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1 La Corte costituzionale e i cittadini di Andrea Pugiotto 1. Una conversazione priva di oggetto? Un’Aula così bella e prestigiosa che mette quasi soggezione, in un Ateneo così ricco di tradizione e di storia, imporrebbe un esordio forbito e rigorosamente scientifico. Mi sia consentito, viceversa, infrangere le regole non scritte del galateo accademico aprendo questa mia conversazione in maniera inconsueta, con un’affermazione sorprendente. Potendolo fare, il mio esordio suonerebbe così: una lezione titolata «La Corte costituzionale e i cittadini» è priva di oggetto. E poiché di ciò di cui non si può parlare si deve tacere, mi rimarrebbe solo da ringraziare Lorenza Carlassare per l’invito e congedarmi subito da Lei e da voi, secondo l’adagio di una vecchia e dolente canzone di Sergio Endrigo («La festa appena cominciata è già finita…»). Bum! Ovviamente le cose non stanno realmente così, come vedremo. Eppure – si badi - un simile esordio avrebbe, dalla sua, alcune buone ragioni. La prima è di natura squisitamente ordinamentale: diversamente da altri Stati costituzionali, il nostro non conosce vie di ricorso diretto alla Corte costituzionale nella disponibilità del singolo cittadino o di un segmento qualificato di cittadini (come potrebbe essere una minoranza parlamentare). Altrove non è così. In Spagna, ad esempio, è contemplato il cd. recurso de amparo, così come in Germania esiste la cd. Verfassungsbeschwerde. Entrambi, sia pure come rimedi residuali (cioè attivabili solo in assenza di altre strade giurisdizionali praticabili), consentono al cittadino la difesa diretta davanti ai rispettivi Tribunali costituzionali di un diritto che si ritenga leso da un atto di potere. In Francia è data la possibilità di adire direttamente il Conseil constitutionnel a una minoranza parlamentare (60 membri dell’Assemblea nazionale) nel

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La Corte costituzionale e i cittadini di Andrea Pugiotto

1. Una conversazione priva di oggetto? Un’Aula così bella e prestigiosa che mette quasi soggezione, in un Ateneo così ricco di tradizione e di storia, imporrebbe un esordio forbito e rigorosamente scientifico. Mi sia consentito, viceversa, infrangere le regole non scritte del galateo accademico aprendo questa mia conversazione in maniera inconsueta, con un’affermazione sorprendente. Potendolo fare, il mio esordio suonerebbe così: una lezione titolata «La Corte costituzionale e i cittadini» è priva di oggetto. E poiché di ciò di cui non si può parlare si deve tacere, mi rimarrebbe solo da ringraziare Lorenza Carlassare per l’invito e congedarmi subito da Lei e da voi, secondo l’adagio di una vecchia e dolente canzone di Sergio Endrigo («La festa appena cominciata è già finita…»). Bum! Ovviamente le cose non stanno realmente così, come vedremo. Eppure – si badi - un simile esordio avrebbe, dalla sua, alcune buone ragioni. La prima è di natura squisitamente ordinamentale: diversamente da altri Stati costituzionali, il nostro non conosce vie di ricorso diretto alla Corte costituzionale nella disponibilità del singolo cittadino o di un segmento qualificato di cittadini (come potrebbe essere una minoranza parlamentare). Altrove non è così.

In Spagna, ad esempio, è contemplato il cd. recurso de amparo, così come in Germania esiste la cd. Verfassungsbeschwerde. Entrambi, sia pure come rimedi residuali (cioè attivabili solo in assenza di altre strade giurisdizionali praticabili), consentono al cittadino la difesa diretta davanti ai rispettivi Tribunali costituzionali di un diritto che si ritenga leso da un atto di potere. In Francia è data la possibilità di adire direttamente il Conseil constitutionnel a una minoranza parlamentare (60 membri dell’Assemblea nazionale) nel

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caso di delibera legislativa contraria alla Costituzione, con la possibilità di impedirne l’entrata in vigore.

Il denominatore comune che attraversa tutte queste particolari vie di accesso all’indigeno Tribunale Costituzionale è rappresentata dalla possibilità per i cittadini – o per un loro ente esponenziale – di attivare il controllo di costituzionalità su atti di potere (non necessariamente di natura legislativa). In tal modo il cordone ombelicale che unisce cittadini e Corte costituzionale non è mai reciso.

La scelta compiuta nel nostro ordinamento costituzionale è stata invece diversa, come avete appreso dalla bella lezione dell’amico e collega Paolo Veronesi, svolta proprio qui lo scorso 9 aprile. Invero, all’interno dell’Assemblea Costituente non mancarono voci autorevoli (su tutte, quella di Costantino Mortati) a favore dell’introduzione di un ricorso diretto alla Corte, su impulso di un cittadino che ritenesse violato un proprio diritto o interesse legittimo da una disposizione legislativa incostituzionale. Ma le scelte finali presero poi altre direzioni.

Il nostro ordinamento costituzionale, infatti, privilegia una forma di accesso al sindacato di costituzionalità di tipo incidentale, attraverso il filtro di un giudice che, nel corso di un giudizio, si trovi a dover applicare una disposizione legislativa della cui legittimità costituzionale dubita. E’ vero, forme di accesso in via diretta sono pure contemplate. Ma risultano di monopolio dello Stato e delle Regioni, che possono ricorrervi per la risoluzione dei reciproci conflitti legislativi e non legislativi. Oppure sono attivabili da organi appartenenti allo Stato-apparato, per avviare a ricomposizione davanti alla Corte conflitti di attribuzione tra poteri costituzionali; ne restano escluse, invece, le componenti dello Stato-comunità, cittadini compresi (salvo un’eccezione, su cui tornerò: quella della frazione di corpo elettorale che ha sottoscritto un quesito referendario abrogativo). La seconda ragione – che sembra privare di oggetto questa odierna conversazione – è legata alle regole del processo costituzionale italiano ed a come esse sono interpretate e applicate da una (granitica) giurisprudenza costituzionale. Riduco all’essenziale l’essenziale, evitando eccessivi tecnicismi. Se l’accesso privilegiato alla Corte costituzionale è quello

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in via incidentale, ci deve essere un processo come occasione per la promozione della quaestio legitimitatis. Se c’è un processo ci sono, di regola, delle parti (anche) private. E questi cittadini possono collaborare con il giudice a quo e con il giudice costituzionale – rispettivamente – nella promozione e nella risoluzione del dubbio di costituzionalità della legge impugnata. Qui parrebbe emergere un collegamento diretto tra cittadini e Corte costituzionale. Il problema è, però, che le forme di tale collaborazione si riducono davvero ai minimi termini: 1) Le parti processuali possono prospettare questioni di legittimità costituzionale al giudice del proprio processo. Ma si tratta di un mero impulso, perché è comunque il giudice a decidere se sollevare o meno l’incidente di costituzionalità. Detto altrimenti: il potere indiretto del cittadino-parte è interamente assorbito nel potere diretto del solo giudice remittente. E’ lui e soltanto lui «il portiere» della Corte costituzionale, come diceva Piero Calamandrei.

2) Il perimetro della questione di costituzionalità promossa incidentalmente davanti alla Corte (quale disposizione legislativa impugnare? Per violazione di quali parametri costituzionali? Sotto quali profili e per quali motivi?) è tracciato sempre e soltanto dal giudice a quo, a prescindere dall’eventuale impulso della parte processuale. E, in obbedienza ad un principio generale del processo valido anche nel giudizio di costituzionalità, deve esistere una corrispondenza stretta tra quanto chiesto dal giudice a quo e quanto deciso dalla Corte. Detto altrimenti: nessuno dispone del cd. thema decidendum cristallizzato nell’ordinanza di rimessione. Non i giudici costituzionali, ad esso vincolati. Né – ecco il punto - la parte privata che abbia svolto intervento nel giudizio di costituzionalità a Palazzo della Consulta.

La tesi contraria, finemente argomentata da Lorenza Carlassare in un suo noto contributo pubblicato nel 1997 nella rivista Diritto e Società [I diritti davanti alla Corte costituzionale: ricorso individuale o rilettura dell’art. 27 l. n. 87/1953?] non si è inverata nella giurisprudenza costituzionale, se è vero che – anche recentemente - la Consulta ha ribadito quanto segue: «L’oggetto del giudizio di costituzionalità in via incidentale è limitato alle sole norme ed ai parametri indicati nelle ordinanze di rimessione. Ne consegue che non possono essere presi in considerazione, e quindi sono inammissibili perché dirette ad estendere il thema decidendum, ulteriori questioni o

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profili di costituzionalità dedotti dalle parti, sia che siano stati eccepiti ma non fatti propri dal giudice a quo, sia che siano diretti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto delle stesse ordinanze» (sentenza n. 50/2010) .

3) Davvero ridotta è la possibilità per i cittadini di partecipare alla dialettica processuale che si svolge a Palazzo della Consulta, davanti al Giudice delle leggi. Anche qui l’orientamento consolidato della giurisprudenza costituzionale ha ripetutamente escluso che possano costituirsi, nel giudizio incidentale di legittimità delle leggi, soggetti che non siano parti nel giudizio a quo.

Infatti, «l’intervento di soggetti estranei a questo è ammissibile soltanto per i terzi titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto ed immediato al rapporto sostanziale dedotto in giudizio» (ordinanza 23 marzo 2010, allegata alla sentenza n. 138/2010). Non solo è accaduto rare volte ed in ipotesi davvero peculiari. Ma, come tutte le eccezioni, anche queste confermano l’invarianza della regola, che dunque riduce drasticamente gli spazi di intervento di terzi davanti alla Corte costituzionale.

Riassumendo. I cittadini non possono accedere direttamente alla

Corte costituzionale. I cittadini, anche se parti del giudizio a quo, non formulano le “domande” poste alla Corte costituzionale. I cittadini, se non sono parti del giudizio a quo, non possono – di regola - partecipare alla dialettica processuale che si svolge davanti alla Corte costituzionale.

Già questo basterebbe a motivare la mia irrituale affermazione d’esordio. Eppure c’è dell’altro.

Esiste infatti un ultimo motivo che revoca in dubbio l’oggetto dell’odierna lezione: l’atteggiamento distratto e disinteressato che i cittadini rivolgono alle vicende riguardanti la Corte costituzionale (la sua struttura, le sue pronunce, le sue relazioni con gli altri poteri dello Stato). Scriveva Gustavo Zagrebelsky in un suo libro di alcuni anni fa [Princìpi e voti. La Corte costituzionale e la politica, Einaudi, Torino 2005] che, «a dispetto dei suoi vastissimi poteri (…), la Corte costituzionale, tra tutte le istituzioni del nostro Paese, è forse quella meno conosciuta e quindi più spesso travisata». E interrogandosi su quanti interventi della Corte costituzionale siano diventati patrimonio comune dell’opinione pubblica e spinta propulsiva nella vita civile, rispondeva sconsolatamente: «temo non molti».

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E’ la ragione più profonda. Essa rimanda ad un problema di scarsa (o nulla) cultura costituzionale sul quale è necessario riflettere a fondo. Proviamoci. 2. La distanza tra opinione pubblica e Corte (e Carta) costituzionale

Guardiamo oltre il cortile di casa, come ci invita a fare Carla Rodotà nella prefazione al suo agile libretto dedicato alla Storia della Corte costituzionale [Laterza, Roma – Bari 1999]: «Negli Stati Uniti, le nomine dei giudici della Corte suprema, tutte fatte dal Presidente e quindi tutte chiaramente “politiche”, sono severamente e pubblicamente esaminate da una commissione del Senato. Opinioni politiche, pregiudizi, atteggiamenti pubblici e privati, orientamenti scientifici sono sottoposti a un vaglio attentissimo che, tra l’altro, richiama l’attenzione dei cittadini, consapevoli dell’incidenza delle decisioni di giudici anche sulla loro vita quotidiana». Nulla di tutto questo accade in Italia. La selezione dei giudici costituzionali italiani non passa attraverso uno scrutinio stretto e pubblico dei candidati alla carica. I quindici membri della Consulta diventano tali o per nomina (i 5 giudici indicati dal Presidente della Repubblica) o per elezione (i 5 giudici eletti dalle supreme magistrature, i 5 giudici eletti dal Parlamento in seduta comune). Di tale nomina o elezione i mezzi di comunicazione danno – il più delle volte – sbrigativa notizia. E, come sempre accade per le vicende riguardanti i meccanismi complicati della politica e delle istituzioni, quella nomina o quell’elezione passa pressoché inosservata. E’ una di quelle notizie che il lettore guarda ma non vede e che il telespettatore sente ma non ascolta. Lo si può verificare agevolmente, attraverso una prova di resistenza semplice ed immediata. Il test che vi sottopongo è il seguente: chi di voi conosce per nome e cognome gli attuali 15 giudici costituzionali? Alzi la mano, tra i presenti, chi sarebbe in grado di elencare la “formazione” che oggi gioca la partita della costituzionalità delle leggi e degli atti di potere a Palazzo della Consulta.

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Come quando siamo invitati a sforzi mnemonici legati a nozioni lontane nel tempo (per dire: chi erano i sette Re di Roma? quali sono gli affluenti del fiume Po? come si chiamavano i sette nani di Biancaneve o i dodici apostoli del Cristo?), saremmo imbarazzati dalle nostre numerose amnesie. Verrebbe in mente, forse, il nome del Presidente della Corte costituzionale e – se va bene – di alcuni Giudici in carica che avete avuto modo di ascoltare in qualche iniziativa padovana promossa da Lorenza Carlassare (il giudice Gaetano Silvestri ha svolto una sua conversazione il 26 febbraio scorso all’interno di questo stesso ciclo di lezioni; lo scorso anno nella Sala dell’Archivio Antico è intervenuto il giudice Ugo De Siervo). Condizione singolare e, a suo modo, preoccupante. Di altri (per dire: il nostro sindaco, il professore di scuola di nostro figlio, la nostra domestica) pretendiamo a ragione di conoscere vita morte e miracoli. Viceversa, di chi - per nove anni - deciderà con il suo voto sui nostri diritti di libertà e sulla tenuta degli argini alle continue esondazioni costituzionali dei soggetti investiti di potere ignoriamo addirittura il nome e il cognome, figurarsi il curriculum vitae. Guardate che il problema non è (soltanto) nel meccanismo costituzionale di selezione dei giudici che siederanno a Corte. Non dobbiamo essere troppo indulgenti con noi stessi. La genealogia di questo velo d’ignoranza affonda nel nostro scarso senso delle istituzioni e nell’assenza di un “patriottismo costituzionale” che, altrove, forgia invece l’identità di una nazione. Questa cultura costituzionale andrebbe acquisita fin da giovani, attraverso un lavoro educativo all’interno di quella officina di cittadini consapevoli che continua ad essere la scuola, specialmente nel suo primo e secondo ciclo di istruzione.

Così accade negli Stati Uniti, dove i bambini familiarizzano con la Costituzione americana dei Padri fondatori fin dai banchi delle elementari. Così accade in Europa, dove tutti gli ordinamenti scolastici nazionali contemplano – sia pure con diverse denominazioni – un insegnamento di educazione civica. In alcuni di essi l’educazione civica conta addirittura quanto da noi l’insegnamento dell’italiano o della matematica: è materia obbligatoria, studiata separatamente dalle altre, sottoposta a valutazione autonoma e fa media nella votazione finale dell’alunno o dello studente.

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Da noi le cose sono andate diversamente. Introdotta nel 1958 per volontà dell’allora Ministro dell’istruzione Aldo Moro, l’insegnamento di educazione civica è stato contrassegnato da una parabola discendente che ha finito per trasformarla nella materia “cenerentola” del curriculum scolastico, rivelatasi incapace di svolgere un ruolo effettivo nella formazione di una consapevole cultura costituzionale. La legge 30 ottobre 2008, n. 169, con il suo art. 1, tenta ora di rimediare a questo stato di cose attraverso l’introduzione di un inedito insegnamento, denominato Cittadinanza e Costituzione, attualmente oggetto di sperimentazione ministeriale ma destinato ad entrare a regime nei prossimi anni in tutti i cicli scolastici.

Vedremo. La lettura del testo legislativo mostra che si sarebbe potuto fare di più e meglio. Quello che va registrato è, però, addirittura una critica alla radice di tale scelta legislativa.

Mi riferisco alla polemica eccitata da Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della sera del 8 novembre 2009 [Scuola. Così la democrazia diventa catechismo] secondo il quale, con il nuovo insegnamento, all’istruzione scolastica si sostituirebbe una forma di educazione indebita, perchè ideologicamente orientata ad «una determinata tavola di valori assunti a priori e calati dall’alto», e cioè, nel nostro caso, «i valori della Costituzione». L’impianto del nuovo insegnamento mirerebbe in sostanza «a far introiettare ‘eticamente’ la democrazia con l’affermarne perentoriamente la prescrittività». La Costituzione verrebbe «sottratta alla dimensione storico-politica», di «carta politica, dunque politicamente discutibile», e sottoposta a un «processo di eticizzazione» che la trasformerebbe nel «vangelo di una vera e propria ‘religione politica’», in un «paradigma protototalitario». Sono argomenti già sentiti, ad esempio oltre i Pirenei, nella polemica scoppiata in Spagna contro l’analoga scelta legislativa del Governo Zapatero, cui si sono fieramente opposti la Conferenza Episcopale iberica e il Partito Popolare fino ad eccitare – in materia – diversi pronunciamenti del Tribunale costituzionale spagnolo.

Alle ragioni di Galli della Loggia hanno già risposto Valerio Onida [La Costituzione nella scuola: così si diventa (insieme) cittadini] e Maurizio Viroli [Cittadinanza e Costituzione]: i loro interventi sono reperibili nel sito dell’AIC [www.associazionedeicostituzionalisti.it]. Nella polemica, sto certamente dalla parte di questi ultimi, sulla base di un sillogismo

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elementare che muove da una semplice domanda: a cosa serve conoscere la Costituzione italiana? Il quesito ci riguarda, pertiene all’odierna lezione. Rispondendo a questo interrogativo sarà chiaro perché lo sforzo di conoscere (anche) la Corte costituzionale, il suo ruolo nel sistema, la sua giurisprudenza è interesse di tutti i cittadini.

La Costituzione è regola e limite al potere: il costituzionalismo

moderno di matrice liberale (cui appartiene anche la nostra Costituzione) ha sempre guardato al potere negativamente, ponendosi il problema di come contenerlo e controllarlo. Se la democrazia – come ha detto una volta Norberto Bobbio - è «il potere pubblico in pubblico», allora non c’è democrazia senza controllo dei governati su chi governa, e non c’è controllo senza cultura costituzionale, senza conoscenza dei meccanismi che regolano la vita delle nostre istituzioni. Ergo: conoscerne la Costituzione è una precondizione essenziale per la vita stessa di un ordinamento che voglia essere e conservarsi democratico.

E’ un sillogismo dal quale, in primo luogo, dipende l’effettività

dei diritti e delle libertà di cui il cittadino è titolare. Conoscere i propri diritti costituzionali è premessa per poterli

esercitare. Sapere quali sono i limiti e le modalità per il loro esercizio significa praticare la cittadinanza, che non si riduce allo status giuridico acquisibile attraverso le regole prescritte nella legge n. 91 del 1992: oggi, la cittadinanza riassume in sé la condizione di titolarità di quelle libertà che la Costituzione proclama inviolabili.

E’ un sillogismo dal quale, in secondo luogo, dipende lo stato di salute delle istituzioni, sempre a rischio di contrarre malattie virali, insidiose e recidivanti, come l’antipolitica e la cattiva politica.

Questi due virus nascono da un ceppo comune. Antipolitica e cattiva politica derivano entrambe dal fatto che il cittadino poco conosce del meccanismo di un ordinamento democratico; non ha piena coscienza di quali siano i suoi diritti e doveri costituzionali; soprattutto ignora il legame tra quel meccanismo e quei diritti e doveri. E la reazione più comune di chi, posto davanti ad un marchingegno, non ne capisce il funzionamento, è quella di rifiutarlo: «Io di politica non capisco niente, dunque non me ne interesso». La trova detestabile perché incomprensibile. Ecco perché il primo antidoto all’antipolitica ed alla cattiva politica è una necessaria,

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adeguata e diffusa conoscenza della nostra Costituzione. In fondo, se vi siete iscritti a questa Scuola di cultura costituzionale padovana, è proprio per acquisire tale consapevolezza.

Conoscere per controllare i soggetti investiti di potere.

Conoscere per esercitare i propri diritti. Conoscere per deliberare. Vale per la Carta costituzionale. Dovrebbe valere anche per la Corte costituzionale, che ne è il custode giurisdizionale. 3. Quando (e perché) la Corte costituzionale conta nella vita dei cittadini: la giustizia costituzionale come giurisdizione delle libertà Ecco perché, diversamente dalla mia provocatoria affermazione d’esordio, la Corte costituzionale conta (e molto) nella vita dei cittadini.

Lo testimonia, manifestamente, oltre un cinquantennio di giurisdizione costituzionale: «la storia della giurisprudenza della Corte dimostra come essa risulti strettamente intrecciata con quella della società italiana, di cui a volte ha accompagnato o favorito la crescita ed altre volte ha recepito i fermenti di novità» [così il Presidente Franco Bile, nel suo saluto in occasione del 60° della Costituzione italiana].

Nell’ovvia impossibilità, qui ed ora, di farne una cronistoria completa, basterà adoperare quale termometro la relazione sulla giurisprudenza costituzionale del 2009 [reperibile nella sua integralità in www.cortecostituzionale.it], illustrata alla stampa dal Presidente Francesco Amirante, a Palazzo della Consulta, il 25 febbraio scorso.

Il totale delle decisioni (numerate) rese dalla Corte costituzionale nel 2009 è di 342. Già il dato quantitativo è significativo, per quanto sensibilmente inferiore a quello del 2008 (sono state 449 le decisioni nello scorso anno) e, soprattutto, a quello della media degli ultimi venti anni (attestata a poco meno di 481 decisioni annue).

Se poi si guarda – in rapida sequenza – ai profili di diritto sostanziale affrontati nelle sue decisioni del 2009, ci si avvede

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agevolmente di come esse incidano su temi e casi di sicuro rilievo per la vita dei cittadini.

Quanto ai principi fondamentali della Costituzione: l’eguale trattamento davanti alla legge ed al giudice penale (con la nota sentenza n. 262 che ha annullato il cd. lodo Alfano). Le minoranze linguistiche (con importanti affermazioni nella sentenza n. 159 sulla portata precettiva dell’art. 6 Cost.). La condizione giuridica dello straniero (penso, in particolare, all’intelocutoria ordinanza n. 277 in tema di aggravante di clandestinità). Le modalità di ingresso nel nostro ordinamento delle norme - e dunque dei diritti ivi riconosciuti - della CEDU (messe meglio a fuoco nelle sentenze n. 311 e n. 317). La formulazione del precetto penale (con il riconoscimento, nella sentenza n. 21, di una possibile integrazione eteronoma della norma incriminatrice).

Quanto ai rapporti civili: il diritto della donna a proseguire il rapporto di lavoro oltre il 60° anno di età (sentenza n. 275). Il giusto processo, il diritto alla difesa, l’obbligatorietà dell’azione penale. La tutela dei diritti davanti alla giurisdizione, civile e penale. L’ordinamento penitenziario ed i suoi dintorni (misure di prevenzione, giurisdizione di sorveglianza). La giurisdizione amministrativa, tributaria e del giudice di pace (anche in materia di circolazione stradale).

Quanto ai rapporti politici: il diritto di elettorato. Quanto ai rapporti etico-sociali: la materia previdenziale. Il

diritto alla salute (con l’importante ed avanzata sentenza n. 151 in tema di fecondazione assistita; o la n. 28 che impone l’indennità a favore di soggetti che presentino danni irreversibili derivanti da epatite contratta da trasfusione di sangue). La tutela dei disabili. La ragionevolezza delle differenze legislative tra famiglia matrimoniale e convivenza more uxorio. Il dovere di solidarietà tributaria

Può bastare, come esemplificazione. Nella sua pluridecennale

attività, in pratica non v’è stato settore del diritto (lex) e dei diritti (iura) con i quali la Consulta non abbia dovuto fare i conti, nel tentativo di conformarli alla Costituzione. Spesso colmando le omissioni ed i ritardi del Legislatore (attraverso l’invenzione di tecniche decisorie sempre più sofisticate) o le arretratezze interpretative dei giudici ordinari (responsabili di un diritto vivente giurisprudenziale incostituzionale).

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4. Il sindacato di costituzionalità delle leggi come alternativa agli strumenti della democrazia rappresentativa Questo suo ruolo, storicamente esercitato, di Giudice dei diritti fa della Corte costituzionale e del suo sindacato di legittimità delle leggi una possibile modalità di partecipazione dei cittadini, alternativa ai più consueti canali della democrazia rappresentativa.

Davanti ad una legge costituzionalmente ingiusta che la maggioranza parlamentare non intende abrogare o novellare, il cittadino non è disarmato: con la propria iniziativa (collettiva o individuale) può creare le condizioni processuali necessarie perché quella legge venga sottoposta al sindacato di costituzionalità e, se viziata, rimossa dall’ordinamento con effetti generali nello spazio e retroattivi nel tempo.

Attraverso il raccordo giudici-Corte costituzionale si apre così un canale di espressione politica nella disponibilità di coloro che non vogliono, non possono o ritengono inutile passare attraverso le mediazioni politiche o parlamentari (con le quali, anzi, la loro iniziativa si rivela spesso in polemica).

Tra le tante possibili, farò due esemplificazioni particolarmente chiare e significative di come il sindacato di costituzionalità possa rivelarsi una tribuna per rinnovate attese sociali.

Primo esempio. Sentenza n. 470/1989, con la quale la Corte

costituzionale dichiara l’illegittimità dell’art. 5 della legge 15 dicembre 1972, n. 772, che disciplinava la durata del servizio militare non armato e del servizio civile cui erano chiamati gli obiettori di coscienza alla leva in armi. La disposizione legislativa impugnata, secondo la Consulta, introduceva una irragionevole – dunque costituzionalmente ingiustificata - disparità di trattamento a carico degli obiettori a causa della maggiore durata (8 mesi in più) del loro servizio rispetto a quello in armi di un soldato di leva (12 mesi).

Ci interessa guardare la genesi della quaestio così risolta dalla Corte costituzionale. Ci interessano i “casi” da cui essa nasce. Quattro obiettori di coscienza, svolti regolarmente i primi 12 mesi di servizio civile, si erano rifiutati di proseguirlo oltre il periodo corrispondente

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alla durata del servizio militare. Lo avevano fatto pubblicamente, denunciando con il loro gesto la violazione dell’art. 3 Cost. da parte di una legge che, prescrivendo una durata complessiva di 20 mesi, rivelava un intento punitivo nei confronti delle convinzioni interiori di una persona contraria all’uso delle armi, tanto più se istituzionalizzato.

Il loro comportamento configurava un vero e proprio reato militare, per il quale i quattro obiettori – consegnatisi spontaneamente alle autorità militari - vengono sottoposti a processo davanti ai rispettivi Tribunali militari. E’ proprio ciò che in realtà vogliono ottenere: incardinare un giudizio davanti ad un giudice cui chiedere di proporre incidente di costituzionalità sulla disposizione legislativa controversa. E’ sarà proprio in risposta alle ordinanze di rimessione di quei loro giudici militari che la Corte costituzionale, pronunciando la sentenza n. 470/1989, introdurrà – con efficacia erga omnes ed ex tunc – la regola della parificazione tra durata della leva del soldato e dell’obiettore di coscienza. Dunque, la disobbedienza civile di quattro cittadini (mi piace ricordarne i nomi: Mariano Pusceddu, Silverio Capuzzo, Alessandro Scidà, Antonio De Filippis), condotta sotto la spada di Damocle di una pesante condanna penale, ottiene tramite il Giudice delle leggi una modifica dell’ordinamento che le forze parlamentari di maggioranza difficilmente avrebbero introdotto per via legislativa. Secondo esempio. La recentissima sentenza costituzionale n. 138/2010 sul matrimonio tra persone dello stesso sesso. Prescindiamo dal suo dispositivo e soprattutto della sua parte motiva (ai limiti dell’ignavia, come ho cercato di argomentare su L’Unità di lunedì scorso). A noi interessa, anche qui, solo la sua genesi processuale. La dinamica dei casi, poi approdati per via incidentale a Palazzo della Consulta, è seriale. Poiché, nell’ordinamento italiano, il matrimonio tra persone dello stesso sesso non è previsto né vietato in modo espresso, una coppia omosessuale chiede di procedere alle pubblicazioni di nozze: accade a Venezia, a Trento, a Ferrara, a Firenze. L’ufficiale di stato civile oppone rifiuto alla richiesta considerata illegittima. La coppia ricorre in sede civile avverso il provvedimento di diniego, sollecitando il giudice – in via principale – ad ordinare le pubblicazioni rifiutate e – in via subordinata – a sollevare la relativa questione di legittimità costituzionale. Il giudice civile, esclusa la praticabilità di un’interpretazione del dato normativo

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difforme da quella “ancestrale” seguita dall’ufficiale di stato civile, promuove la quaestio perché rilevante e non manifestamente infondata. In questa battaglia di scopo, i mezzi prefigurano i fini. Diversamente dall’esempio precedente, non siamo in presenza di una disobbedienza civile: qui la legge non è violata. Al contrario, ci si appella alla stessa legalità dell’ordinamento che è, primariamente, legalità costituzionale. E si chiede conto di una legislazione ordinaria che, costruita attorno al paradigma eterosessuale del matrimonio, sembra(va) collidere con alcune norme della Costituzione altrimenti orientate.

Qui non si contesta la legalità formale. Al contrario. Come alle origini dello Stato di diritto, si ricorre alla tutela giurisdizionale contro un atto di potere (il rifiuto delle pubblicazioni di nozze) di cui si eccepisce l’illegittimità.

Il caso degli obiettori di coscienza (vittoriosi a Corte). Il caso

delle coppie omosessuali (sconfitte a Corte). Entrambi ci dimostrano come il meccanismo del sindacato costituzionale possa rappresentare una leva nelle mani dei cittadini per (tentare di) affermare diritti di libertà negati o negletti.

Da costituzionalista trovo straniante che, in ragione di ciò, si denunci il tentativo di mettere sotto scacco, per via giurisdizionale, la sovranità del Parlamento. Evidentemente l’ubriacatura di tutti questi anni all’insegna della cd. democrazia d’investitura, ha veicolato l’idea che la sovranità popolare si risolverebbe nel solo gesto di infilare una scheda nell’urna elettorale. Lasciando poi i cittadini muti per cinque anni, durante i quali la sola voce in capitolo sarebbe quella dei soggetti investiti di potere.

In questa vulgata c’è un errore clamoroso. L’idea, cioè, che la sovranità popolare si eserciti ad intermittenza. Non è così. La sovranità può essere esercitata continuamente attraverso tutti i canali di partecipazione (come da sempre ha insegnato, dalla sua cattedra universitaria, Lorenza Carlassare). Democrazia parlamentare e rivendicazione dei diritti attraverso la via della giurisdizione costituzionale sono strumenti complementari, non alternativi. Il loro esercizio non è a somma zero, incrementando semmai la qualità della nostra democrazia.

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Ciò vale, in particolare, quando la posta in gioco è rappresentata da diritti di minoranza. In una società pluralista, il numero non conta in materia di diritti di libertà. Non valendo il criterio quantitativo, la tutela di situazioni anche minoritarie e “anomale”, se costituzionalmente fondate, s’impone alla maggioranza parlamentare riluttante. E’ una verità da tempo smarrita nelle Aule parlamentari. Abita invece (o perlomeno dovrebbe ancora abitare) a Palazzo della Consulta. 5. La Corte costituzionale giudice (o giustiziere?) dei quesiti referendari popolari. Non è solo attivandone il sindacato incidentale che è possibile per i cittadini incrociare direttamente la Corte costituzionale. Accade anche lungo il procedimento referendario che un quesito abrogativo popolare deve percorrere fino in fondo, se vuole essere sottoposto a giudizio dei cittadini. E non è (quasi) mai un incontro indolore.

La Costituzione italiana prevede che il cittadino possa

partecipare all’attività legislativa utilizzando due schede di voto: quella elettorale, per scegliere i propri rappresentanti alla Camera e al Senato; quella referendaria, per correggere l’indirizzo politico espresso dalla maggioranza parlamentare.

Invenzione straordinaria e innovativa, il referendum, fino ad allora sconosciuta al nostro ordinamento. Il voto referendario è la “seconda scheda” che ciascun elettore ha in mano per imporre una decisione ai propri rappresentanti: attraverso l’abrogazione popolare viene cancellata una legge votata dal Parlamento ma non condivisa dal corpo elettorale. Di più: attraverso la tecnica dei quesiti referendari cd. manipolativi, cioè abrogativi di specifiche parti di una legge, l’elettore opera come un vero e proprio legislatore, perché l’esito del voto referendario non sarà un vuoto normativo, bensì una normativa di risulta diversa da quella precedentemente in vigore. Le sue potenzialità normative comunque innovative per l’ordinamento. La sua natura di strumento sottratto alle mediazioni partitiche e parlamentari. La sua capacità di aggregare e disaggregare trasversalmente gli schieramenti parlamentari e finanche le posizioni

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all’interno del medesimo partito. Queste sue caratteristiche strutturali spiegano perché, proprio attraverso la seconda scheda referendaria, siano state scritte pagine importanti della nostra storia repubblicana, imposte all’agenda parlamentare dall’iniziativa di (almeno) 500.000 cittadini, armati semplicemente di una penna e di un documento d’identità per la sottoscrizione del quesito referendario abrogativo. E’ il voto popolare referendario che ha confermato la scelta parlamentare di introdurre, anche in Italia, gli istituti del divorzio e dell’interruzione volontaria della gravidanza. E’ in ragione di appuntamenti referendari che, anche in Italia, sì è potuto discutere e deliberare su temi sensibili come la depenalizzazione delle droghe leggere e la fecondazione medicalmente assistita. E’ attraverso l’abrogazione popolare che è stato messo in discussione il sistema del finanziamento pubblico dei partiti come anche la politica energetica nucleare. E’ grazie alla richiesta di quesiti referendari che – negli anni di piombo del terrorismo e sotto la cappa di piombo della cd. politica dell’unità nazionale – si aprì una discussione pubblica sui temi delle leggi emergenziali, della durata della carcerazione preventiva, del porto d’armi, dell’ergastolo. E’ con mirati quesiti referendari che si è cercato di modificare scelte legislative parlamentari di assoluto rilievo politico: in materia radiotelevisiva, in materia sindacale, in materia di giustizia, in materia economica. Anche la lunga transizione istituzionale italiana, che si trascina ormai - come in un collettivo trip allucinogeno - da tre lustri, ha la sua genesi nei referendum elettorali del 1993, che imposero l’abbandono del sistema elettorale proporzionale a favore di leggi elettorali (tendenzialmente) maggioritarie.

Per arrivare al voto referendario, però, il quesito abrogativo popolare deve superare un giudizio di ammissibilità, che l’art. 2 della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, ha affidato alla Corte costituzionale. Porgendole così - come vedremo - un cadeau avvelenato.

I silenzi dell’art. 75 Cost. e le lacune della legge attuativa n. 352 del 25 maggio 1970, infatti, hanno scaricato sulle spalle della Consulta il compito – politicamente insidioso – di individuare il baricentro tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa. E la Consulta, convinta che «uno strumento essenziale di democrazia diretta, quale il referendum abrogativo, non può essere trasformato –

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insindacabilmente – in un distorto strumento di democrazia rappresentativa» (sentenza n. 16/1978), ha finito per elaborare una giurisprudenza di (in)ammissibilità rapsodica e imprevedibile.

A partire dalla sentenza n. 16/1978, i giudici costituzionali si sono allontanati da una lettura tassativa dei limiti all’ammissibilità del referendum previsti all’art. 75 Cost., arrivando a creare una panoplia di ulteriori divieti, progressivamente arricchiti e sempre più sofisticati. Con il risultato che, oggi, la giurisprudenza costituzionale in materia referendaria assomiglia più alle imprevedibili sponde di un biliardo che ad una serie di coerenti precedenti.

Eppure la lista delle leggi (attenzione: leggi, non materie) sottratte a referendum abrogativo popolare, compilata in Costituzione, si limita ad includere quelle di amnistia e indulto (perché rinforzate nel procedimento deliberativo, ex art. 79 Cost.), tributarie (perché un qualsiasi referendum abrogativo di un’imposta vincerebbe facile), di bilancio e di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali (perché leggi meramente formali, cioè prive di contenuto normativo e, dunque, non abrogabili). Inoltre, trattandosi di un elenco che finisce per limitare l’esercizio di un diritto politico, esso andrebbe interpretato in senso restrittivo, non estensivo.

La Corte costituzionale, invece, ha fatto una scelta ermeneutica

diversa, dilatando i limiti costituzionali alla seconda scheda, preoccupata che un abuso nel ricorso al referendum potesse snaturare il carattere fondamentalmente rappresentativo del nostro sistema politico: «la sovranità del popolo non comporta la sovranità dei promotori e […] il popolo stesso dev’essere garantito, in questa sede, nell’esercizio del suo potere sovrano» (sentenza n. 16/1978)

Sono stati così preclusi al voto abrogativo popolare quesiti di assoluto rilievo: tra i tanti (circa il 50% dei referendum richiesti) l’abrogazione del concordato tra Stato e Chiesa, della giustizia militare, delle norme più fasciste del codice penale fascista, la smilitarizzazione della Guardia di finanza, la modifica in senso uninominale delle leggi elettorali, l’abrogazione integrale della legge sulla procreazione assistita.

Il risultato è che, oggi, il giudizio finale sulle leggi da abrogare finisce per essere affidato non al corpo elettorale ma alla previa discrezionalità (qualcuno dice: all’arbitrio) della Corte costituzionale dove – parole di Livio Paladin - «l’unica certezza è l’incertezza». E

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siccome nella sua giurisprudenza referendaria c’è di tutto e di più, il Giudice costituzionale, agli occhi dei cittadini, sembra comportarsi non diversamente da Yankele, il lattaio ebreo di un piccolo villaggio (di cui racconta, in un suo spettacolo teatrale, Moni Ovadia):

Yankele fa citazioni bibliche e dichiara: «Il Signore è custode

degli sprovveduti, come dice Salomone». Arriva uno sfaccendato che osserva: «No, guarda, Yankele,

questa cosa l’ha detta Mosè» e Yankele gli risponde: «Tu hai ragione». Arriva un altro e dice: «No, questa cosa l’ha detta Re David» e

Yankele gli risponde: «Tu hai ragione». Arriva un terzo sfaccendato: «No, Yankele» - dice - «o lui ha

ragione o ha ragione l’altro» e Yankele gli risponde: «La sai una cosa? Anche tu hai ragione».

Voglio cioè dire che, attingendo con oculatezza al mazzo di

carte dei proprio precedenti, la Corte costituzionale è in grado di “pescare”, indifferentemente, quella favorevole o quella contraria all’ammissibilità del quesito referendario. E’ solo una questione di prestidigitazione, di “abilità” nel navigare all’interno di una giurisprudenza (oramai quasi quarantennale) casistica, poco coerente, difficilmente prevedibile e, in ultima analisi, non controllabile.

Ciò, peraltro, finisce per alimentare l’alto numero di quesiti abrogativi in una medesima tornata referendaria, giacché il Comitato promotore ne presenta molti perché la Corte molti ne boccia, e viceversa. Un circolo vizioso che si autoalimenta e di cui non si capisce più quale sia la causa e quale l’effetto, come accade ai due personaggi del film d’esordio di Ridley Scott, I duellanti.

Ma il punto che mi interessa sottolineare è un altro. Il tasso di

politicità nella sua decisione referendaria e il livello di polemica politica, spesso vicino alla rissa, che sempre accompagna il suo giudizio di ammissibilità o inammissibilità, fa si che sia proprio questo il momento di massima esposizione mediatica della Corte costituzionale.

Quella che viene così restituita ai cittadini è (vera o falsa che sia) un’immagine sfregiata della Consulta, la cui percezione diffusa finisce per fare ombra su quella – molto diversa e certamente migliore – che la Corte offre di sé quando opera come Giudice delle leggi e dei conflitti, àmbiti dove più razionali sono le sue strategie argomentative e dove maggiore è la fedeltà ai propri precedenti. Il tornante

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referendario, invece, mette sempre a rischio la stessa legittimazione dei giudici costituzionali.

Qualche esempio? E’ accaduto, da ultimo, nel maggio 2007, con le opache e

controverse dimissioni del giudice Romano Vaccarella, motivate con la sua denuncia di (presunte) pressioni esercitate su Palazzo della Consulta in vista del giudizio di ammissibilità degli ultimi referendum elettorali promossi da Giovanni Guzzetta e Mario Segni, cui la presidenza della Corte non avrebbe (a suo dire) reagito adeguatamente.

Dieci anni prima, nel febbraio 1997, l’ammissibilità di 11 quesiti referendari sui 30 scrutinati (18 promossi dai radicali, 12 da alcune Regioni) accese la miccia della polemica sulle appartenenze politiche dei giudici costituzionali. Il Presidente della Lombardia, Roberto Formigoni, arrivò ad acquistare a pagamento un’intera pagina pubblicitaria del Corriere della Sera il cui titolo era La democrazia negata. Forze politiche favorevoli alle richieste referendarie denunciarono l’intervento notturno del Capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro su un giudice da lui stesso nominato a Corte, per sovvertire l’esito favorevole all’ammissibilità del referendum sulla smilitarizzazione della Guardia di finanza.

Oggetto di roventi polemiche politiche fu anche la sentenza n. 35/1985 che dichiarò l’ammissibilità del referendum promosso dal PCI per l’abrogazione del taglio legislativo di quattro punti della cd. scala mobile. Ci si spinse fino all’accusa mossa all’allora Presidente della Corte costituzionale Leopoldo Elia di aver sottomesso il rigore giuridico al calcolo politico, cioè di aver dato ragione ai comunisti per incassarne i voti parlamentari in occasione della imminente elezione al Quirinale.

E le esemplificazioni, purtroppo, potrebbero continuare. 6. La Corte costituzionale come veto player della forma di governo parlamentare C’è un’ultima funzione istituzionale della Corte che la mette in relazione diretta con i cittadini: il suo agire come veto player nella forma di governo parlamentare.

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Perché la Costituzione operi concretamente come regola e limite al potere sono stati inventati meccanismi giuridici di garanzia, capaci di arginare le ricorrenti tracimazioni dei “vincitori” elettorali che, volta per volta, conquistano la maggioranza dei seggi in Parlamento e il Governo. Si tratta di “giocatori” titolari di un diritto di veto o di un potere di interdizione, che permettono di bloccare, di correggere o di rimuovere decisioni politiche di maggioranza, incidendo sul regime degli atti formali in cui quelle decisioni trovano traduzione giuridica. La loro presenza, il loro numero, il loro attivarsi (o meno), incidono profondamente sulla dinamica del sistema politico.

Alcuni di loro operano come veto players “verticali”: sono le Regioni, l’Unione europea, il sistema della CEDU, la Corte penale internazionale, alle quali l’ordinamento statale ha progressivamente ceduto – secondo Costituzione – ambiti di sovranità limitando, di converso, le proprie competenze normative o giurisdizionali.

Altri operano come veto players “orizzontali”, perché a vario titolo partecipano al procedimento legislativo o dispongono del suo prodotto normativo: sono i Presidenti di Camera e Senato, il Capo dello Stato, la frazione di corpo elettorale titolare della funzione referendaria abrogativa, i giudici e – appunto - la Corte costituzionale.

Quanto al ruolo di tali meccanismi, esso è ambivalente. Il politologo tende a leggervi una funzione di freno: più sono

questi giocatori, più alta è la probabilità che il sistema politico resti ancorato allo status quo.

Il costituzionalista, viceversa, vi riconosce un ruolo essenziale nella messa in sicurezza del sistema: si parla, in proposito, di correttivi alla forma di governo parlamentare. Grazie alla loro previsione, infatti, tutta una serie di decisioni politiche di rilievo vengono sottratte al monopolio del raccordo Governo-Parlamento ed assunte altrove. Con la conseguenza che l’indirizzo politico di maggioranza subisce altrettante limitazioni e condizionamenti.

Ebbene. Quando una sentenza costituzionale annulla una legge

illegittima, è la Parte I della Carta fondamentale (la cd. Costituzione dei diritti) che viene ad essere direttamente tutelata. Ma anche quando una sentenza costituzionale annulla un atto di un organo apicale dello Stato invasivo o lesivo della competenza costituzionale altrui, non è solo la Parte II della Carta fondamentale (la cd. Costituzione dei

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poteri) ad essere garantita. Il principio costituzionale della separazione dei poteri, infatti, non è meramente organizzativo, ma strumentale alla prevenzione dell’arbitrio e alla tutela dei diritti: presidiando il disegno costituzionale delle competenze tra poteri, si presidiano così anche le libertà dei cittadini.

La Corte costituzionale si pone in tal modo come sentinella dell’intera Costituzione lungo tutti i suoi confini. Ne garantisce la tenuta nella sua integralità.

Il punto, specie oggi che torna ad affacciarsi l’idea di una rinnovata bulimia riformatrice della Costituzione dei poteri, merita particolare attenzione. Come la bandierina rossa segnala il pericolo di balneazione, così i cittadini vanno messi sull’avviso dei rischi legati all’idea che la Costituzione possa essere spaccata in due metà, come una mela.

E’ infatti ormai diffusa, quasi gergale, l’idea che, mentre la

Parte I della Costituzione mantiene a tutt’oggi una straordinaria vitalità ed attualità, la sua Parte II necessiterebbe oramai di una robusta e profonda opera di riscrittura, in ragione dei lenti processi tradizionali di formazione del consenso e di funzionamento degli organi del potere legislativo ed esecutivo. In tal modo, la distinzione tra Costituzione dei diritti e Costituzione dei poteri, apparentemente descrittiva, si carica di un significato prescrittivo preludendo in realtà a riforme costituzionali addirittura improcrastinabili.

Eppure la Costituzione presenta una trama unitaria non separabile. Costituzione dei diritti e Costituzione dei poteri sono, infatti, vasi comunicanti.

Lo si capisce bene proprio guardando alla struttura e alle funzioni della Corte costituzionale. Proporne una composizione a prevalente origine parlamentare, cacciandola così a capofitto nel bel mezzo della politica. Sommergerla con alluvionali controversie attraverso l’introduzione di un ricorso individuale accessibile a milioni di cittadini che invocano la tutela di diritti fondamentali (il cui catalogo è, peraltro, in progressiva espansione). Allargarne le competenze fino a contemplare un ricorso diretto alla Corte anche per gli ottomila comuni e le cento provincie d’Italia contro leggi statali e regionali. Simili riforme soffocherebbero la Corte costituzionale, la sua autonomia, la sua funzionalità (come già denunciò, nella sua conferenza stampa dell’11 febbraio 1998, l’allora Presidente Renato

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Granata, in riferimento alle proposte di revisione elaborate dalla Commissione Bicamerale D’Alema).

Ecco il punto cui volevo arrivare. Una riscrittura delle regole

costituzionali relative alla Corte costituzionale, mirante a depotenziarne se non a sterilizzarne il ruolo, lascerebbe scoperti sul piano della tutela proprio i principi fondamentali della Costituzione ed i diritti di libertà dei cittadini. E questo a prescindere dalla collocazione topografica della giustizia costituzionale all’interno del testo costituzionale.

E’ intuitivo. I diritti trovano tutela attraverso gli istituti di garanzia previsti nella Parte II della Costituzione (la Corte costituzionale, ma anche la presenza di una opposizione parlamentare, le regole della dialettica parlamentare, il referendum, l’autonomia e indipendenza della Magistratura, il Presidente della Repubblica come garante della Costituzione, la rigidità costituzionale). Basta amputare tali meccanismi di salvaguardia e il gioco è fatto. A danno, però, dei cittadini. 7. Come (e perché) la Corte costituzionale entra in dialogo con i cittadini Finora la mia riflessione ha guardato a come (e perché) i cittadini entrano in contatto con la Corte costituzionale. Guardiamo ora l’altra faccia della luna. E’ il caso di rovesciare il punto prospettico, domandandoci come (e perché) la Corte costituzionale ha, a sua volta, necessità di entrare in contatto con i cittadini.

Sotto questo aspetto, non mi interessa guardare ai “mezzi” di cui la Consulta si serve per rapportarsi con l’opinione pubblica (le annuali conferenze stampa dei suoi Presidenti; le esternazioni dei suoi Presidenti) o con quella sezione qualificata dell’opinione pubblica rappresentata dalla comunità degli interpreti (con la quale la Corte dialoga prevalentemente attraverso la parte motiva delle sue sentenze e forse, un domani, attraverso l’introduzione della cd. dissenting opinion).

La centralità del rapporto Corte costituzionale–cittadini sta, a mio avviso, altrove.

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Il dato ordinamentale da cui serve partire è, a suo modo, paradossale. La Corte costituzionale è organo di chiusura del sistema: le sue sentenze infatti, ai sensi dell’art. 137 Cost., non sono impugnabili. Eppure la Corte costituzionale non ha strumenti per imporre le proprie decisioni: ai sensi dell’art. 136 Cost., il giudicato costituzionale è affidato all’applicazione in sede processuale dei giudici o all’esecuzione da parte degli organi costituzionali. Ecco il paradosso: la Corte «possiede l’ultima “ parola”…ma solo quella» [Alessio Rauti]. Si può dunque ripetere per il giudice costituzionale quanto Alexander Hamilton diceva per il potere giudiziario, qualificandolo come «the least dangerous branch». Le sentenze costituzionali non hanno effetti immediati né per la libertà delle persone né per i loro beni, perciò non è contemplato un apparato coercitivo chiamato a darvi esecuzione. Esse si limitano ad accertare l’illegittimità della legge impugnata o la spettanza dell’attribuzione contesa. Come poi l’ordinamento reagirà alla loro pronuncia sfugge alla vista (e alla disponibilità) dei giudici costituzionali. Non potendo appoggiarsi sulla forza pubblica, la Corte costituzionale deve, allora, cercare altrove le condizioni di efficacia delle proprie sentenze. E’ qui che entra in gioco il concetto di opinione pubblica. Categoria fluida e multiforme. Include la coscienza sociale, la cui evoluzione incide sulla giurisprudenza costituzionale, determinandone significativi overruling (esemplare il passaggio dalla sentenza di rigetto n. 64/1961 a quella di accoglimento n. 126/1968 in materia di adulterio femminile). Abbraccia la già citata comunità degli interpreti (giudici, dottrina) e lo stesso legislatore (interfaccia obbligato della Corte costituzionale). Comprende forme istituzionalizzate di settori della pubblica opinione (la frazione di 500.000 elettori rappresentati dal Comitato promotore del referendum). Arriva fino ad includere la generalità dei cittadini. E’ la componente che ci interessa di più, in questa sede. L’effettività della giustizia costituzionale, in ultima analisi, dipende dalla capacità della Corte «di intessere un dialogo, e da esso di trovare alimento e sostegno, con una “opinione pubblica

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costituzionale”, con un comune sentire non partitico dello Stato e delle istituzioni» [G. Zagrebelsky, La giustizia costituzionale, il Mulino, Bologna 1988]. Detto altrimenti, è solo il consenso dei cittadini che può consentire alla Corte costituzionale di sottrarsi all’abbraccio mortale della vita politica e partitica in senso stretto. Beninteso, non parlo di un consenso che la Corte dovrebbe cercare sentenza per sentenza: il suo operare non può essere l’esito di una sorta di indagine demoscopica, non deve tradurre in termini costituzionali un pericolosissimo ossequio alla doxa dominante. Parlo, semmai, di un consenso complessivo attorno al proprio ruolo ed alla propria legittimazione, che non può mai darsi acquisita una volta per sempre agli occhi dei cittadini. Tutto ciò chiama i giudici costituzionali ad una piena consapevolezza della propria funzione e della propria responsabilità, individuale e collettiva. Una consapevolezza che deve declinarsi concretamente in specifici comportamenti: chiamiamoli per nome. Autonomia dalla propria fonte d’investitura. Indipendenza di giudizio. Rifiuto dell’uso della propria carica di giudice costituzionale come tappa di un successivo cursus honorum politico. Sobrietà e riservatezza nell’esercizio della propria delicata carica istituzionale. «La forza della Corte costituzionale è la forza del consenso; è il suo prestigio a conferirle autorità, ed il prestigio non può che essere alimentato dalla qualità delle persone che la compongono e dal comportamento che esse tengono» [Roberto Bin]. La condotta di un giudice costituzionale deve essere sterile come in una sala operatoria.

Talvolta alcuni giudici costituzionali sembrano dimenticarlo. E la loro memoria corta finisce per danneggiare l’istituzione cui appartengono.

Al netto di mille altre possibili osservazioni critiche, sta soprattutto qui l’enormità della cena tra due Giudici costituzionali con il Presidente del Consiglio in carica e il Guardasigilli, presenti anche il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio ed i Presidenti delle Commissioni Affari costituzionali di Camera e Senato: cena consumata a casa di uno dei due giudici, alla vigilia del pronunciamento della Corte costituzionale sulla legittimità della legge n. 124 del 2008 (il cd. lodo Alfano), di cui il Capo dl Governo era il beneficiario e il Ministro di Giustizia l’autore materiale.

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Ciò che non è vietato, è legittimo: così, a propria difesa, ha dichiarato l’ospite. Eppure, davvero, non c'è bisogno di regole scritte per capire che un giudice costituzionale non può andare a cena con il premier alla vigilia di una decisione che lo riguarda in pieno. Dovrebbe bastare il buon senso. E la coscienza del proprio ruolo. 8. Un epilogo: il ponte di Calatrava E’ il momento di riepilogare. Da un lato. La Corte come giudice dei diritti e delle libertà dei cittadini. La Corte come terminale di iniziative di disobbedienza civile e di affermazione civile dei cittadini. La Corte come giudice (e, spesso, giustiziere) dei quesiti referendari promossi dai cittadini. La Corte come veto player che, limitando il potere della maggioranza, tutela dagli abusi di potere i cittadini. Dall’altro lato. La Corte come istituzione la cui legittimazione e la cui effettività dipende da un dialogo e da una relazione ininterrotti con i cittadini.

Lo scetticismo iniziale circa la distanza incolmabile tra Corte costituzionale e cittadini lascia così il posto alla necessità ed alla possibilità di unire entrambe le sponde, permettendo così un passaggio dall’una all’altra che si rivela vitale per entrambe.

Tra Corte costituzionale e cittadini, dunque, si può e si deve costruire un ponte. Come quello che attraversa il Canal Grande di Venezia collegando Piazzale Roma e la Stazione ferroviaria di Santa Lucia, progettato e realizzato da Santiago Calatrava. Opera architettonica la cui denominazione, ai fini della riflessione che vi ho proposto, si rivela davvero una felice coincidenza: ponte della Costituzione. Grazie.

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Nota bibliografica

Il presente testo ricalca i contenuti della lezione seminariale tenuta dal Prof. Andrea Pugiotto, Ordinario di Diritto costituzionale nell’Università di Ferrara, il 23 aprile 2010 nell’ambito del ciclo di incontri Costituzionalismo e Democrazia, promosso dalla Scuola di Cultura costituzionale dell’Università degli studi di Padova. Data la sua finalità esclusivamente didattica ed esplicativa, il testo non ha alcuna pretesa di completezza o di originalità e mette a valore – anche attraverso stralci testuali - contributi e riflessioni presenti nel dibattito scientifico sul rapporto tra cittadini e Corte costituzionale. Un’agile ricostruzione della Storia della Corte costituzionale si può leggere nell’omonimo libretto di Carla Rodotà, Laterza, Roma – Bari 1999. Più aggiornato si presenta, ora, il volume di E. Bindi, La garanzia della Costituzione, Giappichelli, Torino 2010. Per una lettura della giurisdizione costituzionale con gli occhiali dello scienziato della politica si può vedere P. Pederzoli, La Corte costituzionale, il Mulino, Bologna 2008.

Un inquadramento di taglio divulgativo del ruolo complessivo della Corte costituzionale nel sistema può trarsi dalla lettura del volumetto di A. Celotto, La Corte costituzionale, il Mulino, Bologna 2004. Ancora utile – anche se datato e non più in distribuzione – resta il volume di E. Cheli, Il giudice delle leggi, il Mulino, Bologna 1999.

Una preziosa e raffinata ricostruzione “dall’interno” della Corte costituzionale (circa il suo ruolo, le sue dinamiche, la sua legittimazione) ci viene offerta da G. Zagrebelsky, Principi e voti. La Corte costituzionale e la politica, Einaudi, Torino 2005.

Il tema del rapporto tra Corte costituzionale e cittadini è stato

oggetto di una (non copiosissima) dottrina. Tra i contributi più recenti si segnala – anche per le ricche indicazioni bibliografiche – il saggio di A. Rauti, «Il tuo nome soltanto m’è nemico…». «Linguaggio» e «convenzioni» nel dialogo tra Corte costituzionale e opinione pubblica, in R. Bin – G. Brunelli – A. Pugiotto – P. Veronesi (a cura di), «Effettività» e «seguito»delle tecniche decisorie della Corte costituzionale, E.S.I., Napoli 2006, 581 ss.