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Sanitanova Srl – La comunicazione nel processo di cura e le aspettative del malato – Modulo 1 1 La comunicazione nel processo di cura e le aspettative del malato Autore e responsabile scientifico: Dott. Edoardo Altomare, Dirigente Responsabile U.O. Formazione ASL Bari; Docente di Medicina narrativa e comunicazione al Master in Bioetica e consulenza filosofica dell'Università degli Studi di Bari. Sanitanova è accreditato dalla Commissione Nazionale ECM (accreditamento n. 12 del 10/06/2010) a fornire programmi di formazione continua per tutte le professioni. Sanitanova si assume la responsabilità per i contenuti, la qualità e la correttezza etica di questa attività ECM. Inizio evento: 05/11/2015; ID evento: 12-142107 Modulo 1. L’empatia Obiettivi formativi Al termine del modulo didattico, il discente dovrebbe essere in grado di: contestualizzare il concetto di empatia; comprendere l’importanza dell’empatia nella relazione tra operatore sanitario e assistito; conoscere i fondamenti teorici e le finalità delle medical humanities.

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Sanitanova Srl – La comunicazione nel processo di cura e le aspettative del malato – Modulo 1 1

La comunicazione nel processo di cura e le aspettative del malato

Autore e responsabile scientifico: Dott. Edoardo Altomare, Dirigente Responsabile U.O.

Formazione ASL Bari; Docente di Medicina narrativa e comunicazione al Master in Bioetica e

consulenza filosofica dell'Università degli Studi di Bari.

Sanitanova è accreditato dalla Commissione Nazionale ECM (accreditamento n. 12 del 10/06/2010) a

fornire programmi di formazione continua per tutte le professioni.

Sanitanova si assume la responsabilità per i contenuti, la qualità e la correttezza etica di questa attività

ECM.

Inizio evento: 05/11/2015; ID evento: 12-142107

Modulo 1. L’empatia

Obiettivi formativi

Al termine del modulo didattico, il discente dovrebbe essere in grado di:

contestualizzare il concetto di empatia;

comprendere l’importanza dell’empatia nella relazione tra operatore sanitario e assistito;

conoscere i fondamenti teorici e le finalità delle medical humanities.

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Introduzione

Empatia è una parola affascinante, suggestiva, oramai tanto abusata quanto spesso male

interpretata.

Nel 1821 il ventisettenne poeta romantico Percy Bysshe Shelley (1792-1822) parlava di

un’«immaginazione morale» che altro non è se non puro distillato di empatia ante litteram. Un

anno prima del suo fatale naufragio nel mare della Versilia, Shelley scrive che per essere buono e

morale un uomo deve adoperare la sua immaginazione.

Un uomo, per essere molto buono, deve immaginare con intensità e comprensione, deve porsi al

posto di un altro e di molti altri. […] I dolori e le gioie della sua specie devono essere i suoi. Il grande

strumento del bene morale è l’immaginazione. (Nuland SB, 2002).

In un momento di grave difficoltà e di totale smarrimento della medicina contemporanea, i medici

– insieme con tutti gli altri professionisti della salute – dovrebbero recuperare l’esercizio di questo

formidabile strumento. Dovrebbero imparare a vedere se stessi attraverso gli occhi dei loro

pazienti, e a riconoscere ciò che i malati si aspettano da loro.

Già la ricerca di una definizione di empatia si presenta certo come un’impresa tutt’altro che

agevole. Possiamo provare, ad esempio, a far nostra la definizione di un medico internista

americano, Howard M. Spiro, assai competente in materia: empatia, dice Spiro, è l’emozione che

gli altri evocano in noi come proiezione dei nostri sentimenti (Spiro H, 1992). A quella dell’esperto

della Yale University School of Medicine si può affiancare un’altra definizione, ricavata invece dagli

studi del neuroscienziato italiano Giacomo Rizzolatti, autore della più recente e significativa

scoperta1 sulle basi neuropsicologiche dell’empatia, quella dei cosiddetti neuroni specchio.

Attraverso la chiave di lettura fornita dagli esperti in neurofisiologia, l’empatia corrisponde a una

specie di “risonanza emotiva” tra chi parla e chi ascolta: il processo empatico si compirebbe

quando lo stato emotivo di una persona riesce a trovare una corrispondenza diretta

1 La scoperta dei neuroni specchio risale ai primi anni Novanta. Rizzolatti ha guidato il suo gruppo di ricercatori

dell’Università di Parma all’individuazione di questi mirror neurons (di cui si parlerà più estesamente in un altro

capitolo) prima nella scimmia e subito dopo nell’uomo (con la Pet). “La scoperta – ricorda Rizzolatti – è avvenuta un

po’ per caso e un po’ per merito nostro, ed è stata fatta inizialmente nella scimmia. Direi che il nostro grande merito è

stato quello di esaminare il comportamento degli animali in maniera etologica: abbiamo sempre trattato le scimmie

come esseri dal comportamento molto complicato, e quindi abbiamo cercato di vedere cosa succede nel sistema

nervoso quando la scimmia prende un oggetto, del cibo, quando mangia e quando interagisce con gli altri. Poi

abbiamo anche visto – e questo, devo dirlo, assolutamente per caso – che quando la scimmia prendeva un oggetto i

neuroni specchio si attivavano (e questo ce lo aspettavamo) ma che anche quando noi prendevamo del cibo per darlo

alla scimmia quei neuroni si attivavano. Per molto tempo non ci abbiamo creduto, ma poi dopo due anni ci siamo

convinti e abbiamo pubblicato con successo i nostri lavori”.

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nell’osservatore, e quest’ultimo prova la stessa emozione della persona osservata. Il tutto anche in

assenza di un’esplicita comunicazione verbale. In medicina, ad esempio, sempre secondo

quest’ottica, l’auspicabile coinvolgimento empatico col malato (e i suoi familiari) sarebbe

consentito al medico capace non solo di entrare in risonanza emotiva con il paziente ma anche di

tenere distinta la comprensione delle altrui emozioni da sentimenti quali simpatia, antipatia,

rabbia e così via.

La centralità dell’empatia

L’empatia può presentarsi in molte forme diverse. Una tipologia

consiste nell’assumere il punto di vista altrui, nel comprendere cioè

come pensa l’altro: questo è il livello cognitivo di empatia.

Un altro aspetto è il “sentire con”, ossia avvertire immediatamente

all’interno del proprio corpo quello che sta avvenendo nel corpo di

un’altra persona. Si tratta di due diverse qualità di empatia, e le

differenze tra loro hanno importanti conseguenze.

Un terzo tipo è invece la preoccupazione empatica: non soltanto

capire e “sentire con” l’altro, ma anche volerlo aiutare, soccorrere.

Sono necessari tutti e tre i tipi di empatia per “esserci” veramente

per l’altro, specialmente se si considera, ad esempio, che un

torturatore può essere molto competente sul piano dell’empatia cognitiva – sapendo bene come

sta reagendo la sua vittima a quello che lui le sta facendo – ma non può permettersi di “sentire

con” lei.

Ci sono anche altre modalità per illustrare e interpretare il processo empatico2. Ma, quale che sia

quella più appropriata e calzante, il campo va subito sgombrato da un equivoco di fondo.

L’empatia non è un lusso né una questione di scarsa rilevanza; non è “roba da infermieri”, come

paiono considerarla molti medici, magari troppo affaccendati nel disbrigo di pratiche e

incombenze di carattere procedurale/amministrativo (budget, diritti retributivi, regole

corporative, ecc.), formati all’insegna del “saper fare” più che del “saper essere”, resi sempre più

distanti e distaccati dal contatto diretto coi pazienti a causa dell’invadenza delle attuali tecnologie.

Chiosa il chirurgo-scrittore Ignazio Marino.

2 Lo psichiatra Harvey Max Chochinov (Università di Manitoba, Canada) usa il termine compassione per indicare la

consapevolezza della sofferenza dell’altro, associata alla volontà di arrecare sollievo, e la tiene distinta dall’empatia,

definita invece come un processo di identificazione con l’altro che passa attraverso la comprensione della sua

condizione, dei suoi sentimenti e delle sue ragioni.

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Nella pratica quotidiana molti medici tendono a chiudersi in un guscio, lavorano per aumentare gli

introiti, si limitano alle poche attività che dànno soddisfazione, allontanandosi però dal vero senso

della medicina. (Marino IR, 2005).

Al di là dell’abilità tecnica, si chiede infatti Marino, che cosa rimane, alla fine, di un medico, se non

la cura dell’uomo, il dialogo, i valori umani? L’empatia richiede passione, e dunque non è alla

portata di quanti la giudicano come una fastidiosa forma di incontinenza emotiva, per di più

potenzialmente deleteria perché in grado di “appannare” l’obiettività dei dati clinici e strumentali.

È ovvio che i fautori dell’approccio empatico contestino radicalmente questa visione, puntando il

dito contro i canoni ormai obsoleti della medicina paternalistica e contro l’ingiustificabile ritardo

del sistema formativo universitario nell’adozione di meccanismi di formazione più innovativi. In

particolare per ciò che attiene alle capacità comunicative e relazionali dei futuri medici. Come

rileva criticamente Spiro, già nel periodo del tirocinio, nel corso del quale apprendono il metodo

scientifico e il distacco professionale, gli studenti in medicina perdono in misura più o meno

abbondante la loro empatia. Un dato, questo, certificato anche da altri specialisti in pedagogia

medica, come Adam Brenner3, che evidenzia come gli studenti in Medicina diventino

progressivamente meno empatici nel corso degli studi e quindi nel periodo di internato. Ma la

perdita o l’indebolimento di questa dotazione empatica è un dato che, secondo Spiro, dovrebbe

suscitare un’attenta riflessione, dal momento che costituisce una grave lacuna nella formazione

medica. Avverte l’esperto della Yale University School of Medicine:

Physicians need rhetoric as much as knowledge […] if they are to be more empathetic than

computers4. (Spiro H, 1992).

Dello stesso fenomeno evidenziato dagli autori americani parlano anche segnalazioni provenienti

da ricercatori italiani. Presso la facoltà di Medicina dell’Università degli Studi di Milano Bicocca, ad

esempio, nell’anno accademico 2003-2004 è partito un corso destinato, nelle intenzioni dei suoi

promotori, a educare i futuri medici alla relazione con il paziente attraverso la narrativa (cioè la

visione di film e la lettura di libri selezionati). L’esperienza è stata riservata a una quarantina di

studenti dal I al VI anno del corso di laurea in Medicina e Chirurgia. I commenti raccolti dai ragazzi

dei primi anni di corso hanno evidenziato una sensibilità e un’attenzione agli aspetti umani e alla

sofferenza dei malati sicuramente maggiori rispetto a quelle manifestate dai colleghi degli ultimi

anni: come se l’interesse e la cura nei confronti del paziente andassero progressivamente ad

affievolirsi con il procedere degli studi universitari e la frequenza dei reparti clinici (Parisi F,

Stepparava MG, 2010).

3 Adam Brenner è il Responsabile della formazione degli studenti in Medicina del Southwestern Medical Center.

4 “I medici hanno bisogno di saper parlare tanto quanto di conoscenza […] se vogliono essere più empatici rispetto di

un computer”.

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L’esperienza diretta sul campo, indotta dalla frequenza di vari reparti, determinerebbe dunque

negli studenti, al contrario di quanto sarebbe logico aspettarsi, uno switch, un mutamento – non

brusco ma graduale, come una sorta di lento scivolamento – da un approccio centrato sul paziente

(che caratterizza i futuri camici bianchi all’inizio della loro carriera universitaria) a uno successivo,

decisamente più attento alla patologia (disease centred).

Secondo studi riportati da alcuni autori statunitensi, molti studenti di Medicina cominciano con la

mentalità “giusta”, ma pochi la conservano. Il graduale indebolirsi della motivazione empatica

degli studenti nei confronti del paziente è ormai un fenomeno di comune osservazione anche in

Italia. Tale cambiamento va attribuito, secondo alcuni osservatori, al fatto che il tirocinio pratico si

svolge soprattutto in ambito ospedaliero, dove i futuri medici tendono a emulare e imitare il

modello professionale che privilegia l’efficienza operativa a scapito dell’ascolto e dell’attenzione al

paziente (Duca P, Fognini G, Parizzi F, 2010). Per questo, con l’obiettivo di riaffermare il valore

degli aspetti relazionali e della “presa in carico” globale del paziente – probabilmente più

considerati nell’ambito della “medicina del territorio” – in alcune regioni del nostro Paese viene

offerta agli studenti degli anni superiori la possibilità di frequentare anche gli ambulatori dei

medici di medicina generale e dei pediatri di libera scelta.

Il quadro è aggravato dalla constatazione che – pur essendo il deficit di capacità empatica tra le

cause non secondarie dell’insorgenza di quello sfinimento psichico indicato come burnout –

nessun operatore di professioni d’aiuto appare capace di ammettere di aver gradualmente

esaurito le proprie risorse empatiche (cfr. Giordano M, 2004).

Nel mondo del malato le emozioni regnano sovrane – dice lo psicologo americano Daniel Goleman

– ma troppo spesso dall’altra parte si riscontra indifferenza verso la realtà emozionale della

malattia. Autore del bestseller Intelligenza emotiva (1995) e di altri successivi, Goleman è convinto

che il rapporto tra medico e paziente potrebbe svilupparsi più facilmente se la formazione dei

futuri camici bianchi si arricchisse di alcuni strumenti essenziali dell’intelligenza emotiva: in

particolare, l’autoconsapevolezza e l’arte dell’empatia e dell’ascolto (Goleman D, 1995). È questa

una prima, possibile risposta alla questione cruciale posta da Adam Brenner: perché il “corredo”

empatico di cui gli studenti in Medicina sono provvisti all’inizio del loro corso di studi finisce per

ridursi o dissiparsi col trascorrere del tempo? E, come immediata conseguenza, quali sono le reali

possibilità di prevenire, o per lo meno rallentare, questo deleterio processo di impoverimento?

Lo psichiatra Harvey Max Chochinov suggerisce una risposta ancora più convincente. La capacità di

provare compassione ed empatia, egli argomenta, può far parte di una predisposizione naturale e

come tale accompagnare il medico fin dalla nascita. In altri casi la capacità empatica può invece

affiorare lungo il corso della vita, come frutto delle esperienze vissute, della pratica clinica e della

consapevolezza che chiunque è vulnerabile nei confronti dell’invecchiamento e dell’incertezza

della vita.

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Quando il medico diventa paziente

Chi è abituato a curare gli altri ha enormi difficoltà ad accettare il ruolo di paziente. È la

testimonianza autorevole di Gianni Bonadonna, uno dei maggiori oncologi sullo scenario

internazionale fino a quando, nell’ottobre del 1995, è stato colpito da una grave emorragia

cerebrale che ha richiesto un intervento di craniotomia per la rimozione dello stravaso, seguito da

un paio di settimane di coma farmacologico. E così il grande oncologo, invitato dai colleghi di tutto

il mondo a tenere lezioni e conferenze, si è improvvisamente trovato a dover fare i conti con gli

esiti neurologici di un ictus e la necessità di affrontare un lungo e penoso percorso riabilitativo.

Qualcosa di analogo è capitato anche a molti altri medici, più o meno illustri. Ad esempio

Francesco Sartori, insigne chirurgo toracico dell’Università di Padova, a cui un collega ha

imprevedibilmente diagnosticato un melanoma dal quale è per fortuna completamente guarito.

Più severa, purtroppo, si è rivelata la prognosi per un altro luminare, il cardiochirurgo Sandro

Bartoccioni: aveva solo 54 anni quando, proprio negli ultimi giorni del 2001, è arrivata la diagnosi

di cancro allo stomaco in fase già avanzata. “Non l’ho accettato, l’ho combattuto senza tregua – ha

scritto poi Bartoccioni – mi sono fatto curare nei più famosi e prestigiosi ospedali in Italia, Francia

e Germania. Per eradicarlo mi sono sottoposto a cinque interventi devastanti, a due radioterapie,

a mesi di chemioterapie diverse”. Alla fine il cardiochirurgo ha dovuto soccombere al male, da lui

definito come “il compagno-gemello” col quale aveva accettato una coraggiosa quanto scomoda

convivenza (Bartoccioni S, Bonadonna G, Sartori F, 2006).

Ricorda il giornalista Paolo Barnard, curatore del libro scaturito dal racconto dei tre grandi clinici,

che quando arrivò la data della presentazione del volume a Roma, Bartoccioni era ormai alla fine.

Volle comunque presenziare all’evento, sia pure in carrozzella, finendo per accasciarsi stremato.

Morì dopo soli quattro giorni.

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La sera del 27 giugno 2005, Rai 3 ha trasmesso, per la serie televisiva La Storia Siamo Noi di

Giovanni Minoli, un reportage realizzato da Paolo Barnard. L’idea del giornalista, che a quell’epoca

lavora proprio con Minoli nella struttura di Rai Educational, consiste nel riunire quattro grandi

clinici italiani per chiedere loro indicazioni per riformare la sanità italiana nei suoi punti più critici. I

protagonisti del servizio sono appunto Bartoccioni, Bonadonna e Sartori, ai quali si aggiunge Lucio

Gullo, internista dell’Università Sant’Orsola di Bologna. Quattro medici accomunati dal destino di

aver dovuto sperimentare sulla propria pelle una malattia grave e quindi il vissuto del paziente: un

“salto” dall’altra parte dello steccato, quella in cui si soffre provando le paure e i disagi dell’essere

e del sentirsi malati. Il successo di quella trasmissione innesca il progetto del libro Dall’altra parte,

che esce l’anno successivo (marzo 2006) con la firma di tre dei quattro medici-pazienti: i detentori,

per dirla con Barnard, di un primato inarrivabile per chiunque altro, quello cioè di poter

rappresentare la sintesi perfetta tra scienza e sofferenza.

In un articolo dal titolo eloquente, che in italiano suona come “Pillole amare da ingoiare” (Bitter

pills to swallow), apparso nel 1998 sul New England Journal of Medicine, anche la dottoressa Jane

Poulson, canadese, ha raccontato con tono accorato la sua esperienza di medico ammalatosi di

cancro. Sulla malattia e sull’assistenza da riservare al malato oncologico, Poulson confessa di aver

imparato molto più da quando, nel 1996, le era stata posta quella temuta diagnosi, di quanto non

fosse accaduto prima, quando peraltro esercitava la specialità di medico internista esperto in cure

palliative e teneva seminari sulla comunicazione della diagnosi di malattia grave (Poulson J, 1998).

L’esperienza di medico che si ammala e passa “dall’altra parte della barricata” appare con tutta

evidenza sconvolgente. “Subentra l’ansia – spiega il chirurgo toracico Sartori –, un’ansia motivata,

proporzionale al grado di conoscenza, e alla consapevolezza della gravità della malattia”. Solo

ansia? Di più, un’esperienza terribile, anzi un vero e proprio shock, che risalta con evidenza dalle

parole della dottoressa Poulson:

Fu uno shock sopportare l’esperienza insolita e surreale di scoprirsi trasformata dal rango di chi

prescrive e somministra farmaci a quello di paziente atterrita.

Il trauma provato dalla dottoressa canadese ricorda da vicino quello subìto da Sylvie Menard,

direttrice del Dipartimento di Oncologia sperimentale dell’Istituto Tumori di Milano, il giorno che

le venne diagnosticato il cancro. Uscendo dalla stanza del collega che le aveva comunicato la

drammatica notizia, Menard ricorda di aver impiegato una buona mezzora per tornare nel suo

stesso studio all’interno dell’Istituto milanese, perdendosi più volte in luoghi che pure frequentava

quotidianamente da circa 35 anni.

Ma, a parte il comprensibile shock, la “scossa” comporta anche effetti salutari. Ne sono convinti i

medici ammalati che hanno firmato il già citato Dall’altra parte. Ne è persuaso anche un altro

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illustre medico, il chirurgo Ignazio Marino, venutosi a trovare “dall’altra parte della barricata”: ha

sperimentato anch’egli il totale disorientamento di fronte all’improvvisa perdita della salute,

riportandolo però come l’avvio di una provvidenziale presa di coscienza:

Personalmente credo di aver capito un po’ di più di quello che accade nella mente di un malato e

delle aspettative che si creano nei confronti dei medici, nel momento in cui mi sono trovato

dall’altra parte della barricata, steso in un letto d’ospedale, di fronte alla prospettiva di un

intervento chirurgico a cui sottopormi in urgenza. […] A distanza di undici anni, penso sia stata in

qualche modo la provvidenza ad avermi fatto ammalare, costringendomi a provare sulla mia pelle

almeno una parte delle sofferenze che io infliggo ogni giorno ai miei pazienti per cercare di portarli

sulla via della guarigione. (Marino IR, 2005).

Nelle parole di Marino, la malattia che colpisce il medico diventa quasi una forma di espiazione,

per riparare a una colpa subendo una pena.

“Coltivare” l’empatia: le medical humanities

L’empatia può quindi essere “coltivata” attraverso altri canali, quelli che contraddistinguono le

cosiddette medical humanities (MH): quelle discipline, cioè che possono servire a integrare la

conoscenza scientifica del corpo con quella “umanistica” dell’esperienza del malato.

Resta aperto il problema della traduzione del termine medical humanities in italiano, considerato

che quella letterale è difficile, se non impossibile. Lucia Zannini, docente di Pedagogia

all’Università di Milano, ha provato a rispondere alla domanda “cosa si intende col termine di

medical humanities”? Forse è meglio dapprima cercare di comprendere che significa human:

letteralmente questo termina designa “ciò che ha a che fare con l’uomo”, con la natura umana.

Ancora, human è “ciò che è umano”. Di conseguenza, il termine humanities in generale – in

quanto sostantivo plurale di human – dovrebbe significare “cose umane”. Difatti le humanities

hanno in comune questo focus su ciò che è umano, ovvero le espressioni culturali e creative, i

valori, le prospettive, le attitudini e gli stili di vita degli uomini.

Le MH possono essere generalmente definite come ciò che riguarda la comprensione dell’uomo

attraverso le scienze umane. Quello delle MH è un settore interdisciplinare che include letteratura,

filosofia, etica, storia e religione insieme con le scienze sociali (antropologia, psicologia, sociologia)

e le arti (cinema, teatro, arti visuali).

Oltretutto, l’empatia non rappresenta solo un ingrediente basilare nella cura (anzi, meglio, nel

prendersi cura) del malato. Nient’affatto. Oggi quest’ingrediente può essere definito, misurato,

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diventare persino oggetto di indagine scientifica. Non una mera astrazione, dunque, ma un

requisito psicologico che consente di perseguire e raggiungere concreti risultati clinici.

In un corposo saggio pubblicato nel 2007, Mohammadreza Hojat sostiene che il coinvolgimento

empatico col paziente è una risposta essenziale a un bisogno di “connessione sociale”

profondamente avvertito da tutti gli esseri umani, ma troppo spesso trascurato dai sistemi sanitari

(Haslam N, 2007)5. La connessione empatica nel contesto di cura, sostiene Hojat, può contribuire a

una diagnosi più rapida e accurata, a una migliore adesione del paziente al trattamento prescritto

dal medico, a una maggiore gratificazione del malato. Oltre a questi già considerevoli risultati,

l’approccio empatico è peraltro in grado di ridurre le azioni legali e le controversie giudiziarie nei

confronti dei camici bianchi.

Ulteriori effetti benefici conseguibili attraverso il rapporto empatico sono:

da parte dei pazienti: maggior fiducia nei medici;

da parte del medico: maggiore attenzione e concentrazione, nonché una predisposizione

mentale alla relazione e alla cooperazione. Come sostiene lo psicologo americano Daniel

Goleman, tutto ciò comporta un altro vantaggio, quello cioè di alimentare un’assistenza

“centrata sulla relazione”.

Si può insegnare l’empatia ai professionisti della salute?

Proviamo a fare un passo indietro. In medicina, spesso, la posta in palio è la vita: decisioni e

omissioni da parte del camice bianco sono di natura etica. “Da noi ci si aspetta – osserva il chirurgo

e scrittore Atul Gawande a proposito della complessità della prestazione medica – che agiamo con

rapidità e coerenza […] e che facciamo il nostro lavoro con umanità, cortesia e sollecitudine”

(Gawande A, 2008).

Lo storico della medicina Giorgio Cosmacini si è chiesto dunque quali siano le finalità di ogni

percorso educativo diretto ai professionisti della salute. La risposta è a tutti chiara e ineccepibile:

formare personale sanitario competente e disponibile. Ma se la competenza di tipo scientifico-

tecnico viene acquisita attraverso gli studi universitari – e dovrebbe svilupparsi lungo tutto l’arco

della vita professionale (ciò che viene indicato come “educazione continua”) –, ai camici bianchi

non dovrebbero mai venire a mancare cospicue riserve di saggezza e buonsenso. Inoltre, sempre

secondo Cosmacini, la disponibilità, ossia la sollecitudine verso il prossimo, non si insegna ma la si

deve apprendere, perché ogni medico è tenuto alla comprensione umana dell’altrui condizione

(Cosmacini G, 2009).

5 Haslam firma una recensione del libro di Hojat, il cui testo è stato anche ripreso da Paolo Cornaglia Ferraris nel suo

La casta bianca pagg. 152-153.

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Quel che di solito avviene è invece che la premura, il rispetto, l’attenzione nei confronti di chi

soffre siano esercitate solo in virtù di una personale attitudine o inclinazione da parte degli

operatori sanitari, in altre parole proprio quella natural disposition di cui parla Chochinov.

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Questionario ECM

1. Quale definizione di empatia ha dato il medico Americano Howard M. Spiro all’inizio degli anni ’90?

a) l’emozione che gli altri evocano in noi come proiezione dei nostri sentimenti

b) il sollievo che prova un paziente al suo primo incontro con un medico

c) l’immediata comprensione del problema esposto dal paziente

d) nessuna delle risposte indicate

2. Il processo empatico si realizza:

a) anche in assenza di un’esplicita comunicazione verbale

b) solo in presenza di un’esplicita comunicazione verbale

c) solo in assenza di un’esplicita comunicazione verbale

d) solo attraverso lo sguardo

3. Quante tipologie di empatia sono state identificate

a) 3

b) 2

c) 7

d) 9

4. Diversi studiosi americani e italiani del rapporto tra il medico e il paziente hanno evidenziato che:

a) i medici dimostrano già oggi un livello abbastanza elevato di empatia

b) the gli operatori sanitari, i medici dimostrano un livello di empatia secondo solo a quello

dimostrato dagli infermieri

c) già nel periodo del tirocinio i giovani medici perdono in misura più o meno abbondante la loro

empatia

d) l’empatia è una qualità poco utile nel lavoro quotidiano del medico

5. Secondo lo psichiatra Harvey Max Chochinov, la capacità da parte di un medico di provare empatia

e compassione nei confronti dei pazienti:

a) è necessariamente una predisposizione naturale

b) affiora lungo il corso della vita e della carriera

c) può essere una predisposizione naturale o affiorare lungo il corso della vita e della carriera

d) si manifesta solo negli ultimi anni di esercizio della professione

6. Che cosa sono le medical humanities?

Page 13: La comunicazione nel processo di cura e le aspettative del ... · Secondo studi riportati da alcuni autori statunitensi, molti studenti di Medicina cominciano con la mentalità “giusta”,

Sanitanova Srl – La comunicazione nel processo di cura e le aspettative del malato – Modulo 1 13

a) discipline che possono servire a integrare la conoscenza scientifica del corpo con quella

“umanistica” dell’esperienza del malato

b) l’insieme delle teorie elaborate dagli studiosi americani sull’empatia

c) conferenze organizzate dalle associazioni mediche di categoria in diversi paesi per sensibilizzare

i medici sull’importanza dell’empatia

d) nessuna delle risposte indicate

7. Quale tra i seguenti ambiti NON è riconducibile alle medical humanities?

a) letteratura

b) scienze sociali

c) storia

d) diritto

8. Quale beneficio trae il medico da un rapporto empatico con il paziente?

a) maggiore attenzione e concentrazione

b) predisposizione mentale alla relazione e alla cooperazione

c) possibilità di alimentare un’assistenza “centrata sulla relazione”

d) tutte le risposte indicate

9. Secondo lo storico della medicina Giorgio Cosmacini, insieme alla competenza di tipo scientifico

tecnico acquisita durante il percorso universitario, i medici dovrebbero dimostrare:

a) saggezza e buonsenso

b) spirito critico

c) autorevolezza

d) organizzazione