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Prof.ssa Maria Assunta Urru
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Gli scienziati e la Grande Guerra
Lo studio della storia della Fisica appare sempre più significativo al fine di comprendere il
retroterra culturale e umano in cui si sono sviluppate le teorie scientifiche che hanno
cambiato il modo di interpretare il mondo .
In particolar modo , relativamente agli sviluppi della fisica più recente , la fisica quantistica
si contestualizza storicamente in un periodo molto particolare : la Grande Guerra ( 1914-
1918).
Uno dei laboratori scientifici più prestigiosi è senza dubbio quello si Rutherford in cui
arrivano studenti brillanti da tutto il mondo .
Ricordiamo in particolare che Rutherford è stato un chimico e fisico neozelandese
naturalizzato britannico, considerato il padre della fisica nucleare. Fu il precursore della
teoria orbitale dell'atomo. Vinse il Premio Nobel per la Chimica nel 1908.
Uno dei brillanti collaboratori di Rutherford fu il tedesco Wilhelm Geiger (Neustadt an der
Weinstraße, 30 settembre 1882 – Potsdam, 24 settembre 1945) è inventore del contatore
di particelle elementari (1913) che porta il suo nome che poi perfezionò (1928) insieme a
Walther Müller (contatore Geiger-Müller).
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Geiger si laureò a Erlangen nel 1906 con una tesi sulle scariche elettriche nei gas. Poi
andò in Gran Bretagna, dove approfondì lo studio di questi fenomeni, lavorando
all'Università di Manchester come assistente di Ernest Rutherford fino al 1912. Con lui
Geiger applicò la sua esperienza sulla ionizzazione gassosa allo studio della
disintegrazione radioattiva. Si dedicò, in particolare, a ricerche sulle particelle alfa per
determinarne la traiettoria e la carica: da qui Geiger trasse l'idea del suo contatore di
particelle, e Rutherford quella del suo modello di nucleo atomico.
Geiger impiegò il suo contatore anche per confermare nel 1925 l'effetto Compton
(scoperto nel 1922 dal fisico statunitense Arthur Holly Compton).
Nel 1925 diventò professore di fisica all'Università di Kiel, nel 1929 a quella di Tubinga, e
dal 1936 fu capo del dipartimento di fisica del Politecnico di Charlottenburg.
Compì ricerche anche sui raggi cosmici, sulla radioattività artificiale e sulla fissione
nucleare.
L’altro collaboratore fu Henry Gwyn Jeffreys Moseley (Weymouth, 23 novembre 1887 –
Gallipoli, 10 agosto 1915) , fisico britannico.
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Studiò a Eton e nel 1906 entra al Trinity College di Oxford dove conseguì la laurea in fisica
nel 1910. Subito dopo entrò a far parte del gruppo di ricerca di Rutherford a Manchester
fino al 1913.
Attraverso sperimentazioni nel campo della spettroscopia a raggi X, proprio in quell'anno
pubblicò i risultati delle sue ricerche dove giunse alla conclusione che le frequenze dei
raggi emessi da ciascun elemento variano proporzionalmente al numero d'ordine
(atomico) dell'elemento stesso (legge di Moseley).
Con la scoperta degli isotopi ci si rese conto che non è il peso atomico ad incidere sulla
legge periodica di Mendeleev bensì il numero atomico su cui si basa la tavola periodica
degli elementi attuale.
Con la prima guerra mondiale, Moseley, nel frattempo andato in Australia, ritorna in patria.
È immediatamente arruolato - nonostante Rutherford sia contrario - e viene ucciso nella
battaglia di Gallipoli nel 1915.
Non sono in pochi a pensare che, se Moseley fosse sopravvissuto alla guerra, avrebbe
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certamente ricevuto il premio Nobel, considerando l'importanza del suo lavoro svolto
nell'arco di tempo di soli 40 mesi.
Il lavoro di ricerca nel laboratorio di Rutherford pubblicò tra il 1903 e il 1914 circa 30
articoli scientifici all’anno , dopo lo scoppio della grande guerra Rutherford , ormai solo a
continuare l’attività di ricerca, riuscirà a pubblicarne solo 1 all’anno .
In seguito alla prematura morte di Moseley, Rutherford affermò che in 2 anni il giovane
fisico aveva realizzato un lavoro di ricerca tale che nemmeno lui in 20 anni avrebbe mai
realizzato .
La guerra sconvolse gli assetti sociali e culturali e di conseguenza, influenzò
inevitabilmente la ricerca scientifica .
(Per approfondimenti: J. L. Heilbron (a cura di), H. G. J. Moseley: the life and letters of an
english physicist, 1887-1915, University of California Press Berkeley and Los Angeles,
California, 1974).
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Albert Einstein
Nacque a Ulm nel 1879. Trascorse la sua infanzia a Monaco e in Italia per poi trasferirsi
con la famiglia in Svizzera.
Nel 1900 si laureò e ottenne l’abilitazione all’insegnamento della matematica e della fisica
e nel 1905 conseguì il dottorato. Quattro anni dopo Einstein ottenne il primo incarico
accademico nell’università di Zurigo dove lavorò fino al 1914 quando si trasferì a Berlino
per diventare membro dell’Accademia prussiana delle scienze, direttore del Kaiser
Wilhelm Institut e professore. Due anni dopo il trasferimento a Berlino, pubblicò "I
fondamenti della teoria della Relatività generale", risultato di dieci anni di studio. Questo
lavoro è considerato dallo stesso Einstein il suo maggior contributo scientifico e si
inserisce nella sua ricerca rivolta alla geometrizzazione della fisica. Grazie ad un’eclissi
solare nel 1919, le teorie di Einstein trovarono alcune conferme e la sua fama si affermò
anche al di fuori del mondo accademico e scientifico. Nel 1921 ricevette il premio Nobel
per la fisica.
A dispetto del crescente clima di tensione e delle idee antisemite sempre più diffuse,
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Einstein rimase a Berlino fino al 1933, anno in cui si trasferì a Princeton, dove rimase per il
resto della sua vita. Con lo scoppio del secondo conflitto mondiale il fisico iniziò ad
impegnarsi attivamente nello sforzo bellico statunitense contribuendo alla costruzione
della bomba atomica. Nonostante il suo impegno durante la guerra, dopo il 1945 Einstein
si schierò contro la proliferazione delle armi nucleari.
Negli ultimi anni della sua vita si dedicò alla ricerca sull’unificazione della gravità e dell’elettromagnetismo. Nel 1950 pubblicò i risultati delle sue ricerche sulla rivista
Scientific American.
Il 17 aprile 1955 Einstein fu colpito da un aneurisma dell’aorta addominale, ricoverato
d’urgenza morì nelle prime ore del mattino del 18 aprile. Come da disposizioni dello
scienziato, il suo corpo fu messo a disposizione della scienza. Il patologo incaricato di
effettuare l’autopsia rimosse il cervello e lo conservò in un barattolo nascosto nella propria
abitazione per circa 30 anni. Dopo il rinvenimento del reperto i discendenti del fisico
acconsentirono che il cervello venisse sezionato in numerose parti donate a importanti
ricercatori; quella più consistente è conservata a Princeton.
(Per approfondimenti: A. Pais, Einstein è vissuto qui, Bollati Boringhieri, Torino, 1994;
Id. La scienza e la vita di Albert Einstein, Bollati Boringhieri, Torino, 1986)
Karl Schwarzschild
Nacque a Francoforte sul Meno il 9 ottobre 1873, fu un importante matematico, astronomo
e astrofisico. Nel 1893 conseguì la laurea in astronomia all’Università di Strasburgo e nel
1896 ottenne il dottorato dall’Università di Monaco. Nei tre anni successivi lavorò a Vienna
come assistente all’osservatorio Kuffner. Nel 1901 ottenne il posto di direttore
dell’osservatorio astronomico di Gottinga.
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In questi anni Schwarzschild entrò in contatto con numerosi scienziati, quali David Hilbert
e Hermann Minkowski. Questo è il periodo in cui le sue ricerche lo condussero a scoprire
quello che diventò famoso come “l’effetto Schwarzschild”, metodo fotometrico usato
tutt’oggi per individuare e fotografare le stelle più distanti. In seguito ai suoi successi
scientifici divenne direttore dell’osservatorio astrofisico di Potsdam. Nel 1915 Albert
Einstein scoprì le equazioni di campo della relatività generale: dopo la loro pubblicazione
da parte dell’Accademia delle scienze prussiana, Schwarzschild inviò a Einstein un
articolo contenente la soluzione di una prima equazione. Era il 16 gennaio 1916.
Dopo lo scoppio del primo conflitto mondiale Schwarzschild si arruolò volontario, nei
primi mesi di guerra fu tenuto nelle retrovie del Belgio occupato, ma nel 1916 fu inviato sul
fronte orientale. Dopo poche settimane di permanenza in trincea si ammalò gravemente,
fu trasferito a Potsdam dove morì l’11 maggio 1916.
(Per approfondimenti: The Abraham Zelmanov Journal. The journal for General Relativity,
gravitation and cosmology, Vol. 1, 2008.)
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Enrico Fermi: la scienza e il potere
Prologo
La sera del 6 dicembre 1938 Enrico Fermi, insieme con la sua famiglia, parte da Roma per
Stoccolma. Ufficialmente si reca a ritirare il premio Nobel per la fisica, di cui è stato
insignito dall'Accademia svedese. Farà ritorno in Italia soltanto dopo la fine della guerra: la
moglie di Fermi, Laura Capon, è di famiglia ebrea e il 17 novembre di quello stesso anno
[1938] era stata promulgata dal governo fascista, a suggello di una martellante campagna
di propaganda e di una serie di altri provvedimenti legislativi, la famigerata "legge per la
difesa della razza".
Alla cerimonia di conferimento del Nobel Fermi non indossa né l'uniforme di accademico
d'Italia né la divisa del partito fascista, ma il frac, e invece di levare il braccio nel saluto
romano stringe la mano al re Gustavo V. Dopo una breve sosta a Copenaghen, il 24
dicembre, da Southampton, si imbarca sul piroscafo Franconia per gli Stati Uniti: lavora
dapprima alla Columbia University di New York, nel 1942 si trasferisce all'università di
Chicago, dove progetta e realizza la "pila atomica", il primo reattore nucleare. Tra il 1943 e
il 1945 partecipa al progetto Manhattan per la costruzione della bomba atomica: le sue
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competenze teoriche, unite alla sua straordinaria abilità sperimentale, si rivelano
determinanti per il successo dell'impresa scientifico-tecnologica responsabile delle
centinaia di migliaia di morti di Hiroshima e Nagasaki.
Le vicende di Fermi sono emblematiche di un'epoca in cui gli scienziati, sempre più
spesso, si trovano a doversi confrontare con interrogativi di carattere etico e politico. Quali
principî devono regolare i rapporti con i governi e con le industrie? È giusto - quantomeno
in certi momenti storici - mettere le proprie conoscenze al servizio del potere militare? Ha
ancora senso rinchiudersi nel proprio laboratorio come in una torre d'avorio nel nome della
"ricerca pura" se così forti sono gli interessi in gioco e così profonde le implicazioni morali?
Le scelte di Fermi, come vedremo, furono contraddistinte da non poche ambiguità:
certamente non furono scelte obbligate. Altri suoi colleghi fisici, come Bruno Pontecorvo o
Franco Rasetti, tennero condotte diverse.
La migrazione intellettuale
A partire dagli anni '30, l'aggravarsi della situazione politica, le persecuzioni razziali e, da
ultimo, la guerra costrinsero molti uomini di cultura - letterati, filosofi, economisti, storici,
romanzieri, registi, musicisti, architetti, artisti, medici, biologi, fisici, matematici - ad
abbandonare l'Europa per rifugiarsi negli Stati Uniti (si ricordi che in questo Paese la legge
di immigrazione esentava i professori universitari dalle quote fisse di immigrazione,
facilitando così l'ingresso degli studiosi invitati da una qualche istituzione statunitense;
inoltre, il cosiddetto Emergency Committee for Displaced German Scholars, in seguito
esteso a tutte le nazionalità, offrì molti posti a termine a coloro che non avevano un
contratto con qualche università, spesso con il sostegno economico della Rockfeller
Foundation). Questa migrazione non fu certo un movimento di massa, ma ebbe
conseguenze di grande portata: 1) creò i presupposti del predominio degli Stati Uniti in
campo scientifico e tecnologico nel dopoguerra; 2) modificò in maniera definitiva la
struttura stessa dell'impresa scientifica e fu all'origine della big science dipendente dagli
interessi economico-industriali, dalla politica, dai progetti di ricerca militari; 3) sancì
l'importanza della conoscenza scientifica all'interno della società e ridefinì il ruolo dello
scienziato in quanto uomo di potere e non solo di sapere.
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Einstein e von Neumann. Tra i molti fisici teorici e matematici che emigrarono negli Stati
Uniti, forse le personalità più di spicco furono Einstein, Fermi e von Neumann. Le figure
Einstein e von Neumann sono emblematiche di due atteggiamenti antitetici dello
scienziato nei confronti del "potere".
• Einstein (Ulm 1879 - Princeton 1955), approdato all'Institute for Advanced Studies nel
1933, fisico teorico la cui fama eguaglia quella dei divi del cinema, ha una
concezione elitaria del sapere scientifico e non manifesta alcun interesse alle
applicazioni della fisica. Si atteggia ad anticonformista (ma forse sarebbe ora di
analizzare criticamente questo mito dello scienziato sempre spettinato e
apparentemente trasandato - forse Einstein è stato il primo scienziato a curare
davvero la propria immagine pubblica) e vive un'esistenza sostanzialmente isolata.
Nonostante sia un pacifista convinto e attivo, scrive (1939) la famosa lettera che
convince Roosevelt ad avviare il progetto Manhattan per la costruzione dell'atomica
(ma Einstein non partecipa al progetto, anche perché sospettato dall'Fbi di avere
simpatie comuniste). A costo di semplificare, potremmo dire che Einstein si
presenta solo come uomo di sapere e non di potere.
• John von Neumann (Budapest 1903 - Washington 1957), professore all'Institute for
Advanced Studies dal 1933, matematico di straordinario e poliedrico talento, oltre ai
risultati puramente teorici ha idee innovative anche nel campo applicativo (crea la
teoria dei giochi, rinnova la meteorologia, getta le basi della computer science e
della teoria degli automi). Von Neumann, sempre in giacca e cravatta, non esibisce
comportamenti anticonformisti ed è perfettamente integrato nell'ambiente
accademico: è un uomo di potere. Ha un ruolo importante nel progetto Manhattan
(suoi i calcoli che permettono l'esplosione della bomba di Nagasaki) e dopo la
guerra diventa consulente della Cia, della National Security Agency, dell'Ibm,
membro della Atomic Energy Commission. Von Neumann contribuì ad orientare la
politica degli Stati Uniti come superpotenza militare e tecnologica: a lui si deve la
lucida teorizzazione, sulla base della teoria dei giochi, dell'idea di "nuclear
deterrence", da attuarsi mediante la minaccia di missili balistici intercontinentali [von
Neumann è il più probabile ispiratore del personaggio del dottor Stranamore
dell'omonimo film di Stanley Kubrick]. Von Neumann è l'esempio paradigmatico
dell'uomo di sapere che è anche uomo di potere [vedi scheda allegata per ulteriori
dettagli biografici].
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Si può dire che la figura di Fermi si collochi, per molti aspetti, a metà strada tra questi due
opposte tipologie: è un emblema dello status ambiguo dello scienziato, in bilico tra
compromesso, compromissione e libertà intellettuale.
La rinascita della fisica italiana
Agli inizi degli anni '20 la fisica teorica è terra di nessuno, al contrario di quel che accade
in altri paesi europei (soprattutto la Germania). L'unica scuola fiorente in Italia è quella
fisico-matematica, che ha in Tullio Levi-Civita la personalità di maggior spicco.
Fermi (Roma 1901 - 1954) - la cui adolescenza è tragicamente segnata dalla morte del
fratello Giulio, di un anno più giovane - ha una formazione essenzialmente da autodidatta
(per la biografia di Fermi vedi De Maria o Cordelli et al.). Fermi non solo diventerà uno dei
maggiori fisici teorici del '900, imponendosi l'ultimo fisico "completo", al contempo teorico e
sperimentale, ma riuscirà a creare ex novo una solidissima e feconda scuola di fisica
teorica italiana, le cui propaggini arrivano fino ai giorni nostri.
La carriera di Fermi (fino al 1926). All'esame di ammissione alla Scuola Normale
Superiore di Pisa lascia stupefatti gli esaminatori trattando il tema "Caratteri distintivi del
suono" non come un ragazzo appena uscito dal liceo, ma come un fisico professionista.
Poco più che ventenne Fermi è sostanzialmente l'unico in Italia (a parte, forse, il suo
amico Franco Rasetti) ad avere una conoscenza approfondita della relatività e della
meccanica quantistica. Il suo professore di Fisica sperimentale alla Normale, Luigi
Puccianti, non lo tratta come uno studente, ma come un collega e un consulente
(addirittura, chiede a Fermi di tenergli alcuni seminari privati).
La carriera accademica di Fermi è rapidissima: si laurea nel 1922, nel 1923 passa vari
mesi a Gottinga (all'epoca la più prestigiosa università tedesca - Fermi vi conobbe Born,
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Heisenberg e Pauli, tutti futuri premi Nobel), nel 1926 - al suo attivo, nonostante la
giovanissima età ha già vari importanti lavori scientifici, tra i quali quello (1925) sulla
statistica delle particelle a spin semi-intero (ad esempio, elettroni, protoni e neutroni), oggi
denominata statistica di Fermi-Dirac - viene nominato professore all'Università di Roma.
A Roma Fermi riunisce attorno a sé un gruppo di giovani fisici (forse dovremmo piuttosto
dire studenti, data la loro età), i "ragazzi di via Panisperna" (la via dove aveva sede
l'Istituto di Fisica): Emilio Segrè (classe 1905), Franco Rasetti (classe 1901), Edoardo
Amaldi (classe 1908), Ettore Majorana (classe 1906).
Mario Orso Corbino. Il mentore e il protettore del gruppo - l'intelligenza politica che guida il
rinnovamento della fisica teorica italiana - è Orso Mario Corbino (1876-1937). Fisico di
formazione, direttore dell'Istituto di fisica dell'Università di Roma dal 1918 all'anno della
morte (1937), ministro della Pubblica istruzione nel 1921-1922, ministro dell'Economia nel
primo governo Mussolini, legato agli ambienti industriali, in particolare alle aziende
elettriche (Edison), è Corbino a ottenere per Fermi la prima cattedra di Fisica teorica in
Italia e a potenziare le strutture dell'Istituto di via Panisperna. Lungimirante organizzatore
culturale, Corbino, pur senza apportare contributi scientifici di rilievo, è consapevole della
portata rivoluzionaria della meccanica quantistica e accoglie le ricerche condotte da Fermi
sotto la sua egida: in un famoso discorso alla SIPS (Società Italiana per il Progresso delle
Scienze), nel 1928, proclama che "la nuova frontiera è la fisica atomica". In particolare,
Corbino capisce l'importanza di istituire grandi laboratori nazionali, in grado di competere
con gli analoghi centri di ricerca degli altri paesi europei (soprattutto Germania, Francia,
Inghilterra, Olanda). In fondo, a prescindere dai suoi indubbi meriti, Corbino pare agire in
perfetta consonanza con la politica fascista di rivalutazione della grandezza del "genio
italico".
I ragazzi di via Panisperna. Il gruppo di via Panisperna è compatto attorno alla figura
carismatica di Fermi. Lo spirito - tra il goliardico e l'elitario - che anima questi giovani
ricercatori è testimoniato dai soprannomi che usano tra di loro: Fermi è il "papa", Rasetti il
"cardinal vicario", Emilio Segrè e Edoardo Amaldi sono gli "abati" (Corbino è invece il
"padreterno", mentre Enrico Persico - amico di Fermi fin dai tempi del liceo e lui stesso
fisico teorico - è il "prefetto de propaganda fide" per il ruolo fondamentale che svolge nella
diffusione della nuova fisica in Italia).
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Più isolato, intellettualmente e umanamente, appare invece Ettore Majorana,
soprannominato non a caso il "grande inquisitore", perché sempre critico e pieno di
sfiducia verso se stesso e verso gli altri, Fermi compreso. Come fisico teorico, Majorana è
l'unico che, in qualche misura, possa reggere il confronto con Fermi (i contributi scientifici
di Majorana hanno un accentuato carattere matematico, con intuizioni spesso in anticipo
sul proprio tempo). Personalità schiva e complessa, incapace di adeguarsi alle logiche del
potere accademico, Majorana scompare in circostanze misteriose il 26 marzo 1938, pochi
mesi dopo essere stato nominato professore "per alta e meritata fama" all'università di
Napoli (la nomina per chiara fama permette alla commissione di far rientrare nella terna
dei vincitori normali anche Giovanni Gentile jr., figlio di Giovanni Gentile). Leonardo
Sciascia, nella Scomparsa di Majorana, ipotizza che Majorana fece perdere
deliberatamente le proprie tracce - ritirandosi in un convento, oppure emigrando in
qualche paese sudamericano, forse l'Argentina - perché aveva intuito le apocalittiche
potenzialità distruttive dell'energia nucleare: questa interpretazione, per quanto
suggestiva, fa di Majorana un profeta capace di prevedere timori e scenari che potevano
essere fondati solo dopo il 1939, quando Meitner e Frisch correttamente interpretarono il
fenomeno della fissione osservato da Hahan e Strassmann.
La radioattività artificiale. Le ricerche del gruppo di Fermi sono inizialmente dirette verso la
spettroscopia; successivamente, si orientano verso la fisica nucleare. Negli anni 1933-34
Fermi sviluppa la teoria del decadimento beta, con il quale consolida definitivamente la
propria fama a livello internazionale.
La radioattività artificiale (o indotta) è scoperta, nel 1933, dai coniugi Joliot-Curie (Jean F.
Joliot e Irène Curie, figlia di Marie Sklodowska - "madame Curie" - e Pierre Curie: una
famiglia che ha raccolto ben cinque premi Nobel) bombardando con particelle ? un foglio
di alluminio. Il gruppo di via Panisperna, in cui svolge un ruolo importante, ma talvolta
sottovalutato, anche il chimico Oscar D'Agostino (specializzato in radiochimica presso
l'Institut du radium di Parigi) ha l'idea di usare come proiettili, invece delle particelle ?,
neutroni. Tra il 1934 e il 1936, in rapida successione, vengono individuati circa quaranta
nuovi isotopi radioattivi. "Con questo lavoro il gruppo di Fermi fece di Roma" uno dei
maggiori centri mondiali della fisica nucleare del quel tempo" (A. Pais). Questo successo
si deve più all'ingegno e alla serendipity di Fermi e compagni, che non alla ricchezza di
mezzi e di strumentazione, molto inferiori, ad esempio, a quelli del laboratorio di Joliot-
Curie (è Giulio Cesare Trabacchi, direttore del Laboratorio di Fisica dell'Istituto di sanità
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pubblica di Roma dal 1928 al 1958, a regalare a Fermi un grammo di radio per effettuare
gli esperimenti - il significativo soprannome di Trabacchi è "divina provvidenza"). In
particolare, Fermi e i suoi scoprirono che i neutroni rallentati con paraffina sono proiettili
molto più efficaci di quelli veloci (e su suggerimento di Corbino, sempre attento al lato
pratico delle cose, depositarono una richiesta di brevetto per questo procedimento).
Questa scoperta del "potere selettivo dei neutroni lenti" varrà a Fermi il premio Nobel e,
negli sviluppi successivi, si rileverà di cruciale importanza per la costruzione del primo
reattore nucleare.
Fermi e il regime. Fermi si impegnò sempre attivamente (anche negli Stati Uniti) nella
politica universitaria: fu non solo un grandissimo fisico, ma anche un "barone", nel senso
non necessariamente deteriore del termine. Nei confronti del fascismo nutre un'iniziale
simpatia (secondo la testimonianza di Emilio Segrè); successivamente, quando diventa
una personalità della cultura italiana, il fiore all'occhiello della ricerca scientifica italiana
(insieme al monumento Marconi) Fermi ha bisogno di rimanere in buoni rapporti con il
regime per ottenere fondi di ricerca, per avere cattedre per i suoi allievi, eccetera. Fermi
iscrive al PNF, nel 1929, il giorno prima di entrare a fare parte dell'Accademia d'Italia,
l'impennacchiato pantheon culturale nato per volontà di Benito Mussolini, in esplicita
concorrenza con l'Accademia dei Lincei, presieduta dall'antifascista Vito Volterra. Com'è
recentemente venuto alla luce (S. Fiori, "La Repubblica" 18-3-2002) nell'Accademia d'Italia
vigeva una rigida discriminazione antisemita - imposta da Marconi, presidente dal 1930 al
'37: ad esempio sono pubblicamente respinte le candidature di scienziati illustri come
Tullio Levi-Civita, Vito Volterra, Federigo Enriques. Insomma, la feluca da accademico non
è solo un copricapo da parata, ma anche un segno se non di fedeltà al regime,
quantomeno di tacita accettazione della politica di grandeur e di esaltazione nazionalistica
di Mussolini. Nel 1934 Fermi fa parte della giuria della sezione scienze dei primi Littoriali
della cultura; è conservata una lettera del 193?(1?), nella quale Fermi dichiara senza
mezze parole di accettare nel suo gruppo il giovane fisico ebreo Gian Carlo Wick purché
questi rinunci a manifestare apertamente il proprio antifascismo. In conclusione, non si
sbaglierebbe troppo a definire Fermi un intellettuale organico al regime.
"Il pesce inizia a puzzare dalla testa". La fuga di Fermi negli Stati Uniti e il suo
comportamento alla cerimonia di premiazione del Nobel furono duramente criticati dalla
stampa di regime (e non solo); già da qualche tempo, tuttavia, erano affiorati sospetti e
accuse per la impurità razziale non solo della sua famiglia, ma anche del gruppo di fisici
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suoi collaboratori (Amaldi, Wick, Segrè erano ebrei, così come Giulio Racah a Pisa). La
battuta che circolava a commento della fuga di Fermi era che "il pesce inizia a puzzare
dalla testa": nel clamoroso gesto di un accademico d'Italia si scorgeva cioè l'indizio di un
irreversibile processo di deterioramento nei rapporti tra il regime e la nazione.
Ma perché Fermi abbandona l'Italia nel 1938? Non soltanto per la minaccia delle leggi
razziali. Il fatto è che in Italia non ci sono più le condizioni per continuare a fare ricerca di
punta in fisica nucleare: 1) nel 1937 muoiono Corbino e Marconi; 2) in conseguenza
dell'autarchia e, soprattutto, dell'impegno militare nella guerra di Etiopia ('35-'36) i
finanziamenti alla ricerca fondamentale subiscono una drastico ridimensionamento; 3)
come scrive lo stesso Fermi in una lettera al CNR nel gennaio del 1937, gli esperimenti
con le sorgenti naturali non possono più competere con quelli effettuati con gli acceleratori
di ultima generazione (il primo ciclotrone fu realizzato agli inizi degli anni '30 dal fisico
americano Ernest Lawrence) [A, p. 18]; nel giugno del 1938, la presidenza del CNR boccia
la proposta di Fermi per la creazione di un "Istituto nazionale di radioattività", il che fa
naufragare ogni speranza di costruire un ciclotrone italiano.
Per proseguire la propria attività di ricerca in fisica nucleare ai massimi livelli, Fermi deve
emigrare all'estero.
Dalla fissione atomica alla bomba
L'evento che dimostrò incontestabilmente l'enorme potere della scienza - e consacrò la
scienza al potere - fu la costruzione della bomba atomica. Questa realizzazione - che
avvenne in tempi brevissimi - non fu l'esito diretto e inevitabile delle nuove conoscenze
scientifiche sulla struttura del nucleo atomico: richiese gli sforzi congiunti e organizzati di
una folta compagine di scienziati - fisici, chimici, matematici, ingegneri - che misero le
proprie competenze specifiche e il proprio ingegno al servizio dei militari, consapevoli di
lavorare alla costruzione di un ordigno di immane potenza distruttiva. Altre volte nella
storia gli uomini di scienza - da Archimede a Leonardo, fino a Fritz Haber - avevano
prestato il proprio sapere alla causa bellica, ma il progetto Manhattan rappresentò un salto
di qualità: non solo per le dimensioni colossali dell'impresa (oltre 5000 persone vi presero
parte), ma per il travisamento collettivo del senso etico, per l'entusiasmo irresponsabile
con il quale si riempirono lavagne e lavagne di calcoli come se la progettazione di un
ordigno nucleare rientrasse nella normale routine di lavoro scientifico. Le foto che
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ritraggono questi scienziati giovani e famosi - Fermi, Oppenheimer, Segrè, Hans Bethe,
Victor F. Weisskopf, Carl David Anderson - tranquilli e sorridenti davanti al laboratorio di
Los Alamos o in gita domenicale sulle montagne del New Mexico, con gli occhiali da sole
e l'aria del turista che si gode un meritato riposo [C, p. 71; S, p. 209], sono la
testimonianza tragica della ragione scientifica svuotata di ogni principio etico. Così come
tragiche, e sconvolgenti, sono le parole con le quali Fermi, in una lettera ad Amaldi del 28
agosto 1945 [A, pp. 158-160] - poche settimane dopo le stragi di Hiroshima e Nagasaki -
commenta il suo lavoro a Los Alamos: "…è stato un lavoro di notevole interesse scientifico
e l'aver contribuito a troncare una guerra che minacciava di tirar avanti per mesi o per anni
è stato indubbiamente motivo di una certa soddisfazione".
La fissione. Il 10 dicembre 1938 Fermi ricevette il premio Nobel per la fisica "per aver
dimostrato l'esistenza di nuovi elementi radioattivi generati dall'irraggiamento mediante
neutroni, e per la scoperta, legata alla precedente, delle reazioni nucleari provocate dai
neutroni lenti". Nel discorso di accettazione del Nobel Fermi accennò alla presunta
scoperta di nuovi elementi con numero atomico superiore a quello dell'uranio, "che a
Roma … sono di solito chiamati rispettivamente ausonio ed esperio" (la presunta scoperta
risale al 34-35; all'epoca la proposta di battezzare uno dei nuovi elementi "littorio" fu
liquidata da Corbino con una battuta: la vita media delle sostanze era troppo breve per
associarle al regime). In realtà nessun elemento nuovo era stato scoperto dal gruppo di
via Panisperna: Fermi, "il papa" si sbagliava, e aveva anche scelto male il momento per
rendere pubblica la sua supposizione. Nell'autunno di quello stesso anno [1938], infatti,
Otto Hahan e Fritz Strassmann, a Berlino, avevano intrapreso un'analisi radiochimica
molto accurata degli elementi prodotti irradiando l'uranio con neutroni: tra questi elementi
vennero identificati il bario e il lantanio, entrambi con numeri atomici molto inferiori a quello
dell'uranio.
Il risultato di Hahan e Strassmann (che Fermi apprese nel gennaio del 1939, quando si
trova alla Columbia University) sembrava davvero sorprendente. Eppure la spiegazione
era estremamente semplice, come intuirono quasi subito Lise Meitner (ebrea viennese,
rifugiatasi a Stoccolma per sfuggire alle persecuzioni razziali naziste - una grande figura,
troppo spesso dimenticata, della fisica del '900) e suo nipote Otto Frisch (rifugiatosi a
Copenaghen): il nucleo dell'atomo di uranio, assorbendo un neutrone, si scinde in due
nuclei aventi peso atomico circa uguale, compreso tra 38 e 58.
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Della giustezza di questa interpretazione si convince anche Niels Bohr - uno dei padri
della meccanica quantistica - che, in collaborazione con lo stesso Frisch, pubblica una
lettera su Nature (11 febbraio 1939), nella quale viene usato per la prima volta il termine
"fissione".
I fisici di tutto il mondo si impegnano a chiarire gli aspetti teorici e sperimentali del nuovo
fenomeno . Nel solo anno 1939 vengono pubblicati oltre cento articoli tecnici sulla fissione.
In brevissimo tempo si scopre che la fissione dell'uranio è accompagnata dall'emissione di
neutroni, che a loro volta possono provocare nuove fissioni (gli esperimenti sono dovuti a
Fermi e Anderson alla Columbia, Walter Zinn e Leo Szilard anch'essi alla Columbia e
Joliot a Parigi). Nasce così l'idea della possibilità di reazioni a catena, capaci di generare
enormi quantità di energia. Subito si realizza che questa energia, se opportunamente
controllata, può essere impiegata per costruire armi atomiche. Il fisico George Uhlenbeck
racconta che Fermi, nel 1939, quando erano entrambi alla Columbia University, si voltò
verso di lui e gli disse: "Ma ti rendi conto, George, che una piccola bomba a fissione
potrebbe distruggere quasi tutto quello che vediamo qua fuori?"
Queste straordinarie scoperte non rimangono confinate a una ristretta cerchia di
specialisti. Anche il grande pubblico è messo al corrente degli sviluppi della fisica
nucleare. La New York Herald Tribune del 12 febbraio 1939 titola: "Nel regno della
scienza: lo sviluppo pratico dell'energia atomica è solo questione di tempo"; il Washington
Post del 29 aprile: "I fisici stanno discutendo se gli esperimenti [con il ciclotrone] faranno
saltare in aria due miglia di territorio".
Il progetto Manhattan. Sull'Europa incombe ormai lo spettro della guerra. Nell'estate del
1939 Leo Szilard ed Eugene Wigner (entrambi profughi ungheresi) convincono Einstein
(che ha sempre manifestato idee pacifiste) a indirizzare una lettera (datata 2 agosto 1939)
al presidente F.D. Roosevelt per richiamare l'attenzione del governo americano sul
pericolo che avrebbe minacciato l'umanità se i nazisti fossero riusciti a costruire un
ordigno nucleare [E, pp. 599-600]. Einstein, in particolare, insiste sull'opportunità di
"stabilire un collegamento permanente tra il governo e il gruppo di fisici che, in America,
lavorano alla reazione a catena".
In realtà, la macchina governativa fu piuttosto lenta a recepire il pressante invito di
Einstein, condiviso dalla maggioranza dei fisici che avevano trovato rifugio negli Stati Uniti.
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Questo ritardo si spiega in parte per il naturale scetticismo dei militari, piuttosto riluttanti ad
accogliere gli avvertimenti di scienziati stranieri che ipotizzavano la possibilità di costruire
armi di nuova concezione basate su scoperte molto recenti della fisica nucleare; d'altra
parte, occorre anche ricordare che le ricerche militari erano in massima parte indirizzate al
perfezionamento del radar. Soltanto alla fine del 1941, alla vigilia di Pearl Harbor, la Casa
Bianca decise di stanziare fondi rilevanti per la realizzazione di un ordigno nucleare. Il
progetto Manhattan prese il via nell'estate del 1942: il generale Groves scelse il fisico
Robert Oppenheimer (non a caso americano di nascita) a dirigere e coordinare il gruppo di
scienziati che iniziarono a lavorare nel laboratorio segreto di Los Alamos, nel New Mexico.
È impressionante scorrere la lista dei fisici che saranno impegnati in questa gigantesca
impresa collettiva: Bohr, Chadwick, Bethe, Fermi, Teller, Feynmann (uno dei più giovani),
Anderson, Wigner, Rabi, nonché i vecchi amici e collaboratori di Fermi, Emilio Segrè e
Bruno Rossi. Von Neumann - un outsider tra i fisici teorici e sperimentali - partecipa
attivamente, senza prendere fissa dimora a Los Alamos, contribuendo alla risoluzione di
molti problemi matematici. E non bisogna dimenticare il ruolo strategico svolto dalle grandi
companies industriali, quali Du Pont, Eastman, Union Carbide, Monsanto.
La pila atomica. La prima reazione a catena è ottenuta a Chicago, dal gruppo di Fermi,
nell'autunno del 1942. Naturalmente, senza questo passo preliminare non sarebbe stato
possibile costruire la bomba atomica.
Il problema principale da risolvere è il seguente: neutroni che vengono prodotto dalla
fissione dei nucleo di uranio 235 sono troppo veloci per dare origine ad altre fissioni e
vanno quindi rallentati da un moderatore. Questo moderatore deve essere una sostanza
che non assorba i neutroni. L'acqua pesante costituirebbe un ottimo moderatore, ma negli
Stati Uniti non ve ne è grande disponibilità; Fermi, in collaborazione con Anderson, Zinn,
inizia dunque a studiare le proprietà della grafite. Dopo i primi esperimenti alla Columbia
University, Fermi si trasferisce a Chicago: nell'ottobre del '42 inizia la costruzione del
primo reattore, la "pila atomica" (ufficialmente, il direttore del progetto non è Fermi,
cittadino di un paese nemico, bensì Arthur Compton). La "pila" è un mastodontico
apparato alto 9 metri, sistemato in un locale sotto le gradinate dello stadio della Chicago
University. Nella struttura sono inserite numerose barre di cadmio (una sostanza che
assorbe neutroni), che vengono rimosse per attivare la reazione e reinserite per
smorzarla: questo procedimento di controllo è manuale e, potenzialmente, molto
pericoloso.
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I gadgets. A Los Alamos furono costruite tre bombe - la parola in codice era gadgets -
realizzate secondo due progetti, diversi sia per il materiale fissile impiegato (in un caso
l'uranio 235, nell'altro il plutonio 239), sia per il metodo di detonazione. La prima bomba al
plutonio fu fatta esplodere il 16 luglio 1945 nella località Jornada del Muerto, vicino ad
Alamogordo, nel deserto del New Mexico. Cinque chili circa di plutonio produssero
un'esplosione equivalente a 20000 tonnellate di tritolo: la torre cui era sospeso il gadget fu
vaporizzata, la sabbia del deserto si vetrificò, si aprì un cratere profondo oltre 100 metri.
Appena tre settimane dopo questo test riuscito oltre le aspettative (i calcoli dei fisici
prevedevano una minore potenza distruttiva), il 6 agosto 1945, un bombardiere B-29
sganciava su Hiroshima la bomba all'uranio (non ancora testata): almeno 200000 persone
morirono per le conseguenze dell'esplosione. Tre giorni più tardi, il 9 agosto, la bomba al
plutonio fu lanciata su Nagasaki: circa 140000 persone morirono per gli effetti
dell'esplosione e della radioattività nei cinque anni successivi.
Le scelte dei fisici. Già qualche tempo prima del test di Alamogordo, l'11 giugno 1945, sul
tavolo del neoeletto presidente Truman era giunto un documento firmato dal fisico tedesco
James Franck (nato ad Amburgo nell'1882, premio Nobel nel 1926 e rifugiatosi negli Stati
Uniti dal 1933), insieme con altri colleghi tutti impegnati nel progetto Manhattan (tra i quali,
Leo Szilard, lo stesso che aveva convinto Einstein a scrivere a Roosevelt). Il Franck
report, con grande lucidità e preveggenza, ammoniva il governo americano sulle terribili
conseguenze dell'uso bellico dell'energia atomica, prefigurando, tra l'altro, uno scenario
futuro di corsa agli armamenti, che avrebbe finito per minacciare l'umanità intera. Per
mettere fine alla guerra (la Germania aveva già capitolato il 7 maggio) si suggeriva di
effettuare un'esplosione dimostrativa che avrebbe convinto il Giappone alla resa. Ma
questi avvertimenti furono vanificati dal papere espresso dallo "Scientific Panel of the
Interim Committee on Nuclear Power", composto da Oppenheimer, Compton, Lawrence e
Fermi, che raccomandavano l'uso immediato della bomba per risolvere il conflitto (il
documento dello Scientific Panel si chiude con una dichiarazione pilatesca: "We have,
however, no claim to special competence in solving the political, social, and military
problems which are presented by the advent of atomic power"). Altre petizioni, prima
dell'irrimediabile, furono rivolte a Truman: una sottoscritte da Leo Szilard e da altri 69
scienziati che lavoravano al progetto Manhattan, altre firmate dagli scienziati del
laboratorio di Oak Ridge (Tennessee) e dal gruppo di Chicago. Per quanto la decisione
finale di sganciare la bomba fu presa, come ovvio, dai militari, è innegabile la
corresponsabilità diretta dei costituenti dello Scientific Panel, tra i quali - come abbiamo
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detto - vi era Fermi.
Le reazioni dopo la carneficina di Hiroshima e Nagasaki sono ugualmente significative.
Abbiamo già ricordato le parole di Fermi in una lettera ad Amaldi dell'agosto '45: "…è stato
un lavoro di notevole interesse scientifico e l'aver contribuito a troncare una guerra che
minacciava di tirar avanti per mesi o per anni è stato indubbiamente motivo di una certa
soddisfazione". Non diversamente, si esprime Segrè nella sua autobiografia: "…Io
certamente mi rallegrai per il successo che aveva coronato anni di duro lavoro e fui
sollevato dalla fine della guerra". Si deve senza dubbio ricordare che entrambi i genitori di
Segrè erano morti nei campi di concentramento nazisti, come anche i genitori di Laura
Capon, la moglie di Fermi. Ma la tranquilla sicurezza delle dichiarazioni dei due grandi
fisici italiani, nelle quali non si insinua nemmeno l'ombra di un dubbio, è sconvolgente.
Radicalmente opposto, come abbiamo visto, fu il comportamento di Szilard, che si
adoperò attivamente affinché la bomba non esplodesse su obiettivi civili. Bruno Rossi
confesserà che, subito dopo il test di Alamogordo, il sentimento di aver partecipato a
un'impresa di importanza storica "veniva presto sopraffatto da un senso di colpa e da una
terribile ansietà per le conseguenze del nostro lavoro". Anche Hans Bethe divenne un
fervente oppositore dell'uso delle armi atomiche. Va detto che Fermi, dopo la guerra,
cambiò la propria posizione: insieme con I. Rabi e Oppenheimer si dichiarò contrario alla
costruzione della bomba all'idrogeno (in favore della quale era invece il "falco" Edward
Teller).
Franco Rasetti. "Rasetti fu l'unico che si rifiutò di collaborare al progetto della bomba a
fissione per ragioni morali" [A, pp. 36-37]. Rifugiatosi in Canada, aveva impiantato un
laboratorio per svolgere ricerche prima in fisica nucleare e successivamente sui raggi
cosmici. Contattato per entrare a far parte di un gruppo di fisici britannici che sarebbero
poi stati assorbiti nel progetto Manhattan, declinò l'offerta: "ci sono poche decisioni mai
prese nel corso della mia vita - scrive Rasetti - per le quali ho avuto un minor rimpianto.
Ero convinto che nulla di buono avrebbe potuto scaturire da nuovi e più mostruosi mezzi di
distruzione, e gli eventi successivi hanno confermato in pieno i miei sospetti. Per quanto
perverse fossero le potenze dell'Asse, era evidente che l'altro fronte stava sprofondando a
un livello morale (o immorale) simile nella condotta della guerra, come testimonia il
massacro di 200000 civili giapponesi a Hiroshima e Nagasaki". Del tutto "disgustato per le
ultime applicazioni della fisica", Rasetti decise di abbandonare la fisica e dedicarsi a
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ricerche di biologia e geologia (e divenne un grande specialista, pubblicando memorie di
paleontologia e una grande monografia sulla flora alpina). La condotta di Rasetti fu quasi
messa in ridicolo da molti suoi colleghi: Amaldi in una lettera a Fermi del 5 luglio 1945
parla di "un particolare processo di isolamento psichico del nostro amico" e sollecita Fermi
ad intervenire per costringerlo a dimettersi dalla cattedra di spettroscopia che ancora
occupava a Roma ("non vediamo la ragione di avere un professore di spettroscopia che
abita a circa 6000 miglia cercando trilobiti"). Eppure Rasetti aveva le sue buone ragioni:
come scrive in una lettera a Enrico Persico "tra gli spettacoli più disgustosi di questi tempi
ce ne sono pochi che uguagliano quello dei fisici che lavorano nei laboratori sotto stretta
sorveglianza dei militari per preparare mezzi più violenti di distruzione per la prossima
guerra".
Epilogo
Non solo in tempo di guerra, il comportamento degli scienziati dovrebbe essere conforme
a rigorosi principî etici, che non hanno lo scopo di ostacolare la ricerca, ma di impedire che
le conoscenze raggiunte vengono messe incondizionatamente al servizio del potere
politico, militare o industriale. Affinché una nuova scoperta scientifica riesca a trovare
applicazioni tecnologiche, è infatti quasi sempre necessario che gli scienziati impegnati
nella ricerca di base prestino la loro cooperazione attiva agli ingegneri e ai tecnici che
devono procedere alla realizzazione pratica del progetto. In altre parole, per bloccare la
sinergia tra scienza, interessi politici e lobbies industriali basterebbe la consapevole non-
collaborazione degli scienziati. Questo vale non solo per le armi nucleari (ormai un
problema del passato: ormai chiunque abbia la tecnologia adatta può costruire una bomba
atomica), ma per tutta la ricerca militare (comprese le armi batteriologiche), per la ricerca
medica e farmaceutica, per le ricerche nel settore delle telecomunicazioni. Chi obietta che
la scienza deve svilupparsi svincolata da qualsiasi restrizione - anche di carattere etico -
dimentica che proprio nel perseguire l'alleanza con il potere, negli ultimi decenni, la
scienza ha perso gran parte della propria autonomia, essendo venuta meno una delle
condizioni essenziali: la libera circolazione delle idee e dei risultati, per il bavaglio sempre
più spesso imposto alle innovazioni dal segreto militare o dal segreto industriale.
23
Indicazioni bibliografiche essenziali
[A] E. Amaldi, Da via Panisperna all'America, Editori Riuniti, Roma 1997.
[C] D. Cooper, Fermi and the revolutions of modern physics, Oxford University Press,
1999.
[CGS] F. Cordella, A. De Gregorio, F. Sebastiani, Enrico Fermi. Gli anni italiani, Editori
Riuniti, Roma 2001.
[E]. A. Einstein, Opere scelte, a cura di Enrico Bellone, Bollati Boringhieri, Torino 1988.
[N] P. Ndiaye, Du nylon et des bombes. Du Pont de Nemours, le marché et l'État
américain, 1900-1970, Belin, Paris 2001.
[P] A. Pais, Il danese tranquillo. Niels Bohr, un fisico e il suo tempo, Bollati Boringhieri,
Torino 1993.
[Po] B. Pontecorvo, Fermi e la fisica moderna, Editori Riuniti, Roma 1972.
[R] E. Recami, Il caso Majorana, Di Renzo, Roma 2000.
[Ro] M. Rouché, Oppenheimer e la bomba atomica, Editori Riuniti, Roma 1966.
[S] E. Segrè, Personaggi e scoperte della fisica contemporanea, Mondadori, Milano 2000.
[St] F. Stern, Einstein's German World, Princeton University Press, 2000.
24
Gordon Fraser ���The Quantum Exodus. Jewish Fugitives, the Atomic Bomb, and the Holocaust ���Oxford University
Press 2012, pp. 280,
Non è un caso che l’olocausto e la bomba atomica siano emersi contemporaneamente dai
tumultuosi e drammatici avvenimenti del XX secolo. Un binomio spaventoso che ha la sua
radice nella politica antisemita di Hitler e nella conseguente diaspora di fisici eccellenti,
profondamente consapevoli sia del potenziale delle armi nucleari sia delle ambizioni del
regime nazista, come racconta Gordon Fraser, un fisico teorico che per molti anni ha
anche svolto anche un’attività ad altissimo livello come giornalista scientifico. Il libro si
sviluppa all’intersezione fra tre grandi temi: la seconda guerra mondiale, la fisica di
avanguardia, e l’olocausto. Per la prima volta un volume esamina da questo punto di vista
la storia di come la scienza sia divenuta un’arma per la politica e di come l’emigrazione in
massa di scienziati europei abbia di fatto contribuito in modo decisivo a trasformare gli
Stati Uniti in una potenza scientifica dominante.
25
Quando i nazisti presero il potere nel gennaio del 1933 non avevano come obiettivo
principale a breve termine quello della “soluzione finale”, anche se la visione delirante di
Hitler era stata sempre sotto gli occhi di tutti, chiaramente espressa nel Mein Kampf fin dal
1925. Lo scopo dichiarato era quello di “purificare” la cultura tedesca e liberarla da tutti
coloro che la inquinavano, prima di tutto gli ebrei.
Tutte le facoltà, da quelle umanistiche a quelle scientifiche, apparivano invase; ma la
maggior concentrazione di brillanti talenti di discendenza “non ariana”, si trovava proprio
nel campo della fisica atomica. Era un’epoca in cui il tedesco era addirittura la lingua
internazionale della fisica, riviste come Zeitschrift für Physik, Annalen der Physik e Die
Naturwissenschaften erano lette ansiosamente dai fisici di tutto il mondo.
Un vergognoso attacco venne sferrato dall’interno della stessa comunità dei fisici.
Relatività e teoria dei quanti, teorie accusate di essere troppo astratte – e a cui Albert
Einstein aveva dato fondamentali contributi fin dal 1905 – erano da qualche anno nel
mirino di Philipp Lenard e Johannes Stark, entrambi premi Nobel per la fisica e principali
sostenitori della cosiddetta Deutsches Physik.
Ecco cosa scriveva Lenard il 15 maggio 1933 sul Völkischer Beobachter: “Si era fatto buio
nella fisica, da cima in fondo. Con la massiccia infiltrazione degli ebrei in importanti
posizioni nelle università e accademie, l’osservazione della natura – la base di tutte le
scienze naturali – è stata dimenticata. Piuttosto, la conoscenza è stata basata
sull’immaginazione umana […] Il più ovvio esempio di questa influenza perniciosa degli
ebrei sulla scienza è rappresentato dal signor Einstein.”
A quell’epoca Einstein aveva già abbandonato la Germania, da tempo consapevole della
drammatica direzione che stavano prendendo gli eventi nel suo paese. Fu in effetti il
capofila di un gigantesco esodo di artisti e intellettuali letteralmente buttati fuori da ogni
tipo di istituzioni pubbliche. La fisica, fin dall’Ottocento fiore all’occhiello della scienza
tedesca, risultò praticamente decapitata dall’epurazione. Il drammatico sacrificio fu attuato
nella totale assenza di consapevolezza del delicato processo alla base della costruzione
di un patrimonio di sapere scientifico e di una comunità di scienziati, come appare chiaro
nella incredibile affermazione dello stesso Hitler: “Se sbarazzarsi degli scienziati ebrei
implica l’annichilazione della scienza tedesca, allora faremo a meno della scienza per
qualche anno”.
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Lo stesso Werner Heisenberg, giovane vanto della fisica tedesca, uno dei padri della
nuova meccanica quantistica, venne accusato di essere un “ebreo bianco”, perché
insegnava le nuove teorie e praticava la fisica teorica.
Soltanto il provvidenziale intervento di sua madre, amica personale della madre di
Himmler, aveva neutralizzato l’attacco.
All’epoca dell’avvento di Hitler grandi novità avevano caratterizzato la fisica sperimentale.
In particolare, nel 1932 l’inglese James Chadwick aveva dimostrato l’esistenza del
neutrone, ipotizzato da Rutherford fin dal 1920 e subito divenuto un ingrediente essenziale
per la formulazione di modelli teorici sulla natura del cuore dell’atomo. Questa scoperta
segnava l’entrata ufficiale nell’era nucleare. Molti di coloro che furono costretti ad emigrare
erano in effetti degli esperti nel campo della neonata fisica del nucleo.
Inoltre, nel frattempo Mussolini si era unito a Hitler nel suo folle progetto di conquistare il
mondo ed entro l’autunno 1938 aveva messo in atto una serie di provvedimenti antisemiti
che colpivano duramente la comunità dei giovani fisici che stavano contribuendo alla
nascita della fisica moderna in Italia e tutti coloro che non condividevano la politica del
regime.
Fortunatamente la comunità dei fisici è sempre stata una comunità internazionale e i
rapporti erano strettissimi, in particolare fra i rappresentanti della generazione nata a
partire dall’inizio del secolo. Solidarietà e opportunità di assicurarsi la collaborazione di
tanti personaggi eccellenti fecero sì che gli esuli fossero aiutati e accolti grazie anche a
fondi specifici messi a disposizione per questo scopo. Non fu facile trovare una
collocazione per tutti, soprattutto per i più giovani e meno prestigiosi e per gli italiani,
arrivati dopo il 1938. Gli Stati Uniti in particolare erano ancora in difficoltà a causa degli
effetti della grande depressione del ’29, ma furono pronti ad accogliere lo straordinario
regalo che Hitler stava facendo alla scienza americana. Il baricentro della fisica si
spostava al di là dell’atlantico.
Circa un centinaio di fisici tra il 1933 e la fine degli anni Trenta fuggirono dalla Germania nazista e dall’Italia fascista.
Nell’autunno del 1938, quando Enrico Fermi, reduce dagli onori di Stoccolma dove aveva
ricevuto il Nobel per la fisica, si imbarcò su un transatlantico diretto a New York, uno dei
grandi sacerdoti della nuova scienza nucleare si ricongiungeva alla nuova comunità degli
esuli nel nuovo mondo. Bruno Rossi, il pioniere della fisica dei raggi cosmici in Italia che
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aveva creato i presupposti per gli sviluppi di un settore che sarebbe diventato un cavallo di
battaglia della fisica italiana, era già partito con la giovane moglie Nora Lombroso,
costretto ad abbandonare la sua cattedra a Padova e il suo istituto di fisica nuovo di
zecca, alla cui progettazione e costruzione si era dedicato con enorme impegno.
Fermi e la sua famiglia sbarcarono a New York il 2 gennaio 1939. A quell’epoca i chimici
tedeschi Otto Hahn e Fritz Strassmann avevano già inviato per la pubblicazione uno degli
articoli scientifici più fatidici per la storia dell’umanità. La scoperta della fissione dell’uranio,
e la spiegazione teorica subito formulata da Lise Meitner e Otto Frisch che ne chiariva le
enormi implicazioni energetiche, aprivano delle prospettive del tutto nuove che avrebbero
condotto Fermi a mettere a punto il primo prototipo di reattore nucleare della storia nel
dicembre del 1942.
Mentre i fisici si stavano freneticamente lanciando nell’elaborare tutte le implicazioni della
incredibile scoperta, la Germania di Hitler invase l’Est Europa, segnando anche il futuro
drammatico destino di milioni di ebrei. Oltre a rendersi conto delle potenziali applicazioni
pacifiche dell’energia nucleare, i fisici erano stati subito consapevoli che un’arma di potere
inimmaginabile poteva essere ottenuta a partire dal fenomeno della fissione dell’uranio. La
stessa consapevolezza non poteva che essere raggiunta anche dai fisici tedeschi. Tutte le
pubblicazioni relative alla questione fissione sparirono infatti nel giro di poco tempo dalle
riviste scientifiche. Lo stesso Einstein, che pure si pentì successivamente del suo gesto,
scrisse un messaggio allarmato al presidente degli Stati Uniti, Theodore Roosevelt,
segnalando l’enorme pericolo derivante dalla possibilità che i tedeschi stessero già
mettendosi al lavoro per ottenere un’arma basata sulla fissione dell’uranio.
Ben presto i migliori cervelli iniziarono a lavorare strenuamente nel segretissimo centro di
ricerca di Los Alamos, nel Nuovo Messico, un nodo essenziale del Progetto Manhattan, la
gigantesca impresa all’interno della quale finirono col lavorare migliaia di persone a ritmi
accelerati. Un ristretto numero di fisici a Los Alamos era tra i pochissimi consapevoli
dell’obiettivo finale; lavoravano sotto pressione, in una corsa contro il tempo, convinti che
la Germania avesse ancora il potenziale per mettere a punto un ordigno con le stesse
caratteristiche.
Ma i nazisti nel frattempo erano impegnati in obiettivi molto pressanti: lo sterminio di
massa e la guerra su vari fronti in Europa. Di fatto i tedeschi non si avvicinarono nemmeno
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lontanamente al raggiungimento dello scopo finale: costruire una arma nucleare del tipo di
quelle che gli americani utilizzarono sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki
nell’estate del 1945. La conclusione drammatica di questa incredibile sfida scientifica e
tecnologica segnò la perdita dell’innocenza per i fisici di tutto il mondo.
La scienza, in particolare la fisica, emerse vincitrice dal conflitto, modificando
profondamente il suo status. Non va dimenticato che alle ricerche belliche dobbiamo una
miriade di nuove tecnologie come il radar, il computer, i missili, e perfino la produzione
massiccia di gomma sintetica, di penicillina, del nylon come sostituto della seta.
Specialmente negli Stati Uniti, dove la comunità scientifica continuò ad arricchirsi
costantemente anche nel dopoguerra, la larghezza dei fondi messi a disposizione e lo
sviluppo incredibile delle strutture di ricerca diede origine al fenomeno della “big science”.
L’Europa, in particolare grazie all’impegno di alcuni scienziati che misero immediatamente
in atto una strategia di unione delle forze, seppe riconquistare una posizione di primo
piano nel campo della fisica mondiale. Con l’obiettivo di creare un nuovo assetto dopo gli
sconvolgimenti e la distruzione massiccia avvenuta a tutti i livelli nei vari paesi europei,
nacque nei primi anni cinquanta il CERN di Ginevra, un grande centro di ricerca per la
fisica fondamentale fortemente voluto all’epoca da personaggi del calibro di Edoardo
Amaldi.
Anche in epoca di guerra fredda il CERN ha sempre ospitato una comunità scientifica
internazionale, che lavora alle frontiere della fisica in uno spirito che mantiene il giusto
equilibrio tra collaborazione e competizione.
Uno spirito che deve sempre servire a ricordarci come alcuni scienziati, accecati da
meschina rivalità, pregiudizio e altri bassi sentimenti, dimenticarono che la battaglia per
l’affermazione di una teoria scientifica non può essere condotta sulla base di
condizionamenti ideologici e che la scienza è una attività sovranazionale che non può
basarsi su alcuna distinzione fra sesso, razza, religione e qualsiasi altro tipo di
discriminazione. L’umanità è ancora purtroppo ben lontana dall’essersi liberata di
sentimenti di questo tipo, che ogni giorno risorgono in varie forme contribuendo a causare
sofferenza e morte a troppe persone in tutto il mondo.