la corsa giusta di antonio ferrara

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©2014 Coccolebooks Srl Raccontare l'orrore della SHOAH attraverso la vita di un grande campione. Dal Premio Andersen ANTONIO FERRARA. Lo chiamano Ginettaccio per colpa della suo carattere un po' ruvido come la sua voce. Ma quando si tratta di pedalare in salita, non c’è storia... è lui il più forte di tutti. Ed è pedalando dalla Toscana all’Umbria che Bartali nasconde nel tubo della sua bicicletta i documenti che salveranno molti ebrei. Nella fatica, sotto il sole, la pioggia e nel silenzio sta il coraggio, perchè il bene si fa, ma non si dice. Nel 2013 Gino Bartali è stato dichiarato Giusto tra le Nazioni.

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Il bene si fa, ma non si diceGino Bartali

A Martina, che da ragazzina sembrava pigra e che invece adesso pedala, pedala, pedala.

E chi la ferma più.

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Capitolo Uno

E siccome ero rimasto sepolto sotto la neve, mi venne questa voce qua, ruvida, secca, che quando la senti ti graffia le orecchie. Eravamo ragazzini, avevo quindici anni, giocavamo a guardie e ladri, e io ero una delle guardie, e perdemmo, e la penitenza era che ti seppellivano sotto la neve per qualche minuto.

Io dissi che non me ne fregava niente, che sotto la neve ci potevo stare anche mezz’ora, per dire. I miei compagni allora mi presero in parola e mi ci lasciarono un bel po’, sotto la neve, e poi però mi dimenticarono là sotto e se ne andarono a casa che era buio.

Passò un vecchina che abitava là vicino, e mi vide.– Sto bimbino o di chi l’è? – fece, e andò a chiamare mia

madre.Venne a cercarmi mia madre, allora, e mi trovò steso

sotto la neve, solo la testa fuori, e un pezzo alla volta mi tirò fuori tutto e poi me le suonò alla grande, così almeno mi scaldavo, e da allora per via della neve mi venne questa voce qua.

Andavo a scuola, ma non mi andava, di andarci.Avrei preferito andare a lavorare. Non ero fatto per i libri e per l’inchiostro.

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Mio padre sì, che lavorava. Mio padre faceva un mucchio di lavori, e lo stesso i soldi a casa non bastavano. Lavorava nella cava di pietra dove prendevano i massi per lastricare le strade di Firenze, e quando non c’era lavoro faceva il muratore, e quando non c’era lavoro andava al fiume a prendere la sabbia per impastarci il cemento, e quando non c’era lavoro andava a spegnere i lampioni a olio quando faceva giorno.

Anch’io volevo andare a lavorare come lui, perché studiare non studiavo. Così un giorno a tavola mi feci coraggio e lo dissi a mio padre:

– La scuola ‘un mi garba punto, babbo.– Te tu ci vai e basta, o bischero!E così non ne parlammo più.

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Capitolo Due

Coi miei abitavo a Ponte a Ema e, quando la scuola obbligatoria la portarono da cinque a sei anni, l’ultimo anno c’era da farlo a Firenze. Per andare a Firenze c’era il tram, ma siccome passava quando aveva voglia lui, tutti a Firenze ci andavano con la bicicletta. Io non ce l’avevo, la bicicletta, e me la sognavo anche la notte. Poi mio padre e le mie zie un giorno misero insieme i soldi e me ne comprarono una usata, e allora la mia vita cambiò.

A scuola con la bici ci andavo come se andassi al mare, e non ero mai stato così felice di andarci e, se arrivavo presto, nella piazza davanti scuola coi compagni facevamo le gare, facevamo a chi faceva più in fretta il giro della piazza, e vincevo sempre io. E poi al ritorno da scuola prendevo sempre la strada più lunga, e così ogni giorno tra andata e ritorno mi facevo i miei 30 chilometri come una passeggiata.

Mi piacevano, le strade lunghe.Più di tutte mi piacevano le salite. A ogni salita coi compagni facevamo a chi arrivava

prima in cima, ma vincevo sempre io. Pedalavo senza tenere le mani sul manubrio, che in

salita nessuno ci riusciva mai. Senza mani mi facevo pure

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la salita dell’Erta Canina, che era un pezzo bello ripido, voglio dire, e i miei amici mi guardavano con tanto d’occhi spalancati. E pure la salita del Moccoli, mi facevo, che si chiamava così perché chi provava ad andar su con la bici ne diceva di moccoli, d' imprecazioni. Smoccolava alla grande, chi ci provava.

La salita del Moccoli era così ripida che quando ci salivano i carri coi buoi i contadini scendevano a spingere, che altrimenti i buoi si ribaltavano. E dire che la strada era sterrata, mica con su l’asfalto, e in sella pure con le mani sul manubrio facevi fatica anche solo a stare dritto. Ma io lo stesso me la facevo fischiettando con le mani in tasca, la salita del Moccoli. Certe volte coi miei compagni mi divertivo a fare uno scherzo a un carabiniere che stava sempre in piazza tutto serio, e lo scherzo era che gli arrivavo da dietro, in silenzio, senza pedalare, con la bici che andava avanti per inerzia, gli urlavo forte in un orecchio e poi giravo la bici e me la filavo.

Al pomeriggio, terminati i compiti, andavo sempre a bottega del Casamonti, che era ciclista indipendente, riparava le bici e aveva sempre la bottega piena di gente che parlava di ciclismo.

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Capitolo Tre

Da Oscar Casamonti si fumava e si parlava solo di ciclismo, si parlava di campioni come Binda, Girardengo, Guerra. Era tutta gente adulta, in bottega, e l’unico ragazzo ero io, là dentro, ma lo stesso ci andavo. Se andavi al bar del paese sentivi la gente parlare anche di calcio, di politica, di vino, di donne.

Alla bottega del Casamonti invece si parlava solo di ciclismo, perciò ci andavo. Veramente ci andavo pure quand’ero un po’ triste, perché il Casamonti mentre lavorava sorrideva sempre, riparava un pedale e sorrideva, avvitava una dinamo e ti offriva una caramella alla menta, tirava il cavetto di un freno e ti faceva l’occhiolino. Riparava le bici con amore, il Casamonti, ti metteva le toppe alla camera d’aria come se la camera d’aria fosse la tua vita piena di buchi. E poi aveva quel cognome che mi piaceva un sacco, perché aveva a che fare con le salite, perché quel cognome era una specie di racconto che parlava di uno che esce di casa, prende la bici e se ne va sui monti. Insomma, finita la scuola dell’obbligo, andai a lavorare nella bottega del Casamonti e diventai anch’io bravo a riparare bici.

Il Casamonti mi insegnava.

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Non si stufava, di spiegare.Diceva guarda, Gino, fai così.Prendeva la camera d’aria bucata e la metteva nella

bacinella piena d’acqua, e io all’inizio pensavo che lo facesse per lavarla, ma poi capii che la camera d’aria la metteva nell’acqua per vedere in che punto si era fatto il buco. Girava la camera d’aria nella bacinella piena d’acqua, il Casamonti, la girava con calma, piano piano, e intanto ficcava gli occhi nella bacinella e aspettava che l’aria scappasse fuori dal buco e provocasse lo zampillo, e in quel punto allora voleva dire che c’era il buco.

Poi tirava fuori la camera d’aria dall’acqua, la asciugava con lo straccio, prendeva da un cassetto la carta vetrata quella fine, dava una grattatina alla gomma rosa intorno al buco, prendeva la toppa, ci metteva su un po’ di mastice e poi incollava la toppa sopra il buco. E potevi stare certo che quella toppa da quel buco non si staccava più.

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Capitolo Quattro

Quando non lavoravo prendevo la mia bicicletta e me ne andavo in giro ad allenarmi, mi facevo tutti i ponti, le salite, le strade e i vicoli che riuscivo a trovare. Mi allenavo sempre, mi allenavo tanto che a furia di allenarmi i pedali mi consumavano le suole, e ogni volta per risuolare le scarpe ci spendevo cinque lire.

Non erano poche, cinque lire.Non me lo potevo mica permettere.Allora mi feci sostituire le suole con la gomma di un

vecchio copertone, così le scarpe duravano di più. Andavo tutto solo per le strade, macinavo chilometri. Con le mie suole di copertone pestavo sui pedali senza tregua.

Mia madre mi cercava e non mi trovava mai. A volte in giro incontravo ciclisti veri che si allenavano

con le vere bici da corsa leggere come piume, scintillanti sotto il sole, e con la mia bici pesante come un cancello mi ci mettevo dietro e non li mollavo, non li mollavo mai, gli stavo nella scia e non mi facevo mai staccare, e a volte riuscivo pure a superarli.

Qualcuno in paese mi notò, e dal Casamonti si cominciava a parlare di me e di come pedalavo.

– È ganzo, ‘sto figliolo! – fece uno una sera, davanti a

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me, e io mi sentii un caldo forte in faccia e il sangue che pulsava nelle tempie, e nemmeno alzai la testa dai pedali che stavo avvitando, ma il Casamonti a quella storia mica ci credeva.

Smise per un attimo di stringere con la chiave inglese il dado del mozzo di una ruota, mi guardò un momento e dopo disse:

– Non esageriamo, ragazzi, è ancora un piscialetto!Ma quelli insistevano, e dagli e dagli convinsero il

Casamonti a organizzare una corsa per vedere di che pasta ero fatto. Alla corsa il Casamonti invitò tutti gli amici che avevano una bici da corsa, e disse a tutti ragazzi, su che facciamo un po’ di allenamento. E poi mi disse allora vieni pure tu, va bene? E io risposi certo che ci vengo.

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LA CORSA GIUSTAScritto da Antonio Ferrara

In copertina: Elaborazione digitale di Sandro Natalini

©2014 Coccole books s.r.l.

Finito di stampare nel mese di Ottobre 2014 presso Rubbettino print - www.rubbettinoprint.it

Questo libro è stampato su carta certificata FSC®

ISBN: 978-88-98346-33-2www.coccoleebooks.com

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