtà opera in questo universo. E il problema dell'incommensurabilità non riguarda solo i triangoli isosceli. Esso valeva anche per la «porta» misurata sulla tavoletta babilonese. I babilonesi sapevano delle triplette e a quanto pare accettavano il fatto che le unità che misuravano la diagonale non erano per lo più esprimibili con un numero razionale.

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I primi pitagorici potrebbero benissimo avere scoperto il problema, ma è molto meno probabile che abbiano trovato la soluzione - i numeri irrazionali - o che questa soluzione potesse essere accettabile per loro se l'avessero trovata. (*) I numeri irrazionali non sono precisi o belli come i numeri interi. Un numero irrazionale ha una sequenza infinita di cifre a destra della virgola, senza alcuna cifra o gruppo di cifre decimali che si ripeta regolarmente.

L'ipotesi che l'unica informazione che Pitagora imparò altrove sia stato un vestigio del problema - la tripletta 3-4-5 - ha a suo favore il fatto di risolvere un problema con la sequenza delle scoperte dei pitagorici. Per potere aver avuto una crisi di fede devastante in conseguenza della scoperta dell'incommensurabilità, essi dovettero avere prima la fede, non la crisi, e in effetti c'è una tradizione forte nel senso che questo fu l'ordine in cui le scoperte furono fatte. È però difficile immaginare che qualcuno scopra il teorema da zero (senza la tripletta) senza scoprire simultaneamente l'incommensurabilità. Un'altra sequenza possibile è che i pitagorici abbiano scoperto prima l'incommensurabilità, mentre lottavano con i triangoli rettangoli, e che solo in seguito si siano resi conto che esistevano effettivamente anche triangoli rettangoli che non erano incommensurabili; questa non è però la sequenza tradizionale. Una considerazione simile rende meno probabile l'ipotesi che Pitagora abbia imparato l'intero problema altrove: in questo caso, infatti, avrebbe appreso anche dell'incommensurabilità, cosicché questa non sarebbe stata più tardi una sorpresa per lui.

Eleanor Robson è convinta, sulla base di prove contenute nella

* Un numero razionale è un numero intero o una frazione ottenuta dividendo un numero intero per qualsiasi altro numero intero: 1/2, 4/5, 2/7 ecc. La radice quadrata di 2 fu probabilmente trovata dai pitagorici a partire dalla loro teoria dei numeri pari e dei numeri dispari, forse già intorno al 450 a.C., e sicuramente non oltre il 420, da cinquanta a ottant'anni dopo la morte di Pitagora. Platone conosceva le radici quadrate dei numeri fino a 17.

matematica stessa, che la matematica paleobabilonese non sia un antecedente diretto dell'antica matematica greca; e una tripletta usata nelle costruzioni e nell'agrimensura - di cui nessuno ricordava l'origine - non rappresentava certo il grosso della matematica paleobabilonese. (14) La tripletta «pitagorica» poteva essere rimasta in attesa su uno scaffale, mentre i pitagorici investigavano le lunghezze delle corde d'arpa e scoprivano rapporti musicali. Lo studio di questi rapporti fu un nuovo tipo di pensiero sui numeri. Fu questo che intese dire Aristosseno quando scrisse: «I numeri furono ritirati dall'uso dei mercanti e

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onorati per se stessi». Una predilezione per questo tipo di pensiero potrebbe avere condotto i pitagorici, dopo la loro scoperta musicale, a considerare con maggior cura la tripletta 3-4-5. Dobbiamo concedere che questo particolare triangolo non era molto interessante in relazione ai criteri dei pitagorici. Il 5 non compare nei rapporti fondamentali della musica, né sommato con 3 e 4 dà 10 o forma la tetraktys. Nessuno avrebbe mai giurato su questo triangolo!

Ma la connessione nascosta... Quella sì che era un'altra ragione per inginocchiarsi, e forse per avere un'altra grande crisi di fede quando si cominciava a guardare altri triangoli rettangoli.

Si ritiene che alcuni pitagorici abbiano trovato un'altra bellezza razionale nella tripletta: essi designarono il 5 come il «matrimonio».

Il lato di 5 unità di questo triangolo rettangolo (l'ipotenusa) collegava i due cateti, quello di 3 unità (che è dispari) con quello di 4 (che è pari). Il «dispari» era maschio e «limitato»; il pari era femminile e «illimitato». Questo triangolo era quindi una manifestazione dell'armonia che conciliava limitato e illimitato. Nel mondo moderno noi associamo tali legami deboli con una sorta di mente diversa da quella che emerse col teorema di Pitagora. Nel mondo antico, in cui quelle persone stavano facendo i primi incerti passi verso la comprensione della natura e del cosmo e della condizione umana, quella distinzione non è valida.

Se Pitagora scoprì o conobbe la regola, la dimostrò? La maggior parte degli storici della matematica crede che il concetto di «dimostrazione» quale fu inteso in seguito fu ignoto prima che l'alessandrino Euclide lo introducesse negli Elementi intorno al 300 a.C. Al tempo di Pitagora la conclusione che una qualche proprietà fosse «vera per ogni triangolo rettangolo» sarebbe stata formulata probabilmente sulla base di fondamenti diversi da una dimostrazione euclidea. Sarebbe stata un assunto non sostenuto da argomentazioni logiche, una congettura, o anche una decisione presa in un modo scientifico piuttosto che in un modo matematico, verificandola il maggior numero di volte possibile e col maggior numero possibile di esempi diversi.

L'idea che proposizioni matematiche dovessero avere un'applicazione generalizzata, anche se data per scontata oggi e implicita nelle opere babilonesi, non faceva parte di solito dell'antica forma mentis prima di Pitagora. Essa è considerata uno dei grandi contributi dell'antica matematica greca, e fu probabilmente dovuta a Pitagora e ai suoi seguaci. Nel loro caso potrebbe essere stato solo un assunto fondato sulla loro fede nell'unità di tutto l'essere, non

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qualcosa che essi fossero in grado di dimostrare o anche solo che pensassero si dovesse dimostrare.

Ci sono però dimostrazioni semplici del teorema che alcuni amerebbero attribuire ai pitagorici, e un argomento a sostegno della tesi che i pitagorici avrebbero effettivamente usato queste dimostrazioni è che quelle sequenze di argomentazioni sarebbero modi buoni per scoprire il teorema, anche non avendo alcun concetto di dimostrazione. Nel dialogo Menone di Platone c'è una lezione di geometria che secondo alcuni sarebbe riconducibile a Pitagora. L'indizio sta nel fatto che Platone la usò per dimostrare la «reminiscenza» di ciò che si è imparato prima della nascita: un'idea connessa alla dottrina pitagorica del ricordo di vite passate. Il triangolo che compare nella dimostrazione del Menone è il molesto triangolo isoscele, ma la dimostrazione aggira il problema dell'incommensurabilità non usando numeri. È difficile immaginare che i pitagorici potessero accontentarsi di una «verità» che non usasse numeri. Era come se l'universo si facesse beffe di loro con questo triangolo che forniva una dimostrazione così chiara e nitida della loro regola, e che al tempo stesso contenesse l'incommensurabilità. La discussione della dimostrazione di Platone è più pertinente al contesto di un altro capitolo. Bronowski, nel libro tratto dalla sua serie televisiva, presentò un'altra dimostrazione senza numeri che riteneva potesse essere stata usata da Pitagora. L'abile dimostrazione di Bronowski è qui riprodotta nell'Appendice.

Il triangolo rettangolo non fu l'unica trappola nel pensiero pitagorico in cui si celò l'incommensurabilità, ma fu la più evidente. Le argomentazioni erudite sul problema se siano stati i pitagorici a scoprirla, e se quella scoperta abbia causato una crisi di fede nella razionalità dell'universo, tende a proseguire all'infinito, come la sequenza di cifre dopo la virgola che divide gli interi dai decimali in un numero irrazionale. Ma una persona intelligente che ragionasse lungo linee pitagoriche e che si occupasse di triangoli rettangoli, difficilmente avrebbe potuto mancare di scoprire l'incommensurabilità. Soltanto una persona che avesse avuto deferenza per i numeri e per la raziona lità dell'universo avrebbe potuto però esserne profondamente turbata. Alcuni hanno pensato che Pitagora e i suoi seguaci potrebbero avere reagito ritirandosi in una geometria senza numeri, ossia che quella che all'inizio era stata una «geometria aritmetizzata» sia stata riformulata dai pitagorici in modo non aritmetico e trasferita poi in Euclide. Nonostante il passo di Platone nel Menone, e il suggerimento che esso potesse riflettere la dimostrazione da parte di Pitagora del suo teorema, nulla potrebbe sembrare più vistosamente apitagorico di una rinuncia ai numeri! (15)

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Porfirio sarebbe stato lieto di apprendere che gli antichi mesopotamici conoscevano i triangoli rettangoli, le triplette e il teorema. Fra le varie possibilità egli avrebbe quasi certamente optato per la tesi che il teorema era già noto in tempi più antichi, ma che quella di Pitagora fosse stata una scoperta indipendente. Porfirio credeva in effetti che vari popoli antichi (fra i quali citò gli indiani, gli egizi e gli ebrei) avessero posseduto una sapienza universale primordiale — chiamata in seguito prisca sapientia — e che Pitagora fosse stato il primo a possederla nel mondo greco. (16) Il teorema è così intrinseco alla natura e così meravigliosamente semplice che sarebbe strano se nessun utilizzatore anteriore dei triangoli non avesse avuto una qualche forma di curiosità in proposito e non lo avesse immaginato e cercato di capirlo.

E che dire di un suggerimento ancora più sorprendente: che Pitagora non abbia avuto assolutamente niente a che fare con la scoperta?

L'attribuzione a lui del teorema che porta il suo nome non potrebbe essere dovuta semplicemente al fatto che queste leggende tendono a essere associate a persone famose? Nel corso di due millenni e mezzo sono stati ingiustificatamente attribuiti a Pitagora numerosi risultati che non erano nemmeno lontanamente pitagorici. Le espressioni «pitagorico» o «di Pitagora» sono diventate termini descrittivi per indicare qualcosa di intelligente che dimostra intuizione matematica, con un'aura di sapienza, di bellezza o di moralità. Una «coppa pitagorica» che si vende a Samo punisce il bevitore smodato che la riempie sopra un certo livello permettendo al vino di fuoruscire dal fondo. I moderni cittadini di Samo sono sorpresi — o almeno fingono di esserlo — del fatto che qualcuno possa dubitare dell'attribuzione di quest'invenzione a Pitagora. Una formula «pitagorica» predice quali squadre di baseball hanno le maggiori probabilità di vincere in America. Nessuno si sente ingiuriato dai dubbi su questa formula.

Una possibilità peggiore per l'immagine di Pitagora è quella che egli abbia preso il teorema in Babilonia sostenendo poi di averlo scoperto lui. Secondo Eraclito, «egli superò di gran lunga tutti gli uomini nell'esercizio della ricerca. E si fece una scelta di questi scritti da cui derivò la vasta sapienza, che così risulta varia erudizione e ambiguo artifìcio». (*) Eraclito non sarebbe rimasto sorpreso più di tanto se fosse emerso che Pitagora avesse rubato il suo teorema, con tutti gli annessi e connessi, ai babilonesi. Tuttavia gli stessi frammenti in cui Eraclito prende le distanze da Pitagora come impostore collocano Pitagora in alto fra i pensatori. Altri due bersagli di Eraclito, Senofane ed Ecateo, erano famosi eruditi in vari campi. La parola «ricerca» non significava studio in generale, bensì scienza milesia. La maggior parte degli studiosi pensa che gli attacchi di Eraclito

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non avessero alcun fondamento. Egli avversava gli eruditi di cultura enciclopedica, ed era semplicemente un uomo irritabile e polemico. In un'altra occasione commentò che «Omero è degno di essere scacciato dagli agoni e di essere frustato» [DKr, 22 B 42].

Se i pitagorici trovarono indipendentemente il teorema, rimane il problema se attribuirne il credito a Pitagora e ai suoi contemporanei o a generazioni posteriori di pitagorici. All'irascibile Eraclito non sarebbe piaciuto sapere che prove fornite proprio dalla sua opera situano l'apparizione dei risultati matematici dei pitagorici al tempo di Pitagora. Eraclito portò avanti le idee di Pitagora dell'anima e dell'immortalità e continuò a sviluppare l'idea di armonia. Per lui la lira e l'arco - lo strumento musicale e l'arma di Apollo - simboleggiavano l'ordine della natura. L'arco era la «contesa», la lira l'armonia. Il significato dell'arco («contesa») è originario di Eraclito, mentre il ruolo della lira e l'armonia furono sviluppi del pensiero pitagorico, cosa che suggerisce che l'idea di connessioni fra proporzioni numeriche, consonanze musicali e l'ordinamento numerico pitagorico del cosmo risalisse al tempo dello stesso Pitagora. Eraclito era più giovane di Pitagora solo di una generazione.

Nel I secolo a.C. pare che il teorema fosse attribuito da molti a

* [Diogene Laerzio, VIII, 6.] Anche se Eraclito sembra sincero e schietto nei suoi frammenti su Pitagora, era noto per essere talvolta difficile da interpretare, tanto che i suoi contemporanei lo soprannominarono «Eraclito l'Oscuro» ed «Eraclito l'Enigmatico». Al tempo di Diogene Laerzio circolava l'aneddoto che quando Socrate ricevette una copia del libro di Eraclito, commentò: «Ciò che ho capito è eccellente, e penso che lo sia anche ciò che non ho capito; ma forse bisognerebbe essere un tuffatore delio» [DKr, 22 A 4; Diogene Laerzio, II, 22].

Pitagora. Un esempio: il grande architetto romano Marco Vitruvio Pollione, meglio conosciuto semplicemente come Vitruvio, lo attribuì senza discussione a Pitagora, e nel libro IX della sua opera in dieci libri De architectura, menzionò il sacrificio per celebrarlo. (*) Evidentemente Vitruvio poté scrivere su Pitagora come scopritore del teorema e supporre che nessuno lo avrebbe contraddetto. Vitruvio conosceva altri modi per formare un triangolo rettangolo, ma trovava molto più facile quello di Pitagora:

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Anchora Pythagora la norma trovata senza le fabricatione del artefice ha demonstrato, et con quanta magna fatica li fabri faciendo la norma a pena al vero la ponno perfectamente conducere: questa cosa con ratione et methodi emendata da li precepti di epso fu explicata, imperoché si siano sumpte tre regule, de le quale una sia pedi tri, l'altra pedi quatro, la tertia pedi cinque; et queste regule intra sé composite tangano l'una l'altra in le sue estreme cime, havendo il schema de uno triangulo, deformarano la norma emendata. Ma ad epse longitudine de ciascune regole, si ciascuni quadrati de pari lati siano descripti, quello lato che sera de tri pedi, de area haverà pedi VIII, quello lato che sarà de quatro, haverà sedeci, quello de cinque, ne haverà XXV, così quanto invero di pedi del area li dui quadrati de la longitudine di lateri de tri pedi et de quatro efficeno, aequalmente tanto numero rende uno descripto de cinque. (17)

Dove finisce, quindi, questa discussione? Nonostante la certezza condivisa da Vitruvio e dai suoi contemporanei, gli studiosi moderni più scettici pensano che Pitagora non abbia niente a che fare col teorema.

Altri non chiudono la porta alla possibilità che Pitagora e/o i suoi primi seguaci possano aver fatto la scoperta indipendentemente, senza rendersi conto che il teorema era già stato scoperto in precedenza, o che lo abbiano imparato altrove ma siano stati i primi a introdurlo in Grecia.

La mia conclusione è che qui non c'è alcuna buona ragione per

* Ecco la menzione del sacrificio di Pitagora: «Quando Pythagora hebe trovato questa cosa dubitandose da le Muse in quella inventione essere admonito le maxime gratie agendo ad epse Muse le hostie havere imolato si dice»: Vitruvio, De Architectura libri dece, a cura di Cesare Cesariano, lib.

IX, cap. 2. {N.A.T.)

decidere che Pitagora e i pitagorici non ebbero nulla a che fare col teorema, mentre ci sono vari indizi significativi del contrario, incluso il fatto che Platone, quando scrisse il Timeo, il dialogo più influenzato dal pensiero pitagorico, suppose che i triangoli rettangoli fossero i componenti fondamentali dell'universo. (*) Se l'anteriore conoscenza del problema fosse in effetti andata perduta, allora qualcuno l'avrebbe riscoperta al tempo di Pitagora. Fra tutti coloro che furono a conoscenza degli angoli retti e dei triangoli rettangoli e li usarono in modi pratici e artistici, i pitagorici furono unici nel loro approccio al mondo, avendo

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evidentemente la motivazione e il tempo libero necessari per concedere la massima priorità alle idee e allo studio.

La loro distinzione intellettuale elitaria li tenne concentrati su problemi che andavano al di là della quotidianità di «ciò che funziona» al livello artigianale, e la loro scoperta musicale li condusse a pensare al di là della soluzione di problemi numerici di per sé, facendo volgere il loro sguardo al di sotto della superficie e facendo loro vedere la natura in un modo geometrico. Per i pitagorici (diversamente da qualsiasi altro fra i loro contemporanei), il teorema deve avere rappresentato un esempio della mirabile struttura numerica nascosta dell'universo, rafforzando la loro visione della natura e dei numeri e dell'unità di tutto l'essere, oltre alla convinzione che la loro investigazione valesse il loro impegno, e che il loro segreto elitismo fosse qualcosa di cui far tesoro. È mai esistita una qualche altra classe dominante — e pare che i pitagorici fossero seriamente impegnati a governare - che avesse lo stesso insieme di priorità? Per quanto concerne la possibilità che essi abbiano preso l'avvio con la tripletta, sono lieta di sapere che questa tripletta non implicasse una continuità con la tradizione matematica paleobabilonese, una continuità contro la cui esistenza hanno argomentato in modo convincente studiosi come la Robson. E in questo scenario le prove babilonesi, anziché far crollare Pitagora dal suo piedistallo, suggeriscono in realtà un modo in cui lui e i suoi seguaci potrebbero avere riscoperto il teorema nel tempo e nel luogo che la tradizione ha sempre detto, senza essere delusi troppo presto dalla scoperta dell'incommensurabilità.

Bronowski riconobbe a Pitagora il merito di avere scoperto il legame fra la geometria del triangolo rettangolo e la verità di un'esperienza umana primordiale. Egli riecheggiò la deferenza di Platone per i triangoli rettangoli come componenti basilari della creazione quando

* Vedi il capitolo 9.

scrisse: «Quel che stabilì Pitagora è una caratterizzazione fondamentale dello spazio in cui ci muoviamo. Era la prima volta in cui esso veniva tradotto in numeri. E la corrispondenza esatta dei numeri descrive le leggi esatte che collegano l'universo». Per questa ragione Bronowski pensava che non fosse esagerato chiamare il «teorema di Pitagora» «il più importante teorema singolo nell'intera matematica». (18)

Ma che dire del bue? Pitagora lo sacrificò, o forse ne sacrificò quaranta (come dicono alcune storie), in ringraziamento per la scoperta del teorema? Il fatto che Apollodoro abbia menzionato questa «famosa» storia non significa

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necessariamente che vi credesse. Molti la rifiutano come impossibile in quanto Pitagora, che non mangiava carne, non avrebbe sacrificato un bue. C'è però abbondanza di prove che egli non aveva obiezioni all'uccisione di animali a fini rituali. Se il vegetarianesimo può essere un indizio, esso può anche indicare una direzione diversa: i pitagorici posteriori furono più pronti dei primi pitagorici a credere che Pitagora fosse un vegetariano rigoroso. Burkert pensava che l'esistenza della storia del sacrificio «dovrebbe essere considerata piuttosto un'indicazione di antichità», a sostegno dell'argomento che furono Pitagora o i suoi seguaci più antichi a fare la scoperta che diede origine alla storia. Una generazione posteriore non avrebbe più inventato questo aneddoto.

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PARTE SECONDA

Dal V Secolo A.C. al VII Secolo D.C.

7. UN LIBRO DEL PITAGORICO FILOLAO

V secolo a.C.

Dopo la morte di Pitagora, la dissoluzione della confraternita pitagorica in Italia non ebbe luogo da un giorno all'altro o in pochi anni.

Molti pitagorici sopravvissero all'esplosione della violenza all'inizio del V secolo a.C., e il dramma dei pitagorici, privati della loro guida, continuò nelle città coloniali. Di questo periodo conosciamo per nome con certezza un solo pitagorico: Ippaso di Metaponto. Egli fu un dotto, e forse anche illustre, facendo parte a quanto pare della cerchia interna dei pitagorici, che si occuparono di teoria della musica, di matematica e di filosofia naturale e considerarono il fuoco un principio primo. Una testimonianza attribuisce a Ippaso la costruzione del dodecaedro, il solido con dodici facce: «dicono che fosse un pitagorico e che fosse morto in mare, alla stregua di un reo di sacrilegio, per essere stato il primo a divulgare, per iscritto, il segreto della sfera circoscritta a un pentagono dodecaedro». (*) Egli potrebbe essere stato il maestro dello stizzoso Eraclito. Dopo la morte di Pitagora, però, Ippaso cadde in disgrazia, ed è ricordato principalmente come un individuo sfortunato, forse malevolo.

Quando i pitagorici scoprirono che alla base della natura ci sono relazioni matematiche, non annunciarono questo fatto al mondo. La loro regola era la segretezza. Ippaso, però, doveva essere orgoglioso della sua scoperta, tanto da eseguire il suo famoso esperimento con i dischi di bronzo. Alcuni testimoni collegano Ippaso alla scoperta dell'incommensurabilità, o gli attribuiscono addirittura questa sfortunata scoperta. Le varie fonti sono in disaccordo sulla natura dei suoi errori, ma in qualche modo, mentre tutte le cose buone erano

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* Giamblico, La vita pitagorica, introduzione, traduzione e note di Maurizio Giangiulio, Rizzoli, Milano 2001, p. 229. Il testo prosegue: «ma che si fosse guadagnato la fama di essere stato lui l'artefice di tale scoperta, laddove ogni cosa apparteneva in realtà a "Colui" (così chiamano Pitagora, senza adoperare il suo nome)». (N.d. T.)

attribuite a Pitagora, pare che tutte le cattive venissero affibbiate a Ippaso. La sua trasgressione consistette nel rivelare un segreto della geometria, o nello scoprire l'incommensurabilità, o nel perpetrare un affronto nei confronti degli dèi attraverso una scoperta in geometria (forse quella del dodecaedro) o nell'appropriarsi di una scoperta invece di attribuirla a Pitagora.

Le informazioni più sfumate e dall'aspetto più autenticamente genuino su Ippaso provengono da Aristotele e da Aristosseno, e collegano Ippaso a una linea eterodossa sviluppatasi nella comunità dei pitagorici: quella degli acusmatici in contrapposizione a quella dei matematici. (1) Il loro antagonismo, che potrebbe avere avuto le sue radici in una gerarchia di due livelli iniziata da Pitagora per meglio organizzare la sua fratellanza secondo interessi e capacità, divise la comunità stessa in campi opposti.

Gli acusmatici si dedicavano a un apprendimento meccanico. La loro filosofia (secondo Giamblico) «consiste di detti (akousmata) a cui non si accompagna una dimostrazione o una giustificazione razionale [...]. Inoltre, essi si sforzano di custodire alla stregua di insegnamenti divini quant'altro Pitagora avesse avuto modo di affermare». Gli studiosi sospettano che questi detti fossero residui della parte più elementare e più facilmente ricordabile degli insegnamenti di Pitagora. Alcuni erano massime popolari a cui si aggiungevano interpretazioni, e la conoscenza delle interpretazioni poteva servire come parola d'ordine o significare il rango nella comunità. C'erano (sempre secondo Giamblico) tre tipi di detti. «Quelli che definiscono cos'è una determinata cosa sono di questo genere: "Che cosa sono le isole dei Beati? Sono il sole e la luna".» Un secondo tipo «indica che cosa gode di una determinata qualità nella massima misura: "Qual è la cosa più sapiente? Il numero". [...] "Qual è la cosa più vera che si possa dire? Che gli uomini sono malvagi"». Un terzo tipo di detti concerneva «cosa si debba o non si debba fare». Molti detti sembravano inutili a chi non ne conosceva le interpretazioni segrete.

«Quando ci si dirige verso un tempio non si devono fare deviazioni» significa: «gli dèi non devono essere considerati qualcosa di accessorio.» «Non si aiuti a

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deporre un carico [...], ma si aiuti a riprenderlo», significa «non bisogna collaborare a scansare la fatica». A volte si spiega il divieto di spezzare il pane col fatto che «ciò non sarebbe utile al momento del giudizio nell'Ade» (Giamblico, 82-86). Giamblico non era molto favorevole a tutte queste considerazione e le ritenne forzate. Gli acusmatici evidentemente comprendevano la connessione e rivendicavano per sé soli il titolo di «pitagorici».

I matematici, d'altro canto, erano disposti a riconoscere gli acusmatici come pitagorici, ma rivendicavano a se stessi un superiore livello di conoscenza pitagorica. Pur non essendo sempre d'accordo fra loro, i matematici condividevano la convinzione che il rifiuto degli acusmatici di permettere un ulteriore sviluppo della conoscenza fosse contrario allo spirito con cui il pitagorismo era stato praticato quando era in vita Pitagora.

Secondo Aristotele e Aristosseno, Ippaso era uno dei matematici, ovvero uno di quelli che sarebbero stati chiamati matematici quando i due gruppi si polarizzarono completamente. Il campo opposto composto da quelli che sarebbero stati chiamati acusmatici - era diffidente verso queste ricerche, considerate nuove e sovversive. Ci si sarebbe potuti attendere che i matematici difendessero Ippaso, ma essi erano impegnati in manovre delicate, e sostennero che non stavano introducendo nuove dottrine, ma si occupavano semplicemente di spiegare le dottrine di Pitagora. Essi si dissociarono da Ippaso, ma senza alcun profitto, dato che gli acusmatici continuarono ad accusarli di seguire lui anziché Pitagora. Ippaso rimase intrappolato in questo fuoco incrociato. La sua punizione, per mano degli dèi o dei pitagorici, a seconda della versione a cui si preferisce credere, fu la morte in mare per annegamento, l'espulsione dalla comunità e/o la costruzione di una tomba per lui come se fosse già morto.

La storia di Ippaso ci fornisce un indizio per datare alcune scoperte dei pitagorici. Gli storici moderni sono scettici sulla tesi che Ippaso sia stato maestro di Eraclito, ma pensano che il fatto che molti lo abbiano creduto fornisca date attendibili per Ippaso. Poiché il periodo della vita di Eraclito è sovrapponibile a quello di Pitagora, se si suppone che Ippaso possa essere stato maestro di Eraclito e non viceversa, anche Ippaso dev'essere stato un contemporaneo di Pitagora, nato però qualche tempo prima di lui. Inoltre l'esperimento dei dischi di Ippaso deve avere avuto luogo dopo la scoperta dei rapporti musicali e prima che lo stesso Ippaso cadesse in disgrazia, cosa che accadde poco tempo dopo la morte di

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Pitagora. Questa cronologia permette di escludere che la scoperta dei rapporti musicali sia stata compiuta in seguito, nella generazione successiva. Essa fu autenticamente una scoperta dei primi pitagorici.

La disgrazia di Ippaso e il conflitto fra matematici e acusmatici non sono le uniche prove del fatto che alcuni fra i pitagorici sopravvissuti alle sollevazioni della svolta del secolo vivevano nella Magna Grecia. Residui della fratellanza pitagorica persistettero in tutta la regione. Giamblico (XXXVI, 265) ci informa che il «successore» di Pi tagora fu Aristeo di Crotone, che ne sposò la vedova Teano, «portò avanti la scuola» e si occupò dell'educazione dei figli del «divino».

Un figlio di Pitagora, Mnesarco, sarebbe subentrato nella direzione della scuola quando Aristeo divenne troppo vecchio per potere svolgere quella funzione. Se la memoria popolare di Metaponto sulle vicende storiche è corretta, Pitagora sopravvisse per un po' in esilio e stabilì una scuola nella città.

Alcuni pitagorici continuarono a occupare, o riguadagnarono rapidamente, posizioni politicamente importanti, ed estesero forse la loro influenza su un'area ancora maggiore di prima, ma quando questi leader ridivennero influenti nel governo delle città si esposero spesso al disastro governando in modo sempre più autocratico.

Una rivoluzione li disarcionò alla metà del secolo, intorno al 454 a.C. Lo storico del II secolo a.C. Polibio ripetè una descrizione che trovò in fonti precedenti: «I luoghi d'incontro dei pitagorici furono dati alle fiamme e ne seguì un'agitazione generale: un evento non improbabile, dato che i capi in ogni posizione erano stati inaspettatamente uccisi. Nelle città greche in queste regioni avvennero grandi massacri e rivoluzioni e disordini di ogni sorta». La conseguenza dei fatti di questo periodo fu una diaspora dei pitagorici, che cercarono rifugio a Tebe, a Fliunte (vicino a Corinto), a Siracusa e altrove. Il sipario calò per la seconda e ultima volta sull'età aurea dei pitagorici nella Magna Grecia. La comunità originaria che era stata istruita da Pitagora non esisteva più.

In un contesto più vasto, la storia era solo cominciata. Press'a poco a partire da questo tempo, nell'antico mondo mediterraneo c'erano due correnti di pensiero contrastanti facilmente discernibili: il pensiero «ionico» della Grecia di terraferma e di quell'area del Mediterraneo, e il pensiero «pitagorico» o «italico», proprio dell'Italia meridionale. Attraverso i membri di comunità di pitagorici rifugiati e i loro discendenti intellettuali - e uomini come Platone, che furono attratti dalle loro idee - i resti del pensiero di un oscuro gruppo antico divennero una potente

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visione del mondo. Nella tarda antichità nessuno che ambisse a essere considerato un pensatore serio poteva ignorare la scuola «pitagorica» o «italica».

Frattanto la scissione fra acusmatici e matematici continuava a infettare i resti della dispersa comunità pitagorica, e il disaccordo su chi riflettesse veramente lo spirito e l'opera dei primi pitagorici causa ancor oggi difficoltà in chi cerchi di discernere la verità sugli inizi del pitagorismo. La maggior parte delle persone istruite avrebbe continuato a insistere per secoli che i veri pitagorici erano i «matematici», che conservavano e ampliavano la grande tradizione matematica pitagorica. La ragione di questa certezza risiede nel fatto che proprio la tradizione dei «matematici» fu quella che Platone trasmise al futuro.

Fu lui a fare questa scelta per la civiltà occidentale.

Una generazione dopo Platone, Aristotele conosceva bene entrambe le correnti pitagoriche e descrisse un'eredità degli acusmatici che, oltre agli aforismi, comprendeva le leggende miracolose, la dottrina della reincarnazione e il ricordo che Pitagora aveva delle sue vite passate. Anche l'eredità dei matematici accettava la maggior parte di tali cose, ma sottolineava il diverso approccio al mondo e all'anima attraverso i numeri, la matematica e la musica. I matematici avevano conservato informazioni storiche: che Pitagora era arrivato a Crotone durante il regno di Policrate a Samo e che aveva acquisito una potente influenza sui capi della sua nuova città. Aristotele non ricostruì un'eredità di sapere e matematica da Pitagora al suo tempo citando nomi di pitagorici appartenenti a successive generazioni, ma neppure contestò l'affermazione dei «matematici» che esistesse tale continuità ininterrotta. (2) Platone attribuì una versione raffinata della teoria dei numeri dei «matematici» pitagorici non solo ai pitagorici ma anche allo stesso Pitagora.

La seconda metà del V secolo a.C. (dal 450 al 400) è ancora molto viva nella memoria culturale del mondo moderno. La tragedia greca aveva avuto un periodo di grande fioritura con Eschilo e stava continuando con Sofocle ed Euripide, sollevando problemi che non hanno bisogno di un contesto moderno per continuare a essere rilevanti.

Quanto ad Aristofane, scandalizzava il suo pubblico deliziato mettendo in satira gli affari pubblici e i capi politici in commedie brillanti, flagrantemente indecenti. Anche se, diventando di moda nuove forme e nuovi soggetti, le sue opere sarebbero state presto assegnate alla «commedia antica», nel XXI secolo d.C. la sua commedia Le rane diventò un musical di Broadway. Nella stessa epoca di Aristofane il medico Ippocrate stava praticando la sua professione e scrivendo

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le sue opere fondamentali, e a distanza di più di duemila anni gli attuali laureati in medicina ripetono il giuramento a lui attribuito. Atene stava riprendendosi dopo un lungo conflitto con i persiani e stava godendo di un periodo di pace, arricchita dall'argento delle miniere di piombo argentifero del Laurio (Lavrio) e dai tributi che le venivano pagati da altri membri della Lega delia, che in precedenza erano stati suoi alleati nelle guerre persiane. Non sapendo quanto sarebbe stato breve questo periodo di tregua prima del loro coinvolgimento nelle Guerre del Peloponneso, gli ateniesi restaurarono la loro città, che era stata incendiata dai persiani, e costruirono il Partenone. In questo mezzo secolo nacque e giunse alla maturità Platone, mentre il pitagorico Filolao, di quasi cinquant'anni più vecchio di Platone, scrisse il primo libro pitagorico, o almeno il primo che fosse destinato a sopravvivere.

Filolao fu uno dei profughi che abbandonarono Crotone o Taranto alla metà del V secolo, insediandosi intorno al 454 a Tebe, potente città antica a nord-ovest di Atene la cui antica origine ne fece una scena prediletta per la tragedia greca. Un tempo era stata la città del re Edipo. Politicamente, l'unico atteggiamento costante di Tebe fu l'odio per Atene. Si era schierata contro Atene nelle guerre persiane e poi collaborò, sempre contro Atene, con Sparta, un'alleanza che sarebbe durata fin quasi alla fine delle Guerre del Peloponneso alla svolta del secolo. Tebe e Sparta si sarebbero infine divise quando Tebe suggerì un totale annientamento degli ateniesi sconfitti e Sparta negò il suo assenso.

Date queste premesse, Tebe non ci sembrerebbe un luogo particolarmente sereno in cui una nuova setta filosofica potesse perseguire studi pacifici, ma Filolao vi fondò una nuova comunità filosofica in esilio. Alla fine del secolo Filolao era morto o si era trasferito altrove.

Questa notizia ci perviene indirettamente attraverso Platone, che nel dialogo Fedone (61") fa dire a un personaggio di nome Cebete: «io sentii già ragionare non solo da Filolao quando era con noi...» Il luogo a cui si riferisce Cebete è Tebe, e si suppone che questa conversazione abbia avuto luogo il giorno della morte di Socrate, nel 399 a.C.

Se Filolao era ancora vivo doveva trovarsi allora in un altro luogo e avere settantacinque anni, ma questo riferimento a lui è l'ultimo che sia sopravvissuto.

In epoca imprecisata fra il 450 e il 399, probabilmente a Tebe, Filolao mise per iscritto un'estesa relazione sul pensiero pitagorico, cosa che nessun pitagorico aveva mai fatto prima, almeno a quanto ci è dato sapere. Le uniche tracce che rimangono oggi dello scritto di Filolao sono frammenti, per lo più riferimenti

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contenuti in scritti di studiosi del I secolo a.C., quindi molto lontani dal suo tempo. (*) Nell'Ottocento ci fu una controversia sul problema se Filolao avesse ef

* Gli storici usano la parola «frammento» per indicare un brano citato da un autore che aveva accesso a un materiale poi scomparso.

fettivamente scritto un libro e se i frammenti citati come suoi siano autentici, ma nel 1893 venne in luce un papiro contenente brani tratti da una storia della medicina di un discepolo di Aristotele, Menone, del IV secolo a.C., in cui si accennava a un libro di Filolao allora già esistente. A partire da quella scoperta gli studiosi hanno analizzato i frammenti di Filolao nel contesto storico del V secolo a.C., il suo secolo, e si sono trovati in gran parte d'accordo su quali si debbano considerare autentici. (3)

Per quanto possa sembrare ingiusto per Filolao, chiunque cerchi informazioni specifiche su Pitagora e il suo insegnamento rimane sempre frustrato dal fatto che Filolao era uno splendido pensatore di per sé, a prescindere dalla sua appartenenza al pitagorismo. Egli stava scrivendo il proprio libro, non stava registrando le scoperte o le parole di un altro, e vi includeva il proprio pensiero, oltre a quello che si era evoluto nelle comunità dei «matematici» pitagorici dopo la morte di Pitagora. Tuttavia Filolao si considerava decisamente un pitagorico e, data la cornice di tempo, gran parte della scienza e della dottrina del suo libro devono essere state un riflesso diretto dell'attività di Pitagora e dei suoi primi seguaci. Filolao forniva quasi un collegamento diretto col «divino», poiché Pitagora era morto o scomparso dalla vista del pubblico nel 500 a.C., solo venticinque anni prima della nascita di Filolao. Maestri e conoscenti di Filolao, mentre Un'immagine anacronistica del tardo Quattrocento, tratta da un libro di teoria musicale di Franchino Gaffurio, rivela come gli studiosi dell'epoca vedessero Pitagora e Filolao — che in realtà non era un allievo del maestro — intenti a studiare i rapporti dell'armonia musicale.

egli cresceva a Crotone o a Taranto, devono essere stati quasi esclusivamente pitagorici, e qualcuno fra i più vecchi di loro doveva avere conosciuto Pitagora.

Purtroppo Filolao trattò tutto il suo materiale come un corpus di conoscenza unificato non facendo alcuna distinzione fra materiali anteriori e posteriori, fra il tempo in cui era vivo Pitagora e il tempo in cui scriveva lui. Filolao non era sciatto. Per un pitagorico c'era unità nella verità, e nella ricerca della verità. La via che conduceva alla conoscenza dell'universo e la via alla riunione col divino erano la stessa via. La verità sulla natura e la verità divina erano una e una sola verità. In un tale contesto, anche se lo stesso Pitagora non aveva fatto alcuna

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particolare scoperta, si poteva supporre che essa fosse stata implicita nei suoi insegnamenti. Inoltre i pitagorici come Filolao condividevano con i loro contemporanei un antico senso di superiorità: sembrava loro di sminuire o deprezzare un'idea presentandola come nuova od originale. La conoscenza diventava tanto più credibile quanto più era antica e quanto più fosse possibile attribuirla a una grande figura del passato. Filolao sarebbe stato restio a indicare per qualsiasi conoscenza una fonte diversa da Pitagora, e non sarebbe stato disposto a fare un'eccezione nemmeno per se stesso.

Tuttavia aveva anche un proprio programma. Uno degli indizi che collocano il suo libro nel tardo V secolo a.C. era il fatto che egli stava cercando di presentare le idee pitagoriche in modo che rispondessero a una situazione di stallo prodotta dall'insegnamento «eleatico».

Il filosofo Parmenide era nato a Elea (di qui l'aggettivo «eleatico»), colonia greca sulla costa campana del Cilento. Secondo Platone era nato nel 515 a.C., ma talune fonti greche pongono la sua nascita nel 540. In ogni caso era un contemporaneo più giovane di Pitagora; è però degno di nota che, nonostante la loro contemporaneità, la relativa vicinanza di Elea (Velia) a Crotone, e un passo di Plutarco in cui si dice che Parmenide «organizzò il suo paese con le leggi migliori», soltanto una fonte antica suggerì un legame anche remotissimo di Parmenide con Pitagora o con i pitagorici. Il legame, indiretto, si trova nella biografia di Parmenide, scritta nel III secolo d.C. da Diogene Laerzio (IX, 21):

Secondo Sozione, [Parmenide] ebbe rapporti col pitagorico Aminia, figlio di Diocheta, uomo povero, ma probo e onesto.

Tanto più lo seguì e alla sua morte gli innalzò un sacello come a un eroe. Parmenide, infatti, discendeva da uno splendido ca sato ed era ricco, e fu avviato alla tranquillità della vita teorica da Aminia, non da Senofane.

Sembrerebbe che se Parmenide «seguì» Aminia, se «fu avviato alla tranquillità della vita teorica» da lui e se lo tenne in stima tanto grande da innalzargli «un sacello come a un eroe», il pensiero dello stesso Parmenide dovrebbe presentare tracce di idee pitagoriche. Affascinati da questo indizio, vari studiosi hanno tentato ripetutamente, ma sempre invano, di trovare elementi pitagorici negli scritti di Parmenide.

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Con una forzatura paradossale, la storia celebra Parmenide per intuizioni di cui egli non rivendicò la correttezza; per esempio che fra gli astri del cielo solo la Luna «si volge intorno bisognosa della luce di un altro astro, sempre riguardando verso i raggi del Sole». (4) Parmenide presentò queste idee nella parte II di un poema bello ed enigmatico Sulla natura, dopo avere avvertito nella parte I - una guida alla via verso la verità - che quel che stava per presentare nella parte II era «ingannevole». Egli non pretendeva di presentare «fatti» e nemmeno opinioni, ma solo quale potesse essere plausibilmente, nel caso migliore, l'opinione umana su questi problemi.

Parmenide sostenne che coloro che si avventuravano in un viaggio di «ricerca» credevano forse erroneamente di avere una scelta fra due generi, cose che esistevano e cose che non esistevano. Ma le cose che non esistevano non si potevano pensare né esprimere, e la loro ricerca era «una via di estrema ignoranza». Quanto a ciò che esisteva, certe cose su di esso dovevano essere vere: doveva essere sempre esistito e doveva essere indistruttibile. Altrimenti doveva esserci una possibilità che in certi tempi non esistesse, cosa che era impensabile e indicibile.

Esso doveva anche essere continuo nello spazio e nel tempo (niente interruzioni), immutabile e immobile, e finito. I sensi umani potevano dire cose diverse, ammise Parmenide, ma non ci si poteva fidare di loro. Valeva altrettanto per qualsiasi possibilità di imparare qualcosa sul mondo attraverso l'osservazione e l'esperienza!

Un altro filosofo «eleate», Melisso, era un ammiraglio di Samo, ma non fu contemporaneo di Pitagora, cosicché i due non ebbero mai occasione di incontrarsi. A quanto racconta Aristotele, nel 441 a.C. Atene dichiarò guerra a Samo. I samii sconfissero lo stesso Pericle in una battaglia navale, ma Pericle sopravvisse e le ostilità continuarono. Al perdurare di una situazione di stallo, Pericle, annoiato e sottovalutando le forze dei samii, guidò le sue navi in una nuova spedizione. Melisso, che comandava la flotta di Samo, colse quest'op portunità per attaccare, «facendo poco conto delle navi rimaste, per il loro numero esiguo e l'inesperienza dei comandanti». (5) Questa volta la flotta ateniese subì una sconfitta devastante. Samo distrusse molte navi nemiche, si impadronì di molti rifornimenti di guerra e conquistò il controllo del Mediterraneo orientale.

Melisso trovò anche il tempo di scrivere una versione in prosa della Verità, la prima parte del poema di Parmenide Sulla natura, introducendo nuovi argomenti a sostegno di Parmenide, ma dissentendo da lui su punti chiave. Melisso sostenne

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che qualunque cosa esista dev'essere infinitamente estesa in tutte le direzioni, e non finita come pensava Parmenide. Perciò non poteva esistere più di una cosa. Melisso credeva ancora più fortemente di Parmenide che la percezione dei sensi fosse illusoria, e che la realtà fosse completamente diversa da come appariva.

Anche Zenone, come Parmenide, era nativo di Elea. Egli trovò quaranta argomenti diversi a sostegno dell'asserzione di Melisso che può esistere soltanto una cosa, produsse quattro argomenti per dimostrare che il movimento è impossibile e portò temi simili compreso il concetto di infinito - a estremi ancora maggiori, secondo alcuni addirittura fino al punto del nichilismo intellettuale. Si ritiene che Zenone sia stato autore di un libro Contro i filosofi, titolo che significava quasi certamente «Contro i pitagorici». Le sue critiche potrebbero avere esercitato un'influenza sul modo di pensare dei pitagorici che si manifestò nell'opera di Filolao, sul problema se un punto in geometria possegga dimensioni.

L'inclinazione degli eleati per un approccio rigorosamente astratto, logico, e la loro sfiducia nei confronti delle percezioni dei sensi fu a sua volta una reazione contro pensatori come Talete, Anassimandro e Anassimene, che potrebbero essere stati tutti fra i maestri di Pitagora. Le prove d'osservazione non erano sembrate illusorie a quei filosofi, i quali avevano addirittura sostenuto che la realtà fondamentale consistesse in sostanze come l'acqua (Talete) e l'aria (Anassimene). Anassimandro era stato più astratto, ma introdusse un «molti» che non si conciliava col concetto che esista una cosa sola. Queste idee prepararono la scena per Filolao. Egli scelse di non attaccare direttamente gli eleati, ma continuò a valutare positivamente la possibilità di studiare la natura usando gli strumenti dei cinque sensi.

Filolao si occupò di antichi problemi: come ebbero inizio tutte le cose (il cosmo o l'«ordine del mondo»)? Quali fondamenti basilari «primi princìpi» (in greco archai, sing. arche) - dovevano essere presenti, o dovevano essere veri, perché potesse accadere qualcos'altro?

Egli diede la risposta già nella prima frase del suo libro: «La natura nel cosmo è composta armonicamente di elementi illimitati e di elementi limitanti: sia il cosmo nel suo insieme sia tutte le sue parti» (DKr, 44 B 1). Le parole chiave erano «armonicamente», «illimitato» e «limitato» o «limitante». (*) Le idee di «illimitato» e «limitato» erano anteriori agli eleati o ai pitagorici; la prima menzione nota si trova infatti in Anassimandro. L'espressione «armonicamente» è propria unicamente dei pitagorici.

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Se Pitagora studiò con Anassimandro, apprese che per lui il primo principio (l'arché) era qualcosa di più astratto dell'acqua di Talete.

Era il «senza limite» (o l'«illimitato»): l'indeterminato, indefinito, non limitato dal tempo o dallo spazio. È vicina a questa idea la descrizione della terra primordiale — informe e vuota - che viene data nella Genesi. Lo stesso vale per il concetto scientifico della fine del XX secolo che descrive l'universo (o il «pre-universo») come uno stato di irresoluto nulla quantico da cui avrebbe potuto emergere tutto o nulla. L'«illimitato» era una situazione indifferenziata, nella quale non erano state compiute scelte, non era stato dato alcun ordine, né erano state fissate leggi che permettessero o imponessero l'accadimento di alcune cose ma non di altre. Della differenziazione era responsabile il «limitante». Anassimandro non pensò tuttavia all'illimitato solo come a una situazione preesistente al mondo, che venne prima cronologicamente e che terminò quando emersero il cielo e il mondo. L'illimitato era uno sfondo fondamentale dei cicli eterni della distruzione e della generazione. Anassimandro associò l'illimitato al tempo.

Se si può prendere come esempio Filolao, anche i pitagorici credevano che i princìpi fondamentali illimitato e limitante fossero entrambi necessari perché potesse esistere qualcos'altro, ma ciò poneva un problema. I due princìpi erano discordanti e opposti l'uno all'altro; come potevano cooperare per produrre qualcosa? Doveva esserci un altro primo principio. L'illimitato e il limitante «devono necessariamente essere legati insieme da un'armonia se devono essere tenuti insieme in un mondo». Anche l'armonia doveva essere un «principio primo», uno degli archai, forse quello fondamentale.

La parola harmonia non fu coniata da Pitagora o da Filolao. Già nel poema omerico dell'Odissea significava unire o congiungere. In carpenteria la parola significava perno o piolo di legno. In musica

* Gli autori antichi (e i traduttori posteriori) chiamarono l'«illimitato» anche «senza limite», e il suo opposto «limitante», «limite» o «limitato».

si riferiva all'incordatura di una lira con corde di tensione diversa. I pitagorici diedero alla parola una nuova importanza. Essi pensarono di avere trovato nei rapporti musicali un collegamento reale fra l'armonia al livello quotidiano e l'armonia che aveva cooperato a creare l'universo e lo legava insieme. Erano giunti a pensare ai rapporti dell'armonia musicale come esemplificanti il principio organizzativo primordiale dell'universo.

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L'intervallo musicale dell'ottava era la «prima consonanza», identificata da Filolao col nome «armonia». La «seconda consonanza» era l'intervallo di una quinta; la successiva era l'intervallo di una quarta. Se si sommano i quattro numeri presenti in questi rapporti (1, 2, 3, 4) si ottiene 10, il numero perfetto. (*)

I numeri 1, 2, 3 e 4 avevano anche un altro significato per Filolao.

Essi erano a fondamento della progressione da punto a linea, a superficie, a solido.

Un punto (a sinistra) è 1; una linea è 2 (definita da due punti, uno a ciascun estremo); una superficie è 3 (definita da tre punti, uno a ciascun vertice); e un solido è 4 (definito da quattro punti, uno a ciascun vertice).

In seguito Speusippo, nipote di Platone e suo successore nella direzione dell'Accademia, spiegò che cosa, secondo lui, intendesse Filolao: «Il punto è il primo principio, che conduce alla magnitudine, la linea il secondo, la superficie il terzo, il solido il quarto». Questa presentazione sembrerebbe più complicata, ma permetteva di applicare la progressione ad altre figure e solidi oltre al triangolo e alla piramide; per esempio un quadrato, con quattro angoli, conduceva a un cubo, che ne ha otto.

Secondo Filolao, i pitagorici presero il numero 10 e lo usarono diffusamente. In seguito Aristotele commentò che essi «costituisco

* Si noti che il 10 non è un numero perfetto nel senso in cui il termine è definito nella matematica moderna. Torneremo su questo argomento più avanti.

no l'intero universo come risultante di numeri» (Metafisica, 1080/?

18). Essendo 10 il numero perfetto, dovevano esserci dieci corpi celesti maggiori, anche se nessuno poteva vedere il dieci in cielo. Inoltre, disse Filolao, doveva esserci fuoco sia al centro dell'universo sia nel suo punto più alto, e circondare tutto all'estrema circonferenza o al «livello più alto». Questo fuoco celeste era in parte osservabile, poiché le stelle erano fuochi alla periferia, ma che dire del fuoco centrale? Qui, secondo Filolao, i pitagorici fecero un balzo che li mise nettamente in testa rispetto ai loro contemporanei. La Terra non poteva essere il centro del cosmo, né poteva esserlo il Sole. Al centro doveva trovarsi un «fuoco centrale», un «cuore infuocato dell'universo» intorno al quale compivano le loro rivoluzioni la Terra, la Luna, il Sole, i cinque pianeti e le stelle. Questa la descrizione dello studioso Aezio, che scrisse probabilmente nel II secolo d.C., «alcuni affermano che la Terra è ferma: invece il pitagorico Filolao dice che gira

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intorno al fuoco secondo il cerchio dell'eclittica, in modo simile al Sole e alla Luna» (DKr, 44 A 21). Nei secoli in cui nessuno - con la sola illustre eccezione di Aristarco di Samo, che nel III secolo a.C. propose un cosmo incentrato sul Sole - fu disposto a considerare una Terra mobile che non fosse il centro del cosmo, molti studiosi tentarono di mostrare, o semplicemente di supporre, che i pitagorici non potessero aver voluto dire proprio questo.

La Terra, la Luna, il Sole, i cinque pianeti e il «fuoco esterno» (le stelle), sommati, danno nove cose che «danzano intorno al centro».

Poiché i corpi celesti dovevano essere dieci, i pitagorici decisero che doveva esserci un'«Antiterra», più vicina al fuoco centrale della Terra. Fuoco centrale e Antiterra non erano mai visibili dalla Terra, perché nelle loro rivoluzioni Terra e Antiterra erano sempre «opposte» l'una all'altra. Aristotele commentò, senza approvare eccessivamente:

Per tutte queste ragioni essi concepirono gli elementi dei numeri come elementi di tutta la realtà, e l'intero cielo come armonia e numero; e quante concordanze con le proprietà e le parti del cielo e con l'intero ordine universale essi riscontravano nei numeri e nelle armonie, le raccoglievano e le adattavano al loro sistema. E anche se, in qualche parte, ne veniva fuori qualche difetto, essi con facilità si mettevano a fare addizioni allo scopo di rendere pienamente concreta la loro dottrina; così, ad esempio, poiché la decade sembra perfetta e capace di abbracciare tutta quanta la natura dei numeri, essi asseriscono che sono dieci anche gli astri che si spostano sotto la volta celeste; ma poiché quelli visibili sono soltanto nove, per questa ragione essi ne creano un decimo, l'Antiterra. (6)

Il fuoco centrale e l'Antiterra erano certamente in accordo con la concezione eleatica che le percezioni sensoriali umane non fossero attendibili per trovare la verità sull'universo, poiché nessuno di tali corpi era percepibile con alcuno dei cinque sensi.

I pitagorici potevano avere ripreso l'idea che la Luna risplende di luce riflessa da Parmenide, o forse da Anassagora, ma secondo Filolao la luce che essa rifletteva non era quella del Sole. Tanto la Luna quanto il Sole captavano infatti la luce e il calore del fuoco centrale e del fuoco esterno. Il Sole, come un cristallo, filtrava luce e calore verso la Terra. Esseri viventi abitavano la Luna e probabilmente anche l'Antiterra, anche se, a causa della loro posizione, gli abitanti della Terra e dell'Antiterra non si vedevano mai reciprocamente. Alcuni pitagorici

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fra cui Filolao dicevano che la Luna era «abitata da animali e da piante come la nostra Terra, ma che quelli sono più grandi e più belli: infatti gli animali che si trovano in essa possono essere quindici volte più grandi di quelli della Terra, e non espellono alcun rifiuto, e il giorno è d'altrettanto più lungo» (DKr, 44 B 20). Questa durata dev'essere stata calcolata dal fatto che il «giorno» lunare dura quindici giorni della Terra. (*) Sarebbe stato coerente col fatto che la Terra e l'Antiterra orbitano intorno al fuoco centrale pensare che la Terra fosse una sfera. Benché un'asserzione del genere non compaia in alcun frammento dei pitagorici, Aristotele, e un autore posteriore, Alessandro Poliistore, scrissero che i pitagorici del tardo V secolo a.C. (fra i quali sarebbe stato compreso anche Filolao) e quelli dell'inizio del IV credevano che la Terra fosse sferica.

Notte e giorno sulla Terra, scrisse Filolao, erano prodotti dalle posizioni relative della Terra e del Sole l'una rispetto all'altro, e le rivoluzioni apparenti dei pianeti e del Sole erano in parte conseguenze del moto della Terra. I pitagorici non furono solo i primi a rendersi conto del fatto che quelli che vediamo dalla Terra come moti celesti

* Il giorno lunare (ossia il periodo di rotazione della Luna sul proprio asse) corrisponde grosso modo al mese lunare. Intendendo invece per giorno lunare il periodo di luce, in contrapposizione al buio della notte, un giorno lunare - così come una notte lunare - durerà mediamente quasi 15 giorni (la rivoluzione sinodica media della Luna, il mese lunare, dura infatti 29 giorni e quasi 12 ore). (N.d.T.)

sono una combinazione di moti in direzioni opposte; essi furono anche molto in anticipo sui loro contemporanei nel riconoscere che il moto stesso della Terra contribuisce a determinare questo quadro di moti apparenti.

Filolao collegò tutto questo all'origine del cosmo, quando l'armonia riconciliò il senza limite col limitante. La scoperta dei rapporti dell'armonia musicale aveva fornito una brillante metafora per l'interazione del limitato e dell'illimitato. L'intera gamma dei toni musicali, che variano all'infinito in entrambe le direzioni, in quella dei toni più alti e in quella dei toni più bassi, e comprendono un numero infinito di possibili toni «intermedi» fra quelli che si odono abitualmente in musica, rappresentava l'illimitato. Quando questo continuo infinito di possibili toni veniva sottoposto a una scelta (limitato) secondo una serie di rapporti e non un'altra, ne risultavano ordine e bellezza. Le infinite possibilità esistevano ancora — toni più alti, più bassi e intermedi - ma l'«illimitato» veniva in tal modo disciplinato e portato in armonia con un ordine, un kosmos. (7)

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La «prima cosa a essere armonizzata», scrisse Filolao, fu il fuoco centrale. Il fuoco centrale fu il numero 1; il fuoco esterno il numero 2. Il rapporto 2:1 rappresentava l'ottava musicale, cosicché i due estremi del cosmo erano separati da un'ottava. Alcuni pitagorici si spinsero fino a suggerire che i moti periodici dei nove corpi orbitanti intorno al fuoco centrale fossero connessi a rapporti musicali e che le loro rivoluzioni producessero la «musica delle sfere», ma quest'idea non fu ripresa nel libro di Filolao, almeno nei frammenti che sopravvissero.

L'ordine cosmico di Filolao era strano e ricco di immaginazione.

Nonostante i giudizi spregiativi di Aristotele, dobbiamo ammettere che i pitagorici erano chiaramente capaci di un pensiero indipendente. Essi non raccontavano storie né inventavano miti, ma traevano conclusioni sulla base di ragionamenti: «Dev'essere così, sulla base di ciò che già sappiamo sul cosmo e sulle regole numeriche secondo le quali le cose funzionano»: un passo gigantesco in direzione di quello che sarebbe diventato il modo tradizionale di sviluppare teorie scientifiche.

Filolao chiarì che Pitagora credeva nella reincarnazione (trasmigrazione delle anime o metempsicosi) e insegnava che l'anima è immortale, connessa a un'anima divina, universale, alla quale potrebbe un tempo tornare. Il modo in cui Filolao applicava l'idea di harmonía all'anima si manifesta nei dialoghi di Platone e nelle opere di Aristotele, il quale scrisse: «Pare che ci sia in noi una sorta di affinità a modi e ritmi musicali, cosa che fa dire ad alcuni filosofi che l'anima è un'armonia, e ad altri che possiede un'armonia». (8)

Filolao svolse evidentemente un ruolo importante nel formare l'impressione che Platone aveva di Pitagora e dell'insegnamento pitagorico, anche se, a giudicare dai dialoghi platonici, pare che i due non si siano mai incontrati di persona. Platone conosceva l'opera di Filolao attraverso membri di comunità pitagoriche sopravvissute e attraverso Socrate. Nel dialogo di Platone Fedone, i personaggi avrebbero sentito parlare dell'armonia dell'anima da Filolao. Simmia, che lo aveva ascoltato a Tebe, disse:

Del resto io credo bene, o Socrate, che ti sarai avveduto anche tu di questo, che noi ci figuriamo dell'anima a un di presso qualche cosa di simile: che cioè, come se il nostro corpo fosse teso e tenuto insieme dal caldo e dal freddo, dal secco e dall'umido e da altrettali elementi, l'anima sia appunto una temperanza e un accordo (harmonia) di codesti elementi; quando, s'intende, essi siano mescolati gli uni con gli altri in misura eguale e perfetta. (9)

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Simmia doveva avere ascoltato non solo Filolao ma anche altri, dato che la sua interpretazione sembra più simile a quella dello studioso di medicina Alcmeone di Crotone. Alcmeone potrebbe essere stato un contemporaneo di Pitagora e fu forse un pitagorico lui stesso. Se non fu così fu almeno cronologicamente vicino ai pitagorici e ne rifletté chiaramente il pensiero quando scrisse: «Quel che preserva la salute è un equilibrio dei poteri [...]. La salute è una mistione equilibrata di opposti». (10)

Poiché nella malattia e nella morte un corpo può andare così fuori sincronia da perdere ogni suggerimento di armonia, il Simmia del dialogo di Platone fu colto dal timore che la sua anima potesse non essere immortale. Anche Echecrate, un altro personaggio pitagorico del dialogo, commenta con un certo disagio:

È meraviglioso come anche ora e sempre mi prenda e vinca, di fronte all'altro, codesto argomento che la nostra anima sia una sorta di accordo [armonia]; e, sentendomelo ripetere, mi ha fatto in certo modo tornare a mente che già anch'io ero di questo parere. E così ho grande bisogno ancora, e come se si ricominciasse da capo, di un'altra dimostrazione la quale mi persuada che, morto l'uomo, non muore l'anima insieme con lui. (11)

L'argomento che Echecrate e Simmia avevano bisogno di udire - il miglior sostegno pitagorico alla loro fede vacillante - era già apparso in precedenza nello stesso dialogo, quando Socrate era parso sorpreso per il fatto che Simmia e il suo amico Cebete, descritti entrambi come discepoli di Filolao, ne ignorassero l'insegnamento sul suicidio. Socrate ammette che quest'insegnamento facesse parte di una «dottrina segreta»: noi siamo messi al mondo dagli dèi, che si prendono cura di noi, e non dobbiamo lasciare il mondo fino al momento da loro stabilito, anche se la morte, quando viene finalmente permessa, è come uscire di prigione. Quest'idea riecheggia in un frammento di Filolao salvato dal dotto protocristiano Clemente Alessandrino: «Questo pitagorico [Filolao] dice così: "Anche gli antichi teologi e gli antichi vati testimoniano che per espiare qualche colpa l'anima è unita al corpo, e in questo come sepolta"». (12) Purtroppo le anime hanno la tendenza a concepire un attaccamento eccessivo per l'esistenza corporea. Platone tentò di mettere questo problema nella sua giusta prospettiva in una delle formulazioni più pitagoriche del Fedone:

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[L'anima che abbandona il corpo contaminata e impura] fu sempre insieme col corpo e lo servì e lo amò e si lasciò affascinare da esso, e cioè dalle sue passioni e dai suoi piaceri, tanto che niente le pareva vero se non ciò che avesse forma corporea, ciò che si può toccare e vedere e bere e mangiare e usare per i piaceri d'amore. (13)

Benché i personaggi del Fedone platonico Simmia, Echecrate e Cebete avessero dubbi e preoccupazioni, Filolao, Platone, Socrate, i pitagorici vissuti prima di loro — compreso Alcmeone — e lo stesso Pitagora credevano tutti chiaramente che le anime fossero immortali. La salute corporea era armonia; malattia e morte erano una rottura di quell'armonia, ma quest'armonia fisica non era l'armonia ultima.

C'era un'armonia universale a cui ogni pitagorico aspirava per sottrarsi al ciclo tedioso delle reincarnazioni terrene. L'anima era unita al corpo per mezzo di numeri e di un'armonia immortale, e nella sua ricerca del livello divino era dipendente dal numero. Il pensiero di Platone prese l'avvio da qui.

La maggior parte del mondo antico considerava i fenomeni naturali come sottratti alla comprensione o alla spiegazione da parte dell'uomo, soggetti agli arbìtri di dèi capricciosi e spiegabili nel modo migliore in storie ricche di immaginazione. Filolao si riferì al fuoco centrale come al «focolare di Zeus», forse per rendere quella nozione confortevole ai suoi contemporanei. Ma quel che apprendiamo da lui è che i primi pitagorici, guidati da un uomo che era, secondo certe descrizioni, più uno sciamano che uno scienziato o un matematico, stavano cercando un modo nuovo di assicurarsi una presa nell'arrampicata verso la comprensione della natura e dell'universo attraverso i numeri. I primissimi filosofi presocratici - Talete, Anassimandro, Anassimene -, nonostante tutto il loro desiderio di pervenire alla radice delle cose, non collegarono o consolidarono le loro idee filosofiche con i numeri o con la matematica. I mesopotamici della I dinastia babilonese avevano scoperto l'utilità dei numeri e li avevano molto apprezzati, usando una matematica impressionante in esercizi privi di applicazioni pratiche, non pensando però, a quanto pare, che i numeri e la matematica fossero un modo per raggiungere una verità universale più profonda. Lo stesso Filolao scrisse: «La sostanza delle cose [...] e la natura stessa, richiedono conoscenza non umana, ma divina» [DKr, 44 B 6], ma era convinto che all'origine dell'universo e alla base della relazione dell'anima col divino ci fossero dei rapporti numerici; solo grazie a questi l'uomo poteva accedere alla comprensione di tali cose. Questa

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intuizione configurava una nuova partenza, un cambiamento di proporzioni immense, e pitagorici come Filolao contemplarono con religiosa deferenza il rapporto dell'uomo razionale con un universo razionale. L'affinità fra i due livelli si rifletté in una dottrina dell'unità dell'intero essere. In un frammento conservato nell'opera Adversus mathematicos, del filosofo scettico e medico Sesto Empirico (II-III secolo d.C.), si legge:

I pitagorici dicono che [guida] è la ragione: non la ragione in qualunque sua forma, ma quella che pone i fondamenti nella matematica. Così anche Filolao diceva che la ragione, contemplando la natura dell'universo, è affine ad essa, perché il simile è compreso dal simile. (*)

Quell'«affinità» — il fatto che il ragionamento matematico umano corrisponda a ciò che accade effettivamente in natura - non era qualcosa che potesse essere spiegato dai pitagorici, o da Filolao o da chiunque altro a quel tempo. Era già sufficiente sapere che i numeri erano legati in un modo fondamentale all'origine e alla natura del cosmo.

* DKr, 44 A 29. Vedi anche Sesto Empirico, Contro i logici, trad. it. di A. Russo, libro I, 92, Piccola Biblioteca Filosofica Laterza, Roma-Bari 1975, p. 28. I cinque libri Adversus dogmáticos (Contro i logici) erano considerati un tempo una parte dell'opera (oggi) in sei libri Adversus mathematicos. Perciò il I libro di Contro i logici si trova citato anche come VII libro di Contro i matematici. (N.d. T.)

8. PLATONE ALLA RICERCA DI PITAGORA

IV secolo a.C.

Intorno all'anno 389 a.C., Platone partì da Atene e salì su una nave diretta verso il mar Ionio. La sua meta era Taranto, una delle vecchie città coloniali

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dell'Italia meridionale, sulla costa a lui nota come Megale Hellas, più famosa in seguito col nome latino di Magna Graecia.

Stava andando in cerca di Pitagora. (1)

Nei 110 anni trascorsi dalla sua morte, Pitagora era diventato una figura leggendaria. Alcuni credevano che fosse stato l'uomo più sapiente mai esistito, quasi un dio. Si diceva che un tesoro inestimabile di conoscenze fosse perito con lui e con i suoi seguaci nei tumulti che avevano distrutto le loro comunità nel 500 e nel 454 a.C. Anche se al tempo di Platone non erano più in vita persone abbastanza vecchie per aver potuto conoscere Pitagora, il filosofo ateniese aveva sentito dire che nella Magna Grecia c'erano ancora uomini che si chiamavano pitagorici. Così, all'età di trentotto anni, si imbarcò su una nave diretta verso le coste su cui Pitagora, press'a poco a quella stessa età, lo aveva preceduto, aveva camminato e insegnato, ed era morto. Le rocce dei promontori, le ridenti linee di costa, la polvere stessa delle strade, dovevano ricordarlo.

La ricerca di Platone cominciò a Taranto, il primo porto di scalo nella penisola italica per le navi provenienti dalla Grecia. (*) L'unica storia che colleghi Pitagora con la città fu che egli vi convinse un toro

* Taranto fu l'unica colonia fondata da Sparta, e Platone ammirava molto il sistema spartano di governo. Coloro che avevano colonizzato Taranto nel 706 a.C. vi erano però arrivati in circostanze insolite e forse non avrebbero condiviso l'entusiasmo di Platone per Sparta. Erano nati da matrimoni combinati dallo stato fra donne spartane e uomini che non erano stati in precedenza cittadini della città lacedemone. L'intento di questa politica era stato quello di accrescere il numero dei cittadini maschi che potevano combattere nelle guerre messeniche. Quando non c'era più bisogno dei mariti come guerrieri, i matrimoni venivano annullati e i figli erano costretti a lasciare Sparta.

a non mangiare fave, ma la relativa lontananza di Taranto da Crotone aveva permesso a molti pitagorici della città calabra di rifugiarvisi in occasione delle sollevazioni contro di loro del V secolo trovandovi una ragionevole sicurezza, e di darvi inizio a una comunità pitagorica in esilio. La comunità era sopravvissuta, e Platone sapeva che il suo membro più importante era ora Archita di Taranto: «Archita il pitagorico».

Platone trovò in Archita un uomo che incarnava gli ideali pitagorici sia nel suo stile di vita sia nei suoi studi. Archita era un eminente studioso è matematico che lavorava nella tradizione dei «matematici» pitagorici ed era un abile politico.

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L'incontro con lui dovette confermare a Platone che gli anni del governo di Pitagora nella Magna Grecia erano stati un periodo di pace e di stabilità, rafforzando la sua convinzione che uomini che conoscevano la filosofia e la matematica potevano essere splendidi governanti. Platone e Archita avevano la stessa età: fra loro c'era meno di un anno di differenza. La visita in Magna Grecia del 389 fu la prima di varie occasioni in cui Platone ebbe modo di conversare con lui e con i suoi amici pitagorici, assorbendo conoscenze e informazioni che solo un pugno di uomini al mondo avrebbero potuto dargli. La Megale Hellas avrebbe continuato ad attrarre Platone, e non solo a causa di Archita.

Al tempo della prima visita di Platone, le città dell'Italia meridionale stavano vivendo sotto l'ombra minacciosa di un temibile nemico: Dionisio, tiranno di Siracusa. La città era situata sulla costa ionica della Sicilia, una cinquantina di chilometri a nord di capo Passero, la punta più meridionale dell'isola. A quel tempo la parola «tiranno» non aveva necessariamente connotazioni negative. Il significato del termine era quello di un sovrano che non poteva ambire a una legittimazione ereditaria del suo potere, e in effetti Dionisio aveva cominciato la sua carriera nella modesta posizione di impiegato in un ufficio della città. La sua ascesa lo portò però ad avvicinarsi sempre più al significato moderno negativo del termine. Le tattiche che gli assicurarono un successo totale traumatizzarono persino i suoi contemporanei. Dionisio regnò per una quarantina d'anni, difendendo con successo l'indipendenza di Siracusa durante ripetute invasioni, mentre la maggior parte dell'isola cadeva in mano ai cartaginesi, che la attaccavano dal Nordafrica. Siracusa divenne una delle città più potenti del mondo, e per qualche tempo la sua flotta fu la più forte del Mediterraneo. Era pressoché certo che, se Dionisio avesse deciso di attaccare i suoi vicini sulla penisola italiana, nessuno avrebbe potuto fermarlo. Platone era venuto in una regione instabile e pericolosa, ma anziché fare immediatamente ritorno nella più sicura città di Atene, decise di acquisire esperienze dirette di prima mano sulla corte di un sovrano potente e dotato. Quello di Siracusa non era un governo teorico: era la cosa reale.

La capitale di Dionisio era, o stava diventando, una splendida città, ben fortificata, costruita strategicamente su un'isola separata dalla terraferma italiana da uno stretto braccio di mare. In Sicilia c'era una comunità pitagorica che, come quella di Taranto, aveva iniziato la sua esistenza con l'arrivo di profughi pitagorici del V secolo, che in questo caso avevano però attraversato lo stretto di Messina rifugiandosi in Sicilia. Platone era tuttavia interessato soprattutto a conoscere la corte di Dionisio. Egli era sempre più attratto dagli affari pubblici, e pare che

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abbia provato piacere - rischiando forse anche troppo per la sua incolumità - a operare a stretto contatto di gomito con potenti cortigiani, ai quali sentiva di potere tener testa senza alcuna difficoltà. Nel corso della sua prima visita, Platone conobbe uno degli uomini più influenti a Siracusa, il cognato del tiranno Dione. Platone fu impressionato da Dione... e viceversa.

Non molto tempo dopo la visita di Platone, le forze d'invasione di Dionisio causarono gravi devastazioni nelle città dell'Italia meridionale, e l'intera regione cadde in mano a Siracusa. Se consideriamo la carta geografica in termini calcistici, il pallone aveva calciato il piede.

Frattanto, ad Atene, Platone fondava la sua Accademia, adottando un «piano di studi pitagorico» che aveva appreso da Archita: un «quadrivio» di aritmetica, geometria, astronomia e musica. L'inclusione della musica era un tocco squisitamente pitagorico.

Lo spietato Dionisio morì nel 367, lasciando a succedergli sul trono il figlio Dionisio il Giovane. Purtroppo per Siracusa - anche se forse con sollievo di molte città italiane della regione - il figlio era un capo molto meno abile del padre. Il conoscente di Platone Dione, zio del nuovo sovrano, nutriva dubbi sulla capacità del nipote di mantenere Siracusa in una situazione dominante come quella in cui l'aveva lasciata suo padre. Quali che fossero le sue ragioni, bene intenzionate o tortuose (la storia registra i fatti ma non le motivazioni), Dione decise di migliorare il nipote provvedendo alla sua istruzione, anche se tardiva. Il padre era stato un leader intrinsecamente brillante, con ambizioni letterarie (anche se il suo stile era giudicato da molti scadente), ma il figlio aveva bisogno d'aiuto se doveva governare con continuità per mandare a vuoto gli sforzi dei cartaginesi di completare la loro conquista della Sicilia. Dione ricordava le conversazioni che aveva avuto vent'anni prima con Platone e alcuni dia loghi di Platone che aveva letto da allora, in cui Platone aveva sviluppato l'idea che i capi politici dovessero essere uomini come Pitagora e Archita, filosofi che avessero trovato il loro nutrimento intellettuale nel quadrivio. Per poter essere un «re filosofo», secondo l'espressione coniata da Platone, Dionisio il Giovane aveva bisogno di una preparazione che soltanto Platone poteva fornirgli. Dione decise di tentare di convincere Platone, che aveva sessantun anni ed era famoso ad Atene e anche molto lontano dalla Grecia, a tornare in Sicilia per assumersi l'istruzione del giovane sovrano.

Nonostante quello che dovette essere all'inizio un forte desiderio di educare un re filosofo in una potenza mondiale come Siracusa, Platone non fu sulle prime

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ansioso di accettare la proposta di Dione, giudicandola un'impresa rischiosa e dall'esito molto incerto. Fu Archita a convincere Platone a cambiare idea. Tentato in parte dall'opportunità di avere altre conversazioni con Archita, Platone si imbarcò per Siracusa. Per un po' di tempo ebbe rapporti abbastanza buoni con Dionisio il Giovane per creare contatti sociali a beneficio di Archita. Una relazione amichevole fra Dionisio e Archita sarebbe stata vantaggiosa per la città di Taranto. Dionisio, però, non studiò per molto tempo con Platone. Prima della fine del 366 bandì Dione; Platone, sospettando di non poter trarre alcun vantaggio dalla sua permanenza a Siracusa, fece prudentemente ritorno ad Atene.

Cinque o sei anni dopo, nel 361-360 a.C., Platone era però di ritorno, invitato dal tiranno stesso. Per richiamare Platone, Dionisio mandò un emissario di nome Archedemo, amico di Archita, con una nave speciale per riportare Platone in Sicilia. Anche il profugo Dione ebbe clandestinamente una parte nel ritorno di Platone, a cui chiese di rendere possibile una riconciliazione fra lui e Dionisio.

Tornato a Siracusa, Platone riprese le sue lezioni a Dionisio, ma ogni speranza di trasformare il giovane in un re filosofo durò anche questa volta ben poco. Non poté certo essere d'aiuto a Platone di ritrovarsi a corte anche grazie ai buoni uffici di Dione. Platone si trovò ben presto non solo in disgrazia ma anche in una situazione di pericolo per la sua vita. Informò Archita, e quell'uomo ricco di risorse, usando l'influenza che ancora conservava su Dionisio, inviò da Taranto un ambasciatore con una nave e riuscì a convincere il tiranno a liberare Platone. Da allora Archita non fu noto solo come «Archita di Taranto» o come «Archita il Pitagorico», ma anche come «Archita che salvò la vita a Platone».

Dione riuscì a impadronirsi di Siracusa tre anni dopo, e fu assassinato altri tre anni dopo per ordine di un altro conoscente di Platone a Siracusa. Dionisio riguadagnò il controllo della città per un altro breve periodo, ma pare non abbia mai avuto molta inclinazione o talento per il governo, e potrebbe essere stato quindi un sollievo per lui quando nel 344 il generale corinzio Timoleone lo costrinse ad arrendersi e a ritirarsi a Corinto. Qui egli diventò un docente di lingue.

Forse gli sforzi di Platone non erano andati del tutto sprecati e un ex tiranno poteva essere ben preparato per insegnare.

A Corinto Dionisio conobbe l'allievo di Aristotele Aristosseno, che stava raccogliendo informazioni su Pitagora e i pitagorici. Aristosseno si sarebbe rivelato una delle fonti più antiche e più importanti, grazie al fatto di essere nato a Taranto; egli disse inoltre che suo padre aveva conosciuto Archita. Da Dionisio,

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che era stato piuttosto inutile in quasi tutto il resto, Aristosseno riuscì a raccogliere informazioni di prima mano sui pitagorici del IV secolo a Siracusa.

Come Dionisio raccontò ad Aristosseno, alcuni suoi cortigiani a Siracusa avevano parlato in modo spregiativo dei pitagorici locali, presentandoli come arroganti, finte persone pie la cui vantata forza morale e superiorità si sarebbe rapidamente dissolta in una situazione di crisi. Altri cortigiani non erano d'accordo, e le due parti escogitarono un modo per comporre la controversia. Un pitagorico sarebbe stato disposto a far dipendere la propria vita dall'affidabilità e dalla lealtà di un altro? La lealtà e affidabilità dell'altro - fino alla morte si sarebbero dimostrate degne di quella cieca fiducia?

I cortigiani accusarono un membro della locale comunità pitagorica, di nome Finzia, di avere cospirato contro Dionisio. Quando Dionisio lo condannò a morte, Finzia chiese che si rimandasse l'esecuzione per la parte restante della giornata, per permettergli di sistemare i suoi affari. I pitagorici avevano il costume, stabilito dallo stesso Pitagora, di non avere proprietà privata ma di possedere ogni cosa in comune. Finzia era il membro più anziano della comunità pitagorica locale ed era il principale responsabile dell'amministrazione delle finanze. Dionisio e la sua corte, seguendo il loro piano, gli permisero di allontanarsi, facendosi però consegnare come ostaggio un altro pitagorico, Damone, che sarebbe stato liberato al suo ritorno. Con stupore della corte, Damone accettò di presentarsi personalmente come garanzia del ritorno di Finzia. Finzia se ne andò e i cortigiani - sicuri che non lo avrebbero più rivisto - canzonarono Damone per essere stato così sciocco. Il leale Finzia, però, tornò al tramonto per affrontare la morte piuttosto che lasciare che l'amico venisse giustiziato in sua vece. «Tutti i presenti rimasero attoniti e colpiti», riferì Dionisio, il quale rimase impressionato al punto di abbracciare i due uo mini e chiedere loro di permettergli di unirsi al loro legame di amicizia. Non sorprende che essi non abbiano «voluto dare in alcun modo il loro assenso a una cosa del genere». Quale sia stata poi la loro sorte non sappiamo. Anche Platone, che frequentò spesso la corte a Siracusa, sentì probabilmente parlare di questo caso, ma non lo menzionò mai nei suoi scritti.

Le attività di Platone nella Magna Grecia andarono oltre l'apprendimento degli insegnamenti di Pitagora e dei pitagorici, l'esperienza della realtà quotidiana alla corte di un tiranno e i tentativi abortiti di istruire Dionisio. Egli aiutò Archita a rafforzare la sua posizione di re filosofo in scala minore a Taranto. Archita continuò a svolgere un ruolo importante negli affari politici fra le città della Magna Grecia e della Sicilia, in accordo con la tradizione pitagorica di un impegno sapiente e abile nel servizio pubblico.

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In una ricerca del vero Pitagora e dei pitagorici, e di quel che essi credevano e insegnavano, le informazioni su Archita, Platone e Dionisio il Giovane forniscono indizi preziosi. Fatto più significativo, rivelano una connessione fra Platone e una comunità pitagorica che esisteva ancora nel IV secolo a.C. nella regione in cui Pitagora e i suoi seguaci avevano conosciuto la loro epoca aurea verso la fine del VI secolo.

Platone conosceva, direttamente o per sentito dire, altri pitagorici del IV secolo, ma dopo le sue visite a Taranto quando pensava ai «pitagorici» gli venivano in mente, con ogni probabilità, soprattutto Archita e i pitagorici a lui legati. Quando pensava alla matematica e all'insegnamento dei pitagorici gli venivano in mente la matematica e l'insegnamento di Archita.

Come potremmo descrivere quest'uomo che era, per Platone, il migliore esempio possibile di quel che significava essere un pitagorico e di che cos'era il «sapere pitagorico»? Che cosa avrebbe potuto imparare da lui Platone su Pitagora e su quel che era stato l'insegnamento pitagorico più di un secolo prima?

Archita era noto come un uomo mite che governava a Taranto attraverso l'applicazione di un insieme democratico di leggi. Quest'osservazione si desume dal fatto che le leggi non erano sempre rispettate: benché esse dicessero che un uomo non poteva prestare servizio per più di un anno, la città «elesse» Archita per sette volte nella funzione di strategos o di generale comandante. (2) Aristosseno scrisse che Archita non fu mai sconfitto come generale tranne che in un'unica occasione, quando i suoi oppositori politici lo costrinsero a dimetter si e il nemico ebbe immediatamente la meglio sui suoi uomini. Archita, disse Aristosseno, il cui padre lo aveva conosciuto di persona, «veniva ammirato per la sua eccellenza in molti campi».

Non possono esserci dubbi sul fatto che, come studioso, Archita era guidato dalla grande intuizione che separò i pitagorici da altri pensatori dell'antichità: che numeri e relazioni numeriche fossero la chiave per la vasta conoscenza dell'universo. Archita era un matematico rigoroso che risolse un famoso problema nella matematica greca, noto come problema di Delo o duplicazione del cubo, ossia la produzione di un nuovo cubo dal volume doppio di quello del primo. La soluzione di Archita fu molto raffinata, richiedendo una nuova geometria che usasse tre dimensioni — la geometria solida - e che implicasse l'idea di movimento. (3) (*)

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Questo diagramma mostra in che modo Archita risolse il problema di Delo: una prova di quanto fossero progredite la matematica e la geometria pitagoriche in poco più di un secolo. (**)

* Per un esempio dell'uso del moto in geometria, prendiamo una linea retta, fissiamone un estremo e lasciamo l'altro estremo libero di oscillare.

Ne risulta un arco. Prendiamo un triangolo rettangolo e teniamolo verticale, con uno dei due cateti che funga da base; se facciamo ruotare il triangolo intorno al cateto verticale, otterremo un cono. (L'antico studioso Eudemo usò questa spiegazione nella sua descrizione della soluzione di Archita.)

** Per capire questa soluzione si richiede un lungo testo, che è disponibile in S. Cuomo, Ancient Mathematics, Routledge, London 2001, pp. 58 e 59; vedi inoltre su Internet http://mathforum.org/dr.math/faq/daives/cu/ bedbl.htm

Vedendo il mondo attraverso gli occhi dei primi pitagorici, Archita non poté evitare di riflettere sui numeri e sulla geometria nascosti che erano probabilmente alla sua base. «Perché mai le parti delle piante e degli animali che non servono come organi sono tutte arrotondate, nelle piante il tronco e i rami, negli animali le gambe, le cosce, le braccia e il busto?» si chiese. «E perché né l'intero corpo né le singole sue parti sono triangoli o poligoni?» Egli sospettò che fosse per il fatto che nel moto naturale ci fosse una proporzione di uguaglianza, «(giacché tutto per natura si muove di moto uniforme), e questo è il solo movimento che ritorna su se stesso, sì che, quando c'è, dà origine a cerchi e ad altre figure rotonde» (DKr, 47 A 23a).

Alcuni studiosi posteriori, fra cui Euclide e Tolomeo, concordarono che il lavoro di Archita nella matematica della musica fosse fondamentalmente connesso con le forme più antiche di matematica e teoria della musica pitagoriche. (4) Archita estese lo studio dei rapporti musicali fra le note della scala e mostrò che, se si definisce un intero tono come l'intervallo che separa la quarta e la quinta nota della scala (come il fa e il sol in una scala che comincia col do), come stavano facendo i teorici musicali greci, un intero tono non poteva essere diviso in due metà uguali. (*) Questo fatto aveva implicazioni drammatiche essendo un esempio di qualcosa che era chiaramente presente nel mondo naturale ma non poteva essere misurato con precisione.

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Un esempio diverso, scoperto nel triangolo rettangolo, aveva notoriamente causato una crisi di fede devastante nella razionalità dell'universo, ma nel IV secolo a.C. l'incommensurabilità non sembrava più disturbare pitagorici come Archita.

In astronomia Archita si interrogò sul problema se il cosmo sia infinitamente grande, ed era famoso per essersi posto la domanda: «S'io mi trovassi all'estremità dello spazio, per esempio nel cielo delle stelle fisse, potrei tendere la mano o un bastoncino fuori di quello? o non potrei?» Egli continuava dicendo che qualunque fosse stata la risposta - sì o no -, se qualcuno si fosse trovato là a compiere l'esperimento, non avrebbe potuto trovarsi effettivamente al limite del cielo. Se infatti avesse potuto protendere all'esterno il braccio o il bastone non si sarebbe trovato ancora al limite del cielo. E se non avesse

* Più in generale, rapporti come 5:4 o 9:8, in cui il numero maggiore è più grande di un'unità rispetto al minore (i matematici chiamano questi rapporti superparticolari o epimerici) non possono essere divisi in due parti uguali.

potuto farlo, sarebbe stato bloccato da qualcosa che si trovava al di là di quel presunto limite estremo. (5)

In litanie dal suono arcaico, i pitagorici si erano chiesti «Quali sono le isole dei beati?», e avevano risposto: «Il sole e la luna». Archita aveva aggiornato questi problemi in un catechismo più raffinato, domandando: «Che cosa è calmo?», e rispondendo come un genitore potrebbe rispondere a un bambino, con un esempio: «Che cos'è un uomo?» «Papà è un uomo.» Similmente, la risposta di Archita alla domanda «Che cosa è calmo?» fu: «La superficie liscia del mare». Il suo catechismo implicava però qualcosa di più di risposte sotto forma di esempi, poiché egli amava connettere lo specifico col generale, riflettendo la dottrina pitagorica dell'unità di tutto l'essere, e meditare sul rapporto fra il tutto e le parti o i particolari. Le sue domande e risposte sul tempo e il mare erano casi particolari di domande più profonde sull'uniformità e sul moto. Il problema di dividere un tono intero in metà uguali era un caso particolare di scoperta matematica su rapporti che non potevano essere divisi in parti uguali. Le sue osservazioni sulla rotondità negli alberi, nelle piante e negli animali erano particolari manifestazioni di una proporzione di uguaglianza nel moto naturale [«rapporto dell'identico... nel moto naturale», DKr, 47 A 23a]. Archita era convinto dell'esistenza di una stretta connessione fra la comprensione dell'universo, o di qualsiasi altra cosa, come un tutto, e la comprensione dei particolari. Platone scrisse nella Repubblica che questo paragrafo di Archita era «l'insegnamento dei pitagorici».

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Ottime conoscenze mi sembra abbiano acquisito quelli [fra i pitagorici] che si sono dedicati alle matematiche. E non è strano che pensassero correttamente sulle proprietà delle singole cose: perché, conoscendo la natura del tutto, non potevano non veder bene anche come sono le cose particolari. Così essi ci hanno fornito chiare nozioni sulla velocità degli astri e sul loro sorgere e sul loro tramontare, e inoltre sulla geometria e sull'aritmetica e sulla scienza delle sfere e soprattutto sulla musica; perché queste scienze sembrano essere sorelle. [DKr, 47 B 1]

Quando Archita scrisse su problemi come la superficie liscia o mossa del mare stava riflettendo su un altro tema favorito della tradizione pitagorica, gli opposti (uniformità e mancanza di uniformità; moto e assenza di moto), e per lui quella linea di pensiero riconduceva inevitabilmente alla riflessione sull'infinità. Qualcosa può essere infini tamente calmo? O infinitamente non calmo? O infinitamente liscio, o infinitamente non uniforme?

Come politico e come generale, Archita era convinto di quel che era sicuro fosse stato dimostrato dai suoi predecessori pitagorici: l'unità di tutte le cose doveva includere etica e politica. Il valore della matematica si estendeva all'arena politica. Come nel frammento seguente, la parola «ragione» fu tradotta anche con «calcolo». Per un pitagorico come Archita, i due significati erano probabilmente sinonimi.

La scoperta del calcolo ha fatto cessare le discordie e ha accresciuto la concordia. Non è possibile che ci sia sopraffazione da che esso è stato trovato; c'è invece parità. Per esso infatti ci accordiamo nelle relazioni d'affari. Per mezzo suo i poveri ricevono dai ricchi e i ricchi danno ai poveri, avendo fiducia e gli uni e gli altri di avere la parte loro. [DKr, 47 B 2]

Platone, ovviamente, non avrebbe potuto essere più d'accordo. La capacità di usare la «ragione» o il «calcolo» avrebbe fatto di un re filosofo un sovrano superbamente abile.

Per Archita il concetto di unità doveva applicarsi anche all'ottica, all'acustica fisica e alla meccanica per una ricerca pitagorica di livelli più profondi di

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comprensione matematica. La sua è la più antica spiegazione pervenuta fino a noi del suono «per urto», con gli urti più forti che producono toni più alti, ma Archita accennò ai pitagorici suoi predecessori sottolineando che questa era una teoria che gli era stata tramandata. Con l'espressione «per urto», Archita intendeva l'urto sull'aria: come quando si sferza l'aria con una verga, o quando si suona una nota più alta su un flauto che sia il più corto possibile (cosa che pensava avrebbe determinato una pressione più forte sull'aria), e anche il suono del vento produceva toni più alti al crescere della sua velocità, cosa che si verificava anche nel caso dei «tamburelli che si scuotono nelle cerimonie d'iniziazione. Scossi piano, mandano un suono grave: scossi con forza mandano un suono acuto». Quanto maggiore era la velocità, tanto più acuto era il tono. (6)

Una delle idee pitagoriche più note, influenti e perduranti trasmesse da Archita a Platone fu il concetto della «musica delle sfere», la musica che Archita e i suoi predecessori pitagorici pensavano venisse prodotta dai pianeti attraverso i loro veloci moti in cielo. Ecco la spiegazione data da Archita del perché gli esseri umani non la odono mai:

Dissero poi che molti suoni noi non li percepiamo, o perché l'urto è debole, o perché avviene a molta distanza, o, alcuni, perché son troppo grandi: così come non entra in vasi stretti quello che uno voglia versarvi, quando sia troppo grande.

Secondo la tradizione pitagorica, soltanto Pitagora poteva udire questa musica.

Archita era un uomo generoso, gentile con gli schiavi e con i bambini. Inventò giocattoli e dispositivi curiosi, compreso un uccello di legno (un'anatra o colomba) capace di volare. [DKr, 47 A 10] Aristotele era impressionato dal «sonaglio di Archita, che si dà ai bambini, affinché, occupati con esso, non rompano niente delle cose di casa: i piccoli non riescono a stare fermi» (7)

Queste furono dunque la scienza, la matematica, la teoria della musica e la filosofia politica che Platone imparò da Archita a riconoscere come pitagoriche. Attraverso Platone gran parte dell'immagine di Pitagora e dei pitagorici insegnata nella civiltà occidentale è riconducibile alla finestra di Archita su Pitagora.

Quanto era sgombra la vista che si godeva da quella finestra? Archita si considerava un autentico pitagorico, fedele alle tradizioni e agli insegnamenti più antichi. Alla sua epoca i racconti che correvano di bocca in bocca potevano essere

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ancora esatti, specialmente in una comunità che proseguiva la sua esistenza considerando di importanza vitale la conservazione viva e chiara di un'antica memoria. Sotto molti aspetti Archita era probabilmente un buon riflesso di quel che significava essere pitagorici quando lo stesso Pitagora ancora percorreva le vie della Megale Hellas. Egli era però uno dei «matematici», la scuola pitagorica convinta che seguire le orme di Pitagora significasse ricercare e accrescere diligentemente il sapere. Gli ideali pitagorici che erano alla base del pensiero e dell'opera di Archita lo condussero a nuove scoperte. Egli fu fra i grandi studiosi e matematici della sua epoca, e ha fama di essere stato il maestro del matematico e astronomo Eudosso di Cnido. Se Archita avesse concentrato la sua attenzione solo sulla conoscenza dei primi pitagorici, ciò sarebbe stato impossibile.

Lo stesso Platone fornì una finestra attraverso la quale noi possiamo ammirare Archita. Per quanto fosse grande la precisione con cui Archita rifletteva Pitagora e il pensiero pitagorico, noi lo vediamo attraverso gli occhi di Platone e con la mente di Platone, gli occhi e la mente di uno dei pensatori più creativi di tutta la storia. È nella natura di un uomo del genere, quando ha in mente un'idea, raccogliere le idee di altri e riformularle nel modo più brillante, solo che quando presenta il risultato della sua rielaborazione, le idee che emergono sono sue, non dell'altro. Supponendo che Archita fosse un pitagorico esemplare, quando Platone riformulò l'idea che aveva ricevuto da Archita, c'era ancora, in essa, qualcosa del pensiero del filosofo di Taranto? Questo è uno dei problemi più dibattuti fra tutti coloro che hanno nutrito l'ardente desiderio di conoscere che cosa lo stesso Pitagora, e i pitagorici anteriori a Platone, avessero realmente scoperto e pensato.

Su un problema importante Platone fu in disaccordo con Archita, e questo disaccordo è un indizio prezioso, una chiara indicazione di qualcosa, presente nel pensiero pitagorico pre-platonico, non diluito da Platone, che differiva da Platone. Platone si dolse che Archita fosse interessato a quel che si poteva vedere, udire e toccare, e alla ricerca di elementi matematici e di numeri per spiegarli. Per Platone il fine dello studio della matematica era quello di volgere le spalle all'esperienza che gli uomini si formano attraverso i cinque sensi per cercare una «forma astratta», fuori dal regno della percezione sensoriale. I numeri e la comprensione matematica erano per Archita un'avventura nella forma astratta, la quale però era diversa, agli occhi di Platone, dal suo concetto della comprensione ultima del «Bello» e del «Bene».

Questa differenza, agli occhi di Platone, faceva di Archita un filosofo manchevole e di lui un filosofo migliore.

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La conoscenza che Platone aveva di Pitagora e dei pitagorici non era limitata a ciò che aveva imparato attraverso Archita. Nei suoi dialoghi ci sono prove che ne aveva sentito parlare da Socrate; inoltre tanto Platone quanto Archita sapevano qualcosa di Filolao. Se i personaggi del Fedone non sono del tutto immaginari, Platone conosceva suoi contemporanei che erano stati «discepoli di Filolao e di Eurito» a Fliunte, una comunità a ovest di Corinto, oltre a Echecrate - che parla per loro nel dialogo -, a Simmia e a Cebete. Platone conosceva anche Liside di Taranto che, come Filolao, era emigrato a Tebe. A quanto pare la comunità pitagorica di Tebe esisteva ancora al tempo di Platone.

Platone non avrebbe potuto evitare di conoscere qualcosa anche dei pitagorici acusmatici, che non volevano accettare filosofi come Archita fra i pitagorici. (8) Il pubblico greco del IV secolo a.C. non ri conobbe in generale una distinzione fra «matematici» e «acusmatici» e riunì insieme tutti i «pitagoristi» come una genia di eccentrici.

I commediografi ateniesi li misero in satira come personaggi sporchi, amanti del segreto, arroganti, che si astenevano da carne e vino e andavano in giro scalzi e cenciosi. I discepoli di Platone, educati nella sua Accademia nelle scienze sorelle dei pitagorici - il quadrivio, formato da aritmetica, geometria, astronomia e musica - parlavano della loro filosofia e di quella di Pitagora come della stessa e presentarono il filosofo ateniese nei loro libri. Essi si riconoscevano certamente di più nella tradizione dei «matematici» che in quella degli «acusmatici», ma erano tuttavia il bersaglio delle stesse irrisioni.

L'incrollabile convinzione degli uomini che ispirarono la caricatura - di essere gli autentici eredi di Pitagora e i custodi di una tradizione preziosa - ebbe l'effetto di far sentire con un po' di disagio ad alcuni loro contemporanei che persino le persone più eccentriche erano favorite dagli dèi e messe a parte di segreti mistici. Antifane, nella commedia I tarantini, parlò dello stesso Pitagora come del «tre volte benedetto», e Aristofonte fa dire a uno dei suoi personaggi: Disse di essere sceso agli inferi a far visita a coloro che erano ai livelli più bassi nella loro vita quotidiana e di averli visti tutti, e che i pitagorici avevano la sorte di gran lunga migliore fra i defunti. Platone desinava solo con loro a causa della loro devozione.

Temendo che qualcuno potesse dedurne che egli approvava i pitagorici, Aristofonte fa commentare a un altro personaggio che Plutone era stato un dio di scarso discernimento per desinare con gentaglia così sporca. (9)

Diodoro di Aspendo, che non era un personaggio immaginario, veniva descritto come un vegetariano dai capelli lunghi, barba incolta, stravaganti

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indumenti di pelle, che con «arrogante presunzione» attraeva seguaci attorno a sé, anche se pitagorici venuti prima di lui indossavano indumenti dai colori vivaci, «si facevano il bagno, si ungevano e si tagliavano i capelli alla moda». (10)

Aristosseno - che intervistò il tiranno Dionisio nel suo esilio a Corinto - era diverso da tutti questi. Egli era in effetti un difensore «dei matematici», provava piacere nel contraddire gli «acusmatici», insisteva sulla tesi che Pitagora mangiava carne e che i detti a lui attribuiti erano ridicoli, e cercava di dissociare i «veri pitagorici» da quell'insipido gruppo superstizioso che stava dando un'immagine molto negativa della comunità pitagorica. Egli elencò gli allievi di Filolao e di Eurito e li chiamò «gli ultimi pitagorici», «rimasti fedeli al loro stile di vita originario e alla loro scienza finché, non ignobilmente, si estinsero». Poiché questi uomini morirono pochi decenni prima delle allusioni dei comici nelle commedie, il fatto di chiamarli «gli ultimi pitagorici» evidenziava che i bersagli delle irrisioni stavano solo fingendo di essere pitagorici.

Gli sforzi di Aristosseno nel campo delle pubbliche relazioni non ebbero un grande successo. Per tutto il IV secolo l'immagine popolare dei pitagorici continuò ad assomigliare agli «acusmatici» più che ai «matematici». Dopo il IV secolo, però, con poche eccezioni, l'immagine degli acusmatici si indebolì e svanì nel nulla. Se non ci fosse stata un'altra tradizione pitagorica, diversa dalla loro, e se essi avessero effettivamente rappresentato l'immagine più vera di Pitagora e dei suoi primi seguaci, sarebbe quasi impossibile spiegare in che modo quella strana figura cultuale di Pitagora, non molto diversa da altre figure di sapienti eccentrici nell'antichità, si sia così rapidamente e drammaticamente trasformata nelle menti di uomini e donne intelligenti al punto di ispirare un pensiero scientifico così profondo ed efficace da impadronirsi dell'immaginazione di molte persone dei secoli a venire.

Tutti questi sviluppi si devono forse a Platone? Egli fu così impressionato da qualcosa che era soprattutto leggenda da svilupparla fino a renderla immensamente significativa? Quanto meno, dovettero essere reali la scoperta in musica di regolarità e razionalità sottostanti alla natura, e l'accessibilità di quella razionalità attraverso i numeri: tutte cose non certo di scarsa importanza. Pare molto più ragionevole concludere che Pitagora, rispondendo a tipi diversi di interessi e di intelligenza fra i suoi seguaci, abbia incoraggiato entrambe le forme di pensiero: un pensiero più ingenuo e più irreggimentato e conservatore per gli «acusmatici», e un pensiero più scientificamente rigoroso per i «matematici», più ansiosi di comprendere concetti difficili e più complessi e di esplorarne le

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implicazioni. Personalmente, forse, Pitagora non era del tutto diverso da nessuno dei due gruppi.

In ogni caso, da Platone in poi quel che sopravvisse di «Pitagora» e dei «pitagorici» fu un pensiero in gran parte matematico; esso incluse la convinzione che, con Pitagora, ci fosse stato un nuovo approccio, veramente notevole, ai numeri, alla matematica, alla filosofia e alla natura.

9. «QUESTA RIVELAZIONE CE L'HANNO

TRAMANDATA GLI ANTICHI, CHE ERANO PIÙ

VALENTI DI NOI E VIVEVANO PIÙ VICINO AGLI DÈI»

IV secolo a.C.

Socrate non fu un personaggio immaginario inventato da Platone.

Nato trent'anni circa dopo la morte di Pitagora, press'a poco alla stessa epoca della nascita di Filolao, combatté nelle guerre del Peloponneso e poi visse una vita di povertà intenzionale come insegnante ad Atene. Non scrisse niente, e le informazioni che possediamo sul suo insegnamento ci vengono solo da alcuni dialoghi di Platone e da conversazioni simili registrate da Senofonte, un altro suo allievo.

Il metodo di insegnamento di Socrate consisteva nel porre domande.

I dialoghi di Platone non sono relazioni fedeli parola per parola di lezioni costruite su domande e risposte, ma sono quasi certamente fedeli alla filosofia che ne emerse. All'età di settant'anni Socrate fu accusato di empietà e di corruzione a danno dei giovani ateniesi.

Una giuria formata da suoi concittadini lo condannò a morte, probabilmente attraverso l'assunzione di una dose di cicuta. Il vecchio maestro morì circondato da amici e discepoli.

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Nei dialoghi scritti da Platone era di solito il personaggio Socrate a dirigere le discussioni, ma nel Timeo egli lasciò per molte pagine il centro della scena a un personaggio immaginario, di nome Timeo di Locri. Timeo viene presentato come uno statista e scienziato dell'Italia meridionale, e le idee che Platone gli attribuisce dovevano molto ad Archita, con cui Platone aveva trascorso lunghe ore a Taranto immerso in profonde conversazioni e occupato a tracciare diagrammi matematici. Forse quel che Timeo dice a Socrate e ai suoi amici nel dialogo è qualcosa di simile a ciò che Archita espose a Platone.

O forse molte idee di Archita furono solo un trampolino per Platone.

Anche se su queste possibilità sono state espresse molte idee, nessuno lo sa per certo, e probabilmente la verità sta nel mezzo.

Platone portò avanti due grandi temi pitagorici: 1) la struttura matematica sottostante al mondo e il potere della matematica di svelarne i segreti; e 2) l'immortalità dell'anima. (1) La scena è pronta per la discussione del primo tema quando Socrate domanda a Timeo, un esperto di tali argomenti, di «parlare per primo, cominciando dall'o rigine del mondo fino alla creazione dell'uomo». (2) La risposta di Timeo a questa difficile richiesta è una storia della creazione pitagorica zeppa di numeri: l'ordine matematico dell'universo era opera di un dio creativo, che Platone chiamò il demiurgo: non il capo degli dèi o l'unico dio, ma una figura vagamente paragonabile a Ptah, il dio egizio a Menfi, o a Gesù che opera nel ruolo del logos all'inizio del Vangelo di Giovanni: «ogni cosa è stata fatta per mezzo di lei (la Parola, logos), e senza di lei nemmeno una delle cose fatte è stata fatta». Questo demiurgo, dice Timeo, decise che l'universo dovesse essere un essere vivente, sferico e mobile di moto circolare uniforme, unico e solo. Timeo espose una costruzione numerica dell'anima del mondo [35 b-c].

• Prima il creatore prese questo materiale e «tolse dal tutto una parte».

• Poi ne «tolse una doppia di essa».

• Poi ne prese «una terza ch'era una volta e mezza la seconda e tre volte la prima».

• Poi prese «una quarta [sezione], doppia della seconda».

• Poi «una quinta [sezione], tripla della terza».

• Poi «una sesta, ottupla della prima».

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• E infine «una settima, ventisette volte maggiore della prima».

Il conteggio dei quadrati presenti in ogni riga dà 1, 2, 3, 4, 9, 8, 27. (1) primi quattro numeri formano la tetraktys e i rapporti musicali pitagorici, 2:1, 3:2, 4:3, ma è una sfida interessante cercare di discernere una regolarità significativa negli altri numeri, e trovare in che modo essi potrebbero funzionare in un piano della creazione. La soluzione è che, se si eleva al quadrato ognuno dei primi due numeri 2 e 3 (1 non è un «numero»), si ottengono 4 e 9. Se si elevano al cubo gli stessi due numeri, 2 e 3 si ottengono 8 e 27. Per i pitagorici era significante che ogni coppia fosse formata da un numero pari e da uno dispari.

Platone si fermò ai cubi perché nella creazione di una realtà fisica solida, tridimensionale, si richiedono solo tre dimensioni.

Poi, secondo il discorso che Platone fa tenere a Timeo, il creatore divise il materiale in parti più piccole, introducendo fra quei numeri medie armoniche e aritmetiche e connettendo l'«anima del mondo» con una scala diatonica in musica. (*) Platone non usò la scala sviluppata da Archita, bensì una introdotta da Filolao.

Anche l'astronomia, nel Timeo platonico, viene sviluppata numericamente, con l'«anima del mondo» tagliata in due strisce piegate e incrociate in forma di «X», a comporre due cerchi, uno interno e uno esterno. Questi cerchi esistono effettivamente in astronomia, e sono l'equatore celeste e l'eclittica. L'equatore celeste si trova sullo stesso piano dell'equatore terrestre e àncora la sfera delle stelle fisse, di modo che non cambino le loro posizioni in cielo l'una rispetto all'altra e all'equatore celeste. L'equatore è il cerchio che Timeo chiamò «il Medesimo». Esso rimane uguale e non cambia mai. L'eclittica è il percorso circolare che il Sole sembra seguire nel suo moto diurno, con i pianeti che sembrano orbitare in una banda incentrata su di esso. L'eclittica è il cerchio che Timeo chiama «l'Altro» o «il Diverso», in quanto cambia. Per creare il tempo, spiega Timeo, «furono fatti il Sole e la Luna e altri cinque astri, che si dicono pianeti, per distinguere e guardare i numeri del tempo» [38c]. (**) Il creatore

* L'aggettivo diatonico si riferisce alle scale oggi note come scala maggiore e minore.

** Platone non fu il primo a pensare che i pianeti si muovano su cerchi.

Il cosmo di Anassimandro prevedeva grandi ruote, il cui cerchione, cavo, era pieno di fuoco. Sole, Luna, stelle e pianeti erano barlumi di questo fuoco che

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apparivano da aperture nel cerchione della ruota. Idee simili erano emerse anche altrove. Dopo Platone l'idea fu raccolta dal suo discepolo Eudosso, il quale raccolse la sfida del maestro di produrre un'analisi che salvasse i fenomeni celesti con una spiegazione lungo le linee introdotte dai divise il Diverso in sette strisce più strette per collocarvi il Sole, la Luna e i cinque pianeti, i raggi delle cui orbite erano proporzionali ai numeri 1, 2, 3, 4, 8, 9 e 27. Entrambi i cerchi - Medesimo e Diverso — erano in moto costante, cosa che secondo Platone non era possibile in assenza di un'anima vivente, a meno che non ci fosse una spinta a opera di qualcos'altro. I cerchi si muovevano in direzioni opposte - il Medesimo (l'equatore celeste) da est a ovest, e il Diverso da ovest a est, e le sette strisce del Diverso si muovevano con diverse velocità, corrispondenti ai moti della Luna, del Sole e dei pianeti.

Il «Medesimo» (equatore celeste) Il «Diverso» (eclittica e percorsi del Sole, della Luna e dei pianeti)

Platone fa spiegare a Timeo che i moti che gli esseri umani vedono in cielo sono il risultato di questa combinazione: la rotazione diurna dell'equatore celeste (il Medesimo) con la sfera delle stelle fisse porta con sé l'intero cielo da est a ovest compresi il Sole, la Luna e i pianeti.

Ma il Sole, la Luna e i pianeti - i sette corpi del Diverso - hanno inoltre il loro moto contrario da ovest a est contro quello sfondo. Essi «nuotano controcorrente», per così dire, contro la corrente del Medesimo, a varie velocità, a volte tornando indietro (con moto «retrogrado»). Questo avviene, secondo Timeo, perché sono anime, e le anime esercitano scelte e potere di movimento indipendenti. Questo viene considerato uno dei trionfi dei pitagorici, i quali risultano essere stati i primi a spiegare correttamente, nei frammenti di Filolao, in maggior dettaglio nell'opera di Archita, e poi in Platone, il moto celeste come una combinazione di moti opposti.

La geometria - come Platone fa spiegare a Timeo - ebbe un ruolo dettagliato nella creazione, quando il disordine primordiale era un pitagorici: una spiegazione che implicasse una combinazione di moti, della sfera, delle stelle e dei pianeti. Eudosso fornì questa spiegazione con un sistema non di cerchi concentrici bensì di sfere concentriche, sistema che fu adottato da Aristotele e che avrebbe dominato l'astronomia fino al tempo di Tycho Brahe e di Keplero.

miscuglio di quattro elementi - terra, fuoco, aria e acqua - e il creatore introdusse quattro solidi geometrici corrispondenti: cubo, piramide o tetraedro, ottaedro e icosaedro. Questi solidi «pitagorici» o «platonici» sono quattro dei soli

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cinque solidi possibili nei quali tutti gli spigoli hanno uguale lunghezza e tutte le facce hanno la stessa forma. (*) Ogni elemento — terra, fuoco, aria e acqua - era formato da pezzetti che avevano una di quelle figure, i quali erano però troppo piccoli per poter essere visti.

Platone prosegue (per bocca di Timeo): i quattro elementi e i quattro solidi non erano l'alfabeto dell'universo. I solidi erano costruiti con qualcosa di ancora più fondamentale: due tipi di triangoli rettangoli. Platone, attraverso Timeo, ammise che c'era spazio per discutere su quali triangoli fossero più fondamentali, ma pensava che fosse corretto scegliere il triangolo rettangolo isoscele e il triangolo rettangolo scaleno (col cateto minore pari a metà dell'ipotenusa).

Il triangolo rettangolo isoscele viene formato tagliando un quadrato in due metà uguali con la diagonale. È ovvio che due triangoli rettangoli isosceli formino un quadrato, usando come ipotenusa la diagonale del quadrato, e che i quadrati formino il cubo (uno dei solidi geometrici).

Consideriamo ora un triangolo rettangolo scaleno la cui ipotenusa sia lunga il doppio del cateto minore. Due di questi triangoli scaleni si possono unire - unendo i cateti maggiori per creare un triangolo

* Keplero scoprì altri solidi regolari, per esempio il dodecaedro elevato, ma essi non hanno tutte le caratteristiche dei cinque solidi originali. [Nella Harmonices mundi Keplero presenta così questo solido: «dodecaedro elevato [dodecaedro a facce stellate], a cui ho dato il nome di echinus (riccio) perché è formato da stelle a cinque angoli» (lib. V, cap. 3; cit. da Alexandre Koyré, La rivoluzione astronomica, trad. it. di L. Sosio, Feltrinelli, Milano 1966, p. 282). {N.d.T.)}

equilatero: nient'altro che la tetraktys pitagorica. Le facce del tetraedro, dell'ottaedro e dell'icosaedro sono triangoli equilateri.

Ecco la spiegazione platonica.

Cubo: unite i lati di sei quadrati (ognuno dei quali ottenuto accoppiando due triangoli rettangoli isosceli). Ne risulta un cubo, l'unico solido regolare che usi per la sua costruzione il triangolo rettangolo isoscele o il quadrato.

Tetraedro: unite i lati di quattro triangoli equilateri (ognuno costruito appaiando i lati di due triangoli rettangoli scaleni. Ne risulta una piramide di base triangolare o tetraedro.

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Ottaedro: unite i lati di otto triangoli equilateri. Ne risulterà un ottaedro.

Icosaedro: unite i lati di venti triangoli equilateri. Ne risulterà un icosaedro.

I pitagorici e Platone conoscevano il dodecaedro, l'unico solido regolare formato da pentagoni 12, ma Platone non lo usò in questo piano cosmico.

Oltre ai cinque solidi menzionati qui sopra - cubo, piramide o tetraedro, ottaedro, dodecaedro e icosaedro — non esistono altri solidi regolari (o poliedri). Se tentate di unire un qualsiasi altro numero di lati di una qualsiasi figura regolare (poligono), non ci riuscirete. Non sorprende che i pitagorici, Platone e in seguito Keplero pensassero che questi solidi fossero misteriosi.

Timeo spiega a Socrate e agli altri personaggi del dialogo che la terra è composta da cubi microscopici, il fuoco da tetraedri, l'aria da ottaedri e l'acqua da icosaedri. Gli accoppiamenti fra i poliedri regolari e gli elementi si fondavano sulla mobilità di ciascun solido, sulla sua acutezza, penetrazione e su considerazioni concernenti le qualità che potevano derivare a un elemento dal fatto di essere composto di pezzi piccolissimi di tali forme.

Timeo accoppia il quinto solido regolare, il dodecaedro, con l'«intero cielo sferico», e nel Fedone Platone lo associa alla Terra sferica, benché al suo tempo la maggior parte del mondo greco, eccezion fatta per le disseminate comunità pitagoriche, supponessero ancora che la Terra fosse piatta. Il dodecaedro è in effetti la figura più vicina a una sfera. La menzione più antica del dodecaedro si ha negli sport, con riferimento a dodici pezzi pentagonali di tessuto cuciti insieme e poi gonfiati per formare una palla. Ognuno dei cinque solidi regolari può essere iscritto in una sfera, in modo che ciascuno dei suoi vertici tocchi la superficie interna della sfera, e una sfera può essere iscritta a ciascuno dei solidi, in modo da toccare il centro della superficie di ogni pentagono. Ciò dà senso a un frammento enigmatico (e controverso) di Filolao: «I corpi [nella sfera] son cinque; quelli nella sfera son fuoco acqua terra e aria; e, quinto, è il volume della sfera». (*)

Benché i triangoli che compongono i poliedri nello schema platonico possano essere stati l'«alfabeto» base della creazione, Platone non ritenne che fossero i princìpi fondamentali o archai. Nel Filebo Socrate dice che la conoscenza dei princìpi del limitato e dell' illimitato, del «finito» e dell'«infinito», è «un dono degli dèi agli uomini [...]. Da un punto del cielo divino un giorno sulla terra fu gettato, per mezzo di un Prometeo, insieme a un fuoco d'una chiarezza abbagliante, e gli antichi (che erano più valenti di noi e vivevano più vicino agli dèi) ce l'hanno tramandata, questa rivelazione, e cioè che risultando dall'unità e

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dalla molteplicità, le cose che sono [...] portano in sé connaturato finito e infinito». (3) I contemporanei di Platone e generazioni di lettori posteriori pensavano che con le parole «un Prometeo» egli avesse inteso riferirsi a Pitagora, e che «gli antichi [...] più valenti di noi [che] vivevano più vicino agli dèi» fossero i pitagorici, i quali diedero un contributo sostanziale all'immagine di Pitagora come un canale attraverso il quale passavano una conoscenza e una sapienza superumane. Se questo era quanto intendeva dire Platone, egli fu ingiusto nei confronti di Anassimandro, che aveva parlato già prima di «finito» e «infinito».

Secondo Platone, una rivelazione concernente il finito e l'infinito

* DKr, 44 B 12. Antonio Maddalena propone di leggere questo discusso frammento nel modo seguente: «Cinque sono gli elementi: quelli entro la sfera sono il fuoco, l'aria, la terra, l'acqua; quinto è quello che avvolge la sfera. Vedi A. Maddalena (a cura di), / Pitagorici, cit., p. 194 e nota 28; inoltre DKr, cit., p. 470 e nota 15. (N.d.T.)

che un qualche Prometeo gettò giù dal cielo fu che tutte «le cose che sono», essendo derivate «dall'unità e dalla molteplicità [...], portano in sé connaturato finito e infinito». Platone lo spiegò in lezioni tenute nell'Accademia e che Aristotele riferì di prima mano.

Platone scelse di trasformare i concetti di illimitato e limitato in qualcosa di più facilmente comprensibile: unità e pluralità. Egli le chiamò «l'Uno» (unità) e «la Diade indefinita» (pluralità). È abbastanza facile capire che cosa si intenda con l'Uno, o unità, ma la Diade indefinita è un concetto più difficile. Pensiamola come più di uno, o come qualcosa che non è Uno, o - in modo più vago ma più vicino a quanto intendeva presumibilmente Platone — come qualcosa che implicasse la possibilità dei numeri o di un ruolo per i numeri (non ci sarebbe un ruolo per i numeri se tutto fosse Uno), senza però implicare che i numeri esistano effettivamente.

La Diade indefinita implicava anche la possibilità di opposti - grande-piccolo, caldo-freddo -, perché se tutto fosse Uno non esisterebbero opposti.

All'inizio l'Uno agì in qualche modo sulla Diade indefinita, e ne risultò un numero definito, il 2. L'Uno continuò a operare sulla Diade generando i numeri fino a 10. A questo punto, i numeri 2, 3 e 4 — i numeri presenti nella tetraktys pitagorica - svolsero prevedibilmente un ruolo speciale, organizzando la Diade per produrre la geometria.

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Platone reintrodusse la progressione punto-linea-superficie-solido, connettendo l'Uno e la Diade indefinita col mondo quale lo conoscevano gli uomini. L'incontro fra l'Uno e la Diade indefinita era stato il fuoco d'una chiarezza abbagliante che aveva portato all'esistenza ogni altra cosa.

A un livello più mondano, Platone collegò i numeri con idee su una società ideale e su sovrani ideali. Quando scrisse il Gorgia, il primo dialogo in cui trattò esplicitamente di questioni politiche, era probabilmente tornato solo da poco tempo dalla sua prima visita a Siracusa. Un personaggio del dialogo, Callicle, agogna al potere e al lusso, e Socrate lo ammonisce con parole nelle quali riecheggiano convinzioni pitagoriche:

Chi se ne intende dice, invece, o Callicle, che cielo, terra, dèi, uomini, sono collegati in un tutto grazie all'unione, all'amicizia, all'armonia, alla temperanza, alla giustizia, e che per tale ragione, amico mio, questo tutto è chiamato «cosmo» [ordine] e non «acosmia» [disordine] e dissolutezza. Ma tu, mi sembra, non poni attenzione a questo motivo, pur intendendo tene, ma oscuro ti resta quale mai grande potenza abbia tra uomini e dèi l'uguaglianza geometrica, e perciò credi si debba invece esercitare la strapotenza: ecco perché non consideri la geometria. (4)

Come nel Timeo, prima di accommiatarsi dai suoi interlocutori Socrate ricorda loro due condizioni decisamente pitagoriche di «uguaglianza» necessarie per una società ideale: coloro che hanno il dovere di difendere la comunità, all'interno e all'esterno, non dovrebbero possedere nulla privatamente ma dovrebbero possedere tutte le loro cose in comune. Le donne dovevano partecipare a tutte le occupazioni, in guerra e nel resto della vita. Questa loro partecipazione non indicava però una vera uguaglianza per loro, poiché, più avanti nello stesso dialogo, Timeo dice che, se un uomo non vive una buona vita, potrebbe nascere donna nella vita seguente (Timeo, 42b).

Archita aveva introdotto Platone al quadrivio pitagorico, il piano di studi comprendente l'aritmetica, la geometria, l'astronomia e la musica. Platone fa dichiarare a Socrate: «Può darsi [...] che, come gli occhi sono conformati per l'astronomia, così le orecchie lo siano per il moto armonico; e che si tratti di scienze per così dire sorelle, come affermano i pitagorici e noi, Glaucone, conveniamo». (5) Questa è l'unica volta in cui Platone menziona i pitagorici per nome, ma quando Socrate riprende il suo discorso è chiaro che sta ancora parlando di loro: «Poiché la questione è importante, cercheremo di sapere da loro

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che cosa dicono di questi argomenti e di altri eventuali oltre a questi» (Repubblica, 530e).

Platone non era però del tutto d'accordo con l'approccio dei pitagorici: lo studio delle stelle e dei loro moti era utile in quanto permetteva di andare oltre le apparenze superficiali per comprendere i princìpi matematici e le leggi del moto che erano alla loro base, ma benché le stelle e i loro movimenti illustrassero questa realtà, non si riusciva mai a coglierla con assoluta precisione. Un filosofo doveva andare oltre e tentare di capire «oggetti che si possono cogliere con la ragione e con il pensiero [...], ma non con la vista» (529d). Platone era convinto che fosse necessario un nuovo tipo di educazione.

Non molto tempo dopo la sua prima visita a Siracusa, Platone aveva comprato una proprietà nei pressi di Atene comprendente un oliveto, un parco e un gymnasium consacrato al leggendario eroe Academo. In quel gradevole ambiente agreste aveva fondato la sua Accademia (il nome derivava dall'eroe arcade che vi aveva posseduto un podere). Per la parte restante della sua vita, eccezion fatta per i soggiorni all'estero, Platone vi insegnò e formulò problemi per i suoi studenti. (*) I suoi allievi spendevano dieci anni (fra i venti e i trent'anni di età) a padroneggiare le discipline del quadrivio, ma questo era solo un passo nella preparazione preliminare che Platone intendeva dar loro perché potessero svolgere la funzione di capi politici che fossero anche filosofi. L'istruzione continuava nella forma della «dialettica». Non sorprende che Dionisio il Giovane — mentre stava esercitando un governo tirannico molto goffo - si sia ritirato da questo insegnamento, benché Platone e Dione pensassero che gli avrebbe permesso di governare con maggiore efficacia.

Platone richiedeva anche la dialettica, e non solo il quadrivio, perché credeva che il mondo come potevano conoscerlo gli esseri umani sia nel caso migliore solo una copia imperfetta di qualcos'altro, di un modello unico, perfetto, eterno, che solo «è», «sempre è», «mai diviene» e non può mai cambiare o essere distrutto. Nel mondo percepibile dagli uomini, le cose assomigliavano a questo regno superiore delle «forme» e avevano gli stessi nomi, ma non erano perfette ed eterne. (**) Esse cambiavano, «divenivano». Cominciavano a esistere, arrivavano alla loro fine, si muovevano ed erano soggette a opinioni e passioni. Erano copie o imitazioni delle forme, ma non erano mai pienamente reali. (6) Il regno delle forme, o delle idee, non poteva essere percepito dai sensi umani, ma l'uomo poteva pervenire più vicino a percepirlo attraverso il ragionamento e l'intelligenza. Per tendere ad esso, pensava Platone, si dovevano usare la discussione e il dibattito, e quindi la «dialettica». Questo è quel che facevano i

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suoi personaggi nei dialoghi - le lezioni a domande e risposte di Socrate -, quelle discussioni che non pervenivano mai a fornire la soluzione conclusiva di un problema.

* L'espressione «l'Accademia» si riferisce anche agli uomini associati a questa scuola nel periodo successivo alla morte di Platone, compresi i suoi successori nella funzione di scolarchi eletti a vita con un voto maggioritario dei membri. Anche Aristotele fu associato all'Accademia, prima come allievo e poi come docente. Passando per varie trasformazioni, nelle quali si ribadì sempre la fedeltà alla scuola originaria, l'Accademia durò fino al VI secolo d.C. come centro del platonismo e del neoplatonismo.

** Lo scrittore Richard E. Rubenstein formulò questa idea: «Platone non odiava il mondo; esso gli ricordava semplicemente un posto migliore» (Richard E. Rubenstein, Aristotle's Children. How Christians, Muslims, and Jews Rediscovered Ancient Wisdom and Illuminated the Dark Ages, Harcourt, New York 2003).

Le Forme o Idee in Platone Platone parlò di due livelli di realtà: 1) il regno divino delle forme immutabili, che è il modello per gli uomini; 2) il regno in cui vivono gli uomini e in cui tutto muta continuamente, governato dalle passioni, soggetto alle opinioni.

Dove collocò Platone i numeri e la matematica in questo quadro?

Separandosi dai pitagorici e da Archita, pensò che, benché la logica della matematica e della geometria potesse far parte delle verità universali e immutabili delle forme, gli uomini non avevano alcun modo per accertare se fosse effettivamente così. La matematica umana era un ragionamento deduttivo terra terra, capace di costruire solo sulla base delle sue conoscenze precedenti, cosa che faceva della verità della matematica umana solo una verità ipotetica, non necessariamente una Verità con la V maiuscola. In casa di Platone non c'era una scala completa che conducesse dal piano dell'esperienza umana al piano delle forme. I numeri e la matematica potevano sostenere il coraggioso in qualche volo. L'uso della dialettica, dell'argomentazione, del pensiero e della logica permetteva di salire più in alto, ma neppure questi voli potevano raggiungere la vetta. Non si sarebbe mai potuto accertare se ciò che si trovava a quel livello irraggiungibile

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fosse una realtà matematica o no. La casa pitagorica, di contro, aveva una scala completa fatta per intero di numeri e di matematica. Gli uomini avrebbero potuto salire su di essa, e scoprire che anche lassù c'era della matematica. I pitagorici erano sicuri che la matematica e i numeri erano la razionalità dell'universo e la chiave per la completa comprensione e riunione col livello divino della realtà.

«Sapere» in un contesto come questo era una cosa problematica per Platone, non essendo compatibile con un universo in cui le forme non sarebbero mai state conoscibili compiutamente. I pitagorici, però, avevano fatto un'esperienza che mancava a Platone. La scoperta che alla base della natura ci sono una logica matematica e regolarità matematiche era stata evidentemente per loro un'esperienza intuitiva traumatizzante. La matematica e i numeri erano princìpi razionali incondizionati dell'universo, che attendevano di essere scoperti, e non dedotti da cose già note. Se avessero udito Platone parlare di una ricerca del «regno invisibile e incorporeo delle Forme», qualcuno di loro avrebbe potuto alzare una mano e dire che loro l'avevano già trovato. Secondo la loro esperienza, la vena della Verità (o della Forma, come avrebbe detto Platone), che per lo più è sepolta in profondità e ben celata ai sensi, in qualche raro punto è abbastanza vicina alla superficie da poter essere percepita, come una vena d'oro che brilli attraverso un sottile strato di polvere e roccia. Il regno della musica era uno di quei luoghi rarefatti.

I discepoli di Platone, e quelli dei pitagorici, continuarono a ponderare sui problemi con cui si era misurato Platone, compresa la domanda se i numeri siano forme o no. Speusippo concesse a numeri ed enti matematici il rango di forme, mentre Senocrate disse che le Forme erano i numeri. Entrambi consideravano se stessi, e Platone, membri della grande comunità pitagorica.

Oggi molti scienziati e matematici aderiscono alla fede pitagorica che la verità dell'universo sia intrinsecamente matematica, e che sia possibile cogliere frammenti di tale verità usando il nostro livello umano di matematica. Alcuni sottolineano che la matematica è l'unica disciplina in cui alcune cose sono indiscutibilmente vere e non soggette all'opinione, mentre altri non lo concedono. Altri ancora ridefiniscono la «completa verità» come «una verità che gli esseri umani possono scoprire attraverso la matematica» forzando la posizione dei pitagorici al di là delle loro intenzioni e compiendo un end run, per usare un'espressione del football americano, intorno a Platone.

Il secondo tema pitagorico che ispirò Platone fu la creazione e il destino dell'anima. Platone applicò anche all'anima umana le proporzioni matematiche

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che erano state usate nella creazione dell'«anima del mondo», e descrisse addirittura l'anima umana nei termini di una versione del Medesimo e del Diverso, riflettendo due tipi di giudizio in contrasto fra loro: la capacità e il privilegio di un occhio umano di dire sì o no. Per Platone questo libero arbitrio era l'essenza del pensiero razionale. Ma le cose non erano così facili per un'anima che viveva in un corpo fisico sulla Terra, sulla Luna o su un pianeta.

Alla mercé di tutte le passioni del suo corpo, essa veniva deformata e agitata. Un'educazione appropriata poteva restituirla a un equilibrio armonico ridestandola alla sua connessione con l'anima del mondo.

Un modo in cui ciò poteva accadere era attraverso qualcosa di udito e compreso: la scala musicale, le proporzioni dell'anima del mondo riprodotte nel suono.

Platone era affascinato dalla credenza dei pitagorici per cui un'anima poteva sottrarsi in definitiva alle influenze deformanti del mondo e riunirsi al livello divino dell'universo. Le sue idee sull'immortalità variavano dallo scetticismo espresso nell'Apologia di Socrate a speculazioni mistiche nel Gorgia, dove Socrate attribuisce alcuni suoi pensieri sull'anima a «un uomo assai fine, forse di Sicilia o italico» (493a): un'allusione ai pitagorici e probabilmente al filosofo Empedocle, che fu spesso arruolato sotto il vessillo dei pitagorici. Il dialogo si concluse con un mito in cui le anime assistono all'orribile punizione di peccatori inguaribili nell'Ade. Platone, in questo dialogo, non argomentò a favore di una dottrina della reincarnazione, ma il suo mito suggerisce che la reincarnazione abbia avuto luogo per quei testimoni.

Platone scrisse probabilmente il Menone dopo la sua prima visita ad Archita. In esso egli parla di «uomini e donne assai addottrinati nelle cose divine», la cui autorità è attendibile e che insegnano sull'immortalità e la reincarnazione: un inchino ai pitagorici. Platone fece attribuire da Socrate a quei «sacerdoti e sacerdotesse» l'idea che, a causa di ciò di cui abbiamo fatto esperienza in passato, gran parte di ciò che sappiamo nella nostra vita attuale è reminiscenza (81 d), ricordo. Ciò non sembra in disaccordo con quanto Pitagora sosteneva per se stesso, ma Platone aveva in mente qualcosa di diverso che lui e i suoi allievi pensavano fosse compatibile col pensiero pitagorico.

Nell'interpretazione data da Platone del concetto della trasmigrazione delle anime, la possibilità di fuga dalla sequenza delle reincarnazioni consisteva

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nell'«acquistare giustizia e santità, e insieme sapienza», liberando l'anima dal timore, dalle passioni e dai dolori del corpo. Il massimo obiettivo era «assomigliarsi a Dio», come Platone si espresse nel Teeteto (\77b). Vari secoli dopo il pagano Porfirio, neoplatonico (e biografo di Pitagora), elencò Ercole, Pitagora e Gesù fra coloro che avevano avuto successo nel realizzare l'obiettivo di «assomigliarsi a Dio».

La «reminiscenza», per Platone, non significava, però, ricordi di vite passate. Era invece la misteriosa innata conoscenza a priori che gli uomini sembrano possedere, e che non può essere spiegata con ciò che si è imparato nella vita presente. Platone non intendeva dire che chiunque potesse ricordare acquisendo tale conoscenza. A mo' di dimostrazione usò l'esercizio geometrico che secondo alcuni rifletteva la dimostrazione del teorema pitagorico.

Nella scena che segue, tratta dal Menone di Platone (84a-86a), So crate e Menone stanno discutendo su una figura che Socrate ha disegnato sulla sabbia, un quadrato di quattro piedi quadrati. Il compito è quello di costruire un quadrato di superficie doppia. Socrate intende dimostrare che nel giovane servo di Menone è nascosta, in attesa di essere ridestata, una conoscenza innata, non della soluzione corretta, bensì della geometria sottostante, che condurrà alla soluzione corretta. Socrate opera come una sorta di levatrice.

Socrate (rivolto a Menone). Osserva ora come egli [il giovane servo], cercando insieme a me, riuscirà a trovare, mentre io non faccio altro che interrogare senza insegnargli nulla. Sta comunque attento se per caso mi dovessi cogliere a insegnargli o spiegargli qualcosa, invece di fargli esprimere mediante le mie domande il suo proprio pensiero!

(Socrate cancella figure che erano state tracciate precedentemente sulla sabbia e ricomincia con un quadrato di quattro piedi quadrati.)

Socr. (rivolto al servo). E ora dimmi: non è questo uno spazio di quattro piedi? Comprendi?

Servo. Sì.

Socr. Possiamo aggiungervene un altro uguale? {Lo disegna.)

Servo. Sì.

Socr. E ancora un terzo, uguale a ciascuno degli altri due? {Lo disegna.)

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Servo. Sì.

Socr. E riempire quest'angolo che resta vuoto? (Disegna.)

Servo. Certo!

Socr. Non avremo così quattro superfici quadrate uguali?

Servo. Sì.

Socr. Ebbene, quante volte, presi tutti insieme, i quattro quadrati sono più grandi di ciascuno d'essi?

Servo. Quattro volte.

Socr. A noi, però, serviva una superficie doppia: ricordi, no?

Servo. Certamente.

Socr. E questa linea che tracciamo da un angolo all'altro di ciascun quadrato, non li taglia in due parti uguali? (Disegna.)

Servo. Sì.

Socr. E non sono forse, queste, quattro linee [diagonali] uguali che circoscrivono questa superficie?

Servo. Lo sono.

Socr. Guarda un po': qual è la dimensione di questa superficie [centrale]?

Servo. Non capisco.

Socr. Ciascuna delle quattro linee [diagonali] non taglia in due parti uguali ciascuno dei quattro quadrati? O no?

Servo. Sì.

Socr. E quante di queste metà vi sono all'interno di questo quadrato?

Servo. Quattro.

Socr. E in quest'altro quadrato?

Servo. Due.

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Socr. E cosa è il quattro in rapporto al due?

Servo. Il doppio.

Socr. Quanti sono, dunque, i piedi di questo quadrato?

Servo. Otto.

Socr. E su quale linea è costruito?

Servo. Su questa. (Indica una delle linee diagonali.)

Socr. Cioè su quella che va dall'uno all'altro angolo del quadrato di quattro piedi?

Servo. Sì.

Socr. Codesta linea i sofisti [cioè «coloro che se ne intendono»] la chiamano diàmetros (*) E, se tale è il suo nome, diremo, o servitorello di Menone, che, come tu sostieni, è sulla diagonale che si costruisce la superficie doppia.

Servo. Esattamente, Socrate.

Socr. Che te ne sembra, Menone? Nelle sue risposte ha mai espresso una sola opinione che non fosse sua propria?

Menone. No, egli ha cavato tutto da sé.

Socr. Eppure, come dicevamo poco fa, non sapeva nulla.

Men. È vero.

Socr. E tali opinioni erano in lui, o no?

Men. Sì.

Socr. Ma allora, in chi non sa sono insite opinioni vere sulle stesse cose che ignora?

Men. Sembra.

Socr. Tali opinioni sono emerse ora, sollevate in lui come in un sogno, e se ripetutamente lo s'interrogasse sugli stessi argomenti e da punti di vista diversi, puoi star sicuro che alla fine ne avrebbe scienza non meno esatta di chiunque altro.

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Men. Sembra.

Socr. Senza, dunque, che nessuno gl'insegni, ma solo in virtù di domande giungerà al sapere avendo ricavato lui, da sé, la scienza?

Men. Sì.

Socr. Ma ricavar da sé, in sé, la propria scienza, non è ricordare?

Men. Senza dubbio.

Socr. E la scienza che ora possiede: o l'ha acquisita in un certo tempo o la possiede da sempre.

* Parola che significava «diametro» nel cerchio e «diagonale» nei poligoni. (N.d. T.)

Men. Sì.

Socr. Se la possiede da sempre, egli sa da sempre; se l'ha fatta propria in un qualche tempo, ciò non è sicuramente avvenuto nella presente vita. Vi è forse qualcuno che a questo ragazzo ha insegnato i primi elementi della geometria? Nello stesso modo si comporterà relativamente a tutta la scienza geometrica e a tutte le altre discipline. Vi è forse qualcuno che gli abbia insegnato tutto? Lo saprai certo, tanto più ch'egli è nato e cresciuto a casa tua!

Men. So benissimo che non gli ha insegnato nessuno.

Socr. Ma ha o non ha tali sue opinioni?

Men. Incontestabilmente, Socrate, sembra che le abbia.

Socr. E se non le ha acquisite nella presente vita, non è già di per sé evidente che le possedeva, e che le apprese in un altro tempo?

Men. Evidente!

Socr. E non è forse questo il tempo in cui non era ancora uomo?

Men. Sì.

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Un avvocato moderno obietterebbe probabilmente che Socrate sta «imbeccando il testimone». Ma Platone non parlava di conoscenza celata da qualche parte nella mente del ragazzo per avere assistito a dimostrazioni o perché gli era stata insegnata in una vita precedente: la data di un evento o la lunghezza di una strada, conoscenze del mondo mutevole. Platone si riferiva alla conoscenza innata di verità che non cambiano, verità universali e immutabili delle Forme: in questo caso, verità della geometria. Il fulcro nella scena della lezione platonica era che, in ogni fase dell'interrogazione, il ragazzo sapeva se quel che Socrate stava suggerendo era corretto o no. Un tale ricordo delle «Forme eterne» non veniva da vite passate ma da esperienze dell'anima disincarnata.

Molte persone che si imbattono per la prima volta in dimostrazioni in un ambiente diverso da una presentazione deprimentemente arida sono colpite dal profondo senso misterioso di riconoscimento di qualcosa che già conoscevano. In effetti ci sono verità che sono state «riscoperte» ripetutamente (il teorema di Pitagora potrebbe essere una di queste) da antichi popoli e da uomini più moderni ignari di stare solo ripetendo una scoperta già fatta da altri. La dimostrazione di Socrate nel Menone è una lezione estremamente pitagorica, in quanto unisce i due temi pitagorici: l'immortalità dell'anima e la struttura matematica del mondo.

Anche altri dialoghi platonici, fra cui la Repubblica, dimostrano che la mente di Platone era molto presa dalle dottrine della reminiscenza, della reincarnazione e dell'immortalità. Il Fedone si conclude poco dopo la morte di Socrate, quando Fedone, dopo essere partito da Atene, fa una sosta presso una comunità pitagorica di Fliunte per riferire a Echecrate e ad altri pitagorici le ultime parole del filosofo.

In una discussione incentrata sull'immortalità e sulla reincarnazione, Fedone ripete la citazione di Socrate da un poema orfico che Socrate aveva pensato parlasse del potere della filosofia di sollevare una persona al livello degli dèi. Nel Fedro, Platone scrisse che 1'«amore» umano era una reminiscenza dell'esperienza della Bellezza come Forma eterna.

Nel «mito di Er», alla fine della Repubblica, Platone rivelò nel modo più chiaro la sua fede nella reincarnazione, anche se, fedele alla sua dottrina che la conoscenza di una verità ultima non sia raggiungibile, usò il termine «mito» per indicare che non poteva garantire la verità assoluta delle sue lezioni. Nel «mito» egli immaginò che cosa accade quando una vita è terminata e la prossima non è ancora cominciata: ogni anima sceglie quel che sarà nella prossima vita. Fra le scelte ci sono «le vite di tutte le creature viventi, come pure di tutte i tipi di uomini». Orfeo scelse di essere un cigno per non nascere da una donna - a causa

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di quelle baccanti furiose che lo avevano fatto a pezzi in una vita precedente -, mentre un'anima che aveva condotto un'esistenza da cigno scelse di essere un uomo. Nella mente di Platone c'era anche l'armonia delle sfere. Le anime hanno una visione, uno splendido modello del cosmo. Su ognuno dei cerchi che portano le orbite dei pianeti e di altri corpi «stava una sirena, che, trascinata in quel movimento circolare, emetteva un singolo suono su una nota; e tutte le otto note creavano un'unica armonia» [617]. Anche se la Terra, nel cosmo di Platone, occupava il centro e non c'era un fuoco centrale o Antiterra, il «mito di Er» era soffuso di idee pitagoriche.

Quando i membri dell'Accademia di Platone, prima e dopo che egli morisse nel 348/347 a.C., meditarono su Pitagora e chiamarono se stessi pitagorici, avevano in mente principalmente il Pitagora visto attraverso gli occhi di Platone. Dire però che Pitagora sia stato reinventato come un «tardo platonico», come sostengono alcuni studiosi, è troppo facile e tradisce un'eccessiva sicurezza su dove tracciare le linee di demarcazione fra il pensiero pitagorico originario e il pensie ro pitagorico dopo la morte di Pitagora, cioè Archita, Platone e i suoi allievi, alcuni dei quali attribuirono le loro idee a pitagorici più antichi e persino a Pitagora. Col passare del tempo la linea fra il platonismo e coloro che si autodefinirono pitagorici divenne sempre più difficile da discernere, fino a diventare indistinguibile.

10 DA ARISTOTELE A EUCLIDE

IV secolo a.C.

Mentre la maggior parte dei dotti si accontentava di vedere gli insegnamenti pitagorici attraverso gli occhi di Platone e non era particolarmente ansiosa di distinguere fra la filosofia platonica e il pensiero dei pitagorici preplatonici, una persona era ancora curiosa. Era Aristotele. Nato nel 384, era di due generazioni più giovane di Platone, e all'età di diciassette anni si era recato ad Atene per studiare nella sua Accademia. A quel tempo Platone era assente, essendo partito per uno dei suoi numerosi viaggi in Sicilia. Vent'anni dopo, nel 348, quando Platone morì all'età di ottant'anni, Aristotele ne aveva solo trentasette, e forse

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proprio a causa della sua giovinezza non fu scelto per succedere a Platone come scolarca dell'Accademia. Ottenne invece quella carica il nipote di Platone Speusippo, anche se nessuno poteva dubitare del fatto che Aristotele era senza dubbio uno degli uomini più qualificati del tempo per quell'incarico. Aristotele lasciò allora Atene ma vi tornò in seguito per fondarvi la propria scuola, il Liceo. Il suo debito verso Platone è chiaro in tutta la sua opera, come pure il fatto che i due furono in disaccordo su temi importanti della loro filosofia. Aristotele non apprezzò molto il concetto platonico di forma. Platone pensava che il mondo quale lo conoscevano gli uomini fosse soltanto un riflesso infedele di un mondo reale che gli uomini non avrebbero mai potuto conoscere. Aristotele credeva invece che il mondo percepito dagli uomini fosse il mondo reale. Egli attribuiva molto valore a ciò che si poteva apprendere sulla natura attraverso i sensi, e a ciò che si poteva estrapolare da quelle percezioni. Non gli sarebbe spiaciuto trovare che gli insegnamenti di Platone erano derivati almeno in parte dai pitagorici. Nella Metafisica, in un passo che segue alla sua descrizione delle filosofie pitagoriche, Aristotele guardò dall'alto al basso Platone e invitò i suoi lettori a fare lo stesso: «Dopo le teorie filosofiche di cui abbiamo parlato, è venuta ad affermarsi la dottrina di Platone, la quale per molti aspetti si ricollega alle dottrine pitagoriche, ma possiede anche una propria originalità che la separa dalla filosofìa degli italici». (1)

Per poter fare un'asserzione del genere, Aristotele doveva essere abbastanza sicuro di sapere come fosse la «filosofia degli italici» prima di cadere in mano a Platone. Egli aveva condotto una ricerca estesa e accurata, comprendente le opere di Filolao e di Archita e altre fonti su cui sappiamo poco o niente, e ne aveva registrato i risultati in vari libri. (*) Purtroppo gli scritti di Aristotele dedicati interamente alla persona di Pitagora e all'insegnamento pitagorico sono andati perduti, ma poiché egli spese così tanto tempo e impegno su questi argomenti, riferendosi anche alle sue discussioni «più esatte» sulle dottrine pitagoriche, non c'è dubbio che conoscesse bene l'argomento. (**) Riferimenti e citazioni dai libri perduti appaiono negli scritti di autori vissuti prima della sparizione, permettendo di sbirciare, anche se solo indirettamente, su alcune delle pagine scomparse. (2) Ne risulta una finestra su ciò che i pitagorici pensavano e insegnavano prima di Platone: una finestra che aiuta, almeno in qualche misura, ad aggirare un ostacolo frustrante, il problema di sapere se quel che le generazioni posteriori pensavano di sapere sui pitagorici e la loro dottrina non fosse per caso solo un'interpretazione platonica.

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Aristotele fu una delle fonti più antiche e più affidabili usate da Giamblico, Porfirio e Diogene Laerzio. Le sue informazioni risalgono a mezzo secolo circa dopo la morte di Pitagora, ma nei libri sopravvissuti Aristotele non sostenne mai che un qualsiasi insegnamento specifico potesse o non potesse essere attribuito direttamente a Pitagora. Egli non fece inoltre alcuna distinzione fra le idee di pitagorici vissuti vicino al tempo di Pitagora e quelli cronologicamente più vicini a Platone. Aristotele usò una forma greca che secondo Burkert sarebbe l'equivalente dell'uso tipografico moderno di mettere delle parole fra virgolette: come i «pitagorici»; sarebbe però improprio secondo lui tradurre l'espressione come i cosiddetti pitagorici, che aggiungerebbe al termine una connotazione troppo negativa.

Aristotele scrisse che quel che separava tanto Platone quanto i pitagorici da tutti gli altri pensatori vissuti prima del proprio tempo era la loro concezione dei numeri come distinti dal mondo quotidiano percepibile. I pitagorici consideravano però i numeri molto meno in

* Lo studioso Walter Burkert pensava che il modo in cui Aristotele «usa occasionalmente dottrine pitagoriche contro l'Accademia» rendesse «inevitabile la conclusione che egli stesse usando fonti scritte senza la colorazione dell'Accademia. Perciò doveva avere posseduto almeno un documento pitagorico originale» (Burkert, Lore and Science, p. 47).

** Le tre opere superstiti in cui Aristotele incluse materiale sui pitagorici sono la Metafisica, la Fisica e il De caelo.

dipendenti dal mondo percepibile quotidiano di quanto li considerasse Platone. Al tempo stesso, per i pitagorici, i numeri erano anche più «fondamentali». Se queste distinzioni sembrano confuse, lo erano anche per Aristotele. La sua difficoltà a decidere e spiegare che cosa pensassero dei numeri i pitagorici non dipendeva, fondamentalmente, da un'incapacità; essa consisteva piuttosto nel fatto di non riuscire a pensare con la loro testa. La discussione che Aristotele voleva condurre — su ciò che era più fondamentale, più astratto o più o meno distinto dalle cose sensibili - non sarebbe mai stata affrontata dai primi pitagorici. Se i numeri fossero indipendenti, o quanto indipendenti, erano domande che essi non si sarebbero mai sognati di porsi.

Nel suo tentativo di costringere i pitagorici nelle forme di pensiero di Platone e proprie, Aristotele ne forzò eccessivamente l'interpretazione e si trovò particolarmente a disagio nell'attribuire loro l'idea che tutte le cose «sono numeri». I pitagorici, riferì con rammarico, credevano che i numeri non fossero

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solo il progetto dell'universo, ma che ne fossero anche i mattoni, «sia le cause materiali sia le cause formali». I corpi fisici erano costruiti con numeri. Aristotele alzò le mani, sottolineando che i pitagorici «sembra che parlino di un altro mondo e di altri corpi, e non del mondo e dei corpi sensibili» (Metafisica, 1090a 34-35).

Nel modo in cui Aristotele comprese la connessione pitagorica fra i numeri e la creazione, l'esistenza dei numeri presuppone la distinzione fra pari e dispari: gli «elementi» del numero. L'Uno aveva una parte sia nei numeri dispari sia nei numeri pari, e «derivava» da questa opposizione cosmica primaria. (*) L'Uno non era un concetto astratto. Esso era, fisicamente, tutto. Aristotele era incuriosito e imbarazzato da questa idea.

Il dispari era «limitato», il pari era «illimitato» (98Ga 18). Quando l'illimitato «penetrava» il limitato, l'Uno diventava un 2 e poi un 3 e poi numeri più grandi. (**) Quest'emergere dell'organizzazione numerica diede origine all'universo come lo conoscono gli uomini.

Nelle parole di Aristotele (ancora scottato dalla «sostanza» dell'U

* Come già detto, per gli antichi greci, compresi i pitagorici, l'1 non era né pari né dispari, e non era nemmeno un numero. Il numero implicava il concetto di pluralità: più di uno.

** Quella che emerse come un'idea platonica, la «Diade indefinita», non era un concetto pitagorico. Aristotele non parlò di un ruolo molto importante della «Dualità» nella dottrina pitagorica.

no): «Essi [...] dicono manifestamente che, non appena l'Uno si fu costituito - o da un piano o da un seme o da altre cose che non sanno precisare - immediatamente la parte più vicina dell'infinito cominciò a essere tirata e 'limitata dal limite'» (1091«: 15-17), dando in tal modo all'illimitato una struttura numerica.

Aristotele aveva trovato che, almeno a grandi linee, la creazione numerica dell'universo era un concetto pitagorico pre-platonico. Egli considerò però spesso i pitagorici con un cipiglio di frustrazione, come un professore al cospetto di studenti brillanti che lo hanno deluso. Pur non essendo coerente nel modo in cui esprimeva le idee pitagoriche sui numeri e pur non essendo mai stato in grado di spiegare in altri termini che cosa significasse «parlare come un pitagorico» e dire «che l'Uno è sostanza», è chiaro che egli temeva che il punto di vista dei pitagorici fosse una concezione molto banale, materiale. I princìpi introdotti dai

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pitagorici, secondo Aristotele, avrebbero potuto condurli oltre il mondo percepibile, fino ai regni più alti dell'Essere, ma poi essi li usarono solo in riferimento a ciò che è percepibile, e li «sperperarono» nel mondo stesso come se nient'altro esistesse al di là di ciò che è sensibile e che «è contenuto nel cosiddetto 'cielo'». (3)

Questa era, in verità, un'interpretazione banale dei pitagorici. Il loro tentativo di dare ai numeri un ruolo fisico nella creazione può sembrare ingenuo a noi come lo parve ad Aristotele, ma essi dovettero affrontare in realtà problemi difficili: che cos'erano i numeri, in realtà? Qual era il loro ruolo - il loro potere - nel creare, sostenere e controllare l'universo fisico? Nessuno ha mai risposto a queste domande. Gli uomini hanno quasi rinunciato. Se i numeri sono alla base della realtà fisica, se esercitano addirittura una costrizione su di essa, come pensavano i pitagorici, dove si trova, esattamente, la connessione? In che modo aritmetica e geometria esercitano la loro presa sull'universo? I pitagorici cercavano modi per rispondere a tali domande, e alla radice del loro pensiero, che va dal tempo di Pitagora a quello di Aristotele, c'è la prima presa di coscienza del fatto che «ciò che è contenuto nel cosiddetto "cielo"» era molto più misterioso e mirabilmente interconnesso e infuso di razionalità di quanto nessuno avesse riconosciuto prima. (4) Un cosmo governato dai numeri non importa quanto fosse percepibile anche al livello della comune vita quotidiana, o se si riuscisse a immaginare come fosse costruito — era un cosmo pervaso dalla mente. Dove si poteva giungere, dopo essere stati beneficati da un tesoro del genere, caduto letteralmente dal cielo? Quello era un nuovo territorio incognito e la sua esplorazione da parte dei pitagorici era sempre un lavoro in corso.

In un periodo in cui si supponeva che il pensiero astratto fosse più dominante che nel VI secolo a.C., pare che Aristotele, nella sua interpretazione dei pitagorici e nella sua frustrazione per alcune loro idee, abbia insistito sulla tesi che essi pensassero i numeri solo come qualcosa di concreto e di fisico. Egli fu a quanto pare cieco a qualsiasi altro modo di interpretare i loro pensieri e non era disposto a concedere loro una grande raffinatezza e sottigliezza. Come a voler complicare ancor più questo problema, i greci usarono la stessa parola per «stesso», «medesimo» e «simile», rendendo in tal modo difficile un disaccordo significativo anche sul problema se i pitagorici intendessero che un numero fosse qualcosa o fosse «qualcosa di simile» a tal cosa, o fosse «un simbolo» per essa.

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Aristotele compendiò con maggiore simpatia la sua interpretazione della concezione pitagorica dei numeri in due asserzioni: che i pitagorici, essendo stati educati nelle matematiche, «furono del parere che i princìpi di queste si identificassero con i princìpi di tutte le cose» (Metafisica, 985b 24-25). E (trasmesso da Giamblico): «Chiunque voglia comprendere la vera natura delle cose reali, dovrebbe rivolgere la sua attenzione a queste cose, i numeri e le proporzioni, perché è per mezzo loro che si chiariscono tutte le cose». Così Burkert parafrasò un passo della Metafisica: «Il numero riguarda cose che possono essere espresse con una pretesa di verità; non si conosce nulla senza il numero». (5)

Aristotele notò che un approccio che avevano adottato i pitagorici consisteva nell'esprimere il concetto di creazione in una «tabella di opposti» (98Ga 22-26).

Limitato Illimitato (ricordare che l'Uno ha una parte in entrambi) dispari pari (ricordare che l'Uno è sia dispari sia pari) unità (Uno) pluralità destro sinistro maschio femmina quieto mosso retto curvo luce oscurità buono cattivo quadrato oblungo

Nulla di quanto è contenuto nella tabella potrebbe essere connesso in modo chiaro con la Diade indefinita di Platone. Nello schema della creazione di Platone l'Uno e la Diade indefinita venivano per primi, col limite e l'illimitato «intrinseci nella loro natura». Su questi punti, se l'interpretazione di Aristotele era corretta, Platone scelse di non seguire i pitagorici, li fraintese o trasformò le loro idee per adattarle alle proprie.

A quanto pare, i pitagorici pensavano che la creazione dovesse comportare unione (del limitato e dell'illimitato) e separazione (quando numeri e coppie di opposti ebbero origine dall'Uno), e che l'universo potesse esistere solo nel caso che le cose fossero diverse l'una dall'altra: un'idea che si trova in molti racconti antichi della creazione. Nella Genesi Dio separò la luce dalle tenebre, le acque che sono sopra il firmamento dalle acque che sono sotto il firmamento; Adamo ed Eva mangiarono del frutto dell'albero della «conoscenza del bene e del male». Nell'interpretazione dei pitagorici data da Aristotele, l'Uno non era un'unità indifferenziata come l'illimitato. Era un'armonia di molte cose diverse, le cui differenze erano necessarie perché qualcosa potesse esistere nel modo in cui gli uomini hanno esperienza del mondo. (*)

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Rimaniamo delusi dal fatto che Aristotele non rispose realmente alla domanda se la visione platonica della relazione fra il mondo ideale e il mondo materiale fosse derivata dai pitagorici, fosse originale o fosse qualcosa di intermedio. Quale sia stata la conclusione di Aristotele rimase incerto per secoli, poiché l'interpretazione della sua risposta dipende da quel che egli volle intendere con un'ambigua frase in greco. Burkert andò al cuore del problema:

Diventa chiaro ogni volta di più che la dottrina pitagorica non può essere espressa nella terminologia di Aristotele. I numeri dei pitagorici sono «matematici», e tuttavia, in considerazione della loro natura spaziale, concreta, non lo sono. «Sembrano» essere concepiti come materia e tuttavia sono qualcosa di simile alla Forma. Sono in se stessi Essere, e tuttavia non lo sono del tutto?

* La tabella degli opposti non era intesa probabilmente a implicare il bene (nella colonna di sinistra) e il male (nella colonna di destra), anche se una tale divisione si riscontra in tabelle posteriori. Per esempio, per l'Accademia platonica il «bene» apre la fila nella colonna sinistra, e dopo platonici, neopitagorici e autori pseudopitagorici ordinarono diversamente le colonne. La tabella di Plutarco era completamente platonizzata: il «Bene» era in alto e la «Diade» sostituiva la pluralità.

Per Guthrie, più semplicemente: «Attraverso l'uso della sua terminologia, Aristotele introduce una confusione non necessaria nel pensiero dei primi pitagorici. Non serve a nulla domandarsi se essi usassero i numeri come cause "materiali" o 'formali' delle cose, dal momento che erano all'oscuro della distinzione». (6)

Aristotele diede quella che è probabilmente la descrizione più attendibile del concetto pitagorico preplatonico della «musica delle sfere» borbottando che «la verità non è in questo modo», anche se ammise che era una concezione «mirabile e ingegnosa» (De caelo, 290b 14-15). Secondo Aristotele i pitagorici si resero conto che tutti quegli intervalli musicali dal suono armonioso erano il risultato di certi rapporti numerici nell'accordatura di uno strumento, cosicché «il numero» era «armonia». Gli stessi rapporti numerici determinavano la disposizione dei corpi cosmici, dando così origine a un'«armonia delle sfere». Qui, disse Aristotele, c'era quel che mise in difficoltà i pitagorici e li indusse ad affermare «che il suono prodotto dal moto circolare degli astri è armonico» (290b 23):

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Alcuni [...] ritengono che il moto di corpi di tale grandezza debba necessariamente produrre un suono, dal momento che questo accade anche con i corpi che ci circondano, i quali né hanno mole pari a quelli né si muovono con tale velocità; e il Sole e la Luna, e poi le stelle, che sono in tal numero, e di tal grandezza, e si muovono con un moto di tale velocità, è impossibile, dicono, che non producano un suono d'intensità straordinaria. Da queste premesse, e assumendo inoltre che le velocità, in virtù delle distanze fra i vari astri, hanno rapporti di accordi consonanti, essi affermano che il suono prodotto dal moto circolare degli astri è armonico. (290£ 15-23)

Alcuni corpi celesti si muovono più velocemente di altri. I pitagorici, scrive Aristotele, erano pervenuti all'idea che, quanto più veloce era il moto di un corpo celeste tanto più alto era il tono che esso produceva, e avevano tenuto presente questa nozione quando avevano fatto corrispondere i rapporti delle distanze relative fra i corpi celesti a intervalli musicali. Considerando l'insieme dei corpi celesti, ne risultava un'ottava completa della scala diatonica. (*)

Quel che sorprende è che Aristotele o chiunque altro potesse pen

* Una moderna scala maggiore o minore.

sare che tutte le note della scala udite simultaneamente potessero formare un suono armonioso. Il suono non sarebbe stato bello. In cielo ci sarebbe stata una molesta cacofonia e gli esseri umani dovrebbero essere felici di non poterla udire. Povero Pitagora, che, secondo la leggenda, sarebbe stato in grado di ascoltarla! La spiegazione non può essere che l'harmonia non comportasse suoni udibili, poiché Aristotele pensava che secondo i pitagorici i moti planetari producessero suoni reali. Egli non spiegò mai come tali suoni potessero essere belli, ma fornì quella che pensava fosse la spiegazione pitagorica - diversa da quella di Archita - del fatto che gli uomini comuni non la sentono:

Ma siccome pareva assurdo che di questo non s'avesse anche noi percezione, causa di ciò dicono essere il fatto che questo suono ci accompagna già fin dalla nascita, per modo che esso non si lascia distinguere dal suo contrario, il silenzio: solo contrapposti, infatti, suono e silenzio si lasciano distinguere. Per modo che, come i fabbri per effetto dell'assuefazione non rilevano più nessuna differenza (fra suono e silenzio), il medesimo accadrebbe anche a noi uomini. (290£ 23-30)

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Al tempo di Aristotele e nei secoli successivi si suppose in generale che se si menzionava la «matematica pitagorica», una persona colta sapeva di che cosa si parlava, ma in realtà quel qualcosa rimaneva vago, riferendosi a quanto pareva a una tradizione che ambiva a scoprire rapporti veri nascosti, del tipo che, una volta trovati, sembravano inevitabili. Poiché la documentazione sulla matematica pitagorica del VI e V secolo è molto rara, abbiamo difficoltà a sapere quanto questa cosiddetta matematica pitagorica fosse autenticamente pitagorica. Ai nostri occhi moderni le sue vestigia sembrano deboli al confronto con gli Elementi di Euclide, che apparvero intorno al 300 a.C. Essa rifletteva realmente una matematica ingenua dello stesso Pitagora e dei suoi discepoli? O era una «selezione volgarizzata diluita di quello che in origine era stato un sistema matematico rigoroso?» (7) O forse fu un miscuglio di quel che sopravviveva di un antico pensiero matematico primitivo proveniente da varie fonti, erroneamente raccolte sotto l'etichetta di «pitagorico»? O magari un'eredità più autenticamente pitagorica, vivacemente «matematica» (nel senso dei «matematici» contrapposti agli «acusmatici»), era giunta a influenzare Euclide mentre questa matematica anteriore calcificata che stava svanendo procedeva collateralmente a fatica, ancora contrassegnata con l'etichetta «pitagorica».

Ci sono anche divergenze d'opinione sul problema se ci sia una ragione valida per chiamare solidi «pitagorici» i cinque poliedri regolari presentati da Platone. (*) (8) Il problema non è semplice perché «avere una conoscenza» dei solidi, o «scoprirli», o «cercare di calcolarli» non è la stessa cosa che «darne una completa descrizione matematica» o saper dimostrare che essi sono gli unici solidi matematici perfetti. C'è incertezza su quale grande conquista scientifica dei pitagorici meriti di essere premiata con l'associazione del proprio nome.

A sostegno della tesi di un'antica conoscenza dei solidi «pitagorici» c'è il fatto che queste figure erano familiari come aspetto e come costruzione. I cubi (e anche le piramidi, per chi fosse mai stato in Egitto) erano forme di costruzione familiari, anche se le piramidi egiziane avevano cinque facce compresa la base, quadrata, invece di essere solo tetraedri a quattro facce. Un dodecaedro apparentemente etrusco, antico almeno quanto Pitagora, è stato scoperto nei pressi di Padova. Cristalli di pirite si presentano a volte come cubi e anche, nell'Italia meridionale e nell'isola d'Elba, nella forma di dodecaedri. (9)

Un cristallo di fluorite è un ottaedro; i cristalli di quarzo sono piramidi e doppie piramidi; i cristalli di granato sono dodecaedri. Pitagora deve avere conosciuto gemme e cristalli se suo padre era effettivamente un incisore di gemme, e qualche persona dalla forma mentis pitagorica avrà avuto certamente la

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curiosità di conoscere meglio quelle forme belle e regolari che appaiono senza alcun intervento umano. Sarebbe stato appropriato per una persona appassionata di numeri cercare di capirli per questa via.

Un altro elemento a favore della tesi che li conoscessero già i primi pitagorici è fornito da un frammento — sempre che sia genuino — contenente la notizia che, da cinquanta a cento anni dopo la morte di Pitagora, i cinque solidi regolari erano già noti a Filolao, che però non ne era quasi certamente lo scopritore. In assenza di prove in grado di stabilire chi fece o non fece la scoperta, non è una forzatura pensare che i cinque solidi regolari possano essere legittimamente descritti come pitagorici.

Platone associò quattro dei cinque poliedri regolari ai quattro elementi nel Timeo, come già aveva fatto Filolao nel frammento che

* Platone non li chiamò così, anche se li usò nella maggior parte dei suoi dialoghi di ispirazione pitagorica.

suonava: «I corpi [nella] sfera son cinque: quelli nella sfera son fuoco, acqua, terra e aria; e, quinto, è il volume della sfera». (*) Ma qualcuno aveva già compiuto prima quell'associazione? L'erudito Aezio, del II secolo d.C., ritenne che lo avesse fatto lo stesso Pitagora:

Pitagora, essendo cinque le figure solide dette anche matematiche, dice che dal cubo è nata la terra, dalla piramide il fuoco, dall'ottaedro l'aria, dall'icosaedro l'acqua, dal dodecaedro la «sfera del tutto». (10)

Poiché l'espressione «Pitagora dice» veniva abitualmente usata per riferire quel che dicevano i suoi seguaci, l'attribuzione doveva essere letta probabilmente come «i pitagorici [...] dicono». Aezio trasse questa informazione da Teofrasto, allievo di Aristotele, che potrebbe avere qui contraddetto il suo maestro, che scherniva i pitagorici, colpevoli di non avere «nulla di nuovo da aggiungere» alla conoscenza degli elementi. Aristotele aveva tuttavia così poco rispetto per l'idea di associare gli elementi ai solidi regolari che, quand'anche fossero esistite prove irrefutabili che l'associazione era stata introdotta proprio dai pitagorici, avrebbe continuato a respingerla con l'espressione «nulla di nuovo da aggiungere». Ben poco sopravvive della storia della filosofia di Teofrasto o dei libri da lui dedicati a singoli filosofi, ma molto di più doveva essere disponibile quando fece la sua ricerca Aezio. Però, benché l'associazione degli elementi ai poliedri regolari, nel

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frammento citato sopra, venga attribuita a Filolao, (**) e benché i poliedri potessero essere stati già noti a pitagorici anteriori, l'identificazione dei quattro elementi come fuoco, acqua, terra e aria non ebbe origine con loro. Filolao ebbe evidentemente familiarità con l'idea attraverso il suo contemporaneo più vecchio Empedocle, il poeta-filosofo siciliano, nato dieci anni dopo la morte di Pitagora. (***)

Il problema se i pitagorici pensassero un punto come un ente geometrico avente una dimensione sembra banale, ma è connesso al pro

* Ricordiamo che ogni solido regolare è inscritto esattamente in una sfera, e il quinto è il più vicino a essere una sfera lui stesso. [Il frammento di Filolao era conservato da Stobeo, che lo ha tratto da Teone di Smirne. È riportato in DKr, 44 B 12. {N.d.T.)}

** Da Hermann Diels. Vedi nota 10. (N.d.T.)

*** Molti lo chiamarono Empedocle il pitagorico, ma - se trascuriamo l'accordo sulla reincarnazione - le idee di Empedocle e di Pitagora furono molto diverse fra loro.

blema di chi fu il primo a conoscere i poliedri regolari. Zenone di Elea avrebbe dileggiato i pitagorici per aver pensato ingenuamente che un punto avesse dimensioni, come un sassolino, e che due punti (sassolini) a contatto fra loro formassero una linea, ma quel modo di pensare rese facile «scoprire» la piramide attraverso la costruzione di una piccola struttura di sassolini. Il grande interesse dei pitagorici per i numeri 1, 2, 3 e 4 rende difficile credere che essi non abbiano esteso la loro progressione fino a costruire un triangolo con tre sassolini, per poi costruire una piccola piramide con quattro, o meglio ancora una più grande col 10, il numero perfetto.

Speusippo, discepolo e nipote di Platone, attribuì la progressione punto-linea-superficie-solido ai pitagorici anteriori ad Archita. Era un modo più primitivo per arrivare a un solido rispetto al metodo del «movimento» usato da Archita. Perfino l'uso del movimento potrebbe essere venuto prima di Archita, e conduce facilmente a un quadrato e a un cubo. Troviamo un esempio in proposito in un riferimento del filosofo scettico Sesto Empirico, fiorito fra la fine del II secolo d.C. e l'inizio del III. Egli lo chiamò uno «schema dei pitagorici»: «Essi dicono [...] che una linea viene prodotta dallo scorrimento di un punto, una superficie dallo scorrimento di una linea, e un corpo solido dallo scorrimento di una superficie». (11)

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La raffinatezza della geometria in una comunità pitagorica un po' più di un secolo dopo la morte di Pitagora - come dimostra la soluzione di Archita per la duplicazione del cubo - rende ridicola l'insistenza sulla tesi che i pitagorici precedenti non avrebbero potuto scoprire i cinque solidi regolari. Ma l'uomo che pervenne per primo a una completa comprensione matematica dei poliedri regolari non fu un pitagorico, bensì Teeteto, un amico di Platone che fu ucciso nel 369 d.C. Qualunque cosa si sapesse già in precedenza sui solidi regolari, il lavoro fu portato a compimento da Teeteto, con la sua descrizione dell'ottaedro e dell'icosaedro.

Infine, nonostante i diversi punti di vista sui poliedri e sulla «ma tematica pitagorica» della tarda antichità, c'è un diffuso consenso sul fatto che i primi pitagorici dischiusero un modo nuovo di riflettere sui numeri, apprezzarli e usarli, rappresentando uno spartiacque ed esercitando un impatto destinato a durare molto a lungo. La loro profonda scoperta musico-matematica fu altrettanto moderna delle notizie sulla scienza di domani, senza tempo come tutte le scoperte mai fatte, ma la maggior parte delle vere connessioni e relazioni matematiche in natura erano nascoste così in profondità che nessuno potè trovarle. Ancora in epoca moderna — fra gli ultimi decenni del Cinquecento e i primi del Seicento - persino un Keplero, che pure aveva una certezza pitagorica nell'esistenza di tali relazioni, spese gran parte della sua vita a cercarle ma a un livello troppo superficiale, e fu sorpreso quando dovette ammettere che la natura seguiva matematiche molto più intelligenti della sua. Nonostante la fede dei pitagorici nel potere dei numeri, essi non avevano alcuna idea di quanto lontano i numeri avrebbero portato l'umanità. Il calcolo delle implicazioni della loro scoperta avrebbe richiesto molti secoli.

Insieme ad Aristotele, altri tre autori vissuti nell'ultima parte del IV secolo a.C. furono le fonti più antiche e attendibili usate da Porfirio e da Giamblico. Essi furono Eraclide Pontico, dell'Accademia platonica, e Aristosseno di Taranto e Dicearco di Messina, due allievi di Aristotele. Eraclide Pontico, come Platone, scrisse dialoghi. Egli usò come suo portavoce il personaggio «Pitagora», che raccontava storie sulle sue vite precedenti e chiamava se stesso philosophos amante della sapienza. Altri pitagorici presenti nei suoi dialoghi, Iceta ed Ecfanto, insegnarono che la Terra ruota sul proprio asse. (*) Eraclide pensava che la Terra ruotasse e che questo fatto desse agli uomini la falsa impressione che fossero le stelle a muoversi. (**)

Dicearco fu la fonte di Porfirio e di Giamblico sull'arrivo di Pita

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* Studiosi come Kahn pensano che questi non siano personaggi immaginari e che le loro parole riflettano una linea di speculazione pitagorica molto più antica.

** Copernico, quando presentò le sue ipotesi nel Cinquecento, rimandò a Eraclide Pontico come a un suo antico predecessore. La Terra ruotava anche nel Timeo di Platone, e l'idea non fu probabilmente formulata per la prima volta da nessuno dei due uomini, poiché Filolao e forse anche pitagorici anteriori pensavano che parte del movimento del cielo fosse causato dai moti della Terra. Copernico si riferì anche a Iceta e a Ecfanto di Siracusa.

gora a Crotone e sul suo successo fra i giovani, sui governanti della città, e sulle donne. Dicearco sosteneva che al suo tempo era ancora vivo nella Magna Grecia il ricordo delle rivolte che avevano messo fine al governo dei pitagorici. Egli riveriva Pitagora come maestro di morale e come riformatore sociale, ma non credeva in alcuna sorta di immortalità e respingeva con sdegno l'idea che qualcuno potesse ricordare vite precedenti. Diceva scherzando che Pitagora in una delle sue reincarnazioni doveva essere stato una bella prostituta. Uomo di vasta cultura e scienziato dal pensiero indipendente, ammiratore di Pitagora ma non al punto di perdere il suo senso critico, Dicearco stava sul chi vive in un tempo in cui la tradizione orale poteva ancora essere estremamente attendibile, nella regione in cui Pitagora era vissuto e in cui aveva dato il meglio di sé: tutte cose che accrescono la probabilità che ciò su cui Dicearco riferiva fosse genuino.

Aristosseno, come Dicearco, non era perfettamente fedele alla linea pitagorica. Egli rifiutò l'idea che l'anima fosse qualcosa di più di un'armonia dei vari componenti del corpo, e la sua teoria musicale assunse una direzione diversa da quella di Archita. Le informazioni che Porfirio e Giamblico attribuirono ad Aristosseno provenivano probabilmente dalla sua biografia di Pitagora - che si riteneva fosse stata scritta per prima —, ma né Porfirio né Giamblico videro mai in realtà i libri di Aristosseno e di Dicearco. (*) Le informazioni che essi quindi fornirono come tratte da quei libri, furono da loro attinte da altri autori, vissuti nei secoli interposti.

Dopo Aristotele, nell'antichità non ci fu più alcun tentativo di tracciare una distinzione fra la dottrina pitagorica preplatonica e Platone. A cominciare dagli allievi di Platone Speusippo e Senocrate, nessuno per secoli e secoli avrebbe più fatto una distinzione fra platonismo e pitagorismo. Quasi senza eccezione, tutti avrebbero accettato quel che Platone insegnò nel Timeo e la sua «dottrina orale» (riferita da Aristotele) come l'insegnamento dei primi pitagorici. Agli occhi del mondo colto, Platone era un pitagorico.

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Alla svolta del secolo, nel 300 a.C., il mondo della Grecia classica, di Platone e di Aristotele, e delle città-stato forti e spesso bellicose, come

* Cercando la fonte degli elenchi di pitagorici fatti da Giamblico, Burkert ritenne di avere limitato le possibilità ad Aristosseno (Burkert, op. cit., p. 105, n. 406).

Atene, Sparta e Tebe, era terminato. (12) L'avvento di una potenza da nord — il regno di Filippo II il Grande di Macedonia - stava annunciando una nuova èra. Meno di quarant'anni dopo l'avvento al trono di Filippo II, nel 359, suo figlio Alessandro il Grande (tradizionalmente considerato allievo di Aristotele) aveva conquistato non solo la Grecia ma anche l'Egitto e l'intero impero persiano a est, spingendosi fino agli attuali stati dell'Afghanistan, del Pakistan e al fiume Indo. Cultura e insegnamento della Grecia, delle sue colonie e dei nuovi popoli conquistati si mischiarono e si arricchirono reciprocamente in misura impressionante.

Dopo la morte di Alessandro Magno, nel 323 a.C., benché le città-stato non fossero svanite del tutto e in regioni lontane come la Magna Grecia il cambiamento fosse lento, l'impero di breve vita ma tentacolare del macedone cedette il posto a tre «stati successori», tutti governati da suoi ex generali o collaboratori. La Grecia di terraferma entrò a far parte della Macedonia. La Siria fu assoggettata al controllo della dinastia dei seleucidi. L'Egitto fu governato dai Tolomei, la dinastia alla quale sarebbe appartenuta in seguito Cleopatra. Al tempo della morte di Alessandro (e di quella di Aristotele, avvenuta nel 322 a.C.), Atene era ancora il fulcro del mondo intellettuale, ma Alessandria, con le ricchezze generosamente spese per la letteratura, le arti, la matematica e la scienza, oltre che per una biblioteca e un grande centro di cultura come il Museo, avrebbe ben presto rivaleggiato con essa e l'avrebbe soppiantata.

Intorno al 300 a.C. Euclide, che viveva ad Alessandria, diede alla matematica e particolarmente alla geometria una nuova forma di vita, superando ogni altro matematico dell'antichità nella sua capacità di usare i numeri in un modo davvero significante e generale. Euclide impersonò la convinzione intellettuale e filosofica pitagorica che la matematica fosse una guida preziosa alla verità e si sapeva anche che era solito usare un aforisma pitagorico, ma non si considerava un pitagorico né apparteneva a una comunità pitagorica. (*)

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Gli Elementi di Euclide sono una delle più grandi imprese culturali di tutti i tempi, un'opera sulle cui basi costruirono matematici e geo

* Quando qualcuno gli domandava quale fosse l'utilità pratica di un teorema, Euclide si rivolgeva al suo schiavo, arricciava il naso in segno di disapprovazione e mormorava: «Vuole ricavare profitto dall'istruzione, diamogli un centesimo». L'aforisma pitagorico era: «Un diagramma e un passo avanti (nella conoscenza), non un diagramma e un centesimo».

Euclide in un'incisione del Cinquecento.

metri posteriori. Furono sia un compendio sia una trattazione di quel che era stato scoperto prima di lui, e un'opera mirabilmente originale, ed Euclide non vi distinse chiaramente fra quel che era nuovo e quel che era vecchio. Egli conosceva il teorema di Pitagora e lo incluse nel libro I come Proposizione 47, non caratterizzandolo mai come «pitagorico», ma non presentandolo mai neppure come una propria scoperta né menzionandone mai un'altra origine. Pare che la conoscenza che Euclide aveva della matematica e dell'astronomia pitagoriche fosse derivata soprattutto da Archita, anche se esperti moderni che hanno analizzato gli Elementi credono che molti risultati che appaiono in essi (13) fossero anteriori ad Archita, e che una parte del materiale fosse estremamente antica. (14) Archita aveva costruito in precedenza su qualcuno di quei lavori anteriori, e le sue scoperte, fra cui in particolare la sua teoria dei numeri, furono incluse da Euclide nel libro VIII.

Per i criteri di Euclide, un senso di necessità e alcuni esempi non costituivano una «dimostrazione». La cosiddetta matematica pitagorica dei suoi contemporanei non si conciliava felicemente col suo superiore livello di astrazione. (15) Quella tradizione resistette tuttavia tenacemente al di là di ogni previsione. Giamblico addirittura la preferiva:

La matematica pitagorica non è come la matematica perseguita da molti. Quest'ultima è infatti piuttosto tecnica e non ha un singolo obiettivo o fine nel bello e nel bene, ma la matematica pitagorica è preminentemente teorica; essa conduce i suoi teoremi verso un fine, adattando tutte le sue asserzioni al bello e al bene, e usandole come guida all'essere. (16)

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Benché Euclide sia stato tradotto in latino e non fosse ignoto nel Medioevo, il primo testo matematico di quei secoli posteriori sarebbe stato nella tradizione matematica dei pitagorici, non in quella euclidea. (*) Tuttavia, e nonostante l'opinione di Giamblico, gli Elementi di Euclide risuonano di gioia e di apprezzamento per la bellezza dell'argomento che egli stava esplorando, un appagamento che mai nessuno aveva manifestato prima. Benché ci siano matematici moderni che portano ancora avanti l'antica fede pitagorica nella bellezza razionale dei numeri, tendendo a essere sospettosi quando qualcuno rivendica una verità matematica che non è anche bellezza, è il rigore tecnico euclideo a vigilare sulla porta stessa della bellezza.

* Gli Elementi vennero tradotti dal greco al latino da Boezio verso il 480 d.C., ma i matematici cominciarono ad apprezzarne il valore quando nel 1120 furono ritradotti da Adelardo di Bath, questa volta dall'arabo in latino.

11. IL PITAGORA ROMANO

III, II e I secolo a. C.

A Roma, nel II e I secolo a.C. circolava una leggenda popolare secondo la quale Numa, il più saggio e potente degli antichi re di Roma, sarebbe stato un discepolo di Pitagora. Ma non era possibile. Le date della parte più antica della storia della città erano in discussione ma non al punto da suscitare dubbi sul fatto che Numa morì almeno 140 anni prima dell'arrivo di Pitagora a Crotone. L'avvocato e oratore Cicerone lo chiarì nella sua Repubblica. (*)

Manilio: È vero, Africano, ciò che si tramanda, che questo re Numa fu discepolo di Pitagora in persona, o quanto meno Pitagorico? Spesso, infatti, udii dire questo dai nostri vecchi, e ci consta che è questa la credenza popolare; ma non ci sembra che ciò sia sufficientemente confermato dall'autorità degli annali pubblici.

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Scipione: Tutto ciò, Manilio, è falso, e non soltanto inventato, ma per di più inventato in maniera ignorante e assurda; non si può infatti sopportare nella menzogna quello che non soltanto è inventato, ma che vediamo non aver nemmeno avuto la possibilità di accadere. Si trova infatti che Pitagora venne a Sibari e a Crotone e in quelle parti dell'Italia dopo tre anni dall'ascesa al trono di Lucio Tarquinio il Superbo; ché la sessantaduesima Olimpiade comprende l'inizio del regno del Superbo e la venuta in Italia di Pitagora. Se ne deduce che Pitagora toccò per la prima volta l'Italia, calcolando la durata del governo regio, circa centoquarant'an

* La vita di Cicerone, e la sua vita politica, cominciarono quando Roma era una repubblica e terminarono dopo l'assassinio di Giulio Cesare e l'inizio del regno di Ottaviano (Cesare Augusto). Cicerone fu un forte sostenitore e difensore della repubblica e si adoperò in suo aiuto durante le guerre civili.

ni dopo la morte di Numa; né su di ciò esiste alcun dubbio da parte di coloro che con maggior diligenza fecero ricerche cronologiche.

Manilio: Per gli dèi immortali, qual grosso e radicato sbaglio degli uomini è mai questo! (1)

L'affermazione che Numa fosse stato un discepolo di Pitagora era però un racconto gradito e rappresentava un desiderio diffuso: che Roma potesse sostenere un legame diretto con Pitagora. L'idea piaceva allo stesso Cicerone:

Chi può infatti pensare, quando in Italia fiorì la Magna Grecia con le città più potenti e popolose, e quando in queste il nome, prima dello stesso Pitagora, e poi dei pitagorici, risuonò così alto, che le orecchie dei nostri conterranei fossero chiuse alla voce più eloquente della sapienza? Io penso infatti che sia stato a causa della loro ammirazione per Pitagora se il re Numa fu considerato dai posteri un pitagorico; conoscendo infatti il sistema e le istituzioni di Pitagora, ed essendo venuti a conoscenza attraverso i loro avi della fama di quel re per sapienza e integrità - e ignorando, per via della distanza, epoche e tempi - ne inferirono che, essendo egli eccellente per sapienza, fosse un discepolo di Pitagora. (2)

Cicerone aveva un grandissimo interesse per Pitagora. Quel che lo attraeva particolarmente era il fatto che un grande matematico e filosofo avesse fama di essere stato anche un governante efficace, benché non si conoscesse nulla sui suoi

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metodi o attività di governo. Cicerone era un autore prolifico, ma riteneva la sua attività di scrittore molto meno importante della sua attività politica.

La connessione con Numa non era affatto l'unico elemento immaginario o semi-immaginario su Pitagora che fosse corrente nella Roma di Cicerone. La visione romana di Pitagora era un misto affascinante di Platone, con leggende e assunti infondati - puntellati con evidenti falsi - e sostenuti con varie sfumature di interpretazioni, corrette ed erronee. Il nome di Pitagora era stato familiare ai romani almeno a partire dall'inizio del III secolo a.C. Negli anni dal 298 al 290 a.C., Roma stava lottando per la terza volta per sconfiggere le tribù sannite sulle montagne dell'Appennino centrale e meridionale, che formano la spina dorsale della penisola italiana. I sanniti erano rudi guerrieri che difendevano senza speranza il territorio scosceso che era la loro patria. Quando il conflitto stava volgendo decisamente al peggio per i romani, questi adottarono astutamente la formazione militare che i loro nemici usavano con tanto successo: una disposizione a scacchiera in cui caselle fitte di soldati si alternavano a spazi quadrati vuoti. (*) I romani consultarono anche l'oracolo di Delfi, ricevendone la risposta che Roma doveva rendere onore al più sapiente e coraggioso dei greci. In risposta a quest'ordine un po' ingiurioso, i romani scelsero due figure che non erano esattamente quelle che sarebbero state scelte dai greci: Alcibiade, un genio militare e politico famoso per il suo opportunismo, che era stato allievo di Socrate ed era stato una spina nel fianco per i greci del suo tempo; e Pitagora, che Roma preferiva considerare più italico che greco. (**) Evidentemente i romani soddisfecero le richieste dell'oracolo di Delfi, come dimostra la loro vittoria sui sanniti. La statua di Pitagora campeggiò nel foro per due secoli, fino a quando la costruzione di un nuovo senato ne impose la rimozione, probabilmente quando Cicerone aveva quasi vent'anni. (3)

Alla metà del II secolo a.C., Roma controllava l'intero Mediterraneo orientale, e in Grecia, Egitto e Asia Minore i romani stavano entrando in contatto con alcune fra le civiltà più antiche e prestigiose del mondo. Si può riconoscere, a loro favore, che per lo più non le considerarono culture superate e pittoresche di popoli inferiori vinti, preferendo invece vedere nelle società più antiche le custodi di un prezioso retaggio di cui Roma era ora diventata l'erede.

L'influenza più significativa e durevole era ora quella dei greci. I militari romani portavano in patria opere d'arte, schiavi che erano molto più colti di loro, e una nuova sete di sapere e di idee. Ben presto i romani delle classi superiori cominciarono avidamente a leggere opere greche in traduzione e anche nell'originale, poiché molti stavano diventando bilingui. I genitori romani

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cercavano schiavi greci colti perché educassero i loro figli, e molti giovani romani andavano in Grecia a completare la loro istruzione. Cicerone studiò filosofia e arte oratoria ad Atene e nell'isola di Rodi. Erano molto richiesti autori, artisti, scultori, filosofi e architetti in grado di uguagliare i livelli di

* I romani continuarono a usare efficacemente questa formazione nel periodo repubblicano e in quello dell'espansione del loro impero.

** La fama di indisciplina e di assenza di scrupoli di Alcibiade fu poi usata per avvalorare le accuse contro Socrate di corrompere la gioventù ateniese, accuse che avrebbero portato alla sua condanna a morte.

eccellenza dei greci, o almeno di copiarli con buoni risultati. Anche se la politica continuò a essere praticata alla latina, ben poche parti della vita romana sfuggirono a questa controconquista pacifica e raffinata. In quella che stava rapidamente diventando non una cultura romana, bensì una cultura greco-romana, Pitagora, un gigante intellettuale antico quasi cresciuto in casa, dalla statura mitica sia nel mondo greco sia in quello italico, era un tesoro romano. Era questa la filosofia «italica». Così l'aveva chiamata persino Aristotele.

Anche Ennio — che generazioni future avrebbero chiamato il padre della poesia latina — contribuì a fornire a Roma un'autoimmagine culturale che implicava Pitagora. Una fra le opere - poemi e drammi — di Ennio che ebbero un immenso successo era un lungo ciclo epico intitolato Annales, il cui intento era quello di tracciare la storia di Roma a partire dalla fuga di Enea da Troia. In esso Ennio presentò le sue credenziali come successore di Omero, descrivendo un sogno in cui il grande poeta greco gli era apparso sul monte Parnaso e gli aveva detto che in una vita precedente proprio lui, Ennio, era stato Omero. Questo sogno simboleggiava in qualche modo la visione che Roma aveva di se stessa come erede della cultura greca, ma non rappresentava le dottrine ortodosse romane o greche riguardanti l'aldilà.

Esso conteneva invece un accenno a Pitagora e alla dottrina della reincarnazione. In un poema satirico, l'Epicharmus - il nome era quello di un poeta comico pitagorico siciliano - Ennio descrisse un altro sogno distintamente pitagorico su ciò che sarebbe accaduto dopo la sua morte, in un luogo di divina illuminazione.

Ennio apparteneva all'entourage del console romano Marco Fulvio Nobiliore, che gli fornì un'altra connessione pitagorica. Fulvio era tornato da campagne

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militari nel Mediterraneo orientale carico di tesori artistici conquistati e con una passione per la cultura greca.

Scrisse un'opera intitolata De Fastie che fu probabilmente la fonte di un passo presentato come «ciò che Fulvio riferì da parte di Numa»; ciò implicava qualcosa di genuinamente pitagorico, dal momento che Numa era l'antico re di cui si diceva che fosse stato allievo di Pitagora. Il libro di Fulvio dovette in effetti molto al Timeo platonico, che a quel tempo era considerato quasi universalmente un compendio di dottrine pitagoriche.

Al tempo di Ennio e di Fulvio pare sia esistito a Roma e/o ad Alessandria un culto i cui membri seguivano quelle che credevano fossero le pratiche rituali e lo stile di vita degli acusmatici. Era apparso un libro intitolato Memorie pitagoriche che prescriveva tale stile di vita ed era attribuito allo stesso Pitagora, anche se in verità risaliva a poco tempo prima del culto. Tuttavia Diogene Laerzio vi attinse per la sua biografia di Pitagora:

La virtù, la sanità fisica, ogni bene e la divinità sono armonia: perciò anche l'universo è costituito secondo armonia. Anche l'amicizia è uguaglianza armonica. Bisogna rendere agli dèi e agli eroi onori non uguali, ma agli dèi sempre in sacro silenzio, vestiti di bianco e puri, agli eroi dalla metà del giorno. La purità si consegue con i riti della purificazione e i lavacri e le abluzioni e col tenersi puri da cadaveri e da puerpera e da ogni lordura, e con l'astenersi da carni mangiabili e di animali morti di morte naturale e da triglie e da melanuri e da uova e dagli animali ovipari e dalle fave e quant'altro viene proscritto da quelli che compiono i riti misterici nei templi. (4)

Nel II secolo a.C. molti di tali libri e scritti «pseudopitagorici» apparvero a Roma e ad Alessandria. La tradizione semistorica concernente Pitagora, per quanto già frammentaria e confusa, sarebbe stata ancora più inquinata da questo grande corpus di fantasie spacciate come fatti.

Catone il Censore, che portò Ennio a Roma e ne patrocinò l'introduzione nella società romana, lesse un libro attribuito a Pitagora intitolato Mirabilia plantarum, un'opera appartenente al genere della botanica naturale e soprannaturale nella quale trovò informazioni su una specie di cavolo, la Brassica pythagorea. Catone le incluse nel suo libro De agri cultura (157), un compendio di consigli pratici per proprietari di fattorie di media grandezza, in cui presenta ricette, prescrizioni,

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formule religiose e alti elogi dei cavoli, specialmente della varietà pitagorica, lasciando solo un po' di spazio per lagnarsi delle fave.

Nel secolo seguente nemmeno Plinio il Vecchio, che come Catone era un uomo di cultura e intelligenza impressionanti, riuscì ad accorgersi che il libro Mirabilia plantarum era un falso e lo menzionò nella Naturalis historia, un'enciclopedia in trentasette libri contenente tutte le informazioni di cui era in possesso su animali, vegetali, minerali ed esseri umani. (*) «La mia opera tratta della natura delle cose, cioè della vita», aveva dichiarato. (5)

* Plinio perse la vita quando la sua insaziabile curiosità sui fenomeni naturali lo spinse ad avvicinarsi troppo, con la flotta romana del capo Miseno, al Vesuvio in eruzione.

Frattanto alcuni autori si concentrarono di più sul tentativo di trasmettere un'autentica dottrina pitagorica. Quando Cicerone si trovava a Rodi per completarvi la propria educazione, sedette ai piedi del filosofo stoico Posidonio di Apamea, vissuto dal 135 a.C. circa al 51 a.C. Molti giovani entusiasti stavano cercando Posidonio come maestro e come modello di ruolo. Nato in Siria, Posidonio aveva viaggiato molto, e anche coraggiosamente, recandosi in Spagna, Africa, Italia, Sicilia e in quella che è oggi la Francia, in paesi che erano ancora regioni di frontiera, e le sue imprese e il suo fisico gli erano valsi il soprannome di Posidonio l'Atleta. Studiosi e contemporanei lo stimarono molto come uno fra gli uomini più stimolanti e dotti del suo tempo.

Dei più di venti libri di Posidonio sopravvivono solo frammenti.

Egli discusse a quanto pare quelli che credeva fossero ideali pitagorici di buon governo in una storia della Repubblica romana, sostenendo che il declino della morale pubblica e politica era connesso alla sconfitta e distruzione di Cartagine a opera dei romani nel 146 a.C. Non avendo più alcun nemico all'orizzonte, Roma era degenerata diventando una città moralmente debole, dominata da comportamenti sfrenati e lacerata all'interno dalla violenza politica e dalla competizione per il potere e la ricchezza. (6) Posidonio apprezzava molto il Timeo di Platone e attribuiva parte della propria filosofia ai pitagorici.

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Secondo uno dei frammenti di Posidonio: «Non furono solo Aristotele e Platone a nutrire questa concezione sull'emozione e la ragione ma anche altri prima di loro, compreso Pitagora, ma Platone la sviluppò e la rese più perfetta».

Molto di ciò che è noto su Posidonio proviene dal filosofo e storico scettico Sesto Empirico, che visse fra il II e il III secolo d.C. A quanto pare egli trasse da Posidonio le sue informazioni quando spiegò perché i pitagorici pensassero che, se si sostiene che una cosa sia vera, la logica matematica sia l'unico criterio col quale tale asserzione possa essere giudicata. Il «numero» era il principio sottostante alla struttura dell'universo. «È questo ciò che intendono i pitagorici quando, in primo luogo, hanno l'abitudine di dire "tutte le cose assomigliano a numeri", e, in secondo luogo, fanno il giuramento più naturalistico.» Questo giuramento era quello della tetraktys? Sesto continuò nel suo modo familiare a sottolineare che la tetraktys incarnava i numeri 1, 2, 3 e 4 che erano presenti anche nei rapporti musicali. Egli elencò i quattro passi, punto-linea-superficie (tetraktys)solido (piramide): la prima forma di un corpo solido. Così «sia ciò che è corpo sia ciò che è incorporeo sono concettualizzati secondo i rapporti di questi quattro numeri». Per rafforzare quest'idea Sesto Empirico citò numerosi esempi dei modi in cui i numeri e i rapporti operano nelle sostanze corporee, in cose incorporee come il tempo, nella vita quotidiana, nelle arti e nell'architettura.

Sesto Empirico trasse tutte queste informazioni da una fonte anteriore: ma perché gli studiosi hanno concluso che fosse Posidonio?

L'indizio sta in una tragica storia accaduta nell'isola adottiva di Posidonio, Rodi. Lo scultore Carete di Lindo fu assunto per costruire una statua bronzea gigantesca, il Colosso di Rodi. Egli presentò una stima dei costi. I cittadini decisero allora che volevano una statua grande il doppio. Di quanto sarebbe allora cresciuto il costo? Carete si limitò a raddoppiare la prima stima: un errore fatale. Egli ricordò troppo tardi che «grande il doppio» non significava solo alta il doppio. Il raddoppiamento dell'altezza avrebbe comportato un aumento di tutte le dimensioni. Carete si rese conto del suo errore quando, al termine della prima fase del lavoro, il denaro era stato speso tutto. In preda a una crisi di disperazione, Carete si suicidò. Per rafforzare l'idea, Sesto incluse questa storia in una discussione di numeri e rapporti, e gli studiosi vedono nella spiegazione di Sesto della teoria pitagorica l'impronta di Posidonio. Le informazioni conservate da Sesto furono probabilmente quel che Cicerone apprese su Pitagora quando studiò con Posidonio. (7)

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Alla metà del I secolo a.C., fiorì a Roma un gruppo quasi religioso sotto la direzione di Nigidio Figulo, un «pitagorico e mago» nel cui pitagorismo la linea fra scienza e magia divenne sempre più vaga fino al punto di svanire. Il pitagorismo, «per Nigidio e i suoi amici, significava primariamente una fede nella dimensione magica», scrisse la storica Elizabeth Rawson. (8) La fama di Nigidio di avere una seconda vista e poteri occulti lo qualificò per elaborare un oroscopo per il futuro imperatore Augusto, al quale preannunciò correttamente un brillante futuro. I romani di quel tempo non consideravano Nigidio uno studioso fuori della corrente ortodossa o addirittura appartenente a una frangia psicopatologica. Cicerone scrisse, nell'introduzione alla propria traduzione latina del Timeo, che Nigidio «nacque per far rivivere gli insegnamenti dei pitagorici, che, dopo essere fioriti per vari secoli in Italia e in Sicilia, si erano in qualche modo estinti» e che egli era stato un «ricercatore particolarmente acuto di materie che la natura aveva reso oscure». (9) Nigidio era un autore colto, prolifico di libri sui pianeti, lo zodiaco, la grammatica, la filosofia naturale, i sogni e la teologia, con una conoscenza estesa delle religioni e dei culti di gran parte del mondo conosciuto.

Spesso i romani invocavano il nome di Pitagora per rappresentare la sapienza e l'integrità. Lo studioso e autore satirico Marco Terenzio Varrone, considerato da molti il romano più dotto del I secolo a.C., cominciò il suo libro Hebdomades con un elogio dal suono pitagorico del numero 7 e con una citazione sull'astronomia da Nigidio. Quando Varrone morì fu sepolto, secondo Plinio, al «modo pitagorico», in una bara di terracotta con mirto, olive e foglie di pioppo nero. (10)

Cicerone, per parte sua, tentò di minare la credibilità di un certo «Vatinio», un sostenitore di Giulio Cesare, accusandolo con giusta indignazione di empietà, visto che aveva «l'abitudine di professarsi pitagorico e di giustificare col nome del grande filosofo i suoi barbari e crudeli costumi». (11) Pare che Cicerone non abbia mai aderito a un culto pitagorico, ma fece un pellegrinaggio a Metaponto per visitare la casa dove secondo la tradizione sarebbe morto Pitagora.

Pitagora figura in molte opere di Cicerone. In una scena della Repubblica, ambientata nella tenuta di campagna di Scipione l'Africano, Scipione e il suo nipote Quinto Tuberone, il primo ad arrivare fra vari visitatori attesi, si sdraiano su divani alla maniera romana aspettando un altro ospite, Panezio, che si occupa «con particolare interesse» di problemi di astronomia. In attesa del suo arrivo, Scipione menziona una discussione avvenuta in Senato dove «non [...] pochi scervellati dicono di aver visto il Sole doppio», (*) dopo di che osserva: Scipione

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Africano: Non sono troppo d'accordo su tutto ciò con quel nostro amico, che afferma ciò che appena noi possiamo congetturare, come se gli sembrasse di vederlo coi suoi occhi o senz'altro toccarlo con le sue mani. Per questo sono solito considerare anche più saggio Socrate, per aver egli lasciato andare ogni preoccupazione di tal fatta, dicendo che i problemi fisici o sono superiori alla conoscenza umana oppure non interessano affatto la vita degli uomini.

Tuberone: Non so perché, Africano, si sia tramandato proprio questo, che Socrate ripudiò ogni discussione del genere

* Cicerone fece molti riferimenti a questo fenomeno celeste avvenuto nell'anno 129 a.C. Il nome scientifico è parelio. Si ha l'impressione che in cielo ci siano tre soli, uno a destra e uno a sinistra del sole vero. Ciò accade quando il Sole splende attraverso un velo sottile di cristalli di ghiaccio esagonali con gli assi principali verticali. Se gli assi principali sono disposti a caso in un piano perpendicolare ai raggi del Sole, si vede un alone intorno al Sole.

e si limitò a indagare soltanto la vita e la morale. Quale testimonio infatti potremmo citare a suo riguardo più autorevole di Platone? In molti passi dei suoi [di Platone] libri, Socrate parla in modo tale da discutere non soltanto della morale, delle virtù, e perfino dello Stato, ma anche di numeri, di geometria, di armonia, alla maniera di Pitagora.

Scipione: Così è come dici; ma credo che tu sappia, Tuberone, che dopo la morte di Socrate Platone si recò «a scopo» d'istruzione prima in Egitto, poi in Italia e in Sicilia, onde apprendervi le scoperte di Pitagora, e che s'intrattenne a lungo con Archita di Taranto e con Timeo di Locri (*) e conobbe i trattati di Filolao; e che essendo in quei tempi e in quei luoghi in pieno fiore la fama di Pitagora, egli si dedicò tutto agli studi e agli esponenti del pitagorismo. Ma poiché amava soprattutto Socrate e voleva tutto attribuirgli, intrecciò l'arguzia e la sottigliezza del pensiero socratico con l'oscurità di Pitagora e con quella sua profondità in moltissime dottrine. (Lo Stato, I, 10, 15-16)

Tuberone pensa Pitagora in connessione con l'aritmetica, la geometria e l'armonia. Scipione lo associa all'oscurità della sua varia e profonda dottrina. In seguito, nella stessa conversazione, essi invocano la sua autorità sul fondamento

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naturale delle leggi che proteggono la vita: Non solo uomini mediocri, ma grandissimi e dotti, come un Pitagora e un Empedocle, dichiarano che una sola ed eguale per tutti gli esseri animati è la condizione del diritto e vanno gridando che pene tremende incombono su chi abbia fatto violenza a un animale. (III, 11, 19)

Cicerone lo valutò persino sul problema delle fave: i pitagorici evitavano di mangiarle perché «questo cibo produce una grande flatulenza, dannosa alla tranquillità della mente che ricerca la verità». (12)

Fu nel Somnium Scipionis che Cicerone si espresse nel modo più vicino alla sensibilità pitagorica, e anche in modo molto simile a Pla

* Timeo di Locri era il personaggio centrale del Timeo platonico, ma non esistette alcun personaggio reale con questo nome. Gli scritti attribuiti a lui non possono essere considerati esempi di dottrina pitagorica. Essi sono interpretazioni del Timeo platonico, composte a partire dal I secolo a.C. o dal I secolo d.C.

tone. Il «sogno» concludeva il De republica di Cicerone e, con un suggestivo parallelo, egli lo modellò sul «mito di Er» che concludeva la Repubblica di Platone. Il «sogno» conduce Cicerone in una regione accessibile soltanto a coloro che hanno conseguito una riunione permanente col livello supremo dell'esistenza attraverso la musica, l'apprendimento, il talento e la devozione a studi religiosi. Le sue orecchie sono piene di un suono «sonoro e piacevole» ed egli domanda a Scipione che cosa sia. Scipione risponde:

Questo è il suono che, scandito da intervalli non equidistanti, ma pure ragionevolmente distinti con determinati rapporti, è originato dall'impulso e dal movimento delle sfere stesse (ipsorum orbium) e, fondendo armonicamente i toni acuti con quelli gravi, determina accordi varii eppur armoniosi; difatti, movimenti così grandi non possono compiersi in silenzio, e la loro natura comporta che gli estremi da una parte suonino gravi, e dall'altra acuti. Per questo motivo quella più alta orbita stellata (stellifer cursus) del cielo, la cui rotazione è più veloce, si muove a un suono acuto e vibrante, a uno bassissimo invece quest'orbita più bassa della Luna; e la Terra, che viene nona, poiché resta immobile, restando immobile in una sola sede, sempre sta ferma occupando il luogo centrale dell'universo. (13)

Poiché Venere e Mercurio sono all'unisono, ci sono solo sette suoni corrispondenti al numero di corde della lira dalle sette corde: «sette toni distinti da

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intervalli». «I dotti imitando queste armonie con gli strumenti a corda e col canto si aprirono il ritorno a questo luogo, così come altri, che con eccezionale genio coltivarono nella loro vita umana gli studi delle scienze celesti (divina studia).» La metafora di Cicerone per spiegare perché la maggior parte degli esseri umani non oda mai la musica celeste è che l'orecchio umano è stato assordato da quel suono, esattamente «come quella gente che, abitando colà dove il Nilo precipita da alti monti, in quella località che si chiama Catadupa, rimane priva del senso dell'udito per la enormità del rimbombo». Cicerone non lascia intendere di sapere che secondo i pitagorici la Terra non era al centro del mondo. In effetti, in nessun testo superstite dell'antica letteratura si trovano indizi del fatto che qualcuno avesse combinato il concetto di una «musica delle sfere» udibile con la cosmologia comprendente il fuoco centrale e l'Antiterra, anche se i rapporti musicali avevano probabilmente svolto un ruolo nello sviluppo del modello pitagorico del cosmo formato da dieci corpi.

In un diverso ambito di cultura, un contemporaneo più giovane di Cicerone, l'architetto Marco Vitruvio Pollione, scrisse una rassegna dell'architettura del suo tempo, il De architectura in dieci libri.

Egli raccomandò di usare per le dimensioni dei locali rapporti pitagorici ed estrapolazioni su di essi, non adottando per i templi alcuna forma oltre a quella in cui la lunghezza era doppia della larghezza (rapporto 2:1) e a quella circolare. I fori greci erano quadrati, ma quelli di Vitruvio avevano un rapporto larghezza/lunghezza di 2/3, in quanto un pubblico che assisteva a un combattimento di gladiatori si trovava meglio in uno spazio di tale forma. Per le case, «le longitudine et latitudine de li atrii de tre generatione elle se formano», due delle quali usano rapporti pitagorici. «L'altra [la seconda] generatione quando in tre parte sarà divisa, due parte a la latitudine siano tribuite [la larghezza è due terzi della lunghezza]. La tertia generatione che la latitudine in uno quadrato de pari lati sia descripta.

Et in epso quadrato la linea del diagonio sia perducta, et quanto spacio haverà havuto epsa linea del diagonio tanta longitudine al atrio sia data» (lib. VI, cap. 3). Questo disegno era fondato sulla lezione di Socrate nel Menone di Platone. «Aduncha [...] questo non si explica per numero», scrisse Vitruvio (lib. IX, prefazione). Socrate non aveva usato numeri. La lunghezza di quella diagonale era incommensurabile. Lo stesso valeva per un lato della stanza di Vitruvio. Questi menzionò spesso Pitagora e i pitagorici. Il teorema pitagorico era una

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scorciatoia nella progettazione di scalinate, e Vitruvio lo attribuì senza esitazioni a Pitagora.

I libri di Vitruvio avevano illustrazioni, ma non le copie che sopravvissero fino al Rinascimento. Il disegno seguente, di Cesare Cesariano, eseguito per illustrare un'edizione di Vitruvio del 1521, non era facile da interpretare. Secondo l'architetto Leon Battista Alberti, i greci pensavano che Vitruvio scrivesse in latino, i latini che scrivesse in greco. Tuttavia questo disegno (in lib. IX, prefazione) rappresenta forse fedelmente le sue istruzioni:

Ma questa ratione [il teorema di Pitagora], sì como in molte cose et mensure è utile, è anchora in li aedificii in le aedifìcatione de le scale, a ciò che temperate habiano le livellatione de li gradi expedita. Per che si la altitudine de la contignatione da la summa coaxatione al basso livellamento sarà divisa in tre parte, sarà de epse cinque la inclinatione in le scale secundo la iusta longitudine de li scapi: perché quanto magne sarano intra la contignatione et il basso livellamento le tre parte del altitudine, quatro parte dal perpendiculo recedano: et ivi li inferiori calci de li scapi siano collocati; per che così saranno temperate le collocatione de li gradi et de epse scale. Anchora di questa la forma serà subscripta. (14)

Disegno di Cesare Cesariano che rappresenta una realizzazione rinascimentale di opere di Vitruvio.

Il libro di Vitruvio si riferiva a un'applicazione insolita di quarte, quinte e ottave musicali usate in un sistema di amplificazione del suono in teatri greci. Un teatro romano, sottolineò, essendo fatto di legno aveva una buona acustica, mentre in un teatro greco, fatto di pietre, le voci degli attori dovevano essere amplificate:

Anchora in li theatri li aenei vasi quali in le celle sotto a li gradi con mathematica ratione se collocano et li discrimini de li soni, quali li greci chiamano rasici, a le symphonice musice, o vero concenti se componeno divisi in circinatione, diatessaron et diapente et diapason acioché la voce del scaenico sonito sia conveniente in le dispositione quando col tacto haverà offesa

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augumentata con lo incremento più clara et più suave pervenga a le orechie de li spectatori. (lib. I, cap. 1)

Si dimostrava così che un architetto doveva essere padrone di molte discipline, cosa non così difficile come doveva sembrare, pensò Vitruvio, per una ragione molto pitagorica:

Forse parerà maraveglia a li imperiti homini possere la natura tanto numero de doctrine perfectamente imparare et a la memoria contenirle. Ma quando se animadvertirano tute le discipline intra loro havere la coniunctione et comunicatione de le cose poterlo fare facilmente il credarano; imperò la disciplina del encyclio [l'istruzione universale] è composita [armonicamente] de quisti membri como uno corpo.

[...] Similmente con li astrologi et musici è una commune disputatione de la sympathia de le stelle et symphonie de li quadrati et trigoni, diatessaron et diapente; et con li geometri del videre, quale in graeco Xóyoq Ò7tTiKÓ<; si appella, et in tute le altre doctrine molte cose o vero ciascune sono solamente al disputare, (lib. I, cap. 1)

Ma occorre che un architetto sappia la musica, scrisse Vitruvio, «aciò che la harmonica ratione et mathematica habia la nota, ultra di questo aciò de le baliste, catapulte, scorpioni le temperature [regolazioni] possa rectamente fare [...]. Similmente le hydraulice machine et altre qual son simile a quisti organi, senza musice ratione niuno li potarà efficere». (lib. I, cap. 1).

Frattanto l'insidioso sgocciolio di opere pseudopitagoriche che era cominciato nel III secolo a.C. era diventato una vera industria nel I, quando editori-librai e amanuensi tentavano di far fronte a una domanda continua di libri che si supponeva fossero stati scritti da Pitagora o dai suoi primi seguaci, oppure anche da Filolao o Archita. Roma e Alessandria erano i luoghi in cui si potevano comprare, vendere e collezionare questi rotoli, ma coloro che se li procuravano non erano solo lettori romani e alessandrini. Il re della Numibia Giuba II, (15) che si era recato a Roma per la sua istruzione, fu uno dei collezionisti più avidi di libri. I libri pseudopitagorici non sono di alcun aiuto nella scoperta del vero Pitagora, e presenterebbero molte insidie ai suoi biografi, ma sono capsule del

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tempo che ci rivelano quel che gli studiosi e la gente, fra il III e il I secolo a.C., pensavano di Pitagora e del suo insegnamento.

Le Memorie pitagoriche furono composte piuttosto presto, risalendo al periodo in cui Alessandria fu il centro della cultura ellenistica e in cui la cultura greco-romana era ancora relativamente lontana nel futuro, e non sopravvissero a lungo in copie complete. I loro originali sono scomparsi quasi come il loro supposto autore. Nessuno sa chi li abbia scritti, ma non fu certamente Pitagora, in quanto il loro autore aveva chiaramente letto il Timeo e aveva familiarità con le dottrine inedite di Platone. In un frammento conservato da Diogene Laerzio, una delle prime frasi menziona la Diade indefinita. (*) Tracce di materiale preplatonico ricevettero un aggiornamento platonico non intenzionale, mentre pare che passi che dipendono da un sapere posteriore siano stati intenzionalmente rielaborati per dare loro una patina preplatonica. A proposito del periodo di gestazione di un embrione umano, vi si legge che «l'embrione si forma in quaranta giorni, poi secondo i rapporti dell'armonia giunge al suo naturale compimento in sette, nove o al massimo dieci mesi» (Diogene Laerzio, VIII, 29). L'«armonia» suonava pitagorica, e «dieci mesi» sembravano una durata naturale pitagorica, ma altri passi concernenti questioni mediche pare abbiano imitato Ippocrate, per il quale, come per i pitagorici, c'era un grande corpus di letteratura spuria. Una discussione del significato degli opposti nel cosmo sfociava rapidamente nella filosofia di Aristotele, facendolo sembrare «più primitivo» (VIII, 26). Aristotele aveva scritto che l'aria del mondo sublunare è immobile e malsana, «mentre l'aria altissima [sopra l'orbe lunare] è in eterno moto e pura e salubre», e le Memorie pitagoriche caratterizzano come gravida di esalazioni e di malattia l'aria mortifera in prossimità della Terra, di contro all'«aria superiore», presentata come «immortale e sotto tale aspetto divina». (**) Gli studiosi moderni datano le Memorie pitagoriche al II o III secolo a.C., non prima, e certamente non al VI secolo.

* Diogene Laerzio copiò il frammento non dall'originale bensì da un autore anteriore a lui - Alessandro Poliistore -, che a sua volta lo aveva copiato da un libro ancora più antico.

** In considerazione di tutti gli altri anacronismi delle Memorie pitagoriche, gli studiosi hanno escluso la possibilità che esse possano essere davvero uno scritto antico e che possano avere anticipato, sia pure in modo rozzo e primitivo, il cosmo di Aristotele.

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Un altro scritto pseudopitagorico che ebbe grande diffusione fu la Lettera di Liside a Ipparco, attribuita al Liside che fuggì a Tebe dopo la dispersione dei pitagorici della Magna Grecia. Liside era una persona reale; fu insegnante del generale tebano Epaminonda, ma non fu autore di questa lettera. In essa egli accusa Ipparco, un altro pitagorico, di «andare filosofando anche pubblicamente, e ciò non ammetteva Pitagora». Per dimostrare che Pitagora disapprovava una tale mancanza di discrezione, la lettera continua dicendo che Pitagora affidò le memorie a sua figlia Damo, con l'ordine di non consegnarle a nessuno di quelli che non erano ammessi alla sua casa. Ed essa, pur potendo dar via i suoi libri a carissimo prezzo, non volle, stimando più preziosi dell'oro la povertà e gli ordini paterni. Ed era una donna. (16)

L'analisi linguistica ha datato la lettera al I secolo a.C., ma alcuni studiosi preferiscono pensare che sia stata scritta al tempo dell'apparizione delle Memorie pitagoriche per sostenerne l'autenticità. (17) La tesi era che le Memorie pitagoriche fossero quei libri, riscoperti solo da poco, che Damo si era rifiutata di vendere. Se la Lettera era solo un falso scritto a sostegno delle Memorie, allora doveva essere stata scritta prima del 100 a.C., e probabilmente anche prima del 200 a.C. Oggi nessuno studioso crede comunque che la Lettera di Liside a Ipparco sia stata scritta nel V secolo a.C. dal Liside storico.

La sorte di un altro libro, De universi natura di Ocello Lucano, è un esempio della confusione che si verificò anche nel caso di studiosi ben intenzionati. Benché Ocello sia vissuto probabilmente nel II secolo a.C., nella prima metà del I secolo d.C. il suo scritto fu erroneamente considerato un antico testo protopitagorico. Ocello e la sua famiglia si considerarono pitagorici, ma l'innocente Ocello aveva a quanto pare scritto per se stesso non cercando di spacciare il suo libro per una qualche opera scritta in precedenza. (18) Il libro riuscì tuttavia a ingannare addirittura uno studioso come Filone di Alessandria, il filosofo greco-ebraico del I secolo. Ocello aveva insistito sulla tesi che l'ordine cosmico era eterno; non c'era alcun bisogno di una dottrina della creazione. Filone, non rendendosi conto che Ocello era vissuto dopo Aristotele, considerò il De universi natura una prova del fatto che erano stati gli antichi pitagorici, e non Aristotele, i primi a introdurre l'idea dell'eternità del mondo. (19)

Nel I secolo a.C. era diventata una convinzione ampiamente accettata che Pitagora non avesse lasciato scritti, anche se in seguito

Diogene Laerzio avrebbe sostenuto il contrario. Opere come le Memorie pitagoriche e un libro in tre parti attribuito a Pitagora (pur risalendo in realtà alla

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fine del III secolo a.C.) sull'educazione, la politica e la fisica, non godevano più in generale di alcun credito, ma ciò non mise fine ai falsi. Divenne di moda «scoprire» scritti di pitagorici come Liside, il falso Timeo, Archita, e le donne Teano e «Fintide, figlia di Callicrate». Alcuni di quegli scritti offrivano consigli e massime per la vita quotidiana. Altri furono presentati come autentici trattati scientifici e filosofici pitagorici. Molti rivelano oggi la loro natura di opere spurie tradendo pesanti influenze di Platone e suoi allievi, di Aristotele e degli stoici o manifestando maldestri tentativi di imitare il dialetto dorico parlato dai greci in Magna Grecia al tempo di Pitagora. (20) Ma anche quando non erano in dorico, quegli scritti avevano spesso un effluvio pseudopoetico. (Si pensi ai tentativi moderni di suonare come nella «felice vecchia Inghilterra» e agli sforzi poco più raffinati di autori vittoriani di riprodurre il linguaggio medievale.) Altre falsificazioni neopitagoriche si tradiscono solo per la loro banalità; se queste fossero state effettivamente le opere di Pitagora e dei suoi seguaci, i pitagorici non sarebbero stati certamente degni di essere ricordati. (*)

* Un indizio che è risultato essere una falsa traccia: il suggerimento che l'inclusione in un'opera di superstizioni e di eventi «meravigliosi» fosse tipica di un pensiero più «primitivo» e indicasse una maggiore antichità del materiale. Si pensava che, quando ci si trovava di fronte a un fiume parlante o a un personaggio che si trovava contemporaneamente in due luoghi, fosse forte la probabilità che lo scritto fosse autenticamente antico. Tuttavia il tardo IV secolo, come pure il III, II e I secolo a.C. e i primi secoli d.C., accettavano magie, miracoli e portenti come li avevano accettati il VI e V secolo a.C., e forse anche di più. Ci si attendeva che elementi del genere fossero presenti nella bibliografia di un personaggio importante. Aristotele scrisse durante questo periodo, quando i suoi contemporanei potevano essere più inclini dei loro avi vissuti al tempo di Pitagora a credere in una coscia d'oro. Clemente Alessandrino, eminente studioso cristiano del II secolo d.C. e inizio del III, descrisse «un piano di studi standard comprendente [...] astrologia, matematica, magia e stregoneria»: un quadrivio che sembrerebbe appropriato per la Hogwarts School di Harry Potter. «L'intera Grecia», si dolse Clemente Alessandrino, «si gloria di queste presunte scienze supreme» (Clemente Alessandrino, Stromateis [Scritti miscellanei], 2.1.2, 3-4). Per Diogene Laerzio, Porfirio e Giamblico, il fatto che il materiale includesse elementi miracolosi non invalidava l'informazione né metteva in discussione la fonte. Nel pitagorismo più antico c'era probabilmente un ele

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Secondo un conteggio, al culmine del periodo delle falsificazioni pitagoriche circolavano ottanta opere «di Pitagora» e altre duecento spacciate come opere dei suoi primi seguaci. (21) Come fu possibile ingannare un così gran numero di lettori? Ma non tutti si lasciarono abbindolare. Alla metà del III secolo a.C. Callimaco dichiarò che un poema attribuito a Pitagora non era autentico, Callimaco lavorava alla Biblioteca di Alessandria e, se c'era qualcuno in grado di riconoscere un falso, quello era lui. Non si può però criticare seriamente la maggior parte dei lettori per non avere riconosciuto che i libri pseudopitagorici non erano autentici. Le parole tratte da un frammento di Posidonio, secondo le quali una certa opinione «era in origine stata espressa da Pitagora, ma Platone la sviluppò e rese più perfetta», riflettevano l'assunto che le dottrine pitagoriche e platoniche fossero virtualmente le stesse, e che la filosofia di Platone derivasse da Pitagora. Per lettori convinti che questa fosse davvero la realtà storica, e specialmente per chi non si rendeva conto di quanto fossero diverse fra loro le filosofie di Platone e di Aristotele, era facile credere che anche Aristotele avesse tratto le sue idee da Pitagora. Perciò, quando idee platoniche e aristoteliche apparivano in opere la cui composizione era attribuita a tempi anteriori al periodo in cui erano vissuti questi due filosofi, perché stupirsi? Non era da queste opere che erano stati avviati alla filosofia Platone e Aristotele?

La letteratura pseudopitagorica continuò ad apparire per vari secoli e fu immensamente popolare. Ci si poteva formare una conoscenza della «dottrina pitagorica» ignorando che essa combinava materiali genuinamente antichi con una presentazione semplificata o compendiata della filosofia di Platone e di Aristotele, mescolata a una buona dose di stoicismo e (in libri più recenti) dotata di una patina neoplatonica. Si potevano imparare a memoria i Versi aurei di Pitagora o farli imparare ai propri figli. Come per Il Profeta di Kahlil Gibran, nel XX secolo, ci si poteva non rendere conto - o non darsi pensiero - del fatto che quella che si presentava come una sapienza antica genuina era per lo più un'invenzione e interpretazione poetica mento mistico o magico, ma i posteriori autori greci, alessandrini o romani, nella loro ansia di riferire, esagerarono. È difficile vedere attraverso il velo di un'epoca superstiziosa e giudicare quanto fosse scettica un'età anteriore, ma è chiaro che non si può decidere che un libro fosse autenticamente più antico semplicemente perché includeva più elementi della dimensione del meraviglioso.

contemporanea. Le massime erano sagge, e alcune anche belle. Vi si poteva scoprire che cosa avesse raccomandato Pitagora circa i poteri medicinali e magici delle piante. Se la lettura di quelle massime poteva fare stare meglio il lettore,

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questo fatto, più di qualsiasi discussione accademica, dimostrava l'efficacia e l'autenticità del libro. Si poteva apprendere quali contributi avesse dato «Archita» al sapere sull'architettura, l'agricoltura, i flauti, l'etica, la meccanica, la sapienza, la prosperità, l'avversità e la «consolazione intermedia»: non importava che egli avesse in realtà poco o nulla da dire su qualcuno di questi argomenti. I lettori romani ed ellenistici potevano divorare queste opere, scambiarsele, discuterle, farne dono, leggerle a matrimoni e funerali, sentirsi sollevati e migliorati dalle loro idee elevate e a volte illuminati da informazioni utili o stimolanti, quale che fosse la loro provenienza. I romani potevano avere la sensazione di sapere qualcosa sul loro grande sapiente, quasi cresciuto in casa.

I testi pseudopitagorici sopravvissero all'impero romano. Il testo Sulla natura del cosmo e dell'anima, attribuito a «Timeo di Locri», veniva ancora copiato nel Medioevo da studiosi convinti che da quest'antica opera pitagorica Platone avesse ricavato la sua cosmologia.

Copernico tradusse in latino la Lettera di Liside a Ipparco. Ci si comincia a rendere conto delle enormi difficoltà di ricerca per distinguere la realtà dalla finzione, che dovettero affrontare Diogene Laerzio, Porfirio e Giamblico.

12. CON OCCHI NEOPITAGORICI E TOLEMAICI

I e II secolo d. C.

Il forte fascino che continuava a sprigionare Pitagora tra filosofi e studiosi romani e alessandrini del I secolo a.C., condusse nel I e II secolo d.C. a un movimento chiamato platonismo medio o neopitagorismo. Sopravvivono di quel periodo libri e frammenti di testi scritti da persone potentemente attratte da quelle che ritenevano essere idee filosofiche e matematiche pitagoriche. Alcuni di quegli autori si autodefinivano pitagorici. Tutti consideravano Pitagora una sorgente, alcuni addirittura una sorgente unica, di una preziosa eredità intellettuale e filosofica che era arrivata fino a loro attraverso Platone. (1)

Continuò anche l'associazione di Pitagora con la magia e l'occulto.

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La versione del pitagorismo di Nigidio Figulo, nel I secolo d.C., contribuì a una popolarità sempre crescente di Pitagora e, stranamente, di Archita come maghi. Il desiderio di Nigidio di render vivo il pitagorismo come modo di vita e come approccio al mondo avrebbe attratto altre persone nei secoli seguenti.

Nessuno dei filosofi neopitagorici più importanti fu di Roma, ma tutti nacquero in altre parti dell'impero - Alessandria, come sarebbe stato prevedibile, ma anche l'attuale Turchia, la Siria, e persino la costa atlantica della Spagna. I gruppi cultuali fiorirono anche a Roma. Informazioni su uno di questi gruppi furono fornite da Lucio Anneo Seneca, eminente statista e oratore romano del I secolo d.C. nato in Spagna. Seneca fu allievo di Sozione, che appartenne a un movimento filosofico noto come quello dei sestiani. I fondatori del movimento, Quinto Sestio e suo figlio, erano uomini di forte fibra etica il cui ideale era la perfezione morale. Il loro era un approccio romano, robusto, in cui la cosa importante, in una filosofia, era in che modo incidere sul comportamento quotidiano e sulla vita pratica. I sestiani erano difficili da distinguere dagli stoici, ma due loro pratiche erano considerate decisamente «pitagoriche»: essi non mangiavano carne di animali e facevano un autoesame alla fine di ogni giornata per valutare i progressi o i peggioramenti della propria figura morale. Mentre non si trova traccia di quest'uso nelle antiche comunità pitagoriche, esso cominciò a essere associato ai «pitagorici» nel I secolo a.C. e Cicerone lo definì un «costume pitagorico».

Seneca lo descrisse come lo aveva appreso da Sozione; un sestiano si chiedeva: «Quale cattiva abitudine ho corretto oggi?», «A quale tentazione ho resistito?», «Sotto quali aspetti sono migliorato?» Interrogativi simili erano apparsi in un libriccino pseudopitagorico intitolato Versi aurei di Pitagora:

Non lasciare che il sonno chiuda i tuoi occhi stanchi senza esserti tre volte chiesto: Dove ho mancato?

Cosa ho fatto di male? Qual dovere ho trascurato? Astieniti se hai sbagliato, persevera se hai fatto bene. Medita: alle virtù divine saprò come condurti. (2)

Sozione aveva raccomandato anche a Seneca di aderire a una dieta vegetariana: «Non credi che in questo universo niente perisca, ma cambi semplicemente sede; e che non solo i corpi celesti si volgono per orbite fisse, ma anche gli esseri animati abbiano le loro fasi diverse e ogni anima ha la sua orbita? Eppure dei grandi uomini l'hanno creduto. [...] Se la dottrina è vera, l'astinenza

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dalle carni ci salva da un delitto; se è falsa, essa ci rende sobri». (3) Il padre di Seneca, che aborriva la filosofia, era contrario a tutto questo, ma Seneca lo ignorò ed evitò di mangiare carne per più di un anno, finché sotto il regno di Tiberio divenne pericoloso praticare quello che poteva essere considerato un culto straniero.

Un altro movimento simile a un culto fu guidato fra la metà e la fine del I secolo d.C. dal pittoresco ed eccentrico Apollonio di Tiana.

Sostenendo di essere Pitagora reincarnato, egli viaggiò nel mondo mediterraneo come un missionario pagano e come un autore di miracoli itinerante durante i regni di Nerone e di Vespasiano. In un tempio della Cilicia, non lontano dal suo luogo natale in Cappadocia, nell'attuale Turchia, Apollonio fondò la sua «Accademia» e «Liceo», «fino a che ogni tipo di filosofia non echeggiò in essi». (4) Scrisse una biografia di Pitagora, che alcuni dissero motteggiando dovesse essere una sorta di autobiografia, ma nessuno poteva rivaleggiare con la sua conoscenza delle leggende pitagoriche dei secoli passati.

Più di cento anni dopo la morte di Apollonio, avvenuta nel 97 d.C., l'imperatrice romana Giulia Domna riscoprì questo personaggio, forse attraverso un libro da lei trovato nella biblioteca imperiale.

Questa potente seconda moglie dell'imperatore Settimio Severo si circondò di filosofi e di intellettuali; su sua richiesta uno di loro, Filostrato, accettò di scrivere la biografia di Apollonio. Giulia Domna sperava forse di poter minare la crescente influenza del cristianesimo nell'impero romano attraverso la contrapposizione di Apollonio a Gesù. Altri avrebbero poi effettivamente usato la biografia di Apollonio a quello scopo.

Nel libro di Filostrato Vita di Apollonio di Tiana, l'autore fa compiere ad Apollonio un viaggio alla ricerca della sapienza sulle orme di Pitagora. (5) Apollonio scopre le fonti della dottrina di Pitagora, compresa la reincarnazione col ricordo di vite passate, non in Egitto o in Mesopotamia, bensì in India. In altri capitoli egli è in contatto con una sapienza sacra più vicina alla sua patria, avvolgendosi nel mantello del filosofo ed entrando in un sacrario in una caverna della Grecia centrale. Prima di entrare nella caverna, Apollonio annuncia: «Voglio discendere a favore della filosofia», e ne riemerge sette giorni dopo, non nel luogo da dove era entrato bensì ad Aulide, tenendo in mano un libro. Aveva domandato all'oracolo quale fosse la filosofìa più completa e più pura e si era scritto la

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risposta. Quel libro, scrisse Filostrato, «conteneva le opinioni di Pitagora, dal momento che l'oracolo concordava con questo tipo di sapienza». Il libro che Apollonio avrebbe allora portato fuori della caverna era conservato nella biblioteca imperiale dal tempo dell'imperatore Adriano. Attorno al tempo di Giulia Domna, all'inizio del III secolo d.C., molti pellegrini e viaggiatori venivano a vederlo.

Secondo la biografia scritta da Filostrato, Apollonio predicava l'astinenza dalla carne, dal vino e dal sesso come un mezzo necessario per avvicinarsi al mondo spirituale e vedere il futuro. La sua dottrina «pitagorica» comprendeva una sapienza soprannaturale, una universale tolleranza e un modo di vita dedicato alla purificazione che avrebbe infine liberato l'anima dalla prigione del corpo fisico, ma nessun indizio di magia o di stregoneria: un fatto straordinario in un'epoca in cui quasi nessuno ne negava l'esistenza. Secondo Filostrato era invece la sua natura divina a permettere ad Apollonio azioni soprannaturali, come quelle di essersi sottratto alla persecuzione da parte di due imperatori romani e di avere richiamato in vita una ragazza morta. Molti devoti credevano a ciò che leggevano ed eressero sacrari ad Apollonio. L'imperatore Caracalla gli eresse un tempio a Tiana, suo luogo di nascita. Benché egli fosse venerato ancora in epoca bizantina, non ebbe però la capacità di sopravvivenza del suo rivale cristiano.

L'interesse popolare per Pitagora non era limitato ai sestiani e ad Apollonio. Nel II secolo a.C. gli oracoli di Delfi, in Grecia, e di Didime e Claro sull'attuale costa turca non lontano da Samo, adottarono una fraseologia distintamente pitagorica. Il «profeta» Alessandro di Abonutico mescolò col suo pitagorismo credenze quasi mediche.

A un livello intellettuale più elevato, benché il «neopitagorismo» non sia mai stato una filosofia unificata, due temi unirono la maggior parte dei pensatori raggruppati sotto quella bandiera: l'antico assunto che la filosofia di Platone fosse derivata da quella di Pitagora, e la crescente convinzione che ci fosse un dio trascendente supremo. Questa tendenza aveva avuto inizio nella seconda metà del I secolo a.C., quando Eudoro di Alessandria — considerato il primo importante neopitagorico - dissodò un terreno nuovo con la propria interpretazione pitagorica di Platone, affermando che nella dottrina pitagorica l'Uno, il «dio supremo», trascendeva gli opposti limitato-illimitato e uno-pluralità. Nella sua tabella degli opposti, l'Uno era al centro molto in alto, e non apparteneva a nessuna delle due colonne. Questo cambiamento avrebbe avuto conseguenze importantissime per la

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filosofia e per la religione. Per Eudoro il nome «Pitagora» cominciò a diventare una parola in codice per indicare un modo di pensare in cui l'Uno trascendeva tutto, qualcosa che cominciava a somigliare al monoteismo. L'interpretazione che i pitagorici diedero di Eudoro li aveva indotti a credere che il dio supremo invisibile e la fonte dell'armonia fossero accessibili alla mente umana. La suprema aspirazione umana era «diventare come dio, ma Platone lo aveva detto più chiaramente, aggiungendo "nella misura del possibile"». (6) Eudoro stava preparando il terreno a molti che lo avrebbero seguito.

Il filosofo greco-ebraico Filone di Alessandria era più giovane di Eudoro di circa due generazioni. La comunità ebraica alessandrina a cui apparteneva la sua famiglia era vecchia come la città: una grande popolazione prospera che aveva lavorato duro per più di tre secoli per restare in buoni rapporti con i propri vicini egizi e greci. (7) Sotto il governo romano la loro situazione fu al tempo stesso favorita e compromessa dagli speciali privilegi concessi loro dai romani. Le relazioni romano-ebraiche erano tuttavia precarie. Filone fece parte di una delegazione ebraico-alessandrina recatasi a Roma, la quale non riuscì a opporsi al progetto dell'imperatore Caligola, che si riteneva un dio, di far erigere la propria statua nel tempio a Gerusalemme.

Filone era un uomo devoto che faceva pellegrinaggi a Gerusalemme, dove il grande tempio era ancora in piedi, ma i suoi genitori ricchi e influenti si erano assicurati che ricevesse un'istruzione profondamente greco-ellenistica. Egli era quindi al tempo stesso un ebreo devoto e un platonico.

Come Eudoro, Filone pensava che Platone avesse insegnato che un dio supremo era una condizione primaria per tutto ciò che esisteva nell'universo, e che avesse tratto queste tendenze trascendenti da Pitagora. Filone citò Filolao: «Un dio, che è per sempre, è principe e sovrano di tutte le cose, stabile, immobile, simile a se stesso, e diverso da altri». (8) Il viaggio dell'anima verso dio era il compito ultimo della vita, e, per Filone, le Sacre Scritture ebraiche esemplificavano quel viaggio. Egli vide la vita di Mosè e quella di Abramo come esempi del pellegrinaggio dell'anima verso Dio. (9) Adamo era intelletto, Eva sensazione; Caino e Abele un'anima lacerata nelle opposte direzioni del male e del bene. L'interpretazione pitagorica della Genesi data da Filone concesse una speciale attenzione al «quarto giorno», quando Dio completò la creazione del cielo. Il numero 4 conteneva i rapporti musicali trovati nella struttura del cielo e rappresentava le quattro fasi nella creazione dei pianeti: punto, linea, superficie,

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solido. I rapporti musicali contenevano anche il numero 3, che rappresentava le tre dimensioni dei corpi creati: lunghezza, larghezza, profondità. I numeri erano le idee e gli strumenti di Dio nella creazione; anch'essi rendevano possibile all'uomo la comprensione del cielo.

Meditando sul problema della possibile esistenza di una cosa come il «tempo» prima della creazione dell'universo, Filone rimase avviluppato nel problema se fossero stati i pitagorici o Aristotele a suggerire per primi che l'universo sia eterno, e citò erroneamente il De universi natura di Ocello Lucano come prova che erano stati i pitagorici. Anticipando il concetto del tempo formulato dal filosofo cristiano Agostino di Ippona, Filone sottolineò che «prima della creazione del mondo non c'era tempo, ma esso cominciò a esistere o col mondo o dopo di esso». (10)

Alcuni hanno definito Filone un filosofo greco rimasto radicato nella sua religione; altri un mistico ebraico che usò gli strumenti del pensiero greco al servizio della sua religione. (11) Egli combinò la pratica (presente sia nella tradizione greca sia in quella ebraica) di trarre lezioni da Omero o dalle Sacre Scritture con la sua sottile comprensione della filosofìa greca, e sviluppò un'interpretazione filosofica delle Scritture con cui sperò di guadagnarsi il rispetto fra gli intel lettuali greci. Il suo impatto sui filosofi greci non fu però così grande come aveva sperato. Pare che nessun filosofo pagano posteriore lo abbia menzionato direttamente. (12) Furono invece i primi scrittori cristiani a seguire la sua guida e a usare come lui il metodo allegorico per riconciliare la verità rivelata con una verità elaborata intellettualmente. Clemente di Alessandria e Origene furono suoi ammiratori (Clemente lo soprannominò Filone il Pitagorico) e generazioni di dotti cristiani antichi e medievali preservarono e copiarono con cura le sue opere, cosicché oggi sopravvive intatta una quantità straordinaria di ciò che ha scritto. (*)

Il poeta romano Ovidio, contemporaneo di Filone, colse nelle sue Metamorfosi l'immagine più popolare di Pitagora: il saggio onnisciente di leggendaria antichità con un'aura di sapienza universale sovrumana. Ovidio richiamò in vita l'antica leggenda sul re romano Numa e fece parlare Pitagora attraverso di lui, in un discorso che insisteva sulla dottrina della reincarnazione e dell'astensione dal consumo di carne, per lo più per rispetto e simpatia verso gli animali. Ovidio non si proponeva di filosofare secondo un orientamento pitagorico o di discutere la dottrina pitagorica. Il discorso di Numa faceva parte di un quadro più vasto dipinto da Ovidio nel suo poema, in cui tutto cambia, muta, si trasforma, nulla dura, e «l'inventrice natura inventa senza posa». Di qui il titolo di metamorfosi.

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Plutarco, che operò tra la seconda metà del I secolo d.C. e l'inizio del II, fu più influente di Filone o di Ovidio nel plasmare l'immagine di Pitagora per il futuro. Le sue Vite parallele appaiarono biografie di greci e romani famosi, in un tentativo di trovare modi per risolvere le differenze fra la cultura romana del potere e la cultura intellettuale greca. Quanto ci si possa fidare dei dettagli storici e biografici forniti da Plutarco è stato un problema frustrante e spesso insolubile, ma questa circostanza non ha impedito alle Vite di diventare l'opera su cui dal Rinascimento a oggi molti lettori si sono fondati per capire e raffigurarsi il mondo antico. Plutarco fu uno degli autori preferiti da Shakespeare. (**) Anche Copernico lesse Plutarco, e

* Ci fu una leggenda su un Filone cristiano, e persino una su un vescovo Filone, e una storia in cui egli incontra l'apostolo Pietro.

** Shakespeare trovò nelle Vite parallele le storie di Antonio e Cleopatra, Timone di Atene e Coriolano, usando a volte quasi alla lettera le parole di Plutarco (che leggeva in traduzione) e cambiandole solo quel tanto che bastava a trasformarle in versi.

Plutarco, da una xilografia del Cinquecento. citò in greco dai Placita philosophorum, nella lettera dedicatoria al papa Paolo III, un passo in cui Plutarco aveva scritto che secondo il «pitagorico Filolao» la Terra si muoveva intorno a un fuoco centrale. Come Platone e Cicerone, Plutarco scrisse un mito complesso sulla sorte dell'anima. (13) Nei suoi ultimi trent'anni di vita Plutarco fu sacerdote di Apollo a Delfi, e trovò un'interpretazione pitagorica del nome del dio, assimilandolo all'Uno. La a iniziale di Apollon sarebbe un'«alfa privativa», e significherebbe «non», mentre pollon significava «molti». Perciò a-pollon era sinonimo di Uno. Data l'influenza di Plutarco, è importante che egli abbia connesso Pitagora col teorema che va sotto il suo nome. È in gran parte proprio grazie a Plutarco se quasi tutti credono che il teorema sia stato scoperto da Pitagora.

Fra quanti pensavano che Platone avesse derivato le sue idee da Pitagora, nessun altro fu così convinto e deciso come Moderato di Gades, noto come il «pitagorico aggressivo». Egli visse nella seconda metà del I secolo a Gades (in seguito Cadice) sulla costa occidentale della Spagna, che faceva allora parte dell'impero romano. Moderato potè essere chiamato il teorico della cospirazione

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contro i pitagorici, avendo sostenuto la tesi che non soltanto Platone ma anche Aristo tele, Speusippo, Aristosseno e Senocrate furono plagiari e «si appropriarono del frutto più bello del pensiero pitagorico», descrivendo come «pitagorici» solo gli aspetti più superficiali e banali della Scuola, in modo da esporre al dileggio Pitagora e i pitagorici. (14) Gli aforismi erano fra quegli «aspetti più superficiali e banali» e la loro elencazione da parte di Aristotele era, secondo Moderato, un comportamento malevolo. Egli disprezzava gli acusmatici, e la sua risposta all'argomento che anche Aristosseno li aveva disprezzati era che l'atteggiamento di Aristosseno era una parte singolarmente sottile del progetto di propaganda contro i veri pitagorici.

Moderato aveva una nuova spiegazione sull'uso dei numeri da parte dei pitagorici, la quale aiutava a spiegare secondo lui come fosse stato architettato il plagio. I pitagorici, «per poter fornire un'esposizione lucida», fecero saggiamente ricorso a una «spiegazione per mezzo di numeri», essendo molto difficile spiegare in modo chiaro i primi princìpi e le forme primarie per mezzo del linguaggio. (15) Per esempio, dire che l'Uno era superiore a ogni altra cosa non significava che il numero 1 fosse il principio fondamentale dell'universo.

L'Uno stava invece per un grande principio unificatore implicante uguaglianza, tutto ciò che causa stabilità e immutabilità, l'assenza di «diversità», «alterità». I pitagorici avevano espresso in un «linguaggio» di numeri tutto ciò che Platone avrebbe in seguito tentato di esprimere a parole. Moderato aveva abilmente aggirato l'ostacolo frapposto da Aristotele, la nozione che i numeri fossero, per i pitagorici, sia astrazioni sia i materiali da costruzione fisici dell'universo. In effetti, egli aveva fatto un salto in pieno XX secolo, quando alcuni scienziati avevano trovato più facile descrivere il mondo quantistico e l'origine dell'universo in formule matematiche che in termini descrittivi più o meno imprecisi.

In precedenza c'erano stati indizi di una visione del mondo in cui la materia fisica era considerata un male o almeno negativa, e in Moderato questa visione apparve con molto maggiore evidenza. La materia fisica era un'«ombra», e questo fatto, per lui, significava qualcosa di molto più negativo di quanto non fosse stato per Platone. Era «non-essere». Moderato pensava però che ogni cosa, compresa la materia, venisse dall'Uno, e che l'Uno fosse il «Bene». Egli non affrontò il problema di come qualcosa di totalmente buono potesse produrre il male, ma il problema dell'origine del male stava cominciando a profilarsi sull'orizzonte filosofico.

All'estremo opposto dell'impero romano, intorno al 125 d.C.,

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Teone di Smirne scrisse l'opera Tà katà tò mathematikòn krésima eis ten Platonos anagnosin (Conoscenze matematiche utili alla comprensione di Platone). L'opera comprendeva aritmetica, armonia, astronomia, geometria, il simbolismo dei numeri da 1 a 10, varie forme della tetraktys, e il suo collegamento con la musica e col cosmo. (16) «Colui che lo rese possibile fu Pitagora», scrisse Teone, «ed è stato detto che la tetraktys sia stata in effetti scoperta da lui.» Un brano sembrava una sorta di collage di quasi tutto ciò che pareva essere stato pitagorico, o si era pensato che lo fosse, fino al tempo di Teone. Ma se la matematica di Teone era «utile», molto più utile sarebbe stata, nel bene o nel male, e per un periodo di tempo assai lungo, quella di Nicomaco di Gerasa, appartenente alla generazione successiva, ossia alla metà del II secolo. Nicomaco fu uno di quei matematici che rifiutarono i teoremi astratti di Euclide e le loro dimostrazioni, preferendo aderire a quella che pensavano fosse la matematica «pitagorica» e offrire solo esempi numerici. La sua Introductio arithmetica (Introduzione all'aritmetica) non intendeva essere un contributo originale a questa scienza ma essenzialmente un libro di testo, e lo fu per più di mille anni, fino al Rinascimento. I brani iniziali erano un peana a Pitagora, e fu in gran parte grazie a questo se per secoli — per molto altro tempo dopo il Rinascimento — i pitagorici furono considerati la fonte della matematica greca. W.K.C.

Guthrie non sopravvalutò questo aspetto della situazione quando scrisse:

Tutti si imbattono per la prima volta nel nome di Pitagora studiando matematica a scuola, ed è stato così fin dai primissimi tempi della tradizione culturale occidentale. Nessuno degli antichi testi che formarono la base del curriculum medievale dimentica Pitagora [...]. All'origine di questa tradizione c'è Nicomaco. (17)

Nicomaco scrisse anche un Harmonicum enchiridium (Manuale di armonia), che collegava i rapporti della musica con i moti dei corpi celesti. Il libro ci è pervenuto completo, mentre la sua opera in due volumi dichiaratamente pitagorica Theologia arithmetica (Teologia dei numeri) sopravvive solo in frammenti. Nicomaco istituì una correlazione fra i numeri da 1 a 10 e gli dèi dell'Olimpo che Giamblico e Proclo avrebbero in seguito usato come ultimo sforzo difensivo contro il cristianesimo, a favore della filosofia greca e della religione pa gana. (18) La Vita Pythagorae di Nicomaco, oggi perduta, fu una fonte per le storie di miracoli pitagorici. (*)

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La tradizione filosofica neopitagorica si concluse con una nota forte in uno straordinario scrittore e pensatore, Numenio di Apamea.

Nato in Siria, produsse la sua opera più importante, della quale sopravvivono solo frammenti, intorno al 160 d.C. I suoi libri rimasero però disponibili abbastanza a lungo per poter essere letti e discussi nel secolo seguente da Porfirio e altri, quando studiavano col filosofo Plotino. (**)

Numenio credeva che gli insegnamenti dell'Accademia di Platone nella loro forma più pura provenissero da Pitagora, ma voleva sapere da dove Pitagora avesse a sua volta tratto le sue idee e le sue conoscenze. Egli prese alla lettera tutte le storie dei viaggi di Pitagora, e portò in luce quella che gli sembrava una filosofia «platonica» (che Platone aveva ricevuto attraverso Pitagora) fra gli egizi, i popoli antichi dell'India e i magi della Mesopotamia, come pure nelle Sacre Scritture degli ebrei. Il suo intento era quello di ricondurre la conoscenza alle sue antiche e supreme fonti primigenie, poiché, a suo giudizio, tutto era derivato di là. «Chi è Platone se non un Mosè che parla in greco?» domandò, e ripetè la storia di Mosè e delle piaghe d'Egitto da un punto di vista più egiziano, nel quale i maghi del faraone ebbero più fortuna nel combattere le piaghe di quanta non ne avessero nella Bibbia.

Secondo l'opera più ambiziosa di Numenio, il trattato Sul bene, in sei volumi, «il Bene» o «il Primo Dio» (quello che altri neopitagorici chiamavano l'Uno) non era del tutto inaccessibile. Le per

* Nicomaco fu molto interessato a una pseudoscienza chiamata gematria, la quale non era un'invenzione dei pitagorici ma aveva avuto origine nell'antica Babilonia ed era sopravvissuta nell'antica Grecia e nel periodo ellenistico. Nella gematria ogni lettera dell'alfabeto aveva un valore numerico. Una parola poteva quindi essere scritta in numeri. Sargon II, nel secolo precedente alla morte di Pitagora, aveva fatto costruire la cinta muraria di Khorsabad, la cui lunghezza era stata determinata in 16.283 cubiti, che erano l'equivalente numerico del suo nome. Il nome della divinità gnostica di Abraxas aveva il valore numerico di 365, il numero dei giorni in un anno solare. Nicomaco non sostenne che la gematria fosse una pratica pitagorica, ed effettivamente non lo era.

** Plotino usò e sviluppò i pensieri di Numenio così estesamente da essere accusato di plagio. Un collega venne in suo aiuto scrivendo un intero libro per sottolineare le differenze fra i due.

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cezioni dei sensi non erano utili, ma un essere umano poteva sforzarsi di trovare un accesso. In un passo di grande raffinatezza, Numenio descrisse il grado di solitudine necessario per accostarsi al Bene o al Primo Dio:

Come qualcuno seduto in un posto di vedetta che, strizzando gli occhi, riesce a cogliere di sfuggita una di quelle piccole barche da pesca, una barca con un solo uomo, isolata, inghiottita dalle onde, anche in una tale situazione ci si deve allontanare dalle cose dei sensi, e associarsi soli col Bene solo, dove non c'è né alcun essere umano né un qualsiasi essere vivente, né alcun corpo grande o piccolo bensì una mirabile solitudine, indicibile e veramente indescrivibile: qui sono i luoghi consueti, le presenze e celebrazioni del Bene, e il Bene stesso in pace, in benevolenza, il tranquillo, il sovrano, graziosamente a cavallo dell'Essere. (19)

Numenio raccomandava inoltre un approccio più attivo, consigliando di trascurare le cose «sensibili» e di dedicarsi entusiasticamente all'apprendimento delle scienze e allo studio dei numeri, in modo da conseguire la conoscenza dell'Essere. (20) Numenio non considerava Platone uno dei vertici della storia della conoscenza — bensì una parte di un complesso declinante —, ma dimostrava comunque di apprezzarlo e gli rivolse un complimento, seppure non privo di ambiguità: «Non fu superiore al grande Pitagora, ma forse nemmeno inferiore».

Definì Socrate un pitagorico, e Platone un brillante mediatore fra Pitagora e Socrate.

Numenio introdusse una dottrina di «tre dèi» che definì «tipicamente pitagorica». Anche se si potevano trovare suggerimenti di quest'idea nelle opere di altri neopitagorici (per esempio Moderato pensava che i pitagorici credessero in tre «unità»), in Platone e nella letteratura pseudopitagorica l'espressione «tipicamente pitagorico» era un'esagerazione. I passi di Numenio sui «tre dèi» suggeriscono che egli stava aderendo alla teologia di Pitagora/Platone e al politeismo del mondo pagano, volgendosi forse al tempo stesso verso il concetto della trinità cristiana: un tentativo molto forzato di conciliare posizioni intellettuali e teologiche diverse. Egli vide il bisogno filosofico di un trio di ruoli nella creazione e nel mantenimento dell'universo e si avvicinò a quelli che altri avrebbero chiamato il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.

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Il Primo Dio di Numenio era intrinsecamente buono, fonte di tutta la bontà e, più di ogni altra cosa, era razionale, un intelletto: un punto che i primi pitagorici avevano toccato nella scoperta dei rapporti dell'armonia musicale. Questo dio era «il Bene» di Platone, «l'Uno» dei pitagorici e dei neopitagorici. Il «pensiero» di questo dio era la sorgente della vita. Nell'opera di Numenio - una mente profondamente informata da Platone, che però andava oltre lui quella che era arrivata ai primi pitagorici come una rivelazione stava ricevendo infine una brillante elaborazione filosofica e teologica.

Il Secondo Dio di Numenio era responsabile della reincarnazione delle anime ed era anche un mediatore fra il Primo Dio e il mondo materiale, umano, fisico; esso doveva avere perciò due nature per poterle comprendere appieno entrambe. Numenio rifletté molto sui ruoli del Secondo Dio e sui paradossi in gioco. Difficoltà che sarebbero state oggetto di controversie nella Chiesa cristiana primitiva sulla natura di Cristo stavano già ricevendo una profonda considerazione da parte del pagano Numenio.

Il Terzo Dio era o il cosmo creato o l'anima del mondo. Numenio non chiarì le sue idee optando per la prima o per la seconda possibilità, dando l'impressione che per lui questo problema non fosse importante. Egli colpì però con forza una nota nella tradizione ebraicocristiana della creazione (Numenio amava la Bibbia) quando scrisse che «la natura e l'Essere che possiede la conoscenza è la stessa nel dio che dà e in voi e in me che riceviamo». Egli depose tutto questo ai piedi di Pitagora con le parole: «e questo è ciò che intendeva Platone quando disse che la sapienza era stata portata da Prometeo all'umanità insieme al più luminoso dei fuochi». Da quando Platone scrisse quelle parole, il mondo intellettuale ha sempre pensato che stesse parlando di Pitagora. Numenio non dissentì.

Con lui il problema dell'origine del male sollevò infine la testa nella filosofia occidentale. Numenio scrisse che tutti gli esseri viventi, compreso il mondo stesso, hanno due anime. L'anima buona era quella a cui si riferiva quando scrisse che «la natura e l'Essere che possiede la conoscenza è la stessa nel dio che dà e in voi e in me che riceviamo». L'anima cattiva era quella composta dalla materia primordiale che aveva origine prima che qualsiasi dio «la adornasse con forma e ordine». Qual era l'origine dell'anima cattiva? C'era forse un'unica sorgente di tutto, un dio buono che poi «si ritirava dalla propria natura», come si espresse Numenio, per fare spazio anche all'esistenza del male? (Ponendo la domanda in termini pitagorici: l'Uno dovette rinunciare a qualcosa di se stesso perché potessero esistere la

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«pluralità» e la parte restante di una tabella degli opposti, compreso il contrario del bene, ossia il male?) La risposta di Numenio fu: no. Il male non emerse dal Bene o da Dio. Bene o Dio non rinunciarono a nulla né si trassero da parte. Il Male era altrettanto antico del Bene.

Non c'era un Uno che sovrastasse i due opposti. Tanto il male quanto il bene facevano parte della realtà primordiale. Qualsiasi altra cosa era un'interpretazione scorretta che era emersa quando «alcuni pitagorici non compresero questa dottrina». (21)

Dopo Numenio divenne impossibile differenziare il neopitagorismo dal neoplatonismo.

Verso la fine del II secolo d.C., Tolomeo, che non si considerava un pitagorico e a volte era anche un po' critico nei confronti dei pitagorici, riprese con forza l'idea dell'armonia delle sfere e le diede un lungo futuro. Egli visse e lavorò ad Alessandria occupandosi di una grande varietà di discipline, fra cui l'acustica, la teoria musicale, l'ottica, la geografia e la cartografia. La sua idea più brillante fu quella di comporre, a partire da idee e conoscenze precedenti e dal suo genio matematico, l'astronomia geocentrica che avrebbe dominato il pensiero occidentale sul cosmo per molto più di un millennio. Anche il libro di Tolomeo Armoniche ebbe un forte impatto sulla storia della scienza, grazie soprattutto a Keplero, che lo lesse nel Seicento. Una delle fonti di Tolomeo fu probabilmente Archita.

Tolomeo sapeva che l'armonia in musica si fondava su proporzioni matematiche che si manifestavano nel suono, e concordò con i pitagorici più antichi che ci sono princìpi matematici alla base dell'intero universo, compresi i moti dei corpi celesti e la composizione dell'anima umana. Egli dedicò nove capitoli dell'opera Armoniche all'armonia delle sfere, applicando la teoria armonica ai moti planetari.

Uno dei princìpi seguiti da Tolomeo fu quello di «salvare le apparenze», o meglio «i fenomeni» (sózein ta phainómena), ossia di non costruire teorie che fossero in contraddizione con i moti osservati dei corpi celesti. Egli non avrebbe proposto dieci corpi celesti a causa dell'importanza del numero 10 se non avesse potuto osservare tale numero nei fenomeni celesti. L'astronomia tolemaica dà superficialmente, a occhi moderni, l'impressione che il suo creatore abbia sviluppato regole e schemi senza aver mai dato un'occhiata al cielo.

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In effetti, Keplero scrisse che, «come lo Scipione di Cicerone, egli sembra aver recitato una sorta di sogno pitagorico più che aver fatto

Tolomeo, in un'illustrazione di un libro del Rinascimento.

avanzare la conoscenza». (22) Ma prove che oggi sembrano schiaccianti non potevano essere scoperte al tempo di Tolomeo. Quando Aristarco di Samo, nel III secolo a.C., aveva proposto un'astronomia eliocentrica, la sua teoria era stata rifiutata per la solida ragione che non esistevano, semplicemente, prove a suo favore. Per Tolomeo, con l'armonia musicale, «quel che si vedeva realmente accadere» in cielo si traduceva in ciò che si udiva realmente accadere. Il giudizio dell'orecchio umano su ciò che era piacevole era di primaria importanza quando si consideravano delle possibilità teoriche.

Il sistema di armonia celeste elaborato da Tolomeo era più complicato dei precedenti. I primi pitagorici potevano avere collegato gli intervalli dell'ottava, della quarta e della quinta (anziché una scala completa) a un ordinamento cosmico. O forse il cosmo di dieci corpi, con un'ottava che separava il fuoco centrale e il fuoco esterno, costituiva una scala completa una volta che erano occupati tutti gli intervalli intermedi. Il «mito di Er» di Platone e il «sogno di Scipione» di Cicerone proponevano scale cosmiche, rispettivamente, di otto o sette note. Plinio, più specificamente, avrebbe fatto suonare al cosmo la scala seguente:

Terra (tono intero) do Luna (semitono) re Mercurio (semitono) mi bemolle Venere (un tono e mezzo) mi Sole (tono intero) sol Marte (semitono) la Giove (semitono) si bemolle Saturno (un tono e mezzo) si stelle re. (23) (*)

Anche Nicomaco, vissuto prima di Tolomeo nello stesso secolo, aveva assegnato note a ciascun pianeta, ma nella sua scala la Terra era muta essendo ancora immobile.

Quando Tolomeo elaborò il suo sistema, considerò il suo lavoro così importante da fissarne il ricordo su una lastra in pietra a Canopo, nei pressi di Alessandria. (24) Egli pensava di avere istituito una connessione con la sapienza antica, riportando il concetto di musica delle sfere a qualcosa di vicino all'originale pitagorico. Venere e Mercurio condividevano una nota; le stelle erano nel coro, con la nota più alta; i quattro elementi terrestri suonavano le due note

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più basse. Forse per la prima volta dal tempo degli antichi pitagorici, gli intervalli usati erano più grandi del tono, del semitono e del tono e mezzo. Bruce Stephenson - il quale scrisse che l'iscrizione di Tolomeo a Canopo è così difficile da interpretare che nessuno può sostenere di capirla per intero e di averla decifrata correttamente - fece tuttavia il seguente tentativo. (25) Le note (su un pianoforte) sono gros

* Questa scala assomma a più di un'ottava, problema che può essere risolto facilmente modificando l'intervallo fra Saturno e le stelle fisse a semitono, ed è questo il modo in cui i teorici musicali della tarda antichità corressero Plinio. Un semitono è l'intervallo fra un tasto e il successivo (bianco o nero) su un pianoforte.

so modo equivalenti a come sarebbero state nell'accordatura nella tarda antichità:

Stelle fisse re (un tono intero sopra Saturno)

Saturno do (una quarta sopra Giove)

Giove sol (una quarta sopra il Sole e un tono intero sopra Marte)

Marte fa (una quarta sopra Venere e Mercurio)

Sole re (un tono intero sopra Venere e Mercurio)

Venere e Mercurio do (una quarta sopra la Luna)

Luna sol (una quarta sopra fuoco e aria) fuoco, aria re (un tono intero sopra acqua e terra) acqua, terra do

Quella che potrebbe essere stata la parte più importante delle Armoniche di Tolomeo andò perduta prima del Medioevo. Non è certo se qualche testo ricuperato nel Trecento dal dotto bizantino Niceforo Grègora appartenga realmente alla parte perduta delle Armoniche.

Nel Seicento Keplero tradusse l'opera di Tolomeo e tentò di ricostruire gli ultimi tre capitoli: un esercizio che lo aiutò a trovare la via ad alcune delle sue scoperte più importanti. Nonostante la scarsità dei dettagli della teoria musicale di Tolomeo che si sono conservati e il fatto che anche ciò che rimane non sia stato compreso completamente, scrisse Stephenson, quel che è chiaro oggi - ed era chiaro a Keplero all'inizio del Seicento - è la convinzione di Tolomeo che il moto ordinato, in cielo come in musica, seguiva solo certi tipi di regolarità, cosicché lo

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studio delle regolarità presenti in un campo poteva in teoria chiarire quelle nell'altro. Un moto razionale obbediva dappertutto alle stesse leggi, nelle sfere celesti come nelle corde della lira, non per ragioni mistiche, ma proprio perché quelle erano le leggi del moto razionale [...].

I moti delle sfere planetarie potevano similmente essere intesi in un modo più profondo attraverso la consapevolezza dei princìpi che condividevano con l'armonia musicale. Nelle Armoniche di Tolomeo si supponeva che connessioni come queste fossero razionali, nonostante la convinzione che non fossero ancora comprese nei particolari. (26)

In Tolomeo era presente la convinzione che l'universo sia razionale e che i rapporti numerici siano alla base della natura, come pure l'idea che l'intera creazione sia connessa da un'armonia universale. Ma gli uomini, se si può considerare Tolomeo un esempio attendibile, pur non essendo meno ossessionati dal desiderio di scoprire quest'armonia, erano diventati più pazienti nell'identificazione di esempi, meno inclini a forzare i modelli, e un po' più disposti a imparare dalla natura stessa come funzionano i numeri.

13 RIEPILOGO DELL'ANTICHITÀ

Dal III al VII secolo d. C.

Diogene Laerzio, il primo autore di una biografia di Pitagora che sia sostanzialmente sopravvissuta fino a oggi, era nato forse nella cittadina di Laerte in Cilicia - regione che ai tempi della repubblica di Roma era la temuta «Costa dei Pirati» ed è oggi la Turchia sudorientale — oppure era membro della facoltosa famiglia romana dei Laerzii, e in questo caso dev'essere nato a Roma. Scrisse probabilmente verso la fine del II secolo o all'inizio del III, durante i periodi di regno dell'imperatore Settimio Severo e di suo figlio Caracalla. Non solo non si

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conosce nulla di certo sulla sua biografia, ma egli non mise mai nulla per iscritto sulla sua filosofia.

Leggendo la sua biografia di Pitagora, però, ci si fa un'idea abbastanza attendibile di lui. Il suo metodo di ricerca lo distingue da ogni altro e fa di lui uno scrittore delizioso. Raccogliendo tutte le informazioni disponibili, spesso in briciole, compose una collezione di materiale biografico e bibliografico scritto in modo piuttosto informale, compendi di dottrine, detti di filosofi, sue poesie su vari filosofi, oltre a storie comiche e scandalose. Per lo più citò scrupolosamente le sue fonti, e si dilettava a contrapporre un'informazione a un'altra, a volte soffermandosi nel tentativo di stimarne la credibilità.

La massima attrattiva e il massimo valore delle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio provengono dalle citazioni (a volte piuttosto lunghe) di autori le cui opere sono andate altrimenti perdute. Molte sue fonti sono del tutto ignote se si prescinde dalla sua menzione e dai brani che ne cita. La vita di Pitagora è il primo capitolo dell'VIII dei dieci libri delle sue Vite.

Molto di più si può dire di Porfirio e di Giamblico, due filosofi neoplatonici importanti. Giamblico fu allievo di Porfirio, e Porfirio fu a sua volta un discepolo dell'eminente filosofo romano Plotino.

Porfirio visse poco tempo dopo Diogene Laerzio. Era nato intorno al 233 d.C. a Tiro, in Fenicia (oggi nel Libano meridionale, che allora faceva parte dell'impero romano), cosa che potrebbe spiegare perché fu l'unico dei tre biografi a collegare il padre di Pitagora a Ti ro. «Porfirio» non era il nome che gli avevano dato i suoi genitori.

Egli si chiamava in realtà Malco («re»), e cambiò il nome ad Atene, quando aveva poco più di vent'anni, su suggerimento del suo maestro, il filosofo Longino. Questi sapeva che il luogo di nascita di Malco era famoso per la produzione della porpora, un colorante che si otteneva pestando le conchiglie dei murici e di altri molluschi e mescolandole con miele. La porpora era molto pregiata e costosa, tanto che venne a simboleggiare la regalità e le cariche civili e religiose più alte. La connessione Malco/Re e Porpora (Porfirio)/Regalità suggerì presumibilmente il nome di Porfirio, che inizialmente fu forse solo il soprannome usato da Longino per lui.

Per dieci anni Porfirio si immerse nello studio della dottrina platonica e pitagorica stando seduto ai piedi di Longino, che qualcuno descrisse come «una biblioteca vivente e un museo ambulante», e in questo periodo pubblicò alcuni

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oracoli non ufficiali, espressioni di medium messi in stato di trance in sedute private. (1) Quando si trasferì a Roma per studiare con l'ancora più eminente Plotino, che stava portando avanti temi pitagorici e platonici e i pensieri di altri filosofi del passato in una sintesi creativa propria, il suo nuovo docente lo trasformò in un perfetto fautore di un approccio razionale, intellettuale, alla verità. Né Porfirio né Plotino sminuirono però mai l'importanza della magia e del soprannaturale. E lo storico Eric R. Dodds scrisse di questo pericolo: «C'era, nel III secolo, qualcuno capace di negarla?» (2)

I romani stavano cercando incoraggiamento dovunque potessero trovarlo, nel naturale o nel soprannaturale. (3) Le guerre civili si susseguivano l'una all'altra. La notizia che Roma aveva un nuovo imperatore non aveva a volte neppure il tempo di diffondersi nell'impero prima di essere già superata. Roma era impegnata in conflitti dai costi rovinosi su due fronti: con i persiani in Oriente e con i goti e altre tribù germaniche a nord-est sui confini fluviali europei e sul mar Nero. Settimio Severo — il marito di Giulia Domna — e suo figlio Caracalla avevano costruito a Roma all'inizio del secolo le complesse Terme di Caracalla, ma la maggior parte dei decenni trascorsi da allora erano stati un periodo di austerità imposta, in cui i civili rinunciavano a quasi ogni agio e divertimento per avere la certezza che le legioni romane potessero essere pagate e rimanessero leali. Infuriavano le epidemie, le finanze imperiali erano in uno stato disastroso. Le monete romane contenevano sempre meno oro e argento, il denaro era sempre più svalutato, e fra il 258 e il 275 i prezzi aumentarono di quasi il 1000 per cento. Questo collasso avrebbe colpito Porfirio qua si dovunque si fosse trovato a vivere nell'impero, ma egli si trovava proprio a Roma, nel suo centro.

In mezzo a quella che per molti era la miseria più nera, Plotino continuava a insegnare. Tenne seminari, scrisse saggi (raccolti da Porfirio nei sei libri delle Enneadi) ed entrò in ambienti aristocratici fra cui la corte dell'imperatore Gallieno, che aveva ambizioni intellettuali e filosofiche e che a quanto pare apprezzò la compagnia del filosofo. Edward Gibbon descrisse candidamente Gallieno come maestro in molte curiose ma inutili scienze, oratore pronto ed elegante poeta, attento giardiniere, cuoco eccellente, e spregevolissimo principe. Quando le contingenze eccezionali dello Stato richiedevano la sua presenza e le sue cure, si impegnava in conversazioni col filosofo Plotino, perdeva il suo tempo in frivoli e licenziosi piaceri, si preparava a essere iniziato ai misteri greci, o sollecitava un posto nell'Areopago di Atene. (4)

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Gallieno accolse con entusiasmo il piano di Plotino di creare la Repubblica di Platone nella campagna romana. Quando l'interesse dell'imperatore svanì l'idea fu abbandonata e la città di Platonopoli non fu mai costruita.

Il maestro di Porfirio aveva una grandissima considerazione per il concetto pitagorico e neopitagorico dell'Uno. Esso era, per Plotino, il Primo Principio, che trascendeva ogni altra cosa. L'Uno, lo Spirito e l'Anima erano la sua trinità. Porfirio lo udì insegnare che non era possibile nemmeno pensare l'Uno, e tanto meno definirlo. In esso non c'era alcun movimento né alcun numero. Era solo Uno, unità, realtà e bene puri e assoluti, che non cambiavano né diminuivano mai. (5) L'Uno di Plotino era molto vicino al concetto di Dio del cristianesimo, ma con la differenza che non interveniva mai nel mondo. Esso restava esterno, fuori da tutti i livelli d'ordine dell'essere.

Eppure, nelle parole dello storico Michael Grant, Plotino pensava che l'Uno «si riversasse in un eterno flusso di generazione verso il basso che porta all'essere tutti i diversi livelli ordinati del mondo quali li conosciamo in un impeto maestoso e spontaneo di forme di vita». (6) Ciò significava che tutti i livelli del cosmo, tutti i livelli dell'esistenza, tutti gli esseri viventi, erano collegati. I corpi mortali erano vili e degradati, ma ogni anima aveva la potenzialità di salire a riunirsi con l'Uno per mezzo di lavoro e disciplina intellettuali, e la vita stessa implicava un desiderio di quella riunione. La ricerca richiedeva l'eliminazione di spazio, tempo e corpo in un nulla ancora più profondo della solitudine della piccola barca di Numenio per un singolo pescatore. Plotino sostenne di avere sperimentato personalmente quest'unione mistica, e che in essa non c'era niente di magico, eccezion fatta per «la vera magia, che è la somma dell'amore e dell'odio nell'universo». (7)

Questa filosofia che Porfirio stava studiando non era deprimente ma - forse a causa delle condizioni vigenti a Roma o per ragioni personali - egli cadde in una condizione di profonda melancolia e pensò di togliersi la vita. Plotino lo convinse a viaggiare, cosicché egli si recò in Sicilia. Nel 269 o 270, poco tempo dopo essersi ritirato in campagna, Plotino morì e Porfirio tornò per assumere la direzione della scuola.

Forse la descrizione di Porfirio data da Dodds come di un «uomo onesto, dotto e simpatico, ma non pensatore coerente o creativo» (8) era corretta, ma Porfirio era uno scrittore prolifico. Oltre a pubblicare i saggi del maestro, scrisse più di settanta libri di metafisica, di critica letteraria, di storia e di interpretazione allegorica del mito, oltre alla sua breve Vita di Pitagora. Egli classificò Pitagora

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insieme a Orfeo, Eracle e Gesù fra i «divini eroi» che condussero vite devote esemplari e divennero immortali, ma come molti altri neoplatonici della sua generazione vide nel cristianesimo una spaventosa minaccia per la tradizione platonica. Porfirio espresse i suoi timori in un libro famoso oggi perduto intitolato Contro i cristiani e in lettere alla giovane Marcella, sua futura moglie. Anche se il cristianesimo era impegnato in strenue lotte, stava avvicinandosi il suo trionfo politico, che si sarebbe realizzato non molto tempo dopo la morte di Porfirio, e i cristiani vedevano in Gesù non un eroe divino, bensì lo consideravano uguale o uno con Dio. Il desiderio di sottrarre credenti e potenziali credenti a Gesù non era l'unica motivazione che aveva indotto Porfirio a scrivere la sua biografia di Pitagora - da lui concepita come un'introduzione popolare alla filosofia platonica -; egli sperava anche che la diffusione dell'opera potesse contrastare validamente la diffusione dei Vangeli cristiani. I lettori di allora, come quelli di oggi, erano più attratti da una personalità che da una collezione di idee filosofiche, e, nelle parole di Kahn, «fra i neoplatonici fu Porfirio a restituire Pitagora alla sua posizione di santo patrono della filosofia platonica, nella tradizione di Nicomaco e di Numenio». (9)

Porfirio condivise l'interesse di Numenio per le fonti antiche del sapere di Pitagora. Egli concluse che egizi, ebrei e gli antichi popoli dell'India e della Mesopotamia avevano posseduto non solo una sapienza primordiale inestimabile ma identica, e che Pitagora era stato il primo a possedere fra i greci questa sapienza, che in seguito Platone espresse più compiutamente a parole. Fedele al suo maestro Plotino, Porfirio preferì un approccio razionale, intellettuale, alla verità, ma il suo entusiasmo per la ricchezza e il mistero delle antiche fonti di sapere, e il fatto di essere vissuto in tempi molto superstiziosi gli impedì di rifiutare i racconti di fatti miracolosi connessi a Pitagora. Egli aveva inoltre quello che Dodds descrisse come «un debole incorreggibile per gli oracoli», (10) per il quale il razionalismo di Plotino non era riuscito a fornire un rimedio permanente. Porfirio morì settantenne nel 305 d.C., poco dopo il suo matrimonio con Marcella, la giovane a cui aveva scritto molte lettere eloquenti sul pensiero platonico.

La terza biografia di Pitagora, che è anche la più lunga, fu scritta da Giamblico. Egli fu allievo, ma anche rivale, di Porfirio. Porfirio poteva avere avuto un debole inguaribile per gli oroscopi e non aver negato l'esistenza di un'esperienza soprannaturale, ma Plotino lo aveva convinto che l'avvicinamento alla realtà ultima e la riunione col divino dovevano aver luogo attraverso l'intelletto, il razionale, e non avevano niente a che fare col magico. Non fu questa la via seguita da Giamblico. Per lui tale riunione poteva essere conseguita solo

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attraverso un'evocazione rituale e magica. Il suo trattato De mysteriis è stato definito un «manifesto dell'irrazionalismo». (11)

Giamblico era nato intorno al 260 d.C. a Calcide, in Siria, ed era un uomo ricco, che possedeva schiavi e ville suburbane, ma dedicò la sua vita alla contemplazione, insegnando e scrivendo, aveva molti discepoli devoti, e divenne famoso come il «divino» Giamblico. L'imperatore Giuliano, nel secolo seguente, dichiarò che Giamblico veniva «dopo Platone nel tempo ma non nel genio».

Giamblico era molto più concentrato su Pitagora di quanto non lo fosse Porfirio, la cui Vita di Pitagora era un libro di un'opera in dieci libri intitolata Vite dei filosofi. La Vita pitagorica di Giamblico (la sua biografia di Pitagora) era il primo libro di un'opera in dieci libri intitolata Collezione delle dottrine pitagoriche (Synagoge ton pythagoreion dogmàton), interamente dedicata a Pitagora e ai pitagorici.

Giamblico tentò di includere in quest'opera tutto ciò che si conosceva su Pitagora e sulla dottrina e filosofia pitagorica, riflettendo l'opinione che Platone avesse derivato la maggior parte delle sue idee da Pitagora. Per Giamblico, però, nonostante la fecalizzazione del suo interesse sui pitagorici, la padronanza della filosofia non si riduceva alla conoscenza di tutto ciò che era pitagorico. Essa significava una comprensione della logica aristotelica e dei dialoghi di Platone. Questo era, a modo suo, il tentativo di fornire quel che aveva raccoman dato Platone, una comprensione profonda di tutto ciò che si poteva conoscere sui numeri e attraverso i numeri, seguito dalla dialettica, e i contemporanei di Giamblico lo tenevano in alta considerazione per la sua capacità di ridurre i pensieri di Platone e di Aristotele a una forma più maneggevole. Egli tentava di fare nuovi proseliti per il platonismo usando argomenti logici e ammonimenti sulle conseguenze nefaste che incombevano su coloro che non avessero seguito una vita filosofica. Giamblico morì intorno al 330 d.C., nel periodo di regno dell'imperatore Costantino.

Da quel tempo in poi la filosofia neoplatonica avrebbe incluso un'enfasi pitagorica sulla matematica e sui numeri, con in più una numerologia che non aveva radici pitagoriche. I neoplatonici supponevano che il Timeo di Platone fosse derivato da Pitagora attraverso un vero Timeo di Locri, autore di un'opera Sulla natura del cosmo e dell'anima che fu in realtà uno dei libri pseudoplatonici in circolazione. Nel V secolo d.C. il filosofo Proclo avrebbe aperto il suo Commento al Timeo con le parole seguenti: «Tutti concordano sul fatto che Platone cominciò a scrivere il Timeo alla maniera pitagorica dopo avere comprato

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il libro Sull'universo composto dal pitagorico Timeo di Locri». Il «pensiero pitagorico» aveva assunto la forma nella quale sarebbe sopravvissuto più di un millennio e mezzo, fino a raggiungere Copernico.

Nel 400 d.C. gli sforzi per bloccare l'impatto dei Vangeli cristiani nel mondo greco-romano erano falliti. Proclo, l'ultimo importante filosofo greco - nato a Costantinopoli, istruito ad Alessandria e ad Atene, e divenuto poi direttore di quanto restava dell'Accademia platonica - avrebbe continuato per gran parte del V secolo a opporsi al cristianesimo, ma questa sua attività fu inutile, e avrebbe avuto conseguenze impreviste. Lui e coloro che lo leggevano furono in gran parte responsabili di una grande diffusione del neoplatonismo a Roma, a Bisanzio e, in seguito, nelle regioni islamiche del mondo, ma la cosa più importante - e che lo avrebbe sicuramente rattristato se ne fosse venuto a conoscenza - fu che la sua opera, attraverso un'identificazione erronea, avrebbe esercitato un'influenza importante sulla teologia cristiana. La sua filosofia fu adattata da un autore del suo stesso secolo che assunse lo pseudonimo di Dionigi l'Areopagita: ciò gli permise di essere confuso per molto tempo col personaggio omonimo degli Atti degli apostoli, vissuto nel I secolo e convertito dall'apostolo Paolo. Attraverso gli scritti di questo «pseudo Dionigi», la filosofia di Proclo passò nel pensiero cristiano.

La diffusione del cristianesimo nell'impero procedette su vari livelli. Nella pietà domestica, familiare, esso sostituì gli antichi dèi della casa. Le chiesette domestiche, che (prima dell'esistenza di grandi comunità cristiane) accoglievano poche famiglie e individui, competevano con crescente successo in tutto l'impero con i culti pagani. Fra gli intellettuali gli autori cristiani includevano nei loro libri brani di libri pagani quando le formulazioni sembravano loro ugualmente applicabili a un contesto cristiano, o quando speravano di poter sostenere la dottrina cristiana affermando che i materiali pagani rappresentavano testimonianze indipendenti di verità che ora si potevano spiegare in modo più compiuto. Alcuni di questi frammenti sopravvissero senza subire molti mutamenti. In sermoni e libri del V secolo apparvero una fraseologia e immagini derivate chiaramente da un oracolo pagano. (12) Durante i suoi primi tre secoli, il cristianesimo ebbe ben poco interesse alla politica o a tentativi di influenzarla, ma la situazione cambiò con la conversione, avvenuta nel 322, dell'imperatore Costantino, che governò prima a Roma e infine da Bisanzio sulle due metà orientale e occidentale dell'impero. Il cristianesimo divenne la religione ufficiale, e da questo momento in poi l'impero fu per lo più governato da cristiani, anche se

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alcuni di loro seguivano gli insegnamenti di Ario e non accettavano la piena divinità di Gesù.

La vittoria del cristianesimo sarebbe stata molto più difficile se esso non fosse riuscito ad accettare e assimilare in così grande misura le grandi tradizioni intellettuali e filosofiche pagane. Esso sarebbe probabilmente durato poco e la sua diffusione avrebbe avuto scarsa efficacia come quella della maggior parte dei culti misterici, se i suoi esponenti più autorevoli avessero prestato ascolto a uomini e donne che consigliavano un totale rifiuto della cultura greco-romana pagana. Molti teologi e scrittori cristiani, a cominciare dall'apostolo Paolo, erano però uomini istruiti che avevano un enorme rispetto, e in effetti anche un grande amore, per questa eredità culturale. Quando Paolo arrivò per la prima volta ad Atene, si attendeva che questa città, che egli sentiva come la sua patria intellettuale e che apprezzava chiaramente la cultura e il sapere, avrebbe accolto a braccia e mente aperte il nuovo sapere che egli portava. Dapprima parve che le sue speranze fossero fondate, ma il finale rifiuto delle sue concezioni segnò uno dei punti più bassi della sua vita.

A molti fra i primi intellettuali cristiani parve, come già a Paolo, che la maggior parte dell'antica cultura, sapienza e conoscenza del lo ro mondo intellettuale, che aveva ispirato il loro pensiero, si conciliasse con la maggiore verità che essi credevano ora di conoscere. Tutto era stato, in un certo senso, una preparazione intellettuale. Essi si sentivano ora costretti a portare l'eredità filosofica pagana all'abbraccio col pensiero cristiano, a farla parte dell'educazione cristiana e a mostrare che c'era una continuità. La Chiesa primitiva divenne una custode dei tesori della letteratura classica, sia nella conservazione materiale dei libri sia nel modo in cui molte idee chiave venivano assimilate nella scrittura e nel pensiero cristiani. Il Vangelo di Giovanni, nel Nuovo Testamento, si apre con le parole: «Nel principio era la Parola». Nell'originale greco l'equivalente della Parola (Verbum nel latino della Vulgata) è logos, e probabilmente la traduzione migliore di logos non è «parola» bensì «ragione» o «razionalità». Tenendo a mente queste nozioni, si possono leggere le parole di Giovanni con occhi platonici e pitagorici:

Nel principio era la Ragione, e la Ragione era con Dio, e la Ragione era Dio. Essa era nel principio con Dio. Ogni cosa è stata fatta per mezzo di lei, e senza di lei neppure una delle cose fatte è stata fatta. In lei era la vita; e la vita era la luce degli uomini [...]. E la Ragione è stata fatta carne ed ha abitato per un tempo fra noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplata la sua gloria, gloria come quella dell'Uno venuto da presso al Padre. (13)

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Un'interpretazione matematica pitagorica della natura non presentava alcun conflitto con la dottrina cristiana. Sant'Agostino, che fu tra quelli che s'adoprarono di più per portare in accordo fede cristiana e filosofia pagana, menzionò l'importanza dei numeri nella Città di Dio. «Dicono gli avversari che neppure la scienza di Dio può abbracciare l'infinito [...]. Non credo che oseranno disprezzare i numeri dicendo che non fanno parte della scienza di Dio, dal momento che Platone, che è uno di loro, con grande autorità insegna che Dio si servì dei numeri per creare il mondo! Noi stessi leggiamo nelle Scritture [Sapienza, 11: 20] che è stato detto a Dio: "Tu hai tutto disposto in misura, numero e peso".» (14) Anche se la dottrina della reincarnazione fu rifiutata a favore dell'immortalità cristiana, venne conservata l'immagine del corpo come tomba o prigione per l'anima. Clemente Alessandrino la caratterizzò come una dottrina pitagorica trasmessa attraverso Filolao. (15)

Gli sforzi prodigiosi di intellettuali come Agostino per cogliere so miglianze ed elaborare conflitti nella speranza di trovare livelli di accordo più profondi incoraggiarono la Chiesa cristiana a intraprendere un tentativo di conservare la letteratura classica greca e romana in un modo più organizzato. A Montecassino, nel Lazio, fu fondata nel 529 un'abbazia benedettina, e altri centri monastici di cultura seguirono ben presto, particolarmente nel VI e VII secolo, quando missionari irlandesi raggiunsero l'Inghilterra e poi il Reno, e missionari gotici raggiunsero il Danubio. Poiché sulle frontiere delle missioni quasi nessuno parlava il greco, gli scritti in questa lingua non si diffusero molto oltre i vecchi confini dell'impero romano, ma monasteri ancora più remoti furono in grado di conservare opere latine mentre varie orde di invasori - goti, vandali, franchi e poi normanni - investivano una dopo l'altra l'Europa. Le preziose opere latine sparse in vari monasteri sperduti, custodite con la massima cura dai monaci, sarebbero diventate le uniche opere delle letterature classiche note in Europa per secoli. È difficile nel XXI secolo - con la grandissima quantità di opere classiche che sono state ricuperate da allora - rendersi conto di quanto fosse diventata scarsa e frammentaria la conoscenza del passato, di quanto poco si ricordasse, e di come la civiltà dovesse ricominciare da capo nel Medioevo.

Fra le poche opere che sopravvissero, ci fu una traduzione latina, eseguita da uno studioso greco cristiano del IV secolo, dei primi 53 capitoli del Timeo di Platone. Altre furono un frammento di una traduzione di Cicerone dello stesso dialogo, le opere dell'«enciclopedista» Macrobio, l'Introductio arithmetica di Nicomaco in una traduzione latina leggermente riveduta, e il De institutione

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musica, che era anch'essa probabilmente una parafrasi di Nicomaco. Le ultime due opere furono prodotte da Boezio, un romano del tardo V secolo e inizio del VI, che fu consigliere del re ostrogoto Teodorico. Perché queste e non altre? Molto dipendeva dalla lingua in cui un'opera era scritta o in cui veniva tradotta. Ora torniamo a Roma, quando il suo grande impero cominciò a disintegrarsi.

Dalla fine del III secolo e dal regno dell'imperatore Diocleziano, l'impero romano non era più stato governato da un solo imperatore: a volte ce ne erano stati due, a volte più. Anche se la linea di divisione amministrativa fra l'impero d'Oriente e l'impero d'Occidente non era stata tracciata in modo deliberato lungo una frontiera linguistica fra aree di lingua greca e territori di lingua latina, nel corso del tempo parve che fosse stato così, quando greco e latino vennero a dominare nelle rispettive regioni. Con l'istituzione delle diocesi prese forma una divisione parallela nella Chiesa, e i cristiani d'Oriente cominciarono a considerare come loro autorità religiosa il patriarca di Costantinopoli, mentre quelli d'Occidente seguivano il vescovo di Roma, il papa.

Erano tempi incerti e pericolosi in entrambe le parti dell'impero, con le ondate di tribù barbare che si incalzavano reciprocamente e non si fermavano ormai più davanti a confini che erano stati sicuri per secoli, vicino a Roma o a Costantinopoli. Alla vigilia del Capodanno del 406 il Reno gelò rendendo nulla la sua utilità come confine naturale fra la Gallia romana e le tribù dell'altra riva. Le legioni romane che in precedenza vigilavano sul Reno erano state richiamate a tenere difese contro i barbari più vicino alla patria, e vandali, alani e svevi irruppero in Gallia, procedendo inesorabilmente attraverso il paese verso sud e verso ovest, depredando, saccheggiando e incendiando, senza incontrare resistenza. Sentendo accumularsi la pressione su troppe frontiere, e con le terre da lei controllate in precedenza in Gallia «simili ora a un'enorme pira funebre», Roma stava arrivando alla fine delle sue energie, ma, benché l'impero fosse diviso, la città non era mai stata conquistata da più di mille anni, ed era impensabile che questa situazione potesse cambiare. (16) Poi, nel 410 d.C. Roma fu messa a sacco dai visigoti. Sarebbe passato più di un altro mezzo secolo prima che l'ultimo imperatore d'Occidente cessasse di governare, ma questa data segnò una perdita di identità morale e politica che non sarebbe mai più stata recuperata. Alcuni pensavano che il Dio cristiano avesse abbandonato la città.

In questo periodo un autore di nome Ambrosio Teodosio Macrobio compilò, come aveva fatto Plinio il Vecchio, un corpus di conoscenze attingendo a una varietà di fonti, non preoccupandosi di discriminare fra la realtà storica e la leggenda, le falsificazioni, le reinterpretazioni e i racconti di seconda mano non

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attendibili. (17) Egli disse di «essere nato sotto un altro cielo» e si scusa di non avere perciò «l'eleganza nativa della lingua romana», pur avendo servito Roma in Italia, in Spagna e in Africa. Pare che non sia stato neppure cristiano, in un'epoca in cui la maggior parte delle funzioni d'alto rango come quelle da lui detenute erano appannaggio di cristiani. Ma qualunque altra cosa Macrobio sia stato o non sia stato, egli fu in effetti un «enciclopedista», e incline ad allargarsi rispetto all'originale. Grazie in gran parte a lui, il Somnium Scipionis di Cicerone sarebbe diventato popolare nel Medioevo, ma quanto egli scrisse sul Sogno avrebbe riempito sedici volte più pagine di quelle occupate da Cicerone. Macrobio aggiunse infatti un commento e incluse le opinioni di altri autori. Il risultato non fu molto originale, ma per gli studiosi nel Medioevo dev'essere stato una manna.

Macrobio conservò, in latino, molte cose che non sarebbero altrimenti sopravvissute, in particolare dei neopitagorici e dei neoplatonici, che conobbe particolarmente attraverso gli scritti di Porfirio.

Gli studiosi medievali avrebbero appreso da lui che Pitagora scoprì i rapporti dell'armonia musicale, e quel che accadde nella fucina di un maniscalco. Essi avrebbero conosciuto il passo di Cicerone sull'armonia delle sfere da lui citato e avrebbero raccolto da lui idee sulla connessione dei rapporti musicali con le distanze planetarie, ma nulla su un eventuale collegamento fra note specifiche e pianeti specifici, benché sia Nicomaco sia Tolomeo li avessero già calcolati. La concezione pitagorica dei numeri alla base di tutto nell'universo, e il modo in cui la si esemplificò collegando i rapporti armonici con l'ordinamento dei corpi celesti, si sarebbero uniformati nella letteratura medievale sulla teoria musicale, perdendo però la precisione delle formulazioni degli autori antichi, e diventando sempre più vaghi e meno compresi al passare del tempo.

I visigoti che saccheggiarono Roma nel 410 non consolidarono la loro vittoria stabilendo un nuovo governo. Per un po' di tempo il governo imperiale continuò a funzionare in qualche modo, a volte con sorprendente efficacia, anche se virtualmente l'intera parte occidentale dell'impero era ora sommersa da tribù germaniche che continuavano a stringere e rompere accordi e alleanze con autorità romane e locali e a farsi guerra fra loro. I coloni tedeschi in Italia si convertirono in tempi relativamente brevi al cristianesimo, molti di loro alla forma nota come arianesimo, che era stata dichiarata eretica nel Concilio di Nicea nel 325, ma infine aderirono al cattolicesimo romano.

Nel 429 i vandali percorsero rapidamente la Spagna, invasero il Nordafrica e configurarono una nuova minaccia di pirateria nel Mediterraneo. Un quarto di

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secolo dopo, nel 455, venne anche il loro turno di saccheggiare Roma. Anche questa volta gli invasori non rimasero a lungo nella città, ma quando se ne andarono portarono con sé in Africa un'ex imperatrice e le sue figlie. Il 23 agosto del 476 le truppe germaniche, che a quel tempo formavano in realtà la maggior parte dell'esercito romano in Italia, elessero re il loro generale Odoacre e rovesciarono l'ultimo imperatore romano d'Occidente, Romolo Augusto (detto Augustolo per la sua giovane età quando fu acclamato Augusto). L'impero romano d'Occidente, già da tempo in agonia, infine spirò. In teoria era ora Zenone, l'imperatore dell'impero romano d'Oriente, a governare tutto l'impero ma Odoacre, pur non essendo in grado di ristabilire niente di simile all'impero d'Occidente, era in effetti un sovrano autonomo, mentre varie fazioni germaniche in Italia potevano solo guerreggiare inutilmente fra loro e con altre tribù che continuavano ad apparire all'orizzonte. Nell'impero d'Occidente, compresi i suoi vasti possedimenti di un tempo più a nord in Europa, si poteva supporre che i secoli bui fossero cominciati. Ma non era ancora del tutto così.

Boezio, nato intorno al 480, dopo il rovesciamento dell'ultimo imperatore d'Occidente, era un aristocratico romano in un'epoca in cui il sapere convenzionale sembrava indicare che non dovesse esserci più posto per il vecchio impero romano. La vita romana solita non era però completamente terminata nella città e nei suoi dintorni.

Il servizio civile romano continuava a funzionare, i tribunali applicavano il diritto romano, proprietari terrieri romani e goti pagavano regolarmente le tasse, e istruzione e cultura non erano scomparse.

Il senato romano continuava a riunirsi, e Boezio divenne un senatore.

Egli fu anche filosofo, teologo, poeta, matematico e astronomo - e appartenne all'ultima generazione di coloro che studiarono in quella che continuava a chiamarsi l'Accademia di Atene — e fu profondamente turbato nel vedere i suoi contemporanei perdere la capacità di leggere il greco, che era stato per secoli parte integrante dell'istruzione romana. (*) Nessuno era più in grado di leggere Platone, Aristotele, i neoplatonici, o molti dei Padri della Chiesa cristiani nella loro lingua originale. Boezio si ripromise di rimediare a questa perdita potenzialmente disastrosa: «Tradurrò in latino ogni opera di Aristotele che mi verrà fra le mani, e tutti i dialoghi di Platone». (18) In realtà avrebbe tradotto anche molte altre cose.

Boezio tradusse una quantità sorprendente di opere prima di prendere una decisione che si sarebbe rivelata sciagurata per la sua carriera. Roma era tutt'altro

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che una città morta, ma non era più la città da cui era governata l'Italia. Il re ostrogoto Teodorico, a Ravenna, aveva soppiantato i visigoti nel 493, quando Boezio aveva tredici anni, uccidendo (secondo alcuni personalmente), il re Odoacre che era stato eletto dai soldati germanici. Essendo cresciuto a Costantinopoli, e avendo sposato una principessa bizantina, Teodorico ammirava la cultura classica e gli piaceva circondarsi di intellettuali.

* L'Accademia chiuse, come tutte le altre scuole pagane, nel 526, due anni dopo la morte di Boezio, per ordine dell'imperatore bizantino Giustiniano.

Boezio, probabilmente da una rappresentazione tardo-medievale.

Boezio fu particolarmente attratto da lui perché Teodorico sperava di riconciliare romani e goti, e quest'obiettivo condiviso attrasse anche Teodorico verso Boezio. Questi decise di unirsi alla corte di Teodorico a Ravenna.

Ma non vi rimase a lungo. Nel 523, falsamente accusato di tradimento e di uso della magia, fu imprigionato per ordine di Teodorico e l'anno seguente fu giustiziato, ma non prima di avere composto in carcere la sua opera più profonda ed eloquente: un libro fragrante di idee platoniche: la Consolatio philosophiae. Per l'intero Medioevo Boezio fu considerato un uomo del livello dei Padri della Chiesa, se non proprio uno di loro, ma nella Consolazione della filosofia scrisse non del comando cristiano ma di quello pitagorico di «seguire Dio».

Per secoli i dotti medievali nell'Europa latina avrebbero conosciuto gli autori greci attraverso le traduzioni latine e i commenti di Boezio. Grazie in gran parte a lui e a Macrobio, la fiamma della filosofia classica greca fu mantenuta accesa nei monasteri medievali. Anche a causa di Boezio, la versione nicomachea della matematica neopitagorica divenne la maledizione dell'esistenza di ogni studente.

L'influenza nel Medioevo di un'altra opera di Boezio, il De institutione musica in molti libri, fu quasi altrettanto grande di quella del suo De institutione arithmetica, che conservò la matematica di Nicomaco. I filosofi islamici si riferivano ad esso quando scrivevano sulla musica da un punto di vista pitagorico e l'opera sarebbe diventata di uso comune quando gli educatori medievali

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adottarono il quadrivio pitagorico. I primi tre libri del De institutione musica erano probabilmente una traduzione o una quasi parafrasi dell'Introductio musica di Nicomaco, da allora perduta. L'approccio era pitagorico, sottolineando l'importanza dei rapporti musicali che collegavano specifiche note della scala al Sole, alla Luna e ai pianeti, e che si riferivano spesso a Pitagora. Boezio divise la «musica» in tre soggetti: la musica mundana era l'armonia delle sfere, la musica humana il rapporto della musica con l'anima umana, la musica instrumentalis quel che noi pensiamo normalmente come musica.

Nel VI secolo, il vecchio impero romano d'Oriente aveva assunto un nome nuovo — quello di impero bizantino -, ed era ancora vivo e fiorente. La civiltà greco-romana certamente non vi era morta. Alessandria era una città ricca e prospera, come pure Gerusalemme e Antiochia: Costantinopoli aveva sostituito Roma come capitale del mondo civilizzato. Prima della metà del secolo il generale bizantino Belisario scacciò i vandali dal Nordafrica, conquistò la parte meridionale della Spagna e riprese Roma. L'impero bizantino conquistò ben presto Ravenna, mettendo fine al breve periodo aureo di Teodorico, Genova, la maggior parte della Sicilia e dell'Italia meridionale, compresa la Calabria (la vecchia Magna Grecia), che non sarebbe più stata perduta fino alla metà dell'XI secolo. Ma la riconquista dell'Italia, anziché restituirle la prosperità, distrusse quel poco che restava. Fu nel Vicino e Medio Oriente e nel Nordafrica che continuarono le vecchie tradizioni della cultura e dell'insegnamento e che i dotti cristiani si impegnarono a conservare con cura gli antichi testi e la conoscenza dell'antica lingua greca.

La conservazione e il grande apprezzamento della filosofia e cultura classiche sarebbero continuati in quelle regioni per molti secoli, ma non sotto l'egida dell'impero cristiano di Bisanzio. Nel VII secolo irruppero nell'impero, da est, orde armate di maomettani. In Siria e in Egitto essi si imbatterono in scarsa resistenza, e le grandi città si arresero rapidamente, subendo pochi danni quando i conquistatori assicurarono alle popolazioni ebraiche e cristiane che avrebbero potuto continuare a praticare liberamente i loro culti. Questa fu una fortuna per gli antichi testi ancora esistenti che pervennero in mani arabe e furono considerati una preziosa eredità. Nel 718 gli arabi avevano conquistato tutta la Spagna, dove avrebbero costituito un'élite piccola ma potente, governando in un modo sorprendentemente tollerante in materie religiose e con un'apertura a influenze culturali provenienti da tutto il mondo mediterraneo e islamico.

Nei monasteri dell'Europa cristiana latina, gli studiosi sbarcavano il lunario faticando sulle opere di Macrobio e di Boezio e di pochi altri classici latini,

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copiandoli e conservandoli con grandissima cura, udendo di tanto in tanto voci incredibili secondo le quali i tesori letterari e filosofici perduti della Grecia e di Roma dovevano ancora esistere in qualche luogo lontano. Ma fu sotto il governo dell'Islam, in Medio Oriente, nel Nordafrica e nella Spagna moresca, che la massima parte del lavoro di conservazione dell'antico sapere e degli scritti antichi, e dello sviluppo di una nuova matematica e dell'astronomia fondata su di essa continuò dall'VIII all'XI secolo.

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PARTE TERZA

Dall'VIII al XXI secolo

14 «NANI SULLE SPALLE DI GIGANTI» PITAGORA NEL MEDIOEVO

Secoli VIII-XIV

Nell'VIII secolo era arrivato a Baghdad il libro destinato a essere l'opera più famosa di Tolomeo. Gli studiosi islamici lo tradussero in arabo, e Almagesto, «la massima [sintesi matematica]», fu il suo titolo arabo nel IX secolo. Mentre i matematici e gli astronomi islamici stavano superando i metodi e i modelli dei dotti ellenistici, pare che nessuno abbia messo in discussione il modello geocentrico del cosmo o sia stato a conoscenza del modello pitagorico a dieci corpi di Filolao, col fuoco centrale e un'Antiterra. Al-Farghani, brillante astronomo arabo del IX secolo, stimò le dimensioni delle sfere planetarie e calcolò le relazioni fra le loro distanze, ma i rapporti musicali non facevano parte dei suoi calcoli o di quelli di altri astronomi islamici. Coloro che avevano orecchio per l'armonia pitagorica delle sfere nel mondo islamico erano uomini interessati agli effetti della musica strumentale e vocale sulla salute del corpo e sul benessere e la moralità dell'anima umana. Essi stavano seguendo la guida di un autore del IX secolo, Hunain ibn Ishaq al-'Ibadi (noto anche, nell'Occidente latino, come Johannitius). (1)

La missione della Bait al-Hikmah (Casa della sapienza), costruita intorno all'820 a Baghdad, era quella di recuperare la conoscenza dell'antichità e metterla a disposizione di lettori di lingua araba.

Baghdad era una città cosmopolita in cui le idee circolavano liberamente e le religioni minoritarie non erano considerate una minaccia seria. Hunain, pur non essendo un musulmano bensì un cristiano nestoriano, era sia membro di quest'accademia sia il principale medico di corte del califfo. (*)

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* I cristiani nestoriani erano un gruppo che aveva avuto origine in Asia Minore e in Siria nel V secolo d.C. e che sottolineava la natura umana del Cristo. Oggi ce ne sono ancora molte migliaia, e vengono chiamati la Chiesa dell'est, la Chiesa persiana, o la Chiesa assira o nestoriana. La maggior parte dei nestoriani vive oggi in Iraq, in Siria e in Iran.

La perfetta conoscenza del greco che aveva Hunain non gli tornò utile solo per l'apprendimento della medicina. Egli tradusse libri dal greco in arabo per mecenati islamici e in siriaco per cristiani; tradusse inoltre in arabo le opere del suo antico predecessore, il medico Galeno, e le Scritture ebraiche (da una versione in greco).

Curioso di sapere in che modo la musica influisca sul corpo e sulla psiche, Hunain scrisse il primo trattato noto sulla musica nella letteratura islamica, pieno di temi pitagorico-platonici di unità, armonia, Forme, di estraniazione dell'anima dal divino, e possibilità della loro finale riunione. «Vivendo in solitudine, l'anima canta meste canzoni, che le ricordano il suo mondo superiore», scrisse, e narrò come spesso la vita operi nel senso di sedurre l'anima distogliendola da questo mondo superiore. Per lui era la musica, più che i numeri, l'ente capace di realizzare quel collegamento: «L'eccellenza della musica è evidente nel fatto che essa appartiene a ogni professione, nello stesso modo in cui un uomo di grande intelligenza sa stare con tutti». Hunain compilò, a partire da una varietà di fonti greche, una collezione di aforismi, aneddoti, lettere e brani che intitolò Massime di filosofi (Nawadir al-Falasifa). (2) Egli trasse i suoi materiali da compilatori come Plutarco, non dagli originali, ma i brani cominciavano spesso con espressioni come «Platone era solito dire», o «Aristotele disse», o «Alessandro domandò ad Aristotele», e spesso venivano citati anche Archita o Euclide. In una parte dei brani si parlava di numeri, ma non di vera matematica.

Hunain aveva un certo senso dell'umorismo: Una volta un filosofo uscì per una passeggiata in compagnia del suo discepolo. A un tratto udirono una voce e una chitarra.

Il filosofo disse all'allievo: «Avviciniamoci alla chitarra; forse potremo apprendere qualche Forma sublime». Ma appena si furono avvicinati udirono un brutto suono e un canto disarmonico. Il filosofo disse allora all'allievo: «I maghi e gli astrologi affermano che la voce di una civetta preannuncia la morte per un uomo. Se fosse vero, la voce di quest'uomo dovrebbe preannunciare la morte per una civetta». (3) (*)

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* È indicativo del miscuglio cosmopolita di religioni e di idee del Medioevo nelle regioni islamiche che questo scritto, che rifletteva antiche idee pagane e proveniva da un cristiano che viveva e lavorava nella città islamica di Baghdad, sia sopravvissuto principalmente grazie a una traduzione ebraica del XII/XIII secolo di Judah al-Harizi.

Alcuni fra gli aforismi raccolti da Hunain furono in seguito inglobati in una mastodontica enciclopedia islamica che apparve nel X secolo a Bassora, nell'Iraq sudorientale, opera di una comunità nota come Ikhwan al-Safà', o Fratelli della Purezza. Come gli allievi della Casa della sapienza di Hunain, i Fratelli della Purezza tentarono di conservare tutto il possibile dell'antico materiale scientifico e filosofico che era venuto in mani islamiche. La loro impresa principale fu un'enciclopedia intitolata Rasa'il, in 52 libri. Il loro intento era quello di coprire l'intero scibile umano. Parafrasarono alcuni libri antichi, riproducendo integralmente in essi qualche brano tradotto da loro. L'enciclopedia prestò invece una considerazione eccessiva a dottrine anteriori, un esempio di una seconda fase del lavoro a cui si dedicarono moltissimi dotti islamici. Uno dei più grandi di questi, al-Kindi, descrisse quest'impresa come uno sforzo per «completare quel che gli antichi non hanno espresso compiutamente, e questo secondo l'uso della nostra lingua araba, i costumi del nostro tempo e la nostra abilità». (4)

I Fratelli della Purezza consideravano l'intero scibile un continuo di rivelazione che si verifica in tutti i tempi e in tutti i luoghi e fra tutte le razze e religioni. Pitagora, Platone, Abramo, Gesù, Maometto e gli imam che seguirono a Maometto fecero tutti parte di tale continuo. I Fratelli composero una propria cosmologia con molti livelli dell'essere interconnessi, in cui l'intera santità del «Dio Uno» viveva in tutte le cose. Il destino più alto per un essere umano era quello di unire la propria santità col Dio Uno. Il Rasa'il intesseva insieme molti aspetti del mondo: musica, numeri, medicina, teologia, astronomia e altre aree. L'interconnessione si fondava in un modo preciso sui numeri e sulla musica ed evocava un'«unità», non nel modo realizzato dai pitagorici bensì moltissimo nel loro spirito e tenendo in mente le loro idee. Riferendosi agli antichi «musici-filosofi», che avevano tracciato una connessione fra i quattro elementi fuoco, aria, acqua, terra -, i Fratelli della Purezza collegarono questi elementi alla salute umana, all'ordinamento del cosmo e alle quattro corde di uno strumento musicale chiamato oud:

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Abbiamo esposto tutto questo nel trattato sull'aritmetica. In effetti la prima corda è comparabile all'elemento del fuoco, e la sua sonorità corrisponde al calore e alla sua intensità. La seconda è comparabile all'elemento dell'aria, e la sua sonorità corrisponde alla mollezza dell'aria e alla sua cedevolezza. La terza è comparabile all'elemento dell'acqua e alla sua freschezza. La quarta corda è comparabile all'elemento della terra, e la sua sonorità corrisponde alla pesantezza della terra e alla sua densità. (5)

La connessione col corpo umano e con la salute fisica e mentale, riecheggiando Hunain, comportava che i suoni delle diverse corde producessero effetti diversi in coloro che li udivano: «La sonorità della prima corda rafforza l'umore della bile gialla, ne aumenta il vigore e l'effetto; essa possiede una natura opposta a quella dell'umore del flegma», e via dicendo. (6) Diversamente da Hunain, però, i Fratelli della Purezza includevano dati specifici di matematica. Nel loro ordinamento del cosmo, ognuno dei quattro elementi, più un qualcosa chiamato frigidità, predominava in un sistema di sfere concentriche alla Terra racchiuse l'una dentro l'altra. La grandezza di ogni sfera, in relazione alla successiva, era nel rapporto di 4:3. Al di là dell'orbita della Luna c'era una «proporzione armonica fra i diametri delle singole sfere planetarie e quelle della terra e dell'aria». (7)

L'ordinamento cosmico nel mondo sublunare elaborato dagli Ikbwan al-Safi' o Fratelli della Purezza.

I Fratelli della Purezza stabilirono connessioni fra il cubo, le note delle corde suWoud, e i rapporti fra le note: gli antichi, dissero - continuando la loro reinterpretazione del pensiero pitagorico e includendo in essa anche Euclide - avevano una preferenza per l'ottava, perché l'8 era il primo numero cubo (2x2x2). Un cubo ha sei spigoli e

6 è un numero perfetto. (*) Tutti gli spigoli di un cubo sono uguali, e tutti i suoi angoli sono uguali, e abbiamo detto che quanto più la cosa creata possiede la proprietà dell'uguaglianza, tanto maggiore è la sua eminenza. È per questa ragione che nell'ultimo trattato di Euclide si disse che la forma della Terra è probabilmente cubica è che quella della sfera celeste è probabilmente un dodecaedro delimitato da dodici pentagoni. (8)

La preferenza per l'«uguaglianza» richiama alla mente Archita.

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Nello stesso secolo in cui i Fratelli della Purezza stavano compilando la loro enciclopedia, un katib (segretario) sciita in Siria scrisse un trattato nella stessa tradizione. Quel che sembrava più importante ad al-Hasan al-Katib era l'idea pitagorica che i numeri e i rapporti fra loro fossero la chiave per la comprensione umana dell'universo. AlKatib riformulò questa dottrina e la applicò sia al corpo sia all'anima umani sia al cosmo: tre era il numero delle consonanze semplici in musica (quarta, quinta, ottava) e anche il numero delle divisioni dell'anima (razionale, sensibile o sensitiva e naturale o vegetativa). Sette era il numero delle note nella scala corta dell'ottava e sette era anche il numero degli elementi dell'anima razionale: comprensione, intelligenza, memoria, deliberazione, valutazione, sillogismo, conoscenza.

Modi diversi in musica erano equivalenti a virtù diverse dell'anima.

Giustizia: il dito indice sulla seconda corda; buona comprensione: il modo della terza corda libera; purezza: il dito medio sulla terza corda; e via dicendo. Nello schema di al-Hasan anche i moti e le posizioni delle sfere celesti avevano i loro equivalenti in musica, e in termini simili poteva essere spiegata l'origine dello zodiaco. Egli disse di essere in debito per queste idee verso Nicomaco di Gerasa.

La sfera dello zodiaco è divisa in dodici parti che rappresentano le case zodiacali. Noi crediamo che questa divisione sia stata stabilita [o definita] così perché il numero dodici è divisibile

* Per «numero perfetto» i Fratelli della Purezza non intendevano quel che avevano inteso i pitagorici quando avevano identificato come un numero perfetto il 10. Un numero perfetto, secondo criteri più moderni (che peraltro si trovano già in Nicomaco) è un numero che è uguale alla somma dei suoi divisori. Il numero 6 è il numero perfetto più piccolo: 1+2+3=6.

in metà, terzi e quarti. Questi sono gli elementi che si trovano nella divisione del sistema completo, perché l'ultima nota dell'ottava è metà della prima (2:1), la nota della quinta è nel rapporto di uno e mezzo alla prima (3:2), la nota della quarta è nel rapporto di uno e un terzo alla prima (4:3). (9)

Nelle parti dell'Europa non soggette al governo islamico, popolazioni di aree diverse parlavano una varietà di idiomi e dialetti, ma il latino era la lingua franca che univa gli studiosi, i quali erano quasi senza eccezione le uniche persone che sapessero leggere. Come aveva temuto Boezio, il greco era scomparso quasi

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completamente. In Europa restavano tuttavia ben poche cose greche che si potessero leggere, dal momento che i codici greci che in precedenza erano stati salvati da cristiani erano ora finiti quasi tutti in lontani paesi islamici.

L'Europa latina non languiva però in un totale buio intellettuale.

Persino nel IX e X secolo, quando invasioni vichinghe, magiare e saracene provocarono ripetuti disastri, gli studiosi continuavano a portare avanti idee pitagorico-platoniche su numeri e musica. Essi esploravano le connessioni fra musica e astronomia muovendosi in una direzione diversa rispetto ai loro contemporanei islamici, e manipolavano in modo inventivo i numeri e la matematica della musica e del cosmo.

Aureliano di Réomé (oggi Moutier-Saint-Jean) fu un contemporaneo di Hunain; la maggior parte dei suoi scritti risale al decennio 840-850. (10) Il più antico trattato medievale di musica che sia sopravvissuto è la sua Musica disciplina, fondata in parte su Boezio. Aureliano di Réomé sapeva il greco e conosceva un po' di astronomia ed era informato sui moti dei pianeti e i loro periodi. (*) Egli osservò che gli otto modi musicali sembravano copiare otto tipi di moti celesti.

Scrisse di casi in cui una musica angelica era udibile dalla Terra, nonché sulle Muse e sullo zodiaco, anche se dovette mettere in atto una grande inventiva per collegare otto modi musicali con nove muse.

Aureliano seguì l'esempio di Pitagora anche al di fuori dell'ambito dell'armonia delle sfere. Sapeva del quadrivio che Platone aveva imparato da Archita, ed era convinto che la verità dell'universo si trovasse nei numeri.

* Il periodo (di rivoluzione) di un pianeta è il tempo che esso impiega a completare un'orbita.

I moti degli astri sono otto, sette dei pianeti e l'ottavo quello dello zodiaco [la sfera delle stelle fisse], e a quanto dicono tutti comporrebbero insieme la più dolce armonia del canto, ossia la consonanza. Persino il Signore, nella risposta che diede dal turbine di vento al pio Giobbe, la chiamò l'armonia del cielo. (*)

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Ci sono altre cose che tali autori hanno scoperto su quest'arte. Essi dicono che l'intera teoria dell'arte della musica consta di numeri.

La disciplina naturale fu affidata a quattro scienze, ossia aritmetica, geometria, musica e astronomia. In queste si esaminano i numeri, le misurazioni della Terra, dei suoni, e le posizioni degli astri; ma la loro essenza e la loro intera origine è matematica. (11)

Anche Giovanni Scoto Eriugena visse nel IX secolo e fu press'a poco contemporaneo di Hunain e di Aureliano. (12) Non si sa molto della sua giovinezza, anche se il suo nome indica con ogni probabilità che proveniva dall'Irlanda (la parola «Eriugena» può essere tradotta «nativo dell'Irlanda»), la quale era stata risparmiata dalle invasioni barbariche che avevano devastato la maggior parte dell'Europa fino a quando non erano arrivati i danesi, verso la fine del secolo. All'inizio Eriugena fu presumibilmente uno studioso legato a uno dei grandi monasteri irlandesi, ma quando raggiunse la maturità, fra i trenta e i quarant'anni, fu invitato in Francia da Carlo il Calvo a dirigere la sua scuola di corte. Si pensa che abbia viaggiato anche in Grecia e in Italia, che abbia studiato il greco, l'arabo e il caldeo, che in seguito si sia trasferito a Oxford su invito di Alfredo il Grande d'Inghilterra e che infine abbia insegnato all'Abbazia di Malmesbury. Eriugena fu lo studioso che tradusse in latino le opere dello «pseudo Dionigi».

Il personalissimo schema cosmologico sviluppato da Giovanni Scoto fece di lui uno degli studiosi più autorevoli della sua epoca, e di tutti i dotti anteriori alla riscoperta della letteratura classica nell'Europa latina del X-XII secolo. Nel suo cosmo gli astri, la Luna, il Sole e Saturno, orbitavano intorno alla Terra, mentre Mercurio, Venere, Marte e Giove orbitavano intorno al Sole. Questo ordinamento non era del tutto cervellotico; in effetti era un'intuizione in direzione dell'astronomia copernicana. Esso presentava però una sfida all'ar

* Aureliano stava leggendo da una cattiva traduzione del libro di Giobbe.

monia delle sfere. Nel cosmo di Giovanni Scoto, i quattro pianeti le cui orbite erano incentrate sul Sole cambiavano ovviamente di continuo la loro distanza dalla Terra. Un cambiamento di distanza significava un cambiamento nel tono musicale di un pianeta, e quindi una teoria dell'armonia cosmica doveva prevedere una variazione di tono.

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Nessun altro avrebbe esplorato questa idea tranne l'Eriugena fino a Giorgio Anselmi, all'inizio del Quattrocento, e a Keplero verso la fine del Cinquecento e l'inizio del Seicento. Fra questi due, il secondo avrebbe compreso in modo corretto il sistema solare ottenendo risultati molto più fecondi.

Giovanni Scoto calcolò a modo suo il problema del variare del tono dei corpi celesti in un complesso sistema implicante numeri, rapporti e intervalli musicali, traendo esempi da canne d'organo e strumenti a corde: «Qui si deve ammirare la mirabile virtù della natura poiché ciò che qualcuno può compiere con una lira a quattro corde viene conseguito negli otto suoni celesti. Ma il metodo con cui lo si fa dev'essere ricercato con diligente investigazione». (13)

Scoto spiegò alcuni risultati di quest'investigazione in un linguaggio che cercò di rendere facilmente accessibile al lettore:

Come vedete, i suoni non sono sempre connessi dagli stessi intervalli, ma dipendono dall'altezza delle loro orbite. Non sorprende, perciò, che il Sole suoni un'ottava con Saturno quando si trova alla massima distanza da esso, ma quando comincia ad avvicinarsi ad esso suonerà una quinta, e nel punto di massima vicinanza una quarta. Considerando le cose in questo modo, penso che non ti disturberà quando diciamo che Marte dista dal Sole a volte di un tono, a volte di un semitono. (14)

L'Eriugena raccomandò ai suoi lettori di tenere a mente che, quando si confrontavano le distanze fra i pianeti, si parlava di rapporti e relazioni fra le distanze dei pianeti, e non delle distanze assolute in stadi (o, in termini moderni, in chilometri o in parsec).

Giovanni Scoto aveva una visione sua propria sull'accordo fra il pitagorismo/platonismo e il cristianesimo: tutto, nella creazione, derivava dall'Uno, e l'Uno si identificava con Dio. Da quest'Uno, che era universale, onnicomprensivo, infinito e incomprensibile, emanava il regno delle Forme platoniche. Sotto l'influenza dello Spirito Santo, le Forme si manifestavano nelle cose create. Tutte le creature sarebbero state infine riattratte alla riunione col livello divino di essere da cui erano in origine cadute. Dio era «sorgente e fine di tutte le cose».

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Per l'Eriugena tutto era «bellissima armonia», comprese non solo le sfere celesti, ma «persino i suoni che sorgeranno dalla punizione del male, perché le punizioni sono buone quando sono giuste, e buoni sono anche i premi quando sono più nella natura di doni che di remunerazioni per ciò che si è meritato». Risultato della punizione e del premio sarebbero stati una purificazione e redenzione finali, persino nel caso di animali e di diavoli, e la riunificazione nell'Uno divino, con la piena conoscenza di Dio, visto «faccia a faccia», come aveva scritto san Paolo. Per Giovanni Scoto la grande armonia della creazione era una «combinazione di suoni bassi, alti e intermedi che formavano insieme una certa sinfonia attraverso le loro proporzioni e proporzionalità». (15)

Un contemporaneo più giovane di Aureliano di Réomé e di Giovanni Scoto Eriugena, Reginone di Priim, fece un riferimento ai pitagorici nell'introduzione a un libro da lui scritto sulle melodie del cantusfirmus usate a Treviri, la sua città natale. Sostenendo di avere tratto le sue informazioni dal De musica di Boezio, presentò così quello che riteneva fosse l'argomento pitagorico per l'esistenza della musica celeste. (*)

I pitagorici argomentano così la presenza della musica nei moti celesti: come potrebbe il meccanismo celeste, così veloce nel suo corso, non produrre rumore? Anche se esso non perviene alle nostre orecchie, è del tutto impossibile che un moto così impetuoso non produca suoni, tanto più che i moti delle stelle sono ordinati in un modo talmente organizzato e ben adattato che non si può immaginare niente di meglio regolato e coordinato. Alcuni corpi celesti sono più alti, altri più bassi, ma tutti si muovono con uguale impulso, cosicché le loro orbite diseguali e disparate rientrano in un ordine determinato. Di qui si argomenta che nel moto celeste c'è una disposizione armonica. (16)

Il problema più importante per Reginone non era se i moti celesti producessero un suono, ma se avessero luogo in una «disposizione armonica». Per lui l'«armonia» era una bella regolarità di numeri

* La descrizione di Reginone sembra molto simile a quella di Aristotele, cosa che conferma che egli abbia raccolto queste descrizioni attraverso Boezio. Reginone visse prima della reintroduzione di Aristotele nell'Europa latina.

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e relazioni numeriche che pervadevano l'universo, e che erano alla base sia della musica sia dell'ordinamento e dei moti dei pianeti e delle stelle.

Reginone era un musicista, non un astronomo, ma prima di passare dall'introduzione del libro al suo argomento principale - il «canto fermo» - scrisse un paragrafo che assomigliava all'idea di Archita sulla connessione fra tono e moto veloce e lento e il batter dell'aria, descrisse le connessioni fra i pianeti e le corde di una lira, e rese omaggio al Somnium Scipionis di Cicerone. Per non lasciare fuori nulla, chiuse la sua introduzione con le parole: «Aggiungerei che non soltanto i filosofi pagani, ma anche i vigorosi difensori della fede cristiana danno il loro assenso a quest'armonia celeste». (17)

Nell'XI secolo un'Europa che era stata costantemente lacerata per duecento anni da ondate di barbari saccheggiatori sperimentò un'epoca di relativa calma e di ottimismo. La vita prese un passo più spedito e le popolazioni e i commerci crebbero, compresi gli scambi commerciali con regioni sotto il governo islamico.

L'insegnamento e gli studi in Europa non si erano mai interrotti neppure durante i secoli di grandi sconvolgimenti e i monaci avevano continuato a conservare gli scritti antichi e a copiare e miniare manoscritti. Nell'XI secolo, però, nuovi centri di sapere avevano cominciato ad apparire non nei monasteri ma nei recinti delle cattedrali e nelle maggiori città medievali. (18) Dapprima questi centri erano formati da uno o pochi dotti intorno ai quali si raccoglieva una folla di studenti, e l'insegnamento era per la maggior parte orale. Questi gruppi si formalizzarono nel XII e XIII secolo, con ruoli e obblighi meglio definiti per studenti e docenti, relazioni meglio stabilite con popolazioni locali e governi (spesso una questione spinosa) e alloggi degli studenti che assomigliavano ai college di Cambridge e Oxford. Le università su questo modello furono uno sviluppo autenticamente europeo.

Fra i primi raggruppamenti di docenti e studenti, e in seguito nelle università, emerse una tradizione «critica» e portata alla discussione (Thomas Kuhn la definì «combattiva») che divenne nota come Scolastica. Molti giganti del pensiero medievale che si impegnarono in queste lotte hanno nomi che ci sono familiari ancora oggi: Tommaso d'Aquino, Pietro Abelardo, Anselmo di Canterbury, per citarne solo alcuni. Un obiettivo primario della Scolastica era quello di integrare idee e cultura classiche con la fede cristiana. Con la reintroduzione nell'Europa occidentale delle opere di Aristotele, tradotte in latino nel XII secolo ma non disponibili immediatamente per tutti gli studiosi, tale integrazione divenne un'impresa più grande e molto più complessa. Le Sacre Scritture ricevettero una

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lettura più metaforica, meno letterale, e Aristotele venne a essere considerato, dopo la Scrittura, l'autorità suprema. I dotti non solo lo onoravano come un filosofo, ma lo veneravano come «il Filosofo». Non si richiedeva alcun'altra specificazione.

Il lavoro di preparazione per la riscoperta della letteratura classica era stato compiuto nel X secolo, quando i cristiani avevano cominciato la graduale Reconquista della Spagna e del Portogallo, strappandoli ai musulmani che vi avevano governato per più di trecento anni.

La cultura della penisola iberica era allora fra le più alte nel pianeta, comprendendo il meglio di quella ebraica e di quella islamica. Poiché la popolazione dell'Europa cristiana — da cui partì la Reconquista era nel complesso molto più rozza e meno civilizzata e colta, la situazione assomigliava in qualche misura alla conquista romana della Grecia avvenuta molti secoli prima. La Reconquista fu di una lentezza glaciale, concedendo tempo a un notevole rimescolamento delle tre diverse fedi e culture. Infine, nel 1492, i cristiani avrebbero cacciato definitivamente i musulmani dalla Spagna, ma per secoli prima di tale evento i cristiani venuti in Spagna si erano trovati di fronte a una società islamica ed ebraica molto colta, stabilita da tempo, intellettualmente fiduciosa, e si erano mescolati con essa.

Il clero che accompagnò o seguì i cavalieri cristiani della riconquista fu molto impressionato dalla bellezza delle città, dell'architettura e dei giardini, dalla pace in cui coesistevano le comunità minoritarie e dal livello delle discussioni dotte e della cultura, ma soprattutto dalle biblioteche di Cordova, Toledo, Segovia e Lisbona. A quanto poteva ricordare ogni religioso dell'Europa latina, circolavano voci che manoscritti e libri di valore inestimabile, contenenti il sapere perduto degli antichi, esistessero ancora da qualche parte nei paesi islamici.

Quelle voci risultarono vere al di là di quanto si sarebbe potuto sognare. In Spagna c'era il materiale - molto del quale tradotto in arabo - che era stato custodito dagli studiosi cristiani prima che i musulmani conquistassero la maggior parte dell'ex impero romano nel VII secolo. Da allora, traduttori e dotti arabi ed ebrei avevano custodito gelosamente tali opere.

Nel 1100 i cristiani controllavano Toledo e Lisbona. L'arcivescovo Raimondo di Toledo invitò i dotti più importanti a unirsi in uno sforzo per tradurre in latino una grande collezione di scritti antichi. I primi traduttori furono rappresentanti di tre fedi, cristiana, ebraica e musulmana, che già vivevano in Spagna, ma ben presto arrivarono studiosi da molti altri paesi - religiosi cristiani dall'Europa latina

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e dall'Inghilterra, ebrei e musulmani, studiosi latini, greci e slavi per lavorare senza alcuna censura, senza libri proibiti, senza dovere apportare modifiche per dare un suono cristiano a parole pagane. Alcuni traduttori non erano solo bilingui ma poliglotti. Michele Scoto, proveniente dall'Inghilterra, sapeva un po' d'arabo e parlava correntemente il latino, il greco, l'ebraico, il siriaco, il caldeo e varie altre lingue. Quando non si poteva trovare un numero sufficiente di persone che conoscessero bene sia l'arabo sia il latino, lavoravano insieme due traduttori con una lingua in comune. Lo sforzo poteva protrarsi per anni. Un traduttore particolarmente prolifico, Gerardo da Cremona, tradusse complessivamente settanta o ottanta libri, fra cui l'Almagesto di Tolomeo e gli Elementi di Euclide. (19)

Un'attività simile di traduzione era in corso a Palermo, in Sicilia, sotto il patronato del re normanno Ruggero. Noto per una corte opulenta degna di un potentato orientale, Ruggero amava circondarsi di intellettuali, e ne proteggeva molti, indipendentemente dal fatto che fossero cattolici romani, cristiani bizantini, ebrei o musulmani. A

Palermo le traduzioni, in latino, venivano fatte per lo più direttamente da antichi manoscritti greci senza passare per traduzioni arabe, poiché al tempo di Pitagora la Sicilia era stata una colonia greca e aveva conservato la lingua greca anche nelle epoche romana e bizantina. La corte di Ruggero comprendeva vari studiosi di lingua greca. I dialoghi platonici del Menone e del Timeo furono opportunamente tradotti in latino per la prima volta in Sicilia, dov'era esistita una delle più antiche comunità pitagoriche e dove lo stesso Platone si era occupato di politica di corte rischiando addirittura la vita.

Non esistendo ancora la stampa, i copisti dedicavano molto tempo a replicare le traduzioni. La diffusione di queste opere manoscritte era lenta ma, per la prima volta in molti secoli, gli studiosi dell'Europa latina stavano leggendo le opere degli antichi greci, e nelle università Aristotele si unì a Platone.

Il curriculum base del Medioevo cominciava con il quadrivio pitagorico di Archita, e gli studenti dovevano imparare anche la dialettica, come aveva richiesto Platone. Quando però cominciarono a influire sull'istruzione scolastica le opere di Aristotele, esse divennero il fondamento degli studi filosofici e teologici in un «trivio» che seguiva al quadrivio. La combinazione delle sette discipline del quadrivium e del trivium — aritmetica, geometria, musica, astronomia, grammatica, retorica e dialettica - condusse al nuovo concetto delle «Sette arti liberali». (20)

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Il testo classico di aritmetica era l'antica familiare Introductio arithmetica di Nicomaco, il neopitagorico del II secolo che aveva aderito caparbiamente alla «matematica pitagorica» e che si era identificato come pitagorico. La versione latina del suo libro, leggermente rielaborata a opera di Boezio, era presente da secoli nelle biblioteche dell'Europa latina. Ora, grazie ai progetti di traduzione in corso in Spagna e a Palermo, studiosi e studenti furono in grado di aggirare la riscrittura del libro a opera di Boezio e di leggere Nicomaco in una traduzione diretta dall'originale. Ma qualsiasi versione dell'opera leggessero - il De institutione arithmetica di Boezio, dell'inizio del VI secolo o l'Introductio arithmetica originale di Nicomaco del II secolo -, vi si imbattevano in Pitagora ancora prima che nell'aritmetica, poiché già i primi passi del testo tessevano le sue lodi. Gli studenti del Medioevo appresero così l'aritmetica nella forma neopitagorica, che considerarono la forma; e quasi interamente attraverso quest'unico libro, la fede pitagorica nel potere dei numeri di svelare i segreti della natura e dell'universo fu trasmessa al Medioevo e oltre. Fu un incanalamento di pensiero estremamente importante. Si consolidò grandemente in tal modo l'immagine di Pitagora come creatore della matematica greca.

Nel XII secolo, in molte università, la sezione di geometria del quadrivio fu insegnata con l'ausilio di un libro molto migliore, gli Elementi di geometria di Euclide. Benché tradotto in latino già in precedenza il libro non aveva mai attecchito né era mai diventato largamente accessibile. Ora divennero disponibili nuove traduzioni dall'arabo, di Gerardo da Cremona e di Adelardo di Bath, un altro dei traduttori dell'arcivescovo Raimondo di Toledo. All'inizio del secolo, Adelardo aveva percorso l'intero bacino mediterraneo alla ricerca di testi antichi.

Nella terza sezione del quadrivio, riservata alla musica, il testo usato era il De institutione musica di Boezio. Attraverso i libri di musica di Boezio, anch'essi fondati probabilmente in origine su Nicomaco, la «scala del Timeo» era già diventata una parte importante della teoria musicale del Medioevo. Ci sono prove attendibili che questa scala non abbia avuto origine in effetti con Platone, ma che fosse stata usata da Filolao e forse anche prima di lui, cosicché gli studiosi medievali stavano occupandosi di qualcosa che aveva un'origine molto antica. (21)

Essi accettarono la divisione della musica istituita da Boezio in musica mundana (l'armonia delle sfere), musica humana (la relazione della musica con l'anima umana) e musica instrumentalis (quella che noi consideriamo normalmente musica) e accettarono per lo più che tutt'e tre i generi di musica fossero parte essenziale della loro disciplina.

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Nonostante l'opposizione di qualche scettico come il fiorentino Coluccio Salutati, il quale insisteva che i moti dei corpi celesti non potessero produrre suoni, l'idea della musica mundana era ancora vista in Italia con favore nei secoli XV e XVI, quando Franchino Gaffurio, il teorico musicale più importante del tempo, fece ogni tentativo per essere un vero pitagorico. Egli si rifiutò di considerare come intervalli consonanti qualcosa di diverso dagli intervalli approvati da Boezio, cosa che fece di lui un retrogrado. Boezio non aveva considerato consonanti terze e seste maggiori, mentre alcuni musicisti contemporanei di Gaffurio certamente lo fecero. Secondo la tradizione, soltanto Pitagora era in grado di udire la musica delle sfere, ma Gaffurio corresse leggermente questa nozione sostenendo che potevano udirla solo uomini di virtù significativamente grande.

Quanto alla quarta parte del quadrivio, l'astronomia, continuarono a dominare incontrastati i sistemi di Aristotele e Tolomeo fondati su una Terra stazionaria finché qualcuno, nel Trecento, non cominciò a far sentire una voce contrastante. Era la voce di uno dei doctores parisienses, Nicola d'Oresme, il quale non andò oltre la tesi che Aristotele non era riuscito a dimostrare che la Terra non si muove. (22)

Nessun altro nel Medioevo e fino al Quattrocento prese sul serio il suggerimento pitagorico menzionato da Filolao che la Terra non sia stazionaria, o addirittura che ruoti. Quando si fece infine strada una sfida più decisa, nel Quattrocento, essa venne da un uomo che aveva un orientamento decisamente pitagorico: Nicola Cusano.

L'influenza di Pitagora e dei pitagorici durante il Medioevo non rimase confinata nelle università. (23) La corporazione dei muratori comprese Pitagora nella sua ars geometriae. Nel X secolo Gerberto di Aurillac, che divenne papa col nome di Silvestro II, si riferì a Pitagora nella sua geometria. I numerali gobar, diretti antenati dei numerali arabi moderni, furono ritenuti da molti un'invenzione di Pitagora. (*) Un'opera attribuita da alcuni a Boezio (ma che in realtà

* Verso la metà del Novecento c'era ancora un esperto, Vincenzo Capparelli, convinto che i numerali arabi fossero stati inventati da Pitagora: Vincenzo Capparelli, La sapienza di Pitagora, CEDAM, Padova 1941.

non è sua) comprendeva un metodo chiamato mensa pythagorea per calcolare con questi numeri su un abaco. (24) (*) In verità quei numeri erano originariamente indiani e furono trasmessi all'Occidente attraverso i paesi islamici e la Spagna; i numerali arabi apparvero per la prima volta in un manoscritto latino

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nel 976. (25) Per Nicomaco la numerologia neopitagorica era stata ancora più significante dell'aritmetica, e anche questa numerologia continuò a essere importante nel Medioevo; lo stesso sant'Agostino non aveva infatti accolto entusiasticamente l'idea quasi pitagorica dell'interpretazione dei numeri nella Bibbia? Come Filone di Alessandria, Agostino aveva scritto sul racconto dei sei giorni della creazione nella Genesi e sottolineato che il sei era un numero perfetto.

Chiunque abbia deciso che cosa celebrare nelle sculture che decorano le porte della cattedrale a Chartres - una delle meraviglie architettoniche del Medioevo -, stabilì di includervi una serie di statue che rappresentavano le Sette arti liberali e scelse Pitagora per simboleggiare la musica. Pitagora vi è rappresentato con i capelli e la barba lunghi, mani e faccia di un uomo almeno di mezza età, seduto e con una veste ben ornata, chino sul lavoro. Nella scuola-cattedrale di Chartres, raggiunse il suo apogeo nel XII secolo il lungo sforzo del movimento scolastico per conciliare narrazioni e concetti platonici e scritturali, compreso l'intendimento di dare al racconto della creazione della Genesi un'interpretazione più greca (in termini moderni: più «scientifica»). Giovanni di Salisbury definì Bernardo di Chartres, che fu direttore della scuola di Chartres nella prima parte del secolo, «il miglior platonico del suo tempo». Il platonismo di Bernardo e dei suoi confratelli si fondava principalmente su Agostino e su altri dotti protocristiani, sugli scritti di Boezio, sul commento di Macrobio al Somnium Scipionis di Cicerone, e sul Timeo di Platone in una traduzione di Calcidio. I dotti di Chartres videro nel Timeo una spiegazione della Genesi. Bernardo aveva in mente Pitagora e Platone quando elogiò gli antichi con parole che oltre cinque secoli dopo sarebbero state usate da Isaac Newton:

Noi siamo nani appollaiati sulle spalle di giganti. Anche se possiamo vedere di più e più lontano di loro, non è perché la no

* I più tra coloro che usavano l'abaco stavano usando numerali romani: i cambiavalute inglesi li usavano ancora nel Cinquecento! Vedi H.G. Koenigsberger, Medieval Europe: 400-1500, Longman, London 1987, p. 202.

Pitagora raffigurato in un fregio delle Sette arti liberali sulla fronte occidentale della cattedrale di Notre-Dame di Chartres.

stra vista sia più acuta o la nostra statura maggiore, ma perché essi ci sorreggono aggiungendo alla nostra altezza la loro statura gigantesca. (26) (*)

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Gli studiosi della scuola di Chartres stavano affrontando un vecchio problema: qual è la guida migliore nel viaggio verso Dio, o (se si voleva usare un linguaggio più pitagorico/platonico) verso la riunione col divino? Era la «ragione» o la «fede»? Non è meglio che le due operino insieme? Boezio aveva scritto: «Per quanto puoi, unisci fede e ragione», e quello era l'obiettivo della Scolastica. La speranza a Chartres era quella di tenere sotto controllo un terreno intellettuale e spirituale in cui si potesse accettare ciò che Dio aveva rivelato, sforzandosi però ancora di trovare una conoscenza più generale della

* T.S. Eliot riecheggiò quei sentimenti quando suggerì di rispondere, a coloro che dicono che non dovremmo leggere gli autori antichi perché sappiamo molto più di loro: «Ed essi sono quel che noi conosciamo».

realtà. Fedeli al loro platonismo, e anche al loro cristianesimo (san Paolo, I Corinzi, 13: 12, aveva detto che gli uomini potevano vedere solo «come in uno specchio, in modo oscuro»), questi studiosi accettarono la tesi che una conoscenza completa fosse impossibile nella vita. Pensavano tuttavia che fosse essenziale, nella misura di ciò che è umanamente possibile, non solo credere ma anche capire ciò in cui si stava credendo. Il Timeo di Platone sembrava uno splendido esempio di questo sforzo e di questa comprensione, anche se veniva da un filosofo pagano. Non sorprende che queste idee potessero offendere qualcuno che accusava gli studiosi di Chartres di sottovalutare la rivelazione religiosa e di farsi beffe della semplice fede. (27)

I maestri di Chartres influirono sui pensatori parigini del secolo seguente, quando l'istruzione assunse un orientamento molto più aristotelico, privilegiando nel perseguimento del sapere le percezioni dei sensi, l'esperienza e l'esperimento. La Chiesa continuò a sembrare molto più vicina a Platone - per il quale le «Forme» erano reali e il mondo percepito dai sensi un'Allusione mutevole -, incoraggiando il rifiuto del mondo sensibile, contagiato dal peccato.

Anche se verso la fine del Medioevo e all'inizio del Rinascimento gli eruditi scolastici e umanisti continuavano a raccogliere successi affrontando le sfide di nuove traduzioni, ampliando il campo del sapere e riconciliando il pensiero greco-romano col pensiero cristiano, una sporadica resistenza ai loro sforzi sarebbe continuata fino al Sei-Settecento. Alcuni continuavano ad additare come una «corruzione pagana» derivante dalla filosofìa di Platone dottrine che pensavano fossero entrate molto presto nella Chiesa primitiva. Questa resistenza non proveniva da persone ignoranti. Isaac Newton rifiutò per motivi come questi la

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dottrina della Trinità. (28) Lo stesso fece, verso la fine del Settecento, il dissidente religioso unitariano inglese Joseph Priestley, il quale riteneva che il dualismo fra materia e spirito non fosse intrinseco ai Vangeli ma fosse entrato nella Chiesa primitiva attraverso la filosofìa greca. (29)

15 «DOVE LA NATURA SI MOSTRA PIÙ ECCELLENTE

E PIÙ COMPLETA» Dal Trecento al Cinquecento

Nel Trecento la maggior parte delle persone colte in Europa considerava le lingue straniere completamente incomprensibili e dava per scontato che non le si potesse apprendere, cosicché Francesco Petrarca dimostrò un grande coraggio quando decise di imparare il greco.

Si procurò ad Avignone, dove si trovava, un docente di greco, un monaco basiliano calabrese di nome Barlaam, di Seminara. Il progetto non diede però i risultati sperati perché Barlaam fu nominato a una sede vescovile in Calabria e Petrarca fu lasciato a dolersi che non sarebbe mai pervenuto a un'ottima comprensione della filosofia a causa della sua manchevole conoscenza del greco.

Disarmantemente modesto, forse si limitò a ridacchiare quando, ormai vecchio, sentì una storia che circolava su di lui a Venezia e anche altrove: una sera quattro suoi giovani amici aristocratici, dopo un lauto pasto e abbondanti libagioni, avevano parlato di lui con degnazione, esprimendo il giudizio che fosse «senza dubbio un brav'uomo, ma alquanto manchevole come uomo di cultura».

In una lettera scritta a un ammiratore fiorentino, Francesco Bruni, solo pochi anni prima di quella manifestazione di scarso rispetto a Venezia, Petrarca aveva dichiarato di essere molto inferiore alle sue lodi:

Che cosa sono io dunque? Uno scolare, anzi nemmeno questo; un amatore delle selve, un vagabondo solitario abituato a mandar fuori dal petto suoni incomposti in mezzo agli alti faggi e, presunzione e audacia somma, abituato a maneggiare la fragile penna all'ombra di un tenero lauro; non tanto fervido creatore di opere, quanto lieto dei risultati ottenuti; un appassionato cultore più che un fertile inventore di poesia. Di nessuna setta io sono seguace: un cercatore del vero. E poiché la ricerca è ardua e io sono debole e maldestro nel compierla,

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spesso mi accade che, poco fidandomi delle mie opinioni, mi accontento di evitare l'errore e di attenermi al dubbio, disperando di raggiungere la verità. (1)

Alcuni degli «alti faggi» fra cui Petrarca era solito cantare le sue insulse canzoni erano Platone e Aristotele (che lesse in traduzione latina), Cicerone e Agostino, e Pitagora, che conobbe attraverso quegli altri autori.

La collezione di opere del periodo classico, la ricerca di manoscritti e di copie antiche, era diventata una moda per le persone sufficientemente istruite e ricche, e l'acquisizione di qualcosa di interessante suscitava un grande entusiasmo, di cui parlare con amici dagli stessi interessi. La grande biblioteca del Petrarca rifletteva questa moda e il suo amore per il sapere, ma, nonostante tutta la sua modestia, la biblioteca che aveva in testa era più vasta della maggior parte delle collezioni di libri cartacei di altri. Egli leggeva più di chiunque altro, ricordava parola per parola la maggior parte di ciò che leggeva e aveva l'abitudine di immaginarsi implicato personalmente nella storia e nella letteratura. Come scrisse un commentatore:

Essendo Petrarca un così acuto osservatore della vita reale e così dedito all'investigazione del cuore umano, tutti i ricordi del passato divennero per lui una realtà viva, ed egli si sentiva così partecipe di ogni vicenda come se ne fosse stato protagonista.

Non fu solo una bizzarria se lui, l'infaticabile autore di lettere, cominciò a tenere una «corrispondenza» con personaggi dell'antichità, come se essi potessero rispondergli. Quando leggeva le loro opere, quasi dimenticava che erano morti da molto tempo. (2)

Non sorprende che Shakespeare abbia trovato così spesso ispirazione e materiale per il suo teatro in Petrarca. Attraverso Shakespeare e altri che lo lessero, Petrarca svolse un ruolo molto influente nel plasmare la cultura del futuro.

Petrarca non era un sostenitore della dottrina pitagorica della reincarnazione, che pensava fosse un esempio del modo in cui un uomo sapiente e brillante può essere perfettamente capace di inventare delle assurdità. «Chi non sa», scrisse, «che Pitagora fu un uomo di grande genialità? Ma conosciamo anche la sua metempsicosi. Non riesco a credere che un'idea del genere abbia potuto venire in

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mente non a un filosofo, ma a un qualsiasi essere umano». L'asserzione di Pitagora di essere stato in una vita anteriore Euforbo era «una vuota

Petrarca, immaginato dall'incisore Rob Hart, 1835.

menzogna» e «un'asserzione falsa». Ma poi Petrarca dileggiò anche la tesi di Democrito che «cielo e terra, e tutte le cose in generale constino di atomi». (3)

Qualche pagina dopo queste parole sprezzanti, Petrarca cambiò registro e si riferì a Pitagora in modo deferente come al «più antico di tutti i filosofi naturali». Nessuno sa da dove egli abbia tratto le citazioni che attribuì a Pitagora e che usò per difendere non solo la fede cristiana ma anche Platone e Mosè da coloro che, «ciechi e sordi come sono, non ascoltano neppure Pitagora, il quale afferma che 'è virtù e potere solo di Dio conseguire facilmente ciò che la natura non può realizzare, dal momento che Dio è più potente ed efficiente di qualsiasi virtù o potere, e che è da lui che la natura attinge i suoi poteri.'» (4) Petrarca non credeva che Pitagora avesse effettivamente scritto queste parole, o qualsiasi altra cosa, ma pensava che altri avessero messo per iscritto quel che avevano udito da lui in conversazioni.

Petrarca viene spesso definito il primo umanista. Egli confidava così devotamente e pienamente in Dio da sentirsi libero di mettere da parte le questioni religiose più profonde per concentrarsi invece sulla filosofia, che preferiva definire come lo studio dell'arte della felicità e del vivere bene. (5) Pitagora, Platone e il cristianesimo gli sembravano un continuo naturale, logico.

Alla metà del secolo seguente, il Quattrocento, un personaggio di grande levatura come Lorenzo de' Medici fornì il suo patronato a un tentativo di far rivivere l'Accademia di Platone nella villa di Marsilio Ficino, nei pressi di Firenze. L'Accademia platonica fu il sogno realizzato di Ficino. Egli tradusse tutte le opere di Platone direttamente dal greco al latino, scrisse commenti su di esse, e riunì un gruppo di scrittori, pensatori e artisti per studiarle in un ambiente congeniale.

Quando Ficino ebbe terminato di tradurre anche Porfirio, Giamblico, Proclo e Plotino, coloro che non sapevano il greco potevano leggere in latino quasi l'intera produzione superstite degli autori platonici e neoplatonici. È un peccato che Petrarca sia vissuto un secolo troppo presto per potersi godere tutte queste opere in traduzione!

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Un membro dell'Accademia di Ficino era il pittore Sandro Botticelli, la cui Primavera era presumibilmente una metafora visiva per la musica delle sfere, mettendo in relazione creature mitologiche e orbite planetarie alle note di un'ottava in musica. Lo stesso Ficino sviluppò un sistema complesso di musica celeste. Egli era interessato anche agli antichi Padri della Chiesa e, come Petrarca, pensava che la dottrina e il ragionamento platonici (che riteneva ispirati divinamente) fossero in armonia col cristianesimo, potendo fornire una conferma indipendente dei dogmi cristiani in un modo che avrebbe soddisfatto anche i contemporanei di Ficino con orientamenti scettici o addirittura atei. Egli diede un'interpretazione pitagorico-platonica alla trattazione del peccato e della salvezza dell'uomo, riferendosi alla convinzione che l'esistenza terrena dell'anima sia un esilio dalla sua patria divina. I pitagorici e i platonici concordavano, egli scrisse, sul fatto che, «a causa di una certa malattia della mente umana, ci colpisce ogni sorta di morbosità e difficoltà; ma se qualcuno ripristinasse l'anima nella sua condizione precedente, tutto tornerebbe immediatamente in ordine». Per Ficino, questa situazione assomigliava a quella dell'umanità caduta nel peccato che guardava alla salvezza attraverso Gesù nella dottrina cristiana. Un desiderio di tornare a Dio era incorporato nella natura umana:

Proprio come [secondo Aristotele], quando un elemento si trova fuori del proprio luogo, la sua forza e inclinazione naturale verso quel luogo si preservano insieme alla sua natura, tanto che a un certo tempo egli è in grado di tornare nella sua regione, così essi [i pitagorici e i platonici] pensano che, anche dopo che l'uomo si è ritirato dalla retta via, gli rimane il potere naturale di tornare prima alla via, poi alla meta. (6)

Ficino concordava con la conclusione di certi neopitagorici che la stessa sapienza primordiale fosse emersa in diverse epoche e culture.

La verità della filosofìa, della religione e della scienza naturale, in tutti i tempi e in tutti i luoghi, era - a un qualche livello profondo, non ancora scandagliato — una verità coerente. Questa, secondo Marsilio Ficino, era una manifestazione dell'«unità» alla quale i pitagorici avevano sempre tributato una vera venerazione.

Nella città di Parma, in questo stesso periodo, il musicista e medico Giorgio Anselmi (ritenuto da qualcuno anche un mago) sviluppò il primo sistema dopo quello di Giovanni Scoto Eriugena per tener conto del fatto che i pianeti cambiano le loro distanze dalla Terra.

Nel piano cosmico musicale di Anselmi un pianeta produceva non un tono ma molte note diverse al variare della sua distanza, cosicché ognuno di essi intonava

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il proprio canto. Tutti i canti dei pianeti insieme producevano uno splendido contrappunto e armonia. Benché nessuna musica del suo tempo andasse oltre un'estensione di tre ottave, la scala planetaria di Anselmi, calcolata a partire dai periodi dei pianeti, copriva dalle stelle fisse alla Luna un'estensione di otto ottave.

L'amico fiorentino più giovane del Ficino, Giovanni Pico, conte di Mirandola (più in breve Pico della Mirandola), amava usare l'espressione «l'antica teologia di Pitagora». Egli considerò Pitagora non meno di un sapiente cristiano e collegò la pace promessa da Gesù - «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò» (Matteo, 11, 28) - con una pace pitagorica in cui tutte le anime razionali non solo verranno in armonia nell'unica mente che è sopra tutte le menti, ma diventeranno una in un qualche modo ineffabile. Questa è l'amicizia che i pitagorici dicono essere il fine dell'intera filosofia. Questa è la pace che gli angeli scendendo sulla Terra [alla nascita di Gesù] proclamarono agli uomini di buona volontà, attraverso la quale gli uomini potrebbero ascendere al cielo e diventare angeli.

Fino a quel tempo, «auguriamo questa pace ai nostri amici, al nostro secolo [...], a ogni casa nella quale andiamo», scrisse. (7)

Pico non scrisse sempre in un modo così chiaro e semplice. Uno dei suoi documenti più incomprensibili furono le «Quattordici conclusioni secondo la matematica pitagorica», (8) derivanti dal fascino esercitato su di lui dal «metodo di filosofare attraverso i numeri», quale fu insegnato da «Pitagora, Filolao, Platone e i primi platonici». (9) Aristotele avrebbe chiamato a comparire in giudizio questo tuffatore delio!

1. Unità, dualità e ciò che è sono le cause dei numeri: Uno, dei numeri unitari; due, dei numeri generativi; ciò che è, dei numeri sostanziali.

2. Nei numeri partecipati, alcuni sono specie di numeri, altri sono unioni di specie.

3. Dove l'unità del punto procede all'alterità del binario, ivi esiste per la prima volta il triangolo.

4. Chiunque conosca la serie di 1, 2, 3, 4, 5, 12, possiederà esattamente la distribuzione della provvidenza.

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5. Con 1, 3 e 7 noi intendiamo l'unificazione del separato in Pallade: il potere causativo e beatificante dell'intelletto.

6. La triplice proporzione - aritmetica, geometrica e armonica — rappresenta per noi le tre figlie di Temi, essendo i simboli del giudizio, della giustizia e della pace.

7. Attraverso il segreto delle linee rette, riflesse e rifratte nella scienza della prospettiva, ci viene ricordata la triplice natura: intellettuale, animale e corporea.

8. La ragione è nella proporzione di un'ottava alla natura concupiscente.

9. La natura irascibile è nella proporzione di una quinta alla natura concupiscente.

10. La ragione è nella proporzione di una quarta all'ira.

11. In musica non si deve badare al giudizio del senso, ma solo a quello dell'intelletto.

12. Nel numerare le forme non dovremmo superare 40.

13. Ogni numero piano equilatero potrebbe simboleggiare l'anima.

14. Ogni numero lineare potrebbe simboleggiare gli dèi.

Non sorprende che quando il ventitreenne Pico andò a Roma e si offrì di discutere su un altro dei suoi elenchi, le Novecento conclusioni, nessuno raccolse la sfida. Come le «Quattordici conclusioni», le Novecento erano brevi frasi che coprivano gli argomenti della teologia scolastica e dell'antica teologia, della filosofia araba e platonica, degli oracoli caldei, dei magi zoroastriani e delle dottrine orfiche. (*) Tutte queste cose, secondo Pico, erano conciliabili fra loro, ed egli era pronto a discuterne con chiunque non fosse stato d'accordo. La verità era universale. Quelle che potevano sembrare scuole di pensiero e dottrine in opposizione fra loro erano la stessa sapienza primordiale del genere umano, e condividevano una comune verità.

L'interesse di Pico era stuzzicato dalla letteratura cabalistica ebraica, nella quale parole e numeri fornivano una sorta di codice mistico.

La Qabbala è una forma di misticismo ebraico che, pur avendo già radici nel I secolo d.C., emerse pienamente nel XII. Benché un testo del misticismo Merkava

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(un precursore della Qabbala) avesse incluso una storia della creazione con dieci numeri divini, e uno dei più importanti testi cabalistici, il Sefer ha-bahir (Libro dello splendore) del XII secolo, avesse introdotto nell'ebraismo l'idea della trasmigrazione delle anime, in nessuno dei due casi c'era un legame noto con Pitagora. Un altro uomo che si immerse nella Qabbala press'a poco nello stesso tempo di Pico della Mirandola sostenne invece che c'era una connessione. Quest'uomo fu Johann Reuchlin, un umanista tedesco che cominciò a combinare lo studio dell'ebraico, del greco, della teologia, della filosofia e della Qabbala, e a connettere il tutto al nome di Pitagora. Egli scrisse al papa Leone X che, come aveva fatto così mirabilmente Ficino in Italia per Platone, così egli avrebbe «completato l'opera con la rinascita di Pitagora in Germania». Reuchlin razionalizzò la connessione con la Qabbala richiamando l'attenzione sul fatto (opinabile) che «la filosofia di Pitagora era stata tratta dagli insegnamenti della scienza caldea». (10) (**)

Nello stesso secolo in cui Marsilio Ficino fondò la sua Accademia fiorentina e Pico lanciò le sue sfide intellettuali, il loro contemporaneo più vecchio Leon Battista Alberti, ispirato dall'opera classica di Vitruvio, stava sottolineando le belle proporzioni negli edifici e insistendo sull'applicazione di princìpi pitagorici in architettura. Stavano uscendo opere sull'architettura in quattro o in dieci libri. Vitruvio aveva scritto i suoi dieci libri De architectura nel I secolo a.C., mentre

* Gli «Oracoli caldei», scritti in versi nel II secolo d.C. da un tale Giuliano il Teurgo e da suo figlio, combinavano credenze babilonesi e persiane con la filosofia platonica e neoplatonica e divennero un libro religioso importante per i neoplatonici.

** In questo caso «caldeo» significa babilonese.

l'Alberti produsse il suo De re aedificatoria, anch'esso in dieci libri, nel 1485. (*) Essi furono tradotti dal latino in italiano alla metà del Cinquecento. Alberti amava usare quelle che riteneva idee pitagoriche ed estenderle in modi personali:

Sono ogni giorno sempre più convinto della verità del detto pitagorico che la natura è sicura di agire con coerenza, e con una costante analogia in tutte le sue operazioni. Ne concludo che i numeri per mezzo dei quali l'accordo dei suoni delizia il nostro orecchio, sono gli stessi che piacciono ai nostri occhi e alla nostra mente. Noi attingeremo perciò tutte le nostre regole per la rifinitura delle nostre proporzioni dai musici, che sono i massimi maestri di questa sorta di numeri, e da quelle cose in cui la natura si mostra più eccellente e più completa. (11)

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Alberti divise i tipi di aree da misurare in un progetto architettonico in tre categorie: corto, medio e lungo. I rapporti pitagorici erano gli unici che si applicassero alle aree «corte» o «semplici»: la più corta era un quadrato; l'area successiva era un'area che partiva dal quadrato aggiungendovi poi un terzo di spazio, e formando così un rapporto di 3 a 4 fra il quadrato e l'area totale.

Anche l'area più lunga era un quadrato, a cui si aggiungeva uno spazio pari a metà di quello del quadrato, formando così un rapporto di 2 a 3 fra il quadrato e l'area totale.

* Il grande Andrea Palladio ne avrebbe scritti quattro (I quattro libri dell'architettura, Venezia 1570).

Per aree più grandi Alberti usava proporzioni che andavano oltre questi rapporti, ma tutte, in un modo o in un altro, potevano essere collegate ad essi.

Benché Alberti fosse uno fra i più importanti teorici dell'architettura nel Rinascimento e anche uno dei maggiori architetti del tempo, i grandi successi da lui ottenuti non si possono certamente confinare all'architettura. Egli fu infatti un vero «uomo del Rinascimento: un filosofo morale, un uomo che dette grandi apporti alle tecniche della topografia e della cartografia, un pioniere della crittografia e il primo a sistematizzare e a formulare le regole per disegnare un'immagine tridimensionale su una superficie bidimensionale, stabilendo principi che sarebbero stati alla base del disegno prospettico da quel tempo in avanti. Tuttavia, fu certamente in architettura che egli esercitò la sua influenza più durevole, grazie non solo agli splendidi edifici da lui progettati, (*) ma anche al fatto che i suoi dieci libri De re aedificatoria, con i loro princìpi pitagorici, furono letti e studiati da tutti gli architetti del Rinascimento dopo di lui, compreso Andrea Palladio, che fu forse l'architetto più importante di tutti i tempi.

Nella prima parte del secolo dell'Alberti, Nicola Cusano, nato nel 1401, aveva escogitato un nuovo approccio a strutture a una scala molto maggiore: l'intero cosmo. Benché il suo nome (italianizzato attraverso la latinizzazione) possa sembrare italiano, Nicola (che si chiamava in realtà Nikolaus Chrypffs o Krebs) era figlio di un battelliere della Mosa. Ricevette la sua istruzione religiosa insieme a un gruppo di laici devoti nei Paesi Bassi e l'istruzione universitaria a Heidelberg

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e a Colonia. In seguito, come docente universitario e cardinale della Chiesa cattolica, Nicola non solo trovò che la fede cristiana e la filosofia classica erano compatibili, ma che tale compatibilità gli offriva un terreno fertile da cui dare inizio a un pensiero innovativo in altre aree del sapere. Decise così che Dio era infinito e l'universo non aveva altro limite oltre a Dio..., cosicché anche l'universo era infinito. Contrariamente a quanto pensavano i più (che lo avevano appreso da Aristotele), il Cusano insistette che l'universo non era

* Fra gli edifici più importanti dell'Alberti si possono ricordare, a Firenze, il palazzo e la cappella Rucellai, l'Annunziata e la facciata di Santa Maria Novella; a Rimini il Tempio Malatestiano; a Mantova le chiese di S. Sebastiano e di S. Andrea.

fatto di tipi di sostanze diverse a vari livelli, come la regione impura in prossimità della Terra e la regione incorruttibile delle sfere celesti.

L'universo era omogeneo. Le stelle erano «ognuna come il mondo in cui viviamo, ognuna una particolare area del nostro universo, il quale contiene altrettante aree quante sono le innumerevoli stelle». (12) II Cusano era sicuro che la Terra fosse una stella come il Sole e come le altre stelle e che si muovesse. Questa non era l'astronomia ortodossa, aristotelico-tolemaica, della Terra stazionaria che veniva insegnata nelle università! Il Cusano elaborò le sue idee in un sistema molto originale fondato sulla matematica. Egli non suggerì che un altro corpo sostituisse la Terra nella sua posizione centrale, ma anche senza che un altro corpo andasse a occupare il «centro dell'universo», la sua proposta era fortemente rivoluzionaria.

Nicola credeva che la mente umana avesse un potere innato di conoscere cose e di acquisire conoscenza e, come Aristotele, pensava che il sapere dovesse essere appreso direttamente dalla natura e dall'esperienza. Credeva inoltre che l'apprendimento sulla natura e sull'universo richiedesse l'uso di numeri e lo studio di proporzioni e rapporti numerici. Nicola era affascinato dall'uso dei pitagorici di applicare numeri a molti aspetti della vita. Nel trattato Sulla concordanza cattolica usò l'ordine dei cieli come modello per l'armonia nella Chiesa; e nel De docta ignorantia tracciò un parallelo fra la ricerca della verità e la conversione di un quadrato in un cerchio.

Nicola Cusano, come Leon Battista Alberti, era un uomo del Rinascimento. Disegnò una carta geografica dell'Europa e fu il primo a provare che l'aria ha un peso. A quanto pare non si preoccupò mai che le sue idee sull'ordinamento del

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cosmo potessero essere in conflitto con la dottrina della Chiesa. Pare del resto che non avesse ragione di preoccuparsi. La Chiesa non lo condannò né lo criticò mai.

L'astronomia si accingeva a compiere una svolta ancora più decisamente pitagorica. Nel 1495 il ventiduenne Niccolò Copernico e il fratello maggiore Andreas partirono dalla natia Polonia e, attraversando a piedi le Alpi, raggiunsero infine la loro meta, Bologna, sede della più antica università italiana. Niccolò aveva studiato per quattro anni nell'Università Jagellonica di Cracovia, che era famosa per lo studio dell'astronomia. Se uno studente, dopo avere concluso lo studio del Quadrivio e del Trivio voleva completare la sua istruzione, sceglieva un campo di studio e andava a studiare in un'università specializzata. Lo zio e tutore Lucas Watzenrode, uomo influente che divenne poi vescovo di Warmja, era evidentemente preoccupato che Niccolò sviluppasse un forte interesse per l'astronomia. Sperando che il sole d'Italia e la stimolante comunità intellettuale dell'Università di Bologna potessero orientare gli interessi del giovane in qualche direzione migliore, insistette che Niccolò andasse a Bologna, che era famosa per la sua facoltà di legge. (Copernico conseguì infine in Italia un dottorato in diritto canonico, il diritto della Chiesa, ma non a Bologna, bensì a Ferrara.)

Negli anni trascorsi a Bologna, Copernico conobbe i principali studiosi e docenti di astronomia e astrologia dello Studio bolognese, e anche un matematico di nome Domenico Maria Novara, la cui influenza fu probabilmente la più importante di tutte quelle che si esercitarono su Copernico in quegli anni. Domenico Maria era un neoplatonico e, pur essendo più giovane, aveva rapporti con i membri dell'Accademia platonica di Ficino a Firenze. Il suo neoplatonismo era decisamente pitagorico. Egli credeva con grande fervore nel bisogno di scoprire la semplice realtà matematica e geometrica che era alla base dell'apparente complessità della natura, e sosteneva che nulla di così complicato e macchinoso come l'astronomia tolemaica poteva essere una rappresentazione corretta del cosmo. Il suo giovane amico Copernico si trovò ben presto a essere d'accordo con lui.

Non furono nuove scoperte astronomiche o osservazioni del cielo più esatte e minuziose a motivare Copernico a rifiutare l'astronomia geocentrica di Tolomeo e a sostituirla con un sistema eliocentrico.

Anche se nel lungo corso dei secoli l'accumulo degli errori prodotti dal sistema tolemaico lo aveva reso sempre meno esatto nella determinazione delle posizioni dei pianeti, durante la vita di Copernico non esisteva alcuno strumento d'osservazione abbastanza preciso da mostrare se il sistema copernicano

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risolvesse o no il problema. Il telescopio non sarebbe apparso sino alla fine del primo decennio del Seicento, e le poche osservazioni astronomiche fatte dallo stesso Copernico furono spesso meno esatte di quelle compiute da astronomi ellenistici o islamici anche parecchi secoli prima di lui.

Gli antichi pitagorici, nella scia della loro scoperta dei rapporti dell'armonia musicale, avevano proceduto disordinatamente in varie direzioni per decidere che nel cosmo dovevano esserci dieci corpi; trascurando il fatto che non c'erano prove della correttezza di questo numero, avevano anticipato la natura ed erano così pervenuti a conclusioni sbagliate. Ma anche Copernico si comportò spesso in modo simile; quando infatti concludeva che l'astronomia tolemaica non poteva essere corretta, lo faceva in gran parte per ragioni diverse da prove fisiche. Forse l'inizio della rivoluzione scientifica non fu tanto

Niccolò Copernico scientifico, o almeno non nel modo in cui noi intendiamo comunemente la parola «scientifico».

Copernico tradusse in latino almeno due testi greci, senza rendersi conto che almeno uno di essi, la Lettera di Liside a Ipparco, era un falso. Il fatto che egli conoscesse in generale la lettera era sintomatico del suo intenso interesse per Pitagora e per i pitagorici. In origine, addirittura, egli non chiamò la sua teoria «sistema copernicano» bensì Astronomia pythagorica o Astronomia philolaica, e considerò la possibilità di adottare la pratica pitagorica della segretezza. Nella Lettera dedicatoria del De revolutionibus al papa Paolo III, Copernico giustificò il lungo ritardo nella pubblicazione dell'opera riferendosi all'esempio di Pitagora e dei pitagorici.

Quando fra me e me pensavo quanto assurdo avrebbero valutato questo [discorso] coloro che sanno confermata dal giudizio di molti secoli l'opinione che la Terra sta immobile in mezzo al cielo, quasi posta a centro di esso, se al contrario avessi asserito che la Terra si muove, a lungo esitai se dare in luce i miei commentari scritti a dimostrazione di tale movimento, oppure se non fosse meglio seguire l'esempio dei pita gorici e di alcuni altri che erano soliti tramandare i misteri della filosofia soltanto a congiunti ed amici non per iscritto, ma oralmente, come attesta la lettera di Liside a Ipparco. (13)

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Copernico aveva pensato di includere la Lettera di Liside nel De revolutionibus, ma poi decise di non farlo. Avendo giustificato il suo lungo periodo di segretezza, però, continuò nella stessa prefazione-lettera dedicatoria al papa a rimandare ai pitagorici come a un precedente per le sue idee nell'antichità. Non essendo soddisfatto delle spiegazioni dei moti celesti fornite da Tolomeo, disse, aveva cominciato a cercare nei «libri di tutti i filosofi che potessi avere». Aveva cosi scoperto alcuni autori influenti che, dopo tutto, non avevano concordato col consenso generale. Nel III secolo a.C. Aristarco di Samo aveva spostato il Sole al centro nella sua notevole cosmologia. Cicerone aveva menzionato il suggerimento di Iceta che la Terra si muovesse.

Meglio ancora, Plutarco aveva scritto nei Placita philosophorum (Copernico lo cita in greco):

Altri pensano che la Terra sia ferma, ma Filolao il pitagorico ritiene che si muova ruotando intorno al fuoco con un cerchio obliquo, alla stregua del Sole e della Luna. Eraclide Pontico ed Ecfanto il pitagorico fanno pure muovere la Terra, ma non attraverso lo spazio, bensì a guisa di ruota, da occidente a oriente, intorno al suo stesso centro. (*)

Il filosofo della scienza Paul Feyerabend osservò che quando Copernico decise di riordinare il cielo, non consultò i suoi «predecessori scientifici» ma citò invece un «pitagorico folle». (14)

Nel capitolo 10 del libro I del De revolutionibus, Copernico illustra nel modo più compiuto l'armonia nuova ed esteticamente bella del suo sistema, rivelando nel corso di questo processo quanto bene conoscesse Platone, una grande quantità di opere della letteratura

* Ecfanto il pitagorico visse nel IV secolo a.C. C'è qualche sospetto che possa essere stato solo un personaggio immaginario in uno dei dialoghi di Eraclide Pontico, ma Copernico pensava che fosse un personaggio storico, e la maggior parte degli studiosi moderni tendono a essere d'accordo. [La traduzione italiana citata qui del brano dei Placita è di C. Vivanti, in Niccolò Copernico, De revolutionibus orbium caelestium, a cura di Alexandre Koyré, Einaudi, Torino 1975, p. 19. (N.d.T.)]

classica, e persino le opere di astronomi islamici. Richiamando l'attenzione sulla semplicità del nuovo sistema astronomico, scrisse:

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Credo che sia più facile da concedere [la nuova disposizione dei corpi celesti] che lacerare l'intelletto in una moltitudine quasi infinita di orbi, come sono stati costretti a fare coloro che posero la Terra al centro del mondo. È da seguire piuttosto l'avvedutezza della natura, che come si è soprattutto guardata dal produrre alcunché di superfluo e di inutile, così ha piuttosto spesso dotato una sola cosa di molti effetti [...]. Troviamo così in questo ordinamento un'ammirevole simmetria del mondo e un sicuro nesso armonico fra il movimento e la grandezza degli orbi, quale altrimenti non è possibile trovare. (15)

L'intuizione pitagorica, risalente al VI secolo a.C., che alla base della natura ci siano chiaramente armonia e regolarità semplici espresse in numeri, fu per Copernico un punto convincentemente forte a favore del suo riordinamento del cosmo. La potenzialità dei numeri, in combinazione con una preferenza per l'armonia e per la semplicità, di condurre a una comprensione più vera dell'universo - una potenzialità che era stata poco sfruttata dai primi pitagorici e reinterpretata da moltissime persone in molti modi, alcuni dei quali decisamente alquanto strani - stava infine per essere realizzata.

Copernico non visse abbastanza per vedere stampato il risultato del suo sogno pitagorico. Se vide una copia stampata del De revolutionibus fu sul suo letto di morte, avendo seguito per molti anni il precetto pitagorico della segretezza prima di decidersi, finalmente, a pubblicare il libro. L'astronomia che egli riuscì a sviluppare nel De revolutionibus risultò essere, nei particolari, quasi altrettanto complicata di quella di Tolomeo, ma quei pochi che lessero con cura il suo libro e riconobbero che Copernico intendeva molto sul serio il suo rivoluzionario suggerimento eliocentrico, si trovarono a imboccare effettivamente con la mente sgombra una nuova via. La grande intuizione pitagorica che aveva guidato Copernico si accingeva a guidare uomini più giovani dal Medioevo nel mondo moderno.

Altri uomini, nel Cinquecento, furono affascinati dalle idee dei pitagorici per quelle che potevano sembrare superficialmente ragioni del tutto diverse. In realtà c'erano connessioni profonde che avevano attinenza con l'armonia e con i numeri.

Tendenze architettoniche iniziate da Vitruvio nell'antichità e continuate dall'Alberti nel Quattrocento furono portate all'apogeo nel Cinquecento nell'opera di uno degli architetti più geniali di tutti i tempi, Andrea Palladio, la cui ascesa da

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scalpellino ad architetto colto ebbe luogo grazie a un'«accademia» simile a quella fondata nel Quattrocento da Marsilio Ficino e protetta da Lorenzo de' Medici nella villa di Ficino nei pressi di Firenze. Seguendo il modello del Ficino, le accademie si erano gradualmente moltiplicate nell'Italia settentrionale; quasi tutte le città importanti ne ebbero almeno una.

Tentativi deliberati di ricreare l'originale dell'Accademia di Platone, erano una combinazione di convitto, scuola, centro di lezioni e luogo attraente, in cui dotti, intellettuali e amanti del sapere potevano incontrarsi e discutere di letteratura, filosofia, matematica e musica. Le attività comprendevano spesso esercizi fisici ed esecuzioni musicali.

Sorprendentemente, non vi si badava molto al rango sociale, e uomini di capacità e talento, anche se di condizione sociale modesta, vi stavano a stretto contatto con ricchi aristocratici.

Quando Palladio aveva poco più di vent'anni, all'inizio degli anni Trenta del Cinquecento, fu assunto come scalpellino per un progetto di costruzione vicino a Vicenza. Il conte Gian Giorgio Trissino, facoltoso studioso umanista e poeta, stava ricostruendo la sua villa in stile classico per ospitarvi un'accademia. Trissino aveva progettato lui stesso il nuovo edificio, e pensava che il suo progetto fosse un'interpretazione dell'opera di Vitruvio. Tenendo d'occhio i progressi della costruzione, Trissino osservava il Palladio al lavoro, volle conoscerlo e decise che il giovane meritava un'educazione umanistica.

Nei suoi famosi Quattro libri dell'architettura, editi a Venezia nel 1570, Palladio istituì una connessione diretta con la scoperta pitagorica che certi rapporti in musica producevano suoni che erano gradevoli all'orecchio umano indipendentemente dal fatto che chi li ascoltava conoscesse o no i numeri sottostanti. Palladio era convinto che, come le proporzioni dei suoni sono un'armonia per l'orecchio, così le misurazioni sono un'armonia per gli occhi, i quali ne provano un grande piacere pur non conoscendone la ragione, se non nel caso di coloro che studiano per sapere le ragioni delle cose. Per lui i numeri preferiti che avrebbero prodotto un tale piacere spontaneo negli osservatori di un edificio erano quelli fondati sulle stesse sequenze scoperte dai pitagorici nei rapporti dell'armonia musicale: 1:2, 2:3 e 3:4. (16)

Nel libro I Palladio scelse sette insiemi delle proporzioni più belle e armoniche da usarsi nell'architettura delle sale. Fra di esse c'erano

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Andrea Palladio ovviamente il cerchio e il quadrato. Altre quattro erano derivate dai rapporti musicali pitagorici, e quella restante era la stessa stanza che Vitruvio aveva ricostruito fondandosi sulla lezione di geometria tenuta da Socrate nel Menone, con una dimensione della stanza incommensurabile. Le sette forme e proporzioni del Palladio erano un cerchio, un quadrato (1:1), una sala la cui lunghezza era uguale alla diagonale del quadrato (1:1,414... ecc.), un quadrato più un terzo (3:4), un quadrato più un mezzo (2:3), un quadrato più due terzi (3:5), e un doppio quadrato (1:2).

Anche se Palladio dedicò alle proporzioni armoniche soltanto un capitolo nel II libro, e se altri autori che si occuparono in seguito di lui si preoccuparono più di lui, artigiano, degli aspetti teorici del suo lavoro, queste proporzioni pitagoriche furono molto evidenti nei suoi disegni. (17) Palladio non sembrava preoccupato che ci fossero differenze fra i disegni degli edifici e gli edifici reali che ne risultavano.

Se si credeva a Platone, le Forme o Idee non erano mai pienamente realizzate nel mondo materiale.

I quattro libri dell'architettura del Palladio furono probabilmente l'opera più influente scritta in questo campo. Palladio scrisse in italiano per un pubblico generico, e Daniele Barbaro, per il quale Pal ladio progettò la Villa Barbaro vicino a Venezia, descrisse giustamente l'opera del Palladio come una guida completa dell'arte del costruire dalle fondamenta al tetto. Ben presto dopo la pubblicazione dell'opera nel 1570, il libro e i suoi disegni ebbero un grandissimo successo in tutta l'Europa continentale, e all'inizio dell'anno seguente Inigo Jones, di ritorno da un viaggio in Italia, introdusse l'architettura palladiana in Inghilterra. Dopo questo «primo grande palladiano inglese», autore di vari importanti edifici fra i quali sopravvivono oggi la Queen's Chapel nel St. James Palace a Londra e la Banqueting House a Whitehall, Londra, molte fra le grandi residenze di campagna inglesi furono ben presto costruite, o ricostruite, su linee palladiane. Lord Burlington costruì su progetto del Palladio le Assembly Rooms a York e si ispirò per la propria residenza, Chiswick House, alla Villa Rotonda del Palladio. Intorno al 1800 Thomas Jefferson progettò il suo Monticello palladiano in Virginia, e numerose chiese americane, edifici universitari, strutture ufficiali, monumenti commemorativi a Washington proseguirono nella stessa direzione; si aveva infatti la sensazione che ci fosse una connessione fra i princìpi palladiani dell'architettura, con le loro proporzioni pitagoriche, e l'istruzione, il progresso e un saggio governo della società. La progettazione palladiana si diffuse in Germania, Russia, Polonia, e poi di nuovo in Italia, e in Scandinavia.

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Uno degli edifici più insoliti costruiti usando proporzioni palladiane fu il palazzo-osservatorio che Tycho Brahe, il più grande fra tutti gli astronomi d'osservazione del periodo pretelescopico, si fece costruire nell'ultima parte del Cinquecento nell'isola di Hven in Danimarca. Avendo compiuto viaggi in Europa, il giovane aristocratico danese aveva visitato Venezia e il Veneto negli anni in cui vi stava costruendo Palladio, e probabilmente aveva visto anche I quattro libri di architettura, che non poteva non apprezzare essendo un esperto conoscitore dei bei libri. Tycho era forse a conoscenza dell'umile origine di Palladio come scalpellino, poiché, per il suo progetto, assunse appunto uno scalpellino, di nome Hans van Steenwinkel, innalzandolo al rango di capomastro.

Non tutti coloro che costruivano in stile palladiano prestavano attenzione alle proporzioni pitagoriche o palladiane, ma Tycho Brahe sì. Quando il suo «Uraniborg» fu terminato, pur apparendo a prima vista tutt'altro che palladiano incorporava tutti i rapporti musicali pitagorici, e la simmetria si estendeva al paesaggio, esattamente come consigliava Palladio. Le torri con porte, nei lati est e ovest dell'edificio, erano lunghe e larghe ognuna quindici piedi danesi; l'altezza del la facciata era di trenta piedi, il colmo del tetto era di quarantacinque, il lato del blocco centrale di 60 piedi, dando così il rapporto di 1:2:3:4. Gli stessi rapporti sono alla base delle dimensioni delle sale di Tycho e di altri elementi della struttura. Il muro perimetrale che cinge il giardino di Uraniborg racchiude un'area quadrata divisa da viali in diagonale, esattamente come Socrate aveva diviso i quadrati nel dialogo platonico del Menone. Chi non fosse stato al corrente delle intenzioni di Tycho e non avesse avuto familiarità con l'architettura del Palladio, o non avesse badato ai rapporti pitagorici, non avrebbe notato queste sottigliezze matematiche e musicali, ma Tycho era sicuro che quest'armonia avrebbe reso la sua casa e i suoi giardini soddisfacenti all'occhio e all'anima, incoraggiando un lavoro pacifico e intelligente e ispirando qualsiasi persona sensibile. Tycho progettò e costruì Uraniborg sia come sua residenza sia come osservatorio astronomico, il tutto al fine di poter meglio osservare il cielo, dove si sarebbe potuta scoprire l'armonia delle sfere: i rapporti musicali, o forse anche qualche armonia più profonda. In nessun altro luogo l'ideale pitagorico e palladiano delle proporzioni sarebbe stato realizzato in modo così letterale, e così personale, come a Uraniborg. (18)

Per ragioni complicate implicanti la politica danese e problemi personali, Tycho Brahe dovette infine abbandonare questo notevole palazzo, a cui era tanto legato, e la Danimarca, e andare in esilio: un esilio che gli avrebbe offerto l'opportunità di incontrare Keplero.

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16 «QUANDO LE STELLE DEL MATTINO CANTAVANO

TUTTE INSIEME»: GIOVANNI KEPLERO

Cinquecento e Seicento

All'inizio dell'ultimo decennio del Cinquecento, il sogno bimillenario della razionalità, dell'unità e del potere dei numeri stava per essere sottoposto a un serio test. Pitagora e i suoi seguaci erano certi di aver colto un barlume, come attraverso una fessura o un buco della chiave, di una verità fondata su numeri nascosti dietro la facciata della natura. Keplero avrebbe spalancato la porta una volta per tutte. Dopo di lui, per una curiosa ironia e contro le sue intenzioni, il concetto della musica delle sfere sarebbe sopravvissuto solo in immagini poetiche.

Eppure, in un modo profondo e meraviglioso, la fede incorporata in quel concetto - la fede in un universo mirabilmente razionale e ordinato -, temperata dal genio immaginativo e dalla rigorosa matematica di Keplero, avrebbe finalmente fornito esempi reali di quella musica celata alla base della scienza.

Nel seminario di Maulbronn, in cui l'adolescente Keplero, ansioso ma vivacemente intellettuale e religioso, studiò dal 1586 al 1588, si insegnavano geometria sferica e aritmetica, ma egli si imbatté nell'astronomia solo quando si iscrisse all'Università di Tubinga. La missione del seminario di Tubinga, il Tübinger Stift, all'università in cui studiava e alloggiava Keplero, era quella di preparare i giovani per carriere al servizio del duca di Württemberg o per il clero luterano, ma il corso di studio era alquanto ampio. La convinzione che ci fosse un'unità di tutto il sapere sopravvisse nel curriculum «filippista» delle grandi università luterane dopo la riforma, come già nel quadrivio e trivio classico e medievale e nel pensiero umanistico. Il termine «filippista» si riferiva alla filosofia dell'educazione sviluppata dal discepolo e amico di Martin Lutero, Filippo Melantone, il quale aveva sostenuto che non si poteva veramente capire e padroneggiare alcuna parte della conoscenza se non la si capiva e padroneggiava tutta: un'idea che sarebbe stata sicuramente approvata da Archita.

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Melantone pensava che la Chiesa non potesse insegnare la via della salvezza se non producendo un clero colto, profondamente radica to nelle arti liberali. La lettura delle Scritture, dei Padri della Chiesa, dei filosofi classici richiedeva una buona conoscenza dell'ebraico, del latino e del greco. Aritmetica e geometria erano necessarie per la comprensione sia degli aspetti secolari sia degli aspetti sacri del mondo, e l'astronomia era la più celeste di tutte le scienze. Secondo la filosofia filippista, inoltre, poiché il cosmo era ordinato e armonioso si poteva, e si doveva, non solo osservare e registrare, ma anche fare ipotesi su di esso.

Agli inizi della sua carriera universitaria Keplero si rese conto che la teologia, la matematica e l'astronomia sarebbero state tutte essenziali nella sua personale ricerca della verità. Egli non smise mai di essere un uomo devotamente religioso, ma, come scrisse in seguito, credeva che «Dio volesse essere conosciuto anche attraverso il libro della natura». Era forse in vista di ciò (pensò presumibilmente Keplero) che Dio aveva predisposto che all'Università di Tubinga si trovasse un superbo professore di matematica e di teologia: Michael Mastlin.

Quando Keplero arrivò finalmente a Tubinga nel 1589, erano trascorsi quarantasei anni dalla morte di Copernico e dalla pubblicazione del De revolutionibus orbium caelestium, avvenuta nel 1543. Molti studiosi trovavano inestimabile la comprensione della meccanica celeste da parte di Copernico, mentre preferivano ignorare il suo riordinamento del cosmo. L'Università di Tubinga insegnava ancora ufficialmente l'astronomia tolemaica, e Michael Mastlin voleva che i suoi allievi avessero delle buone basi in essa, cosa di cui Keplero gli sarebbe stato grato in seguito quanto cercò di rovesciarla. Mastlin pensava però che il sistema di Copernico dovesse essere inteso alla lettera e che i pianeti, e la Terra, orbitassero in effetti intorno al Sole.

Keplero aveva letto anche il Cusano e avrebbe scritto ben presto: «Ho raccolto per gradi - in parte dalle lezioni di Mastlin, in parte da me - tutti i vantaggi matematici che Copernico ha su Tolomeo».

In una lettera da lui scritta in seguito a Mastlin, Keplero chiamò Pitagora «il nonno di tutti i copernicani». (1)

Durante gli anni di università, Keplero acquistò rapidamente una buona conoscenza dei classici ed entrò inoltre in contatto con pensatori neoplatonico-pitagorici del suo tempo. Egli diede all'astronomia un orientamento religioso e pitagorico molto personale: un universo creato da Dio, per quanto complicato e profondo potesse apparire a coloro che, come lui, stavano solo cominciando a

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capirlo, doveva essere necessariamente l'espressione perfetta di un ordine profondo nascosto, di una profonda armonia, semplicità e simmetria. Fu questa

Johannes Kepler la convinzione che accese la sua immaginazione spirituale e scientifica, e quella fiamma sarebbe rimasta in lui per tutta la vita; pur continuando a utilizzare queste nozioni come un riferimento ideale, Keplero cominciò a usare osservazioni più esatte del cielo e il suo genio innato per una matematica rigorosa. Questo insieme si rivelò una combinazione potente.

Mentre era ancora studente a Tubinga, Keplero difese l'astronomia copernicana in due discussioni formali, sostenendo che i periodi dei pianeti e le loro distanze dal Sole avevano molto più senso nel sistema copernicano: e che se il Sole era in effetti (come il Creatore) la fonte di ogni mutamento e di ogni moto, poteva seguirne che, quanto più un pianeta era vicino al Sole, tanto più velocemente doveva muoversi. Keplero lavorò attivamente e con grande entusiasmo su questioni astronomiche e scrisse un pezzo su come i moti celesti dovrebbero apparire a un osservatore che li guardasse dalla Luna.

Nonostante tutto ciò, pare che non gli sia venuto in mente che avrebbe potuto perseguire qualsiasi altra carriera tranne quella di pastore.

Verso la fine del suo quinto anno di università, Keplero ricevette la notizia che il suo soggiorno a Tubinga stava per avere termine, e non nel modo che aveva progettato. Un seminario protestante, la Stiftsschule di Graz, in Stiria, si era rivolto all'università chiedendo un docente, principalmente di matematica ma anche con conoscenza di storia e di greco. Tubinga aveva deciso di mandare Keplero. Amareggiato e scoraggiato, dovette trasferirsi a Graz. Fu qui che, un anno circa dopo il suo arrivo, mentre disegnava alla lavagna un diagramma per i suoi allievi, fece la scoperta sorprendente che un triangolo sembrava in qualche modo dettare la distanza fra le orbite di Giove e Saturno. Il triangolo era la tetraktys pitagorica.

Quel giorno era il 19 gennaio 1595, e Keplero stava facendo lezione sulle grandi congiunzioni che si verificano quando Giove e Saturno, osservati dalla Terra, si vedono vicini in cielo. In tale occasione Giove si avvicina gradualmente a Saturno, lasciandoselo poi alle spalle col suo moto annuo più veloce, da ponente a levante. Questo fenomeno non si verifica spesso nella vita di una persona, poiché Giove supera Saturno solo una volta ogni vent'anni circa. Immaginiamo i due pianeti che si muovano su una grande banda o fascia circolare intorno alla

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Terra. Nell'intervallo di una ventina d'anni che intercorre fra due grandi congiunzioni, Saturno percorre circa due terzi del suo tragitto circolare sulla banda, mentre Giove compie una rivoluzione completa e due terzi della successiva. Le posizioni delle grandi congiunzioni fanno un balzo in avanti sulla banda di due terzi del cerchio ogni vent'anni.

Keplero aveva disegnato un cerchio sulla lavagna per rappresentarvi il grande cerchio della banda dello zodiaco, e poi aveva segnato i punti dello zodiaco in cui si verificavano le successive grandi congiunzioni viste dalla Terra. Se si disegnavano solo tre grandi congiunzioni consecutive, quei punti erano molto vicini agli angoli di un triangolo equilatero, senza però coincidere perfettamente con essi.

Se (segnando le successive congiunzioni) si cominciava un altro triangolo dove finiva il precedente, il nuovo triangolo non era sovrapponibile col precedente. Per esempio, la quarta congiunzione nel disegno di Keplero (quella che occorse nel 1643), si verificò quasi nello stesso punto della prima (del 1583), e la quinta quasi nello stesso punto della seconda. Se si collegano quei punti con linee, si avrà quasi un triangolo equilatero, ma non si avrà una sovrapposizione col primo. Perciò il triangolo «ruota», come mostra il diagramma di Keplero. Ne risultano due cerchi, uno interno e uno esterno, con la distanza fra loro fissata dal triangolo in rotazione. Il triangolo di Keplero sembra quindi dettare misteriosamente la distanza fra le orbite dei primi due pianeti. Cosa interessante, il raggio del cerchio interno

Congiunzione n. 1

Congiunzione n. 4

Congiunzione n. 3

Congiunzione n. 2

Congiunzione n. 6 Congiunzione n. 5

Questo disegno, dal Mysterium cosmographicum di Keplero, raffigura il ricorrere delle grandi congiunzioni di Giove e Saturno tra la fine del Cinquecento e il Seicento inoltrato, e i punti dello zodiaco in cui si verificavano. La congiunzione del 1583 (a destra) avveniva quando i due pianeti erano in

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Ariete/Pesci. La congiunzione del 1603 (in basso a sinistra) era nel Sagittario, quella del 1623 nel Leone, quella del 1643 nell'Ariete, quella del 1663 nel Sagittario, e via dicendo. Se le congiunzioni ricorressero nelle stesse posizioni dello zodiaco, il disegno di Keplero sarebbe stato uguale a quello della piccola figura a destra in alto. Invece avanzano, come si vede nella figura grande.

sembrava essere metà di quello del cerchio esterno, e le osservazioni astronomiche mostrarono che il raggio dell'orbita di Giove era approssimativamente metà di quello dell'orbita di Saturno.

Keplero, sorpreso, decise immediatamente di tentare col successi vo poligono regolare — il quadrato (il triangolo ha tre lati, il quadrato quattro) - per vedere se esso potesse servire in modo analogo a spiegare la distanza fra le orbite di Giove e Marte. (*) Se quel tentativo avesse avuto successo, egli si proponeva di tentare con un pentagono (un poligono di cinque lati) per la separazione fra le orbite di Marte e della Terra, con un esagono per la separazione fra la Terra e Venere e via dicendo. Egli sperava che l'ordinamento del cosmo assomigliasse al diagramma seguente, col triangolo, il quadrato, il pentagono, l'esagono e così via, tutti racchiusi l'uno nell'altro come una serie di scatole cinesi a separare le orbite planetarie l'una dall'altra. L'idea fallì però al primo tentativo, quando Keplero accertò che il quadrato non avrebbe funzionato per la separazione nota fra le orbite di Giove e di Marte.

Keplero continuò a sperimentare con altri poligoni regolari, alla ricerca di una corrispondenza fra poligoni regolari e distanze fra le orbite, ma si rese conto che, dato il numero infinito di poligoni disponibili, il successo sarebbe stato assicurato. Per i primi pitagorici questa risposta sarebbe potuta sembrare adeguata, ma non per Keplero, per il quale rimaneva la domanda del perché - fra tutte le possibilità esistenti — funzionavano solo questi particolari poligoni. Perché Dio aveva scelto di costruire l'universo in questo modo e non in qualche altro?

Anche se molti suoi contemporanei consideravano ingenue queste domande, esse preoccupavano Keplero, che aveva già concentrato il

* Un poligono regolare è una figura piana i cui lati hanno tutti la stessa lunghezza. Ciò vale per i triangoli, i quadrati, i pentagoni, gli esagoni e così via all'infinito.

suo pensiero lungo due linee di ricerca: quale ragionamento aveva usato Dio per fare le cose come sono; e quali erano le ragioni fisiche per cui l'universo opera come opera. Era chiaro che, per Keplero, non era soddisfacente passare in

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rassegna tutti i poligoni per individuarne cinque che trovassero posto esattamente fra le sei orbite planetarie. Esistendo poligoni regolari in grado di adattarsi a qualsiasi distanza planetaria si potesse trovare, Keplero pensava che dovesse esistere uno schema in grado di limitare i rapporti reali possibili (di Saturno a Giove, di Giove a Marte, di Marte alla Terra, della Terra a Venere, di Venere a Mercurio), spiegando perché in cielo esistessero certi rapporti e non altri e perché ci fossero solo sei pianeti.

A un certo punto venne in mente a Keplero che forse stava commettendo un errore tentando di applicare figure piane, bidimensionali, a un universo tridimensionale, e decise di sperimentare invece con figure solide, ossia con i poliedri regolari. (*) Questo pensiero fu un colpo vincente per i pitagorici. Dopo tutto, esistevano solo cinque poliedri regolari (i solidi pitagorici o platonici), non un numero di possibilità infinito. Con sua immensa soddisfazione, Keplero trovò che poteva inscatolare i cinque poliedri in un complesso che coincideva abbastanza bene con le separazioni note fra le sei «sfere» in cui orbitano i pianeti. (**)

Uno qualsiasi fra i cinque poliedri regolari - cubo, tetraedro (piramide), ottaedro, icosaedro e dodecaedro - può essere contenuto in una sfera in modo tale che ogni suo vertice tocchi la sfera; e una sfera più piccola può essere inclusa (inscritta) all'interno di un poliedro in modo tale da essere tangente al centro di ogni sua faccia. Questo era

* Un poliedro regolare è una figura solida in cui tutti gli spigoli hanno ugual lunghezza e tutte le facce la stessa figura. I solidi pitagorici o platonici sono i poliedri regolari.

** Quando gli astronomi del tempo di Keplero e dei tempi precedenti parlavano di «sfere», non si riferivano ai pianeti. Nella visione tolemaica del cosmo i pianeti si muovevano con l'aiuto di «sfere cristalline» trasparenti a cui erano fissati; queste sfere erano racchiuse una dentro l'altra come gli strati di una cipolla ed erano concentriche alla Terra. Benché Keplero e Mastlin discutessero di sfere nella loro corrispondenza sulla nuova idea di Keplero, questi (come il suo predecessore Tycho Brahe) non credeva che esistessero vere sfere simili a vetro contro le quali si potesse cozzare con un veicolo spaziale. Concepite in senso puramente geometrico, e non come una realtà fisica, potevano però essere d'aiuto per visualizzare i moti dei pianeti.

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Raffigurazione della teoria dei poliedri di Keplero, dal Mysterium cosmographicum, dove si osserva l'«inscatolamento» dei cinque poliedri regolari pitagorico-platonici e delle sei sfere planetarie.

quasi certamente quel che si intendeva nelle criptiche parole del frammento di Filolao: «I corpi nella sfera sono cinque». (*) Così Keplero raffigurò i solidi inscatolati nelle sfere planetarie, i quali fornivano le separazioni fra di esse, nello stesso modo in cui il triangolo era parso fornire la separazione fra le orbite di Giove e Saturno nel disegno da lui eseguito sulla lavagna. Questa «teoria poliedrica» pare sia stata un parto completamente originale della mente di Keplero.

Nonostante la convinzione di Keplero che in natura ci fossero connessioni armoniche profonde, e la sua speranza di averne trovato un esempio sorprendente, c'era un aspetto della sua forma mentale che lo separava dai pitagorici, i quali avevano stabilito che nel mondo dovevano esserci dieci corpi. Keplero non si limitò a supporre che

* DKr, 44 B 12, dove però il frammento identifica i primi quattro corpi non con i pianeti ma con gli elementi «fuoco acqua terra aria»; il quinto elemento potrebbe essere l'indefinito, l'illimitato (vedi ivi, nota 159). In proposito si può vedere anche Antonio Maddalena (a cura di), I Pitagorici, p. 194 e nota 28. (N.d.T.)

l'universo debba sicuramente conciliarsi col suo elegante schema geometrico, ma decise di metterlo a confronto con la teoria di Copernico e con le registrazioni disponibili di osservazioni astronomiche, «per vedere se quest'idea si accordasse con le orbite copernicane, o se la mia felicità sarebbe stata portata via dal vento». Anche se oggi la necessità di un tale procedimento di verifica sembra ovvia, non lo era per chi studiava la natura nel Cinquecento. Keplero, in effetti, stava cercando faticosamente la sua via in quello che sarebbe stato chiamato in seguito il metodo scientifico.

Poiché intorno al Sole orbitano otto o nove pianeti, (*) e non solo i sei noti al tempo di Keplero, e poiché la teoria poliedrica si è rivelata col tempo erronea, oggi risulta sorprendente leggere l'esclamazione di Keplero che «in capo a pochi giorni tutto funzionò e io potei osservare con quanta precisione un solido dopo l'altro prendeva il suo posto fra i pianeti». (2) Sapeva però che c'erano osservazioni migliori di quelle che stava usando lui. Quelle intraprese dall'astronomo danese Tycho Brahe con i suoi collaboratori erano molto più esatte. Tycho era considerato un uomo arrogante, di grandissimo talento, il cui

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naso, come tutti sapevano, era stato in parte asportato in un duello giovanile e ricostruito in oro e argento. Sfortunatamente per Keplero, Tycho stava comportandosi come un nuovo Pitagora o un nuovo Copernico: stava gelosamente serbando per sé le sue osservazioni e si asteneva dal pubblicarle.

Keplero finì di scrivere il Mysterium cosmographicum, il libro sulla teoria dei poliedri, nell'inverno 1595-1596, e il libro fu pubblicato nel 1597. Molti anni dopo Keplero avrebbe ricordato che questo piccolo libro dal lungo titolo (che richiese sul frontespizio una decina di righe) (3) fu il punto d'inizio del percorso che la sua carriera avrebbe seguito da quel momento in avanti. Egli avrebbe potuto dire la stessa cosa, con una certa giustificazione, sul significato di spartiacque del Mysterium per l'intera scienza. Come ha commentato l'eminente storico della scienza Owen Gingerich: «Raramente nella storia un libro così sbagliato ha avuto un'importanza così fondamentale nel dirigere il corso futuro della scienza». (4)

La caccia era ora partita nel modo più serio. La teoria dei poliedri non fu un vicolo cieco e la ragione fu vista nel fatto che Keplero - pur

* A seconda della definizione usata di «pianeta», Plutone e alcuni altri corpi che orbitano nella regione più esterna del sistema solare potrebbero ricevere o no tale status.

essendo platonico e pitagorico quando si trattava della sua fede nell'armonia e nella simmetria — era inflessibilmente aristotelico quando si trattava del rispetto di dati empirici concreti, terra-terra, o almeno osservabili dalla Terra. Keplero tentò per la prima volta di avvicinare Brahe subito dopo la pubblicazione del Mysterium, ma fu un percorso quadriennale quasi labirintico quello che lo condusse infine al momento in cui i registri delle osservazioni di Tycho si aprirono finalmente dinanzi a lui. Frattanto Keplero si avviò in un'altra direzione ancora più pitagorica.

Keplero menzionò soltanto una volta la musica nel Mysterium, notando che, come in geometria c'erano cinque solidi regolari, così in musica c'erano cinque intervalli armonici. Egli non si limitava all'ottava, alla quarta e alla quinta dei pitagorici. Keplero aveva cominciato a procurarsi una conoscenza approfondita della teoria musicale.

Nei propri calcoli musicali, decise di usare quella che è nota come accordatura «giusta» in luogo dell'accordatura «pitagorica». Le idee pitagoriche sull'armonia, fondate sui rapporti fra i numeri 1, 2, 3 e 4, consideravano consonanti solo gli

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intervalli dell'ottava, della quinta e della quarta. Nell'accordatura «giusta», usata più comunemente al tempo di Keplero, e in uso anche oggi, erano riconosciute come gradevoli all'orecchio le terze e seste maggiori e minori. (*) Keplero pensava che l'aggiunta di questi intervalli segnasse un grande miglioramento rispetto alla musica degli antichi, e ben pochi musicisti o ascoltatori della sua epoca (o di epoche successive) avrebbero dissentito da lui.

Il suo commento non era un contributo alla teoria musicale dell'astronomia, ma nel 1599, due anni dopo la pubblicazione del Mysterium, Keplero menzionò alcune idee sull'armonia delle sfere in tre lettere che scrisse prima a un inglese [Edmund Bruce] a Padova sperando che trasmettesse la sua idea a Galileo, e poi al suo protettore Johann Georg Herwart von Hohenburg e al suo vecchio maestro Michael Mästlin a Tübingen. La proposta di Keplero non fu esattamen

* Un esempio di una terza sul pianoforte è l'intervallo dal do al mi (terza maggiore) o dal do al mi bemolle (terza minore). Un esempio di una sesta è l'intervallo dal do al la (sesta maggiore) o dal do al la bemolle (sesta minore).

L'orecchio moderno sente sempre più questi intervalli come «belli» e facili da discernere dall'orecchio.

te la stessa in tutt'e tre le lettere, poiché i suoi pensieri stavano sviluppandosi rapidamente intorno a un interrogativo che egli aveva posto nel Mysterium. perché ogni pianeta impiega esattamente il suo tempo ben determinato per compiere una rivoluzione intorno al Sole? Convinto com'era che i pianeti più lontani dal Sole fossero davvero più lenti nel loro moto e non fossero semplicemente svantaggiati dalla loro assegnazione a una corsia esterna, Keplero stava riflettendo su quale logica potesse celarsi dietro il rapporto fra le diverse distanze dei pianeti dal Sole e le loro diverse velocità.

Keplero pensava, come i pitagorici e altri prima di lui, che i pianeti, muovendosi in un mezzo simile all'aria, dovessero produrre un suono, come uno strumento appeso esposto a una brezza, e riteneva che quel suono fosse armonioso. Soltanto due persone avevano anticipato la precisa connessione di musica e moti planetari da parte di Keplero: erano Giovanni Scoto Eriugena, nel IX secolo, e il parmense Giorgio Anselmi, all'inizio del Quattrocento. (5) L'Eriugena aveva riconosciuto che, se si associava un tono musicale a un pianeta, e se il tono dipendeva dalla distanza del pianeta dalla Terra, si doveva includere nella teoria anche il modo in cui il tono cambiava al muoversi del pianeta e al variare della sua distanza dalla Terra: era chiaro che questi comportamenti appartenevano al repertorio dei pianeti, specialmente nell'ordinamento

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dell'Eriugena, in cui alcuni pianeti orbitavano direttamente intorno al Sole. L'Anselmi non aveva immaginato che ogni pianeta avesse una singola nota, bensì piuttosto che cantasse la propria melodia in contrappunto con gli altri. Stabilendo la propria scala planetaria di otto ottave, Keplero aveva preso in considerazione i periodi orbitali dei pianeti. Ne risultò una grande sinfonia cosmica.

Nel 1599 Keplero considerò la possibilità che le velocità dei sei pianeti (il loro «vigore», per citare il termine usato da Keplero) potessero essere connesse fra loro secondo gli stessi rapporti che produrrebbe un accordo armonico se le si traducesse in lunghezze di corde su uno strumento a corde. Per esempio un rapporto di 3:4 fra le velocità di Saturno e di Giove produrrebbe un intervallo musicale di quarta. Si potrebbe dunque concepire l'«intervallo» fra Saturno e Giove come un intervallo musicale di quarta. Keplero calcolò le proporzioni delle velocità dei pianeti come 3:4 (una quarta) per Saturno a Giove, 4:8 (o 1:2, un'ottava) per Giove a Marte, 8:10 (4:5, una terza maggiore) per Marte alla Terra, 10:12 (5:6, una terza minore) per Terra a Venere, e 12:16 (3:4, una quarta) per Venere a Mercurio.

Traducendo quei rapporti in intervalli musicali, egli sviluppò un ac cordo composto (a partire dalla nota più bassa) da intervalli di una quarta, un'ottava, una terza maggiore, una terza minore e un'altra quarta. In notazione moderna, un esempio di questo accordo potrebbe essere il seguente: Mercurio Venere Terra Marte Giove Saturno L'accordo planetario di Keplero del 1599.

Avendo scelto le velocità nell'intento di creare un accordo armonico, Keplero fu incoraggiato quando trovò che gli intervalli musicali non erano molto lontani dagli intervalli spaziali fra i pianeti nella sua teoria dei poliedri. I periodi di rivoluzione dei pianeti (il tempo impiegato da ogni pianeta a percorrere la sua orbita) erano ben noti fin dall'antichità. Egli potè quindi calcolare quanto dovessero essere grandi le varie orbite planetarie l'una relativamente all'altra nell'ipotesi che i pianeti, con questi periodi noti, si muovessero alle velocità predette dai suoi intervalli musicali. Poi confrontò i risultati con le dimensioni delle orbite calcolate sulla base della teoria di Copernico e trovò che la sua teoria armonica concordava un po' meglio con i calcoli rispetto a quella poliedrica.

Keplero potè concludere, sulla base di quanto aveva appreso da ogni teoria, che con la teoria armonica poteva calcolare le distanze relative dei pianeti dal Sole, mentre con la teoria poliedrica poteva calcolare l'altezza degli spazi vuoti fra una sfera e l'altra nei quali si muovevano i pianeti.

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Keplero scrisse a Màstlin di avere trovato un modo intelligente per connettere la sua teoria con tre dei cinque intervalli nel suo accordo. Il cubo era il poliedro che separava le sfere di Saturno e di Giove. Ogni vertice di un cubo è il luogo d'incontro di tre quadrati, e al vertice di ciascun quadrato corrisponde un angolo di novanta gradi. La somma di quei tre angoli dà 270 gradi. Il rapporto fra 270 e 360 (il numero di gradi di un cerchio completo) è di 3:4. A

Keplero parve quindi appropriato che l'intervallo musicale (la quarta) che richiedeva un rapporto delle lunghezze delle corde di 3:4 definisse l'intervallo spaziale fra Saturno e Giove. Egli trovò rapporti simili che funzionavano per l'intervallo fra Giove e Marte, per quello fra Marte e la Terra, e per quello fra la Terra e Venere.

Keplero pensava di aver fatto grandi progressi con la sua teoria armonica, e che l'armonia che stava suggerendo riflettesse la mente del Creatore e dovesse perciò essere sicuramente trasferita nel cosmo.

Confidò a Màstlin e a Herwart, più avanti nel corso di quell'estate, che essendo giunto fino a quel punto con la sua teoria armonica, aveva l'impressione di avere «un uccello sotto un secchio». Ben presto confidò a Herwart von Hohenburg che stava progettando un'opera intitolata Harmonice mundi.

Quando Herwart gli scrisse esprimendo la sua preoccupazione che i numeri non fossero realmente adatti, e che forse la teoria fosse fondata su congetture e non realmente dimostrata, Keplero gli rispose:

In primo luogo penso che, a parte alcune proposizioni, ho proposto se non una dimostrazione inoppugnabile una che è tuttavia in grado di resistere, in assenza di argomenti contrari. In secondo luogo le congetture non sono del tutto false. L'uomo è infatti l'immagine del creatore, e può darsi che in certe questioni concernenti l'ornamento del mondo all'uomo e a Dio appaiano le stesse cose.

Keplero credeva che le sue idee di armonia fossero in sincronia con quelle del Creatore; quanto alle difficoltà restanti nelle sue teorie non sarebbe stato difficile eliminarle, ed egli pensava di poterle risolvere in breve tempo. Non aveva idea del difficile viaggio intellettuale che lo attendeva, e che gli sarebbero occorsi vent'anni prima di arrivare alla grande «teoria armonica», che sarebbe poi stata considerata corretta fino al XXI secolo.

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Nell'agosto del 1599, Herwart menzionò in una lettera a Keplero un'opinione di Tolomeo sul numero degli intervalli consonanti presenti nella musica. Keplero gli rispose immediatamente dicendogli che, se il libro di Tolomeo non fosse stato un aggravio fastidioso per il messaggero, gli sarebbe stato molto grato se glielo avesse inviato. In altre due lettere continuò a chiederlo, e nel luglio del 1600

Herwart si decise a mandarglielo. Il libro era solo una modesta traduzione latina delle Armoniche di Tolomeo, e in seguito Keplero si dolse di non riuscire a cavarne un senso. Tuttavia lo sorprese il fatto che le speculazioni di Tolomeo non fossero molto diverse dalle sue, anche se, «senza dubbio, molto ancora mancava nell'astronomia di quel tempo lontano; e Tolomeo, avendo cominciato male, poteva appellarsi alla sua situazione disperata. Come lo Scipione del Somnium di Cicerone, sembrava che avesse recitato una sorta di sogno pitagorico, anziché far progredire la filosofìa». (6)

La fine dell'estate e l'autunno del 1600, quando Keplero stava cominciando a leggere le Armoniche di Tolomeo, non era un periodo favorevole per impegnarsi più in profondità nelle teorie armoniche.

L'inverno precedente Keplero si era unito al gruppo di Tycho Brahe nel castello di Benatky (in tedesco Benatek) presso Praga, dove l'imperioso astronomo risiedeva allora sotto la protezione dell'imperatore del Sacro Romano Impero Rodolfo II. Keplero era arrivato confidando in una fruttuosa collaborazione e pensando che le sue speranze di poter consultare i fenomenali dati astronomici di Tycho stavano per realizzarsi. Si era invece trovato alle prese con un uomo difficile, paranoide, sospettoso, che lo trattava più come un servo infedele e senza paga che come un collaboratore, e che gli concedeva solo qualche stuzzicante ma insufficiente occhiata ai suoi dati preziosi. Il desiderio di Tycho di conseguire l'immortalità col proprio sistema lo rese altamente diffidente verso il giovane Keplero, che preferiva apertamente il sistema copernicano. (*) L'aspirazione di Keplero a migliorare la sua situazione lo aveva indotto a compiere un inutile viaggio a Graz, nella speranza di poter continuare a ricevere il suo stipendio come matematico distrettuale in Stiria (in absentia). Nell'estate Keplero trovò però che le sue condizioni non erano migliorate bensì peggiorate. La sua salute stava declinando, e una drastica svolta della Controriforma nella cattolica Graz fece improvvisamente di lui un rifugiato protestante senza il becco di un quattrino. Con riluttanza, una volta fallita ogni altra possibilità (compreso un appello al vecchio maestro Màstlin per un lavoro a Tubinga), si stabilì con la sua famiglia spaventata a Praga, ancor più di prima alla mercé di Tycho Brahe. Keplero mise da parte il libro di Tolomeo e le sue idee sull'armonia, ma solo

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temporaneamente. Frattanto non aveva affatto abbandonato la sua teoria poliedrica. Per lui quella teoria, i suoi studi sul

* Nel sistema ticonico Sole e Luna orbitavano intorno alla Terra, mentre tutti gli altri pianeti compivano le loro rivoluzioni intorno al Sole. Esso era l'equivalente geometrico del sistema copernicano, ma conservava la Terra immobile dell'astronomia precopernicana.

l'armonia delle sfere, la sua grande revisione, in seguito, dell'intera astronomia alla luce delle osservazioni di Tycho - e molte altre cose - non erano sforzi isolati, sconnessi, ma facevano tutti parte di un'unità di pensiero e di lavoro.

Nel gennaio 1607 la ruota della fortuna aveva ricominciato a girare a favore di Keplero. Tycho era morto nell'autunno del 1601, e Keplero aveva ereditato la sua posizione e i suoi compiti alla corte di Rodolfo II. Con i registri delle osservazioni di Brahe ora finalmente aperti davanti a lui (anche se con i parenti di Tycho fin troppo pronti a portarglieli via, e di tanto in tanto riuscendovi), Keplero aveva speso più di cinque anni a rompersi la testa sui dati e sui calcoli di Tycho, usando tutta la capacità matematica di cui disponeva e inventando nuovi procedimenti matematici per calcolare la vera orbita di Marte. A un certo punto, in preda alla disperazione, aveva quasi dovuto abbandonare la sua fede pitagorica e ammettere che l'orbita di Marte semplicemente non aveva alcun senso matematico. Se l'era presa addirittura con Dio, con parole che avrebbe potuto usare per esprimere disappunto con un collega umano: «Finora non abbiamo mai trovato nelle altre sue opere una concezione così poco geometrica!» Eppure infine risultò che dopo tutto l'universo e il Creatore si erano mantenuti fedeli, in un modo inatteso, alle regole pitagoriche.

Keplero scoprì che le orbite planetarie non erano circolari bensì ellittiche, e con questa presa di coscienza per quanto tardiva tutto andò a posto. Keplero era riuscito a realizzare un'intera revisione dell'astronomia alla luce della teoria copernicana e della propria teoria. Aveva trovato esattamente come cambia la velocità di un pianeta mentre si avvicina al Sole e mentre se ne allontana nella sua orbita. Aveva raccontato minuziosamente la sua «guerra con Marte» e formulato le sue prime due leggi dei moti planetari nell'Astronomia nova, e aveva mandato alle stampe il manoscritto della sua grande opera, che era il frutto delle fatiche sue e di Tycho. (*) Il libro avrebbe procurato a Keplero l'immortalità. La campagna iniziata in Danimarca a Uraniborg, quando Tycho aveva deciso di sperimentare i suoi favolosi strumenti su Marte, era finita, e Keplero aveva assegnato la vittoria a Co

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* La prima legge dei moti planetari dice: «Un pianeta si muove su un'orbita ellittica, di cui il Sole occupa uno dei due fuochi». La seconda dice: «Una linea retta [un raggio vettore] tracciata dal centro del Sole a un pianeta descrive aree uguali in tempi uguali mentre il pianeta si muove lungo la sua linea ellittica».

pernico, non a Tycho o a Tolomeo. Ciò nonostante, Keplero continuava ad aggrapparsi alla sua teoria poliedrica come possibile logica nascosta alla base del sistema solare, anche se ora sapeva che essa non poteva spiegare tutte le proporzioni.

Quel gennaio 1607 Keplero ricevette una lettera da Herwart von Hohenburg. Questi stava tentando di trovare una copia delle Armoniche, avendo evidentemente dimenticato di averne mandato una copia a Keplero sei anni e mezzo prima. Keplero ricordò a Herwart di avere ricevuto in dono da lui una copia di quello stesso libro, ma gli chiese se ora non potesse trovargliene una copia nell'originale greco.

In marzo il libro arrivò. Comprendeva commentari di Porfirio e del monaco basiliano del Trecento Barlaam di Seminara (lo stesso che aveva tentato di insegnare il greco a Petrarca). Barlaam affermava che gli ultimi tre capitoli, attribuiti a Tolomeo, non erano autentici.

Questa notizia deluse particolarmente Keplero, certo com'era che Tolomeo dovesse avere usato quegli stessi capitoli per mostrare come usare i princìpi armonici per derivarne i parametri dei suoi modelli planetari. Keplero progettò di pubblicare un'edizione del libro in greco con un proprio commentario, nel quale voleva spiegare e poi confutare le teorie di Tolomeo, e poi confrontarle con le proprie.

Aveva anche progettato di intraprenderne una nuova traduzione latina, un commento e la ricostruzione del testo di alcuni capitoli sospetti. Quando però la Harmonices mundi apparve finalmente nel 1619, Keplero vi si scusò per non avere mantenuto le sue promesse, avendo dovuto interrompere il lavoro, cominciato dieci anni prima, a causa di un viaggio da Praga a Linz, «combinato con molti altri guai».

Quest'espressione era, purtroppo, una minimizzazione. Subito dopo il capodanno del 1611 tre figli di Keplero avevano contratto il vaiolo. Friedrich, il figlio di tre anni a cui Keplero era particolarmente legato, morì. Truppe guidate da un cugino del protettore di Keplero, l'imperatore Rodolfo II, conquistarono Praga

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e commisero saccheggi insieme ai vigilanti nelle strade intorno alla casa di Keplero.

Rodolfo, che fu sempre un sovrano estremamente eccentrico, schivo, e a quel tempo anche un po' oltre il limite della pazzia, abdicò al trono. La moglie di Keplero, Barbara, morì di febbre nel luglio di quell'anno, e lo stesso Rodolfo morì l'inverno seguente. Ancora prima della morte dell'imperatore, Keplero aveva previsto che le sue funzioni a Praga fossero terminate e aveva accettato una posizione di docente e matematico distrettuale a Linz: un lavoro press'a poco allo stesso livello di quello con cui aveva cominciato la sua carriera diciassette anni prima a Graz. Benché Keplero fosse molto noto e rispettato, oltre che famoso per l'Astronomia nova, non c'era per lui nessuna offerta migliore di quel posto a Linz a causa di una dichiarazione da lui fatta anni prima e che non aveva mai smentito o ritirato, secondo la quale credeva che anche un calvinista fosse un «fratello in Cristo». Quell'opinione lo escludeva da ogni posizione in un'università luterana. Il suo stipendio come matematico imperiale teoricamente continuava, ma in realtà Keplero stava ancora cercando di farsi pagare anni di stipendio arretrato dall'inaffidabile tesoro imperiale. Se tutto questo non fosse stato ancora sufficiente, egli ritenne necessario, avendo due figli senza una madre, cercarsi un'altra moglie, e si risposò due anni circa dopo la morte della prima. Nel dicembre del 1615 fu colpito da un'altra disavventura: sua madre fu accusata di stregoneria.

Nei tre anni seguenti, mentre Keplero si impegnò strenuamente a difendere la madre e a lottare per scongiurare che la sua stessa reputazione fosse distrutta nel processo, lui e la seconda moglie Susanna persero due figlie piccole, oltre all'amata figliastra Regina Ehem, nata da un precedente matrimonio della prima moglie Barbara.

Nell'inverno del 1618 Keplero era troppo addolorato per potersi concentrare sui noiosi calcoli necessari per compilare le Tabulae rudolphinae-, tavole astronomiche fondate sulle osservazioni di Brahe, su cui Keplero aveva lavorato a intermittenza per molti anni. «Poiché le Tavole richiedono tranquillità», scrisse, «le ho messe da parte e ho rivolto la mia attenzione allo sviluppo dell'Armonia.» Nell'Astronomia nova Keplero aveva ricostruito completamente l'astronomia, e ciò significava non solo che il progetto dell'armonia aveva assunto proporzioni molto maggiori, ma anche che Keplero disponeva ora di una fondazione molto più robusta e molto più generale su cui lavorare. Egli stava ora occupandosi di quello che sapeva essere un vero sistema planetario, di cui comprendeva la matematica e la geometria meglio di qualsiasi suo contemporaneo.

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L'espressione «l'Armonia» si riferiva al libro che Keplero aveva cominciato a scrivere a Graz quando aveva pensato per la prima volta a collegare le velocità dei pianeti con l'armonia musicale e aveva condiviso le sue idee con Herwart e con Màstlin. Quel periodo della vita di Keplero era stato anche un periodo luttuoso per lui per la morte dei suoi primi due figli. Ora la tragedia aveva di nuovo decimato la sua famiglia, e si erano manifestate ben poche prove di un Dio razionale e provvido, ma Keplero rivolse di nuovo i suoi sforzi al tentativo di rivelare quella che credeva fosse la meravigliosa sapienza e razionalità della natura.

Quando Keplero cominciò a lavorare al sommario di quella che sarebbe diventata la Harmonices mundi, decise che era venuto il momento di richiamare in vita i suoi piani di tradurre in latino le Armoniche di Tolomeo. Poco dopo era scoppiata la Guerra dei Trent'anni e la scarsità di mano d'opera aveva reso impossibile la stampa del libro. Solo nel 1864, più di due secoli dopo la morte di Keplero, apparve un'edizione dell'Harmonices mundi che comprendeva la sua traduzione latina delle Armoniche di Tolomeo. La sua traduzione era sopravvissuta in forma manoscritta.

Nel 1618 Keplero conosceva abbastanza bene le Armoniche di Tolomeo e aveva anche fatto ricerche su ciò che avevano scritto prima di lui sui pitagorici Aristotele e Plinio il Vecchio. Keplero concluse che Tolomeo doveva avere tentato di descrivere e migliorare gli insegnamenti dei pitagorici sull'armonia dei cieli, ma non aveva chiarito quali fossero stati quegli insegnamenti. (7) Keplero decise di accettare l'opinione di Plinio che Pitagora avesse assegnato un tono musicale a ciascuno degli otto corpi celesti (i cinque pianeti, le stelle, la Luna, il Sole) e connesse le distanze fra loro con le distanze (intervalli) fra quei toni. Keplero concluse che la scala celeste pitagorica doveva cominciare con la Luna, non con la Terra, perché in un cosmo geocentrico la Terra non si muoveva, e un corpo in quiete, non producendo alcun suono, non ha un tono associato ad esso. È un mistero perché egli pensasse che Pitagora dovesse avere visualizzato un cosmo geocentrico.

Copernico aveva usato il concetto pitagorico di un fuoco centrale come un precedente per il suo riordinamento del cosmo, e Keplero amava sottolineare quel precedente. Egli aveva letto sul fuoco centrale dei pitagorici nel De caelo di Aristotele. Forse credeva che esso fosse un'idea derivante dai pitagorici tardi, per

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esempio Filolao, e che lo stesso Pitagora dovesse avere trattato la Terra come un centro immobile.

Keplero fondò la sua ricostruzione della scala usata da Pitagora sulla riverenza dei pitagorici per gli intervalli di quarta e di quinta e sugli intervalli scelti da Plinio. Nella ricostruzione di Keplero, la Luna era la, Mercurio si bemolle, Venere si, il Sole re, Marte mi, Giove fa, Saturno fa bemolle e le stelle la. Le prime quattro note (la, si bemolle, si, re) erano separate da intervalli di un semitono, un semitono e un tono e mezzo. Le seconde quattro (mi, fa, fa bemolle, la) erano separate dalla stessa sequenza di intervalli. (*) I due gruppi erano

* Un semitono è l'intervallo fra ogni nota sul piano e quella contigua, a entrambi i lati, indifferentemente dal fatto che abbia un tasto bianco o nero.

separati da un tono intero (da re a mi, o dal Sole a Marte) e quel tono intero era fra la quarta e la quinta della scala, due note pitagoriche importanti perché riflettevano i rapporti di 3:4 e di 2:3.

La ragione principale che, secondo Keplero, indusse Pitagora ad associare la nota più bassa al corpo celeste più vicino a noi, la Luna, anziché cominciare la sua scala dal corpo più lontano, fu il pensiero che Pitagora, osservando il cielo, avrebbe visto i pianeti più alti e più lontani muoversi più veloci in cielo, senza rendersi conto che un componente importante di quel moto era la rotazione della Terra stessa. Noi vediamo l'intero cielo ruotare verso ovest, compiendo una rotazione completa in ventiquattr'ore circa, mentre ogni pianeta ha anche un moto proprio in direzione contraria. Il risultato della combinazione dei due moti è la sensazione illusoria che i pianeti più lontani (che in realtà sono quelli più lenti) siano quelli che si muovono più velocemente di tutti. (*) Di nuovo, Keplero deve aver

* Immagina di essere in un aeroporto, di trovarti a una certa distanza da un tapis roulant, e di osservare la gente che cammina su di esso. Un uomo sta camminando dalla tua sinistra alla tua destra, ma il nastro trasportatore si muove in direzione opposta e quindi in realtà l'uomo sta perdendo terreno. Supponiamo che egli cammini verso destra alla velocità di 8 km all'ora e che il tapis roulant si muova, verso sinistra, a 16 km all'ora. Dal tuo punto d'osservazione tu vedi il movimento combinato, e l'uomo sembra muoversi a 8 km all'ora verso sinistra. Una donna sta camminando più velocemente, a 12 km all'ora, ma anch'essa verso destra. La velocità di 12 km all'ora non è sufficiente per evitare di perdere terreno rispetto al nastro trasportatore che si muove verso sinistra a 16 km l'ora, cosicché di nuovo, dal tuo punto di osservazione, tu vedi il moto combinato, e la donna

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sembra muoversi a 4 km all'ora verso la tua sinistra. Nessuno potrebbe criticarti tentato di determinare il pensiero dello stesso Pitagora, non dei pitagorici posteriori, i quali probabilmente avevano capito che il moto osservato di un pianeta, del Sole o della Luna, era la combinazione di due moti. Gli studiosi considerano ancora questa comprensione uno dei trionfi dell'antica astronomia greca, conseguito forse dai pitagorici. (8) Quando Keplero riuscì a costruire le proprie scale e accordi planetari, assegnò la nota più bassa non alla Luna bensì a Saturno.

Dopo avere ricostruito quella che credeva potesse essere stata la vera scala pitagorica, Keplero la confrontò con quella di Tolomeo cercando di stabilire quale delle due fosse la migliore. Esse condividevano l'errore di fondo di collocare la Terra al centro del cosmo.

Keplero aveva però una grandissima ammirazione per la scala di Pitagora - «molto più elegante e ricca di misteri» di quella di Tolomeo -, poiché gli sembrava che desse più importanza ai moti dei pianeti. D'altro canto riconobbe anche qualche punto a favore di Tolomeo, per avere riconosciuto che doveva esserci un «assioma divino» che determinasse il numero e le grandezze delle sfere.

Prima di poter decidere da sé quale potesse essere l'armonia delle sfere celesti, e quali rapporti potessero essere alla sua base, Keplero dovette determinare quali intervalli fossero gradevoli all'orecchio umano. Egli si impegnò molto a differenziare fra vari tipi di intervalli. C'erano le solite ottave, quarte, quinte, terze e seste, che chiamò tutte consonantes (esse erano armoniose quando venivano suonate simultaneamente le due note). C'erano poi vari intervalli che egli chiamò concinna, i quali avevano un suono gradevole quando si susseguivano in una melodia, ma non quando venivano suonati simultaneamente. Essi comprendevano un «tono maggiore» e un «tono minore» (grosso modo equivalenti a un tono intero e a un semitono) e altri due intervalli che erano più piccoli di quelli fra tasti adiacenti su un piano. Infine c'erano tre piccoli intervalli che Keplero chiamò concinna (dissonanti). Essi non erano particolarmente gradevoli da udire in nessuna circostanza.

Keplero combinò gli intervalli in due tipi di scale musicali. Una se pensi che l'uomo (che sembra muoversi a 8 km all'ora verso sinistra) sia più veloce della donna. Se il tapis roulant si fermasse potresti constatare la vera velocità delle due persone, e scopriresti che la tua era una sensazione sbagliata. Similmente, Keplero concluse che, se si fosse fermata la rotazione diurna del cielo, Pitagora avrebbe

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constatato che Saturno era il più lento di tutti i pianeti, e quindi avrebbe dovuto emettere la nota più bassa.

aveva una terza maggiore e una sesta maggiore ed era la scala Dur (dal latino durus), vicina a quella che chiamiamo la scala maggiore. (La scala maggiore che comincia per esempio col do, comprende gli intervalli da do a mi bemolle e da do a la.) L'altra, con una terza e una sesta minori, era la scala Moli (dal latino mollis), vicina a quella che chiamiamo la scala minore. (La scala minore che comincia, per esempio, col do, comprende gli intervalli fra do e mi bemolle e do e la bemolle.) Similmente, gli accordi fondati sulle terze maggiori e sulle seste maggiori erano duri-, quelli fondati sulle terze minori e sulle seste minori erano molles. (*) Non occorre alcuna preparazione musicale per percepire la differenza fra le due scale o accordi e sperimentarne l'effetto emotivo: il durus (maggiore) è allegro e il mollis (minore) è triste. Perché questi suoni abbiano qualsiasi influenza sulle emozioni umane è ancora un mistero, ma i primi pitagorici, se avessero conosciuto le terze e le seste, non ne sarebbero rimasti sorpresi.

Uno degli obiettivi di Keplero, nelle ricerche preparatorie per l'Harmonices mundi, era quello di accertare se fossero vere due ipotesi: 1) che certi rapporti fra toni abbiano una speciale «nobiltà» e importanza e siano incorporati nell'ordinamento e nei moti dei corpi del sistema solare; 2) che l'influenza della musica sull'anima umana dipenda da questi rapporti. Com'era noto ai pitagorici, gli intervalli musicali sono il modo in cui i rapporti matematici si manifestano nel suono. Di solito ci si imbatte nella musica scritta nella forma di note segnate su e fra le righe orizzontali di una pagina di musica, e raramente ci si rende conto che si potrebbe scrivere la musica in modo più esatto (anche se meno pratico) come una lunga sequenza di rapporti matematici. Se si scrivessero tutte le proporzioni matematiche continuamente variabili fra i pianeti, il risultato, suonato come musica, suonerebbe armonioso e piacevole all'orecchio umano? Nel capitolo 9 del libro V della Harmonices mundi, Keplero spiegò perché fosse convinto - dopo una quantità prodigiosa di studio e di calcoli che i dettagli dell'astronomia planetaria, le velocità continuamente variabili e le distanze relative dei pianeti, fossero quanto più armoniosi e piacevoli possibile. Egli mostrò anche come questo ordinamento, il migliore fra tutti quelli possibili, fosse ancora un po' lontano dalla perfezione (pur essendo stato creato da Dio).

Cosa estremamente importante per la storia dell'astronomia, il li

* In tedesco, Dur in musica significa ancora oggi «maggiore» e Moli «minore».

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bro V si apre con un'affermazione estatica sulla scoperta del rapporto fra i raggi orbitali dei pianeti e i loro periodi di rivoluzione, scoperta che Keplero non aveva ancora compiuto quando cominciò a scrivere questo libro:

Infine la portai in luce e, al di là di quanto avessi mai potuto sperare, afferrai la Verità stessa: trovai fra i moti dei cieli l'intera natura dell'armonia, in tutta la sua grandezza, e con tutte le sue parti. Non era esattamente come mi ero atteso - questa non è la minima parte della mia soddisfazione -, ma era in un altro modo, molto diverso, e tuttavia al tempo stesso molto eccellente e perfetto. (9)

Keplero sentiva che questa scoperta - la terza legge dei moti planetari o «legge armonica» — era così importante da rendere essenziale fare un passo indietro e inserire quelle frasi per far sapere ai lettori che cosa si stava approssimando. Nello stesso libro V egli incluse un elenco in cui si forniva una visione della sua mente straordinaria esattamente dov'egli si trovava allora, a cominciare da un'affermazione esplicita che suona banale a orecchi moderni ma che era una cosa sensazionale al suo tempo. L'elenco da lui fornito a questo punto includeva le sue tre leggi planetarie, che sono ancora celebrate fra le massime scoperte astronomiche, ma anche - sorprendentemente - la sua vecchia teoria poliedrica:

1. I pianeti e la Terra orbitano intorno al Sole. La Luna orbita intorno alla Terra.

2. Il Sole non è al centro delle orbite dei pianeti [in altri termini, le orbite dei pianeti sono eccentriche]. Ciò significa che ogni pianeta ha una distanza minima e una distanza massima dal Sole e che passa anche per tutte le distanze comprese fra la massima e la minima.

3. Il numero dei pianeti - sei - è dettato dai cinque poliedri regolari.

4. I poliedri da soli non possono determinare la distanza dal Sole, dal momento che le orbite sono eccentriche (vedi la proposizione 2).

Per stabilire le orbite, i diametri e le eccentricità si richiedono altri princìpi.

5. La velocità di un pianeta è inversamente proporzionale alla sua distanza dal Sole. L'orbita di un pianeta è un'ellisse, e il Sole, la «sorgente del moto», ne occupa uno dei due fuochi. [Questa fu la prima legge dei moti planetari, che Keplero aveva scoperto mentre scriveva l'Astronomia nova.]

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6. Se due oggetti percorrono una distanza reale uguale, ma uno è più lontano dalla sorgente del suo moto dell'altro, l'oggetto più lontano sembra più lento di quello più vicino. Così, se un pianeta non cambiasse mai la sua velocità, il suo moto, visto dal Sole, apparirebbe più lento quando è più lontano di quando è più vicino.

Ma un pianeta cambia la sua velocità. Questa non è la stessa nei punti più vicino e più lontano della sua orbita, e la differenza è proporzionale alla sua distanza dal Sole. In altri termini: la velocità apparente del movimento in parti diverse dell'orbita è diversa per due ragioni, a) La velocità reale del moto cambia a seconda della distanza dal Sole, b) La distanza fa apparire minore la velocità. Perciò la grandezza apparente delle velocità nei vari punti dell'orbita è quasi esattamente proporzionale all'inverso del quadrato della distanza dal Sole.

7. Quando si considera l'armonia celeste, le velocità planetarie che contano sono quelle osservate dal Sole. I moti visti dalla Terra sono irrilevanti.

8. Il rapporto dei quadrati dei periodi orbitali di due pianeti è uguale al rapporto dei cubi delle loro distanze medie dal Sole. [Questa fu la grande «legge armonica», una delle scoperte più importanti di Keplero. Keplero fece la scoperta mentre stava completando il libro e tornò indietro introducendolo in quest'elenco.]

9-13. [Questi punti hanno a che fare con l'applicazione della legge armonica. Keplero tentò di spiegare in modo più dettagliato che è il rapporto dei moti dei due pianeti mentre si avvicinano o si allontanano, insieme al rapporto dei loro periodi di rivoluzione, a determinare le distanze estreme che essi possono avere (la distanza minima e la distanza massima dal Sole), e che ciò determina l'eccentricità delle loro orbite.]. (10)

Keplero pervenne infine alla conclusione che l'armonia celeste non sarebbe stata udibile. In cielo non c'erano suoni. Come si poteva valutare la loro gradevolezza? La conoscenza o il calcolo della lunghezza delle distanze implicavano procedimenti troppo complicati per poter fornire piacere in un modo istintivo. L'armonia del cosmo poteva essere apprezzata nel modo migliore a partire dal Sole stesso, negli archi visibili dei moti planetari quali sarebbero stati osservabili di là. (11) [Di qui il punto numero 7 nell'elenco di Keplero.]

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Immagina di essere sul Sole, in piedi sulla sua superficie, e di tro varti al centro di un immenso quadrante di orologio, con i pianeti che si muovono su grandi percorsi circolari in prossimità del bordo del quadrante. L'intera orbita di un pianeta corrisponde a una circonferenza di 360 gradi, tutto attorno all'orologio. La distanza fra due ore consecutive, per esempio fra le ore due e le ore tre, vista dal centro dell'orologio, è di 30 gradi. Tu, dalla tua posizione di osservazione sul Sole, vedi la Terra che percorre un cerchio intorno a te (sappiamo peraltro che la parola «cerchio» non è del tutto esatta, visto che l'orbita terrestre non è circolare bensì leggermente ellittica).

La Terra si trova all'afelio (la parte della sua orbita più lontana dal Sole e da te). Osservi per un periodo di ventiquattr'ore e trovi che la Terra si è spostata di 57' 3" (57 minuti primi d'arco e 3 secondi).

Poiché in un grado ci sono sessanta minuti primi d'arco, la Terra si è dunque spostata di quasi un grado. Ripeti l'osservazione sei mesi dopo, quando la Terra si trova al perielio (la parte della sua orbita più vicina al Sole). Ora trovi che la Terra si è spostata più velocemente, percorrendo in ventiquattr'ore 61' 18", più di un grado. Le due misurazioni (i 57'3" percorsi in un giorno all'afelio e i 61'18" in un giorno al perielio) non sono molto diverse fra loro. L'orbita della Terra non è molto eccentrica.

Keplero rifletté su come questi due numeri potessero essere modificati al fine di produrre un intervallo melodioso in musica. Cambiando 57'3" in 57'28" (una correzione molto piccola) egli poté rendere l'intervallo concinnus, un intervallo che aveva un suono gradevole in una melodia anche se non quando i due suoni venivano prodotti simultaneamente. Keplero fece piccole correzioni simili per le orbite di altri pianeti. Il pianeta che si prestò di meno a queste correzioni fu Venere, i cui spostamenti erano così piccoli che il suo intervallo musicale risultò essere un diesis. Era in effetti molto piccolo, ma rientrava ancora nella categoria kepleriana dei concinna.

Avendo lavorato su ogni pianeta individualmente, calcolando e correggendo i rapporti fra il suo moto all'afelio e al perielio, Keplero si volse allo studio dei moti di coppie di pianeti, e fu gratificato nel trovare un'armonia abbastanza buona. Le piccole correzioni necessarie, scrisse Keplero, potevano essere accettate senza danno per l'astronomia che egli aveva costruito usando i dati d'osservazione di Tycho.

Venere continuava a essere un problema, e lo stesso valeva anche per Mercurio, ma i loro moti non erano comunque ancora ben stabiliti.

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Soddisfatto per come stavano andando le cose, Keplero procedette ad assegnare note reali a ciascun pianeta all'afelio e al perielio e trovò che quando costruiva una scala con Saturno (la nota più bassa) all'a felio, ne risultava una scala Dur, una scala maggiore, mentre con Saturno al perielio il risultato era una scala Moli, una scala minore. Il moto planetario implicava evidentemente entrambi i tipi di scale.

L'uso di altri pianeti come nota di partenza produceva i diversi modi usati nella musica antica e nella musica ecclesiastica. (*)

Finora tutte queste combinazioni hanno presentato i pianeti ai punti estremi del loro moto, all'afelio o al perielio. Specialmente per i pianeti più lontani dal Sole, tali opportunità armoniche si presentavano solo raramente; esse erano invece molto più numerose se i pianeti coinvolti nell'armonia non dovevano trovarsi in quelle posizioni estreme. Per esempio, con Saturno in movimento fra i toni sol e si (i suoi toni al perielio e all'afelio) e Giove fra si e re, Keplero trovò, lungo il percorso, intervalli di un'ottava, un'ottava più una terza maggiore o minore, una quarta e una quinta. Mercurio, che era la vera coloratura della compagnia, offriva ancor più opportunità perché la differenza fra i suoi toni al perielio e all'afelio era più grande di un'ottava, e produceva quel cambiamento in soli quarantaquattro giorni. Ne risultava che Mercurio, durante il suo tragitto, cantava ogni intervallo armonico almeno una volta con ciascuno degli altri pianeti. (12)

Secondo i calcoli di Keplero, armonie di due note di questo tipo si verificano quasi ogni giorno, e Mercurio, Terra e Marte cantano addirittura abbastanza spesso un'armonia in tre parti. Venere, la cui orbita ha un'eccentricità minima, varia appena il suo tono, svolgendo nel coro la parte di una sorta di Johnny One-Note. (**) Se ci dev'essere un'armonia con Venere, dev'essere quando un altro pianeta entra in armonia con essa, e non viceversa. Armonie di quattro note si verificano o perché Mercurio, la Terra e Marte sono in accordo col monotòno di Venere, o perché hanno atteso abbastanza a lungo perché la voce bassa, che varia lentamente, di Giove o Saturno, entrasse nella nota giusta. «Le armonie di quattro pianeti», scrisse Keplero, «cominciano ad apparire a distanze di secoli; quelli di cinque pianeti ri

* Si può ottenere lo stesso risultato costruendo scale che usino solo i tasti bianchi su un pianoforte ma cominciando da note diverse. Il modo ionio (con inizio in do) è lo stesso della scala maggiore, il modo dorico (inizio in re), il modo frigio (inizio in mi), il lidio (inizio in fa) e il misolidio (inizio in sol). Il modo eolio (inizio in fa) è lo stesso della scala minore.

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** Canzone lanciata nel 1937 nel musical americano di Rogers e Hart Babes in Arms, fu cantata da Judy Garland nel film omonimo, apparso in Italia col titolo Ragazzi attori nel 1939. (N.d. T.)

chiedono attese di decine di migliaia di anni.» (13) Quanto all'armonia fra tutt'e sei i pianeti - quella grande e massima «armonia universale» -, il coro sarebbe immenso, spaziando fra più di sette ottave. (Una musica del genere non potrebbe essere suonata oggi su un pianoforte, ma occorrerebbe un organo.) Keplero pensava che una musica simile potesse risuonare in cielo solo una volta nell'intera storia dell'universo. Forse si poteva addirittura determinare il momento della creazione calcolando il momento del passato in cui tutt'e sei i pianeti avevano suonato armonicamente insieme. Keplero ripensò alle parole rivolte da Dio a Giobbe: «Dov'eri tu, quand'io fondavo la Terra [...] e quando le stelle del mattino cantavano tutte insieme [...]?» (14)

Keplero osò andare oltre quello che sentiva essere il vero test della sua teoria: «Lasciateci perciò estrarre dalle armonie gli intervalli dei pianeti dal Sole, usando un metodo di calcolo che è nuovo e non è mai stato tentato prima da nessuno». (15) Se non si conosceva l'astronomia del sistema solare, come la si sarebbe potuta dedurre correttamente dallo schema armonico che Keplero credeva di avere scoperto?

Cominciando con la migliore armonia e immaginando quali orbite e moti planetari essa implicasse, quali sarebbero state le conseguenze dell'adesione ad essa del cosmo? Keplero usò per confronto i dati di Tycho Brahe e concluse che «tutto concorda molto fedelmente con gli intervalli che trovai studiando le osservazioni di Brahe. Nel solo Mercurio c'è una piccola differenza».

Egli procedette a confrontare il sistema solare suggerito dal suo schema armonico col sistema solare suggerito dalla sua teoria poliedrica. La sua conclusione fu che i poliedri, inscatolati nel modo che egli aveva suggerito in precedenza, erano stati un modello piuttosto libero di Dio per il sistema solare. Quel modello dettava il numero dei pianeti e le dimensioni approssimate delle sfere al cui interno si muovevano. Era una sorta di abbozzo, le cui dimensioni finali erano determinate dalle proporzioni armoniche fra i moti apparenti dei pianeti visti dal Sole. Il concetto di «armonie» era richiesto per riflettere un sistema eternamente fluido come quello che si trovava fra i pianeti reali in movimento, e il vero sistema solare non poteva essere inteso separatamente dal suo moto.

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Approssimandosi alla fine del suo libro, Keplero immagina di scivolare verso il sonno sulla melodia dell'armonia planetaria, «riscaldato da una generosa bevuta [...] dalla coppa di Pitagora». (16) Subito comincia a sognare di esseri semplici, puri, che potrebbero vivere sul Sole, nella posizione giusta per apprezzare l'armonia, e di creature esistenti su altri pianeti: sarebbe uno spreco terribile se non esistesse ro. Essi, come gli abitanti della Terra, non hanno alcun modo per apprezzare direttamente l'armonia e possono solo apprenderne l'esistenza, come avevano fatto gli uomini, attraverso una combinazione di osservazione e ragionamento. Keplero scrisse una preghiera nella quale disse che Dio era lodato dai cieli, dal Sole, dalla Luna e dai pianeti, dalle armonie celesti e dai loro osservatori, «e soprattutto da te, felice vecchio Mastlin, che eri solito ispirare le cose che ho detto, e nutrirle di speranza», oltre che dalla propria anima. Concluse con un ritorno alla vecchia idea che era intrinseca fin dal principio nella scoperta pitagorica dei rapporti musicali: che non si devono necessariamente conoscere tali rapporti per essere commossi dalla musica.

Esiste una misteriosa connessione intrinseca fra le anime umane e le regolarità sottostanti all'universo che influiscono su di noi senza che noi comprendiamo come o perché. Lo stesso valeva, come aveva pensato Tycho Brahe, per il progetto del suo palazzo/osservatorio.

Keplero scrisse:

Non basta dire che queste armonie sono state create per Keplero e per quelli che, dopo di lui, leggeranno il suo libro. Né gli aspetti dei pianeti quali si osservano dalla Terra sono stati creati per gli astronomi, ma si insinuano generalmente in tutti, persino nei contadini, in virtù di un istinto nascosto. (17)

Col nostro moderno senno di poi, ci pare che Keplero abbia imboccato una via troppo strana ed eccentrica per arrivare alla sua grande legge «armonica». Egli la trovò due volte, rifiutandola dapprima a causa di un errore di calcolo compiuto l'8 marzo 1618, e poi scoprendo qualche settimana dopo che era corretta, il 15 maggio. Qualcuno ha commentato a volte che la legge armonica è stata una scoperta accidentale in un ginepraio di speculazioni musicali/matematiche prive di qualsiasi valore, e che Keplero non ebbe una piena consapevolezza di aver fatto una scoperta tanto grande. Keplero, in realtà, si rese sempre ben conto dell'importanza della sua scoperta.

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Fu proprio in risposta ad essa che cadde in ginocchio ed esclamò: «Mio Dio, sto pensando i Tuoi pensieri dopo di Te». Senza il sostegno della matematica moderna e del moderno metodo scientifico, il complesso percorso musicale affrontato da Keplero potrebbe essere stato l'unica via a sua disposizione. Dopo tutto, egli era anche l'unico che era arrivato fino a quel punto. Egli fu inoltre uno di coloro che nella storia ebbero l'orecchio più fine per l'armonia della matematica e della geometria.

17 ILLUMINISTI E ILLUMINATI

Dal Seicento all'Ottocento

Galileo, contemporaneo di Keplero, scrisse che «la filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo)», ma per capirlo è necessario prima impararne la lingua. «Egli è scritto in lingua matematica». (1) Galileo non fu il primo della sua famiglia a meritarsi un posto nella storia.

Suo padre, Vincenzio, appare in testi di storia della musica come un musicista importante del Cinquecento: era un compositore, uno dei migliori teorici musicali del suo tempo e un bravo liutista.

Una delle sue aree di ricerca fu l'antica musica greca, e si racconta che, quando lesse il De musica di Boezio, fosse fortemente incuriosito dal racconto di Pitagora che sospese dei pesi a delle corde, le pizzicò e scoprì i rapporti dell'armonia musicale. (2) Sorprendentemente, benché il De musica di Boezio sia stato letto da molti studiosi per secoli e secoli, non abbiamo notizia che qualcuno abbia mai compiuto esperimenti per accertare se quel metodo funzionasse. Vincenzio scoprì, ovviamente, che non funzionava, ma continuò a sperimentare con la fìsica delle corde vibranti. Quando suo figlio osservò un lampadario oscillare nel duomo di Pisa e decise per la prima volta di fare esperimenti col pendolo, forse aveva in mente gli esperimenti fatti dal padre con pesi e corde.

Due decenni dopo Galileo, pur essendo in parte all'oscuro delle ricerche di Keplero, si era personalmente convinto della correttezza del sistema copernicano, e stava cercando prove fìsiche a sostegno della sua opinione e per convincere altri

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studiosi. Copernico aveva menzionato nel De revolutionibus che il pianeta Venere avrebbe potuto fornire prove importanti contro la teoria geocentrica. Venere, riflettendo la luce del Sole, cresce e scema come fa la Luna, ma, se l'ordine tolemaico fosse stato corretto, gli abitanti della Terra non si sarebbero mai trovati in una posizione adatta per poter osservare la faccia di Venere quasi totalmente illuminata (l'equivalente del plenilunio). Mentre il primo decennio del Seicento si avviava alla sua conclusione, il telescopio, inventato recentemente (non da Galileo, che però seppe usarlo meglio di chiunque altro), permise di osservare le fasi di Venere come mai si era fatto prima, e nel 1610 Galileo seguì il suggerimento di Copernico. Egli trovò che Venere aveva una serie completa di fasi. C'era qualche astronomo che potesse ignorare una prova così inconfutabile a favore di Copernico? Ma fra i colleghi cattolici di Galileo c'era un gruppo di studiosi recalcitranti che ricordavano un ceppo particolarmente virulento di «acusmatici».

Eccezion fatta per Giordano Bruno, i cui peccati, secondo i canoni della Chiesa, erano così flagranti e numerosi che egli sarebbe stato sicuramente arso sul rogo dovunque avesse collocato il centro dell'universo, la gerarchia della Chiesa cattolica era stata per secoli indolentemente tollerante nei confronti delle nuove teorie astronomiche.

Non si era udito un mormorio quando Nicola Cusano, all'inizio del Quattrocento, aveva mosso la Terra rimuovendola dal centro dell'universo, e neppure quando Copernico aveva pubblicato il De revolutionibus nel 1543. Due fra i massimi sostenitori di Copernico furono membri eminenti del clero cattolico. Ma nel 1616, quando sia Galileo sia i suoi oppositori stavano premendo sulla Chiesa perché prendesse una decisione, fu emanato un decreto che condannava la «nuova» astronomia, pur non dichiarandola esplicitamente eretica: era forse solo un dettaglio tecnico, ma era anche una vittoria per Galileo e per i cardinali che lo sostenevano. In questo decreto i pitagorici subirono un colpo ingiusto:

Ed essendo venuto a conoscenza della detta Sacra Congregazione che quella dottrina pitagorica, falsa e avversa alla divina scrittura, della mobilità della Terra e dell'immobilità del Sole, che è insegnata anche da Niccolò Copernico [...], si sta diffondendo ed è accettata da molti, come si può vedere da una certa lettera stampata da un padre carmelitano, [essa] ha deciso di sospendere [tali libri] finché non siano stati corretti [donec corrigantur]. (3)

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Il padre carmelitano che aveva esposto i pitagorici alle ire della Chiesa era il reverendo padre Paolo Antonio Foscarini. La sua lettera, datata all'anno prima del decreto, era intitolata Lettera [...] sopra l'opinione de' Pittagorici e del Copernico della mobilità della Terra e stabilità del Sole, et il nuovo sistema pittagorico del mondo. Foscarini sosteneva che questa dottrina era «in accordo con la verità e non contraria alla Sacra Scrittura». La Congregazione generale dell'Indice, che da va giudizi ufficiali su questi, aveva parere diverso. Il libro di Copernico De revolutionibus - a settantatré anni dalla sua pubblicazione fu «sospeso fino a che non sia stato corretto», e l'opera del Foscarini fu giudicata «da proibire e condannare del tutto». Occorsero altri diciassette anni di lotte, e il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo, perché la situazione si avvicinasse a un momento veramente pericoloso nel suo famigerato processo. La Chiesa cattolica, che per secoli era stata la custode e il baluardo della cultura, era impazzita fino a un punto di maligna senilità e aveva condannato se stessa e l'Italia - l'antica patria di Pitagora — a quelli che erano virtualmente altri secoli bui per la scienza. Il centro dell'interesse per la scienza e dei grandi risultati scientifici si spostò irreparabilmente verso l'Europa settentrionale e l'Inghilterra.

Alla metà del Seicento, la rivoluzione scientifica continuava a nord delle Alpi, le tre leggi planetarie di Keplero e le sue Tavole rudolfine, fondate sulle osservazioni di Tycho Brahe, gli diedero giustamente l'immortalità terrena, mentre la sua teoria poliedrica e la maggior parte della Harmonices mundi furono consegnate alla bacheca delle curiosità. Nessuno prese sul serio i poliedri inscatolati l'uno nell'altro o le scale e gli accordi cosmici o li prese come base di ricerche scientifiche. Essi erano stati le levatrici strane e improbabili della «nuova astronomia» di Keplero, dando il loro aiuto alla nascita del futuro, ma in tal modo si erano relegati nel passato. Tuttavia la convinzione che i numeri e la simmetria e l'armonia fossero guide alla verità perché l'universo è stato creato secondo un piano razionale, ordinato, cominciò a essere trattata come un dato, abbastanza degno di fede da puntellare quello che sarebbe stato chiamato in seguito il metodo scientifico.

Nessuno stava ancora usando le parole «scienza» o «scientifico» in senso moderno, ma il processo per determinare che cosa fosse o non fosse vero sulla natura e sull'universo stava continuando a evolversi, e la gente discuteva e cominciava ad accordarsi sul modo in cui questo processo dovesse funzionare. Lo scienziato e filosofo francese René Descartes (Cartesio), uno fra i primi a stabilire una base solida per la comprensione del mondo, scelse la matematica come l'unica via degna di fede a una conoscenza sicura. (4) Egli tentò di mostrare che una

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singola teoria unitaria logico-matematica poteva spiegare tutto ciò che accadeva nell'universo fisico. Christiaan Huygens, Edmond Halley e Isaac Newton condividevano tutti la convinzione che, quando le osservazioni erano inadeguate, ci si poteva sempre trarre d'impaccio da una situazione disperata appellandosi all'assunto che l'universo è ordinato, e la scoperta di nuovi esempi di «ordine» stava cominciando a essere considerata un segno che si era sulla retta via.

Nel campo della biologia Robert Hooke suggerì che cristalli come quelli che potevano aver messo sull'avviso i pitagorici circa l'esistenza dei cinque poliedri regolari si presentassero perché i loro atomi avevano una disposizione ordinata. (5) Robert Boyle scrisse il libro Il chimico scettico, che molti identificano con l'inizio della chimica moderna, e citò Pitagora, asserendo che le decisioni finali in campo scientifico devono essere prese sulla base sia delle prove dei sensi sia dell'operare della ragione. Quest'equilibrio, sulla cui base Keplero aveva compiuto acrobazie prodigiose quando lottava per scrivere la sua Astronomia nova - senza considerarlo un «metodo scientifico» - stava diventando l'equilibrio della scienza.

Newton, nato alla metà del secolo, coronò la rivoluzione copernicana con la scoperta delle leggi della gravitazione e col suo libro del 1687 Philosophiae naturalis principia mathematica (Principi matematici della filosofia naturale), noto in breve come i Principia. Fervido credente nell'esistenza dell'armonia e dell'ordine dell'universo, Newton era convinto che le regolarità osservabili nel cosmo fossero la manifestazione visibile di un profondo e misterioso ordine sottostante.

Le sue teorie della gravitazione fornirono un mirabile sostegno all'ideale pitagorico dell'unità e della semplicità. La stessa forza, la gravità, che manteneva i pianeti nelle loro orbite, dettava anche la traiettoria di una palla di cannone sulla Terra e manteneva gli esseri umani a contatto col suolo, e le sue leggi potevano trovare espressione in una semplice formula. Pur essendo notoriamente riluttante a concedere credito a coloro che pure lo meritavano fra i suoi contemporanei, Newton, in un gesto di straordinaria generosità, scrisse che la sua famosa legge della gravitazione universale si poteva trovare già in Pitagora. Questo non ci dà la piena misura delle attribuzioni insolite da parte di Newton. Egli cercò esempi fra i greci, gli ebrei e altri pensatori antichi di idee e scoperte che sembravano — a volte anche alla lontana — anticipare le sue. Ma questa non era modestia: Newton non era affatto un uomo modesto. Aggregarsi alla compagnia dei grandi saggi

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dell'antichità era un modo per elevarsi a un livello superiore a quello dei suoi contemporanei. Meglio della scoperta di qualcosa di nuovo era la riscoperta della conoscenza che Dio aveva rivelato in precedenza solo a uomini straordinari di leggendaria sapienza.

Newton pensò a un'altra connessione con Pitagora quando usò un prisma e divise la luce del Sole in sette colori. Nella scala pitagorica c'erano sette note. (6)

Georg Gottfried Wilhelm Leibniz, l'arcirivale di Newton, e uno dei contemporanei a cui Newton avrebbe dovuto riconoscere molto più credito di quanto non fece, scrisse con toni pitagorici che «la musica è il piacere che l'anima umana sperimenta dal contare senza rendersi conto che sta contando». (7) Leibniz tentò di costruire un linguaggio universale senza parole, in grado di esprimere ogni affermazione umana e di risolvere discussioni in modo assolutamente privo di ambiguità, e magari - com'egli sperava - di portare in accordo tutte le versioni della fede cristiana. I suoi tentativi di rendere utilizzabile questo progetto compresero un uso dei numeri che sarebbe piaciuto ai pitagorici e avrebbe irritato Aristotele: «Per esempio, se immaginassimo che il termine per "essere animato" fosse espresso dal numero 2, e il termine per "razionale" dal numero 3, il termine per "uomo" sarebbe espresso dal numero 2x3, ossia 6». (8)

Le scoperte di Newton sulla gravità mostrarono che il cosmo sembrava funzionare come un meccanismo stupendamente affidabile, e nel Settecento studiosi e scienziati dilettanti raccolsero l'idea e cominciarono a essere ossessionati da meccanismi e macchine. La dimostrazione di una nuova apparecchiatura per spiegare o verificare un principio scientifico poteva causare più eccitazione di una conferenza o della presentazione di una nuova teoria ai convegni della Royal Society of London for Improving Natural Knowledge o dei «Lunar Men» di Birmingham del nonno di Charles Darwin, Erasmus. Era il periodo dell'universo meccanico e della rivoluzione industriale inglese. Osservazioni accurate e sperimentazione divennero il marchio della scienza, ma fu incoraggiata anche una cauta generalizzazione, specialmente se conduceva ad applicazioni pratiche.

Per altri versi, nel Settecento, l'universo stava venendo meno alle sue promesse di semplicità. Il botanico svedese Carl von Linné (Linneo) stava classificando un numero sempre maggiore di specie che viaggiatori e navigatori scoprivano in tutte le parti del mondo assegnando a ciascuna di esse, con l'applicazione della sua nomenclatura binomia, un nome di genere e uno di specie. Il numero delle specie ancora ignote era molto maggiore di quanto si fosse immaginato.

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Linneo vide nuove piante anche nel suo giardino e cominciò a sospettare, un secolo prima dell' Origine delle specie di Darwin, che nuove specie potessero emergere di continuo. Ne concluse che esse fos

Carlo Linneo sero sempre esistite nella mente di Dio ma che stessero venendo solo ora all'esistenza materiale: un modo molto platonico di sopire i suoi scrupoli religiosi.

Nessuno aveva una fede nella completezza dell'armonia universale e nel potere dei numeri maggiore di quella del matematico francese Pierre Simon de Laplace, la cui vita copre la seconda metà del Settecento e il primo quarto dell'Ottocento. Per lui i numeri e la matematica sarebbero stati un ponte incrollabilmente affidabile verso il passato e verso il futuro, se solo fosse stato possibile conoscere lo stato esatto di ogni cosa nell'universo in un momento dato. Secondo Laplace un essere onnisciente dotato di tale conoscenza, con poteri illimitati di memoria e di calcolo mentale, e con una perfetta conoscenza delle leggi della natura, avrebbe potuto estrapolare lo stato esatto di ogni cosa nell'universo in qualsiasi altro momento dato.

Frattanto temi pitagorici apparvero anche in ambienti non scientifici. Il partito whig elogiò con le parole seguenti la struttura governativa che riuniva re e parlamento per mezzo di leggi «naturali»:

Quel che faceva muovere i pianeti in quest'ordine, disse, fu armonia e reciproco amore. E fu la musica delle sue sfere a celebrare in cielo l'antica consonanza del governo.

Questa non fu affatto un'allusione isolata. L'armonia del cielo era diventata un'amata immagine poetica. William Shakespeare, contemporaneo di Galileo e di Keplero, le aveva dato una bella espressione nel Mercante di Venezia, dove Lorenzo dice a Gessica:

Il placido silenzio e la notte s'accordano con le note di una dolce armonia [...]. Guarda come il pavimento del cielo è fittamente intarsiato di patène d'oro splendente. Non c'è la più piccola stella che tu contempli, la quale non canti nel suo moto come un angelo e non s'intoni coi cherubini dagli occhi sempre giovani. Tale armonia è nelle anime immortali, ma finché le nostre son rinchiuse in questo corruttibile involucro di argilla noi non la possiamo udire. (9)

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Il contemporaneo di Shakespeare John Davies ha scritto una «giustificazione di danza» intitolata «Orchestra» che era piena di allusioni del genere, non solo alla musica celeste, ma anche ai quattro elementi. Davies non stava facendo un'affermazione scientifica o filosofica. Egli stava correggendo una valutazione denigratoria della danza fatta da una dama, riconducendola alle sue antiche origini primordiali:

La danza, pregiatissima signora, ebbe il suo inizio allor che i primi semi dai quali nacque il mondo — fuoco, aria, terra ed acqua — concordarono per persuasion d'Amore — il sovrano del cosmo —, di abbandonar le prime loro confuse lotte e nella danza loro tal misura osservare come se tutto il mondo dovessero serbare.

La roteante volta celeste fu formata, con le ruote stellate foggiate in modo tale che con i loro moti creare un'armonia potessero, e alla stessa danzassero le stelle.

[...]

Del mondo tutte quante le vicende e le grandi fortune son sospinte e trascinate insieme avanti e indietro in perpetua armonia con la musica eterna delle sfere.

John Milton, un contemporaneo più giovane di Galileo e Keplero, menziona come Shakespeare l'incapacità dell'orecchio umano di percepire questa musica:

Nel pieno della notte, quando il sonno ha chiuso i miei mortali sensi, ascolto delle sfere celesti l'armonia [...].

Sì dolce costrizion v'e nella musica per placare le figlie della dura Necessità, e tenere alla sua legge l'incostante natura, e il basso mondo in misurato moto con celeste armonia trascinare, che l'orecchio umano, non purgato e grossolano non può mai percepirla.

Un altro inglese, John Dryden, nato nel 1631, un anno dopo la morte di Keplero, diede come Davis una voce alla musica nella creazione:

Dall'armonia celeste prese inizio questa disposizione universale: quando giacea Natura sotto un cumulo di dissonanti atomi, e il capo non potea sollevar, si udì

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dall'alto una voce intonar: per te e venuto, te più che morta, il tempo di risorgere. (10)

Joseph Addison, nato più avanti nel corso del secolo, fu autore di una composizione poetica che combinò le idee espresse nel Salmo 19 con l'immagine della musica delle sfere. Talune congregazioni cristiane la cantano ancora, su musica di Franz Joseph Haydn. I versi finali dicono dei pianeti:

Che importa se in solenne silenzio e fitto buio tutto si muove in giro nella sfera terrestre?

Che importa se nessuna voce o suon si può udire negli orbi dei pianeti raggianti? La ragione soltanto riesce a udire questa eterna armonia, canti intonati al cielo con voce gloriosa.

Mentre splendono in cielo sempre si leva il canto «È la mano divina quella che ci ha creati». (11)

Keplero, e con lui quasi tutti coloro che hanno cantato questo inno, sarebbero stati in disaccordo col cosmo geocentrico a cui si riferiscono questi versi, ma lo stesso Keplero - che aveva immaginato i pianeti disposti in perfetta armonia al momento della creazione - non avrebbe potuto esprimersi meglio. L'armonia di Keplero non poteva essere udita da orecchio umano ma solo dalla ragione. Ancora un secolo dopo Addison, William Wordsworth, che visse dal 1770 al 1850, poteva dare per scontato che non si richiedesse alcuna spiegazione o nota quando scrisse sull'«armonia delle sfere più remote del cielo».

Idee pitagoriche e tracce della tradizione pitagorica emersero anche in contesti più sorprendenti. Uno fra gli esempi più bizzarri fu la reinvenzione, verso la fine del Settecento e all'inizio dell'Ottocento, di Pitagora come l'eroe dei rivoluzionari intellettuali in Europa e in Russia. Quest'uso, o abuso, di temi pitagorici fu portato in luce da James H. Billington nel libro Fire in theMinds ofMen: Origins ofRevolutionary Faith. (12) Billington mostrò che in un periodo di confusione, in cui non c'era più niente di stabile e di affidabile, Pitagora divenne un'icona della rivoluzione, e i nomi, gli ideali e i simboli a lui associati divennero motivi ricorrenti nei decenni di rivoluzione e di pensiero rivoluzionario.

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Nel 1776, l'anno della Dichiarazione d'Indipendenza americana e tredici anni prima della data identificata di solito come l'anno d'inizio della Rivoluzione francese, un gruppo fondato in Baviera da un certo Adam Weishaupt e reclutato dalle logge massoniche di Monaco di Baviera si autoproclamò «illuminista». Anche se l'«Illuminismo» doveva essere difficile da definire per qualsiasi persona a quel tempo (come lo è anche per qualsiasi persona del nostro), per Weishaupt significava una «rivoluzione della mente», con l'intento di eliminare ed evitare tutte le «aberrazioni spiritualistiche» e le pratiche e idee occulte. Nomi e concetti vagamente associati all'Illuminismo erano però anteriori a Weishaupt, e lo stesso vale, probabilmente, per la connessione con Pitagora. Poiché gli illuministi erano di solito altrettanto cultori del segreto di Pitagora e dei suoi primi seguaci, molte domande su di loro non hanno ancora trovato risposta, e il pericolo, per una società segreta, è che la propria immagine popolare e storica venga creata non dai propri membri, bensì dai propri nemici più attivi e influenti. Alcuni accusarono gli illuministi di avere scatenato quasi da soli la Rivoluzione francese. Altri dicevano che non erano mai esistiti davvero ma erano un «mito» della polizia, creato da uomini di destra per ispirare un terrore pubblico di complotti clandestini, un mito a cui le autorità stesse credevano solo a metà. Altri ancora affermavano che gli illuministi erano una branca estrema della massoneria, o qualcosa di indipendente che «infettava» la massoneria. Anche i massoni erano fortemente tenuti al segreto, sebbene non necessariamente per le stesse ragioni degli illuministi.

Al tempo di Colombo in Spagna c'erano gli Alumbrados (Illuminati), il cui misticismo era incentrato sull'idea che un'anima umana potesse essere sottoposta a una purificazione interna come via per raggiungere una sottomissione completa a Dio e conseguire una comunicazione diretta con lo Spirito Santo e attraverso di esso. Anche gli illuministi del Settecento sottolinearono la loro interna perfezione e purificazione, ma con una sottolineatura laica sulla ragione e sulla logica. Questa nuova ideologia illuministica apparve per la prima volta o nelle logge della Frammassoneria o di altre organizzazioni massoniche, come quella di Weishaupt in Baviera, o trovò qui un fertile terreno in cui attecchì rapidamente. Per i massoni il lavoro verso la perfezione e purificazione interiore era già centrale nel loro insegnamento, e per loro era attraente anche vedere in se stessi coloro che ricreano un'antica fratellanza. In effetti doveva essere difficile per un membro di una loggia massonica sapere se stava semplicemente prendendo parte a una cerimonia suggestiva piena di antichi simboli, o se stava occupandosi di qualcosa a cui si attribuiva effettivamente un potere soprannaturale, se stava fomentando una rivoluzione, o se fra tutte queste cose c'era qualcosa che facesse di lui un «illuminista». La situazione è ovviamente molto difficile per chi cerchi

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di farsi un'idea osservando dall'esterno! Non c'era solo il «fuoco nelle menti», ma anche una considerevole confusione. Pare però che la propensione illuministica fosse orientata alla ricerca della perfezione e della purificazione non solo da parte degli individui ma anche delle società umane. Lo stesso Pitagora non aveva organizzato una meravigliosa ricostruzione della società a Crotone? Gli illuministi credevano però che al loro tempo, nel Settecento, il processo avrebbe richiesto una immensa sollevazione e il rovesciamento violento dell'autorità esistente.

Già nel 1780, nove anni prima dell'inizio della Rivoluzione francese, il tentativo di legittimare il pensiero rivoluzionario con riferi menti alle idee antiche aveva cessato di essere qualcosa che accadeva solo in logge chiuse e in riunioni segrete. I rivoluzionari intellettuali trovarono suggestiva e rassicurante la ripresa di quelle che consideravano verità primarie scoperte nell'antichità, e gran parte di ciò che era attribuibile, o almeno veniva attribuito, a pitagorici, entrava nel simbolismo dell'incipiente rivoluzione stessa. La retorica e le immagini che cominciarono ad apparire apertamente negli anni Ottanta del Settecento misero in scena quattro figure geometriche «pitagoriche», ossia il cerchio, il triangolo e le loro controparti solide: la sfera e la piramide. Questi erano stati anche simboli di Dio nella cristianità medievale, ma quell'uso era stato energicamente rifiutato.

Pitagora e anche Prometeo sembravano modelli di ruolo ideali.

Concetti associati, correttamente o erroneamente, a Pitagora - numeri primi, figure geometriche e i rapporti armonici della musica erano «verità» più antiche e fondamentali delle dottrine cristiane rifiutate da rivoluzionari intellettuali. Platone aveva parlato di «un dono degli dèi all'uomo, gettato giù dal cielo da un qualche Prometeo insieme al fuoco più luminoso», e i suoi antichi lettori avevano supposto che quel Prometeo fosse Pitagora. Prometeo, secondo la leggenda, avrebbe rubato quel fuoco molto splendente agli dèi, e il fuoco era rimasto associato a lungo a Pitagora, nella forma del «fuoco centrale» pitagorico. Pitagora sembrava quindi un simbolo splendidamente appropriato per la speranza che l'oscurità svanisse per sempre, che spuntasse un giorno nuovo e il sole non tramontasse mai.

Anche il fatto che avesse lasciato Samo per sottrarsi a una tirannide lo qualificava come un intellettuale trasformatosi in rivoluzionario.

Nella Parigi di prima della rivoluzione, Benjamin Franklin era stato soprannominato «il Pitagora del Nuovo Mondo» quando svolgeva la funzione di Venerabile Maestro della Loggia delle Nove Sorelle (la Loge des Neuf Soeurs),

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fra i cui membri c'erano anche figure di rivoluzionari notevoli, come Nicolas de Bonneville, «Anacharsis» Cloots, Georges Danton e Sylvain Maréchal.

La Rivoluzione francese ebbe inizio nel 1789, e il 14 luglio dello stesso anno fu rasa al suolo la Bastiglia. L'esecuzione di membri della nobiltà e del clero, e della famiglia reale francese, ebbe inizio nel 1792 e la ghigliottina rimase attiva per vari anni, mentre coloro che avevano rovesciato la monarchia cominciavano a lottare fra loro.

Fu un tempo di caos, di fermento e di confusione, e non solo in politica. Reinterpretazioni conflittuali della storia, della religione e della scienza gareggiavano fra loro mentre fazioni di destra e di sinistra cercavano una legittimazione, e coloro che venivano inghiottiti nel maelstròm annaspavano disperatamente non solo per salvarsi o per agguantare la vittoria ma anche per potere sfoggiare nuove immagini di sé. Secondo Billington non era insignificante il fatto che molti dei musicisti che nel 1792 suonarono per la prima volta, a Strasburgo, l'inno della Rivoluzione francese, La Marsigliese, avessero suonato anche nell'orchestra che qualche mese prima aveva presentato in Francia Il flauto magico di Mozart. L'Illuminismo era giunto a Mozart nella sua foggia massonica, e il Flauto magico era stracolmo di simboli massonici, «illuministici» e pitagorici.

L'opera sembra, alla maggior parte degli spettatori del XXI secolo, una deliziosa favola arricchita da arcaiche idee pseudoreligiose. Nell'ultimo decennio del Settecento, però, poteva essere vista in modo totalmente diverso. Essa parlava con eloquenza, in modo simbolico, a un'epoca in cui tradizioni e assunti venivano messi in discussione o addirittura si sgretolavano, in cui le nuove scoperte della scienza e le idee dell'Illuminismo continuavano a minare o trasformare versioni anteriori della fede cristiana e in cui l'artificiosità aristocratica elaborata, affettata e traboccante di fronzoli del rococò aveva poco da offrire oltre alla negazione della realtà. In questo ambiente Mozart, i massoni, gli illuministi e i rivoluzionari erano simili nel preferire armonie e forme di natura semplici in grado di fornire un punto d'appoggio filosofico più sicuro: una nuova via, più sicura e più ispiratrice, verso la verità.

Nel 1786 circa, un giovane che sarebbe stato soprannominato in seguito «il primo rivoluzionario di mestiere», Filippo Michele Buonarroti, si era imbattuto nell'Illuminismo in una loggia massonica «di rito scozzese» a Firenze. Questa loggia era diventata un centro di discussione in cui dominavano gli illuministi, che dibattevano idee radicalmente rivoluzionarie. Le autorità fiorentine disapprovarono così severamente il coinvolgimento di Buonarroti che, benché

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egli fosse sposato con una nobildonna, fosse laureato in legge e fosse molto considerato per il suo talento letterario, la sua biblioteca fu ispezionata dalla polizia e i libri massonici e anticlericali confiscati. Poco tempo dopo un Buonarroti irriducibile si trovò bandito in Corsica. (13)

Nel 1789 — l'anno della caduta della Bastiglia - si ebbe per qualche tempo l'impressione che egli volesse unirsi a vari giovani italiani che stavano per iniziare la pubblicazione di un nuovo periodico a Innsbruck (città per la quale usavano il nome in codice di «Samos»).

Questi uomini, mentre studiavano in Baviera, erano stati influenzati dall'Illuminismo di Weishaupt. Ma gli eventi che stavano accadendo in Francia si rivelarono troppo galvanizzanti per Buonarroti, che in vece di andare a «Samo» si sarebbe impegnato ben presto nelle attività rivoluzionarie che stavano sviluppandosi in Francia.

Weishaupt, frattanto, era stato il primo in molti secoli a considerare quelli che riteneva fossero princìpi pitagorici come orientamenti diretti per la politica pubblica. Nel 1787 aveva pubblicato il suo Pythagoras, in cui aveva delineato un progetto per la forma più politicizzata di Illuminismo, ripetendovi l'idea che i princìpi semplici insegnati per la prima volta a Crotone erano ancora una splendida guida per riformare e ricostruire la società. Weishaupt vi aveva approvato specialmente la fine della proprietà privata. Quando Buonarroti tracciò il suo piano per la rivoluzione, ribadì i giudizi e le conclusioni di Weishaupt. Altri si unirono al coro pitagorico: Nicolas de Bonneville compose poesie sui «numeri di Pitagora» e sostenne che Pitagora «portò dall'Oriente il suo sistema di vera istruzione massonica per illuminare l'Occidente». L'americano Thomas Paine, il famoso polemista della Rivoluzione americana e autore del libriccino di grande successo Common sense, che visse una vita libera in un ménage a trois insieme a Bonneville e alla moglie di lui, introdusse Pitagora nella sua versione della storia dei massoni, pur concedendo ai druidi il merito primario, per avere fornito alla massoneria un'ideologia che Paine giudicò un'alternativa migliore al cristianesimo. In An Essay on the Origin of Free Masonry, Paine scrisse che il culto del Sole proprio dei druidi - parallelo alla fede di Pitagora nel fuoco centrale - era passato alla massoneria.

Nel 1799 Sylvain Maréchal scrisse una biografìa in sei libri intitolata Voyages de Pythagoras, che sollevò il suo protagonista al di sopra del livello di un ideale limitato a questo solo periodo rivoluzionario. Keplero aveva soprannominato Pitagora «il nonno di tutti i copernicani», ma la famiglia si ampliò

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considerevolmente quando Maréchal sottolineò che tutti i rivoluzionari di tutti i tempi erano «eredi di Pitagora». Il Pitagora della biografia di Maréchal era un grande geometra che era fuggito dall'isola di Samo per sottrarsi alla tirannia di Policrate e si era rifugiato a Crotone, dove aveva fondato una confraternita filosofico-religiosa che si era data l'obiettivo di trasformare la società. La storia continuava, reimmaginata da coloro che si sentivano parte di una nobile tradizione secolare dedita allo stesso obiettivo: neopitagorici riformatori intellettuali radicali erano fioriti ad Alessandria nel II secolo a.C. Il pitagorico Apollonio di Tiana, profeta itinerante autore di miracoli, non era una figura ridicola ma un legittimo e importante rivale di Cristo, da allora screditato da autori cristiani... Nel Medioevo le persone attratte dalle idee pitagoriche riconoscevano che Pitagora era un collegamento ebraico segreto fra Mosè e Platone... Il pitagorismo non aveva mai smesso di affascinare pensatori del Rinascimento e dell'Illuminismo, ma era rimasto solo una corrente sotterranea fino a quando non era venuto il tempo per il suo nuovo risveglio, nella rivoluzione che avrebbe trasformato la Francia e il resto dell'Europa. Maréchal scrisse dell'«uguaglianza della natura» e di una repubblica pitagorica di «uguali», e riecheggiò le parole di Weishaupt e di Buonarroti nel consigliare ai suoi lettori di «possedere tutto in comune, niente per se stessi». Il libro VI dei Voyages comprendeva non meno di 3506 presunte «leggi di Pitagora».

Massoni, illuministi e rivoluzionari intellettuali associavano Pitagora ai numeri primi, anche se nell'antichità non c'era stato alcun suggerimento di questa connessione. Grande importanza si attribuiva a quelli che erano ritenuti i numeri primi centrali nel misticismo pitagorico: 1, 3, 5 e 7. Gli usi più estremi dei «princìpi pitagorici» erano tesi a trovare, per mezzo di numeri mistici e della numerologia, vie che conducessero alle verità profonde della natura, diverse dall'uso dei numeri dei primi pitagorici, e ancor più diverse dall'uso che ne fanno gli scienziati per raggiungere una comprensione matematica della natura e del cosmo. In un momento di paranoia di sinistra su un possibile complotto gesuitico per impadronirsi della massoneria, qualcuno suggerì che il 17 era il numero necessario per capire il piano dei gesuiti. Un libellista di destra rovesciò l'idea e procedette ingegnosamente a dimostrare che l'intera storia delle rivoluzioni derivava dal numero 17. Altri oppositori di destra raccolsero lo stesso tipo di misticismo numerico pseudopitagorico e produssero opuscoli in cui si suggeriva che i numeri primi fossero un codice per l'organizzazione di rivoluzioni.

L'ossessione per la ricerca di legami con Pitagora aveva qualche attinenza col modo in cui le attività rivoluzionarie venivano organizzate, anche se questa

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organizzazione implicava triangoli e cerchi più che numeri primi. Le connessioni che gli intellettuali rivoluzionari istituivano fra i pitagorici e le figure del cerchio e della sfera non erano forzate. I pitagorici (come si vede, per esempio, nei frammenti di Filolao) erano stati fra i primi a pensare nei termini di un sistema in cui la Terra e l'universo erano entrambi sferici. Inoltre la legge della gravità di Newton, che lui stesso aveva collegato con Pitagora, rivelava un'«armonia circolare». Anche un'altra dottrina pitagorica, quella della trasmigrazione delle anime, suggeriva un movimento circolare, un eterno ritorno per ricominciare da capo. I «pitagorici» il luministi erano innamorati dell'idea che un processo di purificazione avesse luogo all'interno di questa trasmigrazione «circolare» di anime, a cominciare dalle forme di vita più basse per salire a spirale, attraverso il livello dell'umanità, fino alle sfere divine della razionalità pura. Le «regole della geometria», com'essi chiamavano le leggi che si celavano dietro tale processo, erano particolarmente appropriate per uomini che si consideravano i «muratori-architetti» di una nuova società. L'architetto Pierre Patte sostenne che nelle forme circolari c'era una moralità superiore, in quanto esse erano essenzialmente più ugualitarie e orientate verso la proprietà comune.

Un modo per organizzare i gruppi illuministici consisteva perciò in una gerarchia di cerchi concentrici. Una fiamma «al centro» rappresentava il fuoco centrale intorno al quale la Terra, il Sole e i pianeti si muovevano nel sistema pitagorico dei dieci corpi. Man mano che si avanzava nell'Illuminismo, si progrediva dai cerchi esterni verso l'interno, liberandosi dalle limitazioni fisiche per unirsi, o riunirsi, alla vita nel cerchio interno o nella sfera più celeste. Lo stesso simbolismo si applicava alle società, collegando i cerchi all'idea di «rivoluzione». Come gli individui, anche le società potevano procedere gradualmente verso l'interno passando per cerchi concentrici, liberandosi via via dalle limitazioni di antiche tradizioni e credenze fino a pervenire alla cerchia interna della libertà e della semplicità razionale.

Secondo la relazione di un giovane collaboratore di Buonarroti, Gioacchino Prati, la prima organizzazione istituita da Buonarroti, nell'ultimo decennio del Settecento, quella dei Sublimi Maestri Perfetti, era composta da cerchi concentrici ognuno dei quali aveva un proprio credo segreto. Il cerchio interno era assolutamente egualitario e così segreto che i cerchi esterni non ne conoscevano l'esistenza.

Se dobbiamo credere ad alcuni critici degli illuministi, i gruppi di questo movimento si organizzavano anche in un altro modo in cerchi (o «circoli»), un nome in codice per celle di cospirazione di nove uomini. L'illuminista bavarese

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Weishaupt era particolarmente entusiasta dei cerchi come simboli e considerava un'espressione di grande valore simbolico quella di parlare di «circolazione» delle sue idee per mezzo di «circoli».

Il triangolo usato nel simbolismo rivoluzionario era il triangolo equilatero, la tetraktys, che era stata in precedenza anche un simbolo importante nella massoneria. Su sigilli, francobolli, manifesti e bandiere, le parole Liberté, Egalité e Fraternité componevano i lati di un triangolo, colorato in bianco, rosso e blu. I cappelli erano in forma di tricorni. Nel 1798 Franz Xavier von Baader scrisse un libro intitolato

Sul quadrato pitagorico in natura: uno strano titolo per un libro che celebrava i triangoli. Tre elementi - fuoco, acqua e terra (l'aria non sembrava interessare a von Baader) — ricevettero vita da un «principio vivificatore universale», un punto che simboleggiava la «nascita del Sole», rappresentata da un pallino al centro di un triangolo equilatero. Quest'immagine divenne molto popolare.

Maréchal vide armonie triangolari nei tre ruoli di un uomo come padre, figlio e marito, tre persone in una, che veniva a sostituire la Trinità del cristianesimo con una trinità incentrata su ciascun individuo.

Il triangolo si manifestava nell'organizzazione triangolare dei gruppi rivoluzionari. Un individuo appartenente a un gruppo interno reclutava due apprendisti da un gruppo più esterno, e infine anche ognuno di questi ne reclutava altri due per formare un proprio triangolo. Nella descrizione di Weishaupt:

Io ho direttamente sotto di me due persone nelle quali posso insufflare la mia intera anima, e queste due ne hanno a loro volta altre due, e via dicendo. In questo modo posso mettere in movimento e infiammare, nel modo più semplice, migliaia di persone. In questo modo dev'essere organizzato e deve operare politicamente l'ordine.

Ne conseguiva che ognuno conosceva il nome e l'identità solo di un membro del gruppo interno sopra di lui. Era una forma di organizzazione abbastanza sicura, un sistema complesso di interconnessioni nel quale era difficile infiltrarsi in modo efficace. La Cospirazione del Triangolo Spagnolo del 1816, un complotto per uccidere il re Ferdinando VII, aveva un nome appropriato. (*)

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* La cellula di tre uomini fu usata di nuovo nel comunismo vietnamita, in Algeria negli anni Cinquanta del Novecento e in URSS verso la fine degli anni Sessanta.

In un uso potenzialmente meno mortale, il mistico Louis-Claude de Saint-Martin mescolò a caso immagini e culture nella speranza che si potessero usare figure e numeri pitagorici per trasformare Parigi in una nuova Gerusalemme, nella quale una democrazia rivoluzionaria diventasse una «deocrazia». Altri fecero piani connessi per un'architettura parigina innovativa, fondata sul cerchio, sul triangolo, sulla piramide e sulla sfera: un'idea che fu curiosamente realizzata nel 1993 dall'architetto Ieoh Ming Pei nel controverso ingresso moderno al Louvre: una piramide di vetro.

I «pitagorici» che idealizzarono il loro modello di ruolo come quello di un intellettuale diventato rivoluzionario, ne celebrarono anche l'associazione con la musica e furono particolarmente appassionati di «canzoni senza parole». Queste sembravano una connessione con la musica delle sfere, esprimendo «l'armonia della creazione, o il mondo come dovrebbe essere». Antoine Fabre d'Olivet, che compose musiche per l'incoronazione di Napoleone, mise in musica anche i Versi aurei di Pitagora, l'opera pseudopitagorica che era stata popolare nel periodo romano-ellenistico, e scrisse che la musica era «la scienza delle relazioni armoniche dell'universo».

Nel 1804 Napoleone, che cinque anni prima aveva stabilito in Francia una dittatura militare con lui stesso come «Primo Console» - evento identificato solitamente come la fine della Rivoluzione francese - proclamò la Francia un impero ereditario e incoronò se stesso imperatore. Così, con l'inizio del nuovo secolo, le speranze di una rivoluzione europea sperimentarono un serio declino, ma l'icona di Pitagora divenne importante in un modo nuovo per coloro che si opponevano a Napoleone. Mentre la Francia seguiva l'esempio romano, trasformandosi da una repubblica in un impero, Pitagora era considerato nostalgicamente un'alternativa antica, più nobile, alle immagini napoleoniche di conquista, espansione e dominazione.

Tanto Paine quanto Maréchal ritenevano di stare ancora seguendo le orme di Pitagora, e si consideravano intellettuali temporaneamente impossibilitati ad agire in modo efficace («in esilio»), ma dediti alla costruzione di una fratellanza che avrebbe infine liberato la società umana. Nelle parole di Billington, due etichette - Pitagora e «Philadelphia» (parola che significa «amore fraterno») — «ricorrono

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come motivi conduttori nella cacofonia di ideali e gruppi mutevoli attivi durante la recessione delle speranze rivoluzionarie [...]. Pitagora divenne una sorta di santo patrono per i rivoluzionari romantici», che avevano più che mai bisogno di «simboli di santità laica».

Ispirazione e iconografia pitagorica giunsero in Russia lo stesso anno in cui Napoleone divenne imperatore a Parigi, quando la biografia di Pitagora scritta da Maréchal cominciò ad apparire in periodici governativi ufficiali russi, un volume all'anno, e parti di essa apparvero in altri periodici russi. In Russia ebbe inizio una kruzhkovshina (mania per i cerchi) che durò fino al Novecento inoltrato.

Nel 1818 nell'Ucraina occidentale dei giovani organizzarono una «società di Pitagora» con la propria collezione di «regole della setta pitagorica». Una serie di gruppi che chiamarono se stessi pitagorici liberi si formarono ben presto in altre aree dell'impero russo. Gruppi di radicali discutevano spesso su collezioni rivali di «leggi di Pitagora». Alcuni preferivano quelle che bandivano la proprietà privata; altri quelle (di origine pitagorica dubbia) fondate sulla tesi che armi e amicizia potevano conquistare tutto. Altri ancora insistevano sul fatto che gli insegnamenti pitagorici sulla perfezione morale dovevano avere la priorità sulla riforma legale. Billington ci racconta anche di un gruppo di studenti di Vilnius che si riunivano di notte in località di grande bellezza naturale per apprendere la sapienza occulta di un «visitatore arci-illuminato» che proveniva da un «cerchio interno».

Una breve nuova ondata di insurrezioni contro monarchi europei, cominciata con la Cospirazione del Triangolo Spagnolo del 1816, si concluse drammaticamente nel 1822. Il papa Leone XIII condannò la massoneria, e varie monarchie la misero fuori legge. In tutt'Europa furono ridotte le libertà civili, e le discussioni organizzate furono considerate con diffidenza dalle autorità. I residui di repubblicanismo, compresi i simboli di Pitagora, persero favore a livello ufficiale e pubblico. Il rettore dell'Università di Kazan' decretò che non si dovesse insegnare il teorema di Pitagora.

La Rivoluzione russa del dicembre 1825 fu un'eco abortita del fervore che aveva ispirato gli intellettuali in Europa per più di mezzo secolo. I giovani ufficiali che avevano aiutato a sconfiggere Napoleone ed erano entrati da vincitori a Parigi nel 1814 vi avevano sperimentato un mondo più ricco e illuminato. Erano stati loro, più che le classi inferiori in Russia, a cominciare a organizzarsi, con la speranza di portare le riforme in Russia; il loro intento, nelle parole di uno dei

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fratelli Turgenev, era quello di resistere a essere ritrasformati in «soldati di pan di zenzero. E da chi? Da pigmei politici».

Fra coloro il cui pensiero e lavoro condussero alla breve e fallita rivoluzione del 1825, Pitagora fu di nuovo un'ispirazione. F.N.

Glinka, che fondò un gruppo noto come l'Unione della Salvezza, una delle molte società segrete fondate a quel tempo, fu molto motivato da un'opera francese da lui letta in traduzione sull'«istituto di

Pitagora». Uno fra i principali periodici russi pubblicò un articolo sulla setta dei pitagorici che comprendeva una serie di domande e risposte, come quelle che piacevano agli acusmatici («Che cosa è universale? L'ordine. Che cos'è l'amicizia? Uguaglianza»), e una descrizione: «Non avendo alcuna proprietà privata, non conoscendo falso orgoglio e vanagloria, restando alieni dalle piccole cose che spesso dividono, essi erano in competizione fra loro solo nel fare del bene [...] e imparavano a usare le cose in comune e a dimenticare la proprietà».

Uno dei capi di un «circolo», detto Lampada verde, che aiutava a fomentare la rivolta, scrisse un articolo in cui immaginava come dovesse essere San Pietroburgo tre secoli dopo. Nella sua visione, lo zar e l'intera ortodossia avrebbero concesso via libera a immagini pitagoriche rappresentate da un tempio circolare, da musica e da una fenice con un ramo d'olivo.

Quando la rivoluzione del 1825 fallì, cinque capi dei rivoltosi furono impiccati e gli altri esiliati in Siberia. Forse ci fu una certa consolazione nel ricordare che Pitagora, il loro antico modello - almeno nella mitologia che pensavano di conoscere - era stato costretto a fuggire ignominiosamente da una città nella quale aveva tentato di introdurre un modo di vita migliore.

Al di là dei circoli rivoluzionari, Pitagora fu ricordato nella letteratura da vari autori. Il poeta Percy Bysshe Shelley scrisse un articolo in cui elogiava la dieta vegetariana dei pitagorici, e Lev Tolstoj ne seguì l'esempio. Louisa May Alcott sapeva che i suoi lettori non avevano bisogno di alcuna spiegazione quando scrisse in Jo's Boys (I figli di Jo) che «nonno March coltivava la piccola mente con la tenera sapienza di un moderno Pitagora, non affaticandola con lezioni lunghe e difficili, imparate a pappagallo, ma aiutandola a svilupparsi naturalmente come il sole e la rugiada aiutano le rose a fiorire». Honoré de Balzac attribuì a Pitagora il detto «nessun uomo è noto finché non muore». Pitagora è uno dei fantasmi presenti nel romanzo The Haunted House di Charles Dickens, e fece un'apparizione anche nel Circolo Pickwick.

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Sempre nell'Ottocento, continuò a perdurare la convinzione che l'idea della struttura matematica dell'universo avesse avuto origine con i pitagorici. L'economista William Stanley Jevons scrisse: «Non senza ragione Pitagora rappresentò il mondo come governato dai numeri. I numeri entrano in quasi tutti i nostri atti di pensiero, e in proporzione a quanto possiamo definire numericamente godiamo di una conoscenza esatta e utile dell'universo». (14)

Un ideale pitagorico cominciò a realizzarsi in un modo che non sarebbe stato possibile in precedenza. L'assunto che nell'universo ci sia un'unità era già diventato uno dei pilastri della scienza ma solo nell'Ottocento cominciarono a diventare accessibili il sapere e gli strumenti che avrebbero permesso agli scienziati di investigare il problema se questo assunto fosse valido o se, come la musica delle sfere, fosse meglio relegarlo nell'ambito della metafora poetica. L'idea che in natura ci sia un'unità emerse fortemente nell'opera di tre uomini che esercitarono un impatto particolarmente importante sul futuro della scienza.

Quando il fisico e chimico danese Hans Christian Örsted scrisse la sua tesi di dottorato sui Metaphysische Anfangsgründe der Naturwissenschaft (Primi princìpi metafisici della scienza della natura) di Immanuel Kant, era già convinto che l'intera esperienza potesse essere spiegata da una corretta comprensione delle forze della natura e che queste fossero in realtà non molte forze ma una. Kant aveva suggerito che ci fossero due forze basilari, ma Örsted decise di proseguire sul suo cammino con la certezza che la luce, il calore, l'affinità chimica, l'elettricità e il magnetismo fossero altrettante facce diverse di «una forza primordiale». Nel 1820 Örsted scoprì l'elettromagnetismo, avendo «aderito all'opinione che gli effetti magnetici sono prodotti dagli stessi poteri di quelli elettrici [...], guidato non tanto dalle ragioni addotte comunemente, quanto dal principio filosofico che tutti i fenomeni sono prodotti dalla stessa potenza originaria».

Michael Faraday fu un grande scienziato dell'Ottocento che intraprese una ricerca, destinata a durare per tutta la vita, sui modi in cui le forze della natura conseguono la loro unità armoniosa. Egli cominciò la sua vita professionale come chimico e scoprì vari nuovi composti organici. Come nel caso delle numerose specie di Linneo in precedenza ignote, le scoperte di Faraday poterono essere intese come un'indicazione di una mancanza di unità, ma finirono in realtà con l'aumentare la consapevolezza di quante cose fossero in attesa di essere unificate. Un elenco dei contributi più notevoli di Faraday comprendeva la produzione di una corrente elettrica a partire da un campo magnetico, in cui veniva in luce la

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relazione fra legame chimico ed elettricità, e la scoperta dell'effetto del magnetismo sulla luce.

L'opera di Faraday fornì la fondazione sperimentale - e anche gran parte di quella teorica - dell'opera di James Clerk Maxwell,

Michael Faraday più avanti nel corso del secolo. La teoria del campo elettromagnetico di Maxwell realizzò la piena unificazione di elettricità e magnetismo.

La «forza elettromagnetica» sarebbe stata riconosciuta nel XX secolo una delle quattro forze fondamentali della natura. Le equazioni di Maxwell, fondate a loro volta sullo studio delle linee di forza elettriche e magnetiche, avrebbero contribuito a determinare una traiettoria scientifica verso il collegamento di massa ed energia nella teoria della relatività ristretta di Einstein. Tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento la scienza era ben avviata a trovare quell'unità della natura a cui avevano creduto con tanto fervore i pitagorici. Paradossalmente, anche Maxwell fornì una visione della realtà con problemi che sarebbero stati risolti nel XX secolo, dalla teoria quantistica. E la teoria quantistica, a sua volta, avrebbe causato una crisi della fede nella razionalità dell'universo, una crisi alla stessa scala di quella causata forse dall'antica scoperta pitagorica dell'incommensurabilità.

18 GIANO BIFRONTE

Il XX secolo

Nel XX secolo apparvero due libri importanti i quali fecero luce sul debito che l'umanità ha nei confronti di Pitagora e dei pitagorici. (1) Le parole «debito nei confronti di Pitagora» potrebbero lasciare intendere che ci sia qualcosa di positivo per cui dovremmo ringraziare Pitagora e i suoi seguaci, e uno dei due autori, Koestler credette certamente che fosse così. Bertrand Russell sostenne invece la tesi che l'influenza di Pitagora fosse stata per la maggior parte negativa. Le loro due esposizioni costituiscono un esempio eccellente di come togliersi un paio di occhiali e metterne su un altro possa cambiare in modi sorprendenti quel che si vede.' Russell era nato nel 1872. Negli anni che precedettero la prima guerra

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mondiale affrontò un interrogativo che lo avrebbe impegnato per la maggior parte della sua vita: se la matematica possa essere ridotta, in misura significativa, a logica, con una proposizione vera in grado di implicarne la successiva. È probabilmente proprio il sapere convenzionale a supporre che la matematica funzioni così, ma questa è in realtà una visione ingenua. Il problema è complesso, e Russell lo sapeva.

Anche se il suo posto fra gli accademici era più di un filosofo che di un matematico, nei Principles of Mathematics e in un'opera in tre volumi scritta in collaborazione con Alfred North Whitehead, Principia mathematica, l'obiettivo che egli si propose fu quello di rifondare la matematica sulla base della sola logica. (2) Non c'è niente di antipitagorico nella fede nella logica matematica. Fu su altri problemi che Russell se la prese con Pitagora e Platone.

Rifiutando con veemenza l'idea che gli esseri umani possano avere motivi per discutere su un mondo ideale, al di là di quel che può essere estrapolato in modo ragionevole da ciò che si può sperimentare con i cinque sensi, Russell era convinto che «ciò che appare come il platonismo si trova già, analizzandolo, nell'essenza del pitagorismo».

Fu da Pitagora che Platone trasse gli «elementi orfici» della sua filosofìa, «la tendenza religiosa, la fede nell'immortalità e nell'altro mondo, il tono sacerdotale, tutto ciò che è implicito nella similitudi ne della caverna, e anche il peso dato alla matematica, e la intima mescolanza di raziocinio e misticismo». Russell criticò Pitagora per quella che vedeva come la visione di Platone, che il regno della matematica era un regno ideale, da cui qualsiasi cosa della vita reale sarebbe rimasta sempre lontana.

Il capitolo di Russell su Pitagora faceva parte di un grosso libro di quasi 900 pagine, la sua History of Western Philosophy del 1945. (*)

Egli la scrisse per un vasto pubblico non accademico, ma non era una rassegna ingenua priva di un programma preciso. L'interesse di Russell per il linguaggio, per un'analisi linguistica spinta fino al limite delle sue richieste minime, alla trasformazione delle frasi in equazioni dalle quali spremere il messaggio più sottile e inequivocabile possibile, aveva fatto di lui un maestro della manipolazione del linguaggio e - bisogna aggiungere - della manipolazione dei lettori.

Russell poteva essere a volte un lettore disattento, a volte un pensatore non rigoroso, ma quando scriveva pesava esattamente ogni parola. Il suo capitolo su

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Pitagora è costellato da minimizzazioni ironiche, cosa che può far perdere facilmente di vista il fatto che con questa prosa abile, seducente, divertente egli voleva minare non solo alcuni dei dogmi più apprezzati delle scienze matematiche, ma anche la fede in Dio.

Il libro ricostruisce la storia della filosofia da Talete a lui stesso, ma Russell tentava di mostrare come questa lunga storia fosse culminata, e avesse infine trovato un correttivo, nella sua stessa filosofia. In questo contesto egli non trattò Pitagora semplicemente come uno dei tanti filosofi che compaiono nell'indice. L'ultimo paragrafo del capitolo dedicato a Pitagora (p. 68), dice: «Non so di nessun altro uomo che abbia avuto altrettanta influenza nella sfera del pensiero». Anche il coautore dei Principia mathematica, Alfred North Whitehead, credeva che l'influenza di Pitagora fosse stata grandissima, la vera base su cui poggiano la filosofia e la matematica europee.

Russell concordava con chi pensava che Pitagora fosse stato il primo a usare la matematica come ragionamento dimostrativo deduttivo più che come semplice strumento pratico di commercio e di misurazione. Era stato secondo lui questo aspetto a fare di Pitagora uno

* In Italia la Storia della filosofia occidentale (trad. it. di L. Pavolini) fu pubblicata dalla Longanesi nel 1948 e ristampata nel 1966-1967 in quattro tomi in edizione economica. Il capitolo 3 della parte I, «Pitagora», è contenuto nelle pagine 58-68 del tomo I. (N.d. T.)

dei padri fondatori della linea del pensiero matematico che avrebbe condotto all'intera matematica moderna, compresa la propria. «Dal punto di vista intellettuale, [Pitagora] è uno degli uomini più notevoli che siano mai esistiti, sia per la sua sapienza sia per altri aspetti (both when he was wise and he was unwise)», scrisse Russell (p. 58).

Con la parola unwise si riferiva al fatto che Pitagora e il pitagorismo gli sembravano avere avuto anche un lato mistico, e quando questo fatto incoraggiò Platone a introdurre le forme, l'eredità del pitagorismo si guastò.

Come altre scienze avevano le loro radici in false forme di sapere - l'astronomia nell'astrologia, la chimica nell'alchimia -, alla matematica, scrisse Russell, era connesso «un più raffinato tipo di errore» (p. 64); apparendo «sicura, esatta e applicabile al mondo reale», si pensava che potesse essere praticata col «puro pensiero, senza bisogno dell'osservazione sperimentale». Russell aveva una tesi ben precisa. Pensate al cosmo dei dieci corpi. Benché i pitagorici avessero

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scoperto i rapporti dell'armonia musicale ascoltando (usando uno dei cinque sensi) e osservando dove stavano toccando con le dita le corde della lira (operazione che implicava altri due sensi, la vista e il tatto), procedettero però poi in un modo poco felice, che implicava la fede nel pensiero, senza alcun bisogno della conferma dell'osservazione. Quella che secondo Russell era emersa come risultato di questo modo di procedere era una visione del regno della matematica come un ideale da cui la conoscenza empirica fondata sui sensi sarebbe sempre rimasta lontana. Una volta affermatasi una concezione del genere, deplorò Russell, si era necessariamente costretti a rinunciare all'idea che l'osservazione del mondo reale fosse una guida utile alla verità.

Platone, come veniva interpretato da Russell, aveva creduto che chiunque si proponesse di cercare la verità dovesse rinunciare a tutta la conoscenza empirica e considerare i cinque sensi come testimoni inattendibili, o addirittura come falsi testimoni. Assoluta giustizia, assoluta bellezza, bene assoluto, assoluta grandezza, assoluta salute, l'essenza e vera natura di ogni cosa: l'unica occasione per la mente per raggiungere quel livello di conoscenza era, come Platone fece dire a Socrate, quando «essa tutta sola si raccoglie in se stessa dicendo addio al corpo; e nulla più partecipando del corpo né avendo contatto con esso, tende con ogni suo sforzo alla verità». (3)

In realtà non c'è alcun documento di Pitagora, o di pitagorici preplatonici, che affermi che la verità sull'universo debba essere sco

Bertrand Russell perta col solo pensiero; ma secondo Russell, anche se fu Platone a esprimere questa idea, la sua fonte furono i pitagorici; la cosa sarebbe implicita nel modo in cui essi pensarono e nelle conclusioni che raggiunsero. Russell era convinto che l'idea della superiorità del pensiero e dell'intelletto sull'osservazione diretta dei sensi non sarebbe mai emersa senza la combinazione della visione pitagorica dei numeri con l'idea platonica delle idee; queste crearono congiuntamente una sfortunata eredità che dura fino a oggi e che ha motivato molte persone a cercare modi per approssimarsi sempre più a quello che vedevano come l'ideale matematico. «I suggerimenti che ne risultarono dettero origine a gran parte degli errori della metafisica e della teoria della conoscenza. Questa forma di filosofia comincia con Pitagora» (p. 65).

Chi ha letto Platone non può essere d'accordo con Russell. Platone non concepì affatto i numeri e la matematica come Forme o Idee, e nemmeno come una via sicura per scoprirle. Per esempio, nella sua creazione dell'anima del mondo nel

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Timeo, o quando Socrate, nel Menone, spiegava la «reminiscenza» disegnando il quadrato e il triangolo rettangolo isoscele per il ragazzo schiavo ignorante, la matematica, per Platone, era un modo per protendersi verso il livello ultimo di conoscenza, verso le Forme. In questi brani non pare che Platone pensasse di essere a quel livello, o che i numeri o la ma tematica lo avrebbero portato là. In seguito i suoi allievi concepirono i numeri al livello delle Forme, ma neppure loro credevano necessariamente che pensatori umani potessero raggiungere quel livello di matematica.

Russell aveva un'altra obiezione nei confronti di Pitagora. La nozione pitagorica che numeri e relazioni numeriche fossero alla base dell'intera natura — che non fossero creati o inventati dagli uomini ma da loro scoperti - era, secondo lui, una nozione erronea e un enorme e tragico passo falso nella storia del pensiero umano. Se si accettava quella fantasia pitagorica, la matematica era condannata ad avere sempre in sé «un carattere di rivelazione estatica». La «rivelazione» era per Russell un concetto impossibile. Egli scrisse che i matematici che hanno «sperimentato l'inebriante piacere di una improvvisa comprensione che può dare di quando in quando la matematica», troveranno il punto di vista pitagorico «del tutto naturale anche se falso» (p. 63). Nell'esprimersi in questo modo Russell stava ignorando che né i pitagorici, né alcun matematico importante dal tardo Cinquecento in poi, e neppure uno scienziato estaticamente religioso come Keplero, ha mai sostenuto di avere ricevuto una visione matematica. Russell metteva però sullo stesso piano «scoperta» della verità con «rivelazione», e «rivelazione» con «illusione». Con quest'equazione in mente, quella che sembrava essere la scoperta del livello sottostante di realtà matematica equivaleva a un salto di fede in un falso «mondo delle idee». E, secondo Russell, l'idea era stata rifilata a un futuro credulone.

Russell cercò di rinsaldare questi suoi concetti attribuendo ai «matematici che hanno sperimentato l'inebriante piacere dell'improvvisa comprensione matematica» un'idea diversa (sulla quale molti matematici sarebbero in disaccordo), ossia che la matematica è una cosa creata dai matematici, nello stesso modo in cui la musica è una cosa creata dai compositori. Questo parallelo avrebbe potuto essere illuminante, se Russell lo avesse portato avanti. In un contesto in cui alcuni toni e metri sono possibili e altri no - e molte altre cose si potrebbero scoprire sull'udito, i suoni e il loro effetto sulle emozioni umane - un compositore si trova ad avere ancora un gran numero di scelte. I risultati dipenderanno dalla sua creatività e inventività nell'uso di un materiale elementare immutabile. Forse anche un matematico ha un gran numero di scelte partendo da

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uno sfondo di vere possibilità matematiche. Anche se il territorio incognito che si sta esplorando non è soggetto a scelte o invenzioni, le piste che condu cono ad esso e attraverso di esso sono una questione di scelta e di creatività.

Russell aveva in mente qualcos'altro. Egli stava optando per una diversa filosofia della matematica: che la matematica sia una costruzione umana per imporre un ordine logico all'universo o per disegnare una carta di un territorio che non è affatto intrinsecamente matematico. Russell rivolge a Pitagora due critiche: la prima concerne l'idea platonica che ci sia un regno non percepibile ai sensi umani, ma forse all'intelligenza umana; la seconda riguarda la convinzione che i matematici stessero scoprendo, e non inventando, una verità matematica. Se si consideravano i numeri eterni, non esistenti nel tempo, si potevano concepire numeri e matematica come «pensieri di Dio», e proprio in quell'ottica si poneva l'idea di Platone, radicata nel pitagorismo, che Dio sia «un geometra». Una sorta di religione «razionale» era così venuta a dominare la matematica e il metodo matematico.

Russell era disposto a concedere una valenza positiva alla dottrina pitagorica di un universo dotato di razionalità e di ordine matematico: essa aveva reso la gente insoddisfatta di moti celesti irregolari e complicati in cielo, quali appaiono a un osservatore ingenuo. Moti celesti così disordinati non erano «per niente simili a quelli che avrebbe scelto un Creatore pitagorico» (p. 189), e questo rompicapo aveva condotto astronomi come Tolomeo, e in seguito Copernico e Keplero, a proporre sistemi quali avrebbe sicuramente preferito un creatore ordinato.

Quando Russell scrisse la Storia della filosofia occidentale non erano ancora state scoperte le tavolette scribali babilonesi che attestavano la conoscenza del teorema «pitagorico» molto tempo prima di Pitagora. È perciò comprensibile la sua fiducia nel definire il teorema pitagorico «la massima scoperta di Pitagora». Egli ebbe parole di comprensione per la situazione critica in cui si erano trovati i pitagorici nello scoprire l'incommensurabilità. Aveva ragione di simpatizzare con loro perché durante la sua vita furono fatte varie scoperte che parvero minare i suoi propri sforzi, nello stesso modo in cui la scoperta dell'incommensurabilità aveva tradizionalmente minato la fede pitagorica che il mondo fosse fondato su relazioni numeriche razionali. Una delle scoperte fu il «paradosso di Russell», scoperto da lui stesso. Egli stava cercando di immettere la matematica su una pista migliore, e cercava di trovarla nella logica, con una sequenza di proposizioni matematiche vere ognuna delle quali implicasse la seguente. Una proposizione matematica vera, però, implica a volte più della proposizione successiva. A volte implica due proposizioni che si contraddicono reciprocamente. (*) Questo

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paradosso non era un tranello banale. Russell scrisse una lettera in proposito al matematico e logico tedesco Gottlob Frege. Frege ricevette la lettera mentre stava completando il secondo volume di un trattato sulle fondazioni logiche dell'aritmetica che gli era costato dodici anni di faticoso lavoro. In risposta a Russell, Frege aggiunse al libro le seguenti parole sconsolate:

Difficilmente uno scienziato può imbattersi in qualcosa di più indesiderabile che vedere i suoi fondamenti cedere proprio quando un'opera è finita. Io sono stato messo in questa condizione da una lettera del signor Bertrand Russell proprio quando il lavoro stava per andare in stampa. (4)

Russell spese un po' di tempo nel suo capitolo su Pitagora a considerare il problema dell'incommensurabilità. Pensava che la radice quadrata di 2, essendo la forma più semplice del problema, fosse il primo numero irrazionale scoperto, e che esso fosse noto ai primi pitagorici che avevano trovato il seguente metodo ingegnoso per approssimarne il valore. (**) Supponiamo di avere un triangolo rettangolo isoscele, quello stesso usato da Platone nel suo Menone, che contiene il problema dell'incommensurabilità. Russell pensava che i pitagorici si fossero imbattuti nel problema proprio studiando questo triangolo: accingiamoci perciò a seguire il suo pensiero.

Innanzitutto passiamo in rassegna il problema. Il teorema di Pitagora dice che la somma del quadrato costruito sul lato A più il

* Figuriamoci una collezione di monete: chiamiamola Insieme A. Una collezione di monete è un esempio di un insieme che non può essere membro del proprio insieme. In altri termini, una collezione di monete non è una moneta. Figuriamoci ora un altro insieme (chiamiamolo Insieme B), che contiene cose che non sono monete. Questo insieme non è una moneta, cosicché dev'essere membro di se stesso. In altri termini, l'Insieme B è un membro dell'Insieme B. Figuriamoci ora un terzo insieme: l'Insieme C.

Questo contiene tutti gli insiemi che non sono membri di se stessi. C è membro di se stesso o no? Ragionandoci un po' troverete che lo è se, e solo se, non lo e.

** La forma più semplice di un problema non è però sempre quella in cui ci si imbatte inizialmente. Se così fosse, la storia della matematica e della scoperta scientifica avrebbe avuto uno sviluppo molto più piano!

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quadrato costruito sul lato B equivarrà al quadrato costruito sul lato C. Supponiamo che il lato A misuri 1 metro; allora anche il lato B sarà lungo 1 metro. Il quadrato di 1 è 1. La somma del quadrato del lato A più la somma del quadrato del lato B (1 + 1) darà dunque 2

(metri quadrati). Se il teorema di Pitagora è corretto, anche il quadrato del lato C dev'essere 2, ma qual è la lunghezza del lato C? Non lo si può trovare se non si sa calcolare la radice quadrata di 2. Ecco come Russell suggerì che i pitagorici potrebbero avere approssimato il risultato:

Costruiamo due colonne, A e B, e iniziamole tutt'e due col numero 1.

Per ottenere la prossima coppia di numeri: Per la colonna A, sommiamo il primo numero della colonna A al primo della colonna B (1 + 1=2). Per la colonna B, raddoppiamo il primo numero della colonna A e sommiamo al primo numero della colonna B (2+1=3).

Se continuiamo a usare lo stesso metodo per ottenere le coppie di numeri successive, usando sempre i due numeri precedenti a cui applicare lo stesso tipo di calcolo, ben presto avremo: (segue quadrato))

A B

Per ogni coppia di numeri vale ora: 2A al quadrato meno B al quadrato è uguale o a 1 o a meno 1. In ogni modo, B diviso A è vicino alla radice quadrata di 2, e quanto più giù si scende nella tabella, tanto più ci si avvicina alla radice quadrata di 2 anche se non la si raggiunge mai perché la radice quadrata di 2 non è un numero razionale.

Questa conclusione avrebbe soddisfatto i pitagorici? Non si può fare a meno di pensare che, per persone convinte di avere trovato una completa razionalità e semplicità nell'universo, questa doveva essere davvero una misera soddisfazione.

Russell attribuì in gran parte a Pitagora la connessione della filosofia con la geometria e la matematica, con la conseguenza che geometria e matematica hanno sempre esercitato da allora un'influenza sulla filosofia e la teologia: un'influenza che Russell considerò «tanto profonda quanto sfortunata» (p. 58). Nella geometria, come la stabilirono Euclide e altri greci, e quale è insegnata ancora oggi, non è che si cominci in un vuoto, pensando che non ci sia niente di vero

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finché non si comincia a dimostrare qualcosa. Ci sono proposizioni che non vengono dimostrate ma sono chiare di per sé (o almeno lo sembrano), chiamate assiomi o postulati. All'inizio ci dev'essere qualche verità evidente di per sé da cui prendere l'avvio. Questa potrebbe sembrare una base un po' vacillante su cui costruire, ma molte generazioni sono riuscite ad accettarla e a procedere su questa via. Cominciando con gli assiomi, il passo seguente era quello di usare il ragionamento deduttivo per pervenire a formulazioni che possono non essere evidenti di per sé, chiamate teoremi. Si suppone che assiomi e teoremi siano verità sullo spazio reale; essi sono qualcosa che potrebbe essere sperimentato. In altri termini, usando proposizioni di per sé evidenti e servendosi del pensiero deduttivo è possibile scoprire cose che sono vere sul mondo reale.

Russell non aveva nulla da obiettare a questa linea di pensiero in geometria. Quel che deplorava era che fosse stata usata in altre aree.

Nella Dichiarazione d'Indipendenza americana si legge, per esempio: «Noi riteniamo che queste verità siano del tutto evidenti» (p. 67), sulla base dell'assunto che ci siano in effetti cose che non hanno niente a che fare con la geometria o con la matematica, le quali sono così chiaramente vere che nessuna persona potrebbe metterle in discussione. L'espressione «evidenti di per sé» (self-evident) fu uno dei cambiamenti introdotti nell'abbozzo della Dichiarazione d'Indipendenza da Benjamin Franklin. Thomas Jefferson aveva scritto: «Noi riteniamo queste verità sacre e innegabili», una versione un po' meno terra-terra della stessa idea. Il punto era che chiunque avrebbe potuto procedere da qui senza mai volgersi indietro.

Ma era davvero possibile?

Russell non stava cercando in realtà di minare Franklin, ma era scontento del fatto che il processo che si usa in geometria fosse stato cooptato non solo da ribelli brillanti, ma da teologi. Tommaso d'Aquino lo aveva usato in argomentazióni a sostegno dell'esistenza di Dio. I suoi argomenti non partivano dal nulla, bensì da «princìpi primi». In effetti l'Aquinate intendeva per «scienza» un corpus di conoscenze che prendeva l'avvio da «princìpi primi» o «dati». Di nuovo, Russell criticò i pitagorici: «La religione individuale è derivata dall'estasi, la teologia dalla matematica; ed entrambe si possono trovare in Pitagora» (p. 67). Il connubio di matematica e teologia aveva contaminato la filosofia religiosa della Grecia e poi quella del Medioevo, e così via fino a Immanuel Kant e oltre.

Nel saggio «How to Read and Understand History», Russell deplorò:

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Nel paradiso filosofico c'era un serpente: Pitagora. Da Pitagora questa visione si trasmise a Platone, da Platone ai teologi cristiani, da loro in una forma nuova a Rousseau e ai romantici, e alle miriadi di spacciatori di assurdità che prosperano dovunque uomini e donne sono stanchi della verità. (5)

Russell identificò alcuni caratteri di quel che vedeva come un miscuglio di religione e di ragionamento, di «aspirazione morale e ammirazione logica di ciò che è atemporale», in Platone, Agostino, Tommaso d'Aquino, Descartes, Spinoza e Kant. Le loro colpe erano state la fede nell'intuizione come via valida alla conoscenza, distinta dai procedimenti intellettuali analitici; la negazione della realtà del tempo e del passare del tempo nel piano supremo delle cose; la fede in un'unità di tutte le cose e una resistenza a una qualsiasi frammentazione della nostra conoscenza del mondo. Secondo Russell, questo «misticismo filosofico» — espressione non usata da Russell ma coniata dal fisico John Barrow - «distingueva la teologia intellettualizzata dell'Europa dal più lineare misticismo dell'Asia». (6) Egli credeva tuttavia che quello che era entrato, attraverso l'orfismo, nel pitagorismo - nel cui fertile suolo aveva attecchito per svilupparsi nella teologia intellettualizzata ma in parte ancora mistica dell'Europa - fosse una forma di misticismo orientale molto più antico.

Russell non fu una voce solitaria. Egli fu uno dei fondatori di una scuola di pensiero chiamata analisi logica, uno sforzo «per eliminare il pitagorismo dai princìpi della matematica», per liberare quest'ultima dal «misticismo» e da «confusioni metafisiche». Russell e coloro che si unirono a lui in questo movimento si rifiutarono di indulgere in quella che vedevano come una «falsificazione della logica per fare apparire mistica la matematica, nella pratica dell'accettare, come intuizioni autentiche della realtà, pregiudizi su ciò che è reale». Russell cercò anche di mettere la logica al servizio di un tentativo di chiarire problemi di filosofia, facendo «dell'analisi logica la principale attività della filosofia», rifiutando la nozione che considerazioni morali possano avere un qualunque posto in filosofia o che la filosofia possa dimostrare o confutare la verità di dottrine religiose. La filosofìa, anche spogliata delle sue «pretese dogmatiche», non cesserebbe nondimeno «di suggerire e ispirare un modo di vita».

Quando Russell e i suoi colleghi riconoscevano che c'erano domande a cui non erano in grado di rispondere, preferivano lasciarle senza risposta piuttosto che

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aggrapparsi a quelle che sentivano come «risposte» folli e svianti, o credere che esistessero fonti «superiori» a cui attingere nelle risposte:

Il perseguimento della verità, quando è profondo e genuino, richiede anche una sorta di umiltà, che ha qualche affinità con la sottomissione alla volontà di Dio. L'universo è quel che è, e non quel che io preferirei che fosse. Nei confronti dei fatti la sottomissione è l'unico atteggiamento razionale, ma nel regno delle idee non c'è nulla a cui sottomettersi. (7)

Leggendo queste parole, non si può evitare la conclusione che Russell fosse, sul problema dell'opposizione fra «scoperta» e «invenzione», molto più ambivalente di quanto non volesse ammettere.

Pur deplorando il modo in cui la matematica era stata «male usa ta» in altre aree, Russell credeva che si dovrebbe applicare in tutte le sfere dell'attività umana quel che secondo lui fa la filosofia: usare l'analisi logica, adottare metodi scientifici e cercare di fondare le proprie conclusioni su osservazioni e inferenze impersonali, disinteressate. Così facendo si sarebbe ottenuto un calo del fanatismo e un aumento della simpatia e della reciproca comprensione. Russell tentò, con scarso successo, di applicare l'analisi logica a campi come la metafisica, l'epistemologia, l'etica e la teoria politica, compiendo (per una curiosa ironia) quello che era probabilmente un salto di fede «pitagorico» consistente nel credere che quella che sembrava una buona idea in un'area dell'esperienza sarebbe stata una buona idea anche nelle altre.

Russell denunciò anche un altro aspetto dell'eredità pitagorica. I pitagorici praticavano un'etica che teneva in grande stima la vita contemplativa e avevano trasmesso al futuro il cosiddetto «ideale contemplativo». Nella favola sulla gente che va ai giochi olimpici, Pitagora e i suoi seguaci appartenevano alla terza categoria di persone: quella di coloro che andavano «semplicemente a vedere». Questi «spettatori» praticavano una scienza non pratica, «disinteressata»: in altri termini erano ben distinti dalla categoria di «coloro che vanno a comprare e a vendere», come pure da quella di «coloro che gareggiano» (pp. 62-63), ed erano quindi in grado di vedere l'intera scena con maggiore obiettività, pensando che il loro ruolo di osservatori indipendenti li collocava in una posizione migliore sulla via della fuga dall'eterno ciclo della trasmigrazione delle anime. Russell contrappose a questa visione un insieme moderno di valori che vede gli atleti sul campo superiori ai semplici spettatori e che ammira i politici, i finanzieri, i

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governanti e i competitori nei giochi al di sopra di coloro che rimangono ai bordi del campo, guardano e fanno sagge osservazioni.

Tuttavia, scrisse Russell, lo status elevato di «signore» che non si sporca le mani è durato nel tempo a cominciare dall'epoca dell'antica Crotone, fu portato avanti con l'idea greca di genio, e poi con i monaci e i dotti ecclesiastici, e infine con la vita accademica universitaria. Russell criticò tutti questi, compresi i «santi e saggi» che, eccezion fatta per pochi attivisti, vivevano del «lavoro degli schiavi», ovvero del «lavoro di uomini la cui inferiorità era fuori discussione».

Sono stati questi «signori», questi spettatori dei giochi, lamentò Russell, ad averci dato la matematica pura, e questo contributo valse loro successo e prestigio in teologia, in etica e in filosofìa perché la matematica pura è considerata in generale un'«attività utile» (p.

64). Russell non menzionò il fatto che lui stesso era uno di quei signori che stava criticando; e lo fu letteralmente, essendo nato in una famiglia della nobiltà britannica, avendo studiato all'Università di Cambridge dov'era diventato un fellow del Trinity College, e avendovi speso la maggior parte della sua vita come accademico e come scrittore. Egli divenne tuttavia certamente anche uno degli attivisti.

Paradossalmente, Russell credeva in modo appassionato in alcuni ideali a cui non avrebbe potuto pervenire se si fosse limitato a un empirismo rigoroso, al pensiero deduttivo e al metodo scientifico. Forse le sue intuizioni su ciò che era giusto e ciò che era sbagliato erano in effetti di per sé evidenti. A giudicare dai suoi scritti, questi ideali conseguirono per lui una priorità più elevata di quella della sua analisi logica. Durante la prima guerra mondiale egli fu un pacifista, e questa posizione impopolare gli costò la sua fellowship a Cambridge e lo fece entrare per un po' di tempo in carcere. Nel 1939, di fronte alla minaccia nazista, rinunciò però al pacifismo. Per tutta la vita si oppose nel modo più esplicito al nazismo, al comunismo sovietico e alla fede in Dio. Condusse un'energica campagna a sostegno del disarmo nucleare e contro la guerra nel Vietnam. In queste cause ebbe una capacità superba di scrivere saggi per comuni lettori che si aprivano spesso con forti toni polemici per concludersi però con argomenti ragionati.

Russell fu un uomo appassionato e influente. Riconobbe l'esistenza negli esseri umani di una direzionalità incorporata che ci dà quanto meno l'impressione di

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esistere da qualche parte su un continuo fra il male e il bene, la bruttezza e la bellezza, l'ingiustizia e la giustizia, la mediocrità e la grandezza, la debolezza e la forza, col secondo polo dell'opposizione di ogni coppia sempre fuori di scala, al di là dell'orizzonte della comprensione o immaginazione umana. Nella sua adesione a una filosofia matematica che sarebbe stata ben presto superata, ma ancor più nelle posizioni che assunse contro le armi nucleari, la guerra e quelli che gli parvero crudeli dogmatismi, Russell, paradossalmente, visse in conformità con questa visione del mondo platonica, forse fondata sul pitagorismo. Per una curiosa ironia, furono le decisioni che prese su questa base a dargli in definitiva una connotazione memorabile.

Il ritratto di Pitagora abbozzato da Arthur Koestler fu molto più positivo. Nato a Budapest nel 1905, Koestler fu scrittore e giornalista, e probabilmente il romanziere politico più letto nel mondo negli anni

Quaranta del Novecento e all'inizio degli anni Cinquanta. I suoi scritti illustrarono il dilemma morale causato dall'avvento del comunismo e dalle due guerre mondiali. Koestler, come Russell, trascorse del tempo in prigione. Mentre prestava servizio come corrispondente estero in Spagna, fu catturato dalle truppe di Franco e condannato a morte. Il governo britannico intervenne in suo favore e Koestler potè tornare a Londra. Invecchiando maturò un crescente interesse per la scienza e la storia delle idee e del sapere. Il suo libro del 1959 The Sleepivalkers (I sonnambuli) fu un capolavoro scritto con uno stile splendido e una capacità contagiosa di trasmettere la sua passione per la scienza, gli scienziati e le idee scientifiche. Fu il primo libro di una trilogia che continuò nel 1964 con The Act of Creation e nel 1967 con The Ghost in the Machine (Il fantasma nella macchina).

Koestler morì nel 1983. Era affetto da leucemia e dal morbo di Parkinson. Lui e sua moglie, entrambi fautori dell'eutanasia volontaria, si tolsero la vita insieme.

Negli Sleepwalkers, Koestler scrisse di Pitagora: «La sua influenza sulle idee, e quindi sul destino, del genere umano fu probabilmente maggiore di quella di qualunque altro singolo individuo prima o dopo di lui». Koestler caratterizzò il VI secolo a.C. come «una svolta per la specie umana», un «secolo miracoloso». Fu anche il secolo del Buddha, di Confucio e di Lao-tzu e, nel mondo greco, di Talete e di Anassimandro. Tuttavia era, in un certo senso, come un'orchestra che si stava accordando, ogni suonatore assorbito nel suo strumento, sordo ai miagolii degli altri. Poi subentra un silenzio drammatico, entra in scena il direttore d'orchestra, dà tre colpi secchi e lievi con la bacchetta, e dal caos emerge l'armonia. Il direttore d'orchestra è Pitagora di Samo.

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Per Koestler il potere della visione di Pitagora proveniva dal suo carattere «onnicomprensivo, unificante; esso unisce religione e scienza, matematica e musica, medicina e cosmologia, corpo, mente e spirito in una sintesi ispirata e luminosa». «Il miracolo cosmico e il piacere estetico non sono più separati dall'esercizio della ragione», e anche le intuizioni della religione erano state unite al tutto nel concetto di una ricerca scientifico-filosofica di Dio. Il fervore religioso era stato incanalato nel fervore intellettuale, «l'estasi religiosa nell'estasi della scoperta». Koestler concluse che, benché non si possa sapere quali precise scoperte assegnare a una determinata persona o a una certa data,

è chiaro che «i caratteri fondamentali furono concepiti da una singola mente», cosa che fa di Pitagora il fondatore di «una nuova filosofia religiosa e della scienza, nel senso in cui questo termine è inteso oggi». Di fatto la stessa trasmigrazione delle anime non era una nuova filosofia religiosa, e Koestler diede una lunga descrizione della religione orfica. Quanto alla fondazione della scienza, la scoperta dei rapporti dell'armonia musicale fu, scrisse Koestler, la «prima riduzione riuscita della qualità alla quantità, il primo passo verso la matematizzazione dell'esperienza umana».

Secondo Koestler, la riduzione dell'esperienza a una camicia di forza di numeri suscita giustamente diffidenze nel mondo moderno, ma per i pitagorici non diminuiva o impoveriva nulla. Al contrario, essa arricchiva tutto. Poiché i numeri erano sacri ai pitagorici, la riduzione a numeri non significava una perdita di «colore, calore, senso e valore». Il connubio della musica con i numeri nobilitava la musica. Koestler poteva aver ragione, ma si potrebbe anche ragionevolmente credere che i pitagorici non pensarono che i numeri fossero sacri finché non fecero la scoperta della loro connessione con la musica. Forse solo dopo quell'esperienza i numeri potrebbero avere assunto per loro quelle qualità meravigliose, immortali, che Koestler descrisse estaticamente, e potrebbero essere stati considerati un collegamento fra gli uomini e la mente divina. Koestler avrebbe forse apprezzato ugualmente entrambe le interpretazioni.

Koestler individuò come contributo importante dei pitagorici anche l'idea che «la scienza disinteressata conduce alla purificazione dell'anima e alla sua suprema liberazione», e scrisse sull'enorme importanza storica di quest'idea. «L'uso della scienza per la contemplazione dell'eterno entrò, attraverso Platone e Aristotele, nello spirito del cristianesimo e divenne un fattore decisivo nella costruzione del mondo occidentale.» In effetti esso tenne viva nel Medioevo la fiammella di

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qualcosa che assomigliava alla scienza, e fece salutare con enorme interesse ed entusiasmo ai dotti ecclesiastici la riscoperta del sapere dell'antichità. Per Keplero la ricerca scientifica e la ricerca per la conoscenza di Dio erano la stessa ricerca.

Quanto alla segretezza, Koestler scrisse che «persino un uomo privo della genialità di Pitagora avrebbe potuto rendersi conto che la scienza può diventare un inno al creatore o un vaso di Pandora, e che dovrebbe essere affidata solo a santi».

Koestler rivestì in modo seducente i resti scheletrici di Pitagora con gli ornamenti di un'intuizione creativa e di una bella prosa, e creò una leggenda per il XX secolo. Ricordando però la piccola co

Arthur Koestler munità antica, impigliata in molti modi nel pensiero del suo tempo, e capace - eccezion fatta per la grande scoperta della razionalità nei rapporti dell'armonia musicale - di fare solo deboli tentativi per collegare i numeri alla natura, al cosmo e alla creazione, e credente in un'unità di tutto l'essere che non c'era alcuna possibilità di dimostrare, si è costretti a concludere che Koestler stava guardando attraverso le lenti dei propri ideali. La sua interpretazione ci fornisce però una lettura meravigliosa. Egli fu veramente il maestro della splendida esaltazione (overstatement) che suona bella e convincente al punto di farci desiderare che sia corretta. La sua è un'«ode a Pitagora», o una variazione orchestrale su un breve «tema di Pitagora» appena abbozzato, ma riflette meglio di qualsiasi altra esposizione esistente quel senso di deferenza con cui il mondo moderno - pur conoscendo ben poco Pitagora — pronuncia il suo nome. Il racconto di Koestler non è del tutto la verità su Pitagora, ed è anche più della verità. In ogni caso, è la verità di Koestler.

Al termine del capitolo di Koestler su Pitagora, ci sono due affermazioni dalle quali nemmeno gli studiosi più scettici potrebbero dissentire. La prima è che il «pitagorismo» ha 1'«elasticità» di tutti i sistemi di idee veramente grandi, il «potere di autorigenerazione di un cristallo in accrescimento o di un organismo vivente». La seconda è che i pitagorici furono probabilmente i primi a credere che i segreti dell'universo potessero celarsi in relazioni matematiche. Il mondo, concluse Koestler, «sente ancora la benedizione e la maledizione di quest'eredità». Con la parola «maledizione» egli intende che l'età moderna dovrebbe giustamente diffidare della riduzione dell'esperienza a una camicia di forza di numeri. La convinzione pitagorica che i numeri contengano i segreti dell'universo ci ha mirabilmente trasportati ai confini del tempo e dello spazio, ma il nostro «asservimento ipnotico agli aspetti numerici della realtà ha offuscato la nostra

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percezione dei valori morali, non quantitativi; l'etica che ne risulta, racchiusa nel motto "il fine giustifica i mezzi", potrebbe essere un fattore importante della nostra rovina».

19 I LABIRINTI DELLA SEMPLICITÀ

Il XX e XXI secolo

Il «metodo scientifico» qual è insegnato nelle lezioni di scienze e praticato dagli scienziati di tutto il mondo non è molto antico rispetto alle durate di tempo coperte in questo libro. Esso emerse nel Seicento. Non fu stabilito da alcun comitato, nemmeno da uno così augusto come la Royal Society di Londra o l'Acadèmie des Sciences di Parigi. «Emerse» è la parola corretta. Nelle loro fatiche quotidiane, Tycho Brahe, Galileo e Keplero non conoscevano alcun «metodo scientifico». Essi cercavano di stabilire per tentativi, usando senso comune e genialità, in che modo avrebbe operato la scienza dal loro tempo in poi. Non era però ancora stato assegnato un nome al loro procedimento per separare sistematicamente quel che è vero da quel che non lo è, né lo si era ancora analizzato esattamente. Poca se non nessuna considerazione veniva concessa al fatto che quel procedimento si fondava su articoli di fede non dimostrati che non sono nemmeno evidenti: princìpi che erano molto più antichi e già così ben integrati nella visione del mondo europea che nessuno pensava di poterne mettere in discussione la validità. Bertrand Russell potè dolersi che l'uso di costruire su alcune verità senza metterle in discussione fosse invalso anche in ambiti diversi dalla geometria, ma relativamente alla scienza era nel vero G.K. Chesterton quando scrisse: «Puoi trovare la verità con la logica solo se l'hai già trovata senza di essa». (1)

Per chi osservi dal punto di vista del XX o del XXI secolo, col senno di poi e con la conoscenza di ciò che è accaduto dal Seicento ai giorni nostri, è più facile riconoscere quale ruolo essenziale l'eredità pitagorica abbia svolto nel fornire questo punto d'appoggio fondamentale per il metodo scientifico e come sia riuscita a dar piena prova di sé in esso. La convinzione che l'universo sia razionale, la fede in un ordine e un'armonia sottostanti, la convinzione che si possa accedere alla verità attraverso i numeri, e l'assunto che ci sia un'unità

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nell'universo sono diventati i pilastri su cui si fonda oggi la scienza. Nel XX secolo varie sfide sono state lanciate contro questo elenco, da ricerca tori e dalla natura stessa, ma lo scienziato che la mattina si alza e va a lavorare lo fa supponendo in gran parte che questi articoli di fede siano veri. Una fede essenzialmente pitagorica rimane altrettanto strumentale nel fare avanzare la scienza quanto l'insistenza aristotelica sull'osservazione e sull'esperimento. In effetti, se l'universo non è razionale e ordinato, se i numeri non sono una guida attendibile, se nell'universo non c'è unità, allora osservazione ed esperimento sono miopi e futili e c'è ben poca possibilità di fare scienza. È allora inevitabile la conclusione: o i pitagorici, nel VI secolo a.C., scoprirono brillantemente e profeticamente verità che non sono venute meno dopo duemilacinquecemto anni... o per tutti questi secoli la loro convincente filosofia è riuscita a ingannarci in modo così efficace che noi non riusciamo a riconoscere o a costruire prove capaci di svelare la loro visione del mondo come un miraggio... O ancora (terza possibilità), quando Arthur Koestler scrisse di un sistema di idee col «potere di autorigenerazione di un cristallo in accrescimento o di un organismo vivente», rivestì con un bel linguaggio un gruppo di idee di per sé evidenti, erroneamente ricondotte a un culto antico.

Non sono stati solo antichi assunti alla base della moderna scienza d'avanguardia a fare del Novecento un secolo pitagorico. Ci sono state anche scoperte che hanno causato una crisi della fede nel potere dei numeri e nella razionalità dell'universo.

Una delle storie più spettacolose e di maggior successo della fede nei numeri e nella matematica come guide in una ricerca scientifica verso l'ignoto fu la scoperta dei buchi neri. Il fisico Stephen Hawking commentò: «Non conosco alcun altro esempio nella scienza in cui un'estrapolazione tanto grande sia stata fatta solo sulla base del pensiero». (2) Qui il «pensiero» è il pensiero matematico. Alla metà degli anni Sessanta i fisici avevano scoperto soluzioni delle equazioni di Albert Einstein che rendevano difficile non concludere che nell'universo devono esserci dei buchi neri, anche se non esisteva alcuna prova d'osservazione a loro sostegno. Alla metà degli anni Ottanta aumentò di molto la fiducia nell'esistenza dei buchi neri, e si conoscevano già vari candidati ma non c'era ancora alcuna prova certa. Solo nell'ultimo decennio del Novecento si trovarono prove d'osservazione convincenti dell'esistenza di vari buchi neri e solide ragioni per credere che dovessero essercene molti di più. Le prove erano tuttavia ancora indirette, indiziarie. La scoperta di un buco nero presupponeva un'ingegnosa collaborazione fra teoria, matematica e astronomia d'osservazione. Oggi ben

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pochi rifiutano l'esistenza dei buchi neri, e non è difficile valutare i vecchi e i nuovi candidati.

Il pubblico dei profani, pur essendo interessato a scoperte come quella di un buco nero e pur essendo molto desideroso di leggere informazioni su Stephen Hawking, non era stato del tutto convinto dalla forza del pensiero matematico degli scienziati e nemmeno dalle conferenze di viaggio nei territori incogniti della fisica teorica che questi esperti forniscono alle persone non in grado di seguire le equazioni. Nel 1988 la prima moglie di Hawking, Jane Wilde, disse a un intervistatore: «C'è un aspetto del suo pensiero che io trovo sempre più sconvolgente e col quale mi riesce difficile convivere. È la sensazione che, essendo ogni cosa ridotta a una formula razionale, matematica, quella debba essere la verità». (3) Si potrebbe immaginare che la moglie di Pitagora potesse dire qualcosa di simile. Jane Wilde non fu l'unica ad avere difficoltà a condividere la fede nella matematica che guida il pensiero dei fisici teorici. Arthur Koestler deplorò «il nostro ipnotico asservimento agli aspetti numerici della realtà».

Autori come me che spiegano la scienza per lettori non esperti vengono spesso avvicinati da persone intelligenti che hanno letto scritti su argomenti come le dimensioni extra della teoria fisica: a volte più dimensioni a volte meno, ma quasi mai le sole tre dimensioni dello spazio, a cui si aggiunge quella del tempo che sperimentano gli esseri umani. Queste persone dicono: «Posso immaginare facilmente le cose come le presenta lei, le dimensioni extra arrotolate in una sorta di piccoli tubi flessibili, ma in che modo tutto questo si collega con la realtà? Si tratta solo di una realtà matematica?» Quel «solo» tradisce un sospetto che matematici e fisici, immersi nel loro universo pitagorico, avrebbero difficoltà a spiegare. Nel VI secolo a.C. nessuno poteva vedere dieci corpi celesti, ma nel XXI secolo d.C. non solo nessuno può vedere le dimensioni extra, ma neppure può immaginarle. Hawking ha ammesso che chiunque pensi che si possano immaginare le dimensioni extra o ha fatto un grande balzo in avanti nelle capacità mentali o è in errore. Ciò non ha però impedito ai fisici teorici di seguire con tenacia le vie delle equazioni in cui tali cose hanno un senso.

Gli scienziati non sono gli unici ad avere adottato una visione pitagorica dei numeri come i veicoli più efficienti sulla via verso la verità e verso il progresso. La fede pitagorica nella matematica si presenta con grande evidenza in quasi tutti i convegni in cui si tratti dei piani di studio scolastici. Benché nessuno proponga di richiamare in vita il quadrivio, gli educatori sembrano aver deciso che un

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bambino in grado di parlare, leggere e fare calcoli possegga le chiavi essenziali di ogni forma di conoscenza, e molti sosterrebbero che la ter za capacità, quella di «fare calcoli», sia potenzialmente quella di gran lunga più importante. Frattanto si è manifestata una tendenza a lasciare da parte la musica.

Quando Hawking scrisse, verso la fine del XX secolo, delle sue speranze che lui e altri potessero trovare la «teoria di tutto» (Theory of Everything) in grado di unificare tutta la fisica, una grande teoria unificata delle forze comprendente anche la gravità, e portò tale ricerca all'attenzione del pubblico nella Brief History of Time (Dal Big Bang ai buchi neri), stava esprimendo un altro tema pitagorico. Molti fisici speravano, anzi in effetti si attendevano, che una conoscenza completa dell'universo lo rendesse, in definitiva, unificato, armonico e semplice. Questa speranza non si fondava solo sul desiderio. Ascoltiamo, per esempio, in che modo il fisico Richard Feynman ne tracciò la storia.

Ci fu un tempo, scrisse Feynman, in cui avevamo una cosa chiamata moto, e un'altra chiamata calore, e un'altra ancora chiamata suono.

Ma dopo che Sir Isaac Newton ebbe spiegato le leggi del moto, si scopri ben presto che alcuni di questi fenomeni in apparenza diversi erano in realtà aspetti della stessa cosa. Per esempio, il suono poteva essere completamente spiegato come il moto degli atomi dell'aria, sicché non venne più considerato come qualcosa di diverso dal moto. Poi si scoprì che anche i fenomeni del calore sono facilmente comprensibili sulla base delle leggi del moto, e fu così che intere sezioni della fisica vennero unificate in una teoria più semplice. (4)

All'inizio del XX secolo la fisica sembrava in procinto di organizzarsi in un'unità profondamente pitagorica. Einstein unificò lo spazio e il tempo e spiegò la gravità in un modo che il fisico John Archibald Wheeler potè racchiudere in una breve frase: «Lo spazio-tempo controlla la massa, dicendole come muoversi; la massa controlla lo spazio-tempo, dicendogli come incurvarsi». (5) La teoria della relatività ristretta di Einstein ha potuto essere compendiata in un'equazione riprodotta su una t-shirt: E =mc1. Il matematico russo Aleksandr Fridman predisse che, in qualsiasi luogo dell'universo potessimo trovarci, vedremmo le altre galassie allontanarsi da noi come le vediamo allontanarsi dalla Terra, e una migliore comprensione dell'espansione dell'universo ha mostrato che egli aveva

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senza dubbio ragione, anche se nessuno ha potuto finora sperimentare la sua predizione. L'universo

è omogeneo, proprio come aveva pensato Nicola Cusano nel Quattrocento.

Due delle forze della natura che sappiamo essere alla base di tutto ciò che accade nell'universo — la forza elettromagnetica (che è già un'unificazione di due forze) e la forza nucleare forte - furono combinate all'inizio degli anni Ottanta del Novecento nella «teoria elettrodebole». Erano in corso anche ricerche le quali promettevano di mostrare che - se potessimo osservare i primissimi tempi del nostro universo - risulterebbe ovvio per noi che tutt'e quattro le forze fondamentali dovevano essere in origine unificate e che la natura doveva essere composta da simmetrie che risultano ben nascoste nella nostra epoca della storia dell'universo. James Watson e Francis Crick, utilizzando anche i risultati ottenuti da loro colleghi, scoprirono la semplice configurazione della struttura del DNA, la doppia elica. Coloro che sostenevano che l'ottocentesca teoria darwiniana dell'evoluzione non era una minaccia per la fede religiosa stavano sottolineando la difficoltà di immaginare un sostegno più eloquente per la convinzione che dietro l'universo ci fosse una razionalità brillante e unificata (e, aggiungerebbero alcuni, spietata). John Archibald Wheeler scrisse una poesia essenzialmente pitagorica:

Dietro tutto ciò c'è di sicuro un'idea così semplice, così bella, così avvincente, che quando — fra dieci o cento anni o fra mille — la comprenderemo, ci diremo tutti l'un l'altro: come avrebbe potuto essere diversamente?

Come abbiamo potuto essere così stupidi per così tanto tempo?

Non tutto fu, però, una storia di genuino successo per la visione pitagorica di un'«unità di tutto l'essere». Einstein, fermo credente nell'unità della natura, spese trent'anni a tentare di costruire una teoria che spiegasse l'elettromagnetismo in termini di spazio-tempo, come aveva spiegato la gravità. Il suo tentativo non ebbe mai successo, e molti fisici additarono fra le cause del suo fallimento il suo ostinato rifiuto di ammettere nella spiegazione la meccanica quantistica. Ma negli anni Ottanta stava acquistando sostenitori una nuova teoria, chiamata teoria delle stringhe o corde - che vedeva le particelle elementari nella forma di piccole stringhe o anelli di stringhe e che certamente non aveva alcuna difficoltà ad accettare la meccanica quantistica. Essa alimentò la speranza di realizzare quel che non era riuscito ad Einstein: far rientrare nel gregge la più riottosa delle quattro forze (quando si trattava di unificazione): la gravità. Nel corso del primo

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decennio del XXI secolo, però, i fisici presero a spazientirsi sempre più verso la teoria delle corde. Essa non era riuscita a produrre nemmeno una predizione che potesse essere sottoposta a verifica al fine di mostrare se la teoria fosse o no corretta. Aristotele sarebbe stato più felice per questo sviluppo che non Pitagora o Platone, non perché volesse fare a pezzi le teorie, ma perché i fisici matematici del XXI secolo sono chiaramente attenti al rapporto col mondo sensibile come condizione per raggiungere una qualche verità sull'universo. Ma anche se la teoria delle stringhe cominciava a sembrare meno promettente di quanto non fosse stata in passato, nessuno metteva davvero in discussione l'essenziale unità dell'universo.

Una tale fede è difficile da perdere, specialmente quando non ci sono prove le quali dimostrino con certezza che è sbagliata. Negli ultimi cento anni, però, le convinzioni pitagoriche hanno subito duri colpi matematici e scientifici. L'uomo sembra condannato a scoprire sempre nuovi indizi del fatto che l'universo non è, dopo tutto, così razionale, almeno in relazione ai migliori criteri correnti di razionalità. Le scoperte più recenti hanno sfidato e stimolato gli scienziati a scavare più in profondità, alla ricerca di un livello di realtà in cui i princìpi pitagorici possano ancora valere. Una delle massime manifestazioni di simmetria, armonia, unità e razionalità nell'universo è il fatto che, sebbene mutamenti drastici occorrano nel corso del tempo da una situazione a un'altra, e le cose possano apparire drammaticamente diverse in parti diverse dell'universo - operando a volte in modi che possono sembrare addirittura contraddittori -, non sembrano cambiare le leggi che determinano in quale modo il cambiamento si produca. Può darsi che questa sia una prova convincente del fatto che il nostro assunto pitagorico di unità sia corretto, ma non si può nemmeno escludere che proprio il nostro assunto ci induca in errore. Noi possiamo rispondere solo riferendoci all'esperienza del passato.

La ricerca di una legge più fondamentale comincia spesso con la scoperta che qualcosa che era parso fondamentale e immutabile non riconferma la sua validità in determinate circostanze. Quando ciò accade, l'assunto pitagorico dell'unità e della simmetria vacilla e costringe tutti a concludere che quello che sembrava un fondamento solido come roccia, in realtà non lo era affatto. Era semplicemente un'approssimazione. I ricercatori tornano a lavorare sodo e a esplorare per scoprire una legge più profonda che non cambi.

Ci sono stati molti esempi di questo processo di scoperta. Le leggi di gravità di Newton sono valide tranne quando la velocità di un oggetto si avvicina a quella della luce o quando la gravità diventa estremamente grande, come in prossimità di

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un buco nero. Diversamente dalle leggi di Newton, la descrizione più recente e fondamentale della gravità fatta da Einstein in termini di spazio-tempo non perde validità in queste circostanze estreme. Ma anche la descrizione di Einstein presenta problemi che sfidano l'assunto dell'unità e dell'armonia. Essa predice che all'origine dell'universo e al centro di buchi neri ci siano singolarità, ossia punti a densità infinita. In una singolarità tutte le leggi della fisica vengono meno. Diventa così indispensabile la ricerca di un insieme di leggi più fondamentale, sulla base dell'assunto pitagorico che al fondamento di roccia assoluto ci sono leggi che non vengono violate in alcuna situazione. Le leggi immutabili sottostanti, quali che siano, e le massime approssimazioni ad esse che sono state trovate, permettono ovviamente che accada una grande varietà di eventi, come pure il verificarsi di una grande varietà di comportamenti e di esperienze. Quanto ci siamo allontanati dai primi pitagorici, quando essi applicavano in gran fretta e superficialmente questa fede nei numeri! A quale insondabile profondità, oltre la loro immaginazione, deve trovarsi la vera connessione! E forse anche oltre la nostra.

La prima sfida all'assunto pitagorico di razionalità nell'universo nel XX secolo fu il paradosso di Russell, la scoperta di Bertrand Russell di cui ci siamo occupati nel capitolo 18. La scoperta avvenne molto presto, proprio all'inizio del secolo, nel 1901. Un'altra di queste sfide, nel 1931, fu il «teorema di incompletezza» del matematico moravo Kurt Godel. Godel era allora un giovane che lavorava a Vienna; in seguito avrebbe raggiunto Einstein all'Institute for Advanced Study a Princeton. La scoperta di Godel fu che, in qualsiasi sistema matematico abbastanza complesso da includere la somma e la moltiplicazione di numeri interi - che non è certo un territorio di frontiera, se è vero che ogni bambino delle elementari ha dimestichezza con queste operazioni — ci sono proposizioni sulla cui verità non abbiamo il minimo dubbio ma che non possiamo dimostrare o confutare matematicamente all'interno del sistema. Ciò significa che tutti i sistemi matematici significanti sono aperti e incompleti. La verità va al di là della capacità di dimostrare che è vera. Godel mostrò anche che non si può dimostrare se un sistema abbastanza ricco da includere la somma e la moltiplicazione di numeri interi sia autoconsistente.

Queste scoperte costituirono un grave ribaltamento di speranze per alcuni e un grave scardinamento di assunti per altri. Il grande matematico David Hilbert e i suoi colleghi erano riusciti a dimostrare in precedenza che sistemi logici meno complessi dell'aritmetica erano consistenti, e sembrava certo che sarebbero stati in grado di proseguire e dimostrare lo stesso per l'intera aritmetica. Ma non fu così.

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Con Godel l'aerea scala pitagorica, fatta di numeri, che saliva verso una conoscenza sicura, divenne qualcosa di più simile a una scala irreale in un disegno di Escher, e non sorprende che il libro più famoso su Godel sia Godel, Escher e Bach di Douglas R. Hofstadter. Il Bach del titolo è ovviamente Johann Sebastian Bach. Bertrand Russell fu uno fra coloro che vennero scossi di più dai teoremi di Godel, specialmente perché fraintese il matematico moravo e pensò che avesse dimostrato che l'aritmetica fosse non incompleta bensì inconsistente.

Godel aveva invece dimostrato che all'interno di un sistema logico come quello dell'aritmetica si possono formulare proposizioni che sono indecidibili o indimostrabili in riferimento agli assiomi del sistema stesso. David Hilbert non si lasciò scoraggiare come Russell: fino alla sua morte, avvenuta nel 1943, si rifiutò di riconoscere che Godel avesse liquidato definitivamente tutte le sue speranze. L'influenza delle scoperte di Godel fu profonda, e tuttavia, a un certo livello, non ebbe conseguenze importanti. Come scrisse John Barrow nel 1992: «La dimostrazione di incompletezza data da Godel [...] ha gettato un'ombra ambigua sull'intera costruzione della matematica, ma senza mai arrivare a comportare la benché minima differenza ai fini di qualunque applicazione pratica». (6)

Benché le scoperte di Godel possano avere minato qualche forma di fede nella matematica, in un modo che parve assomigliare alla scoperta dell'incommensurabilità da parte dei pitagorici, egli ebbe in effetti una visione pitagorica della matematica. Godel credette che la verità matematica fosse qualcosa che esistesse di fatto indipendentemente da ogni invenzione della mente umana, e che i suoi teoremi fossero quindi «scoperte» di una verità oggettiva, e non creazioni personali.

Questa, negli anni Trenta non era un'idea tanto popolare; molti matematici fecero sentire il proprio dissenso. In effetti il concetto di qualcosa che esiste in un senso oggettivo — in attesa di essere scoperto, senza alcuna influenza diretta da parte del ricercatore - è stato messo in discussione da uno sviluppo in fisica. Una crisi molto più dram matica e di più vasta portata di quella causata dal teorema di incompletezza di Godel, si era verificata negli anni Venti e stava avendo un grande effetto sul modo in cui gli scienziati e altri vedevano il mondo. Era la scoperta del principio di indeterminazione della meccanica quantistica.

Il modo in cui funzionano causa ed effetto era parso per molto tempo una buona prova del fatto che l'universo è razionale. Se causa ed effetto operano come operano a livelli che gli esseri umani possono percepire, non si vedeva perché non dovessero farlo con uguale affidabilità in regioni dell'universo o a livelli

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dell'universo che è molto più difficile - o addirittura impossibile — osservare direttamente.

Causa ed effetto potrebbero essere usati come guida per stabilire che cosa accadde agli inizi dell'universo e quali condizioni potrebbero verificarsi nel lontano futuro. Nessuno pensava che il credere nel principio di causa ed effetto fosse in generale un atto di fede, anche se non c'era alcuna prova del fatto che causa ed effetto non avrebbero smesso di operare fra un'ora o due, o in qualsiasi altra parte dell'universo.

Poi, negli anni Venti, si verificarono eventi che costrinsero i fisici a riconsiderare l'assunto che ogni evento abbia una storia ininterrotta di causa ed effetto che conduca fino ad esso.

Il livello quantistico dell'universo è il livello dell'infinitamente piccolo: molecole, atomi e particelle elementari. A questo livello una descrizione fondata sul senso comune non funziona più. Qui ci sono eventi non causati, accadimenti privi di una storia del tipo che normalmente si suppone ogni evento debba avere. Gli atomi non sono sistemi solari in miniatura. Non si può osservare la posizione di un elettrone in orbita intorno a un nucleo e predire dove si troverà in un dato momento successivo e quale traiettoria percorrerà per pervenirvi, o dire dove si trovava un'ora fa, come si potrebbe fare per esempio con sufficiente precisione per il pianeta Marte nel sistema solare.

Un elettrone non ha mai una posizione e una quantità di moto ben determinate nello stesso tempo. Se misuri con precisione la posizione di una particella, non potrai misurarne esattamente nello stesso tempo la quantità di moto. È vero anche l'inverso. È come se le due misurazioni — della velocità e della quantità di moto — si trovassero ai due estremi di un'altalena. Quanto più esattamente ne specifichi l'una, tanto più imprecisa e indeterminata diventa l'altra. È il principio di indeterminazione della fisica quantistica: l'«incommensurabilità» del XX secolo. Esso fu formulato per la prima volta da Werner Heisenberg nel 1927. Non soltanto minò la fede in un universo razionale, ma parve minare anche la nozione che la verità fos se qualcosa di oggettivo, qualcosa in attesa di essere scoperto. Al livello quantistico, le misurazioni incidono sul risultato che si ottiene.

D'altro canto, l'esistenza dell'indeterminazione quantistica era evidentemente un aspetto di una verità oggettiva molto sgradito in attesa di essere scoperto, che nessun fisico poteva cambiare, per quanto lo volesse, quali che fossero i metodi d'osservazione usati. Einstein, in particolare, si ribellò alla nozione che nessun progresso futuro nella scienza e nessun miglioramento negli strumenti di

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misurazione avrebbe mai potuto superare questa indeterminazione. Fino alla sua morte tentò di escogitare esperimenti mentali per venirne a capo.

Non ebbe mai successo, neppure indirettamente in forma postuma quando altri trovarono modi di compiere esperimenti escogitati da lui. «Dio non gioca a dadi!» (*) scrisse una volta Einstein a Niels Bohr, che diversamente da lui era prontissimo ad accettare l'indeterminazione quantistica. Bohr gli rispose: «Albert, non dire a Dio che cosa può fare e che cosa non può fare!» La controversia fra Bohr e Einstein su come interpretare il livello quantistico dell'universo continuò e divenne famosa.

È facile simpatizzare con Einstein. Il mondo quantistico e i paradossi in esso impliciti non sembravano opera di una mente razionale.

Einstein potrebbe avere riformulato nella metafora dei dadi la lagnanza espressa da Keplero quando si trovò di fronte a un problema

* Einstein precisò in modo molto chiaro in una lettera a Max Born il senso di questa metafora: «La meccanica quantistica è degna di ogni rispetto, ma una voce interiore mi dice che non è ancora la soluzione giusta. È una teoria che ci dice molte cose, ma non ci fa penetrare più a fondo il segreto del gran Vecchio. In ogni caso, sono convinto che questi non gioca a dadi col mondo». Einstein a Born, 4 dicembre 1926, in Albert Einstein, Albert Einstein - Hedwig e Max Born: Scienza e vita. Lettere 1915-1955, trad. it. di Giuseppe Scattone, Einaudi, Torino 1973, pp. 108-109. Il giudizio di Einstein su Dio (il Dio della fisica) era che «Sottile è il Signore, ma non malizioso» (cit. da Abraham Pais, «Sottile è il Signore...», La scienza e la vita di Albert Einstein, trad. it. di L. Belloni e T. Cannillo, Bollati Boringhieri, Torino 1991, p. 127). Stephen Hawking rispose ironicamente che «Einstein sbagliò quando disse: "Dio non gioca a dadi". La considerazione dei buchi neri suggerisce infatti non solo che Dio gioca a dadi, ma che a volte ci confonde gettandoli dove non li si può vedere». Cit. da Stephen Hawking e Roger Penrose, La natura dello spazio e del tempo, trad. it. di L. Sosio, Sansoni (R.C.S. Libri & Grandi Opere), Milano 1996, p. 36. Vedi anche Come leggere Stephen Hawking, a cura di Stephen Hawking, realizzato da Gene Stone, trad. it. di T. Dobner, Rizzoli, Milano 1992, p. 126. (N.d.T.)

simile: «Finora non abbiamo mai trovato nelle altre sue opere una concezione così poco geometrica!» Com'era possibile che qualcosa che accadeva a una particella potesse influire su un'altra particella separata nel tempo e nello spazio senza che esistesse un qualche legame fra loro? Come poteva un gatto essere morto e vivo nello stesso tempo, come nel famoso esempio del «gatto di

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Schròdinger»? Come poteva qualcosa essere ora un'onda ora una particella, a seconda della situazione sperimentale? Era un mondo Attraverso lo specchio, e ancora lo è, nonostante la rassicurazione che, se ci si accontenta di probabilità, è possibile predire eventi al livello quantistico dell'universo.

Sembra quasi che la scala della conoscenza dell'universo possa avere un piano stabile al livello quantistico, con probabilità che formano una sorta di sovrastruttura sopra le sabbie mobili. Non tutto è perduto per la scalata pitagorica.

L'albeggiante consapevolezza di un nuovo aspetto dell'universo, nelle teorie del caos e della complessità sviluppate in seguito nel corso del XX secolo, fu una crisi nemmeno lontanamente paragonabile a quella dell'indeterminazione quantistica. Essa sembrava tuttavia accennare al fatto che la scienza era andata scoprendo un sistema prevedibile, ordinato, dopo l'altro, solo perché era impossibile, o almeno terribilmente scoraggiante, tentare di studiare qualsiasi altro tipo di sistema in un modo significante. I sistemi prevedibili, relativamente facili da studiare, risultarono essere l'eccezione più che la regola.

Ma per le persone che avevano una forma mentis pitagorica furono le scoperte di configurazioni regolari che si ripetevano nel caos - le immagini ricorrenti negli insiemi di Mandelbrot e di Julia, e anche nella natura stessa - a dar l'impressione di sostenere gloriosamente, come mai prima d'allora, l'antica convinzione che bellezza e armonia sono nascoste dappertutto nell'universo e non hanno niente a che fare con nessuna invenzione umana. Meno direttamente inverosimile, ma non meno impressionante, fu la percezione, nello studio del caos e della complessità che possano essere all'opera misteriosi princìpi di organizzazione. C'erano delle probabilità - anche se minime secondo certi calcoli - che nel corso del tempo l'universo si organizzasse in galassie, stelle e pianeti; che la vita sulla Terra si organizzasse in ecosistemi e in società animali e umane. Eppure proprio questo è ciò che è accaduto. Così, com'era già accaduto nel caso delle altre sfide agli assunti pitagorici a fondamento della scienza, quando gli scienziati cominciarono ad acquisire un certo controllo sul caos e sulla complessità, le teorie che si occupavano di questi argomenti divennero non minacce ma nuove grandi vie di ricerca per una migliore comprensione della natura e dell'universo.

Il pensiero «postmoderno» del XXI secolo, combinato con sospetti sollevati dalla scoperta dell'indeterminazione quantistica e dalla nostra incapacità di esaminare il mondo quantistico senza influire su di esso, condusse a nuovi dubbi su altri pilastri pitagorici della scienza. Esiste davvero una realtà oggettiva? C'è qualcosa di reale in attesa di essere scoperto? Il fatto che la scienza continui a

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scoprire cose che hanno un senso, e che sospetti o respinga tutto ciò che non ne ha, significa che noi stiamo scoprendo sempre nuovi aspetti su un universo razionale... o solo che stiamo semplicemente selezionando le informazioni e scoperte che meglio corrispondono alle nostre attese pitagoriche?

L'assunto della razionalità è alla base delle moderne argomentazioni sul «disegno intelligente». È vero che il disegno del mondo, come lo scoprirono i pitagorici, è intelligente in misura tale da fare inginocchiare davanti al mistero lo scopritore di una nuova manifestazione: ma da farlo inginocchiare davanti a che cosa, o a chi? La scoperta della razionalità significa necessariamente che si sia riusciti a sbirciare nella mente di Dio? D'altro canto, un grande scienziato deve reprimere la forte impressione che la scoperta della razionalità della natura esercita su di lui? Coloro che attaccano la fede in Dio lo fanno da varie direzioni. Un'argomentazione è oggi piuttosto antiquata, ma la si ode ancora. Tutto è progettato con tanta perfezione, in un progetto così compatto e ordinato, che non c'è spazio perché Dio possa intervenire in ogni punto. Il tutto funziona con la stessa precisione di un meccanismo a orologeria. Ma c'è anche un argomento più moderno: tutto accade, ed è sempre accaduto, del tutto per caso. L'impressione che la natura abbia un fondamento razionale è un'illusione. Il «principio antropico» ci dice che se le cose non fossero accadute esattamente come sono accadute, noi potremmo non essere qui a osservarle, e questa è l'unica ragione per cui troviamo un universo che si concilia con la nostra esistenza. Oppure... la nostra intera immagine dell'universo è stata creata da noi, nell'immagine autocentrica della nostra mente, e noi stiamo scoprendo qualcosa di non molto diverso dai dieci corpi celesti dei pitagorici. Platone avrebbe trovato gusto nelle discussioni della fine del XX secolo sul problema se la razionalità matematica potrebbe essere abbastanza potente da creare l'universo senza alcun bisogno di Dio. La teoria quantistica ha reso possibile il suggerimento che il «nulla» potrebbe essere stato instabile in modo tale da rendere statisticamente probabile che il «nulla» decadesse in «qualcosa».

Princìpi e problemi pitagorici si manifestarono nella cultura del XX secolo anche in un altro modo. I tre drammi della trilogia di Peter Shaffer The Royal Hunt of the Sun, Equus e Amadeus furono altrettante profonde esplorazioni del tema della razionalità e della irrazionalità e rifletterono il tipo di amore e odio che l'umanità aveva per entrambe: esiste una Mente dietro l'universo? Quella Mente è sana o folle? Tennesse Williams etichettò la cosiddetta «razionalità» di Dio come la razionalità di un delinquente senile. In musica le composizioni dodecafoniche furono le composizioni matematicamente più controllate mai scritte, ma questa

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forma di musica fu anche una chiara dimostrazione della correttezza dell'intuizione pitagorica che certe combinazioni - e solo certe combinazioni — hanno una connessione profonda con ciò che l'orecchio umano riconosce come armonioso e bello. In Sesame Street i numeri si animarono e cantarono in un modo che avrebbe probabilmente deliziato i pitagorici - sempre che non lo trovassero irriverente - ma probabilmente avrebbe irritato Aristotele.

La musica delle sfere rimase una metafora popolare, ma nella seconda metà del Novecento andò oltre le sfere. (7) Come ha scritto Richard Kerr, «l'idea di un'armonia celeste sta tornando oggi fra gli astronomi. Invece di ascoltare le rivoluzioni delle sfere, gli astronomi moderni stanno sintonizzandosi sulle vibrazioni all'interno delle stelle». (8)

Nel 1962 un team di astronomi che studiavano il Sole scoprirono che onde sonore che si propagavano all'interno del Sole ne emergevano causando bolle sulla sua superficie, la fotosfera. (9) Essi descrissero quel fenomeno come una «sinfonia solare», simile al «vibrare di un gong», o al suono emesso da «una grande canna d'organo sferica», o al «suono di un campanello», poiché il Sole ha milioni di suoni armonici diversi La nostra non è ovviamente l'unica stella che vibra in questo modo. La stella gigante Xi Hydrae (l'Hya) è uno «strumento sub-ultrabasso», con oscillazioni di varie ore. (10)

Nel libro Einstein's Unfinished Symphony. Listening to the Sounds of Space-time, Marcia Bartusiak descrisse la possibilità di scoprire un buco nero «attraverso la melodia del "canto" delle sue onde gravitazionali». (11) I buchi neri si sono in effetti ora aggiunti al coro celeste.

Quando della materia cade in un buco nero di grandissima massa, produce un getto di particelle ad altissima energia, che fuggono dal buco nero a una velocità vicina a quella della luce. Questo getto solca il gas che circonda il buco nero, creando una bolla magnetizzata di particelle ad alta energia. Un'intensa onda acustica precede la bolla in espansione. (12) Il satellite della NASA Chandra, così chiamato in onore di Subrahmanyan Chandrasekhar - il primo scienziato a rendersi conto che, date le teorie di Einstein, i buchi neri erano inevitabili -, ha trovato prove di onde acustiche come questa intorno a due buchi neri di massa grandissima. Uno di essi, al centro dell'ammasso galattico di Perseo, suona la nota più bassa finora scoperta nell'universo, un si bemolle cinquantasette ottave sotto il do centrale. (13)

Mark Whittle, dell'Università della Virginia, ha prodotto una registrazione di «Sounds from the Infant Universe» (Suoni dal baby universo) che riproduce lo

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spettro delle energie della radiazione cosmica di fondo - la radiazione che ci perviene ancora dagli inizi dell'universo - come un suono udibile, che copre il primo milione di anni nel cosmo in 10 secondi. (14) Per rendere le onde acustiche udibili all'orecchio umano, Whittle dovette spostarle verso l'alto di circa 50 ottave. La registrazione comincia in silenzio, come l'universo, perché finché il baby universo rimase simmetrico non ci furono onde acustiche. Infine emersero onde acustiche di tono sempre più grave. L'espansione dell'universo distese le onde acustiche, determinando un calo sempre più pronunciato del tono. Le variazioni maggiori compaiono nel «volume del concerto rock». (15)

Fu fatta la predizione che le onde acustiche della radiazione cosmica di fondo sarebbero state rivelate nella forma di un'«increspatura» nella distribuzione delle galassie nell'universo. Nel convegno del gennaio 2005 dell'American Astronomical Society fu dato l'annuncio che questa prova era stata effettivamente trovata. (16) Coloro che la annunciarono, la paragonarono alla scoperta «delle note superstiti di una sinfonia cosmica»: un compito difficile quanto quello di cercare di udire «l'ultimo suono di una campanella» che diventa «sempre più debole e più basso man mano che l'universo si espande». (17) Non si può fare a meno di pensare che Keplero sarebbe stato molto interessato a progetti come questi.

Kent Cullers, che lavora al SETI, la Ricerca di Esseri Intelligenti Extraterrestri, e su cui Cari Sagan ha costruito uno dei personaggi del suo romanzo Contact e del film omonimo, è cieco e sostiene che questo è per lui un vantaggio quando ascolta segnali provenenti dagli spazi siderali. «Quando sento segnali provenienti da regioni lontane, la mia mente si spinge fin là. Cerco di cavalcare quelle onde, di estendere i miei sensi fino a regioni in cui non sono mai stato, di udire suoni provenienti da una nube di gas.» (18) Negli anni Settanta, fu fatta la proposta di irradiare come messaggi nello spazio, verso eventuali civiltà aliene, il teorema di Pitagora, o «triplette pitagoriche» di numeri che formano triangoli rettangoli, nella speranza che esseri intelligenti in altri sistemi stellari, ricevendo tali segnali, possano rendersi conto che sulla Terra ci sono forme di vita intelligenti.

Questi segnali sono simili a quelli che Cullers spera di ricevere dallo spazio profondo: una prova di quanto sia veramente primordiale questa conoscenza.

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Epilogo

MUSICA O SILENZIO

Una generazione dopo l'altra, uomini e donne hanno riconosciuto la verità essenziale dell'antica intuizione che dietro la varietà e confusione della natura si celano razionalità e ordine. L'immagine dello stesso Pitagora è andata modificandosi e deformandosi, ma nonostante tutti i secoli trascorsi e tutti i cambiamenti di paradigma, questa visione pitagorica non si è mai estinta né è mai stata dimenticata, ed è quasi sempre stata amata. Pitagora e i suoi primi seguaci non erano neppure in grado di cominciare a concepire quale immenso paesaggio si aprisse dinanzi alla porta da loro dischiusa. Da guizzi di indeterminazione inimmaginabilmente piccoli alle innumerevoli galassie, a dimensioni multiple, e forse fino a un'infinità di altri universi. Eppure numeri e relazioni numeriche sembrano aver guidato il cammino in questo labirinto dell'universo fisico con un'efficacia quale lo stesso Pitagora non avrebbe mai osato sperare.

Se la civiltà quale la conosciamo fosse spazzata via e ne rimanesse un solo residuo da cui riprendere il cammino, qualcuno potrebbe rifare la stessa scoperta? Decifrare lo stesso codice? Senza dubbio sì.

Non è forse la verità fondamentale? Oppure..., forse no. Forse i pitagorici hanno avuto una falsa intuizione, e noi abbiamo vissuto soltanto un sogno. Forse il mondo non è in realtà mai andato al di là di un «illimitato» informe, e noi stiamo solo immaginando quella regolarità matematica, o la creiamo noi stessi. L'anima umana non ha trovato molto facile operare con i numeri... Eppure noi siamo gli «esseri razionali» sulla Terra, riflettendo presumibilmente la razionalità dell'universo. Come può essere che incontriamo tutta questa difficoltà?

Non lo sappiamo ancora. Forse la maggior parte di noi è troppo inebriata dalla musica di Pitagora per soffrire una crisi di fede.

Noi inviamo i nostri deboli bip in regioni lontanissime dello spazio, con la certezza che, se vi sono esseri intelligenti, per quanto «diversi» da noi sotto certi aspetti, non possono non avere scoperto quel che abbiamo scoperto anche noi... e che i nostri modesti se gnali di razionalità risulteranno loro familiari. Nonostante i

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misteri non ancora risolti — e la possibilità che rimangano insoluti per sempre -, il nostro ideale pitagorico dell'unità e dell'affinità ci dice che saranno risolti.

Pitagora... ci sei?

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APPENDICE

Ecco la dimostrazione che Jacob Bronowski pensava potesse essere stata usata da Pitagora. (1)

Cominciamo con un triangolo rettangolo.

Creiamo un quadrato usando quattro triangoli identici al precedente, ma ruotato, in modo tale che le punte guida dei triangoli indichino i quattro punti cardinali (nord, sud, est e ovest) e che l'ipotenusa di ogni triangolo vada a terminare sulla punta guida del triangolo contiguo:

Quello che abbiamo ora è un quadrato fondato sul lato più lungo del triangolo originario: il «quadrato sull'ipotenusa». La sua area dev'essere uguale alla somma dei quadrati costruiti sugli altri due lati, se il teorema di Pitagora è corretto. Mentre procediamo, dobbiamo ri cordare che, comunque ridisponiamo queste cinque forme, la loro area totale rimane la stessa. Ridisponiamole dunque in modo da ricostruire la forma seguente. Mettiamo al centro del disegno un rettangolo alto e stretto nel modo illustrato nella figura. Dei due lati di questo rettangolo, il lato maggiore è uguale al cateto maggiore del triangolo rettangolo originario. Otteniamo così, a sinistra, il quadrato costruito sul cateto maggiore, e a destra il quadrato costruito sul cateto minore. In questo modo, senza usare numeri, abbiamo dimostrato il teorema di Pitagora.

NOTE

1. «Il chiomato di Samo» 1 L'opera di Giamblico Vita pythagorica è disponibile nella traduzione inglese di Thomas Taylor: Jamblichus Life of Pythagoras, Inner Traditions International, Rochester, Vermont, 1986. Quest'opera e le biografie di Pitagora scritte da Porfirio e da Diogene Laerzio sono disponibili in traduzione inglese di Kenneth Sylvan Guthrie, The Pythagorean Sourcebook and Library: An Anthology of Ancient Writings Which Relate to Pythagoras and

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Pythagorean Philosophy, Phanes Press, Grand Rapids 1987. L'antologia di Guthrie contiene anche alcune opere pseudopitagoriche. [In italiano sono disponibili Giamblico, La vita pitagorica, introduzione, traduzione e note di Maurizio Giangiulio, Testo greco a fronte, Rizzoli, Milano 2001; la biografia Pitagora di Diogene Laerzio, in Id., Vite dei filosofi, a cura di M. Gigante, 2 tomi, Editori Laterza, Roma-Bari 1976; Porfirio, Vita di Pitagora, trad. it. di A.R. Sodano, Rusconi, Milano 1998; nonché i testi su Pitagora e altri pitagorici in Diels, Hermann, e Walter Kranz, I Presocratici. Testimonianze e frammenti, 2 tomi, Laterza, Roma-Bari 1981, e nell'antologia I Pitagorici, a cura di A. Maddalena, Filosofi antichi e medievali, Laterza, Roma-Bari 1954. (N.d. T'.)]

2 Jacob Bronowski, The Ascent of Man, Little Brown, Boston 1973, p. 156 (trad. it. di F. Saba Sardi, L'ascesa dell'uomo, Fratelli Fabbri, Milano 1976).

3 Cit. in Richard Buxton (a cura di), From Myth to Reason: Studies in The Development of Greek Thought, Oxford University Press, Oxford 1999, p. 74.

4 Kurt A. Raaflaub, «Poets, Lawgivers, and the Beginnings of Political Reflection in Archaic Greece», in Christopher Rowe e Malcolm Schofield (a cura di), The Cambridge History of Greek and Roman Political Thought, Cambridge University Press, Cambridge 2000, p. 51.

5 Platone, Teeteto, 7Aa (trad. it. di M. Valgimigli, in Id., Opere complete, vol. II, Laterza, Roma-Bari 1971, p. 132), cit. da Thomas L. Heath, Greek Astronomy, J.M. Dent and Sons, London 1932, p. 1, e da Arthur Koestler, The Sleewalkers: A History of Man's Changing Vision of the Universe, Hutchinson, London 1959, p. 22.

6 La storia di Talete e del fiume Halys si trova in Erodoto, Storie, 1. 75, 3-5. E riprodotta in Jonathan Barnes, Early Greek Philosophy, Penguin, London 1987, p. 10 (e in I Presocratici. Testimonianze e frammenti, cit., II, 6, p. 87).

7 Ian Shaw, Ancient Egypt: A Very Short Introduction, Oxford University Press, Oxford 2004, p. 12.

8 La vita di Pitagora scritta da Porfirio è riprodotta in K.S. Guthrie, p. 124.

2. «Regole molto difficili, del tutto diverse da quelle delle istituzioni dei greci» 1 Per informazioni su ciò che Pitagora potrebbe avere imparato in Egitto, mi sono

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fondata su David P. Silverman (a cura di), Ancient Egypt, Oxford University Press, New York 1997.

2 Per informazioni su Babilonia in questo periodo ho attinto a H.W.F. Saggs, Everyday Life in Babylonia and Assyria, Assyrian International News Agency 1965, e a Joan Oates, Babylon, Thames &

Hudson, London 1979. Le congetture storiche sull'epoca della cattura di Pitagora in Egitto e del suo trasporto in Mesopotamia si fondano su Saggs, p. 25. Le moderne conoscenze storiche sulla città di Babilonia nel periodo di Pitagora provengono da una varietà di fonti: la tradizione biblica e greca, le iscrizioni sui palazzi di Nabucodònosor, i documenti commerciali, legali e amministrativi, e lo scavo della città: altrettante informazioni che si compongono a dare un quadro abbastanza chiaro della vita nella capitale babilonese sotto Nabucodònosor II, anche se ci sono molti particolari che non conosciamo e potremmo non conoscere mai.

3. «Un uomo di immenso sapere» 1 Gli oggetti esposti nel Museo Archeologico di Crotone suggeriscono l'aspetto della città antica.

2 Le informazioni sull'Acaia provengono da N.G.L. Hammond,

A History of Greece to 322 B. C., Oxford University Press, Oxford 1986, pp. 13 e 118.

3 Porfirio, The Life of Pythgoras, in Guthrie, The Pythagorean Sourcebook and Library, cit., 1987, p. 135.

4 Atti degli Apostoli, 17: 21.

5 Bertrand Russell, Storia della filosofia occidentale, trad. it. di L.

Pavolini, 4 tomi, Longanesi & C., Milano 1966, t. I, pp. 62-63. Le citazioni da Diogene Laerzio sono tratte da Id., Pitagora, lib. VIII, cap. 1, 8-9, in Vite dei filosofi, a cura di M. Gigante, 2 tomi, Laterza, Roma-Bari 1976, t. II, pp. 323 (N.d.T.)

6 Kurt Raaflaub, «Poets, Lawgivers, and the Beginnings of Political Reflection in Archaic Greece», in Christopher Rowe e Malcolm Schofield (a cura di), The Cambridge History of Greek and Roman Political Thought, Cambridge University Press, Cambridge 2000, p. 57.

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William Keith Chambers Guthrie, The Earliest Presocratics and the Pythagoreans, vol. I di A History of Greek Philosophy, Cambridge University Press, Cambridge 2003, pp. 176-177. Guthrie si riferisce allo storico C.T. Seltman.

8 Cit. in ibid.

4. «La mia vera razza è celeste» 1 Questa rassegna di credenze greche sull'immortalità e sul modo in cui la dottrina pitagorica si colloca in questo contesto si fonda sulla discussione contenuta in W.K.C. Guthrie, The Earliest Presocratics and the Pythagoreans, vol. I di An History of Greek Philosophy, Cambridge University Press, Cambridge 1962], a cominciare da p.

196, e su W.K.C. Guthrie, The Greeks and Their Gods, Cambridge University Press, Cambridge 1951.

2 Vedi Bertrand Russell, Storia della filosofia occidentale, trad. it. cit., pp. 58-68.

3 Così i versi di Omero, nel XVII canto dell'Iliade, nella versione di Vincenzo Monti. L'autrice usa invece, nel testo originale, la traduzione inglese di Alexander Pope. (N.d. T.)

4 La storia fu raccontata da Diogene Laerzio (VIII, 4-5) e anche da Diodoro Siculo, Bibliotheke, X, cit. in Jonathan Barnes, p. 34.

5 Vedi W.K.C. Guthrie (2003), cit., pp. 201-202.

6 Cit. in ibid., p. 199.

7 Ibid.

8 Ibid.

9 Eudemo, Fisica, frammento citato in Simplicio, Commento alla Fisica, 732 23-33, cit. in J. Barnes, cit., p. 35.

10 Vedi Barnes, pp. 167-168.

11 Le citazioni sono tratte da Aulio Gellio, Notti attiche, trad. it. e note di L. Rusca, testo latino a fronte, Classici greci e latini, Biblioteca Universale Rizzoli, 2

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tomi, Milano 2007, pp. 371, 373 (lib. IV, xi, 4-5, 9-10). Le Notti attiche sono un'opera in 20 libri, un compendio di conoscenze miscellanee.

12 Per il suggerimento che le storie miracolose intendessero screditare Pitagora, si può vedere W.K.C. Guthrie (2003), cit., p. 194.

[La storia di Pitagora e Salmoside è riferita in Erodoto, Le storie, IV, 95-96.]

5. «Tutte le cose che si conoscono hanno numero» 1 Walter Burkert, Lore and Science in Ancient Pythagoreanism, Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1972, p. 111.

2 W.K.C. Guthrie (2003), cit., p. 178.

6. «La famosa figura di Pitagora» 1 Jacob Bronowski, The Ascent of Man, Little, Brown, Boston 1973, p. 156.

2 Dall'articolo «Surveying» ne11'Encyclopaedia Britannica online, 3 marzo 2007 http://www.britannica.com/eb/article-51763, p. 2.

3 Ho attinto quest'informazione da una conversazione con John Barrow e dal suo libro Pi in the Sky (La Luna nel pozzo cosmico, trad, it. di T. Cannillo, Adelphi, Milano 1994, pp. 133-139). L'informazione sulle donne indiane e sui loro dipinti sul gradino davanti alla loro casa proviene dalla mia esperienza personale a Kothapallimitta, nell'India meridionale, nel 2000, e da un mio tentativo di ripeterla personalmente.

4 W.K.C. Guthrie (2003), cit., p. 187.

5 Tranne quando si danno informazioni diverse nelle note, ed eccezion fatta per qualche notizia su Tell Harmal, le informazioni contenute in questi paragrafi sulla matematica babilonese provengono primariamente da Eleanor Robson, «Three Old Babylonian Methods for Dealing with "Pythagorean" Triangles», in Journal of Cuneiform Studies, 49 (1997), pp. 51-72.

6 Robson, Eleanor, «Mesopotamian Mathematics: Some Historical Background», in Victor J. Katz (a cura di), Using History to Teach Mathematics:

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An International Perspective, Cambridge University Press, Cambridge 2000, p. 154.

7 La tavoletta Plimpton 322 fa oggi parte della collezione della Columbia University, a New York.

8 Vedi Taha Baqir, «An Important Mathematical Problem Text from Tell Harmal», in Sumer, 6 (1950), pp. 39-55. Taha Baqir fu curatore dell'Iraq Museum.

9 Diagramma e ricostruzione del testo sono tratti da Robson, «Three Old Babilonian Methods», p. 57.

10 Vedi, per esempio, Ross King, Brunelleschi's Dome: How a Renaissance Genius Reinvented Architecture, Penguin, London 2000.

11 John Noble Wilford, «Early Astronomical Computer Found to Be Technically Complex», in New York Times, 30 novembre 2006.

12 Per una discussione in proposito, vedi Robson, «Mesopotamian Mathematics», cit., pp. 154, 155. La citazione è da Eleanor Robson, «Influence, Ignorance, or Indifference? Rethinking the Relationship Between Babylonian and Greek Mathematics, in The British Society for the History of Mathematics», in The British Society for the History of Mathematics, Bulletin 4 (primavera 2005), pp. 2, 3.

13 Ibid., p. 14.

14 Ibid., p. 10.

15 Vedi la discussione ibid., pp. 2-3.

16 Charles H. Kahn, Pythagoras and the Pythagoreans: A Brief History, Hackett, Indianapolis 2001, p. 134.

17 Lucio Vitruvio Pollione, De architectura libri dece, a cura di Cesare Cesariano, Como 1521, lib. IX, cap. 2. Il testo latino di Vitruvio è riprodotto col titolo Vitruvius. Ten Books of Architecture, Cambridge University Press, Cambridge 2001. [L'edizione latina teubneriana del 1899 a cura di Valentin Rose si trova anche online-. http://www.ukans.edu/history/index/europe/ancient_rome/E/Roman/Texts/Vitruvius/home.html. E online, nella Biblioteca delle fonti storico-artistiche Signum, Scuola Normale Superiore di Pisa, si trova anche il Vitruvio De Architectura di Cesare Cesariano. Vedi anche la nota 14 del capitolo 11. (N.d.T.)]

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18 Bronowski, op. cit., p. 160.

7. Un libro del pitagorico Filolao 1 Per la discussione degli acusmatici e dei matematici e del problema di quale delle due fazioni fosse più fedele agli insegnamenti di Pitagora mi sono fondata su Burkert, Lore and Science, e in particolare sulla sezione «Acusmatici and Mathematici».

2 Sono sopravvissuti i nomi di alcuni «matematici». Uno fu Archita di Taranto, che menzionò fra i suoi predecessori Eurito, della stessa città. Questo è lo stesso Eurito che troviamo associato a Filolao nel dialogo platonico Fedone. Eurito e Filolao ebbero allievi i cui nomi furono elencati da Aristosseno. Essi provennero da Calcidica in Tracia e da Fliunte.

3 Ho seguito per lo più Burkert nella valutazione dell'autenticità dei frammenti di Filolao; mi sono fondata anche su W.K.C. Guthrie, The Earliest Presocratics, cit., nella discussione del libro di Filolao, e ancora su Guthrie e su Jonathan Barnes, Early Greek Philosophy, Penguin, London 1987, per le traduzioni e le citazioni.

4 Plutarco, De facie in orbe Lunae, DKr, 28 B 15 (Plutarco, 929

A). [Vedi anche Plutarco, Il volto della Luna, trad. it. e note di L.

Lehnus, Adelphi, Milano 1991. Nella citazione le parole in tondo sono di Plutarco, quelle in corsivo sono un verso di Parmenide.

(N.d.T.)]

5 Plutarco, Vita di Pericle, in Vite parallele, trad. it. di C. Carena, vol. II, A. Mondadori, Milano 1968, p. 224.

6 Aristotele, Metafisica, trad. it. di A. Russo, I, 5, 986^ 1-11, in Id., Opere, vol. VI, Universale Laterza, Roma-Bari 1973, p. 21.

7 Vedi W.K.C. Guthrie, The Earliest Presocratics, p. 248, per il germe di quest'idea.

8 Guthrie, ivi, p. 260, scrisse che Filolao era «l'autore preferito di Aristotele». La citazione è ibid., pp. 307-308.

9 Platone, Fedone, 86b 3-c 1, in Id., Opere complete, vol. I, Universale Laterza, Roma-Bari 1977, p. 145.

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10 Vedi W.K.C. Guthrie, op. cit., p. 233 per gli argomenti contrapposti concernenti le date di Alcmeone. La citazione è da p. 313.

11 Platone, Fedone, 88a/2-10, in Id., Opere complete, cit., I, p. 149.

12 Stromateis, III, 17, in DKr, 44 B 14.

13 Platone, Fedone, 81 a 10-b 6 in Id., Opere complete, cit., I, p. 138.

8. Platone alla ricerca di Pitagora 1 Informazioni sulle visite di Platone nella Magna Grecia e a Siracusa si possono trovare in molte fonti. Io ho usato W.K.C. Guthrie, The Earliest Presocratics, cit., e Malcolm Schofield, «Plato and Practical Politics», in Christopher Rowe e Malcolm Schofield (a cura di), The Cambridge History of Greek and Roman Political Thought, Cambridge University Press, Cambridge 2000.

2 La discussione dell'opera di Archita si fonda su Charles H.

Kahn, Pythagoras and the Pythagoreans: A Brief History, Hackett, Indianapolis 2001, pp. 40 sgg. Ho tratto da questo libro la maggior parte delle citazioni di Archita.

3 Walter Burkert, Lore and Science in Ancient Pythagoreanism, Harvard University Press, Cambridge, Mass. 1972, p. 68.

4 Studiosi moderni come Kahn hanno istituito una distinzione che stacca un po' Archita dai pitagorici più antichi mantenendolo però ancora nel solco della tradizione. Kahn descrive la teoria armonica di Archita come «un'opera di geniale originalità [...]. Archita lavora nella tradizione musicale che è rappresentata per noi dall'anteriore teoria di Filolao» (pp. 32-43).

5 Il brano è tratto da Eudemo (menzionato anche da Aristotele), cit. in Kahn, cit., p. 43. [DKr, 47 A 24. {N.d. T.)]

6 Questa discussione di Archita si trova in Guthrie, op. cit., p.

227. [Vedi anche DKr, 47 B 1. (N.d.T.)]

7 Politica, 1340b 26; vedi anche DKr, 47 A 10. (N.d.T.)

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8 Per questa discussione e il problema di quale corrente fosse più fedele agli insegnamenti originari di Pitagora, mi sono fondata su Burkert, e specialmente sulla sezione del suo libro intitolata «Acusmatici and Mathematici».

9 L'originale è Aristofonte, frammento 12; per la citazione vedi Burkert, op. cit., p. 199. Burkert non era sicuro che la parola greca usata si riferisse effettivamente ai pitagorici.

10 Le citazioni sono tratte dal musicista Stratonico e da Sosicrate, in Burkert, op. cit., p. 202.

9. «Questa rivelazione ce l'hanno tramandata gli antichi...» 1 Charles H. Kahn, Pythagoras and the Pythagoreans, cit., pp. 50 sgg., è particolarmente utile nell'interpretare il pensiero di Platone in riferimento ai pitagorici, e mette in particolare evidenza questi due temi.

2 Le citazioni dal Timeo sono tratte dalla trad. it. di C. Giarratano, in Opere complete, vol. VI, Universale Laterza, Roma-Bari 1978.

Qui la citazione è in IIa 5, p. 373. (N.d'. T)

3 Platone, Filebo, 16c-d, in Id., Opere complete, vol. III, Universale Laterza, Roma-Bari 1977, p. 81. (N.d. T.)

4 Platone, Gorgia, 501e-508b, in Id., Opere complete, vol. V, Universale Laterza, Roma-Bari 1975, p. 229. (N.d.T.)

5 Platone, La Repubblica, 530d, trad. it. di F. Sartori, in Id., Opere complete, vol. VI, Universale Laterza, Roma-Bari 1978, pp. 254.

(N.d. T.)

6 Platone, Timeo, 21à-28a, 28c-29a.

10. Da Aristotele a Euclide 1 W.K.C. Guthrie, The Earliest Presocratics and the Pythagoreans, cit., p. 331. Ho seguito Guthrie nella sua discussione delle reazioni di Aristotele ai pitagorici. Quando non è altrimenti indicato, le citazioni da Aristotele sono tratte da Guthrie. [La presente citazione: Aristotele, Metafisica, 987a 29-30.]

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2 Burkert, Lore and Science in Ancient Pythagoreanism, cit., pp.

28, 29, elenca gli autori nelle cui opere appaiono frammenti di Aristotele.

3 Le parole fra virgolette non sono una citazione da Aristotele, bensì una parafrasi di Aristotele fatta da Burkert, op. cit., p. 31.

[Cfr. anche Aristotele, Metafisica, 987b 29 sgg.]

4 In generale oggi non si accetta più l'affermazione di Burkert, op. cit., p. 32, che, «come tutti i presocratici, i pitagorici considerassero tutto l'esistente nello stesso modo, come qualcosa di materiale».

Quest'affermazione non si applica correttamente neppure agli altri presocratici.

5 Burkert, op. cit., pp. 45-46.

6 Guthrie, op. cit., p. 259.

7 La citazione è tratta dalla discussione di queste diverse possibilità da parte di Burkert, op. cit., p. 431, ma egli non si dichiara a favore di questa scelta.

8 Per questa discussione ho attinto a Guthrie, op. cit., pp. 266 sgg., e a Burkert, op. cit., pp. 68 sgg.

9 Ibid., p. 226 n.

10 Il brano è citato da Aezio e ripreso da Diels, che non poten 361 do però accettare l'attribuzione a Pitagora dell'identificazione dei cinque elementi con i cinque solidi regolari, corregge l'attribuzione e colloca il frammento nel capitolo 44 (44 A 15), dedicato a Filolao. (N.d. T.)

11 Sesto Empirico, Contro i matematici, lib. III, 19, 701 13-15.

(N.d. T.)

12 Ho attinto parte delle informazioni storiche su quest'epoca da Greg Woolf (a cura di), Cambridge Illustrated History of the Roman World, Cambridge University Press, Cambridge 2003; e da Paul Cartledge (a cura di), Cambridge Illustrated History of the Ancient Greece, Cambridge University Press, Cambridge 1998.

13 Specificamente nel libro VII degli Elementi.

14 Uno studioso olandese, Bartel Leendert van der Waerden, sostenne che c'erano scritti anteriori ad Archita e molto anteriori a Euclide che trattavano questi

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stessi argomenti. Kahn definisce «eccessive» alcune sue tesi anteriori (Kahn, Pythagoras and the Pythagoreans, cit., p. 4 In.). Alcune proposizioni nel libro II degli Elementi hanno — come già il teorema di Pitagora - anticipazioni molto antiche presso i babilonesi, delle quali Euclide non era probabilmente a conoscenza (Eleanor Robson, «Influence, Ignorance, or Indifference?, cit., p. 4).

15 Per informazioni e una discussione dell'argomento vedi Burkert, op. cit., p. 432.

16 Questa citazione è tratta da Giamblico (Jamblichus of Chalcis), On Common Mathematical Knowledge, 91, 3-11, in I. Mueller, «Mathematics and Philosophy in Proclus's Commentary on Book I of Euclid's Elements», in J. Pépin e H.D. Saffrey (a cura di), Proclus, Lecteur et Interprete des Anciens, CNRS, Paris 1987, cit. in S. Cuomo, Ancient Mathematics, Routledge, London 2001, pp. 236-237.

11. Il Pitagora romano 1 La citazione dalla Repubblica di Cicerone è tratta da Lo Stato, come anche viene tradotto in italiano il titolo De re publica, trad, it. di L. Ferrero, in Opere politiche e filosofiche di M. Tullio Cicerone, vol. I, Lo Stato, Le leggi, I doveri, a cura di Leonardo Ferrero e Nevio Zorzetti, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 1974, rist.

1992, pp. 253-254 {Lo Stato, lib. II, 20, 15, 28-29).

2 Cit. in Kahn, Pythagoras and the Pythagoreans, cit., pp. 89-90.

3 Plinio, Naturalis historia, XXXIV, 26. Questa storia è ripetuta in Kahn, Pythagoras and the Pythagoreans, cit., p. 86.

4 Dalle Memorie pitagoriche, brano citato in Diogene Laerzio, Pitagora, VIII, 33, in Id., Vite dei filosofi, cit., pp. 330-331.

5 Cit. in Simon Hornblower e Antony Spawfort (a cura di), The Oxford Companion to Classical Civilization, Oxford University Press, Oxford 1998, p. 245. [Plinio il Vecchio, Naturalis historia, Praefatio, 13. (N.d.T.)]

6 Thomas Wiedemann, «Reflections of Roman Political Thought in Latin Historical Writing», in Christopher Rowe e Malcolm Schofield (a cura di), The

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Cambridge History of Greek and Roman Political Thought, Cambridge University Press, Cambridge 2000, pp. 526-527.

7 Sesto Empirico, cit. in Kahn, op. cit., p. 84. [Vedi anche Sesto Empirico, Contro i matematici, a cura di Antonio Russo, Laterza, Bari 1972, lib. IV, pp. 173 sgg. (N.d.T.)}

8 Elizabeth Rawson, Intellectual Life in the Late Roman Republic, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1985, p. 310.

9 Cicerone, Timeo, «Introduzione».

10 Kahn, op. cit., p. 88.

11 Contro Vatinio, VI, 14.

12 Cicerone, De divinatione, lib. I, xxx, 62.

13 Cicerone, Somnium Scipionis, in Id., Lo Stato, VI, 19, in Opere politiche e filosofiche, vol., I, cit., p. 399.

14 Il disegno di Cesariano per Vitruvio si trova in: ccat.sas.upenn.edu/george/vitruvius/html. Il testo di Vitruvio è riprodotto col titolo Vitruvius. Ten Books of Architecture, Cambridge University Press, Cambridge 2001. L'edizione latina teubneriana del 1899 a cura di Valentin Rose si trova anche online: http://www.ukans.edu/history/index/europe/ancient_rome/E/Roman/Texts/Vitruvius/home.html.). [La prima traduzione italiana: Cesare Cesariano, Di Lucio Vitruvio Pollione De Architectura libri dece traducti de latino in vulgare ajfigurati, commentati, et con mirando ordine insigniti, è stata pubblicata a Como: per magistro Gotardo da Ponte citadino milanese, 1521. Un'edizione in facsimile - De architectura, translato, commentato et affigurato da Caesare Caesariano, a cura di Arnaldo Bruschi, Adriano Carugo e Francesco Paolo Fiore - è stata pubblicata nel 1981 dal Polifilo, Milano. La Scuola Normale Superiore di Pisa ha ripubblicato nel 2002 nella Biblioteca delle fonti storico-artistiche Signum la traduzione di Cesare Cesariano, Di Lucio Vitruvio Pollione De Architectura libri dece..., traendola dal manoscritto 2.1.141 della

Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. L'edizione della Scuola Normale si trova anche online. Nelle citazioni ho usato la traduzione in vulgare di Cesariano: qui lib. IX, cap. 2. (N.d. T.)]

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15 Le informazioni sul re Giuba sono attinte da una nota in Kahn, op. cit., p. 90, derivante da E. Zeller, Die Philosophie der Griechen in ihrer geschichtichen Entwicklung, I-III, Reisland, Leipzig 1880-1892, p. 97.

16 Lettera di Liside a Ipparco, cit. in Diogene Laerzio, VIII, 42.

[Una traduzione italiana della lettera si trova in Opere di Nicola Copernico, a cura di Francesco Barone, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 1979, pp. 221-222. Copernico aveva tradotto questa lettera dal greco al latino per usarla dopo il capitolo II a conclusione del I libro, ma la eliminò prima della stampa dopo avere aggiunto altri tre capitoli. La sua traduzione latina venne però ripresa nell'edizione a cura di Franz e Karl Zeller (pp. 30-31) e in altre edizioni. {NAT.)]

17 Burkert data la lettera al III secolo a.C., mentre A. Staedele la data al I. Kahn, op. cit., a p. 75 menziona la contemporaneità come un suggerimento di Burkert, citando Walter Burkert, «Hellenistische Pseudopythagorica», in Philologus, 105, 1961.

18 Dall'introduzione al testo di Ocello, in Kenneth Sylvan Guthrie, The Pythagorean Sourcebook and Library, cit., p. 203.

19 Filone, De aeternitate mundi, p. 5, 2, in DKr, 48, 3, e in I Pitagorici, 48: 3, pp. 233-234. (N.d. T.)

20 Vedi Bruno Centrane, «Platonism and Pythagoreanism in the Early Empire», in Christopher Rowe e Malcolm Schofield (a cura di), Cambridge History of Greek and Roman Politicai Thought, Cambridge University Press, Cambridge 2000. Le parole di Centrane (a p. 568): «Troviamo qui un linguaggio artificiale che riproduce solo i caratteri più comuni del dorico».

21 Kahn, op. cit., p. 76.

12. Con occhi neopitagorici e tolemaici 1 In riferimento a filosofi e culti neopitagorici mi sono fondata su Kahn, Pythagoras and the Pythagoreans, cit., e su Centro ne, «Platonism and Pythagoreanism in the Early Empire», cit.

2 The Golden Verses of Pythagoras, di Fabre d'Olivet (1917), in sacred-texts.com.

3 Lucio Anneo Seneca, Lettere a Lucilio (108, 17-21), introduzio ne di Luca Canali, trad. it. di G. Monti, Rizzoli, Milano 1966, p.

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421. (N.d. T.)

4 Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana, cit. in Robin Lane Fox, Pagans and Christians in the Mediterranean World from the Second Century A.D. to the Conversion of Constantine, Penguin Books, London 1986, p. 245.

5 Filostrato, in Fox, op. cit., p. 248.

6 Eudoro, citato o parafrasato in Ario Didimo, cit. in Kahn, op. cit., p. 96.

7 Le informazioni sulla comunità ebraica alessandrina sono tratte da Greg Woolf (a cura di), Cambridge Illustrated History of the Roman World, Cambridge University Press, Cambridge 2003, p. 277.

8 Cit. in Kahn, op. cit., p. 101.

9 Centrone, op. cit., p. 561 n.

10 Filone di Alessandria, De opificio mundi, cit. in Kahn, p. 100 n.

11 Le due descrizioni derivano da Harry Austryn Wolfson e da Valentin Nikiprowetsky, come riferisce Centrone, p. 561.

12 Centrone, op. cit., p. 561.

13 Citato al numero 41 nel Catalogo di Lampriade, un elenco di opere di Plutarco che fu probabilmente compilato nel IV secolo d.C.

14 Così riferì Porfirio le idee di Moderato: Kahn, op. cit., p. 105.

15 Dalla citazione e/o parafrasi di Porfirio; vedi Kahn, op. cit., p. 106.

16 Teone di Smirne, Mathematics Useful for Understanding Plato, brani scelti riprodotti come Appendice 1 in K.S. Guthrie, The Pythagorean Sourcebook and Library, cit.

17 W.K.C. Guthrie, The Earliest Presocratics and the Pythagoreans, cit., p. 406.

18 Eric R. Dodds, The Greeks and the Irrational, p. 259, cit. in Kahn, op. cit., p. 118.

19 Numenio, frammento 2; cit. in Kahn, op. cit., p. 122.

20 Numenio, frammento non numerato; cit. in Kahn, op. cit., p. 122.

21 Numenio, frammento 52; cit. in Kahn, op. cit., p. 132.

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22 Johannes Kepler, Harmonices mundi libri quinque, in Gesammelte Werke, a cura di Max Caspar et al., Im Auftrag der Deutschen Forschungsgemeinschaft und der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, C.H. Beck'sehe Verlagsbuchhandung, 18 voll., München (1937-1959), vol. VI, p. 289.

23 Plinio, Naturalis historia, II, 20 (cit. in Bruce Stephenson, The Music of the Heavens: Kepler's Harmonic Astronomy, Princeton University Press, Princeton, N.J., 1994, p. 24).

24 Stephenson, op. cit., p. 29. Stephenson cita da Von Jan, «Die Harmonie der Sphären», in Philologus, p. 52 (1983).

25 Versione semplificata dall'autrice, da Stephenson, op. cit., p. 31.

26 Stephenson, op. cit., p. 37.

13- Riepilogo dell'antichità 1 Eric R. Dodds, The Greeks and the Irrational, University of California Press, Berkeley 1951, p. 296 (trad, it., p. 346).

2 Dodds, op. cit., p. 285 (trad, it., p. 341).

3 La descrizione di Roma in quest'epoca si fonda su Michael Grant, History of Rome, Faber & Faber, London 1978, pp. 284 sgg.

4 Edward Gibbon, Decline and Fall of the Roman Empire, cap. X, cit. in Bertrand Russell, Storia della filosofia occidentale op. cit., p.

396 n.

5 Descrizione tratta da Grant, op. cit., p. 294.

6 Ibid.

7 Plotino, cit. in Dodds, op. cit., pp. 285-286 (trad, it., p. 341).

8 Dodds, op. cit., pp. 286-287 (trad, it., p. 343).

9 Kahn, Pythagoras and the Pythagoreans, cit., p. 134.

10 Dodds, op. cit., p. 287 (trad, it., p. 343).

11 Dodds, op. cit., p. 287 (trad, it., p. 344).

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12 Robin Lane Fox, Pagans and Christians in the Mediterranean World from the Second Century A.D. to the Conversion of Constantine, Penguin Books, Harmondsworth 1986, p. 190.

13 Giovanni,1: 1-4, 14, parafrasi mia.

14 Agostino, La città di Dio, trad. it. di C. Borgogno, a cura di A.

Landi, Edizioni Paoline, Alba 1973, lib. XII, cap. 18, p. 684. (N.d. T.)

15 H.J. Blumenthal e R.A. Markus (a cura di), Neo-Platonism and Early Christian Thought: Essays in Honour ofA.H. Armstrong, Variorum Publications, London 1981, p. 90. Questo concetto è la formula soma-sema.

16 Ho tratto le informazioni su questo periodo da H.C. Koenigsberger, Medieval Europe: 400-1500, Longman, London 1987.

17 La maggior parte delle informazioni su Macrobio sono tratte da Stephenson, Bruce, The Music of the Heavens, pp. 38-41.

18 Cit. in Richard E. Rubenstein, Aristotle's Children. How Christians, Muslims, and Jews Rediscovered Ancient Wisdom and Illuminated the Dark Ages, Harcourt, New York 2003, p. 62, cit. da Joseph

Pieper, Scholasticism: Personalities and Problems of Medieval Philosophy, McGraw-Hill, New York 1964, p. 30.

14. «Nani sulle spalle di giganti». Pitagora nel Medioevo 1 Joscelyn Godwin (a cura di), The Harmony of the Spheres: A

Sourcebook of the Pythagorean Tradition in Music, Inner Traditions International, Rochester, Vermont, 1993.

2 Le citazioni dall'opera di Hunain, Nawadir al-Falasifa, sono tratte da brani tradotti in Isaiah e riprodotti in Godwin, op. cit., pp. 92-98.

3 Hunain, cit. in Godwin, op. cit., p. 92.

4 Cit. in David C. Lindberg, The Beginnings of Western Science: The European Scientific Tradition in Philosophical, Religious and Institutional Context, 600 b.c. to a.d. 1450, University of Chicago Press, Chicago 1992, p. 176.

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5 Dall' Epistola sulla musica dei Fratelli della Purezza, trad, di Amnion Shiloah, cit. da un brano riprodotto in Godwin, op. cit., p. 113.

6 Ibid.

7 Ibid., p. 115.

8 Ibid.

9 Da al-Hasan al-Katib, Kitah Kamal Adal al-Gina', trad, di Aitinoti Shiloah, cit. da un brano riprodotto in Godwin, op. cit., p. 122.

10 Le informazioni su Aureliano provengono da Godwin, op. cit., p. 99.

11 Aureliano di Réomé, Musica disciplina, trad. ingl. di Joseph Ponte, cit. da un brano riprodotto in Godwin, op. cit., pp. 101-102.

12 Le informazioni su Scoto Eriugena provengono da Godwin, op. cit., pp. 104-105.

13 Giovanni Scoto Eriugena, Commentario a Marziano Capella, trad, da Joscelyn Godwin, cit. da un brano riprodotto ibid., p. 105.

14 Ibid., p. 106.

15 Giovanni Scoto Eriugena, Peri physeon o De divisione naturae, cit. in Godwin, op. cit., p. 104.

16 Reginone di Priim, Tonarius, Introduzione, «Epistola de harmonica institutione», trad. ingl. di suor Mary Protase Le Roux, in The «De harmonica institutione» and «Tonarius» of Regino of Priim, tesi di Ph. D., Catholic University of America, 1965. Brani riprodotti in Godwin, op. cit., p. 110.

17 Reginone, op. cit., ibid., p. 111.

18 Sull'emergere delle università vedi Thomas Kuhn, La rivoluzione copernicana. L'astronomia planetaria nello sviluppo del pensiero occidentale, trad. it. di T. Gaino, Einaudi, Torino 1972, p. 131.

19 Il progetto di traduzione dell'arcivescovo è descritto diffusamente in R.E. Rubenstein, Aristotle's Children.

20 Per informazioni sulle Sette arti liberali si può vedere H.C.

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Koenigsberger, Medieval Europe: 400-1500, cit., pp. 199 sgg.

21 Questo argomento è dicusso in Burkert, Lore and Science, cit., pp. 199 sgg.

22 Oresme tratta questo argomento nel libro II, cap. 25 del Livre du ciel et du monde, a cura di Albert D. Menut e Alexander J. Denomy, trad. ingl. di A.D. Menut (con testo francese a fronte), The University of Wisconsin Press, Madison, Wisconsin and London 1968, pp. 518 sgg. Il testo pertinente, in francese medievale e trad. it. mia, si trova in Marshall Clagett, La scienza della meccanica nel Medioevo, trad. it. di L. Sosio, Feltrinelli, Milano 1972, pp. 646 sgg. La stessa traduzione italiana, dal capitolo 25 del II libro, è stata riprodotta recentemente in Maria Bettetini, Luca Bianchi, Costantino Marmo e Pasquale Porro, Filosofia Medievale, «Biblioteca», Raffaello Cortina Editore, Milano 2004, pp. 389-396. (N.d. T.)

23 Ho tratto le informazioni relative da Burkert, op. cit., p. 406, compresa la nota 31.

24 Per l'Ars geometriae che si supponeva composta da Boezio, vedi Burkert, op. cit., p. 406.

25 Koenigsberger, op. cit., p. 202.

26 Cit. ivi, op. cit., p. 201.

27 Quest'informazione proviene in parte da un sito web dello Jacques Maritain Center dell'University of Notre Dame (http://maritain.nd.edu). Ralph McInerny, A History of Western Philosophy, vol. 2, parte III, capitolo IV.

28 John Hedley Brooke, Science and Religion: Some Historical Perspectives, Cambridge University Press, Cambridge 1991, p. 45.

29 Ibid, p. 25.

15. «Dove la natura si mostra più eccellente e più completa» 1 Lettera di Petrarca a Francesco Bruni, 25 ottobre 1362 (Seniles, I, 6), riprodotta in Ernst Cassirer, Paul Oskar Kristeller e John Herman Randall jr (a cura di), The Renaissance Philosophy of Man: Selections in Translation, University of Chicago Press, Chicago-London

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1948, 1969, p. 34. (La traduzione italiana è citata da Ernest Hatch Wilkins, Vita del Petrarca e La formazione del «Canzoniere», a cura di Remo Ceserani, Feltrinelli, Milano 1964, p. 236.)

2 Dall'introduzione alla selezione di brani di Petrarca, in Cassirer et al., op. cit., p. 25.

3 Francesco Petrarca, De sui ipsius et aliorum ignorantia, in Cassirer et al., op. cit., p. 92.

4 Ibid., p. 94.

5 Ibid., p. 24.

6 Marsilio Ficino, Cinque questioni concernenti la mente, in Cassirer et al., op. cit., pp. 209-210.

7 Pico della Mirandola, Oratio de hominis dignitate, in Cassirer et al., op. cit., pp. 232-233.

8 Pico della Mirandola, Conclusiones sive Theses, trad. ingl. e cura di Bohdan Kiesowski, riprodotte in Joscelyn Godwin (a cura di), The Harmony of the Spheres, p. 176. Per un tentativo di dare un senso a questo elenco, e per connessioni con Platone, Nicomaco, Tolomeo, e addirittura anche con Oscar Wilde, vedi Godwin, op. cit., p. 447.

9 Vedi Cassirer et al., op. cit., p. 245.

10 Lettera a Leone X, cit. in Kahn, Pythagoras and the Pythagoreans, cit., p. 158. da A.E. Chaignet, Pythagore etphilosophiepythagoricienne, vol. II, Paris 1873, p. 330.

11 Leon Battista Alberti, De re aedificatoria libri decem, Firenze 1485, lib. IX, cap. 5.

12 Nicola Cusano, De docta ignorantia (1440), lib. I, capp. 11-12, in Nikolaus von Kues, Werke, Herausgegeben von Paul Wilpert, Band I, Walter de Gruyter & Co., Berlin 1967.

13 «Al Santissimo Signore Paolo III, Pontefice Massimo Prefazione di Niccolò Copernico ai libri sulle rivoluzioni», in Id., De revolutionibus. Kritischer Text, a cura di H.M. Nobis e B. Sticker, Hildesheim 1984, p. 4. (La traduzione italiana citata è quella di C. Vivanti, in Niccolò Copernico, De revolutionibus orbium caelestium. La costituzione generale dell'universo [libro I], a cura di

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Alexandre Koyré, Einaudi, Torino 1975, pp. 9, 11. Un'altra trad. it. si trova in Opere di Nicola Copernico, a cura di Francesco Barone, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 1979. Una trad. it. della Lettera di Liside a Ipparco, dalla versione latina di Copernico, si trova nel De revolutionibus a cura di A. Koyré, alle pp. 115, 117, 119 (la trad. lat. di Copernico è nelle pagine a fronte); un'altra nelle Opere, a cura di Francesco Barone, pp. 221-222. [N.d. T.])

14 Menzionato in Brian L. Silver, The Ascent of Science, Oxford University Press, Oxford 1998, p. 177.

15 De revolutionibus, a cura di Alexandre Koyré, üb. I, cap. 10, pp. 97, 101.

16 Andrea Palladio, I quattro libri dell'architettura, Venezia 1570

(ed. in facsimile, Hoepli, Milano 1945).

17 Vedi, per esempio Rudolph Wittkower, ArchitecturalPrinciples in the Age of Humanism, Norton, New York 1971.

18 Fu Victor Thoren a richiamare l'attenzione su questi dettagli del modo in cui Tycho realizzò gli ideali pitagorico-platonici nel progetto di Uraniborg; vedi Victor Thoren, The Lord of Uraniborg: A Biography of Tycho Brahe, Cambridge University Press, Cambridge, Mass., 1990.

16. «Quando le stelle del mattino cantavano tutte insieme»: Giovanni Keplero 1 Johannes Kepler, lettera a Michael Mästlin, 11 giugno 1598, in Id., Gesammelte Werke, begründet von Walther von Dyck und Max Caspar, 18 voll. Im Auftrag der Deutschen Forschungsgemeinschaft und der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, C.H. Beck'sche Verlagsbuchhandung, München 1939 sgg., vol. XIII, p. 219.

2 Prefazione al Mysterium, in Keplero, Gesammelte Werke, cit., I, p. 13.

3 Prodromus dissertationum cosmographicarum, continens Mysterium cosmographicum, de admirabili proportione orbium coelestium, deque causis coelorum numeri, magnitudinis, motuumqueperiodicorum genuinis et propriis, demonstratum, per quinque regularia corpora geometrica (Introduzione alle dissertazioni cosmografiche, contenente il Mistero cosmografico, sulla mirabile proporzione degli orbi celesti e delle cause del numero, della grandezza, e dei

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moti periodici genuini e propri dei cieli, dimostrato attraverso i cinque corpi geometrici regolari). Il libro è datato Tübingae 1596. Venticinque anni dopo, nel 1621, il libro ebbe a Francoforte una seconda edizione riveduta, il cui frontespizio è ancor più congestionato, comprendendo, oltre al frontespizio originario, la descrizione delle correzioni e integrazioni apportate - nella forma di note - in questa seconda edizione. Qui il libellus, dice Keplero, è stato «ab eodem authore recognitus, & Notis notabilissimis partim emendatus, partim explicatus, partim confirmatus: denique omnibus suis membris collatus ad alia cognati argumenti opera, quae Author ex illo tempore sub duorum imperatorum

Rudolphi et Matthiae auspiciis [...] diversis locis edidit». Questa edizione comprendeva anche una riproduzione della Narratio de libris Revolutionum di Giorgio Jachim Retico. (N.d.T.)

4 Owen Gingerich, «Johannes Kepler», in C.C. Gillispie, Dictionary of Scientific Biography, p. 292.

5 Joscelyn Godwin (a cura di), The Harmony of the Spheres, pp.

104-105.

6 Johannes Kepler, Harmonices mundi libri quinque, in Id., Gesammelte Werke, cit., vol. VI, p. 289.

7 Bruce Stephenson, The Music of the Heavens: Kepler's Harmonic Astronomy, Princeton University Press, Princeton, N.J., 1994, è una guida straordinariamente completa e preziosa al labirinto della Harmonices mundi di Keplero.

8 Vedi Platone, Timaeus, Penguin, London 1965, p. 15, p. 50 n.

9 Keplero, Harmonices mundi libri quinqué, in Gesammelte Werke, cit., vol. VI, p. 289.

10 Keplero, Harmonices mundi libri quinqué, cap. 3, in Gesammelte Werke, cit., vol. VI, pp. 296 sgg. [Per ampie citazioni dirette dal testo di Keplero, si può vedere Alexandre Koyré, La rivoluzione astronomica. Copernico, Keplero, Borelli, trad. it. di L. Sosio, Feltrinelli, Milano 1966, pp. 276 sgg. (N.d.T.)}

11 Per la tabella completa di Keplero, vedi Stephenson, op. cit., p. 150.

12 Per una spiegazione molto più dettagliata, vedi Stephenson, op. cit., p. 171.

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13 Keplero, Harmonices mundi libri quinqué, in Id., Gesammelte Werke, vol. VI, p. 323.

14 Giobbe, 38: 4, 7. (N.d. T.)

15 Keplero, Harmonices mundi libri quinque, in Id., Gesammelte Werke, vol. VI, p. 356.

16 Stephenson, op. cit., sottolinea che Keplero aveva letto gli inni platonici/neopitagorici di Proclo.

17 Keplero, in una lettera a Vincenzo Bianchi, 17 febbraio, Lettera numero 827, in Gesammelte Werke, vol. XVII, cit. in Stephenson, op. cit., p. 241.

17. Illuministi e illuminati 1 Galileo Galilei, Il Saggiatore, a cura di Libero Sosio, Feltrinelli, Milano 1965; nuova ed. con prefazione di Giulio Giorello, ivi 2008, p. 38. Vedi anche Daniel T. Max, The Family That Couldn't Sleep, Random House, New York 2006, p. 5.

2 L'episodio concernente il padre di Galileo è raccontato in Brian L. Silver, The Ascent of Science, cit., p. 176.

3 Citazione dal Decretum Sacrae Congregationis Illustrìssimorum S.R.E. Cardinalium, aS.D.N. Paulo Papa VSanctaque Sede Apostolica adlndicem Librorum, promulgato il 3 marzo 1616. Il testo latino del Decreto è pubblicato in I documenti del processo di Galileo Galilei a cura di S. Pagano, Pontificia Academia Scientiarum, Città del Vaticano 1984, pp. 102-103. (N.d.T.)

4 John Barrow, op. cit., p. 127.

5 Brian L. Silver, The Ascent of Science, cit., p. 158.

6 Silver, op. cit., p. 177; Jacob Bronowski, The Ascent of Man (p.

234) menziona anche l'attribuzione di Newton a Pitagora.

7 Cit. in Barrow, op. cit., p. 127.

8 Cit. in Barrow, op. cit., p. 128, da Leibniz, The Philosophical Works of Leibniz.

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9 William Shakespeare, Il mercante di Venezia, trad. it. di C. Linati, atto V, scena I, in Id., Tutte le opere, a cura di Mario Praz, Sansoni, Firenze 1964, p. 443. (N.d.T.)

10 John Dryden, A Song for St. Cecilias's Day, 1687, I, w. 1-7.

(N.d. T.)

11 Joseph Addison, parafrasi del Salmo 19: 1-6. Inno 409 in The Hymnal 1982, according the use of the Episcopal Church.

12 I paragrafi sul modo in cui l'immagine di Pitagora fu usata dai rivoluzionari si fondano sul libro di James H. Billington Fire in the Minds of Men: Originis of Revolutionary Faith, Basic Books, New York 1980. Anche tutte le citazioni, quando non sia indicato diversamente, provengono da questo libro.

13 Ho tratto le informazioni su Buonarroti da Elizabeth L. Eisenstein, The First Professional Revolutionist: Filippo Michele Buonarroti (1761-1837), A Biographical Essay, Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1959.

14 Da William Stanley Jevons, Principles of Science, cit. in David C. Lindberg, David C., The Beginnings of Western Science, University of Chicago Press, Chicago 1992, pp. 371-372, nota 15.

18. Giano bifronte 1 I due libri discussi in questo capitolo sono Bertrand Russell,

Storia della filosofia occidentale, cit.; e Arthur Koestler, The Sleepwalkers: A History of Man's Changing Vision of the Universe, Hutchinson, London 1959 (trad. it. di M. Giacometti, I sonnambuli: storia delle concezioni dell'universo, Jaca Book, Milano 1982). Tranne quando non si indichi diversamente, le citazioni sono tratte tutte da queste due opere.

2 Alfred North Whitehead e Bertrand Russell, Principia mathematica, 3 voll., Cambridge University Press, Cambridge 1910, 1912, 1913. [I Principles of Mathematics di Russell, London 1903, sono stati tradotti in italiano: I princìpi della matematica, trad. it. di E. Carone e M. Destro, Newton Compton, Roma, 4a ed., 1977. (N.d.T.)}

3 Russell, Storia della filosofia occidentale, cit., p. 196. [La citazione: Platone, Fedone, 65c, in Id., Opere complete, I, p. 115.]

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4 Le fatiche di Gottlob Frege non andarono però sprecate; il suo libro è considerato un classico: si tratta dell'opera Die Grundlagen der Arithmetik, 1884 (trad. ingl. di J.L. Austin, The Foundations of Arithmetics, Blackwell, Oxford 1980).

5 Bertrand Russell, «How to Read and Understand History», in Understanding History and Other Essays, Philosophic Library, New York 1957.

6 John Barrow, La Luna nel pozzo cosmico, trad. it. di T. Cannillo, Adelphi, Milano 1994, p. 488.

7 Bertrand Russell, «The Value of Free Thought», in Understanding History and Other Essays, Philosophic Library, New York 1957.

19. I labirinti della semplicità 1 Questo è il senso del famoso passo dei Massimi sistemi di Galileo in cui si parla anche di Pitagora: «Cotesto, che voi dite, è il metodo col quale egli ha scritta la sua dottrina, ma non credo già che e' sia quello col quale egli la investigò, perché io tengo per fermo ch'e' proccurasse prima, per via de' sensi, dell'esperienze e delle osservazioni, di assicurarsi quanto fusse possibile della conclusione, e che doppo andasse ricercando i mezi da poterla dimostrare, perché così si fa per lo più nelle scienze dimostrative [...]. E non abbiate dubbio che Pitagora gran tempo avanti che e' ritrovasse la dimostrazione per la quale fece l'ecatumbe, si era assicurato che 'l quadrato del lato opposto all'angolo retto nel triangolo rettangolo era eguale a i quadrati de gli altri due lati; e la certezza della conclusione aiuta non poco al ri trovamento della dimostrazione, intendendo sempre nelle scienze demostrative» (Galileo Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano, in Id., Le Opere, rist., 20 voll, in 21 tomi, G. Barbèra Ed., Firenze 1964-1966, vol. VII, pp. 75-76; ed. a cura di L. Sosio, Einaudi, Torino, pp. 63-64). Ed è questo il senso anche del libro di Paul K. Feyerabend, Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, trad. it. di L. Sosio, Feltrinelli, Milano 1979 (nuova ed., ivi 2002), in cui Feyerabend sostiene che nella fase della scoperta lo scienziato è un anarchico e «qualsiasi cosa può andar bene» (anything goes), mentre il metodo (la «logica») è utile solo nella fase della dimostrazione. (N.d.T.)

2 Cit. in Kitty Ferguson, Prisons of Light: Black Holes, Cambridge University Press, Cambridge 1996, p. 114.

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3 Bryan Appleyard, «Master of the Universe: Will Stephen Hawking Live to Find the Secret?», in Sunday Times, London 1988.

4 Richard Feynman, QED. La strana teoria della luce e della materia, trad. it. di F. Nicodemi, Adelphi Edizioni, Milano 1988, p. 18.

5 John Archibald Wheeler, Journey into Gravity and Spacetime, Scientific American Library, New York 1990, p. XI (trad. it. di F.

De Alfaro, Gravità e spazio-tempo, Zanichelli, Bologna 1993).

6 John Barrow, La Luna nel pozzo cosmico, pp. 219-220.

7 I paragrafi che seguono sulla nuova musica delle sfere si basano su informazioni contenute in Kristine Larsen, «From Pythagoras to WMAP: The "Music of the Spheres" Revisited». Comunicazione presentata alla Society of Literature, Science, and the Arts, 13 novembre 2005, e pubblicata su Internet (www.physics.ccsu.edu/larsen/wmap.html). Gli articoli e i saggi nominati qui sotto sono tutti citati nella comunicazione della Larsen.

8 Richard A. Kerr, «Listening to the Music of the Spheres», in Science, 253, 1991, pp. 1207-1208.

9 Demarque, P. e D.B. Guenther, «Helioseismology: Probing the Interior of a Star», in Proceedings of the National Academy of Sciences, 96, 1999, pp. 5356-5369.

10 ESO, 15 maggio 2002, «Ultrabass Sounds of the Giant Star Xi Hya». http.www.eso.org/outreach/press-rel/pr-2002/pr-10-02.html.

L'ESO è l'European Organization for Astronomical Research in the Southern Hemisphere, o European Southern Observatory.

11 Marcia Bartusiak, Einstein's Unfinished Symphony. Listening to the Sounds of Space-time, National Academies Press, Washington, D.C., 2000.

12 Steve Roy e Megan Watzke, «Giant Galaxy's Violent Past Co mes into Focus», Harvard Press Release, 10 maggio 2004. http:// chandra.harvard.edu/press/04_release/press_051004.htlm 13 Don Savage, Steve Roy e Megan Watzke, «Chandra 'Hears' a Black Hole for the First Time», Harvard Press Release, 9 settembre 2003. http://chandra.harvard.edu/press/03_release/press_090903Jitlm 14 Mark Whittle, «Sounds from the Infant Universe». Abstract for American Astronomical Society

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talk, 3 giugno 2004. http:// www.astro.virginia.edu/-dmw8f/sounds/aas/aas_abs.pdf 15 Mark Whittle, «Primordial Sounds: Big Bang Acoustics, Press Release: American Astronomical Society Meeting, 1 giugno 2004. http://www.astro.virginia.edu/-dmw8f/sounds/aas/press_release.pdf 16 Shaun Cole et al., «The 2dF Galaxy Reshift Survey: PowerSpectrum Analysis of the Final Dataset and Cosmological Implications», 5 agosto 2005 in arXiv: astro-ph/0501174; Daniel J. Eisenstein et al., «Detection of the Baryon Acoustic Peak in the Large-Scale Correlation Function of SDSS Luminous Red Galaxies», 10 gennaio 2005, in arXiv: astro-ph/0501171.

17 Ron Cohen, «Ultimate Retro. Modern Echoes of the Early Universe», Science News Online, 167: 3, 15 gennaio 2005. http:// www.sciencenews.org/articles/20050115/fobl .asp 18 Diane Richards, «Listening to Northern Lights», Astronomy, dicembre 2001, p. 63.

Appendice 1 Bronowski, The Ascent of Man, Little Brown, Boston 1973, pp.

158-160.

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Comprende i Libri che ho usato e che appaiono nelle note. (*)

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* Le opere ed edizioni citate direttamente in italiano sono quelle usate dal traduttore come fonti di citazioni da traduzioni italiane. (N.d. T.)

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RINGRAZIAMENTI

Vorrei ringraziare tutti gli amici che, nel corso degli anni in cui feci ricerche e scrissi questo libro, mi parlarono dei modi - alcuni dei quali assolutamente strani e inattesi - in cui Pitagora e i pitagorici esercitarono un'influenza, o almeno fecero un'apparizione, nei loro propri campi di studio e d'interesse. Desidero inoltre ringraziare mio marito, Yale, per l'aiuto che mi ha dato attingendo alle sue conoscenze storiche e alla sua biblioteca, per la sua meravigliosa compagnia in viaggi di ricerca a Samo e a Crotone, e per la sua preziosa critica di questo libro fin dal tempo del suo concepimento; Eleanor Robson, per il suo aiuto paziente nell'ambito della matematica mesopotamica; John Barrow, per avere richiamato la mia attenzione sulle Sulba Sutras e per avere ricostruito per me su un tovagliolo la galleria di Eupalino a Samo; il personale del Museo Archeologico di Crotone per la straordinaria disponibilità che mi ha dimostrato; e i bibliotecari della Chester Public Library per l'abilità e sollecitudine che mi manifestarono quando mi recai da loro con numerose insolite richieste di prestiti fra biblioteche diverse.

INDICE ANALITICO

I numeri di pagina in corsivo si riferiscono a figure abaco, 42, 247

Abelardo, Pietro, 242

Abele, 203

Abramo, 203, 235

Accademia platonica di Atene, 17, 124, 134, 153-155, 163, 165166, 170, 176, 200, 208, 221, 227, 233, 264

- sua origine, 154-155

- sua chiusura (526), 227

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Accademia platonica di Firenze, 253, 256, 260 accordatura giusta, 277 accordatura pitagorica, 277 acqua, 59, 71

- come elemento, 150, 152, 235236, 275, 301,310

- formata da icosaedri, 151, 174

- galleria adduttrice per il trasporto d'acqua di Eupalos a Samo, 45, 100

- primo principio per Talete, 29, 122-123

- sistemi di irrigazione sull'Eufrate, 31 acusmatici, 56,114-117,143-145, 172, 184, 206, 296, 313

Adamo, 15, 170, 203

Adelardo di Bath, 180, 245

- traduzione degli Elementi di Euclide, 180, 245

Addison, Joseph (1672-1719), 10, 302-303, 371

Adriano, Publio Elio, imperatore romano, 201

Aezio, 125, 174, 360 afelio, 291-292 aforismi, 72, 117, 206, 234-235

Agostino di Ippona, sant', 203, 223, 247, 251, 325

- interpretazione dei numeri nella Bibbia, 247

- sui sei giorni della creazione nella Genesi, 247

- sul tempo, 203

- La città di Dio, 223 akousmata, vedi acusmatici Alberti, Leon Battista (14041472), 10, 191, 256-259, 264,

- edifici da lui costruiti a Firenze, a Rimini e a Mantova, 258

- De re aedificatoria, 256

Alcibiade, 183

Alcmeone di Crotone, 86, 128129, 358

Alcott, Louisa May, 22, 313

Alessandria, 178, 184, 193-197, 229

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- Biblioteca di, 43, 71, 178, 197, 211

- Museo (Casa delle Muse), 178

Alessandro di Abonutico (c. 110170 d.C.), 9, 202

Alessandro Magno (356-323 a.C.), 8, 94-95, 178

Alessandro Poliistore, 126

Alessi, 70-71

- I Tarantini, 70 al-Farghani (Alfragano), 233

- dimensioni delle sfere planetarie, 233

Alfragano, vedi al-Farghani Amasi II (Ahmose II) faraone, 3334, 44

Aminia, 120-121

Amon (il «Nascosto»), 38

Anacreonte, 45

Anassagora, 126

Anassimandro (610-546 a.C.), 7, 30-31, 36, 122-123, 130, 148, 152, 329

- i contrari nella creazione, 30

- cosmo di, 148

- sue idee raccolte dai pitagorici, 30, 152

- l'illimitato come arche, 30, 123

- unità e molteplicità, 30

Anassimene, 30-31, 122, 130

Anceo, 25-26 angoli retti, 15, 82, 92-94, 99, 108, 372 anima: - come armonia, 127-129, 177, 229, 233-234

- immortalità della, 65, 81, 106, 127-130, 133-134, 146, 158, 163, 223, 301,316, 355

Anselmi, Giorgio (XV secolo), 10, 240,254, 278

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Anselmo di Canterbury, 243

Anticitera, meccanismo di, 99

Antifane, 70, 144

- Il sacco, 70

Antifonte, 34

- Sugli uomini virtuosi illustri, 34

Antiterra, 125-126, 163, 190, 233 antropico, principio, 344

Apollo, 43, 60, 67, 106

- Pizio, 23-24, 43, 55, 205

Apollodoro di Cizico, 91, 109

Apollonio di Tiana (I secolo d.C.), 9, 23, 29, 200-202, 307, 364

- vita di, 200-201 arabo, traduzioni di testi classici dall', 180, 245 arabo, traduzioni di testi classici in, 233-234, 243 arche (p\. archat), 122-123, 152

Archedemo, 135 archeologi, archeologia, 15, 19, 25-26, 47, 49-50, 58-59, 93, 95-97, 99, 354

Archita di Taranto (428-347 a.C.), 8, 133-143, 146, 148-149, 154, 156, 158, 164, 166, 172, 175, 177, 179, 189, 193,196, 198-199, 211, 234, 237-238, 242, 244, 268, 358-359, 361

- costruttore di giocattoli e di dispositivi ingegnosi, 142

- il cosmo è infinitamente grande?, 139

- fonte di Platone sui pitagorici, 142

- re filosofo a Taranto, 137

- sua soluzione del problema di Delo, 138 arianesimo, 226

Arignota, presunto secondo figlio maschio di Pitagora, 73

389

Ario, 221

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Aristarco di Samo, 125, 212, 262

Aristeo di Crotone, 73, 116

Aristofane, 117

- Le rane, 117

Aristofonte, 70-71, 144

- Il pitagorico Aristosseno di Taranto (fi. IV sec. a.C.), 8, 24, , 47, 60, 67, 69, 72, 74, 80-81, 86-87, 103, 114-115, 136-138, 144-145, 176-177, 206, 358

Aristotele da Stagira (384-322)21, 8, 17, 21, 29, 52, 57, 69, 74, 82, 84, 91, 114, 115, 117, 119, 121, 124-127, 136, 142, 149, 153, 155, 165-179, 184, 186, 194-197, 203, 206, 221, 227, 234, 241-244, 246, 251, 253, 255, 258, 259, 330, 338, 345, 358-360

- sua biografia, 165

- su Platone, 165

- sue ricerche sui pitagorici, 84

- De caelo, 29, 166, 171, 285

- Fisica, 166

- Metafisica, 125, 165-166, 169, 219,319, 327, 358

- Sulla filosofia pitagorica, 57 armonia, 18, 54,76-78,81-82,93, 103, 106, 119, 123-129, 153, 163, 170-172, 177, 185, 189, 194, 202, 207, 210-215, 226, 229, 233-234, 238-242, 245, 253-254, 259-264, 267, 269, 277, 280-285, 287, 289-295, 297-298, 300-303, 308, 311, 318, 329-331, 333, 338-339, 343, 345

- storie sulla scoperta dei rapporti armonici, 80-81

- vari significati del termine, 123124 arti liberali, Sette, 245, 247-248

Asio, 25 assiomi, 287, 324, 340

Astreo, 43 astronomia, 29, 33, 41, 134, 139, 144, 148-149, 154, 179, 188, 207, 211-212, 230, 235, 237239, 245-246, 259-261, 263, 268-270, 281-282, 284, 287288, 290-298,318, 334, 367

- anime dei pianeti, 149

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- babilonese, 41

- eliocentrica, 212

- mesopotamica, 41

- i moti celesti come combinazioni di moti opposti, 149

Atene, 25, 49-50, 63, 117-118, 121, 132, 134-135, 146, 154, 163, 165, 178, 183, 204, 217218, 221-222, 227

- Accademia platonica (vedi)

- Areopago, 54, 218

- Liceo aristotelico, 165, 200

- Partenone, 118 atleti, 48, 70, 327

- dieta degli, 42-43 atomi, 252, 298, 302, 336, 341

Atti degli apostoli, 221

Atum, dio creatore egizio di Eliopoli, 36

Augusto imperatore romano, 187 vedi anche Ottaviano, Gaio Giulio Cesare Aureliano di Réomé (IX secolo), 9, 238-239, 241, 366

- Musica disciplina, 238

Baader, Franz Xavier von, 309-310

390

Babilonia, 32, 37-41, 48, 65, 9697, 100, 105, 208, 354, 357

- conoscenza del teorema di Pitagora, 40,95-102,105-106,321

- giardini pensili, 39

- porta di Ishtar, 38

- viale di accesso, 38

- ziqqurat di, 38-39 baccanti, 64, 163

Bach, Johann Sebastian, 340

Bacco (Dioniso), 64

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Baghdad, 97-98, 233-234

- Bait al-Hikmah (Casa della Sapienza), 233,235

Balzac, Honoré de, 313

Barbaro, Daniele, 265

Barlaam di Seminara, 250, 283

Barrow, John, 326, 340, 356, 372

Bartusiak, Marcia, 345

Badilo, 86

Belisario, 229

Bernardo di Chartres (XII secolo), 10,247

Bibbia, 208, 210, 247

- Antico Testamento, 61, 68

- Nuovo Testamento, 74, 223 biblioteche: 34

- di Alessandria, 43, 71, 197, 211

- di Cordova, 243

- dell'Europa latina, 245

- imperiale a Roma, 200-201

- di Petrarca, 251

- di Toledo, 243

Billington, James H„ 303, 306, 311-312, 371

Bisanzio, bizantini, 57, 201, 214, 221-222, 227, 229, 244

Boezio, Anicio Manlio Severino (470-524 d.C.), 9, 180, 224, 227, 228, 229-230, 238, 241, 245-248, 295, 367

- traduttore in latino di classici greci, 227-229

- traduzione dell'Introductioarithmetica di Nicomaco, 224

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- vita di, 227-229, 245

- Consolazione della filosofìa, 228

- De institutione arithmetica, 224, 229,245

- De institutione musica, 224, 229,245

- De musica, 241, 295

Bohr, Niels, 342

Bologna, Università di, 259-260

Bonneville, Nicolas de, 305, 307

Born, Max, 342

Botticelli, Sandro, 253

- Primavera, 253

Boyle, Robert (1627-1691), 10, 298

- Il chimico scettico, 298

Brahe, Tycho (1546-1601), 10, 149, 266-267, 274, 276-277, 281-282, 293-294, 297, 333

- morte di, 282

- suo palazzo-osservatorio astronomico (Uraniborg) a Hven costruito con proporzioni palladiane 266-267, 282, 294

Bronowski, Jacob, 22, 23, 25, 91, 104, 108-109, 351, 353, 356357, 371, 374

- The Ascent of Man, 91

Brontino di Crotone, 73, 86

Bruce, Edmund, 277

Bruni, Francesco, 250

Bruno, Giordano, 296 buchi neri, 334-336, 339, 342, 345-346

Buddha, 329

Buonarroti, Filippo Michele (1761-1837), 11, 306-309,371

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391

- vita di, 306

Burkert, Walter, 81, 109, 166, 169-170, 177, 356, 358-361, 363

Burlington, Richard Boyle Lord, 266 cabalistica, letteratura, 256

Caino, 203

Calabria, 58, 229, 250

Calcide, 25, 47, 220

Calcidio, 247 caldei, 31, 39, 239, 256

- dinastia, 37

- lingua, 239, 241, 244

- oracoli, 256

- scienza, 256

Caligola imperatore romano, 203

Callimaco, 71, 197

Cambise I, imperatore di Persia, 37

Cambise II, imperatore di Persia, 37

Canopo, 213 caos, teoria del, 329, 343

Capparelli, Vincenzo, 246

Caracalla, Marco Aurelio Antonino, imperatore romano, 201, 216-217

Carete di Lindo, 187

Carlo II il Calvo imperatore del Sacro Romano Impero, 239

Casa della Sapienza (Bait al-Hikmah) a Baghdad, 233, 235

Catone il Censore (234-149 a.C.), 8, 185

- De agri cultura, 185

Cattività babilonese degli ebrei (598-597 e dal 587/586 al 538 a.C.), 7

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Cebete, 118, 129, 143 cerchio, 161, 163, 259, 265, 271272, 305, 308-309,311-312

- determinazione dell'area del, 34-35

- «Medesimo» e «Diverso», 148-149

- come moto uniforme, 139

- rapporto del diametro alla circonferenza (p), 40

Cesare, Gaio Giulio, 181

Cesariano, Cesare, 107, 191-192, 357, 362-363

Chandra, telescopio orbitale della NASA per l'osservazione nei raggi X, 346, 374

Chandrasekhar, Subrahmanyan, 346

Chartres, cattedrale di Notre-Dame di, 247-248

- scuola di, 247-249

Cheope, grande piramide a Giza, 35, 36, 38, 84

Chesterton, Gilbert Keith, 333 chimica, 298, 314, 318

Cicerone, Marco Tullio (106-43 a.C.), 8, 71, 89-90, 181-183, 186-191, 200, 205, 211-212, 224-226, 242, 247, 251, 262, 281

- biografia di, 181

- traduzione latina del Timeo, 187, 224

- De republica, 181, 188, 190

- Somnium Scipionis, 189, 212, 225, 242, 247, 281 cielo: - moti che si vedono in, 149

- rotazione del, 149, 190, 288

- delle stelle fisse, 139

Cilicia, 27, 200, 216

Cilone, 88-89

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392 cinque, numero, 103, 308

Ciro il Grande imperatore di Persia, 37

Ciro Marina, 60

Clemente Alessandrino, 129, 196, 204, 223

- Stromateis, 196

Cloots, «Anacharsis», 305, 347

Coleo (Kolaios), 27 complessità, teoria della, 343

Concilio di Nicea (325), 226 concinna, 287, 291

- dubbi, 287

Confucio, 329

Congregazione Generale dell'Indice, 296 consonanze, 54, 106, 124, 239, 301

- numero delle consonanze semplici in musica, 124, 237 copernicano, sistema, 281

Copernico, Andreas, 259

Copernico, Niccolò (1473-1543), 10, 21, 22, 176, 198, 204, 221, 259-260, 261, 262-263, 269, 276, 279, 283, 285, 295297, 321, 363, 368, 370

- Lettera dedicatoria del De revolutionibus, 261

- pitagorismo di, 261-263

- primi titoli provvisori del De revolutionibus, 261

- traduzione della Lettera di Liside, 261-262

- De revolutionibus orbium caelestium libri VI, 261-263, 269, 295-297

Corinto, 116, 136, 143, 144 corpo come tomba o prigione per l'anima, 201, 223, 301 cosmologia: - di Anassimandro, 30, 148

- di Aristarco di Samo, 262

- di Brahe, 281

- degli egizi, 36

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- dei Fratelli della Purezza, 235, 236, 237

- di Keplero, 268-298

- di Nicola Cusano, 258-259

- platonica, 149, 198

- di Pitagora, 329

- pitagorica, 190

- di Scoto Eriugena, 240

Cospirazione del Triangolo Spagnolo (1816), 310, 312

Costantino I il Grande imperatore romano, 221-222

Costantinopoli, 221, 225, 227, 229

Cracovia, Università Jagellonica di, 259

Creso re di Lidia, 29

Crick, Francis, 337 cristalli, 173, 188, 298 cristianesimo, 32, 201, 207, 218219, 221-222, 226, 240, 249, 253, 307, 310, 330 cristiani, 219

- dotti protocristiani, 129, 204, 222, 247

- greci bizantini, 57

- nestoriani, 233

- padri della chiesa, 227

- d'Oriente, 224

- Reconquista di Spagna e Portogallo da parte dei, 243

- scrittori cristiani antichi, 204, 222-223

- teologi, 325

Crotone, 7, 18-19, 34, 40-60, 65, 73-75, 86, 89, 116-118, 120, 393

128, 133, 177, 181, 304, 307, 327, 354

- i Mille, 50, 54, 60

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- monete di, 59-60

- Pitagora a, 7

- sconfigge e distrugge Sibari, 7, 58-59, 86

- storia e governo di, 50-52

- tempio di Apollo Pizio, 55

- tempio di Era Lacinia, 47, 49, 55,65,72,89; bue sacro del, 72

- territorio controllato da, 57 cubo, 148, 151, 173, 290

- problema di Delo o della duplicazione del, 138

Cullers, Kent, 346-347 culti misterici, 222 culti neopitagorici, 363

Cusano, Nicola (1401-1464), 10, 246, 258-259, 269, 296, 337, 368

- universo di, 258-259

- vita, 258

- De docta ignorantia, 259, 368

- Sulla concordanza cattolica, 259

Damo, presunta figlia di Pitagora, 195

Damone, 136

Danton, Georges, 305

Dario il Grande imperatore di Persia, 49

Darwin, Charles, 299

- L'origine delle specie, 299

Darwin, Erasmus, 299

Dattili del monte Ida, 45, 81

Davies, John, 301

«Orchestra», 301

Dea Madre, 26, 63

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Decreto della Sacra Congregazione dell'Indice contro Copernico, 298, 371

Delfi, 23, 26, 43

- oracolo di, 23, 26, 45, 183, 202, 206

- sede dei giochi pitici, 48 delia, lega, 117

Delo, problema di, 138, 139

Demetra, 63, 70 demiurgo di Platone, 36, 147

Democede, 49

Democrito di Abdera, 252

Descartes (Cartesio), René (15961650), 10, 297, 325 dialettica, 155-156, 21, 244-245 diatonica, scala, 148, 171 diatonico, 148

Dicearco di Messina (fi. c. 320 a.C.), 8, 52-53, 56, 60, 87-89, 176-177

Dichiarazione d'Indipendenza degli Stati Uniti, 303, 325

Dickens, Charles, 313

- Il Circolo Pickwick, 313

- The Haunted House, 313 dieci, numero, 83-84, 103, 124, 207, 211 dieci corpi, modello pitagorico del cosmo a, 125, 190, 211-212, 233, 260, 275, 309, 318, 335, 344 dimostrazione matematica, 103

Diocleziano, Gaio Aurelio Valerio, imperatore romano, 224

Diodoro di Aspendo, 144

Diogene Laerzio (193-217 d.C.), 7, 9, 24-25, 29, 31, 47, 52, 55-56, 58-62, 66, 68-69, 7175, 86-87, 106, 10, 166, 185, 194, 196, 198, 26, 353, 355, 362-363

394

- chi era, 216

- Vita di Pitagora, 216

- Vite dei filosofi, 216, 220

Dione, 134-135, 155

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Dionigi l'Areopagita («PseudoDionigi»), 221-222, 239

Dionisio il Giovane tiranno di Siracusa (397-343 a.C.), 8, 24, 134-135, 137, 155

Dionisio il Vecchio tiranno di Siracusa (c. 430-367 a.C.), 8, 133134

Dioniso (Bacco), 64

DNA, 337

Dodds, Eric R„ 217, 219-220 dodecaedro, 113-114, 150-152, 173-174, 237, 274

Domna, Giulia, imperatrice di Roma (m. 217 d.C.), 9, 23, 200201, 217 donne pitagoriche, 17-18, 52, 55, 64, 73-75, 86, 145, 154, 158, 177, 196 due, numero, 85, 102, 124, 148, 167, 299, 323-324

Dryden, John (1631-1700), 10, 302

Ecateo, 62, 106

Ecfanto di Siracusa, 176, 262

Echecrate, 128-129, 143, 163 eclittica, 125, 148-149

Edipo, 118

Egitto, 27, 30-35, 37-38, 40-41, 65, 84, 93, 173, 178, 183, 189, 201, 208, 229, 354

- agrimensura, 35-36

- operazioni aritmetiche della moltiplicazione e della divisione, 34

- valore del pi greco, 34

Ehem, Regina (figliastra di Keplero), 284, 288

Einstein, Albert, 21, 315, 334, 336-339, 342, 345-346

- contro l'indeterminazione quantistica, 342

- Dio non gioca a dadi, 342

- equivalenza massa-energia (E = me2), 337

- teoria della relatività ristretta, 315,336

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Elea (Velia), 120 eleati, 120, 122-123, 126 vedi anche Parmenide, Melisso, Zenone Eleusi, 63

Eliopoli, 34, 36

Eliot, Thomas Stearn, 248

Empedocle di Agrigento, 65-66, 69, 72, 158, 174, 189

- sulla metempsicosi, 66, 69

Enea, 184

Ennio, Quinto [e. 239-c. 160 a.C.), 8, 184

- la dottrina della reincarnazione, 184

- Annales, 184

- Epicharmus, 184

Epaminonda, 195

Epicaride, 71

Epidauro, 25-26 equatore celeste, 148-149

Er, mito di, 163, 190,212

Era, 25-27, 49

Eracle (Ercole), 25, 44, 70, 158, 219

Eraclide Lembo, 87

Eraclide Pontico (387-312 a.C.), 8, 72, 87, 176, 262

- rotazione della Terra, 176

395

Eraclito di Efeso (detto l'Oscuro), 61-62, 105-106, 113, 115

Eratostene, 43

Erissida di Calcide, 47

Ermete, 66

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Ermippo, 25, 75, 87

Ermotimo, 66-67

Erodoto, 17, 64, 75

- Storie, 17, 354, 356

Escher, Maurits Cornelis, 340

Eschilo, 117 esseri viventi: - sull'An ti terra, 126

- sulla Luna, 126

Esiodo, 62

Etalide, 66

Euclide (fi. c. 300 a.C.), 8,85,103, 105, 139, 165, 172, 178, 179, 180, 207, 234, 236-237, 244245, 324, 361

- Elementi, 103, 165, 172, 178180, 244-245

Eudemo, 69, 138, 359

Eudoro di Alessandria (fi. c. 25 a.C.), 8, 9, 202-203, 364

Eudosso di Cnido, 142, 148-149

Euforbo, 66-67, 251

Eufrate, 38-39

Eunosto (presunto fratello di Pitagora), 28

Eupalos, 100

Eupalino, 45

Eurimene, discepolo di Pitagora, 42-43

Euripide, 64, 117

- Le Baccanti, 64

Eurito, 143, 145, 358

Eva, 170, 203

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Fabre d'Olivet, Antoine, 311

Faraday, Michael (1791-1867), 11, 314, 315

Ferdinando VII re di Spagna, 310

Feyerabend, Paul K., 262, 373

Feynman, Richard, 336, 373

Ficino, Marsilio (1433-1499), 10, 253-254, 256, 260

- sua traduzione in italiano delle opere di Platone e di vari neoplatonici, 253 filippista, curriculum, 268-269

Filippo II il Grande di Macedonia, 178

Filolao (c. 474-399? a.C.), 7, 17, 30, 84, 118-131, 143, 145146, 148-149, 152, 166, 173174, 176, 189, 193, 203, 205, 223, 233, 245-246, 255, 262, 275, 285, 308, 358-359, 361

- abitanti della Luna secondo, 126

- cinque corpi nella sfera, 152, 174, 275

- datazione di, 120

- un libro di, 113-131

- libro sul moto della Terra, 7

- mobilità della Terra intorno al fuoco centrale, 125

- modello cosmico dei dieci corpi, 125, 190. 211-212, 233, 260, 275, 309, 318, 335, 344

- moti dei corpi celesti, 125-127

- sulla trasmigrazione delle anime in Pitagora, 127

Filone di Alessandria (20 a.C.-40 d.C.), 9, 195, 202-204, 247, 363-364

Filostrato (170-c. 245 d.C.), 9,201

- Vita di Apollono di Tiana, 201

Fintide, figlia di Callicrate, 196

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396

Finzia, 136

Firenze, 253, 260, 264, 306, 363

- edifici costruiti dall'Alberti a, 258

Fliunte, 116, 143, 163, 358

Foscarini, Paolo Antonio, 296

- Lettera sopra l'opinione de' Pittagorici e del Copernico, 296

Franklin, Benjamin, 305, 325

Fratelli della Purezza (Ikhwan alSafà, X secolo), 9, 235-237, 366

- enciclopedia Rasa'il, 235-237

- ordinamento cosmico del mondo sublunare, 236

Frege, Gottlob, 322, 372

Fridman, Aleksandr, 336

Fulvio Nobiliore, Marco (II secolo a.C.), 8, 184 fuoco: - celeste alla periferia dell'universo, 125-127, 212

- centrale dell'universo, 125-127, 129-130, 163, 190, 205, 233, 262, 285, 305, 307, 309

- come un principio primo della natura, 113

- composto da minuscoli tetraedri, 151, 174

- degli dèi rubato da Prometeo, 305

- uno dei quattro elementi, 150, 152, 174, 235,275, 301,310

Gaffurio, Franchino (1451-1529), 10, 119, 246

Galeno, Claudio, 234

Galilei, Galileo (1564-1642), 10, 295, 301-302, 333, 373

- le fasi di Venere, 296

- esperimenti col pendolo, 295

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- Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, 297, 372

- Il Saggiatore, 295

Galilei, Vincenzio (c. 1530-1591), 10, 277, 295-297, 301-302, 333, 370-373

Gallia, 225

Gallieno, Publio Licinio, imperatore romano Gellio, Aulo, 72, 356 gematria, 208

Genesi, 36, 123, 170, 203, 247

Genova, 229 geometria, 27, 30-31, 33, 39, 81, 95, 104-105, 108-114, 122, 134, 138-140, 144, 149, 153154, 156, 159, 162, 168, 175, 178, 189, 207, 239, 244-246, 265, 268-269, 277, 284, 294, 309, 324-325, 333, 367

- a Babilonia, 39

- nella creazione del mondo dei pitagorici, 149

- in Egitto, 31, 33

- Euclide, 172, 178-180

- e filosofia, 324

- origine del termine, 27

- solidi, 124, 150-152, 173-175, 274-275, 277, 292, 361 geomori, 27, 44, 48, 100

Gerardo da Cremona, 244-245

- traduzione degli Elementi di Euclide, 245

Gerberto di Aurillac (futuro papa Silvestro II), 246

Gerusalemme, 202-203, 229, 311

Gesù di Nazaret, 23, 36, 85, 147, 158, 201, 219, 222, 235, 253254,308

Giamblico di Calcide (c. 260-330), 7, 9, 23-24, 28-33, 37-38, 41 397

42, 45-47, 52-61, 66, 69, 73, 75, 86-88, 90, 97, 113-115, 166, 169, 176-177, 179-180, 196, 198, 207, 216, 220-221, 253, 353, 361

- su Pitagora a Babilonia, 38-41

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- Vita pitagorica, 23, 86, 220, 353

Gibbon, Edward, 218, 365

Gibran, Kahlil, 197

Gingerich, Owen, 276

Giobbe, 239, 293 giochi olimpici, 43-44, 47-49, 58, 65, 70, 74, 181, 327 giochi pitici, 48

Giovanni, Vangelo di, 36

Giovanni di Salisbury, 247

Giove (pianeta), 213-214, 271275, 278, 280, 285, 292

- e Saturno, grandi congiunzioni, 271,272

Giuba II re di Numibia, 193

Giuliano l'Apostata imperatore romano, 220

Giuliano il Teurgo, 256

- Oracoli caldei, 256

Giuseppe, Flavio, 32, 65

Giustiniano I imperatore bizantino, 227

Glauco di Reggio, 81

Glinka, F.N., 312

Godei, Kurt, 339-341

- incompletezza, dimostrazione o teorema di 340-341

- visione pitagorica della matematica, 340 graecum est: ignoranza del greco nel Medioevo, 227 grandi congiunzioni di Giove e Saturno, 271, 272

Grant, Michael, 218

Graz, 271, 281, 284 greco, traduzioni in latino di opere classiche dal, 187, 224, 228229, 244-245, 247, 249, 251, 253, 280, 283, 285 greco-romana, cultura, 184, 191, 194, 222, 229

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Guthrie, W.KC., 68-69, 88, 89, 171, 207, 353-360, 363-364

Halley, Edmond, 297

Hammurabi imperatore babilonese, 38, 97

Hart, Rob, 252

Hasan al-Katib, 237

— numeri come chiave per la comprensione del corpo e dell'anima umani e dell'universo, 237

Hasan ibn Shakir ibn Musa (X secolo), 9

Hawking, Stephen, 22, 334-336, 342,373

— Dal Big Bang ai buchi neri, 336

Haydn, Franz Joseph, 302

Heisenberg, Werner, 341

Herwart von Hohenburg, Johann Georg, 277, 280, 283-284

Hilbert, David, 340

Hofstadter, Douglas R„ 340

Hooke, Robert (1635-1703), 10, 298

Hunain ibn Ishaq al-'Ibadi (Johannitius, 810-877), 9, 233-236, 238-239

- traduzioni di, 234

- Massime di filosofi (Nawadir alFalasifa), 234

Huygens, Christiaan, 297

Iceta, 176, 262

Ieoh Ping Mei, 311

398

Ikhwan al-Safà' (Fratelli della Purezza), 9, 235-236, 366 illimitato (o senza limite), 30, 36, 83, 103, 123, 127, 152-153, 167-170, 177, 202, 275, 349

Illuminati (Alumbrados), 304

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Illuminismo, 303-304, 306-309 impero bizantino, 229

- sue conquiste in Italia, 229 impero romano, divisione fra Oriente e Occidente, 224-225 impero romano d'Occidente, inizio dei secoli bui, 223-229 incommensurabilità, 101-105, 108, 113-114, 139 indeterminazione, principio di, 341-344, 349

India, indiani, 94-95, 105, 201, 208, 219, 247, 356

Institute for Advanced Study a Princeton, 339 invasioni barbariche, 225, 238239, 242

Ione di Chio, 62, 65 intervalli musicali, 76-78, 80, 124, 139, 171, 190, 212-213, 240, 246, 277-280, 285, 287-288, 291-293

- esperimento con i dischi di bronzo di Ippaso da Metaponto, 80-81, 86-88, 113, 115

- e l'armonia delle sfere, 171, 190, 212-213, 240, 246, 277293

- ricerche di Pitagora sugli, 7677, 78, 80

Ipparco pitagorico, 195

- lettera di Liside a, 195, 198, 261-262, 363, 368

Ippaso di Metaponto, 80-81, 88, 113-115

- cronologia di, 115

- presunto scopritore dell'incommensurabilità, 113

Ippocrate , 117, 194

Islam, islamismo,221, 229-238, 242-243, 247, 260, 263

- sua civiltà nella penisola iberica nel Medioevo, 243

- conservazione della cultura greca, 221, 229-230

- cultura ed enciclopedie, 235237

- traduzioni arabe di opere scientifiche e filosofiche greche, 233234, 243

Isocrate, 33

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Italia, 27-28,37,42,46-47,50-52, 64, 68, 113, 116, 132-134, 173, 181-182, 189, 225-227, 229, 239, 246, 256-260, 297

- settentrionale, 246, 266, 317 italica (o pitagorica), filosofia, 116, 158, 165-166, 184 vedi anche pitagorica, scuola Jefferson, Thomas, 266, 325

Jevons, William Stanley, 313

Johannitius, vedi Hunain ibn Ishaq al-'Ibadi Jones, Inigo, 266

Julia, insiemi di, 343

Kahn, Charles H. 176, 219, 357 kanon (strumento musicale a una sola corda), 77, 79, 86

Kant, Immanuel, 314, 325

- Primi princìpi metafisici della scienza della natura, 314

Keplero (Johannes Kepler), (15711630), 10, 21, 22, 149-150, 176, 211, 214, 240, 267, 268 399

298, 270, 301-303, 320-321, 330, 333, 342, 346, 369-370

- abitanti di altri mondi, 293294

- accordo planetario del 1599, 279

- grandi congiunzioni di Giove e Saturno, 271-272

- leggi dei moti planetari, 297; prima, 282; seconda 282; terza, 289

- a Linz, 283-284

- madre di, 284

- mogli di: Barbara, 283-284; Susanna, 284

- perché esistono solo sei pianeti?, 274

- i pianeti al momento della creazione, 303

- pitagorismo di, 269

- scopre il dodecaedro elevato, 150

- alla Stiftsschule di Graz, 270, 281, 283-284

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- teoria armonica, 278-281, 284, 289-294

- teoria dei poliedri, 274, 275, 276-277, 279, 281, 289-290, 293, 297

- traduzione degli Harmónica di Tolomeo, 214

- all'università di Tubinga, 268271

- Astronomia nova sive physica caelestis, 282, 284, 290, 298

- Mysterium cosmographicum, 272, 275-278, 369

- Harmonices mundi, 150, 280, 283-284, 297

- Tabulae rudolphinae, 284, 297

Kerr, Richard, 345

Kindi, Abu Yusuf al-, 235 kouroi, 28

Koestler, Arthur (1905-1983), 11, 22, 316, 328-330, 331, 332, 334-335, 354, 372

- sulla segretezza pitagorica, 330

- The Act ofCreation, 329

- The Ghost in the Machine (Il fantasma nella macchina), 329

- The Sleepwalkers (/ sonnambuli), 329, 372

Koyré, Alexandre, 150, 262

Kuhn, Thomas, 242, 367

Lao-tzu, 329

Laplace, Pierre Simon de (17491827), 10, 300

Leibniz, Georg Gottfried Wilhelm (1646-1716), 10, 299

Leone X papa, 256

Leone XIII papa, 312

Lettera di Liside a Ipparco, 195, 198, 261-262, 363, 368 letteratura classica, conservazione e riscoperta della, 223-226, 243, 251, 262+-263

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Liceo, scuola aristotelica ad Atene, 165, 200 limitante (o limitato o limite), 30, 36, 83, 103, 123, 127, 152153, 167-170, 177, 202, 275, 349

Lineare B, 82

Linné (Linneo), Karl von (17071778), 10, 299, 300, 314

Lunar Men di Birmingham, 299 lira, 12, 64, 66, 76, 79, 106, 124, 214

- a quattro corde, 240

- a sette corde, 77, 78, 190, 242

Liside di Taranto, 143, 195-196

400

- lettera a Ipparco, 195, 198, 261-262, 363, 368

Locri, 57, 60, 89

Londra, 266, 329, 333

Longino (213-273 d.C.), 9, 217

Lorenzo de' Medici, detto il Magnifico, 253, 264

Louvre, ingresso a piramide al Louvre, 311

Luna: - suoi abitanti secondo i pitagorici, 126

- durata del giorno lunare secondo Filolao, 126

- spiegazioni della luce riflessa della, 126

Lutero, Martin, 268

Macrobio, Ambrosio Teodosio (395-423 d.C.), 9, 224-226, 228, 230, 247, 365

- sul Somnium Scipionis, 225

Magna Grecia, 18, 51, 52, 57-58, 115-116, 132-133, 137, 177178, 195-196, 229, 359

Mandelbrot, insiemi di, 343

Manilio, 181

Maometto (Mohammad), 235

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Marcella, moglie di Porfirio, 219220

Marduk, 39-40

Maréchal, Sylvain, 305, 307-308, 310-312

- Voyages de Pythagoras, 307-308

Marte, 213-214, 239-240, 273274, 278, 280, 282, 285, 292, 341 massoneria, massoni, 303-304, 306-308

- simboli geometrici della, 305, 308,311

Màstlin, Michael (1550-1631), 10, 269, 274, 277, 279-281, 284,294, 369 matematica, 20, 35 , 76, 92, 102105, 108-109, 113, 117, 124, 130-131, 133, 137, - di Archita, 137, 138, 139-143

- a Babilonia, 39-41, 95, 97, 99

- dimostrazione, 103

- in Egitto, 33

- greca, 102,104,106, 138,207, 245

- paleobabilonese, 99, 102, 103, 108

- pitagorica, 117, 172, 176, 19180, 223, 228, 245, 255

- sua riduzione a logica in Bertrand Russell, 317

- rapporti matematici nella struttura del mondo, 93, 146-154

Matteo, Vangelo di, 254

Maxwell, James Clerk (18311879), 11,314-315

«Medesimo» e «Diverso» nel Timeo platonico, 149 medicina, 35, 49, 117, 119, 128, 198, 234-235, 329

Mediterraneo e Vicino Oriente nell'antichità, 16, Melantone, Filippo (1497-1560), 10, 268

Melisso di Elea (inizio-fine del V secolo a.C.), 7, 121-122

- Verità, 122

Memorie pitagoriche, 184, 194196, 362

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- loro datazione, 194

Menelao re di Sparta, 66-67

Menfi, 34, 36, 147

Menone, storico della medicina allievo di Aristotele, 119

401 mensa pythagorea, 247

Mercurio, 190, 213-214, 239, 274, 278, 285, 291-293

Merkava, misticismo ebraico, 256

Mesopotamia. 25, 31-32, 38, 4041, 65, 93, 95, 99, 201, 208, 219, 354, 357

Metaponto, 18, 50,74-75, 80, 87, 89, 113, 116, 188

- Scuola di Pitagora, 89

- Tavole palatine, 89

- Tempio delle Muse, 88 metodo scientifico, 81, 276, 294, 297-298, 328, 333

Mileto, 28, 30, 60

Milone di Crotone, 48, 58,44, 86, 88, Milton, John (1608-1674), 10, 302 missionari nel Medioevo cristiano, 224 misticismo: - degli Alumbrados, 304

- ebraico, 203, 256

- filosofico dell'Occidente, 326

- numerico, 308

- orientale, 326

- pitagorico, 308, 318

- codice mistico della Qabbala, 256

- e raziocinio, 317

Mnesarco (figlio di Pitagora), 73, 116

Mnesarco (padre di Pitagora), 2325, 27-28, 43, 61, 73, 75

- origine di, 24

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Moco, profeta fenicio, 32

Moderato di Gades (poi Cadice), (I secolo d.C.), 9,205-206,209 monoteismo, 37, 202-203, 235

Montecassino, 224

Montessori, Maria, 85

Morgos, 46,65,81

Mosè, 203, 208, 252, 308

Mozart, Wolfgang Amadeus, 306

- Ilflauto magico, 306

Muia, 73-74 musica, 19-21, 64, 76-77, 79-83, 88, 93, 103, 108, 113, 115, 117, 119, 124, 127-128, 134, 139-142, 144-145, 148, 154, 157, 171, 177, 186, 190, 192193, 203, 207, 210-214, 224, 226, 229, 233-235, 237-242, 245-246, 253-254, 260, 264268, 277-280, 284-285, 287288, 291-295, 299, 301, 305, 311, 313-314, 318, 320, 329331, 336, 345, 349 musica (o armonia) del cielo: - delle sfere, 163, 171, 211, 213, 226, 229, 238, 240-241, 245246, 253, 267, 277-278, 282, 287, 303,311,314, 345, 373

- nota più bassa finora «ascoltata» (un buco nero nell'ammasso galattico di Perseo), 346

- nuove armonie celesti, 345346, 373

- perché gli uomini non la percepiscono, 172, 190

- «suoni dal baby universo», 346 musica humana (rapporto della musica all'anima umana), 229, 245 musica instrumentalis, 229, 246 musica mundana, 229, 245-246 vedi anche musica delle sfere Myskellos, 50, 57

Nabucodònosor II imperatore babilonese, 38-39, 41, 354

402

Napoleone, Bonaparte, 311-312

Neante, 24, 28 neopitagorismo, neopitagorici, 54, 170, 196, 199, 202, 208-210, 218, 228, 245, 247, 254

- spesso indistinguibile dal neoplatonismo, 211, 226

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Nerone, Lucio Domizio, imperatore romano, 200 nestoriani, 233

Newton, Isaac (1642-1727), 10, 21, 22, 247, 249, 297-299, 308, 336, 339, 371-372

- leggi della gravitazione, 298, 308

- scomposizione della luce del Sole col prisma, 299

- Philosophiae naturalis principia mathematica, 298

Niceforo, Grègora, 214

Nicomaco di Gerasa (fi. c. 100 d.C.), 9, 56-57, 207-208, 213, 219, 224, 226, 229, 237, 245, 247, 368

- Harmonicum enchiridium, 207

- Introductio arithmetica, 207, 224, 245

- Introductio musica, 229

- Theologia arithmetica, 207

- Vita Pythagorae, 208

Nigidio Figulo, Publio (fi. non dopo il 98-45 a.C.), 8, 187-188, 199

- opere di, 187

Nilo, 33, 190

- inondazioni del, 31, 36

Novara, Domenico Maria, 260 nove, numero, 149

Novecento: secolo pitagorico, 334347

Numa Pompilio, re di Roma, 8, 26, 181-182, 184, 204

- governo di (c. 715-673), 8, 26

- non fu allievo di Pitagora, 181

Numenio di Apamea (fi. verso la fine del II secolo d.C.), 9, 208211, 219

- i tre dèi di, 209-210

- vita di, 208

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- Sul bene, 208-209 numerali: - arabi, 246-247

- gobar, 246

- romani, 247 numeri: - Agostino sulla loro importanza nella città di Dio, 223

- nella Bibbia: interpretazione dei, 247

- come chiave per la comprensione dell'universo, 18-19, 37, 79, 81, 101, 108-109, 156, 167168, 226, 245, 268

- dispari, 82, 102

- eterni, 321

- interi, 101, 339-340

- come invenzione, non come scoperta (Russell), 320

- irrazionali, 102

- mistici, 308

- naturali, 82

- pari, 82, 102

- partecipati, 255

- perfetti, 82, 83, 124, 237

- potere dei, 19-20,86,176,245, 268, 300, 334

- primi, 305, 308

- razionali, 102

- triangolari, 82 numero: «Tutte le cose che si co 403 noscono hanno numero» (Pitagora), 76-90 numerologia, 221, 247, 308

Ocello Lucano, 8, 195, 203

- eternità del mondo, 195

- De universi natura, 195, 203

Odoacre re d'Italia, 226-227

Olimpia, 43-44, 48-49, 181

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- Giochi di, Olimpiadi, 44, 48, 181, 327

Omero, 43,63,66,106,184,203, 355

- Iliade, 66

- Odissea, 123, 124

Onesicritico, 95 opposti, 30, 123, 128, 140, 149, 153, 169-170, 194, 202,211

Oracoli caldei, 256 oracoli di Delfi, 202

Oresme, Nicola d' (XIV secolo), 10, 246

Orfeo, 25, 62, 64, 75, 163, 219 orfismo, 64-65,69,163,256,316, 326, 330

Origene, 204

0rsted, Hans Christian, 11, 314 ottava, 77-80, 102, 124, 127, 171, 212, -213, 236-238, 240, 253, 255, 277-279, 292, 298

Ottaviano, Gaio Giulio Cesare, 181 otto, numero, 148 oud (strumento musicale), 235236

Ovidio Nasone, Publio (43 a.C.17 d.C.), 9, 204

- Metamorfosi, 204

Padova, 173, 246, 277

Paine, Thomas, 307, 311

- Common sense, 307

- An Essay on the Origin of Free Masonry, 308

Palermo, 244

Palladio, Andrea (1508-1580), 10, 22, 257-258, 264, 265, 266267, 369

- edifici palladiani in Inghilterra, 266

- princìpi della sua architettura in edifici pubblici degli Stati Uniti e in Europa, 266

- sulle proporzioni armoniche in architettura, 264-265

- Villa Barbaro, 266

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- Villa Rotonda, 266

- I quattro libri dell'architettura, 257, 264-266

Paolo, san, 54, 222, 241, 249, 296

- Lettera ai Corinzi, 249

Paolo III papa, 205, 261, 368 parelio, 188

Parigi, 305,311-312, 333 parigini, filosofi (sec. XIV), 311

Parma, 254

Parmenide (515 o 540-metà del V secolo a.C.), 7, 120-122, 126, 358

- Sulla natura, 121-122

Partenide (Parthenis), 24, 28

Patte, Pierre, 309

Peloponneso, guerre del, 118, 146

Pericle, 121, 358 perielio, 291-292

Petrarca, Francesco (1304-1374), 10, 250-251,252,253, 283 pianeti, 141, 148, 187, 203, 229, 240-242, 271-272, 274

- cinque, 125, 149

- canti, 254

- errori nella determinazione del404 le loro posizioni accumulatisi nell'antichità e nel Medioevo, 260

- loro moti apparenti sono in parte una conseguenza del moto della Terra, 126

- orbite dei, 163

- otto o nove pianeti, 276

- periodi, 238, 254, 270

- sette (compresi Sole e Luna), 239

Pico della Mirandola, Giovanni (1463-1494), 10, 254-256

- suo interesse per il cabalismo ebraico, 256

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- «Quattordici conclusioni secondo la matematica pitagorica», 255

- «Novecento conclusioni», 255

Pietro, san, 204 pi greco: - sua conoscenza a Babilonia, 40

- sua conoscenza in Egitto, 34 piramide (solido geometrico), 150, 175, 305,311

- sua associazione col fuoco, 174 piramidi di Giza, 84

- diChefren, 38

- di Cheope, 35-36, 38, 84

- di Micerino, 38

Pirro pescatore di Delo, 66-67

Pitagora (c. 570-500 a.C.), 15,248

- anima divina universale e immortale, 127

- armonia musicale, 18

- ascendenza divina di, 23

- a Babilonia, 38-41

- biografia essenziale, 18-19

- biografie di, 22

- a Creta, 45, 65

- a Crotone, 7,18,52-60,74,8687, 89, 117

- sulla dieta, 43, 69-71, 73, 200, 313

- dieta vegetariana, 40, 42, 70, 109

- discepoli di, 43, 56, 144, 157, 181-182

- sulle donne, 55

- in Egitto, 30-38, 41, 93

- come esempio di «re filosofo» platonico, 59

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- e le fave, 71-72, 86-87, 133, 185,189

- figli di (Mnesarco, Muia, Telauge, Arignota), 73, 116

- e Filolao, da un libro di Gaffurio, 119

- fratelli di (Eunosto e Tirreno), 25, 28

- insegnamenti di, 54-55

- leggi di, 76, 308, 312

- «miracoli di», 74-75

- al monte Carmelo, 32

- a Metaponto, 18, 89, 116

- morte o sparizione di, 7

- sua nascita e infanzia, 27-28; secondo Giamblico, 23-24, 28

- il numero nella natura, 79-90

- opere di, 61

- sua presenza nella storia, dall'antichità ai tempi moderni, 22

- sulla reincarnazione o trasmigrazione delle anime, 17-18, 35, 41, 65, 69, 117, 127, 158, 163, 174, 184, 201, 204-205, 210, 223, 251

- ricordi di vite passate, 65-67

- ricette vegetariane preferite da, 70

- sul sesso, 72-74

405

- sua scala musicale dei pianeti ricostruita da Keplero, 286

- teorema di, 19-20, 40, 91-97, 100, 103, 109, 162, 179, 192, 312, 322-323, 347, 351, 361; possibile originalità della riscoperta del, 108

- uditori (acusmatici), 56, 61, 114-117, 143-145, 172, 184, 206, 296, 313

- viaggi da lui compiuti in gioventù, 28, 31-38, 65, 208

Pitagora figlio di Eratocle, allievo del filosofo, 42

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- Sull'atletica, 42 pitagorica, scuola, 70, 73, 88, 116, 142 vedi anche pitagorici pitagorici, 15, 17-18, 20-22, 24, 30, 53-54, 56-60, 62, 64-65, 68-74, 76, 78-79, 81-86, 8889, 93, 100, 102-109, 113152, 154, 156-158, 163-177, 180, 182, 185-187, 189-191, 193-213, 215, 217, 220, 223, 226, 235, 237, 241, 246, 253267, 269, 273-275, 277-278, 285, 287-288, 296, 298-300, 303, 305-308, 311-313, 315316, 318-325, 327, 330, 332, 334, 338-340, 343-345, 349, 353, 359-360, 363, 370

- «acusmatici», 56, 114-117, 143-145, 172, 184, 206, 296, 313

- «matematici», 114-117, 119, 133, 142, 144-145, 172

- dieta vegetariana dei, 313

- elenchi di loro nomi conservati da Giamblico, 86, 177

- immortalità dell'anima, 129

- incommensurabilità, 101-105, 108

- loro ruolo pubblico a Crotone, 58

- seconda decimazione dei, 7

- segretezza dei, 15, 17, 34, 6061, 113, 261-263, 330

- silenzio, 60-61, 302, 329; i due significati del silenzio pitagorico, 61 pitagorismo e rivoluzioni politiche, 310-313

- Cospirazione del Triangolo Spagnolo del 1816, 310, 312

- insurrezioni europee nell'Ottocento, 312

- e massoneria, 312

- Rivoluzione russa del 1825, 312-313

Pitai (Pythais), 24

- origine di, 24

Pizio, 26

Platone (427-347 a.C.), 8, 33, 36, 59, 71-72, 76, 87, 91, 102, 104-105, 108, 116-118, 120, 124, 127-158, 130, 162-170, 173, 175-177, 182, 186, 189191, 194, 196-199, 202-203, 205-210, 212, 218, 220-221, 223-224, 227, 234-235, 238, 244-245, 247, 249, 251-253, 255-256, 262, 264, 265, 305, 308, 316-319, 321-322, 325, 330, 338, 344, 353, 358-360, 368, 370, 372

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- anima del mondo, 148, 157

- anime dei pianeti, 149

- armonia delle sfere, 163

- astronomia nel Timeo, 148149; il Diverso (l'eclittica), 406

148-149; il Medesimo (l'equatore celeste), 148-149 sua conoscenza dei pitagorici, 17,21 corrispondenza degli elementi con solidi regolari, 151-151 creazione e destino dell'anima, 146, 157-163 demiurgo di, 36, 147 dialettica, 155-156, 221, 244245 sulle donne, 154 immortalità dell'anima 129, 163 regno delle Forme o Idee, 155156, 240, 327 reminiscenza, 104, 158, 163, 201, 319 alla ricerca di Pitagora, 132-145 solidi regolari, 150-152, 173175, 274-275, 292, 361 struttura matematica del mondo, 146-154 temi pitagorici nella filosofìa di, 146, 163 triangoli rettangoli come componenti fondamentali dell'universo, 108 l'Uno e la Diade indefinita, 153, 167, 169-170, 194

Apologia di Socrate, 158

Fedone, 118, 128-129, 143, 152,163

Fedro, 163, 361

Filebo, 152

Gorgia, 153, 158, 360, 381

Menone, 104-105, 119, 158162, 191, 244, 265, 267, 319, 322

La repubblica, 140, 154, 163, 181, 183, 186, 188, 190, 218, 360

- Teeteto, 29, 158, 353

- Timeo, 108, 146-151, 154, 173, 176-177, 184, 186-187, 189, 194, 221, 224, 244-245, 247, 249, 319, 360

Plinio il Vecchio (23-79 d.C.), 8, 185, 188, 225, 285, 362

Plotino (204-270 d.C.), 9, 208, 216-220, 253

- Enneadi, 218

Plutarco di Cheronea (45-125 d.C.), 9, 69, 91, 120, 170, 204, 205, 234, 262, 364

- Placitaphilosophorum, 205,262

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- Vite parallele, 91, 204, 358

Plutone, dio degli inferi, 144

Plutone, pianeta del sistema solare, 276

Policrate, tiranno di Samo (VI secolo a.C.), 7, 33-34, 44-46, 49-50, 117, 307

- governo di (535-522 a.C.), 7 poligoni regolari, 273-274

- inscatolati nel sistema solare di Keplero, 273 poliedri regolari, 274

- inscatolati nel Mysterium Cosmograpbicum di Keplero, 275

- noti già da tempi molto antichi, 173-174

Porfirio (Malco, e. 233-306 d.C.), 7, 9, 24, 31, 33-34, 36-37, 4346, 52-53, 55-56, 58-62, 6566, 70, 73, 81, 87-90, 93, 105, 158, 166, 176-177, 196, 198, 208, 216-220, 226, 253, 283, 353-355, 364

- sul soggiorno di Pitagora in Egitto, 33-38

407

- vita di, 216

- Contro i cristiani, 219

- Vita di Pitagora, 56, 219-220

- Vite dei filosofi, 220

Posidonio di Apamea (c. 135-51 a.C.), 8, 186-187, 197

- vita, 186 postulati, 324

Praga, 281, 283

Prati, Gioacchino, 309

Priestley, John, 249 primi princìpi (archai), 122-123, 152 prisca sapientia, 105 problema di Delo o della duplicazione del cubo, 138

Prode, 26

Proclo, 207, 221-222, 253

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- commento al Timeo, 221 progressione punto-linea-superficie-solido, 124, 153, 175, 203

Prometeo, 152-153, 210, 305

Psammetico I faraone, 33 pseudopitagorica, letteratura, 31, 53, 74, 170, 185, 193, 195, 197-198,209, 308,311, 353

- Mirabiliaplantarum, 185

Ptah, 37, 147

Qabbala, 256 quadrivio, 17, 134-135, 144, 154155, 196, 229, 238, 244-246, 259, 268, 335 quantistica, teoria, 315, 337-338, 341-344, 349 quarta, 22, 77-80, 124, 139, 147, 212, 2141, 236-238, 240, 246, 255, 271, 277-280, 285286, 292 quattro, numero, 82, 84-85, 103, 124, 148, 153, 175, 186, 203 quinta, 77-80,124,139, 147,212, 237-238, 240, 255, 271, 277, 285-286, 292 radiazione cosmica di fondo, 346

Raimondo di Toledo (11251152), 9, 243, 245 rapporti superparticolari o epimerici, 139

Ravenna, 227-229

Rawson, Elizabeth, 187 razionalità: - di Dio (secondo Tennessee Williams), 345

- disegno intelligente del mondo, 344

- della natura, 146, 284

- nei rapporti dell'armonia musicale, 331

- dell'universo, 15, 101, 104, 139, 156, 168; attraverso i numeri, 101, 146, 156, 168, 223, 315, 321, 334, 337-339, 344345

Reginone di Priim (m. 915), 9, 241-242

- disposizione armonica nei moti celesti, 241-242 reincarnazione (trasmigrazione delle anime, metempsicosi), 17-18, 35,41, 65-66, 69, 117, 127, 158, 163, 174, 184, 201, 204,210, 223, 251, 308-309 retorica, 245, 305

Reuchlin, Johann, 256 riconquista dell'Italia ai barbari da parte dei bizantini, 229

Reconquista della Spagna e del Portogallo ai musulmani, 243

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Rivoluzione francese, 21-22, 303306, 311

408 rivoluzione scientifica, 260, 297

Robson, Eleanor, 98-99, 102, 108

Rodi, 183, 186-187

- Colosso di, 187

Rodolfo II, imperatore del Sacro Romano Impero, 281-283

Roma, 23, 51-52, 181-187, 193, 216-219, 222, 225-227, 229230, 255, 365

- sua espansione nell'Italia del sud, 51-52

- saccheggiata dai vandali (455), 226

- saccheggiata dai visigoti (410), 225-226

- Terme di Caracalla, 217

Romolo Augusto (detto AugustoIo), imperatore di Roma, 226

Rousseau, Jean-Jacques, 325

Royal Society di Londra, 299

Ruggero re di Sicilia (1095-1154), 9, 244

Russell, Bertrand (1872-1970), 11, 21, 22, 55,316-329, 319, 333, 339-340, 355, 365, 371-372

- analisi logica, 326-328

- sull'incommensurabilità, 321322

- i numeri come invenzione umana, non come scoperta, 320321, 326

- pacifismo di, 328

- paradosso di, 321-322, 339

- riduzione della matematica a logica, 317

- su Pitagora, 316-328

- su Platone, 318-319

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- Principi della matematica, 316

- Storia della filosofia occidentale, 318,321

- e Alfred North Whitehead, Principia mathematica, 316317

Sacre scritture, loro interpretazione, 343

Sagan, Cari, 346

- Contact, 346

Saggs, H.W.F., 39, 354

Saint-Martin, Louis-Claude de, 311

Salmoside, 75

Salutati, Coluccio, 246 salvare i fenomeni (sózein ta phainómena), 211

Samo, 7,15,18,23-29,31,33,3738, 40-50, 52, 63, 70, 75, 100, 105, 117, 121-122, 125, 202, 212, 262, 305-307, 329, 353

- tempio di Era a, 25, 27, 40, 63

Sapienza, 223

Sargon II imperatore accadico, 208

Saturno (pianeta), 213-214, 240, 271-272, 274-245, 278-280, 285, 287, 291-292 scala maggiore, 148, 171, 288, 292 scala minore, 148, 171, 288, 292 scale cosmiche: - di Cicerone (Somnium Scipionis), 189, 212, 225, 247, 281, 362

- di Platone («mito di Er»), 212

- di Plinio, 212-213

Schrodinger, Erwin, 343

- dualità onda-particella, 343

- il gatto di, 343

Scipione Africano, 181, 188, 190, 211, 281

Scolastica, 242-243, 248

Scoto, Michele, 244

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Scoto Eriugena, Giovanni (c. 815 409 c. 877), 9, 239-241, 244, 254, 278, 366

- sistema astronomico misto geoeliocentrico, 239-240

- vita di, 239

Sefer ha-bahir (Libro dello splendore), 256 sei, numero, 84, 237, 299

Seneca, Lucio Anneo (c. 4 a.C.- 65 d.C.), 9, 199-200, 363

- Lettere a Lucilio, 363

- vita di, 200

Senocrate, 76, 157, 177, 206

Senofane di Colofone, 62,68,106, 121

Senofonte, 146 sesta: - maggiore, 277, 288

- minore, 277, 288

«Sestiani» (Quinto Sestio e figlio, I secolo d.C.), 9, 199-200, 202

Sesto Empirico {fi. III secolo d.C.), 8, 131, 175, 186-187

- Adversus mathematicos, 131

SETI (Search for Extraterrestrial Intelligence), 346 sette, numero, 84-85, 188, 255

Settimio Severo, Lucio, imperatore di Roma, 23, 201, 216-217 sfera (-e), 113, 126-127, 140, 211, 213-214, 226, 229, 305

- corpi nella, 152, 174

- musica delle, 141, 152, 163, 171, 174, 190, 211, 213, 214, 214, 226, 229, 233, 236-241, 245-246, 253-259, 267-268, 274, 275-277, 282, 287-293, 301-303, 309, 311, 314, 345, 373

- delle stelle fisse, 149

Shaduppum, 96-97, 99

Shaffer, Amadeus, 345

Shakespeare, William (c. 15641616), 10, 204, 251, 301-302, 371

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- Antonio e Cleopatra, 204

- Coriolano, 204

- Il mercante di Venezia, 301

- La tempesta, 25

- Timone di Atene, 204

Shelley, Percy Bysshe, 313

Sibari, 7, 50, 57-60, 86, 181

Sidone, 24, 28, 31

Simico, 58

Simmia, 128-129, 143 singolarità, 339

Siracusa, siracusani, 56, 87, 116, 133-137, 153-154, 359

Sirio (Sopdet in Egitto), 36

- sua levata eliaca associata all'inondazione del Nilo, 36

Sicilia, 9, 27, 48, 50, 64-65, 68, 134-135, 137, 165

- traduzioni medievali di opere classiche in, 244

Socrate (c. 470-399 a.C.), 7-8, 106, 118, 128-129, 143, 146, 151-155, 15-159, 161-162163, 183, 188-189, 191, 209, 265-267, 318

- notizie biografiche su, 146

Sofocle, 117 solidi pitagorici o platonici, 150152, 173-175, 274-275, 292, 361

Sozione (I secolo d.C.), 9, 120, 199-200

Spinoza, Baruch, 325

Spagna: - conquista araba della, 230

- conservazione della cultura classica, 229-230, 243

410

- grande civiltà islamica in, 243

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- invasa dai vandali, 226

- moresca, 230

- prestigiose biblioteche fondate dagli islamici, 243

- riconquista cristiana della, 243

- traduzioni medievali di opere classiche in Spagna, 243-244

Sparta, 45, 50, 118, 132, 178

Speusippo, 124, 157, 165, 175, 177, 206

Steenwinkel, Hans van, 266

Stephenson, Bruce, 213-214

Stobeo, 174 stringhe (o corde), teoria delle, 338

Sulle cose incredibili al di là di Tuie, 24, 43-44

Talete (fi. c. 585 a.C.), 7, 28-31, 44, 58, 130,317, 329, 354

- acqua come principio di tutte le cose, 29, 122-123

- osserva un'eclisse di sole (585 a.C.), 28-30, 41

- il ponte sul fiume Halys, 29

Taranto, 8, 24, 47, 50, 87, 89, 118, 120, 132-137, 143, 146, 176, 189, 358

Tarquinio il Superbo, Lucio, re di Roma, 181

Tavole rudolfine, 284, 297 tavoletta di Petelia, 65 tavolette mesopotamiche, 15, 3941, 54, 93, 95-97, 99, 321

- Plimpton 322,96

- di Shaduppum, 99

Teano di Pitonatte (moglie di Pitagora), 73-74, 86, 116, 196

Tebe (Beozia, Grecia), 116, 118, 128, 143, 178, 195

Tebe (Diospolis, Egitto), 34, 37, 93-94

Teeteto, 175 tempo, 203, 325, 335-336 tenditori di corde egizi (c. 1400 a.C.), 94

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Teodorico re degli ostrogoti, 224, 227-229

Teofrasto (372-287 a.C.), 8, 174 teologia, 187, 256, 324, 325

- di Cusano, 258

- egizia, 36-37, 235

- greca, 63-64

- intellettualizzata dell'Europa, 326

- in Keplero, 269

- di Pitagora («antica teologia»), 254-255

- di Pitagora/Platone, 209

- di Proclo, sua influenza sulla teologia cristiana, 221

- scolastica, 255

- di Scoto Eriugena, 240-241

Teone di Smirne (c. 70-130/140 d.C.), 9, 174, 207, 364

- Tà katà tò mathematikón krésima, 2074 teoremi, 31, 180, 207, 324, 340 teoria di tutto (Theory of Everything), 336

Terra: - in Anassimandro, 30

- Antiterra e fuoco centrale, 125127, 233, 309

- in Aristarco di Samo, 125

- centrale in Platone, 163

- come stella in Cusano, 259

- nella cosmologia pitagorica, 17

- inFilolao, 125, 205

- sua nota musicale, 213

- orbita leggermente ellittica, 291

411

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- sfere concentriche del mondo sublunare, 236

- sferica secondo Platone, 152

- sua sfericità e mobilità secondo i pitagorici, 7, 125-126, 176, 308

- in Talete, 29

- teorie della Terra mobile, 125127, 176, 205, 246, 263, 269, 286, 290, 297

- Terra stazionaria, 246, 259, 261-262

- in Tycho Brahe, 281 terza, 277

- maggiore, 78, 277-279, 288, 292

- minore, 78, 277-279, 288 tetrade (tetraktys, o triangolo rettangolo), 82-84, 103, 148, 151, 153, 186, 207, 271, 309

Tiberio (Tiberio Claudio Nerone) imperatore romano, 200 ticonico, sistema, 281

Timeo di Locri, 146, 189, 198, 221

- Sulla natura del cosmo e dell'anima, 198, 221

- Sull'universo, 221

Tiro, 24,27-28, 32,216,226,259

Tirreno (presunto fratello di Pitagora), 28

Tolomeo, Claudio (e. 100-c. 180 d.c.), 9, 21, 139, 211, 212, 213-215, 226, 233, 244, 246, 260, 262-263, 269, 280-281, 283, 285, 287, 321, 368

- Almagesto, 233, 244

- Armoniche, 211, 280-281, 285

Tolstoj, Lev, 313

Tommaso d'Aquino, san, 242, 325 traduzioni medievali di opere classiche: - in Sicilia, 244

- in Spagna, 243-244 tre (numero), 81, 85, 124, 148, 167, 175, 186, 277 triangolo (-i) rettangolo (-i), 15, 92-94, 96, 101-105, 107-108, 138-139, 150-151, 2319, 322, 347, 351-352, 372

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Trinità, 36-37, 249, 310 triplette pitagoriche, 96, 102, 105, 347

Trissino, Gian Giorgio, 264 trivio (grammatica, retorica e dialettica), 244-245, 259, 268

Troia, 26, 184

- guerra di, 26, 52, 66-67, 184

Tuberone, Quinto, 188-189

Tubinga, 268-270

Turgenev, fratelli, 312 unificazioni di forze naturali, 314315, 337-338 unità dell'intero essere, 68, 337 unità dell'universo, 336-339 università, 270

- in Europa, le prime, 242

- medievali, piano di studi base delle, 244 uno, numero, 81, 84-85, 124, 148, 175, 186, 206-207, 277

Uraniborg, 266-267, 282, 369 vandali, 224-226, 229

Vangeli, 219, 221, 249

- di Giovanni, 36, 147, 223

- di Matteo, 254

Varrone, Marco Terenzio, 188

- Hebdomades, 188

Vatinio, 188, 362

412 vegetarianesimo, 35, 40, 42, 109, 144, 200, 313

Venere (pianeta), 190, 213-214, 239, 273-274, 278, 280, 285, 291-292, 295-296

- fasi di, 295-296

Venezia, 250, 266

Versi aurei di Pitagora, 197, 200, 311

Vespasiano, Tito Flavio, imperatore romano, 200 visigoti, 225-227

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Vitruvio Pollione, Marco (fi. I secolo a.C.), 8, 106-107, 191193, 256, 264-264, 357, 362

- simmetria dei gradini di una scala, dal Vitruvio di Cesariano (1521), 192

- De architectura, 107, 191, 256, 357, 362

Vivanti, Corrado, 262

Walker, Christopher, 97

Watson, James, 337

Watzenrode, Lucas, 259

Weidner, Ernst, 95, 97

Weishaupt, Adam, 303-304, 306310

- Pythagoras, 307

Wheeler, John Archibald, 336, 337,373

Whitehead, Alfred North, 316317, 372

Whittle, Mark, 346

Wilde, Jane, 335

Williams, Tennesse, 345

Wordsworth, William (17701850), 11, 303

Zalmossi di Tracia, 44

Zenone di Elea (c. 490-dalla metà alla fine del V secolo a.C.), 7, 122, 175

- Contro i filosofi, 122

Zenone, imperatore romano d'Oriente, 226

Zeus, 25, 45-6, 49, 130 zodiaco, 187, 237-239, 271-272 zoroastriani, 256

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INDICE GENERALE

Cronologie dei protagonisti e altre date significative

Parte prima - Il VI secolo a.C.

«Alla congiunzione di leggenda e storia»

1. «Il chiomato di Samo»

2. «Regole molto difficili, del tutto diverse da quelle delle istituzioni dei greci»

3. «Un uomo di immenso sapere»

4. «La mia vera razza è celeste»

5. «Tutte le cose che si conoscono hanno numero»

6. «La famosa figura di Pitagora»

Parte seconda - Dal V secolo a.C. al VII secolo d.C. 111

7. Un libro del pitagorico Filolao

8. Platone alla ricerca di Pitagora

9. «Questa rivelazione ce l'hanno tramandata gli antichi, che erano più valenti di noi e vivevano più vicino agli dèi»

10. Da Aristotele a Euclide

11. Il Pitagora romano

12. Con occhi neopitagorici e tolemaici

13. Riepilogo dell'antichità

Parte terza - Dall'VIII al XXI secolo

14. «Nani sulle spalle di giganti». Pitagora nel Medioevo

15.«Dove la natura si mostra più eccellente e più completa»

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16. «Quando le stelle del mattino cantavano tutte insieme»: Giovanni Keplero

17. Illuministi e illuminati

18. Giano bifronte

19. I labirinti della semplicità

Epilogo. Musica o silenzio

Appendice

Note

Bibliografia

Ringraziamenti

Indice analitico

Indice generale