la classe non è acqua

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libro realizzato dagli studenti dell'istituto Giorgi di Milano

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LA CLASSE NON È ACQUAStorie di classe e d’inchiostro

IIS Giovanni Giorgi, MilanoA cura di Chiara LeoniImpaginazione di Niki LeckFinito di stampare nel mese di Giugno 2015

INDICE

Prefazione p. 6di Chiara Leoni

La promessa p. 9di Daniel Narciso Alejandro Avalos

Attori dilettanti in cerca di un teatro p.13di Angelo Iannella

Martina p.17di Guillermo Rioja Rivera

Due ragazzi p.23di Luca Naso

La scelta p.25di Osiris Jonathan Guerrero Flores

Una giornata spericolata p.29di Pasquale Piscelli

La Setta degli Assassini p.35di Ellis Shqarthi

Giovani promesse p.39di Jacopo Minelli

La storia di un bravo ragazzo p.44di Giovanni Ventricelli

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giornata di lavoro, perché la 3A MEC è una classe di lavo-ratori, anzi di gran lavoratori. Proprio per la loro immedia-tezza, proprio perché scritte di getto, però, credo che queste storie siano state capaci di raccogliere, come delle fotografie istantanee, le ansie e i sogni più profondi degli autori.

Non nego che alcune di quelle storie mi abbiano profon-damente turbato: la morte, il fallimento, la sopraffazione, l’ingiustizia, la vendetta, sono motivi ricorrenti. Alcune di quelle storie rivelano, in maniera cruda e disperata, tutto il disprezzo per la banalità della violenza e della prevaricazio-ne, per l’imposizione di regole e tradizioni incapaci di adat-tarsi all’unicità di ciascun essere umano, altre lo sublimano, ambientando le storie in scenari fiabeschi. Alcune storie par-lano di una quotidianità difficile, di sogni abbandonati sotto il peso incalzante di una prosaica necessità.Di queste storie, non ho cambiato niente, le leggerete così come sono arrivate nelle mie mani, semplicemente emendate dagli errori grammaticali e ortografici più evidenti. Io, per questo libro, mi sono riservata il compito della correttrice di bozze.

Buona lettura.

PREFAZIONEChiara Leoni

Era novembre inoltrato quando sono entrata per la prima volta in classe. I ragazzi erano curiosi, partecipi, facevano do-mande, volevano sapere di più su ogni argomento. Abbiamo parlato di Letteratura, di Storia, ma anche d’Arte, delle loro professioni, delle loro difficoltà e aspettative.

Questo libro è nato da una chiacchierata. Avevamo appena affrontato, nel corso di alcune lezioni, un grande novellista, anzi, il novellista per antonomasia, il padre della narrativa moderna, Giovanni Boccaccio. Ci siamo chiesti cosa sarebbe saltato fuori se avessimo provato a mettere insieme le nostre storie. Avevo già avuto, l’anno scorso, l’esperienza della reda-zione di un opuscolo con alcuni studenti. Un paio di classi di adolescenti di un istituto alberghiero, chiassose e vivaci, aveva dato vita a una “Guida di Milano”, fresca, curiosa, pie-na di suggerimenti su discoteche per teenager, pub, ristoranti e scorci inusitati dell’hinterland milanese.

Così, questi ragazzi, seguendo un mio semplice suggerimen-to, hanno deciso di mettersi all’opera. Non avevamo molto tempo, perché c’erano i programmi di Storia e di Letteratura da portare a termine, quindi abbiamo trasformato un com-pito in classe nella redazione di un racconto. Queste storie sono nate di getto, in un paio d’ore, o poco più. Tutte sono uscite dalle mani e dalla testa di ragazzi stanchi dopo una

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PREFAZIONE

LA PROMESSADaniel Narciso Alejandro Avalos

Non ricordo esattamente come successe quello che vi rac-conterò, ricordo che ero andato a visitare alcuni amici che raramente ho il piacere di vedere, per colpa della distanza che ci separa. Per questo, quando ci troviamo, possiamo pas-sare un’intera giornata parlando di aneddoti che abbiamo vissuto in altri momenti. Di solito, le nostre conversazioni possono durare fino alla mattina successiva, e quella volta non era stata un’eccezione. Dopo aver detto addio ai miei amici, avevo cominciato a camminare per le strade solitarie verso casa mia, però, dopo qualche minuto, avevo visto una bella ragazza che cammi-nava dall’altro lato della strada, una cosa che mi sembrava troppo strana a quell’ora. Nel momento nel cui lei mi stava passando a fianco, non ero stato in grado di resistere al desi-derio di parlarle, e avevo usato come scusa il fatto che io non conoscevo bene quel posto. A questo punto devo dire che, anche se sapevo bene che era una sciocchezza, la bellezza di questa ragazza mi aveva affascinato così tanto che avrei fatto di tutto per conoscerla. Lei mi aveva risposto in una maniera molto amichevole, così avevo deciso di chiederle il nome e lei mi aveva risposto: “Nadia”. Allora le avevo chiesto cosa avesse fatto fuori casa a quell’ora, e lei mi aveva risposto che si sentiva “intrappolata” in quel posto. Vedendo la tristezza nel suo viso, mentre diceva quelle parole, non avevo insistito più sul tema, non volendo disturbare la donna più bella che avessi mai visto. In maniera molto educata, le avevo chiesto

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se c’era qualche posto nelle vicinanze, dove avremmo potuto parlare tranquillamente, lei mi aveva parlato di un parco, dove andava di solito a riflettere. Una volta nel parco, Nadia aveva voluto condividere con me quello che le dava fastidio, che era l’ostinazione di sua madre nel cercare di farla diventare più socievole ed estroversa, cosa che a Nadia non piaceva affatto, perché lei era una persona introversa per natura e, infatti, mi aveva detto, non era mai andata d’accordo con nessuno, fino a quel momento. Sen-tendo questo, senza smettere di guardare i suoi occhi, l’avevo abbracciata. Avevo sentito che era gelida, cosi l’avevo coper-ta con la mia giacca.Dopo aver parlato di diverse cose, mi ero offerto di accom-pagnarla a casa e di restare fuori, finché lei non fosse entrata. Lei mi aveva detto che, se i suoi si fossero accorti che ero fuori, lei avrebbe potuto avere dei problemi, così mi aveva chiesto di andarmene prima di aver aperto la porta. Anche se non mi piaceva per nulla quell’idea, avevo accettato la sua richiesta. Ma prima di lasciare il posto, lei mi aveva chiesto se potevamo rivederci, io gli avevo detto che avrebbe potuto essere quando lei avesse voluto, anche il giorno dopo, se non aveva nulla da fare. Poi, dal suo sorriso, avevo capito che era d’accordo, le sembrava perfetto e aveva detto che quella era una “promessa”.Il giorno dopo, ero andato presto a trovare i miei amici per chiedere la ragione per cui nessuno mi aveva detto nulla di una ragazza così dolce e carina come Nadia. Ma quando avevo riferito l’accaduto ai miei amici, questi erano rimasti improvvisamente scossi, come se avessi detto qualcosa d’i-nappropriato. Uno di loro mi aveva detto che non aveva mai sentito quel nome. In un primo momento avevo pensato che

mi stesse mentendo, però, usando un tono serio, lui aveva detto che in realtà non conosceva nessuno con quel nome “in vita”. Quello che i miei amici mi avevano riferito, poi, mi aveva costretto a interrogare tutte le persone che abitavano nei dintorni. Volevo sapere cosa sapessero su Nadia e, con sorpresa e delusione, tutti avevano risposto la stessa cosa: “Nadia era una bella e solitaria giovane che un giorno, im-provvisamente, aveva ucciso i suoi genitori, a causa dell’insi-stenza della madre che cercava di costringerla a fare amicizia, nonostante la sua riluttanza. E che, dopo aver ucciso i suoi, aveva preso dei farmaci per cadere in un sonno profondo dal quale non si sarebbe mai svegliata”.Dopo avere ascoltato questa storia orribile da diverse perso-ne, mi rifiutavo di credere che Nadia, la ragazza che avevo incontrato la sera prima, fosse stata in grado di fare ciò. Inu-tile rimarcare che lei non era più parte di questo mondo.Per fugare ogni dubbio, avevo chiesto ai miei amici di por-tarmi sulla sua tomba. Questa era l’unica speranza; che tutto fosse una bugia. Quando sono entrato nel cimitero, davanti alla sua tomba, ho solo potuto chiedere ai miei amici di ac-compagnarmi a casa perché non potevo sopportare di stare più in quel posto.Nella notte, avevano cominciato a succedere delle cose stra-ne in casa mia: oggetti che cadevano senza alcun motivo, porte che si aprivano e si chiudevano e altre cose fuori dal comune.Con il passare dei giorni, questi eventi cominciarono ad aumentare in intensità. Come quella volta che vidi la sagoma di Nadia camminare nello specchio nella mia stanza e dopo sparire. Un altro giorno, mentre dormivo, avevo sentito come se qualcuno mi stesse guardando da fuori della finestra,

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quando mi ero girato a guardare, avevo visto l’ombra di una ragazza per qualche secondo, cosa veramente strana, perché la mia stanza era al secondo piano.Per queste ragioni ho scritto questo racconto, e voglio che questa storia sia conosciuta, penso che lei si debba sentire tradita perché non ho mantenuto la nostra promessa di trovarci il giorno seguente. Ammetto che, all’inizio, avevo paura di trovarla, ma ora non più, ho accettato il mio desti-no, quindi non cercherò più di sfuggire, al contrario mi sono reso conto che la vita senza Nadia non ha senso.So che lei sta arrivando, la temperatura è scesa improvvisa-mente, mi pare di aver sentito dei passi vicino alla mia porta, che è completamente bloccata.L’attesa è finita, queste sono le ultime parole che scrivo, e sono sicuro che lei è dietro di me, è il momento di mantene-re la mia promessa.

ATTORI DILETTANTI IN CERCA DI UN TEATROAngelo Iannella

Era il 20 giugno del 1994.La palestra della scuola elementare di Vitulano era piena all’inverosimile. Era una soddisfazione enorme, dopo quello che avevano passato.Angelo era il meno sorpreso.“Ve l’avevo detto sì o no?”, continuava a ripetere agli altri che sbirciavano affacciandosi da dietro il sipario.Lui non aveva mai avuto il minimo dubbio e, anche nei mo-menti più difficili, non si era mai arreso, trascinando dietro di sé anche gli altri.Tra questi la più scettica era stata Greta, più volte sul punto di mollare tutto.Sei personaggi in cerca di autore era una commedia di per sé molto difficile da mettere in scena, ma senza avere un posto dove provare, l’impresa diventava quasi impossibile.Per i ragazzi, tutti studenti delle superiori, trovare una sala prove era stato il primo grosso ostacolo da superare.Angelo aveva fatto diversi tentativi: prima in Comune, poi nelle varie parrocchie del paese.Le risposte erano state varie, ma il risultato sempre identico: un rifiuto dietro l’altro. Alla fine, la soluzione individuata era stata quella della casa di Sergio, il quale, poco spontaneamente, si era dovuto adat-tare, visto che la sua era la casa più grande.“Mio padre non sarà per niente contento”, aveva provato a

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resistere.“Non possiamo usare lo scantinato?”, aveva suggerito Greta.E così era stato.Cercando di non trascurare più del solito i compiti di scuo-la, avevano iniziato a incontrarsi tutte le volte che potevano, coinvolgendo altri compagni di scuola e, tra mille difficoltà, le prove erano partite.Da allora erano trascorsi quattro mesi di duro lavoro, ma anche di grande divertimento.La mamma di Sergio gli preparava la loro merenda preferita, pane e pomodoro fresco, e i pomeriggi volavano senza che se ne rendessero conto.Mentre i personaggi prendevano corpo, il rapporto tra i ra-gazzi diventava sempre più stretto, dando vita a un’amicizia sincera e duratura.Certo, non sempre tutto era rose e fiori, i litigi erano stati tanti ed anche a “muso duro”.Alla fine, però, il compromesso si trovava sempre.Angelo non aveva mai interrotto la ricerca di una sala adatta a mettere in scena lo spettacolo.In un piccolo paese come il loro, non era stato certo sempli-ce.Un po’ la mentalità chiusa, tipica del paese di provincia, un po’ l’invidia, che non manca mai in questi casi, fatto sta che il gruppo non era visto di buon occhio da tanti.“Non ce la farete mai”, si sentivano dire spesso.Angelo, in questo caso, mostrava il dito medio e spronava i suoi amici a impegnarsi ancora di più.“Non possiamo arrenderci e dargliela vinta”, ripeteva a Sergio e Greta, quando li vedeva particolarmente sconsolati.Fino a quando, un giorno, come spesso accade, la fortuna si

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presentò davanti a loro all’improvviso.Camminando nella piazza del paese incontrarono la loro vecchia maestra elementare, Margherita, ormai in pensione.“Vi aiuto io!”, disse loro, non appena le ebbero raccontato del loro progetto.E così, nel giro di pochi giorni, ottennero il permesso di usare la palestra della scuola e l’ultimo mese di prove si poté svolgere in modo quasi professionale, con i costumi, le scene, gli spazi giusti a disposizione.Anche a loro, però, toccò un prezzo da pagare.La maestra Margherita divenne il vero regista della comme-dia e non dette loro tregua fino a quando non giudicò tutti all’altezza del compito.Ora però stava seduta in prima fila pronta a gioire per il loro successo.

MARTINAGuillermo Rioja Rivera

Da un popolo lontano, chiamato Totora, nacque Martina, di umile famiglia.Sua mamma si chiamava Epifania ed era una donna impo-nente, di ragguardevole altezza. Abitava nella Strada del Diablo, vendeva la migliore chicha (bibita artigianale boli-viana) e organizzava le migliori feste del popolo. In una di queste feste, Epifania aveva conosciuto il padre di Martina, che era un ubriaco e allegro casanova chiamato Il Tuna. Epi-fania era molto infelice di essere rimasta incinta per i pensie-ri terribili di punizioni religiose che gli intristivano la vita. La coppia non voleva avere figli, per questo Epifania aveva provato ad abortire, alzando cose pesanti e bevendo tè che la nauseava, ma non ci era riuscita. Poco dopo la nascita di Martina, il padre morì in un incidente stradale e, poco dopo, la madre lo seguì.Martina fu adottata di nascosto dalla zia Petrona che aveva ereditato il negozio della mamma di Martina e la trattava come se fosse la sua schiava, picchiandola continuamente. Così crebbe la povera Martina.Non poté neanche studiare, ma era una ragazza bella e quin-di i ragazzi la inseguivano e la elogiavano e questo faceva infuriare Martina che odiava tutti gli uomini adulti.Martina conobbe il sindaco di Totora, che si chiamava di co-gnome Ardiles, e che aveva trent’anni; era un musicista e un casanova e voleva conquistare la “crudele” Martina, chiamata così perché aveva fatto soffrire tanti uomini innamorati.

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L’uomo la infastidiva molto con le canzoni che componeva per lei e che suonava alle feste di sua zia. Era impossibile farla innamorare.“Martina ti piace la mia canzone per te?” chiedeva lui.E lei gli rispondeva di sì che era bella.“Allora ho un’opportunità con te?”“Con me non avrai mai opportunità.” “Ma non mi rassegnerò mai”, diceva lui.Dopo un po’ di un tempo, Martina se ne stava tranquilla, perché Ardiles sembrava averla lasciata in pace.Ma non era del tutto felice, perché ancora altri ragazzi la molestavano, nel frattempo il sindaco Ardiles guadagnava consensi e seguito e aveva un buon stipendio, così la zia di Martina, Petrona, avrebbe voluto che Martina si sposasse con il sindaco.“Martina ti piace qualche uomo?” “No zia Petrona, non mi piacciono gli uomini.”“Perché Martina?”“Perché sono tutti sono brutti, e nessuno mi conosce come sono in realtà, e tutti hanno brutte intenzioni con me.”“Ma ti devi sposare, sei donna, e hai bisogno di un uomo per vivere bene e per essere protetta. Devi cercare un uomo con un buon lavoro, come il sindaco.”“No zia, non lo farò mai.”Allora Petrona picchiava con molta rabbia Martina e le dice-va: “Adesso lavorerai di più e io non ti darò più cibo.”Zia Petrona andò a parlare col sindaco per dirgli che lei non voleva avere più Martina a casa con sé e lui capii che aveva un’opportunità per stare con Martina.Cominciò ad andare alle feste di Petrona, ma Martina, come al solito, ignorava lui e gli altri uomini. Allora il sindaco,

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arrabbiato, cominciò a diventare cattivo e insistente. Martina, quando era al negozio di sua zia e lui entrava, si al-lontanava per non doverlo servire, Petrona però continuava a insistere.Un giorno, il sindaco e i suoi amici andarono a bere, e il sindaco disse ai suoi amici che avrebbero dovuto allontanare la zia di Martina, perché quello sarebbe stato il giorno che Martina sarebbe stata sua.I suoi amici allontanarono la zia e il sindaco trascinò Marti-na nel bagno e provò a baciarla, ma lei gli dette uno schiaffo e lui, molto arrabbiato, la colpì con un pugno, facendole perdere i sensi e potendo solo così farla sua.La mattina dopo il sindaco parlò ai suoi amici, raccontando ciò che aveva fatto a Martina e la sera tutti ridevano dell’ac-caduto.Martina era molto depressa e isolata, non parlava con nessu-no e piangeva tutto il giorno. Le cose peggiorano perché la zia Petrona le disse che sicuramente era incinta perché stava diventando grossa e aveva i seni molti grandi.Martina provò ad abortire, ma la zia non glielo lasciò fare.Durante quei mesi, il sindaco si sposò con un’altra donna di buona famiglia, e considerò Martina come un’avventura. Dopo sei mesi, il sindaco incontrò zia Petrona che gli disse che Martina aveva appena avuto un bambino, ma lui replicò che nessuno doveva sapere che era suo, e dette dei soldi a Pe-trona perché non dicesse niente a nessuno.Martina stava molto male ed era molto arrabbiata, così pen-sò a una vendetta contro il sindaco. Odiava tutti, sua zia, suo figlio e, soprattutto, il sindaco. Dopo un po’ di tempo, la zia invitò a pranzo a casa sua il sindaco e tutti i suoi amici, così da ricevere ancora dei soldi.

Petrona disse a Martina che il sindaco sarebbe venuto a pran-zo, e lei rispose che avrebbe cucinato lei, la zia accettò.A mezzogiorno arrivò il sindaco con gli amici, e Martina portò in tavola il pranzo che era chicharon (cibo boliviano) con molta carne e patate, e offrì anche birra e chicha da bere per tutti i suoi ospiti che consumarono il delizioso pranzo. Alla fine del pranzo, il sindaco disse: “Martina, tua zia mi ha detto che hai un bambino che non ha padre e che è molto bello, come te, perché non lo porti qui e ce lo mostri?”E Martina gli rispose: “Il mio bambino è bello, ma più che bello è delizioso.”Tutti si guardarono in faccia, non capivano di cosa stesse parlando, così il sindaco disse: “Non capisco quello che dici, Martina, spiegami.”Martina, con le lacrime agli occhi e un sorriso diabolico, gli rispose: “Oggi il delizioso pranzo che avete mangiato era il bambino, il tuo bambino”. Il sindaco e suoi amici comincia-rono a vomitare e gridare, vedendo che Martina non era la ragazza bella e buona che credevano, ma una pazza.Il sindaco chiamò la polizia e denunciò il crimine di Martina che venne condannata alla fucilazione.Il giorno dell’esecuzione della sentenza chiesero a Martina quale fossero le sue ultime parole e lei rispose:

“Il mostro che sono io, lo avete creato voi.”

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DUE RAGAZZILuca Naso

10 gennaio. Dopo svariati mesi senza sentirsi, pur conoscen-dosi, un ragazzo e una ragazza si rincontrarono a una festa ed è lì che nacque tutto. Lui, nato in una famiglia burrascosa, il padre che picchiava la madre, pessimi amici, compagnie sbagliate e tre anni di carcere alla spalle per spaccio di droga, costretto a lavorare già in giovane età per tirar su i soldi per sfamare la mamma e la sorellina; lei, brava ragazza, semplice e solare, tanti ragazzi, ma nessuno mai amato, e molto ambi-ziosa per il suo futuro.Che fosse destino o solo fortuna, nessuno lo saprà mai, sta di fatto che questi due ragazzi, Roberto e Sara, si incontrano, del resto si sa che gli opposti si attraggono.Scattò qualcosa che cambiò tutto e tutti e due: l’amore.Dopo i primi veri abbracci e baci, nelle loro vite arrivò anche la vera prima volta: quell’atto visto da entrambi, fino ad allo-ra, solo come un semplice divertimento.Il rapporto diventato, in poco tempo, così importante, portò lei a diventare il punto di riferimento di lui. Grazie a lei, Ro-berto abbandonò la cattiva strada e iniziò in sua compagnia un cammino destinato a trasformarsi, forse, nel rapporto di una vita.Decisero di basare tutto sulla sincerità e sulla fiducia recipro-ca; aspetti banali per una coppia, ma talmente considerati da loro che, sia da una parte che dall’altra, non esisteva il mini-mo dubbio in qualsiasi circostanza, anche se, in alcuni casi, lui si arrabbiava con gli ammiratori di lei, ma alla fine Sara,

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con semplici e dolci parole, riusciva a tranquillizzarlo.Passarono i momenti migliori insieme, nulla per lui era più bello di stare con lei e nulla per lei era più romantico e tran-quillizzante di stare con lui.Passavano gli anni, ma il loro amore non diminuiva, anzi cre-sceva. Ne passarono tante insieme; ormai diventati grandi, all’età di venticinque anni, decisero per la convivenza.Se pure dormissero insieme, vivessero insieme e facessero tutto insieme, nessuno dei due riusciva ad annoiarsi, le loro storie di lì a poco divennero una sola.Non si sposarono mai, a nessuno dei due importava, per loro l’unica cosa importante era stare insieme e così fecero fino alla morte.

LA SCELTAOsiris Jonathan Guerrero Flores

Vi sarà capitato, almeno una volta nella vita, di essere stati indecisi sul da farsi, sia che si sia trattato di una sciocchezza che di una cosa estremamente importante. Vi sarete tirati fuori da tale impiccio, scegliendo tra due opzioni – o bianco o nero, o caldo o freddo – ma dubito che vi sarete posti il dilemma di avere a che fare con scelte determinanti, non per il vostro destino, ma per quello altrui.

Mi chiamo Pier, sono nato nel lontano 1330 a Parigi. Da bambino ero molto timido, a tal punto da diventare rosso in viso soltanto a sentir menzionare il mio nome.Nonostante la mia timidezza, e il mio aspetto indifeso, avevo momenti di rabbia, nonché attimi di totale assenza dalla realtà, accompagnati da dialoghi intrattenuti con amici im-maginari, che talvolta mi davano consigli.Tutto ciò si manifestò in maniera più marcata quando ebbi compiuto diciott’anni. Iniziai ad avere strane visioni, accom-pagnate da voci, che non erano più nella mia testa, rimbom-bavano nella stanza, a volte deridendomi, sbeffeggiandomi, aumentando la mia ira, a volte dandomi consigli per affron-tare le difficoltà.Le voci che udivo appartenevano a due individui, dall’a-spetto poco rassicurante, il loro volto era perennemente in penombra, più mi sforzavo di cercare di intravedere le loro facce senza riuscirci, maggiore era la mia curiosità nei loro confronti.

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Il primo aveva una veste bianca, con un cappuccio in testa, e portava con sé un arco; non mi aveva detto il suo nome, con voce profonda e rassicurante si era limitato a dirmi che aveva l’autorità di conquistare tutti coloro che avessero avuto il coraggio di opporsi al suo volere.La seconda voce apparteneva a un altro essere che indossava un’armatura rossa e una sottoveste munita di cappuccio che gli copriva la testa, con voce intimidatoria mi aveva detto che aveva la capacità di creare confusione, togliere la pace, spingere gli uomini a uccidersi gli uni con gli altri; egli por-tava con sé una grande spada.Entrambi mi dissero che era da molto tempo, secoli ormai, che erano intenti a trovarmi, in modo da poter adempiere e portare a termine la loro missione.Per convincermi a unirmi alla loro combriccola, mi dissero che l’umanità era pronta per essere giudicata e messa alla prova, e per fare ciò avevano bisogno della mia presenza.La vita era già stata fin troppo crudele e spietata nei miei confronti, perciò le loro parole, lungi dallo spaventarmi, arrivarono come una benedizione alle mie orecchie, essendo rimasto sempre impassibile a tutte le avversità, ingoiando rospi, avevo sperato in una figura ultra-terrena che un gior-no avrebbe preso in considerazione il mio atteggiamento verso coloro che si erano comportati bene con me e, invece, giudicato e giustiziato, coloro che, senza rimorso e scrupoli, avevano rovinato l’esistenza mia e altrui.Furono proprio queste valide motivazioni che mi fecero prendere tale decisione, intraprendere una via senza ritorno; non dovevo più ragionare e provare sentimenti umani, e come ultima cosa dovevo cancellare dalla mia mente le mez-ze misure.

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Accettai di unirmi a loro, fui dotato di una veste nera che mi copriva la testa con un cappuccio.Mi diressi, per curiosità, verso lo specchio, e con immenso stupore mi accorsi di non essere più in grado di vedere il mio volto: il buio totale.Mi venne data in consegna una bilancia, simbolo della care-stia, spesso associata alla guerra.I due individui mi rivelarono la loro identità, il primo, con la veste bianca, era l’Anticristo, il secondo, con l’armatura rossa, era la Guerra; mi posarono rispettivamente una mano sulla spalla, mi guardarono e, dopo aver fatto una risata ome-rica, mi dissero che io ero l’Apocalisse.Per dimostrare ciò che eravamo in grado di fare, causammo l’epidemia di peste nera.Era il lontano 1348 e tuttora siamo alla ricerca del quarto cavaliere.

UNA GIORNATA SPERICOLATAdi Pasquale Piscelli

Questa è una storia che ha avuto luogo nel 1990 nei dintorni di Firenze. Una compagnia di cinque ragazzi, Stefano, Gior-gia, Claudio, Andrea e Monica, era andata una domenica in gita in un bosco della provincia. La scuola era finita e il caldo incombeva, era proprio una bella giornata per stare all’aperto. I ragazzi avevano trovato nel bosco un luogo adatto per fare un pic-nic, avevano cantato e ballato bevendo birra, si erano sdraiati al sole e Claudio, il più matto della compagnia, aveva fatto scherzi con l’acqua a Monica e An-drea, mentre Stefano e Giorgia se ne erano restati un po’ in disparte a parlare, anche perché c’era del tenero tra loro.Il solito Claudio aveva interrotto anche Stefano e Giorgia proponendo: “Perché non ci raccontiamo delle storie?” Andrea aveva chiesto: “Ok! Tu cosa ne pensi, Monica?”, e Monica: “Sì, per me va bene!” e Claudio di rimando: “Ne ho viste di belle e ne avrei tante da raccontare !” Anche Stefano e Giorgia erano d’accordo e Giorgia aveva invitato Stefano a iniziare; Stefano ci aveva pensato un po’ su e … “Vorrei raccontarvi un film che ho visto l’altra sera...”. Monica aveva replicato: “Ma se è un horror no, perché ho paura!”, e Andrea: “Dai! A me piacciono un sacco i film dell’orrore, raccontaci, raccontaci!” . Claudio, per rassicurare Monica, aveva aggiunto: “Ma sì, tanto è ancora giorno, figu-rati se ti spaventa una storia horror a quest’ora... dai, Stefano, raccontacela!”.Stefano aveva cominciato a raccontare di un mago malvagio

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che voleva conquistare il mondo, creandone uno tutto suo, dopo aver fatto terra bruciata dei luoghi da cui era passato. Questo mago viveva in un castello con il suo fedele drago a tre teste e una pantera nera.Con i suoi poteri, il mago pietrificava tutti gli esseri, umani e non, che incrociava sul suo cammino, mentre la pantera (aiutante del drago a tre teste) correva in giro per la città e, dove passava, oscurava qualsiasi cosa: il cielo, gli alberi e tutto quello che poteva esserci di bello. A un certo punto Monica si era spaventata e aveva esclamato: “Basta, Stefano! Mi sto impressionando troppo, io non sarei mai riuscita a vedere questo film... che ne dite se, invece, ci facciamo una passeggiata qui in giro per il bosco?”. Stefano e Giorgia erano d’accordo, un po’ meno Claudio e Andrea che erano presi dalla storia ed avevano esclamato in coro: “E va bene…”. I ra-gazzi avevano cominciato a camminare per il bosco, sempre in allegria, accompagnati dalla musica: volevano tirare fino alla sera, per poi tornare a casa. Improvvisamente, in quel momento soleggiato della giornata, era calato il buio e una nebbia fitta; il vento strappava le foglie dagli alberi così che i rami secchi avevano preso le sembianze delle dita di mani in movimento. Le ragazze si erano spaventate, Giorgia ave-va abbracciato Stefano, Monica aveva cominciato a urlare, mentre Andrea e Claudio cercavano di tenerla tranquilla. Stefano guardava tutti , anche lui spaventato e diceva: “Ra-gazzi questa è una scena del film che vi ho raccontato!”. Sem-brava che si stesse avverando la storia raccontata da Stefano. I ragazzi, tutti stretti tra loro, avevano deciso di scappare da quel bosco e Stefano si raccomandava con ognuno di loro di rimettersi in contatto con lui quando fossero arrivati sani e salvi a casa. Correndo per le strade, Stefano aveva notato che

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c’era buio e nebbia dappertutto e la gente era stata pietrifica-ta, allora aveva capito che erano passati il mago e le sue belve. Arrivato a casa, aveva constatato che anche i suoi genitori erano stati pietrificati dal potere del mago. Lui aveva visto quel film e probabilmente solo lui avrebbe potuto risolvere la situazione. Aveva chiamato gli amici che stavano bene ma anche i loro genitori erano di pietra, proprio come i suoi; allora avevano deciso di ritrovarsi per non rimanere soli. Lo fecero nel centro di Firenze che ormai era ridotto a rovine e Stefano aveva detto: “Ragazzi io non voglio vedere i miei genitori così, ho visto quel film e voglio risolvere la situazio-ne, voi nascondetevi in quella casa” (un magazzino edile ri-masto casualmente in piedi). Andrea aveva risposto: “Io non ti lascio solo, vengo anch’io!”, Giorgio, Claudio e Monica avevano replicato: “No, veniamo anche noi!”. Tutto a un tratto, avevano visto la pantera nera correre per la città, Stefano allora aveva proposto: “Nascondiamoci, poi seguiamola per trovare il castello del Mago!”. I ragazzi si era-no fatti coraggio, ma la pantera li aveva visti e inseguendoli verso il magazzino, era riuscita ad azzannare Andrea che purtroppo non aveva fatto in tempo a nascondersi. La pan-tera si era fermata e si era guardata un po’ intorno. I ragazzi spaventati e disperati nel vedere Andrea là, dissanguato a terra, avevano deciso di vendicarsi e di seguire la pantera che si era rimessa in cammino. Arrivati al castello, i ragazzi erano entrati e avevano visto il mago seduto che indossava un lun-go vestito blu, con il suo bastone magico, la barba e i lunghi capelli bianchi, a fianco del suo fedele drago con tre teste che lanciava da mangiare alla pantera. Il mago aveva visto nella sfera di cristallo la pantera che uccideva Andrea e sapeva anche che i ragazzi si nascondevano nel castello. Intanto

Giorgia aveva chiesto: “Adesso che facciamo?”, Stefano ricor-dando il film le aveva risposto: “Dobbiamo rubare il bastone magico al mago e distruggerlo in modo tale che tutto torni come prima con Andrea tra noi”. Claudio aveva domandato: “Ma se non ce la facciamo?”, Stefano: “Moriamo anche noi e la terra verrà distrutta”. Intanto il mago aveva ordinato al drago: “Prendete quei ragazzi e mangiateli!”. Allora il drago e la pantera avevano tentato di prenderli, ma i ragazzi si erano divisi. La pantera aveva inseguito Claudio e Monica, mentre il drago stava alle costole di Stefano e Giorgia.La pantera aveva catturato Monica; Claudio, trovato un ba-stone appuntito, aveva trafitto la gola della belva, ma ormai era troppo tardi, Monica era morta e il mago era apparso davanti a Claudio e lo aveva trasformato in una statua. Erano sopravvissuti Stefano e Giorgia ma il mago, furibondo, con una magia aveva scaraventato Giorgia contro una parete, uc-cidendola. Stefano, disperato, si era scagliato contro il mago, ma il drago gli aveva dato una zampata sbattendolo contro una finestra e ferendolo. A quel punto, Stefano, ferito dalla zampata e dai tagli provocati dai vetri rotti della finestra, per difendersi aveva cominciato a lanciare i pezzi di vetro contro il mago e il drago. Il mago aveva ordinato al drago: “Finisci-lo!”. Stefano era corso verso il mago e il drago aveva sputato fuoco da tutte e tre le teste. Stefano era inciampato, oramai stremato, e le fiamme del drago erano andate dritte verso il mago, ferendolo e facendogli volare via il bastone magico. Stefano si era rialzato ed era corso a prendere il bastone e afferratolo, con un colpo di magia, aveva distrutto il drago. Il mago aveva cominciato a urlare: “No, non avresti dovuto farlo, ti distruggerò io adesso!”. Il mago era corso verso Ste-fano e lui, con le sue ultime forze, aveva spezzato il bastone.

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Il mago era scomparso, frantumandosi in tanti pezzi e Stefa-no era svenuto. Svegliatosi, aveva tutti i suoi amici intorno e tutto era tornato alla normalità, il castello era scomparso e il cielo era diventato azzurro come in quella giornata di sole che li aveva portati nel bosco.Aprendo gli occhi, Stefano aveva visto subito Giorgia che gli aveva detto: “Grazie, ci hai salvati!”, e lo aveva baciato. Stefano aveva salvato il mondo e rialzandosi aveva preso per la mano Giorgia e insieme a Claudio, Monica e Andrea era tornato finalmente a casa.

LA SETTA DEGLI ASSASSINIEllis Shqarthi

Molti secoli fa, in una terra lontana, isolata dal resto del mondo, viveva una ragazza, piccola di statura e dal viso chia-ro e limpido.Questa ragazza si chiamava Dubhe.Era molto giovane, aveva quindici anni e inoltre aveva una particolarità: era una ladra.Non aveva famiglia; anzi, una ce l’aveva, era il suo Maestro. Lei lo chiamava e lo conosceva così: il Maestro.Non lo vedeva però come un padre o un fratello maggiore, infatti, nonostante la giovane età, nutriva dei sentimenti profondi per lui, non ricambiati a causa dell’età più avanzata dell’uomo.Il Maestro era alto e barbuto, con un passato oscuro e pieno di sofferenza; era un assassino.Aveva trovato Dubhe mentre era in missione, piccola, indife-sa e abbandonata.Le aveva salvato la vita e lei lo aveva supplicato di portarla con lui, così l’aveva accontentata, insegnandole a rubare per vivere, perché non voleva far diventare anche lei un’assassi-na.I due non stavano mai in un posto fisso, non avevano una dimora, erano nomadi.Il motivo di tutto ciò era che il Maestro era perseguitato dal-la Setta degli Assassini: una setta malvagia, che viveva in una città sotterranea ed era padrona di tutte le terre.Inseguivano il Maestro perché una volta ne faceva parte, ma

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ne era scappato. Nessuno poteva abbandonare la Setta.Un giorno, mentre Dubhe e il Maestro si allenavano, subi-rono l’agguato di alcuni assassini della Setta che uccisero il Maestro e rapirono la ragazza come bottino.La portarono nella loro città segreta.Priva di sensi, le fecero bere un liquido rosso, una pozione. Una volta sveglia, la costrinsero a votare fedeltà col sangue. Dubhe, da quel momento, fu un’assassina.La portarono nella sua “stanza” per la notte. Una volta calato il sole, provò una sensazione strana, dolori allo stomaco e un’improvvisa voglia di uccidere: era l’effetto della pozione.Lei non lo sapeva, ma la pozione l’aveva trasformata in una belva feroce, desiderosa di sangue, ed era solo l’inizio. L’in-domani sarebbe cominciato l’addestramento per farla diven-tare un’assassina.Cominciò il primo giorno: aveva del potenziale, essendo già una ladra molto abile, ma lei si rifiutò di fare le lezioni, quin-di la punirono con numerose frustate.Il giorno dopo, accecata dal dolore, cominciò ad allenarsi, era la più brava tra i giovani.Aveva deciso di allenarsi, così un giorno sarebbe stata la più brava e avrebbe potuto vendicare il Maestro, distruggendo la Setta.In pochi anni divenne la migliore e grazie alla pozione, an-che la più feroce.Aveva ormai vent’anni e decise che era venuto il momento di vendicarsi.Aspettò il calare della notte, per fare in modo che la pozione avesse effetto.Una volta sorta la luna in cielo, uscì dalla sua stanza.Fu uno sterminio totale: Dubhe, quando si trasformava, era

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un mostro disumano, irriconoscibile e assetato di sangue, queste caratteristiche, unite alle sue abilità, la rendevano invincibile.La mattina si svegliò, immersa nel sangue delle sue vittime. Era libera.Per la prima volta dopo anni, uscì da quel posto pieno di buio e malvagità.Riscoprì il calore del sole, la brezza che faceva frusciare le piante.Era tutto bellissimo, fin troppo.Realizzò che non poteva vivere così, schiava della pozione. Non si sarebbe mai goduta la vita, e avrebbe ucciso fino alla fine dei suoi giorni.Per il bene di quella terra, prese dunque una decisione, dove-va togliersi la vita.Aspettò l’alba per potersi godere la vista dell’ultimo miraco-lo della natura, e poi, prima che la pozione facesse effetto, lo fece, si tolse la vita, con una pugnalata al cuore.Ed è così che salvò quelle bellissime terre da se stessa, ma soprattutto, dalla Setta.

GIOVANI PROMESSEJacopo Minelli

Prendendo esempio da Boccaccio, pioniere della novella mo-derna e grande studioso e artista della lingua italiana, posso solamente migliorare nell’arte della parola, tanto da pormi adeguatamente davanti ai lettori di questa breve storia, con cui spero di non tediarli troppo.Non si tratta del mio recente passato, bensì della mia infan-zia, a volte un po’ triste e turbolenta; come si può parlare, infatti, in maniera allegra dei dolori passati ma anche dell’in-fanzia che non c’è più ed inoltre delle vecchie, ma salutari, abitudini che avevo da adolescente?La mia storia e il mio racconto si basano esclusivamente sulla mia seppur “breve” carriera da calciatore semi-professionista. Tutto iniziò il 19 Dicembre 1999, un venerdì, mi sembra, ma non è questa la cosa importante: vivevo ancora a Gubbio, in provincia di Perugia, ma frequentavo gli allenamenti e le partite a Perugia, appunto, e vivevo a casa con i miei geni-tori e mia nonna materna. Era un freddo terribile e glaciale, tant’è che in città non ci si poteva muovere con i mezzi, ma solamente a piedi.Stavamo pranzando e, mentre parlavamo dell’ultima delu-dente trasferta fatta (Pescara-Gubbio: 6-2), suonò all’im-provviso qualcuno alla porta, risposi io: era il postino con un telegramma; essendo minorenne chiamai mio padre per firmare e ritirai il tutto. Andai in camera e lessi attentamen-te il messaggio recapitatomi e mentre “sgranavo” gli occhi dall’incredulità, i miei genitori e l’immancabile “perpetua”

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di mia nonna vennero a trovarmi in camera per sapere cosa contenesse il messaggio…Ebbene sì, non credevo ai miei occhi, tanto che uscii dal cortile di casa in maglietta e pantaloncini corti, urlando, sebbene mi spaventassero le rigide temperature che c’erano in quel di Gubbio. I miei genitori mi fecero un tè caldo e mi chiesero, con calma, cosa ci fosse scritto in quel telegramma. Ora vi spiego cosa c’era “vergato” in quel foglio piccolo ma ricco, per l’importanza del contenuto:

Egregio sig. Minelli, dopo la partita disputatasi il 16 Novem-bre 1999 tra Delfino Pescara e Atletico Gubbio, terminata con il punteggio di 6-2, le comunichiamo che, se lei vorrà, potrà presentarsi il prossimo luglio al camping “Pescara nel Cuore”; il presidente Sebastiani avrà il piacere di farla allenare con la Prima Squadra e Allievi del “Pescara Calcio”, a partire dal 14 Luglio fino al 31 Agosto. L’aspettiamo, a presto...

Ecco, facciamo un passo indietro e tracciamo il background generale della mia adolescenza e della mia carriera di piccolo ma volenteroso, calciatore.Avevo sei anni, e mio padre decise d’iscrivermi alla scuola calcio della mia città il “Pulcini Gubbio”, all’inizio come di-fensore. L’allenatore Massimo Giovannini mi “buttò” subito nella mischia degli allenamenti e delle partite come difenso-re centrale; che dire… me la cavavo abbastanza bene, ma non erano quelle le mie aspirazioni; infatti, durante una giornata piovosa, mi divertivo più a fare contrasti in scivolata e tuffi contro l’avversario che a tenere in linea la mia difesa e a pro-teggere il portiere dagli attacchi avversari.Ecco, questo dovrebbe fare un buon difensore ma, per il

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dispiacere del mister Massimo, e soprattutto di mio padre Angelo, mi relegarono al ruolo di portiere, ebbene sì, portie-re, perché nelle giornate piovose il terreno diventava fangoso e quindi era un continuo dilettarmi a tuffarmi nel campo, non potendo dire lo stesso quando gli inverni erano rigidi e il terreno era secco e duro, a prova di gomiti e ginocchia. Da difensore centrale, quindi, assecondando la mia indole, passai al ruolo di difensore della porta dalle insidie avver-sarie. E così passai tutta la trafila da portiere, dalle giovanili ai pulcini alla juniores fino agli allievi regionali. Non voglio annoiarvi e tediarvi con la cronologia della mia carriera, quin-di riprendiamo il racconto… dove eravamo rimasti? Ah, sì al telegramma. Quindi, come vi dicevo, mi era stato proposto un provino con il “Pescara Calcio”, sebbene avessi subito sei reti.Ora, è proprio su questo che voglio soffermarmi, quella proposta presentava una doppia faccia: da una parte l’entu-siasmo per la chiamata di una società come il Pescara che, a quell’epoca, militava in serie B, o (come l’avrebbe chiamata Boccaccio) “serie cadetta”, dall’altra la tristezza di partire e lasciare, così giovane, la famiglia, gli amici, la città, insomma il luogo dove avevo messo le radici e dove speravo di crescere calcisticamente.Mia nonna, chiamata simpaticamente da mio padre la “per-petua”, mi spinse a partire, anche se aveva gli occhi intrisi di lacrime, perché mi disse che le esperienze fuori casa maturano molto, anche se mi raccomandò di non tralasciare l’aspetto scolastico. Invece, i miei genitori mi sconsigliarono di partire, perché ero ancora troppo giovane e perché il calcio non era così importante nei miei piani futuri, secondo mia madre.Il giorno dopo (passata una nottata insonne), andai dal mio allenatore e gli dissi che avevo preso una decisione… Ebbene

sì, avevo ascoltato mia nonna e deciso di partire per Pescara. Massimo, l’allenatore mi mise una mano sulla spalla e disse: “Jacopo mi dispiace solo che se ne vada un bravo portiere, ma soprattutto un bravo ragazzo, che faceva spogliatoio e faceva gruppo...”. Così l’estate prenotai il biglietto del treno Pesaro-Pescara (perché a Gubbio non c’è la stazione ferro-viaria) e mi incamminai verso una nuova, stimolante, ma diffi-cile carriera ma, soprattutto, verso una nuova palestra di vita.Infatti non fu tutto rose e fiori: come avevo previsto, mi im-battei in un sentiero erto e brullo. Purtroppo condividevo una camera con altri, e a questo non riuscii pienamente ad abituarmi, in più le mie prestazioni non furono al massimo, quindi anche il mio morale finì “sotto le scarpe”…Finita la stagione, ritornai a casa, più maturo e più completo, anche dal punto di vista calcistico, sebbene mi fossi confron-tato con persone anche di dieci anni più vecchie di me. Non sfigurai, anzi, ma capii una volta di ritorno a casa che il mio mondo non era il calcio ma il completamento del mio ciclo di studi e un lavoro inerente a essi.Spero di non avervi annoiato troppo e di non avervi fatto abbassare le palpebre con il mio racconto, inoltre spero di diventare un bravo elettrauto e un meccanico completo; e se non trovassi lavoro fatemi un fischio se cercano un portiere... di notte però!!!

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LA STORIA DI UN BRAVO RAGAZZOGiovanni Ventricelli

È il 1940 e un ragazzo di nome Vito e il suo migliore amico Tony vivono nel New Jersey, perché i genitori sono emigrati in America in cerca di lavoro. Ma Vito e Tony sono due teste calde e si procurano da vivere rubando macchine e compien-do furtarelli ai distributori di benzina. Un giorno, qualcosa va storto e la polizia riesce ad arrestare Vito, mentre Tony ri-esce a scappare. Vito viene portato in commissariato dove gli fanno una proposta: o il carcere o il militare, perché a breve sarebbe dovuta partire una truppa americana in missione in Italia, per combattere l’esercito tedesco, e sarebbe servito un ragazzo in grado di capire l’italiano per fare da tramite. Vito accetta, suo malgrado, di arruolarsi, anche perché di sicuro è meglio l’esercito della galera. Due giorni dopo parte per l’Italia, sbarca in Sicilia dove c’è un plotone tedesco pronto ad aspettarli e dove si consuma un massacro. Lo squadrone di cui fa parte Vito è praticamente distrutto, ma Vito insieme ad altri sette suoi compagni riesce a salvarsi. Si rifugiano in un cascinale abbandonato nell’entroterra della Sicilia e rimango-no lì più o meno tre giorni, finché un contadino siciliano non li trova e li porta con sé in paese, dove l’esercito tedesco non è ancora arrivato. In paese conoscono Salvatore, un ragazzo di diciannove anni, figlio di don Peppino, un uomo d’onore noto in tutto il paese e nei suoi dintorni. Vito e Salvatore diventano, in poco tempo, buoni amici e combattono fianco a fianco contro i tedeschi per liberare la Sicilia. Combattono assieme, finché non raggiungono un paese in mano ai tede-

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schi, dove combattono ma non riescono a prendere possesso della cittadina. Salvatore, colpito da una granata, non riesce a sopravvivere. Vito rimane per circa tre mesi in paese finché qui non giunge un comando dell’esercito americano che sta facendo ritorno in America. Vito si unisce a loro e riparte per tornare a casa in America. Durante il viaggio riesce a mettersi in contatto con la sorella e riesce a dirle che a breve sarebbe tornato a casa. Dopo un paio di giorni, arriva in stazione e, inaspettatamente, lì ad attenderlo trova il suo migliore ami-co Tony che lo aspetta con una fantastica Rolls Royce, una macchina di un certo prestigio. Vito, contento di vederlo, non gli fa troppe domande, prende i suoi bagagli e sale in macchi-na. Ma nel tragitto per farsi accompagnare a casa, Tony gli confessa che è entrato a far parte di una famiglia. La famiglia Coen, a capo della quale c’è il fratello maggiore, Mickey Coen. Tony propone a Vito di lavorare con lui per la famiglia, ma Vito è deciso a cambiare vita e a fare un lavoro onesto. Giunto a casa, però, scopre che il padre è morto e la sorella si è indebitata con uno strozzino per sfamare la famiglia, in assenza del padre e di Vito. Vito, per un po’ di tempo, prova a cercare un lavoro onesto per ripagare il debito della sorella, ma in America è un periodo buio: non c’è lavoro e quel poco lavoro che c’è viene pagato una miseria. Quindi si trova co-stretto a tornare alla sua vecchia vita e chiama il suo amico Tony. Tony, appena sente Vito, è contentissimo di poterlo aiutare e non vede l’ora di tornare ai vecchi tempi. Gli fissa un appuntamento con il consigliere della famiglia, Michael Salvini, anche lui di origini italiane. Si incontrano in un bar poco frequentato, e Vito conquista subito la fiducia di Micha-el, grazie anche alle buone parole che Tony ha detto su di lui. Michael gli affida il suo primo incarico: si tratta di una cosa

semplice, guidare una macchina fino a Little Italy. Vito è un po’ sospettoso, ma accetta l’incarico, anche perché il suo ami-co Tony si è offerto di accompagnarlo. Vito e Tony escono dal locale, salgono in macchina e si mettono in viaggio; va tutto bene finché non escono dalla città e trovano un posto di bloc-co della polizia. Tony rassicura Vito, dicendogli che ci avreb-be pensato lui. Si fermano al posto di blocco e gli agenti gli ordinano di scendere dalla macchina e di aprire il bagagliaio. Tony, con molta calma e disinvoltura apre il bagagliaio, tira fuori la pistola e fredda gli agenti; Vito, preso dal panico, sale in macchina con Tony e scappano. Vito e Tony litigano per tutto il viaggio finché non arrivano a destinazione, lì lasciano la macchina e si dividono. Vito torna a casa e ci rimane per un po’ di tempo, finché non si fa vivo Tony. A quel punto, s’in-contrano sotto casa e discutono dell’accaduto: Tony gli spiega che è stato costretto a sparare perché altrimenti sarebbero finiti tutti e due in carcere, dal momento che la macchina era piena di armi e alcol. Vito non è d’accordo con Tony perché per lui è troppo avere sulla coscienza quei due poliziotti e de-cide di chiudere completamente i rapporti con Tony. Sale in macchina e corre a casa di sua madre e sua sorella, ma non le trova a casa, allora esce, lasciando un messaggio: sarebbe tor-nato in serata per prenderle e portarle via; sarebbero ritornati in Italia. Ma non va così, Vito, appena tornato a casa, trova Tony ad aspettarlo insieme a tre scagnozzi della famiglia. Tony prova a parlargli per fargli cambiare idea, ma Vito è sempre più sicuro della sua decisione. Tony non è abituato a non ottenere quello che vuole, accecato dalla rabbia, spara a Vito. Vito muore e Tony, solo dopo averlo ucciso, realizza che ha ammazzato il suo migliore amico, l’unica persona che gli abbia mai voluto veramente bene.