la figura dell’educatore nelle comunitÀ terapeutiche e nei centri diurni per la riabilitazione...
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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA
FACOLTÀ DI SCIENZE DELLA FORMAZIONE
CORSO DI LAUREA IN SCIENZE
DELL’EDUCAZIONE
ELABORATO FINALE DI LAUREA
UNA MAPPA SULLE COMUNITÀ TERAPEUTICHE E I CENTRI DIURNI PER LA
RIABILITAZIONE PSICHIATRICA DELL’ULSS 5 OVEST VICENTINO
TUTOR E RELATORE: Prof. Milan Giuseppe
ESTENSORE: Pittaro Michele
ANNO ACCADEMICO 2004 – 2005
Indice
Introduzione Cap. I: La riabilitazione psichiatrica
1.1 Obiettivi della riabilitazione psichiatrica 1.2 Origini e sviluppo dell’assistenza psichiatrica 1.3 Interventi riabilitativi
Cap. II: I luoghi della riabilitazione psichiatrica nel Dipartimento di Salute
Mentale, ULSS N° 5 Ovest Vicentino - Regione Veneto
2.1: Organizzazione del Dipartimento di Salute Mentale dell’ULSS n.5 2.2 Le Comunità Terapeutiche
2.2.1 Comunità Alloggio "Casa di Giobbe" 2.2.2 Comunità Terapeutica Residenziale Protetta (CTRP)
“Il Girasole” 2.2.2.1 Attività
2.3 Il Centro Diurno 2.3.1 Il Centro Arcobaleno di Arzignano 2.3.2 L’approccio adottato dal Centro Arcobaleno con la malattia mentale 2.3.3 L’organizzazione delle risorse 2.3.4 Le principali attività
2.4 Altre risorse: Gruppi di Auto – Mutuo – Aiuto e Salute
Mentale Cap. III: L'esperienza di tirocinio Cap. IV: L'educatore nella riabilitazione psichiatrica Conclusioni
Bibliografia
Pag. 3 Pag. 4 “ “ Pag. 7 Pag. 13 Pag. 14 Pag. 15 Pag. 19 “ Pag. 22 Pag. 24 “ “ pag. 27 pag. 28 pag. 30 pag. 34 pag. 41 pag. 45 pag. 47
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Introduzione
La presente tesi affronta il tema della riabilitazione psichiatrica e della collocazione e
sfruttamento delle risorse da parte del Dipartimento di Salute Mentale dell’ULSS 5 Ovest
Vicentino, regione Veneto.
Nella prima parte ho cercato di presentare in forma sintetica il tipo di approccio e le modalità di
intervento che nella attuale psichiatria vengono utilizzate. Nella seconda ho descritto i luoghi
dell’assistenza presenti nel territorio cercando di delinearne la funzionalità specifica. Tra questi mi
sono soffermato in particolare sul centro Arcobaleno, Centro Diurno nel quale ho svolto il mio
tirocinio, descritto nel terzo capitolo.
Nell’ultimo capitolo ho delineato una possibile configurazione delle competenze che un
educatore può avere all’interno di una struttura psichiatrica.
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Cap. I
La riabilitazione psichiatrica
1.1 Obiettivi della riabilitazione psichiatrica
Il principale obiettivo della riabilitazione psichiatrica è garantire che l’utente portatore di una
disabilità psichica utilizzi le proprie abilità fisiche, emotive, sociali ed intellettuali per inserirsi,
convivere, lavorare nella comunità. Il sostegno da parte dei rappresentanti delle professioni sanitarie
deve essere il minimo indispensabile e consiste nel garantire il funzionamento della comunità
psichiatrica per un adeguato addestramento e inserimento nella società.
1.2 Origini e sviluppo dell’assistenza psichiatrica
La psichiatria è una delle poche branche della medicina in cui l’assistenza, cioè il trattamento
del paziente al di là dell’applicazione di specifiche tecniche terapeutiche o riabilitative, svolge un
ruolo centrale. I questo si riconduce a due motivi: da una parte alla scarsità di conoscenze
scientifiche, e quindi dall’assenza di efficaci strumenti terapeutici che ha fatto si che si
concentrassero gli sforzi per aiutare il paziente sull’assistenza, dall’altra alla necessità di custodire il
paziente oltre di curarlo.
Il concetto di assistenza inizia a farsi strada sostituendosi a quello di reclusione già alla fine del
diciottesimo secolo, quando alcuni medici illuminati si erano proposti di migliorare le condizioni di
vita degli internati nelle grandi istituzioni manicomiali. Nella realtà il manicomio il quel momento e
per molto tempo ancora mantiene la barbara impronta del reclusorio in cui le condizioni di vita dei
malati erano pessime. Il solo tipo di assistenza riguardava l’igiene: tramite essa era possibile
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migliorare il contegno di questo genere di malati. In questo periodo non vi era ancora alcuna
prospettiva pratica di terapia.
La storia della psichiatria Italiana nel secondo dopo guerra è divisibile in quattro periodi:
1945 – 1955 Periodo conservatrice
1955 – 1968 Periodo della modernizzazione
1968 – 1978 Periodo del mutamento
1978 – 1988 Periodo della difficile riforma
Nel primo periodo continuava a prevalere una situazione in cui il manicomio era il solo
strumento assistenziale, accettato dal mondo psichiatrico e dal pubblico come parte essenziale
dell’attività verso i malati psichici, ben integrato nella cultura dominante che relegava in posizione
marginale le impostazioni fenomenologia e psicanalitica. Nemmeno la nascente scienza
farmacologia psichiatrica produsse cambiamenti significativi: il manicomio, in una logica quasi
esclusivamente di tipo asilare e di custodia, fungeva da contenitore nel quale venivano
occasionalmente calate le terapie che via via emergevano: elettroshock, psicofarmaci e anche i
primi tentativi embrionali di socio-psicoterapia istituzionale.
Col periodo della modernizzazione nella psichiatria italiana prendevano corpo tendenze esterne
al mondo accademico (il mondo psicanalitico, la filosofia sartriana e la sociologia marxista) che
ponevano le premesse di un grande rinnovamento nell’ambito medico e aprivano nuovi orizzonti di
lavoro. Cominciarono così a svilupparsi esperienze di psicoterapia non con l’ausilio del classico
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divano, in prevalenza con i malati psicotici, nascevano gruppi, riviste scientifiche, collane editoriali;
sono questi gli anni in cui la psicofarmacologia cresce (compaiono gli antidepressivi e le
benzodiazepine), soppianta le terapie di shock, ed esce dal suo periodo infantile.
L’inizio del periodo del mutamento è marcato dalla pubblicazione de L’istituzione negata, una
pietra miliare nella storia recente della psichiatria italiana, nella quale viene mossa una critica alle
istituzioni manicomiali italiane, nel quale al concetto di istituzione totale veniva opposta
l’impostazione “anti – istituzionale”: il dibattito sulla natura e sulle cause della malattia mentale
venne messo volutamente tra parentesi a favore dell’approfondimento dei legami tra istituzione e
sofferenza e del superamento pratico degli ospedali psichiatrici.
Nello stesso anno veniva approvata la legge 431 che sanciva la possibilità di ricovero
“volontario” in ospedale psichiatrico, ampliava gli organici psichiatrici, consentiva la istituzione dei
servizi territoriali; poneva, infine, le premesse dell’inserimento della psichiatria nella medicina.
Quel che si tentava di attuare era di affermare nella pratica la liberazione dalla segregazione e dalla
violenza del manicomio per affrontare le contraddizioni sociali – radice del malessere psichico – là
dove si generavano, e per organizzare l’assistenza in modo conseguente.
Questi anni quindi hanno consentito e favorito l’innesto di attività tecniche aggiornate e di buon
livello nelle strutture riformate sorte da esperienze anti – istituzionali.
La fase della difficile riforma inizia con l’approvazione della legge n. 180 del 13 Maggio 1978 i
cui cardini sono i seguenti:
− Passaggio dell’assistenza psichiatrica dalle Province alle Unità Sanitarie Locali;
− Blocco di nuove ammissioni negli ospedali psichiatrici e della costruzione di nuovi
istituti;
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− Istituzioni di servizi psichiatrici begli ospedali civili, piccoli reparti deputati ai ricoveri
volontari e coattivi;
− Attribuzione ai servizi territoriali di salute mentale delle competenze connesse con ogni
problematica psichiatrica sul territorio;
− Volontarietà e consenso del paziente ai trattamenti, con la possibilità di effettuare i
ricoveri obbligatori in particolari condizioni e per periodi limitati di tempo.
E’ stato grazie alla legge 180 che il paziente psichiatrico ha conquistato una sostanziale parità di
diritti rispetto agli altri tipi di malati; inoltre è andata sviluppandosi l’idea che l’assistenza
psichiatrica vada strutturata in una logica di tipo territoriale e che la psichiatria sia inserita
nell’ambito della sanità pubblica e della medicina. Assistenza e terapia divengono termini collegati
e coniugati in funzione reciproca: non può più esistere terapia fuori di un definito contesto
assistenziale. Il servizio territoriale diviene luogo sia dell’assistenza, che non può essere neutra, che
delle terapie, che non possono essere fatti occasionali calati in contesti indifferenti.
1.3 Interventi riabilitativi
La pratica clinica della riabilitazione psichiatrica comprende due tipi di intervento:
a) sviluppo delle abilità del paziente;
b) sviluppo delle risorse dell'ambiente.
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La persona disabile necessità di abilità e di supporti ambientali per rispondere alle richieste di
ruolo dei vari ambienti di vita, di apprendimento e di lavoro.
Tra i vari tipi di interventi riabilitativi i più significativi sono i seguenti:
Trattamento multidimensionale.
È dato dall'intersezione di tre dimensioni. La prima dimensione indica la natura e la gravità dei
sintomi, dai primi segni sino ad arrivare ad un episodio francamente psicotico, alla remissione
oppure alla malattia cronica. La seconda dimensione riguarda il trattamento e le tecniche di
riabilitazione (farmacoterapia, terapia familiare e cognitiva, social skills training e riabilitazione al
lavoro). La terza dimensione è costituita dai programmi di sostegno, mirati a ridurre al minimo gli
handicap residui; il supporto alla famiglia, il diritto ai servizi sociali, il case management e i club
psicosociali.
Riduzione delle menomazioni
Gli interventi riabilitativi destinati ai pazienti psichiatrici richiedono la riduzione o
l'eliminazione delle menomazioni sintomatiche e cognitive che interferiscono con le prestazioni
sociali e lavorative. Ciò è possibile grazie alla psicofarmacologia: farmaci antipsicotici,
antidepressivi e ansiolitici. I farmaci psicotropi non sono una panacea: anche quando vengono
assunti con regolarità, riescono solo a ridurre e non ad eliminare i sintomi, ad allontanare e non a
prevenire le ricadute, presentano inoltre spiacevoli effetti collaterali che possono talvolta interferire
con le attività di skills training.
Il trattamento delle disabilità attraverso lo skills training
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Una volta che il paziente ha ottenuto il massimo beneficio dai farmaci psicotropi e dagli effetti
terapeutici dell'ospedalizzazione breve, le strategie di riabilitazione utilizzano lo skills training per
intervenire sulle disabilità riscontrate nel funzionamento sociale, familiare e lavorativo. Lo skills
training si basa sull'assunto che molti pazienti presenteranno persistenti disabilità. Nonostante i
tentativi fatti con i farmaci e l'ospedalizzazione. I farmaci stessi non possono agire sulle abilità
connesse al vivere e sulle abilità di coping se non indirettamente, attraverso la riduzione o
l'eliminazione dei sintomi. La maggior parte degli schizofrenici ha bisogno di apprendere o di
riapprendere abilità sociali e personali per sopravvivere nella comunità. Si può iniziare uno skills
training immediatamente dopo la stabilizzazione di un episodio acuto o l'esacerbazione di un
disturbo psichiatrico, eventi che di solito comportano la riduzione del funzionamento sociale e di
ruolo. Dal momento che gli obiettivi della riabilitazione si focalizzano sull'adattamento alla vita.
quotidiana, è di fondamentale importanza per gli schizofrenici partecipare il più possibile alla scelta
degli obiettivi e al processo di apprendimento. Un trattamento riabilitativo di ampia portata
comprende l'assessment, l'addestramento e la modificazione dell'ambiente di vita nelle aree rilevanti
della vita personale e della comunità (cure personali, inclusi i farmaci e la gestione dei sintomi,
relazioni familiari, relazioni con i coetanei e gli amici, hobby ed attività lavorative, gestione dei
soldi e dei consumi, vita residenziale, attività ricreative, mezzi pubblici, preparazione del cibo,
scelta e uso delle strutture pubbliche). Il paziente, la sua famiglia e le altre persone significative
dovrebbero essere coinvolti attivamente nella formulazione di obiettivi specifici.
Lo skills training sociale e lavorativo, per insegnare specifiche abilità interpersonali e favorire la
generalizzazione e il mantenimento delle abilità apprese, utilizza procedure che si basano sui
principi dell'apprendimento umano. Le disabilità nell'apprendimento presentate da molti pazienti
psichiatrici cronici, richiedono per il social skills training l'uso di tecniche comportamentali molto
direttive. La maggior parte degli individui con disabilità psichiatrica hanno deficit attentivi e di
elaborazione delle informazioni, presentano ai test psicofisiologici una particolare sensibilità ai
fattori stressanti emotivi o anche a sedute terapeutiche non accuratamente strutturate o modulate. Le
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procedure di skills training devono essere adattate alle necessità del singolo paziente, dal momento
che ognuno presenta una particolare costellazione di abilità e di deficit sociali; è necessario
condurre un assessment completo delle risorse personali e della comunità che possono essere
utilizzate per promuovere l'apprendimento di abilità.
Il trattamento delle disabilità attraverso il sostegno ambientale
Quando il ripristino del funzionamento sociale e lavorativo per mezzo dello skills training è
limitato dalla presenza di deficit duraturi o da sintomi refrattari al trattamento, le strategie
riabilitative mirano ad aiutare l'individuo a compensare la disabilità attraverso:
a)l'individuazione di ambienti di vita, di apprendimento e di lavoro che possano accogliere i
deficit e i sintomi residuali;
b) il ridimensionamento delle aspettative individuali e familiari verso un livello di
funzionamento realisticamente raggiungibile.
Gli interventi sull'ambiente cercano di fornire al paziente persone o setting di sostegno o
entrambi. Una persona di sostegno può ridurre la disabilità e l'handicap del paziente svolgendo una
quantità di ruoli differenti. Fornire un setting più supportivo significa lavorare sui programmi e
sulle risorse nell'ambiente piuttosto che sul sostegno di persone (es. posti di lavoro e strutture
abitative protetti e specifici programmi di dimissioni). La principale caratteristica di entrambi gli
interventi supportivi, che li distingue dagli interventi di sviluppo delle abilità, è che essi non
cercano di modificare il comportamento del paziente in modo sistematico e diretto, ma piuttosto
tentano semplicemente di supportare e favorire il livello di funzionamento già presente nel paziente.
Il sostegno personale risulta più efficace di tutti gli approcci di trattamento basati
sull'ospedalizzazione nel ridurre le recidive e incrementare l'autostima e le prestazioni strumentali e
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di ruolo del paziente. Negli ultimi dieci anni si è assistito a un'evoluzione dei programmi lavorativi,
in modo coerente con la filosofia e i principi della riabilitazione in generale verso il concetto di
sostegno lavorativo crescente.
Un'altra area in cui è necessario un sostegno costante è l'abitazione. Il concetto di sostegno
alloggiativo è stato proposto per sostituire il modello del continuum, in cui i pazienti si trasferivano
in strutture abitative via via più indipendenti. Al contrario il modello del sostegno alloggiativo aiuta
le persone disabili dal punto di vista psichiatrico a scegliere, affittare e/o mantenere abitazioni
normali e stabili.
Riassumendo si può suddividere il processo riabilitativo in tre fasi che si sovrappongono. La
prima è quella dell'assessment sintomatico, funzionale e delle risorse, che coinvolge il paziente e il
professionista nella fase di progettazione, si svolge attraverso interviste, inventari, dati storici,
osservazioni comportamentali dirette, si raccolgono informazioni sui deficit attuali della persona,
sulla psicopatologia, sulle abilità sui sostegni che riceve, sul livello di abilità richieste dagli
ambienti di vita, apprendimento al lavoro. Le informazioni ottenute permettono di lavorare con il
paziente e la sua famiglia per sviluppare un progetto riabilitativo, fase di pianificazione, che
specifichi come la persona o l'ambiente circostante debbano cambiare per raggiungere gli obiettivi
prefissati. Rispetto ai cambiamenti richiesti alla persona, il progetto specifica grado per grado le
abilità che la persona deve acquisire per adeguare il proprio livello di funzionamento a quello
richiesto dall'ambiente. Rispetto ai cambiamenti dell'ambiente, un progetto sequenziale descrive
quali siano i coordinamenti e le modificazioni necessarie e come debbano essere portate avanti. Il
progetto identifica inoltre le persone responsabili dell'attuazione delle varie parti (professionisti,
paziente, membri della famiglia..).
Nella fase di intervento, il progetto riabilitativo ha lo scopo di aumentare le abilità dell'individuo
e di rendere l'ambiente per lui più supportivo, in modo da raggiungere gli obiettivi del trattamento
riabilitativo, identificati nella fase di assessment. Il controllo ripetuto e regolare del processo di
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cambiamento fornisce dati rispetto alla qualità del servizio e permette di prendere decisioni cliniche
sul proseguimento o sul cambiamento dell'intervento o degli obiettivi.
La riabilitazione psichiatrica consiste nel favorire il recupero del funzionamento in un ruolo
sociale e strumentale al massimo livello possibile, attraverso procedure di apprendimento e il
sostegno ambientale. Quando non è possibile recuperare completamente il funzionamento per il
permanere di deficit e sintomi, gli sforzi riabilitativi mirano ad aiutare l'individuo a trovare ambienti
di vita, apprendimento e lavoro protetti e adattarsi al livello di funzionamento realisticamente
ottenibile.
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Cap. II
I luoghi della riabilitazione psichiatrica nel Dipartimento di Salute Mentale ULSS N°5 Ovest
Vicentino – Regione Veneto
Il superamento della prassi sostanzialmente custodialistica che caratterizzava l'assistenza
all'interno degli ospedali psichiatrici, ha stimolato gli operatori ponendoli di fronte alla necessità di
trovare forme di terapia e assistenza adeguate a fronteggiare le molteplici esigenze del malato
psichiatrico e della sua famiglia.
La riabilitazione psichiatrica è una strategia complessa ed integrata che richiede un
cambiamento nei modelli operativi tradizionali di intervento e vede coinvolto non solo l'utente, ma
anche il contesto ambientale di riferimento. La riabilitazione in campo psichiatrico viene realizzata
nelle strutture residenziali e semi-residenziali. Nelle comunità dove la logica non è più quella del
controllo sociale cambiano le condizioni del progetto riabilitativo ed i rapporti con gli autori della
riabilitazione. Il luogo determina quindi non soltanto una scansione del tempo ed un uso dello
spazio, ma determina significati e contenuti di tutta l'operatività della riabilitazione.
Il sistema delle regole e norme del contesto riabilitativo (che è comunque un ambiente protetto),
deve essere quanto più simile a quello della società, cosicché l'esperienza in essa compiuta non sia
diversa rispetto a ciò che il soggetto affronterà quando, raggiunto un soddisfacente livello di
autonomia, uscirà dal contesto assistenziale.
L'ambiente riabilitativo nel suo insieme (luoghi, tempi, persone) deve costituire un' atmosfera
favorevole per l'instaurarsi di rapporti sani. Nella collettività il paziente può diventare consapevole
degli effetti del suo comportamento sugli altri e venire aiutato a capire alcuni dei motivi sottostanti
alle sue azioni. Il singolo si vede inoltre inserito come membro importante nel gruppo con cui
interagisce. Si sviluppa così una rete comunicativa che comprende comunicazioni di tutti i tipi.
L'ambiente riabilitativo deve fornire al paziente costanti stimoli, così da non far maturare
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gradualmente nel soggetto le proprie aspettative di ottenere passivamente soluzioni ai suoi problemi
(come in ospedale, ad esempio).
Un altro elemento di grande importanza è rappresentato dalla presenza e dalla trasmissione al
paziente di aspettative positive nei suoi confronti: la riabilitazione è orientata verso il presente ed il
futuro ed è quindi diretta verso il raggiungimento di obiettivi.
In questa sede viene presa in considerazione la realtà delle strutture intermedie del Dipartimento
di Salute Mentale dell’ULSS 5 Ovest Vicentino che è formato da 2 CTRP.
Passiamo ora a descrivere le strutture semi residenziali presenti in un moderno dipartimento di
salute mentale.
2.1 Organizzazione del Dipartimento di Salute Mentale dell’ ULSS n.5
Il Dipartimento di Salute Mentale dell’Ulss n. 5 ha preso avvio con questa denominazione con
delibera n. 1065 del 13.12.2000, a seguito del recepimento del D.P.R. 10.11.1999 e modificando il
precedente provvedimento n. 1368 del 25.09.1995 di istituzione dei Dipartimento di Psichiatria.
Il D.S.M. si definisce con funzioni di indirizzo, programmazione e verifica interni; ha
l’obiettivo prioritario di realizzare una diffusa e completa tutela della salute mentale negli ambiti
preventivo, terapeutico e riabilitativo, attivando una rete integrata di servizi e strutture psichiatriche
omogeneamente distribuite nel territorio, in grado di soddisfare i diversificati bisogni dell’utenza.
Pone inoltre attenzione in maniera prioritaria ai pazienti psicotici gravi e alle nuove ingravescenti
forme di disturbi della personalità. (Dalla relazione del direttore del Dipartimento di Salute
Mentale, anno 2003).
In ottemperanza a quanto previsto dal D.G.R. 4080/2000 sono costituiti i seguenti organi del
D.S.M.:
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- la Direzione del Dipartimento di Salute Mentale
- il Consiglio di Dipartimento di Salute Mentale.
Il D.S.M. si articola in:
- 3 Centri di Salute Mentale (C.S.M.) con annesso Day Hospital Territoriale (D.H.T.) nei
comuni di Montecchio Maggiore, Valdagno e Lonigo
- 1 sede ambulatoriale con Centro Diurno (C.D.) nel comune di Arzignano
- 2 Comunità Terapeutiche Residenziali Protette (C.T.R.P.) nei comuni di Montecchio Maggiore
e Lonigo
- 1 Comunità Alloggio (C.A.) mista a protezione parziale nel comune di Arzignano
- 9 Appartamenti a protezione variabile nei comuni di Arzignano, Montecchio Maggiore,
Lonigo, Chiampo, Valdagno e Recoaro Terme
- 2 Centri Diurni (C.D.) nei comuni di Arzignano e Valdagno
- numerose iniziative di gruppi di Auto-Mutuo-Aiuto (A.M.A.) con sedi nei comuni di
Arzignano, Valdagno, Lonigo, Chiampo e Montecchio Maggiore
- Convenzioni con Associazioni del Privato Sociale per la gestione di strutture diurne o di
comunità alloggio e i progetti di prevenzione.
2.2 – Le Comunità terapeutiche
La Comunità Terapeutica o Centro di Terapie Psichiatriche e Riabilitative è un presidio
sanitario, impostato con modello comunitario, volto a realizzare programmi terapeutici e riabilitativi
a termine che chiedono una temporanea residenzialità del paziente nelle 24 ore. Il numero dei posti
letto è di 12 aumentabile a 20 per particolari esigenze del territorio di riferimento.
La CTRP (Comunità Terapeutica Residenziale Protetta) è una "struttura intermedia" tra il
ricovero ospedaliero da un lato e la comunità d'appartenenza dall'altro. Essa utilizza la Comunità
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come uno degli elementi di specificità e di differenziazione rispetto a funzioni terapeutiche
analoghe svolte in altre strutture intermedie, per esempio quelle semiresidenziali.
La CTRP si pone dunque come luogo simbolico di acquisizione di competenze sociali ed in ciò
consiste il suo principale fattore riabilitativo; la vita di comunità è il principale fattore terapeutico.
La struttura si pone come luogo in cui il paziente può tendenzialmente sperimentarsi in relazioni
sane. Il contesto creato si propone di sostenere e di favorire le interazioni tra pazienti e tra essi e gli
operatori con l'obiettivo di consolidare l'Io del soggetto e di favorire la ripresa di contatti sociali e la
riacquisizione delle sue competenze sociali e lavorative.
Rapaport nel 1960 individua i quattro principi alla base della vita comunitaria che consistono in:
Democratizzazione - intesa come partecipazione congiunta di operatori e pazienti (valutate
prioritariamente le loro capacità di coinvolgimento) a momenti decisionali ed organizzativi visti
come occasioni responsabilizzanti protette.
Permissività - come possibilità, pure in presenza di regole istituzionali, di usufruire di un clima
di accettazione e tolleranza che favorisce il manifestarsi di atteggiamenti, sintomi, difficoltà
indirizzabili verso una possibile elaborazione contrapposta agli usuali meccanismi di negazione e
"repressione" dall'esterno.
Flessibilità - dei ruoli come riconoscimento degli aspetti relazionali legati alla vita di comunità
rispetto alle funzioni terapeutiche specifiche.
Realismo - visto come riferimento costante al principio di realtà sia per la patologia possibile
degli operatori (aspetti onnipotenti o vissuti di impotenza) sia per le fantasie dei pazienti cui
necessita di una realtà di contorno con la quale sia possibile un confronto.
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L’assetto comunitario esclude il carattere degenziale e di urgenza dell'intervento attuato e ne
attenua l'impronta medica. Esso è costituito dalle caratteristiche dell’ambiente fisico, così come
previsto dai requisiti di accreditamento (area privacy, area dei servizi comunitari; assenza di barre
alle finestre o recinzioni a carattere reclusivo, assenza di camici e divise; ecc.) ma anche dai dettagli
nell'arredo domestico e dal tipo di vita e di gruppo che si viene a creare (favorito dal protrarsi nel
tempo dei progetti riabilitativi residenziali). L’assetto comunitario, inoltre, consente la creazione di
legami tra le persone, l’apprendimento, per identificazione, di regole di vita quotidiana (mangiare
insieme, collaborare nell'assetto degli ambienti comuni, ecc.).
Altro elemento fondamentale che caratterizza l'intervento riabilitativo - risocializzante delle
CTRP è l’attività di gruppo. Questa serve al paziente come luogo di addestramento alle abilità
sociali ed elaborazione di un sistema di rinforzi, che dalla protettività della situazione istituzionale
si estenda gradualmente alla vita reale.
L’inserimento e la permanenza dell'ospite alle CTRP avviene prevalentemente sulla base di un
progetto riabilitativo mirato ed individualizzato che, a differenza di quelli elaborati da altre strutture
riabilitative è caratterizzato da un regime di residenzialità a medio – lungo termine (2, 3, 4anni).
La residenzialità non è una risposta diretta a bisogni abitativi e/o di adozione ma uno strumento
inteso a realizzare un progetto riabilitativo e di inserimento sociale. Esso permette una osservazione
prolungata e continua dell'ospite e delle sue modalità di relazione; offre un tipo di presa in carico
molto consistente e contenitiva e questa permette di porsi quale oggetto di fiducia da parte dei
pazienti anche gravemente ambivalenti; consente di determinare e graduare la separazione dall'
ambiente familiare.
La CTRP accoglie sulla base della volontarietà ed anche per questo motivo non si configura
come luogo che vuole dividere l'ospite dalla famiglia. Opera per ricercare una migliore distanza
emotiva tra paziente e genitore, nell'intento di farli uscire dal circuito ambivalente del "né con te, né
sénza di te".
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La residenzialità riabilitativa è tanto più efficace quanto più intrisa di aspetti naturali, quanto
più, cioè, è scevra di quelle componenti passivizzanti e ghettizzanti proprie delle grandi istituzioni
residenziali.
La riabilitazione è dunque in primo luogo la pratica dell' ovvio, il riapprendimento delle banalità
e la CTRP deve configurarsi come contenitore sufficientemente elastico da accogliere le proiezioni
del paziente e sufficientemente ricco per provare piacere e creatività nel manipolarle: un ambiente
amico in cui il paziente possa muoversi per trovare sé stesso.
In quest'ottica egli è percepito e trattato come soggetto, colto nell'integrità dei suoi diritti,
nell'individualità delle sue caratteristiche e delle sue scelte, nella ricchezza delle sue potenzialità
evolutive, nella complessità del suo universo di significati, nell'unicità dei suoi sistemi di valori.
La natura a termine del progetto elaborato dalla CTRP obbliga l'équipe a tener presente il futuro
del paziente, il suo reinserimento nel contesto sociale allargato e le sue reali potenzialità di
autonomia. Tutto questo implica un lavoro di coordinamento con altri presidi psichiatrici previsti
dal Progetto Obiettivo nazionale per la Tutela della Salute mentale.
Ciò sottolinea la necessità di garantire la continuità o creare i presupposti di una presa in carico
dell'ospite da parte del Centro di Salute Mentale, di coinvolgere le famiglie nel percorso terapeutico
che il paziente fa per creare un clima che consenta il passaggio di informazioni e di lavorare per un
graduale reinserimento dell'utente nel contesto familiare, attraverso l'organizzazione di incontri e
sostegni individuali o di gruppo. E' inoltre fondamentale evidenziare una mappa di risorse sociali
esterne al centro (luoghi di incontro, ricreativi, tirocini di lavoro, ecc.).
Si possono riscontrare, però, delle situazioni in cui l'ultimo dei tre poli (utente, équipe curante,
famiglia) è mancante ed i bisogni di dipendenza, pur bonificati da aggressività e persecutorietà, non
trovano all'esterno il necessario soddisfacimento. Al fine di garantire la specificità dell'intervento
riabilitativo elaborato dalla CTRP e per evitare l'esposizione ad angosce abbandoniche del paziente,
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è opportuno individuare soluzioni abitative e/o assistenziali che possano accogliere quegli ospiti che
bisognano di interventi di questo tipo.
2.2.1 Comunità alloggio “Casa di Giobbe”
Accanto alla struttura del Centro Diurno Arcobaleno troviamo la Casa di Giobbe, Comunità
Alloggio per i pazienti che necessitano di una situazione abitativa protetta anche se il livello di
autonomia è alto, senza presenza di operatori durante la notte: i pazienti qui ospitati hanno la
possibilità di uscire dalla struttura se non impegnati nelle attività del centro diurno.
Scopo principale di questa struttura è quello di dare uno spazio vitale nel quale i pazienti
possano usufruire sia di una abitazione completa e accessoriata, che dell’attenzione degli operatori
del DSM. Per la maggior parte i pazienti qui ospitati sono inseriti in un percorso riabilitativo che
spesso prevede l’inserimento in un appartamento a grado variabile di protezione (con presenza di
operatori solo in alcuni momenti della giornata) e hanno la possibilità di sperimentare una prima
forma di convivenza e di separazione/individuazione dalla famiglia.
2.2.2 Comunità Terapeutica Residenziale Protetta (CTRP) “Il Girasole”
La CTRP "il Girasole" di Montecchio Maggiore si colloca, nell'ambito delle strutture
dipartimentali psichiatriche dell'ULSS 5 Ovest Vicentino come una nuova realtà residenziale, di
carattere comunitario e con una forte impronta psicoriabilitativa.
Il Girasole è il nome con cui gli ospiti scelsero di chiamare questo spazio che venne a
rappresentare una nuova identità di gruppo. Sancì l'avvenuta trasformazione di un luogo in cui
precedentemente era stato dato corso ad una esperienza di vita comunitaria, all'interno del più
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ampio contesto di un residuo psichiatrico.
Questo luogo, chiamato "Area Sociale" dell’ex Casa di Salute Psichiatrica, accoglieva un
gruppo di quattordici pazienti cronici, che non potevano essere dimessi per svariati motivi, tra i
quali la mancanza di un nucleo familiare in grado di accoglierli.
L'impraticabilità di percorsi riabilitativi attivabili per gli ospiti, era in precedenza riconducibile
sia ai limiti del mandato istituzionale, rappresentato dalla lungodegenza per cronici e più ancora alla
assenza di risorse territoriali tali da consentire collegamenti tra i pazienti ed il loro ambiente di
provenienza.
All'interno di questo nucleo coesistevano individui con un lungo decorso istituzionale ed altri
che, dopo interminabili vicissitudini dovute alle protratte degenze ed ai frequenti rientri nel reparto
di Diagnosi e Cura, vi accedevano per una necessità di assistenza continuativa assicurata dalla
struttura stessa.
Il personale, composto soprattutto da infermieri e qualche operatore assistenziale e Operatori
Socio Sanitari (OSS), era presente con una turnazione completa di ventiquattro ore, e poiché
comprendeva la totalità dell'organico dell'intero residuo manicomiale, non poteva essere operata
alcuna distinzione funzionale, col risultato di rendere artificioso ed incompleto il lavoro riabilitativo
con i pazienti.
L'avvento della riforma, che comportava la dismissione del residuo psichiatrico, a partire dal
gennaio ‘97 rese possibile, da una parte la riconversione ed acquisizione di nuovo personale,
dall'altra l'avvio del processo di dimissione dei pazienti storici, indirizzati verso strutture più idonee
alle loro caratteristiche prevalentemente lungo assistenziali.
La vecchia "Area Sociale", acquisiva a tutti gli effetti un'identità autonoma ed uno stato
giuridico di Comunità Terapeutica Residenziale Protetta con una spiccata connotazione
psicoriabilitativa.
La struttura muraria, contenitore del vecchio manicomio, divenne con qualche piccola modifica
strutturale interna, la sede completamente rivisitata e riorganizzata, deputata ad accogliere un
20
gruppo di persone con gravi patologie psichiche adatte al trattamento riabilitativo, attivante le varie
abilità.
In questo nuovo assetto furono favorite maggiormente l'integrazione e l'avvicinamento
progressivo degli ospiti con la realtà del tessuto sociale da cui provenivano. La sintomatologia
psichica e la conseguente perdita di abilità sociali, che caratterizzava maggiormente la condizione
mentale del gruppo, imponeva un'analisi attenta delle capacità residue dei singoli soggetti ed in
particolare dell'entità della compromissione delle aree sane.
Si è reso necessario prefigurare percorsi differenziati secondo un modello di progressione delle
acquisizioni personali che consentisse la restituzione della persona stessa alla vita di relazione, agli
affetti familiari ed alla vita sociale.
Nei mesi in cui è avvenuta la riconversione della struttura da lungo degenza per cronici ad
ambiente comunitario per la nuova cronicità, si sono dovuti affrontare sia problemi connessi alle
procedure tecnico - amministrative, sia questioni più pertinenti alla costruzione di un nuovo setting
organizzativo formatosi sul superamento di quello manicomiale.
Si tennero diversi incontri di formazione ed aggiornamento con alcuni infermieri professionali
che decisero di fare parte della nuova struttura comunitaria assieme ad un numero più ampio di
nuovi operatori che si avviavano a compiere le prime esperienze in ambito psichiatrico.
Tutto ciò contribuì a rendere sempre più la comunità come un luogo di cura della malattia
mentale, che si serve di un setting istituzionale operativo e di strumenti che consentono di far fronte
ai bisogni regressivi del paziente, stimolandone le potenzialità evolutive.
I soggetti investiti di tale compito, hanno iniziato ad accompagnare i vari ospiti nelle attività
giornaliere, sostenendo l'iniziativa personale spesso assente e creando occasioni di cooperazione e
di reciproco aiuto.
Lo strumento della quotidianità condivisa permette di dare un senso alla vita psichica del
paziente che ha perso la continuità del Sé e la capacità di vivere dei legami fuori dalla dimensione
autistica.
21
Sono stati principalmente gli operatori assieme agli ospiti a realizzare piccole ma significative
variazioni dello spazio fisico, facendo in modo che alla vecchia matrice istituzionale venisse
sostituita una valenza antropologica.
Lo sforzo dell'équipe si è espresso nel cercare di collocare entro una parentesi gli aspetti ancora
vivi dell'esperienza asilare, per favorire ed evidenziare l'aspetto de1 "vissuto" della comunità.
L'intento era di legare il luogo della cura ad un ambiente in cui fosse piacevole vivere.
Si è ritenuto fondamentale attribuire significato all'ambiente poiché rappresenta la cornice in cui
si svolge la vita affettiva del paziente ed in cui si favoriscono circostanze per il riappropriarsi di una
vita soggettiva strutturante il senso di identità. Questo tipo di intervento è stato svolto in maniera
continuativa; nel tempo, lo spazio geometrico è andato via via arricchendosi di elementi decorativi
legati all'evolversi delle esigenze quotidiane delle persone ospiti. Gli stessi elementi decorativi
raccontano la storia di chi vive in comunità, scandiscono i ritmi di un "tempo vissuto".
2.2.2.1 Attività
La comunità ha realizzato un setting comunitario con valenze riabilitative. Per ottenere questo
risultato fu orientata la formazione del personale sia di carattere permanente (riunioni settimanali
con lo staff dirigente) sia con l'intervento di tecnici esterni, esperti in riabilitazione e comunità
terapeutiche, il prof. L. Burti e la dott.ssa A. Ferruta. Lo scopo degli incontri fu la supervisione
della comunità e dei casi clinici, comprese la discussione sui progetti e sulle attività riabilitative
(gruppi, attività ludiche, gite ecc...).
Parlare di attività riabilitative rimanda all’”azione” all’interno di una cornice relazionale nella
quale poter collocare una funzione terapeutica del gruppo.
Il valore dell' attività di per se è povero se non è supportato dalla valenza affettiva e relazionale
del rapporto operatore-paziente, così come se ne parla in Spivak M.,1987 Introduzione alla
22
riabilitazione sociale: teorie, tecnologia e metodi di intervento Riv. Sper. Di Feniatria, 111.
L'offerta della comunità oscilla sempre fra due poli: il bisogno evolutivo del paziente come
passaggio verso una maggiore autonomia e il bisogno di accoglimento delle sue parti più malate,
come "maternage".
Inizialmente fu necessario recuperare le abilità di base della persona secondo un programma
personalizzato che tenesse conto delle necessità dell'ospite. Le aree che vengono prese in
considerazione sono: la cura di sé, della casa compresa la cucina, gli aspetti relazionali con la
famiglia e gli amici, il lavoro e le relazioni con l'ambiente esterno.
Sono state realizzate varie situazioni ed attività:
- il "gruppo cucina" si svolge due volte alla settimana ed i pazienti sono impegnati
nella preparazione dei cibi che verranno consumati nel pranzo di quel giorno; oltre alla
preparazione delle pietanze, vengono svolte attività di apparecchiatura delle tavole e di riordino;
- il "gruppo lavanderia" si svolge più volte alla settimana e si occupa della pulizia dei capi
personali. Questa attività è piuttosto complessa ed il personale è molto attivo nel sostenere
soprattutto i pazienti meno abili, che riescono a svolgere solo una piccola parte dell' attività stessa;
- il riordino dei locali;
- l'attività di cucito, fra cui la confezione di elementi per l'arredo (tovaglie, tende, ecc.);
- il "gruppo gite" ha il compito di programmare le uscite settimanali e le diverse iniziative di
tipo ricreativo.
Un altro genere riguarda le attività espressive e manuali che comprendono il bricolage con la
pelle, la lavorazione della cera e le attività più specificatamente artistiche come "l'atelier di pittura".
Un momento particolare dell'assetto comunitario è rappresentato dalla "riunione del lunedì" fra
pazienti e operatori presenti, condotta dalla psicologa. Questo gruppo ha la funzione di far
comunicare i pazienti fra loro, introducendo argomenti tali da stimolarne la partecipazione, per
esempio la conduzione delle attività quotidiane, nelle quali tutti sono coinvolti.
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2.3 Il Centro Diurno
2.3.1 Il Centro Arcobaleno di Arzignano
Il Centro Arcobaleno è una struttura semi residenziale con finalità terapeutico - riabilitative
appartenente all’ULSS 5 Ovest Vicentino. Fu inaugurato nel 1995 ed è divenuta una struttura poli
funzionale composta da un centro diurno che accoglie una trentina di persone. Gli utenti
partecipano alle attività giornaliere tornando in famiglia o negli appartamenti a grado variabile di
protezione. E collegata al centro diurno una Comunità Alloggio (CA) con disponibilità per 8
persone (attualmente ne sono ospitate 6, 4 maschi e 2 femmine) con la presenza di operatori dalle 7
alle 22 giorni festivi compresi. Di notte gli utenti, in caso di necessità, chiamano gli operatori o il
medico di guardia della vicina Unità di Degenza.
Il centro dispone di 8 appartamenti di due posti letto ciascuno. Quasi tutti sono soggetti in
terapia farmacologica che possono disporre di sedute psichiatriche con il medico o con lo psicologo
curante. Gli ospiti degli appartamenti sono scelti anche in base ad una buona intesa. Il centro per ora
è privo di un educatore.
L’equipe prevede: 3 psicologi, un infermiere, 6 operatori socio sanitari e alcune ore di un
medico psichiatra. Da notare che l’attuale direzione è molto aperta alla presenza di tirocinanti di
psicologia e di scienze dell’educazione e dei corsi biennali per operatori socio sanitari.
2.3.2 L’approccio adottato dal Centro Arcobaleno con la malattia mentale
Nell’approccio utilizzato nel Centro Arcobaleno, la malattia mentale è considerata come punto
di passaggio obbligato e incrocio di tutto quel che appartiene all’individuo sia in senso personale
che relazionale. Nel considerare la malattia, quindi, come crocevia deformante di componenti
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personali e sociali, il centro arcobaleno si configura come un sistema aperto, decisamente distante
dalle vecchie strutture psichiatriche, nelle quali i malati mentali venivano rinchiusi senza dar loro la
possibilità di venire a contatto con tutto ciò che la comunità può offrire come risorsa, ossia:
famiglia, luoghi pubblici (dai bar alle piazze), mezzi pubblici e privati e reinserimento lavorativo.
Connotato del Centro è quello dell’incontro e della valorizzazione dell’interscambio tra servizi,
famiglia, strutture istituzionali ed équipe di lavoro e contesto sociale.
Si può affermare che il Centro Diurno è una vera e propria testimonianza e risultato
dell’evoluzione del trattamento delle malattie mentali; concetto che racchiude in sé la
valorizzazione delle risorse utilizzate e dell’approccio adottato è quello della creazione delle
differenze.
Il punto di partenza dal quale quest’ottica prende avvio è quello della considerazione
dell’individuo come portatore di una storia personale fatta di emozioni, ricordi, difficoltà e gioie e
del suo sviluppo nel tempo e nello spazio sociale, familiare e più generalmente affettivo che ha
prodotto un individuo con desideri, bisogni, opinioni, valori, credenze. Creare differenze significa
quindi valorizzare la persona nella sua unicità e farla uscire dal circolo vizioso della malattia
mentale, dell’omologazione e dall’ottica della unidimensionalità, quella della malattia, nella quale il
soggetto considera se stesso come malato cronico e niente più. La malattia, infatti, appiattisce le
risorse individuali in una inutile ricerca di fuga da se stessa, cosa che potrebbe essere utile se non
fosse che, considerando se stessi come problema, si rischia di perdere l’obiettività e quindi una
visione globale di sé e delle proprie possibilità. Come si è assistito nella storia della pedagogia al
passaggio da una educazione “cattedratica” e istituzionale al puerocentrismo, così si assiste in
ambito di riabilitazione psichiatrica al passaggio dalla psichiatria manicomiale e istituzionale
all’attenzione sul paziente e alle sue possibilità di cura della malattia e di recupero delle abilità.
Importante è considerare che la malattia viene comunque affrontata con una cura farmacologica
e quindi con un approccio scientifico e deterministico. Benché la scienza, a mio avviso, sappia
confrontarsi meglio con delle realtà oggettive e immodificabili, nella problematica cangiante delle
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malattie mentali ho potuto assistere alla possibilità di creare sinergia tra un metodo duttile che si
pone a priori in una modalità sperimentale e un’ottica più squisitamente pedagogica (anche se nel
Centro mai si parlerà di pedagogia). Il requisito essenziale, infatti, perché gli operatori sappiano ben
condurre il loro lavoro, è quello di avere alle proprie spalle una buona dose di sicurezza di sé ed una
apertura ragionevole e responsabile nel rapporto con gli ospiti del centro, soprattutto per riuscire a
gestire il proprio ruolo e il percorso terapeutico – riabilitativo con continuità e senza scoraggiarsi di
fronte alle eventuali situazioni problematiche che giorno per giorno si dovessero presentare. Non
bisogna dimenticare, infatti, che anche se l’ottica della creazione delle differenze si muove in un
terreno connotato da un forte ottimismo, le persone con le quali si lavora sono comunque affette da
forme croniche di psicosi e in molti casi il tutto è aggravato da deficit cognitivi acquisiti.
In linea generale queste possono essere le tappe di un percorso articolato sulla creazione delle
differenze:
• condivisione di un obiettivo di riabilitazione partendo da una situazione di malattia in fase
acuta o cronicizzata;
• analisi delle capacità del soggetto per capire cosa il soggetto sa fare e cosa non, e se le
disabilità sono temporanee o permanenti;
• condivisione del piano terapeutico – riabilitativo con la famiglia. Il coinvolgimento della
famiglia serve a sbloccare eventuali sistemi esistenziali connotati da continui insuccessi, a
superare il senso di colpa, ad interrompere meccanismi consolidati e ridondanti.
• la programmazione, quando possibile, di un reinserimento lavorativo e per i pazienti più
gravi di un recupero di abilità personali tale da consentire l’inserimento abitativo e sociale
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per permettere alla persona di evolvere da una situazione di statico malessere ad una vita più
dinamica e costruttiva.
2.3.3 L’organizzazione delle risorse
Le risorse del centro sono così organizzate:
Finalità: individuare e realizzare percorsi riabilitativi personalizzati rivolti in particolare a
pazienti psichiatrici giovani con recupero delle capacità lavorative e di autonomia sociale e
abitativa.
Obiettivi: lavorare in gruppo stabilendo un rapporto empatico tra operatori e utenti per una
gestione partecipata del percorso riabilitativo e la condivisione dello stesso con la famiglia. E’
importante che questa si senta partecipe del percorso di riabilitazione e limiti eventuali
comportamenti dannosi per gli utenti. L’obiettivo può essere il ritorno in famiglia oppure
l’inserimento in un appartamento a grado variabile di protezione. Gli utenti vengono avviati in
tirocini lavorativi e introdotti nel mondo del lavoro.
Strumenti: viene fatta una diagnosi riabilitativa sia in ambito psichiatrico che psicologico ed
educativo. Il Centro propone attività: lavorative, riabilitative, ludico ricreative, sportive, espressive.
Si organizzano incontri e gruppi con i familiari.
27
Nello svolgimento delle attività si può osservare una evoluzione dei rapporti sia tra gli utenti, sia
tra gli utenti e gli operatori, sia tra gli utenti e i familiari; tra gli operatori come gruppo e come
singoli.
Infatti, l’evoluzione individuale è il fine ultimo del lavoro terapeutico e prevede una
ricostruzione o costruzione del senso di sé e del senso di appartenenza che nel Centro si esplica
nella valutazione e rivalutazione continua delle dinamiche esistenti, ma soprattutto possibili, dei i
rapporti con sé e con il mondo. La malattia mentale oppone alla propria realizzazione l’incapacità di
gestire l’ansia e quindi di essere in grado di auto controllare e gestire le proprie performance;
attraverso l’evoluzione il paziente ha l’opportunità di trasformarsi in attivo creatore della propria
vita senza rimanere vittima di meccanismi psicotici occulti e dannosi. Inoltre il lavoro di équipe,
dovendo gestire dei rapporti onerosi dal punto di vista emotivo e avendo a che fare con persone
incapaci di gestire la propria conflittualità, ha la necessità (e l’opportunità) di evolversi a sua volta
nella direzione di una maggior comprensione delle possibili dinamiche relazionali distorte, tramite
un rafforzamento del senso di sé e di appartenenza al gruppo.
2.3.4 Le principali attività
Le principali attività di un Centro Diurno sono:
attività cliniche rivolte al paziente: visita psichiatrica, colloquio psicologico – diagnostico,
colloquio di sostegno, incontri con in famigliari, psicoeducazione, somministrazione farmaci,
psicoterapia individuale, familiare, di gruppo...;
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attività di riabilitazione: hanno la finalità di aiutare gli individui che presentano una disabilità o
uno svantaggio sociale legati a malattia mentale a raggiungere il livello ottimale di
funzionamento. Possono essere di vario tipo:
interventi finalizzati a rendere il paziente il più possibile autonomo nelle principali attività
di base: cura di sé, usare il telefono, fare la spesa, usare il denaro, interpersonali e sociali;
interventi di risocializzazione, individuale, di gruppo, di auto – mutuo - aiuto, mediante
attività ricreative e di incontro, uscite (cinema, mostre...), gruppi di discussione e lettura,
gruppi di ascolto di musica o di visione di film, gruppi cucina…;
interventi di tipo espressivo, quali il disegno, la pittura, il cartonaggio...;
interventi di tipo pratico manuale, come la lavorazione del legno, il cucito, il
giardinaggio…;
interventi di tipo motorio, con attività di ginnastica, espressione corporea, danza …;
interventi di addestramento e formazione al lavoro, finalizzati alla formazione dei pazienti
in alcune aree lavorative e/o all'inserimento di questi sia in ambienti lavorativi "normali",
sia in ambienti "protetti";
interventi con finalità ricreative e socializzanti come gite e soggiorni;
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Attività socio assistenziale con interventi finalizzati alla soluzione di problemi burocratici e
sociali (ricerca lavoro, sussidi economici) ed interventi rivolti alla rete sociale, mediante
incontri-riunioni con volontari, conoscenti, colleghi di lavoro, strutture aziendali.
2.4 Altre risorse: Gruppi di Auto – Mutuo – Aiuto e salute mentale
Una delle esperienze innovative più recenti nel campo della salute mentale è quella dei gruppi
di Auto – Aiuto che si rivela essere un importante strumento di integrazione sociale per la persona
con patologia psichiatrica anche grave. Essa si è rivelata uno strumento efficace in molte situazioni
di disagio psicologico (alcolismo, dipendenze patologiche, malattie gravi, lutti, separazioni, …),
ma scarse sono state fin ora le esperienze in ambito psichiatrico. Il motore dei gruppi di auto
mutuo aiuto è l’attivazione di una serie di risorse personali e sociali volte ad ottenere il benessere
dei singoli, determinando una maggiore vicinanza tra gli individui allo scopo di promuovere stili di
vita sani.
L’auto mutuo aiuto nel campo della salute mentale si è dimostrato un efficace strumento nella
lotta allo stigma della malattia mentale. Questa modalità di intervento ha sostenuto, infatti,
l’integrazione degli utenti psichiatrici nella realtà territoriale. Ha creato delle utili connessioni con
la società civile e promosso la nascita di legami e prospettive di riconoscimento di sé. La persona,
per uscire dalla chiusura psicotica, ha così uno strumento in più oltre alla psicoterapia e alla terapia
farmacologica.
Le finalità dei gruppi sono di:
• Migliorare la qualità della vita delle persone e famiglie in situazione di disagio psichico.
• Favorire lo scambio di esperienze e il sostegno reciproco tra le persone.
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• Favorire l’inserimento e la partecipazione ad iniziative di tipo sociale (ricreativo, sportivo,
culturale).
• Fornire informazione, educazione e norme di prevenzione relativamente alla salute mentale
Attualmente i gruppi attivati sono i seguenti:
RIUNIONE GENERALE DELL'AUTO-AIUTO: è una riunione dedicata allo scambio di
informazioni tra i gruppi, alla formulazione di nuove proposte e di eventuali osservazioni relative
alle tematiche dell'auto-aiuto.
Gruppo TEMPO LIBERO: Il venerdì sera, il sabato sera e la domenica si realizzano le iniziative
previste dal programma di tempo libero festivo e serale che sono: gite, cinema, teatro, cene, attività
di tipo culturale (visite a mostre, concerti). A tale attività partecipano più operatori essendo la
presenza di utenti, familiari e volontari sempre numerosa.
Gruppo TIRAMISU': nasce dalla richiesta di alcuni utenti e familiari sofferenti di depressione;
e' un gruppo stabile, attivo e autonomo, costituito da 10-12 persone che si incontra settimanalmente.
Nel gruppo vengono comunicate le proprie esperienze ed opinioni, nel rispetto reciproco delle
proprie posizioni. Nell'ambito del gruppo si manifesta una sorta di sostegno reciproco, che si
realizza attraverso forme di aiuto concreto anche al di fuori degli incontri settimanali.
Gruppo PROBLEMI LAVORATIVI: il gruppo problemi lavorativi nasce dall'urgenza delle
richieste più volte espresse dai nostri utenti con lo scopo:
- di uno scambio di informazioni e di esperienze;
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- costruire una mappa delle realtà lavorative utilizzando le informazioni fornite dagli utenti
stessi;
- analizzare i motivi dei successi e fallimenti lavorativi degli utenti;
- fornire supporto reciproco, stimolo alla ricerca e al mantenimento del lavoro.
Gruppo STRETCHING: é un gruppo in cui la dimensione corporea e l'attività fisica rivestono
notevole importanza. E' composto da sei-sette utenti, i quali attraverso questa tecnica ricercano il
benessere psico-fisico. Attualmente alcuni utenti hanno acquisito una certa abilita' e sono in grado
di proporre e insegnare gli esercizi ad altri. Gli esercizi vengono accompagnati dalla musica
utilizzando lo stereo in dotazione.
Gruppo COMPUTER: é un gruppo di giovani che, grazie all'utilizzo del computer e ad Internet,
acquisiscono delle conoscenze informatiche di base e fanno contemporaneamente amicizia.
Gruppo FAI DA TE: é nato poco prima del Natale 1999. Le abilità manuali ed il gusto di alcuni
utenti e familiari hanno prodotto la realizzazione di piccoli oggetti artigianali, esposti in alcuni
mercati della provincia, riscontrando un notevole successo.
Gruppo INGLESE: nasce dalla disponibilità di Clark, socio del gruppo self-help 'S. Giacomo' di
Verona, a seguire un gruppo di utenti che, attraverso l'apprendimento della lingua inglese, hanno
occasione per conoscersi, socializzare ed incrementare la loro cultura personale. Si tratta, in
prevalenza, di giovani dove tale aspetto appare particolarmente importante. Il gruppo si incontra
settimanalmente alternando la lezione con Clark ad un incontro maggiormente autogestito, in cui
ognuno aiuta l'altro a fare esercizio. Le lezioni si avvalgono dell'uso di materiale audiovisivo.
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Gruppo GIORNALINO: é un gruppo appena nato e battezzato il 'Giornalino dell'auto-aiuto' e si
propone come attività pratica e creativa per utenti e operatori impegnati nelle varie fasi di
realizzazione. Ogni gruppo e' invitato a scrivere un articolo; il gruppo giornalino funge da
redazione. Il gruppo computer cura la realizzazione grafica e la stampa del giornalino. Tale gruppo
ha scopo divulgativo, informativo e promozionale sul tema dell'auto-aiuto, si propone di diffondere
il progetto della realtà locale, di dare voce ai singoli gruppi, approfondire i temi di interesse
comune.
33
Cap. III
L’esperienza di tirocinio
Ora tramite la mia esperienza, cercherò di esporre in maniera più concreta quale siano le reali
attività che si conducono all’interno del centro arcobaleno.
Per cominciare vorrei sottolineare un aspetto molto importante del lavoro di comunità che
sebbene sembri generico nel Centro Arcobaleno trova un ruolo strategico decisivo: quello della
quotidianità; tra le prime difficoltà che si incontrano nell’accostarsi ad un gruppo organizzato la più
consistente, a mio avviso, è quella di creare un nuovo spazio nella psiche del gruppo, ricreare quello
che Kurt Lewin chiamava sintalità, ossia il comune concetto di gruppo e di condivisione e
conoscenza reciproca; più in particolare Lewin parlava di spazio odologico, ossia di spazio che,
creato dal gruppo, ricreava il singolo in una nuova immagine di sé in rapporto agli altri ed in
rapporto alla funzionalità del gruppo come sistema in grado di essere efficace.La quotidianità è
l’attuazione pratica del lavoro di gruppo, di quello di equipe, e di quello più esteso formato dagli
utenti del centro. Ho notato infatti che all’accettazione della mia persona all’interno del gruppo
istituzionalizzato e quindi alla conseguente creazione di un nuovo elemento e risorsa per gli utenti,
gli ospiti automaticamente innestavano tutta una serie di processi finalizzati alla conoscenza della
novità, in maniera rintracciabile in più o meno tutti i soggetti anche se con manifestazioni, tempi e
reazioni completamente diverse da soggetto a soggetto.
Questi processi sono riassumibili nelle seguenti fasi:
iniziale conoscenza del mio ruolo con una superficiale accettazione della mia persona;
conseguente fase di osservazione o di distacco
fase conclusiva di stabilizzazione delle relazioni
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fase produttiva di utilizzo vero e proprio delle relazioni instauratesi per il procedere della
terapia.
Per la verità in un periodo tutto sommato breve, quale è stato quello del mio tirocinio, non è
facile instaurare delle relazioni in maniera continua, tanto più perché il tipo di disagio spesso non
permette alle persone di avere un rapporto con gli altri che rimanga stabile e fondato su una buona
conoscenza del prossimo; risulta invece più forte il legame dal punto di vista affettivo: l’essere
punto di riferimento per una o più persone che non sanno essere obiettive con se stesse né con gli
altri, è un risultato conseguente unicamente dalla quantità di empatia che parte dall’operatore e che
è indirizzata verso l’utente, il quale consciamente o meno riconosce lo sforzo e individua in esso
una risorsa utile alla propria cura.
Altra osservazione da me fatta riguarda il tipo di relazioni affettive che si creano tra gli utenti e
gli operatori: siccome a monte della quasi totalità delle patologie presenti è rintracciabile un distorto
rapporto affettivo con i familiari, nei nuovi legami con l’equipe il paziente spesso ricerca una figura
sostitutiva con la quale ricreare un rapporto che produca sicurezza. Sta all’operatore riuscire a
captare ogni forma di adeguamento del soggetto a distorsioni morbose del rapporto.
Un’ultima osservazione prima di passare alla descrizione delle attività alle quale ho partecipato
riguarda il rapporto con gli altri operatori. Ho notato che il grado di efficienza rimane piuttosto alto
nella misura in cui tra colleghi non nascono dicerie o voci di corridoio; in parole semplici, se ci si
dice tutto in faccia non nascono tensioni che possano inficiare le modalità di lavoro di uno od un
altro.
Inoltre, come ho scritto più sopra, l’essere espliciti e il non avere malizie verso gli altri è una
delle premesse per la salute mentale (e a mio avviso di chiunque).
Passiamo ora alla gestione delle attività.
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Il centro è frequentato da persone dai 20 ai 50 anni di età affette da problemi mentali quali la
schizofrenia e scompensi di vario genere (disabilità mentali o depressione cronica) ed ognuno è
seguito dallo psichiatra del Dipartimento di Salute Mentale di Montecchio col quale ha incontri
regolari a seconda del bisogno e della patologia.
Nel Centro Arcobaleno la prima regola da far applicare ai ragazzi è quella della cura della
propria persona e della gestione delle risorse materiali, quali il denaro, i vestiti o gli oggetti di vario
genere. Alcuni utenti godono di una pensione di invalidità mensile, altri lavorano ed altri hanno
aiuti dalla famiglia. A seconda della gravità dello scompenso i soldi vengono dati direttamente agli
utenti oppure gestiti dagli operatori ed elargiti a seconda delle richieste o in una somma giornaliera.
Da notare che quasi tutti fumano moltissimo e questo rappresenta una considerevole fonte di spesa.
A proposito delle fonti di reddito alcuni sono soggetti alla possibilità di inserimento lavorativo;
dopo una prima diagnosi e un primo approccio con le attività del centro viene stabilito quali soggetti
sono in grado di lavorare in ambienti non protetti (alcuni lavorano in fabbrica o comunque in
aziende private) e quali invece non lo sono; quali hanno bisogno di periodi di stage o di prova e
quali non saranno mai in grado di esercitare attività in maniera relativamente autonoma.
Naturalmente quelli che non lavorano partecipano a tutte le attività del Centro Diurno che sono
organizzate a rotazione in maniera che tutti prima o poi partecipino alle attività previste. In questa
maniera è possibile vedere quale tipo di attitudini sia più facile sviluppare in taluni soggetti rispetto
che in altri: chi è bravo in cucina, chi a fare le pulizie, chi nelle attività manuali del cartonaggio,
ecc.
Le attività iniziano la mattina alle dieci con una riunione in cui tutti i partecipanti decidono
assieme agli operatori come spartirsi i compiti nell’arco della giornata; questo serve come stimolo a
sapersi organizzare, ad avanzare richieste (ognuno può decidere se preferisce fare un’attività
piuttosto che un’altra), a mettersi in rapporto con gli altri sviluppando forme di responsabilizzazione
nei confronti del gruppo. Penso che il gruppo sia una delle componenti più significative per la cura
del disagio: nel gruppo il singolo da una parte ha minor possibilità di perdersi in pensieri
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autolesionisti e dall’altra ha modo di esprimere le proprie preoccupazioni; in generale impara a
misurarsi con una realtà complessa, fatta di diversità (risorsa molto considerata). Durante la
riunione delle dieci vengono distribuite le terapie della mattina.
Le attività sono:
Il gruppo bellezza: in questo gruppo tutte le ragazze e operatrici passano la mattinata a
sperimentare trucchi e acconciature; questa attività ben si applica per contrastare forme di
trascuratezza spesso concausa di una declino della propria integrità psicologica sul fronte
relazionale.
Il gruppo stiro: durante la giornata alcuni operatori seguono le ragazze nello stiro degli
indumenti degli ospiti e delle tute per l’attività sportiva. Questa attività dà la possibilità di
guadagnare qualche soldino, cosa che si è rivelata essere un ottimo rinforzo per la propria
autostima: è una forma di autonomia, anche se molto elementare.
Le pulizie negli appartamenti occupati dai pazienti: operatori ed utenti di recano col pulmino
negli appartamenti dei pazienti per fare le pulizie e questi ripagano in denaro questa attività, la
cui funzione è simile a quella del gruppo stiro anche se si sono notati maggiori risultati
sull’autostima, forse perché, benché sia protetta, è condotta al di fuori delle mura del centro e
richiede un’organizzazione dei ruoli più decisa ed efficiente.
La pallavolo: questa attività è molto sentita dai ragazzi per una serie di motivi; per prima cosa i
centri diurni della regione sono organizzati in un torneo annuale e questo crea un forte spirito di
squadra; l’attività fisica, poi, favorisce oltre che un rinvigorimento del corpo, lo sviluppo di
coordinazione, cosa che le malattie mentali croniche inficiano fortemente.
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Il gruppo del cartonaggio: Da qualche mese a questa parte una delle operatrici ha istituito questo
nuovo gruppo nel quale si eseguono attività artistiche e produzione di piccoli oggetti
ornamentali quali cornici e quadretti, biglietti di auguri e simili.
Il gruppo “test”: è un gruppo un po’ particolare di discussione. In questi gruppi viene utilizzata
la scusa del test per affrontare tematiche di vario genere, solitamente decise dagli utenti stessi
cercando di creare un'atmosfera simile a quella dei gruppi di mutuo aiuto in maniera che le
tematiche emergenti vengano considerate sia come vissuto personale che come esperienza
comune da condividere e condivisa.
A mio parere l'utilità di questi gruppi si può riscontrare in tre differenti modalità:
La prima riguarda la capacità di affrontare i propri problemi affettivi e cercare di capirli dando la
possibilità di sondare i limiti delle proprie capacità intellettive in maniera pratica e inconscia; il
confronto con gli altri si trasforma in spunto di riflessione ma non crea imbarazzi di fronte alla
propria incapacità di comprendere.
La seconda riguarda la rielaborazione della propria esperienza di centro diurno all'interno dei
servizi nel senso della comprensione e accettazione della propria situazione esistenziale e del
significato del percorso nel quale gli utenti si trovano.
La terza riguarda, in maniera limitata alla disponibilità e capacità degli utenti, la concreta
comunione di esperienze traumatiche. Sebbene la loro soluzione definitiva in tali circostanze non
sia obiettivamente possibile, è possibile una significativa rielaborazione e re inquadratura con
l'aiuto del gruppo.
Il pranzo: nella riunione della mattina vengono divisi i compiti per il servizio in tavola
(preparare, servire, spreparare). Oltre a quest’aspetto operativo il momento del pranzo dà la
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possibilità di stare assieme, parlare e aprirsi verso gli altri grazie anche all’aiuto degli operatori
che scherzando o proponendo argomenti facilitano il dialogo.
Per finire ci sono le riunioni dell’équipe.
La riunione giornaliera, tra gli operatori, con o senza la presenza dello psichiatra, serve a parlare
di alcuni casi in particolare e scambiarsi idee, osservazioni e informazioni sull’andamento della
comunità e degli utenti per prendere eventuali decisioni sulla modifica di percorsi o terapie.
Comunque sia tutte le eventuali decisioni vengono riportate nella riunione del venerdì pomeriggio,
riunione nella quale si riunisce l’équipe al completo e nella quale si parla di ogni persona e degli
eventi pù significativi della settimana. Grosso modo si prendono decisione su: terapie, disposizione
logistica, assegnazione dei compiti e modalità d’approccio.
Disposizione logistica: può succedere che alcuni pazienti adottino, a casa, dei comportamenti
poco proficui per la cura della malattia e si può quindi decidere di accogliere nella comunità,
previa disponibilità, qualche persona per monitorarla e per aiutarla a non degenerare. In
questo modo inoltre si crea una mediazione molto proficua con la famiglia che non si sente
sottratta del figlio ma si sente tutelata.
L’assegnazione dei compiti: conseguente all’osservazione e alla sperimentazione, il compito
dà la possibilità al paziente di mettersi in gioco con se stesso. Molto importante è
l’osservazione: solo tramite essa è possibile capire dove possa esserci un maggior interesse, e
solo dall’interesse nasce la passione (si sa).
Le modalità d’approccio: in questo ambito vi è la parte più speculativa e delicata di tutto il
percorso riabilitativo; nell’equipe vi sono diverse presonalità ed ognuno può essere più o
meno ricettivo ed empatico con certi ospiti piuttosto che con altri. Ciò da la possibilità agli
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utenti di individuare una persona in particolare con la quale aprirsi e creare un legame che le
dia modo di confidare i propri segreti, legame che tramite la fiducia aiuta a contenere l’ansia
e gestire la paura.
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Cap. IV
L'educatore nella riabilitazione psichiatrica
A questo punto la domanda sorge spontanea: quale sarà mai il ruolo dell’educatore in un Centro
di Salute Mentale? La risposta non è per niente scontata in quanto le figure professionali presenti
nelle strutture del distretto fanno tutte riferimento alla direzione medica. Tra le figure che lavorano
a diretto contatto con gli utenti troviamo infatti psichiatri, psicologi e operatori socio sanitari, tutte
persone che, chi più chi meno, devono seguire le direttive date dai medici psichiatri e, soprattutto
per quanto riguarda gli psicologi, devono adeguare le proprie prestazioni professionali ad una prassi
di tipo medico.
Solo i medici possono utilizzare gli psicofarmaci essendo la farmacologia parte integrante e per
certi versi fondante delle terapie utilizzate. la prassi educativa invece opera per lo più in situazioni
in cui il dialogo, per quanto ostacolato da problemi comportamentali o ambientali, è possibile e
fondamentale per creare un rapporto educativo orizzontale fondato sullo scambio reciproco.
Nell’educazione è infatti il dialogo il fattore fondamentale per una buona riuscita dei rapporti tra le
parti e proprio questo con i malati mentali è spesso difficoltoso e mediato dalla terapia stessa.
Tutto ciò per dire che benché la figura dell’educatore in un Dipartimento di Salute Mentale sia
prevista e possibile, il suo ruolo è impegnativo in quanto è chiamato ad operare in collaborazione e
non in competizione, fondando le sue prestazioni su basi sceintifiche se non si vuol avere un ruolo
di secondo o terz’ordine.
Tuttavia anche tutti gli altri operatori, medici compresi, dovrebbero porre alla base del loro
intervento professionale i principi cardine della pedagogia.
I nodi fondamentali dell’agire pedagogico, a mio avviso, presuppongono una determinata
concezione dell’uomo e, dunque, la necessità di definire l’utente. L’utente, l’ospite o paziente in
senso pedagogico chi è? E’ una persona, e la persona può essere considerata dualità di essere e
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sembrare. Di primo acchito un malato mentale grave può sembrare un disabile mentale e chi ha
esperienza con i disabili mentali sa che con quel tipo di utenza il lavoro pedagogico ruota attorno
alla vicinanza emotiva e all’assistenza sanitaria e sa che per la maggior parte dei casi il limite
mentale non viene percepito o non genera sofferenza all’utente, essendo tale limite reale e non
immaginario o auto imposto. Il malato mentale, invece, è portatore di un disagio che nasce in sé e
che aliena la propria autenticità relegandola ad un setting di manifestazioni non coerenti con un
comportamento adeguato ad un buon vivere dal punto di vista affettivo, sociale, lavorativo, ecc. Vi
è quindi una discrepanza tra il sembrare e l’essere della persona che comunque mantiene in sé la
propria originalità.
La relazione educativa, dal canto suo, richiede due elementi fondamentali: la sincerità e la
fiducia; ma come fare se la sincerità è inficiata dalla malattia mentale? Di fronte ad una frase del
tipo: “Ieri mi hanno portato in cima al monte dentro una bara e poi mi hanno fatta scivolare giù”,
cosa c’è di vero? Dove sta la verità di tale affermazione?
In casi più soft di assistenza si possono incontrare persone che tendono a nascondere se stesse
dietro a muri di falsità, dietro a tormentati tentativi di sembrare qualcosa o qualcuno per nascondere
se stessi, le proprie verità dolorose; ma in un malato mentale questi meccanismi sono cronicizzati e
l’approccio utilizzato dalla scienza medica considera molto le manifestazioni esterne per
organizzare il proprio lavoro e mantiene un certo distacco. Tuttavia nelle relazioni simmetriche v’è
scambio: uno dei pilastri della pedagogia è proprio quello dell’empatia, la quale richiede che l’una
parte riceva e ceda parte di sè. Ma con una mente malata questo tipo di agire diviene pericoloso
perché nello scambio qualcosa viene irrimediabilmente distorto.
L’empatia è la profonda e rara capacità di mettersi al posto dell’altro, di lasciarsi coinvolgere da
lui, di immergersi nel suo mondo emozionale vedendolo come lui lo vede, e di conservare allo
stesso tempo la propria autonomia e chiarezza di comprensione e di giudizio.
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Credo sia possibile e doveroso instaurare un rapporto di fiducia tra l’operatore e il paziente
psichiatrico ma mi guardo bene dall’affermare che dalla fiducia dell’operatore se ne debba ricavare
sincerità da parte del paziente.
In pedagigia l’autenticità è quel fattore chiave che ricerca la parte più umana e vera della
persona al di là del proprio ruolo professionale, è quella richiesta di verità soggettiva che deve
trasparire dalla persona, perché il contatto con l’altro non lasci spazio a quelle falsità che con il
passare del tempo corrodono il sè autentico innestando comportamenti dannosi. Tutto ciò con una
mente malata è possibile, ma richiede alcune mediazioni: va bene essere autentici, va bene che
l’autenticità prescinda dal ruolo professionale, ma non bisogna dimenticare che si esplica attraverso
di esso. Allora un educatore deve agire, di primo acchito, da persona autentica accettando l’altro per
quel che è, ma prima di entrare in empatia con lui, cosa difficile ma possibile, deve riuscire a capire
cosa accettare e cosa scartare dell’altro perché sono proprio le sue manifestazioni sociali e
interrelazionali ad essere distorte dal disagio psichico. Una volta fatta questa doverosa cernita dovrà
tuttavia capire come la terapia farmacologica agisce sulla persona, ancora un a volta per
comprenderne meglio le manifestazioni.
Una volta che si saranno delimitati i confini relazionali del paziente e si sarà compreso a cosa si
deve arrivare con la relazione educativa, si potrà sempre agire di propria iniziativa in maniera
creativa. Infatti, benché le conoscenze scientifiche di un educatore possano essere magre, un
educatore porterà sempre con sè le premesse teoriche necessarie perché una persona sappia aiutare
chi è in difficoltà.
Queste premesse sono ben rintracciabili nell’opera di Martin Buber, e con la sua distinzione tra i
due tipi di relazione: Io-Tu e Io-Esso. Nella relazione Io-Tu, quella autentica, l’Io mette in gioco la
sua essenza più autentica nella direzione dell’apertura e dell’incontro con l’altro inteso non come
Esso, come soggetto portatore di una serie di manifestazioni inautentiche e automatiche, ma come
Tu, ossia come unità originaria. E’ solo tramite questo tipo di relazione che il Tu può, se lo vuole,
essere libero, liberare se stesso dalle catene auto imposte. Questo discorso ben si attua in un
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contesto psichiatrico nel quale il malato ha perso la capacità di esprimere l’io. Da quanto visto, la
cura delle malattie mentali non giunge quasi mai ad un recupero totale delle capacità cognitive ed il
più delle volte si limita ad un sostegno. In questo caso un supporto affettivo e di animazione come
può essere quello dell’educatore, il quale, oltre che stimolare le persone, ricerca la loro autenticità
può essere un ottimo stimolo per raggiungere maggiori stati di benessere anche se tutto ciò non può
essere dimostrato: la psicoterapia è una scienza relativamente nuova e la figura dell’educatore
professionale appartiene all’ultimo decennio; bastano questi due elementi per comprendere come
sia difficile affrontare il problema delle malattie mentali in maniera seria tramite una riflessione non
fine a se stessa o che non si rifaccia ad un qualcosa di già detto e ripetuto. Inoltre nel concreto la
figura dell’educatore è più vicina a quella dell’operatore socio sanitario che a quella dello psicologo
e di fatto non ha applicazione, ma non per questo non si devono sperimentare metodi diversi.
Quel che non deve mancare è la responsabilità, cosa che in senso umano implica un impegno
estremo, pari a quello che un genitore deve avere con i propri figli. Essere responsabili nei confronti
dei propri educandi significa immergersi in un ruolo fatto di grandi gioie e di grandi rischi, un ruolo
che non termina mai. Se l’educatore professionale opera in maniera responsabile può sperimantare,
altrimenti è meglio che si attenga a protocolli o setting di attività già collaudati.
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Conclusioni
La medicina e la pedagogia sono due discipline estremamente distanti per metodi e mezzi ed
allo stesso tempo estremamente simili per le loro finalità. La struttura nella quale ho svolto il mio
tirocinio era una via di mezzo tra una struttura sanitaria ed una più tradizionale struttura socio-
assistenziale e si innestava in quella terra di mezzo rappresentata dalle Strutture Intermedie.
Le strutture Intermedie si collocano in una area detta area terza: quella nella quale avviene
l’incontro tra l’area del soggetto con le sue caratteristiche e i suoi desideri, e l’area dell’oggetto-
ambiente, con le sue risorse e richieste. L’area terza è quella dei fenomeni transizionali, del gioco e
della cultura. E’ quella nella quale avviene e si struttura in modo autentico e piacevole l’incontro
con l’oggetto-non me. Quest’oggetto, costituito da cose, attività, persone, eventi, viene considerato
e ricreato in maniera autentica e questo basta perché chi ne usufruisce non cada in un circolo di
dipendenza psicologica logorante, ma consideri questo artefatto mentale ed emotivo come una
propria creazione ed in quanto tale fonte di soddisfazione. Le Strutture intermedie quindi forniscono
un contesto spaziale e temporale nel quale i pazienti possono vivere questa area terza, essenziale per
la sopravvivenza psichica; è un’area che spesso nella sua esistenza è stata invasa e annullata
dall’oggetto che ha fatto propaganda per le buone cose che ha sempre dato alla persona sofferente (i
genitori che hanno sempre agito per il bene dei figli), o un’area che è stata disertata dal soggetto
attraverso il suo ritiro in rifugi interiori inaccessibili, quale deliri, autismi, ossessioni. Le strutture
intermedie propongono non tanto una realtà migliore di quella in cui i pazienti vivono, ma la
possibilità di abitare per un certo tempo nell’area terza, nella quale sviluppare un apparato psichico
fornito di una maggiore possibilità di incontro tra sé e la realtà esterna, senza annientamento-
adeguamento e senza fuga e diniego.
Questa è, in ultima analisi, la realtà dei centri diurni. E l’educatore proprio qui può creare uno
spazio nuovo, un nuovo laboratorio umano nel quale sperimentare assieme ai pazienti, utilizzando
le proprie conoscenze, percorsi di vita e di esperienze in una situazione privilegiata dal fatto che tra
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il paziente e l’educatore finalmente non vi sono più elementi disturbatori quali potevano essere i
genitori o dipendenze distorcenti. E per quanto il dialogo possa essere ostacolato non bisognerà mai
perdere la speranza di riuscire nel proprio intento.
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