la partecipazione nelle politiche urbanistiche: il … partecipazione...il secondo capitolo vuole...

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La partecipazione nelle politiche urbanistiche: il caso della Bolognina di Ivan Mammana INDICE Introduzione……………………………………………………….pag. 6 Capitolo 1 La città contemporanea nella sociologia 1.1 Introduzione……………………………..……………………....… ”  8 1.2 La città contemporanea.………………………...……………......... ”  8 1.3 La sociologia urbana.…………………....……..………….…......... ” 11 1.4 Lo spazio come costruzione sociale.…….………………………… ” 13 1.5 Conclusioni……………………….………………...………....…… ” 16 Capitolo 2 La città imposta dall’impresa: uno sguardo all’urbanistica italiana 2.1 Introduzione…………………………………………………..….... ” 18 2.2 L’urbanistica italiana: dalla legge del 1865 fino agli ‘70…………. ” 19 2.3 Gli anni ’80 e le riforme recenti...………………………………… ” 24 2.4 L’urbanistica imposta dall’impresa.…………….………………… ” 27 2.5 I laboratori di urbanistica partecipata.……………………………. ” 28 2.6 Conclusioni……………………………………………….………. ” 31 Capitolo 3 La Bolognina: Il caso del laboratorio di urbanistica partecipata dell’ “Ex-mercato”

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Page 1: La partecipazione nelle politiche urbanistiche: il … partecipazione...Il secondo capitolo vuole mettere in luce chi ha effettivamente dato forma alla città e attraverso che tipo

La partecipazione nelle politiche urbanistiche: il caso della 

Bolognina di Ivan Mammana

INDICE

Introduzione……………………………………………………….pag. 6

Capitolo 1

La città contemporanea nella sociologia

1.1 Introduzione……………………………..……………………....… ”  8

1.2 La città contemporanea.………………………...……………......... ”  8

1.3 La sociologia urbana.…………………....……..………….…......... ” 11

1.4 Lo spazio come costruzione sociale.…….………………………… ” 13

1.5 Conclusioni……………………….………………...………....…… ” 16

Capitolo 2

La città imposta dall’impresa: 

uno sguardo all’urbanistica italiana

2.1 Introduzione…………………………………………………..….... ” 18

2.2 L’urbanistica italiana: dalla legge del 1865 fino agli ‘70…………. ” 19

2.3 Gli anni ’80 e le riforme recenti...………………………………… ” 24

2.4 L’urbanistica imposta dall’impresa.…………….………………… ” 27

2.5 I laboratori di urbanistica partecipata.……………………………. ” 28

2.6 Conclusioni……………………………………………….………. ” 31

Capitolo 3

La Bolognina: Il caso del laboratorio di urbanistica 

partecipata dell’ “Ex­mercato”

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3.1 Introduzione………………………………………………………..  ”  34

3.2 La Bolognina………………...…..…………………………………  ”  34

3.3 L’area dell’Ex­mercato e la sua dismissione .……………………..  ”  36

3.4 Il laboratorio di urbanistica partecipata dell’Ex­mercato ….………  ” 39

3.5 Conclusioni ….................................................................................... ” 47

2

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Conclusioni….…………………………...………………………..…  ” 48

Bibliografia Essenziale………..………………………………….  ”  52

Sitografia.....……………………………………………………….... ”  53

Normativa…………………………………………………….….…..”  53

Allegato: intervista a Giovanni Ginocchini………..……..….”  55

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La mia mente continua a contenere un gran numero di città che non ho visto ne vedrò, nomi che portano con sé una figura o frammento o 

barbaglio di figura immaginata…(Italo Calvino)

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INTRODUZIONE

Lo scopo della tesi è quello di analizzare quali sono state le dinamiche della 

formazione degli spazi urbani, ovvero individuare gli attori che più hanno 

influito  sulla   loro realizzazione  e  sul   relativo  mantenimento,  cercando di 

mettere in luce anche il cambiamento di significato che lo spazio ha assunto 

col passare del tempo. 

In questo senso il primo capitolo si occuperà di definire lo spazio urbano 

attraverso una sua lettura sociologica che vuole sottolineare l’importanza di 

tali   spazi,   in   quanto   essi   comunque   rappresentano   potenziali   iter   di 

costruzione sociale. 

Il secondo capitolo vuole mettere in luce chi ha effettivamente dato forma 

alla  città   e  attraverso  che   tipo  di   rapporto:   il  partenariato   tra  pubblico  e 

privato nel contesto italiano, attraverso una lettura storica dell’urbanistica. 

Vogliamo dimostrare qui le ragioni per cui sia stata nella maggior parte dei 

casi   la   logica   della   rendita   immobiliaria   a   declinare   l’assetto   urbano   e 

dunque anche l’organizzazione sociale dello spazio. Allo stesso tempo però, 

vogliamo mettere in luce i nuovi strumenti di partecipazione dal basso per la 

progettazione  urbanistica,   evidenzianone  anche   i   limiti   sociali,   emersi   in 

corso d’analisi. 

L’ultimo   capitolo   si   concentrerà   su   un   caso   specifico   e  unico  nella   sua 

specie:   il   laboratorio   di   urbanistica   partecipata   dell’Ex­mercato.   Qui 

analizzeremo nello specifico i risvolti sociali che un progetto di larga portata 

può avere in un quartiere emblema della dinamicità della città: la Bolognina; 

sviluppando   quest’ultimo   capitolo   alla   luce   degli   strumenti   e   delle 

considerazioni che abbiamo incontrato nei due capitoli precedenti.  La tesi 

che vogliamo qui dimostrare è proprio il deficit storico di partecipazione, 

nella costruzione della città, del punto di vista degli abitanti e quanto questo 

in un certo senso si sia accompagnato ad uno sgretolamento del significato 

sociale   degli   spazi   comuni   e   ad  un  nuovo   ruolo  della   città   nel   sistema 

mondiale:   una   città   mirata   alla   costruzione   di   spazi   che   hanno   la   sola 

funzione   di   connettere   i   luoghi   dell’esistenza   privata   o   di   una   socialità 

sempre   più   legata   a   interessi   commerciali   e   di   sovrapposizione   delle 

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funzioni. Questa esigenza della mobilità è il nuovo paradigma con cui molti 

leggono la città contemporanea, ma sarà proprio questo il significato sociale 

del   futuro   spazio   urbano?   Noi   ci   interrogheremo   in   questa   sede   sulla 

possibilità   che   vi   sia   o   meno   un   alternativa,   di   tipo   partecipativo,   al 

partenariato tra pubblico e privato, dove è incluso anche il punto di vista 

degli  abitanti.  Sicuramente  nella  nuova città  dei  flussi  (Castells  2002)   la 

perdita   del   significato   sociale   degli   spazi   si   relaziona   ad  una  mancanza 

d’interesse da parte degli abitanti nella progettazione e formazione dei futuri 

spazi.   Il   caso  della  Bolognina  comunque  servirà   da  monito   in  parte  per 

affermare l’incapacità  di trovare una formula consolidata per stimolare la 

partecipazione,  che dovrebbe essere comunque spontanea,    ma anche per 

affermare il valore sociale che una pratica come il laboratorio di urbanistica 

partecipata  può   rappresentare   in  alternativa  al  paradigma dell’urbanistica 

imposta dall’impresa. 

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Capitolo 1

La città contemporanea nella sociologia

1.1. Introduzione

Il concetto di città non si presta ad una definizione prettamente topografica. 

Ciò lo renderebbe inevitabilmente incompleto. Questo, in particolar modo 

quando il campo d’indagine è rappresentato dalle città contemporanee dove, 

oltre   al   legame   con   lo   spazio   occupato,   si   aggiungono   anche   tutte   le 

trasformazioni sociali e dunque tutti gli esiti dei processi economici, politici 

e   culturali   che   nei   nostri   tempi   hanno   una   portata   decisamente   più 

consistente rispetto al passato. Tuttavia, nell’ambito sociologico, non si può 

prescindere dall’importanza sostanziale che ricopre la dimensione spaziale. 

Essa   rappresenta  una  chiave  di   lettura  primaria  con  la  quale   spiegare   la 

configurazione dei rapporti che di volta in volta si creano all’interno del 

sistema sociale. La molteplicità delle forze in campo implica comunque, che 

qualsiasi teorizzazione su quest’argomento risulti parziale. Non a caso, la 

sociologia urbana è una materia multidisciplinare, che propone un insieme 

di approcci diversi,  e dunque un corollario  di direzioni  attraverso i  quali 

vedere la città.

Lo   scopo   di   questo   capitolo,   ammessa   la   vastità   dell’argomento,   sarà 

dunque   quello   di   redigere   una   introduzione   sulla   città   in   chiave   socio­

economica, restringendo il campo alle città europee. Dopodichè, passare a 

una   breve   rassegna   delle   principali   scuole   della   sociologia   urbana   per 

introdurre, così, la discussione accademica sulla questione relativa alla città 

e al suo spazio occupato.

1.2. Le dinamiche socio­economiche dello sviluppo urbano

­ La città industriale

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Non vogliamo in questa sede tracciare una genealogia della città. Viceversa, 

vogliamo   concentrarci   brevemente   su   alcune   caratteristiche   socio­

economiche incidenti sulla trasformazione della natura della città europea a 

partire dalla rivoluzione industriale. Questa scelta discriminatoria del campo 

di studio, è dovuta all’esigenza di un certo grado di sintesi. Anche perché, in 

un   certo   senso,   nella   società   pre­moderna   la   città   rappresentava 

un’eccezione,  dato che  la  gran parte  della  popolazione risiedeva  in  zone 

rurali.

Nel   XVIII   secolo,   con   l’avvento   della   nuova   struttura   del   potere   e 

dell’economia   industriale,  vi   fu  un’intensissima  crescita  demografica.  Le 

attività   extra­agricole   iniziarono   ad   espandersi,   aumentando   la   propria 

produttività e ponendo così le basi per un nuovo sistema di scambi in larga 

scala, aperto sia allo scenario nazionale sia a quello internazionale. Con il 

generalizzarsi di questo modello, le concentrazioni urbane assunsero sempre 

più  centralità.  Esse diventarono la sede di produzione dei nuovi beni. La 

città, oltre le abitudini, cambiò radicalmente il proprio aspetto morfologico. 

Furono edificati nuovi quartieri destinati ad ospitare la nascente popolazione 

operaia.  Questi spaccarono la compattezza unitaria garantita un tempo dalle 

cinta murarie, e s’insediarono all’esterno del vecchio nucleo cittadino. Per 

far fronte ad un iniziale caos urbano, si sviluppò una nuova pianificazione 

mirata   in   particolar  modo   a   risolvere   i   problemi   riguardanti   la   gestione 

sanitaria e igienica di questi nuovi spazi. Sotto questa spinta si realizzarono 

le prime grandi opere d’ingegneria civile.  La città  diventò  un oggetto da 

analizzare scientificamente, il cui mutamento sociale poteva essere pensato 

a   tavolino,   nonchè   diretto   a   piacimento.   Dietro   questo   concetto   di 

pianificazione vi è una forte base ideologica. È chiaro come il significato 

tradizionale   di   città   venne   eroso  dall’ordine   industriale,   al   punto   che   si 

arrivò a parlare di taylorizzazione dell’architettura. 

Col passare del tempo, all’evoluzione delle tipologie dello spazio urbano, si 

accompagnano   il   diffondersi   dei   nuovi   strumenti   di   comunicazione, 

l’interconnessione economica sempre più estesa e l’intensificarsi dei flussi 

di persone in cerca di lavoro verso la città. La stessa campagna diventa, in 

una   certa   qual   forma,   parte   del   processo   d’industrializzazione.   Nella 

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gerarchia spaziale essa dipende in misura sempre maggiore dalla città. Gli 

stili   di   vita   dello   spazio   urbano   diventano   espressione   della   cultura 

dominante.   Già   all’inizio   del   novecento,   in   Europa,   più   del   50%   della 

popolazione   vive   in   città.   Tuttavia,   questo   processo   d’espansione 

dell’urbanesimo, oggi si attenua nei contesti  più ricchi. Viceversa, i ritmi 

della crescita urbana nei paesi in via di sviluppo diventano sempre più alti, 

lasciandoci immaginare la creazione di numerose nuove megalopoli.

­  La città contemporanea

Ogni   città   si   crea   una   sua   propria   identità.   Però,   quello   che   ci   preme 

descrivere  è   che   le  politiche  urbane   subiscono  alcune   forti   influenze  da 

dinamiche  globali.  L’azione  politica   locale  può   a   sua  volta   rafforzare  o 

indebolire l’impatto di queste. Nella sfera economica almeno tre processi 

hanno   marcato   importanti   effetti   sulla   città.   In   primis,   il   processo 

d’espansione   del   potere   delle   imprese   multinazionali,   per   il   quale   si   è 

realizzata   una   riorganizzazione   dell’assetto   lavorativo   mondiale,   e 

contemporaneamente una ristrutturazione dell’apparato aziendale del mondo 

sviluppato. Con la dispersione delle attività produttive si è venuta a creare 

una vera e propria geografia degli organi aziendali. Le funzioni di direzione 

e controllo sono generalmente collocate  nelle città.  Di fatto  l’essere città 

costituisce un’opportunità per partecipare all’economia mondiale. 

Secondariamente,   l’ammontare   sempre   maggiore   delle   transazioni 

finanziarie   ha   progressivamente   creato   una   spazio   virtuale   nel   sistema. 

Ingenti quantità di denaro si muovono in una rete di centri d’informazione e 

banche dati in cui si può avere accesso indipendentemente dal luogo dove ci 

si   trova.   Dall’altra   parte,   per   far   sì   che   questo   sistema   funzioni,   vi   è 

l’esigenza  di  un sistema parallelo,   fisico,  dove  interagiscono  tutte  quelle 

persone   e   realtà   che   rappresentano   questo   apparato   organizzativo. 

Generalmente il loro punto d’incontro sono le metropoli, o tutte quelle città 

che occupano un ruolo centrale nel mercato.

In   terzo   luogo,  nell’economia  contemporanea   la  conoscenza  diventa  una 

risorsa chiave. La cultura diventa una produzione economica importante e la 

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produzione culturale non è  più  solo un espressione della vita urbana, ma 

diventa uno dei principali motori dell’economia della città.

1.3. Le scuole principali della sociologia urbana

La   sociologia   urbana   si   sostanzia   in   un   vasto   ventaglio   di   discipline 

accademiche, quali la demografia, i vari rami della sociologia, la geografia, 

la psicologia e tutte le scienze del campo amministrativo.  In pratica, più che 

una singola materia, la sociologia urbana rappresenta una rete di relazioni 

interdisciplinari.  Può   essere  presentata  come  un  aggregato  eterogeneo  di 

concetti   e   di   risultati   di   ricerca,   dove   il   sistema   urbano   viene   di   fatto 

concepito come un’entità complessa, un teatro i cui soggetti sono fortemente 

interdipendenti   tra   loro.   Infatti,   buona  parte  della  disciplina   si  è   sempre 

posta   l’arduo   obiettivo   di   tracciare   teorie   generali   che   mostrassero   la 

coerenza   del   coacervo   di   fenomeni   che   agivano   all’interno 

dell’insediamento cittadino. 

L’attenzione   è   focalizzata   generalmente   su   alcuni   blocchi   tematici: 

dimensione economica, politica, culturale e ecologica, per citarne alcuni. 

Seguendo   lo   schema   fornitoci   da   Alfredo   Mela   (Mela   2006)   nel   suo 

manuale  di  sociologia  delle  città,  possiamo brevemente   introdurre  quelle 

che sono le linee e le correnti principali della disciplina.

­ Il filone ecologico

La   matrice   di   pensiero   di   questa   scuola   è   l’ecologia   umana,   ossia   il 

concepire   l’agire   sociale   attraverso   una   prospettiva   biologico­

evoluzionistica.  La città  viene letta alla luce della teoria dell’adattamento 

delle   società   umane   all’ambiente.   Il   livello   linguistico   è   generalmente 

caratterizzato   dall’uso   di   una   terminologia   scientifica   tipica   dell’ambito 

biologico.  Burgess, ad esempio,  uno degli  autori  più  autorevoli  di questa 

corrente,   analizza   la   crescita   urbana   secondo   uno   schema   a   cerchi 

concentrici,  che vanno dal più centrale fino a quelli più periferici.  Più  in 

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generale   viene   introdotto   il   termine   “aree   naturali”,   ovvero   un   sistema 

spaziale la cui forma è determinata da processi selettivi.  Col tempo, questa 

prospettiva   teorica   si   è   sempre   più   avvalsa   dell’apparato   metodologico 

statistico, distaccandosi così dall’originaria scuola ecologica classica. 

­ L’approccio critico e conflittualista

L’impalcatura   teorica   di   questo   filone   si   colloca   nel   pensiero   marxista 

socialista, seguendone tutta la sua evoluzione. Vi si pone al suo interno la 

questione  sul  significato  sociale  dell’urbanesimo,  e  sui  problemi  posti   in 

essere dal modo di produzione. Nasce da qui un’analisi critica della società, 

concepita   in   un’ottica   classista.   Il   punto   di   partenza   resta   dunque   il 

materialismo dialettico, per il quale le città sono il luogo di concentrazione 

dei conflitti di classe, e contemporaneamente anche delle condizioni per il 

superamento  del  sistema capitalistico  stesso.  Questo pensiero critico  si  è 

sviluppato su più linee nel corso del tempo. Inizialmente gli sforzi sono stati 

mirati ad un tentativo di documentazione delle condizioni di vita delle città 

industriali   (basti   pensare   ad   alcune   note   ricerche   di   Engels).   Nei   primi 

decenni  del  Novecento  invece,  oltre  alla  dimensione  socio­economica,   la 

città incomincia ad essere letta alla luce delle sue trasformazioni culturali e 

dell’introduzione delle nuove tecnologie per la comunicazione. In seguito, 

con   la   scomparsa   nell’Europa   continentale   delle   società   industriali, 

l’approccio marxista si scontra con la sociologia urbana. Siamo all’inizio 

degli   anni   settanta,   ed   il   dibattito,   influenzato   dall’ascesa   dei   grandi 

movimenti   di   protesta,   dà   luogo   ad  una   fervente   produzione   teorica.   In 

particolar modo in Francia, dove, sotto l’alveo del filosofo Althusser si crea 

a riguardo una vera e propria scuola sociologica. Sotto questa scia anche una 

branca   di   sociologi   americani   avvia   un   interessante   filone   di   studi   sui 

meccanismi  economici  di   sviluppo  della   città.  Questa   corrente  prende   il 

nome di “urban political economy”, il cui intento principale è lo studio dei 

rapporti che s’instaurano tra politiche pubbliche e interessi privati e i relativi 

squilibri sociali che tali rapporti comportano.

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Vi sono infine altre correnti che hanno assunto man mano un peso rilevante. 

Qui segnaliamo la scuola regolazionista,  la “New Urban Sociology” e lo 

spaccato   dei   movimenti   sociali   antagonisti.     La   prima   canalizza   la   sua 

attenzione sulla conoscenza di tutti quei meccanismi istituzionali  e quelle 

pratiche   che  vengono  messe   in   atto   per   regolare   i   conflitti   generati   dal 

sistema capitalistico. La “New Urban Sociology”, d’altra parte, concentra il 

suo interesse sul sistema di relazioni che s’instaurano nelle città sommando 

ai fattori economici e politici dello sviluppo urbano anche quelli culturali. 

Ultimi,  i movimenti  sociali e antagonisti  al potere, il  cui tratto comune è 

rappresentato dalla critica ai modi di vita dominanti della città.

Notiamo  infine  come  l’approccio  critico  e  conflittualista   rappresenti  una 

galassia   di   scuole   teoriche   le   cui   basi   sono   i   princìpi   fondamentali   del 

marxismo.  Non si  può  nascondere come all’interno di  questa  corrente vi 

siano comparti  contrastanti   tra  loro e,  a volte,  un’idea del  ‘sistema città’ 

largamente differente. 

­ Il dibattito su città e modernità

Questa corrente, che ha le sue radici in un dibattito classico del pensiero 

sociologico,   affronta   i   concetti   di   città   e   struttura   sociale   attraverso 

valutazioni   di   tipo   dicotomiche.   Un   esempio   può   essere   la   messa   in 

paragone dello spazio urbano con quello rurale, il primo come emblema del 

presente, il secondo come retaggio del passato. In America, questa corrente 

di pensiero si concentra sull’analisi del modo di vita urbano.  La città viene 

letta alla luce del suo rapporto con la modernità. Per questo, man mano che 

il  dibattito   si  è   sviluppato,   assume grande   rilevanza   la  discussione  sulla 

transizione dal moderno al postmoderno. 

­ Prospettiva di una sociologia spazialista

Di fatto essa non rappresenta una corrente o un filone in particolare bensì, 

una  nuova  elaborazione  concettuale,   il   cui   fine  è   quello  di   reindirizzare 

l’attenzione della sociologia verso lo spazio, che, insieme al tempo, è  un 

fattore   decisivo   dell’agire   sociale.   La   nozione   di   “ambiente   materiale” 

diventa così centrale in questo quadro teorico. Lo spazio è un fattore che 

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condiziona inevitabilmente i comportamenti degli attori sociali.  La città  è 

dipinta come una dimensione frenetica e convulsa. 

1.4 Lo spazio come costruzione sociale

L’aver   introdotto   precedentemente   le   dinamiche   socio­economiche   che 

hanno influenzato lo sviluppo della città, ci permette di avere un punto di 

vista di  partenza chiaro su quali  sono state le  traiettorie  che più  o meno 

comunemente hanno influenzato le città  europee contemporanee.  Bisogna 

però, fare attenzione a non cadere nel luogo comune per il quale tutte le città 

tendano nel tempo ad assomigliarsi. La portata dei cambiamenti economici 

va soppesata con altre dimensioni della sfera umana: ad esempio gli stili di 

vita,   i   flussi   migratori,   i   gusti   culturali   e   le   nuove   tecnologie,   che, 

indipendentemente da quale sia la causa che le abbia generate, innescano a 

loro volta cambiamenti sulla percezione dell’individuo nei confronti dello 

spazio. Le amministrazioni pubbliche dovrebbero, con la progettazione dei 

piani urbanistici,  mediare tutte queste tendenze,  al costo di diventare essi 

stessi   fattori   d’influenza.   Ogni   indagine   sui   rapporti   fra   lo   spazio   e   i 

fenomeni sociali ricadrà dunque all’interno di una formula che non conosce 

soltanto  due   termini,   né   una   loro   relazione   causale   predefinita,  bensì   la 

complicazione più stretta di un insieme di fattori. 

La   variabile   spaziale   assume   sempre   maggiore   centralità   nel   dibattito 

sociologico,   distaccandosi   dall’abitudine   della   sociologia   classica   che 

sottovalutava l’incidenza dell’entità spaziale rispetto all’agire, dirigendo la 

propria   indagine   su   processi   per   i   quali   lo   spazio   rappresentava 

semplicemente   il   luogo  di   collocazione  del   fenomeno  oggetto  di   studio. 

Diversamente, il dibattito più recente si è spinto sempre più verso un’ottica 

spazialista,   che   tende   a   contestualizzare   tale   vettore   come   determinante 

nell’agire sociale.  Basti pensare come nel filone della bio­politica lo spazio 

sia una delle espressioni più evidenti dei rapporti di forza nella società. La 

morfologia urbana è spesso la manifestazione fisica della struttura sociale, 

con un complesso di infrastrutture, servizi, nonché condizioni di sicurezza 

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differentemente distribuiti tra i diversi quartieri. A questo proposito Manuel 

Castells parla di cittadini di prima fila e di ultima fila.

Il divario tra sociologia, urbanistica e architettura sfuma, nella misura in cui 

le   tre   discipline   paiono   sempre   più   inter­dipendenti.   Qualsiasi   progetto 

urbanistico   rappresenta   un   potenziale   iter   sociale,   dove   l’atuhority   può 

decidere se dar più risalto alle dinamiche economiche o a quelle culturali, 

alle politiche securitarie o  a quelle ambientali. Ogni scelta sarà comunque 

connotata da una base più o meno ideologica. A riguardo, Zygmunt Bauman 

(Bauman   2005)   punta   il   dito   sull’incapacità   della   politica   urbana   di 

affrontare   i   problemi   causati   dalla   globalizzazione,   dipingendo   la   città 

contemporanea come un  “campo di battaglia  su cui  i  poteri  globali,  e i  

sensi e le tenacità locali s’incontrano, si scontrano, si battono, tentando di  

arrivare   a   una   risoluzione   soddisfacente,   o   almeno 

accettabile”(Bauman2005).

L’indagine   sociologica   dà   ampio   spazio   al   rapporto   tra   governance   e 

sviluppo urbanistico, in particolar modo sulla questione degli spazi pubblici, 

o   meglio,   come   lo   stesso   Bauman   li   definisce,   quei   “luoghi   nei   quali  

l’esperienza umana si forma, si accumula e viene condivisa, e il suo senso 

viene elaborato, assimilato e negoziato”. Le città di fatto dovrebbero essere 

caratterizzate da una presenza significativa di questo tipo di spazi. Questi di 

certo non eliminano le disuguaglianze sociali ma, in linea di principio sono 

luoghi aperti a tutti, senza i quali non resterebbe altro che un agglomerato di 

spazi privati. 

In ogni caso, il significato di questi spazi sembrerebbe che col tempo tenda 

a   modificarsi.   Sempre   Manuel   Castells   (Castells   2002)   vede   nelle   reti 

innovative   di   comunicazione   la   creazione   di   un   cyber­space   opposto   al 

mondo della vita reale, riducendo quindi le vie e le piazze alla stregua di 

semplici canali di transito: per l’autore catalano assistiamo alla sostituzione 

dello  ‘spazio di   luoghi’  con  uno  ‘spazio  di   flussi’.   In  più,   le  espansioni 

territoriali  verso nuove zone suburbane (la  città  diffusa)  hanno portato a 

ridurre   la   reperibilità  di  certi   luoghi  all’uso  di  mezzi  di   trasporto   e   alla 

presenza  di  determinate   condizioni  materiali,   radicalizzando   la  gerarchia 

topografica già esistente. 

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Un altro fenomeno da considerare che abbia cambiato il significato degli 

spazi   pubblici   è   la   diffusa   percezione   d’insicurezza   in   parte   della 

popolazione  cittadina.  Questa  sensazione  si  è   tradotta   in  una richiesta  di 

maggior   controllo   degli   spazi,   al   punto   che   alcuni   sociologi   parlano   di 

‘capsularizzazione’  della  città:   la  struttura spaziale  urbana si compone di 

luoghi fortemente controllati, spesso a carattere monofunzionale, tra i quali 

il   cittadino   o   il   visitatore   è   indotto   a   muoversi   lungo   canali 

prefissati(Mela2006). In America, invece, assistiamo alla creazione di gated 

communites: veri e propri baluardi con guardie armate e telecamere ad ogni 

angolo,   in  cui  si   rinchiudono  le  cosiddette  upper­class.  Dietro quest’idea 

degli spazi preclusi si sta sviluppando una scuola architettonica. 

Dunque, chi dà forma alla città? Chi decide degli spazi pubblici? 

Usando lo schema di Antida Gazzella (Martinelli 2004) distinguiamo due 

tipi di politiche: da una parte abbiamo le politiche per la città, attuate dagli 

organi   di   governo   locali,   dall’altra   le   politiche   nella   città,   proposte   ed 

attivate dagli operatori privati in campo edilizio, le camere di commercio, le 

associazioni  di categoria.    Saranno questi  a interpellare  i vari architetti  e 

urbanisti   che   segneranno   il   futuro   aspetto   della   città.   Questo   schema   è 

essenziale riferimento per il capitolo che viene. Un’ultima breve notazione 

può essere fatta sopra il ruolo dell’architettura nell’odierno contesto urbano. 

Rifacendoci   a   quanto   scritto   da   Della   Pergola   in   uno   dei   suoi   saggi, 

possiamo definire l’architettura come un fatto sociale per il quale è richiesta 

una profonda conoscenza della complessità dei luoghi in cui si agisce. In tal 

senso   non   si   può   ridurre   il   ruolo   dell’architetto,   né   tanto   meno 

dell’urbanista,  a una mera professione tecnica,  pena la stessa convivialità 

dei cittadini.

1.5 Conclusione

L’obiettivo di questo capitolo era quello di presentare un’immagine della 

città   in  chiave  sociologica  attraverso   le  principali   linee  di  pensiero della 

sociologia   urbana.   Abbiamo   così   ristretto   il   campo   di   studio   alla   città 

contemporanea   europea   e   analizzato   le   principali   dinamiche   socio­

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economiche  di  cui  è   stata  oggetto  a  partire  dalla   rivoluzione   industriale. 

L’ultimo  paragrafo  è   invece  dedicato  ad  una   lettura  della   città   in  ottica 

spazialistica, quindi che incidenza abbia lo spazio sull’agire sociale e quali 

siano   i   fattori   principali   che   lo   determinano.   Nel   prossimo   capitolo   si 

affronterà il tema entrando maggiormente nello specifico: lo spazio urbano 

in Italia. Il filo conduttore sarà la storia dell’urbanistica nazionale, e dunque 

il ruolo che i vari attori sociali hanno avuto nel tempo sulla determinazione 

della composizione spaziale della città odierna. 

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Capitolo 2

La   città   imposta   dall'impresa:   uno   sguardo   storico 

all’urbanistica in Italia

2.1. Introduzione

Il capitolo precedente ha messo in rilievo l’importanza che ricopre lo spazio 

nel tessuto urbano: l’ ‘homo socialis’ ha bisogno di soddisfare le esigenze 

della   propria   esistenza   in   un   insieme   di   luoghi   che   vanno   ben   oltre   la 

disponibilità di un’abitazione adeguata. Alla creazione di tali spazi è dunque 

correlata la stessa convivialità dei residenti. Così, l’urbanistica è il metodo 

attraverso  il  quale   le  ammnistrazioni  pubbliche  si  dovrebbero fare carico 

della qualità dello sviluppo cittadino. Il suo rapporto con gli altri operatori 

del settore edile ha determinato, e determinerà, l’aspetto della città, che si 

trova  oggi   ad   affrontare   sfide  particolarmente   complesse,   quali   la   tutela 

ambientale e la partecipazione diretta dei cittadini alla fase di progettazione 

degli interventi pubblici. In questo capitolo è analizzata sommariamente la 

storia dell’urbanistica italiana, il cui fine è quello di rendere un’idea parziale 

delle dinamiche generali che hanno caratterizzato la composizione spaziale 

degli   insediamenti,   suggerendo   anche   una   lettura   critica   di   alcuni   suoi 

passaggi cardine. Si vuole evidenziare come le istituzioni siano state spesso 

vincolate all’interesse del privato, e di come l’ingerenza di quest’ultimi sia 

stata   determinante,   per   diverse   ragioni,     nella   progettazione   degli   spazi 

pubblici,   e   non,   della   città.   Oggi,   ancor   di   più,   le   amministrazioni   non 

possono   prescindere   dal   partenariato   pubblico­privato   e   dalle   esigenze 

stabilite  dal  mercato   fondiario  e   immobiliare.   Il   potere  decisionale  degli 

spazi   futuri   passa   attraverso   questo   rapporto   squilibrato   che   tende   a 

declassare   la  voce degli  abitanti  dei  quartieri,  diretti   fruitori  di   tali  aree. 

Inoltre,   le   politiche   amministrative   locali   sembrano   mirare   alla 

progettazione   di   spazi   il   cui   destino   d’uso   sia   la   circolazione:   punti   di 

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transito   e   di   collegamento   da   un   luogo   all’altro   della   nostra   esistenza 

privata.

2.2 L’urbanistica italiana: dalla legge del 1865 fino agli ‘70

Il   fondamento   del   diritto   urbanistico   dell’Ottocento   poneva   una   rigida 

distinzione tra sfera privata e pubblica, secondo quelle che erano le logiche 

liberiste dell’epoca. L’edificazione dei privati era del tutto priva di vincoli, 

mentre   le  amministrazioni  dovevano provvedere  a  ciò  che era  pertinente 

all’uso pubblico: sistema stradario, fognature, parchi, piazze. Per far fronte a 

queste   esigenze  però,   era   costretta   a   ricorrere   all’acquisizione  di   terreni 

privati.  A tal proposito fu approvata la legge n.2359 del 25 giugno 1865, 

intitolata   “Disciplina   delle   espropriazioni   forzate   per   causa   di   pubblica 

utilità”.   Questa,   oltre   a   regolare   l’esproprio,   introduceva   anche   i   primi 

princìpi  di  disciplina  urbanistica  contenuti  nei   termini:  “Piani  Regolatori 

Edilizi” e “Piani Regolatori di Ampliamento”. La legge non mirava tanto 

alla   definizione   degli   assetti   insediativi   ma,   piuttosto   alle   questioni 

procedurali di esecuzione. 

Era il Consiglio comunale a deliberare sull’attuazione dei piani regolatori, 

attraverso   tale   apparato   normativo,   che   apriva   appunto   la   strada   alla 

legislazione urbanistica in Italia, fra l’altro caratterizzata da norme in cui era 

insita  una  buona   tutela  dell’interesse  collettivo.  La   legge  non prevedeva 

obbligatorietà   per   la   realizzazione   dei   piani   regolatori   ma,   essa   doveva 

garantire la disponibilità degli spazi pubblici, incidendo così nel tempo sullo 

sviluppo urbano. Nella pratica però, l’applicazione di tale legge fu limitata a 

pochi casi, da una parte perché le città in espansione in Italia erano poche, 

dall’altra  perché   l’intervento  pubblico preferì  concentrarsi  su altri  settori, 

quali   la  rete  ferroviaria  e  la  costruzione di grandi   infrastrutture fuori  del 

tessuto   urbano.   La   legge   del   1865   rappresentò   un’importante   occasione 

mancata   anche   per   altre   ragioni:   basti   pensare   che   oltre   alla   limitata 

produzione di piani e regolamenti edilizi s’instaurò la prassi di aggirare il 

potere   decisionale   dei   comuni   attraverso   il   ricorso   a   leggi   speciali   che 

assegnavano compiti di progettazione del territorio ad organismi diversi da 

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quelli   incaricati   della   pianificazione   urbana.   Questo   comportamento   si 

distaccò  dal trend europeo che viceversa, tendeva a massimizzare il ruolo 

delle autorità municipali nella gestione del territorio. 

Nel 1942, fase ormai discendente del fascismo, dopo una discussione durata 

un trentennio, venne approvata la “Legge Urbanistica” n. 1952/42, che può 

essere   considerata   quasi   un   tentativo   di   conferire   organicità   al   quadro 

legislativo urbanistico, almeno rispetto alla legge del 1885. Infatti, essa si 

propose come un grande esperimento di ammodernamento, in quanto tesa a 

riordinare   la   materia   relativa   agli   strumenti   di   pianificazione.   Creò,   tra 

l’altro un sistema gerarchico secondo cui vi era un livello di progettazione 

generale   di   tipo   ministeriale,   chiamato   “Piano   Territoriale   di 

Coordinamento”,   che   doveva   semplicemente   orientare   la   progettazione 

urbanistica,   poi   redatta   e   concretizzata   a   livello   comunale   attraverso   il 

“Piano  Regolatore  Generale”,   composto   a   sua  volta   da  differenti   “Piani 

Particolareggiati”.   Il  PRG era   considerato  valido   fin  quando  non  veniva 

modificato   da   una   ‘Variante’,   mentre   per   i   Piani   Particolareggiati   era 

stabilito  un   termine  di  dieci  anni.  L’attività  privata  venne  regolamentata 

attraverso   l’apporto   di   nuovi   strumenti   attuativi   quali   le   lottizzazioni,   i 

comparti edificatori, le licenze edilizie e le sanzioni per chi viola le norme 

urbanistiche. 

Nella  ricostruzione del dopoguerra  la pianificazione territoriale  fu dettata 

dall’orientamento   delle   forze   imprenditoriali   che   approfittarono   del 

disinteresse   diffuso   delle   amministrazioni   pubbliche,   occupate,   in   quel 

momento,   a   creare   le   basi   per   la   ripresa   economica.   Le   prospettive 

insediative, così come le questioni da essa sollevate, passarono in secondo 

piano,   per   non   dire   che   furono   del   tutto   escluse   dalla   considerazione 

dell’authority.   Con   un   decreto   del   1945   furono   istituiti   i   “Piani   di 

Ricostruzione”,  prorogati   fino  all’approvazione  del  Piano Regolatore  dei 

comuni interessati. Questi erano strumenti straordinari che prevedevano la 

ricostruzione di ciò che era andato distrutto in tempi brevi, snellendo così la 

macchinosa  fase procedurale  altrimenti  prevista  dai  meccanismi  ordinari. 

Invece, la proprietà  straordinaria di questo provvedimento fu sfruttata dai 

comuni   per   aggirare   la   limitata   operatività   dei   PRG   e   per   promuovere 

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l’attività  edilizia   in maniera  indiscriminata.  Si perse ogni consapevolezza 

della  visione d’insieme,  vanificando in parte   il  contenuto  della   legge del 

1942.   Una   ragione   di   questo   lassismo   può   essere   rintracciata 

nell’insufficiente disposizione economica dei municipi per realizzare forti 

interventi pubblici di urbanistica, nonché nell’incapacità d’imporre ai privati 

una partecipazione adeguata agli oneri destinati ad opere e servizi pubblici, 

o comunque all’urbanizzazione in senso lato. L’attuazione del piano era in 

mano al libero gioco delle iniziative private e pubbliche senza un preciso 

coordinamento spazio­temporale (Monti2000).  

Gli anni ’50 continuarono nella falsa riga dei primi anni del dopo guerra, 

caratterizzati   appunto   da   reiterata   carenza   di   pianificazione:   i   piani 

regolatori prevedevano grandi densità di edificazione a fronte di trascurabili 

assegnazioni  di   spazi  e   servizi  pubblici.  Furono anche progettati   i  primi 

grandi quartieri popolari, che sarebbero stati poi collocati in zone marginali 

della città, producendo a volte dinamiche di ghettizzazione. 

In attesa di una riforma urbanistica, intanto, nel 1962 venne varata la legge 

n.167/62 sulla disciplina dei “Piani per l’Edilizia Economica e Popolare” 

(Piani P.E.E.P.). Questo provvedimento si proponeva di munire i comuni di 

un   insieme di   strumenti  per  disciplinare   il   settore  della   casa  popolare   e 

contrastare   la   speculazione   fondiaria   che   attanagliava   le   città.   Nello 

specifico il mezzo principale era rappresentato dai Piani di Zona, simili ai 

piani  particolareggiati,  che stabiliva gli  spazi  per  l’edilizia  popolare e ne 

disponeva l’esproprio. Il comune doveva acquisire le varie zone e dotarle 

dei   servizi   sociali   necessari,   dopodichè   rivendendole   in   terreni   ad 

assegnatari   pubblici   (IACP)   o   privati.   Bisogna   aggiungere   che   il 

meccanismo   di   finanziamento   del   comune   per   l’indennizzo   degli   spazi 

ottenuti prevedeva un iter contorto che non solo conobbe differenti fasi ma, 

le   stesse   norme   del   corpus   della   legge   167   che   trattavano   i   valori   di 

esproprio   furono   dichiarate   incostituzionali.   Di   fatto,   in   quegli   anni,   la 

limitazione del diritto di proprietà per fini pubblici, rappresentava uno degli 

scogli   più   problematici   per   un   eventuale   riforma   della   legislazione 

urbanistica. 

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Si   dovette   aspettare   il   1967   per   l’approvazione   di   una   nuova   riforma 

urbanistica,   attraverso   la   legge   n.765/67,   la   quale   apportò   significative 

modifiche   al   vecchio   impianto   normativo   (legge   n.1150/42).   Questa   fu 

denominata   “Legge   Ponte”   proprio   perché   doveva   rappresentare   un 

passaggio verso una riforma organica della legislazione urbanistica, spinta 

dall’esigenza di porre un freno allo sviluppo edilizio   incontrollato  che si 

stava verificando in quegli anni. 

Ci  si  preoccupò,   in  prima istanza,  di  rendere effettiva   l’applicazione e  il 

rispetto dei piani e degli  strumenti  urbanistici.  In proposito si stabilirono 

delle   rigide   tempistiche   a   tutti   i   livelli   decisionali,   in   particolare   per 

l’approvazione del PRG, la cui giurisdizione, in caso di mancato rispetto dei 

termini  previsti  da  parte  del  comune,  sarebbe passata  agli  organi   statali. 

L’obbligatorietà   della   licenza   edilizia,   precedentemente   limitata   ai   soli 

centri urbani e alle zone di espansione, venne estesa su tutto il territorio e fu 

inoltre   imposto   un   regime   di   salvaguardia   per   quei   piani   approvati   dai 

comuni   ma   non   ancora   autorizzati   dagli   organi   superiori.   Si   stabilirono 

precise sanzioni per le violazioni in contrasto con il piano: gli organi statali 

furono   chiamati   a   intervenire   laddove   si   constatassero   inadempienze   da 

parte del comune a disciplinare tali infrazioni. Dopodichè  furono stabilite 

delle   ferree   limitazioni   per   quelle   edificazioni   prive   degli  strumenti 

urbanistici  e stabiliti  i limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di 

distanza fra i fabbricati e gli standard per la dotazione minima di servizi da 

garantire   in   rapporto  al  numero  di  abitanti   (D.M.1444)   (Monti2000).  Fu 

finalmente sancita la partecipazione dei privati alle spese di urbanizzazione: 

questi dovevano farsi carico di tutte le opere di urbanizzazione primaria e 

contribuire inoltre, per mezzo di una quota, alla realizzazione delle opere di 

urbanizzazione secondaria. Iniziarono a delinearsi i tratti di una possibile e 

incisiva  pianificazione  urbanistica,   se  non   fosse   che   rimanevano   irrisolti 

alcuni nodi relativi  al regime dei suoli, o meglio,  come già  accennato, la 

questione dell’indennizzo. Dopo neanche un anno dall’approvazione della 

legge, una sentenza della Corte Costituzionale (n.55 del 29 maggio 1968), 

dichiarò illegittimi quegli articoli che non prevedevano l’indennizzo a chi, 

vincolato dalla non edificabilità dei propri terreni per via dei piani, si vedeva 

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di fatto negato un diritto. In pratica la corte riconosceva oltre all’indennizzo 

per   l’esproprio   un   altro   indennizzo   relativo   a   questi   vincoli   imposti   al 

proprietario   nell’attesa   dell’esproprio.     In   pratica   i   comuni   si   trovarono 

costretti   ad  annullare   la  validità   dei  piani  per   l’incapacità   economica  di 

pagare i vari proprietari nell’attesa dell’acquisizione pubblica delle aree. Si 

tentò  di marginare il  problema attraverso una serie di leggi  tampone che 

stabilivano termini precisi per la loro attuazione, oltre i quali il vincolo di 

inedificabilità sarebbe decaduto. Successivamente, nel 1971, con la legge n. 

865 fu varata una nuova normativa dell’esproprio in cui l’indennità veniva 

stabilita attraverso nuovo criterio teso a considerare il valore intrinseco1 del 

terreno, anziché il suo valore di mercato.

Nel 1970 con l’istituzione delle regioni a statuto ordinario furono trasferite a 

queste   tutti   i   compiti   di   controllo   sulla   gestione   urbanistica   che   prima 

spettavano   agli   organi   statali.   L’urbanistica   si   decentrava   sempre   più, 

garantendo in questo senso un’operatività maggiore. 

Nel 1977 con la legge n.10 torna a galla il problema del valore economico 

dei terreni soggetti a esproprio e a vincolo di inedificabilità. Viene stipulato 

il   principio   per   cui,   il   diritto   di   edificazione   è   attribuito   alle   autorità 

comunali anche quando non sono esse i diretti proprietari del terreno. Sono i 

comuni, in base agli strumenti urbanistici da essi disposti, a concedere ai 

proprietari   il  diritto  di  edificazione.  La  “licenza  edilizia”  si   trasforma  in 

“concessione  edilizia”,   eliminando   l’indennizzo  previsto  per   i   proprietari 

vincolati   a   inedificabilità,   come  delineato  dalla   legge  n.   865.  Essa  è   di 

norma onerosa e si divide in due tipi di contributi: uno che corrisponde ad 

una  quota   del   costo  di   costruzione,   l’altro   invece   che   corrisponde   a   un 

contributo per le opere di urbanizzazione. Ovviamente vi sono casi in cui la 

concessione viene data gratuitamente, ad esempio le opere pubbliche, o in 

maniera   agevolata   com’è   il   caso   delle   “concezioni   convenzionate”. 

Quest’ultimo tipo di concessione fu un escamotage, che si rivelò inefficace, 

per indurre l’iniziativa privata a cimentarsi nella costruzione di case a prezzi 

1 Calcolato in base al valore agricolo del suolo, ovvero valutando i coefficienti moltiplicatori del valore agricolo di base incentivando il cosiddetto “accordo bonario” fra le parti, consentendo una maggiore indennità pari al 50%; si prevedeva infine la triplicazione dell’indennità per le aree agricole direttamente coltivate dal proprietario. 

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popolari.  La  legge prevede inoltre   l’estensione del contributo dei privati, 

previsto dalla legge “ponte”, alle opere di urbanizzazione in generale, col 

fine di renderli partecipi anche alla manutenzione ed al rinnovamento dei 

servizi pubblici urbani.

La   legge   n.   10   introdusse   per   la   prima   volta   i   “Piani   Pluriennali   di 

Attuazione”,   che   costituivano   lo   strumento   di   programmazione 

dell’attuazione dei PRG, definendo le aree, le opere di urbanizzazione, le 

tempistiche   e   i   meccanismi   di   finanziamento   relative   al   programma 

insediativo in questione.

2.4 Gli anni ’80 e le riforme recenti

Abbiamo fin qui tracciato un quadro legislativo generale nel quale leggere i 

vari tentativi di pianificazione territoriale e di controllo degli enti pubblici. 

A fronte di tutto ciò, bisogna però constatare, che i risultati furono molto 

insoddisfacenti.   Basti   pensare   che   con   una   nuova   sentenza   della   corte 

costituzionale nel 1980, fece tornare a galla la questione dell’indennità  di 

esproprio, dichiarando illegittime tutte le norme a riguardo delle leggi n. 865 

e n. 10. I comuni si trovarono così  costretti  a intervenire solo su aree di 

proprietà  pubblica,  o ad acquisire terreni a trattativa diretta,  riducendo di 

netto il proprio raggio di azione.

Tutto sommato all’inizio degli anni ’80 ci si trovò di fronte ad un apparato 

legislativo   urbanistico   con   un   certo   grado   di   organicità.   L’authority 

disponeva   di   un   buon   numero   di   strumenti   per   contrastare   il   dominio 

dell’iniziativa privata, restavano però i nodi problematici degli indennizzi e 

della  macchinosità   burocratica.  Quest’ultimo   in   special  modo,   congiunto 

alle dinamiche inflazionistiche, creava non poche difficoltà per la stipula di 

un piano di finanziamenti realistico. 

In   questo   decennio   emersero   due   filoni   di   pensiero   che   ebbero   alcune 

ricadute legislative. Da una parte vi era il pensiero liberista delle imprese 

edili,   le  quali   rivendicavano  uno snellimento  delle  prassi  procedurali  del 

settore che in quel momento era in declino. Dall’altra invece, emergeva la 

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nascente  critica  agli  spazi  urbani  di  un opinione  pubblica  che reclamava 

maggiore  qualità   della  vita.  Queste  due   linee  di   pensiero  per   quanto   in 

contro   tendenza,   ebbero   entrambe   una   ricaduta   sul   piano   legislativo:   la 

prima   con   la   legge   n.94   del   1982,   la   seconda   con   i   “Piani   territoriali 

paesistici” previsti nella legge n. 431 del 1985. 

La   legge   n.   94,   conversione   del   “decreto   Nicolazzi”,   attuò   una   forte 

accelerazione   delle   procedure   che   prevedevano   maggiore 

responsabilizzazione   delle   amministrazioni.   Questo   però   senza   tenere   in 

considerazione   la  disorganizzazione  degli   enti  pubblici   impreparati   sia   a 

livello   tecnico   che   economico   ad   una   riforma   di   tale   portata.   Per   farci 

un’idea basti pensare all’introduzione del concetto di “silenzio­assenso”, la 

dove,   in   caso   di   domanda   di   concessione   su   aree   che   dispongano   di 

strumenti urbanistici attuativi già approvati, si considera accolto il progetto 

se a novanta giorni dalla presentazione della domanda stessa non vi sia stata 

alcuna   comunica   di   negatività   da   parte   del   municipio.   I   comuni   si 

ritrovarono  così   costretti   ad  allungare   i   tempi  del   “silenzio­assenso”  per 

mezzo di  vie alternative,  non riuscendo a dare piena attuazione  a questa 

legge. Una breve parentesi andrebbe fatta anche sui meccanismi sanatori per 

l’abusivismo, materia trattata dalla legge n. 47 del 1985, che rientra in quei 

provvedimenti   legislativi  che   tendevano  a   ridurre   il   sistema di  vincoli   e 

controlli   urbanistici   in   mano   alle   amministrazioni.   L’istituzione   della 

sanatoria si rivelò in alcuni casi del tutto inefficiente, al punto da diffondere 

ulteriormente la pratica dell’abusivismo.

La legge n. 431 del 1985, nota come “Decreto Galasso”, si contrappose a 

quest’ondata di provvedimenti di stampo liberista che si andava formando. 

Essa   riguardava   la   tutela   delle   zone   di   particolare   valore   ambientale   e 

artistico. Le città furono in parte colpite da questo provvedimento, poiché 

esso   si   riferiva   nel   concreto   ad   aree   di   un   certo   valore   ambientale   e 

architettonico. Era compito delle regioni stabilire dei Piani Paesistici o dei 

Piani Urbanistico Territoriali con specifica considerazione di tali valori. Da 

qui in poi si sviluppò un apparato di norme tese a recepire la direttiva CEE 

sulla “Valutazione dell’Impatto Ambientale”. 

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Il contesto urbano fu messo al centro dell’attenzione dalla legge n. 122 del 

1989  che   istituì   il  Programma Urbano  dei  Parcheggi.  Questa   legge,   che 

prevedeva   la   possibilità   di   modifica   dei   PRG   per   mezzo   di   strumenti 

straordinari,   conferma   il   malcostume   nel   nostro   paese   di   aggirare   gli 

strumenti  urbanistici  ordinari   attraverso   l’uso  di   leggi   speciali   aventi  un 

carattere d’urgenza.

Il quadro normativo degli strumenti urbanistici risulta così all’inizio degli 

anni ’90 particolarmente disorganico. A tal fine viene approvato un nuovo 

“Testo unico” con la Legge n. 142 del 1990 che prevedeva un riordinamento 

delle competenze all’interno degli Enti locali: passano alla provincia molte 

competenze   in   ambito   di   pianificazione,   vengono   istituite   le   città 

metropolitane e si  introduce la possibilità  di  costituire  società  a carattere 

misto  pubblico­privato  per   la   costruzione  di   opere  pubbliche   e   strutture 

urbanistiche.

La Legge n. 241 dello stesso anno si preoccupò di snellire ulteriormente i 

procedimenti   amministrativi,   in   particolare   con   l’uso   del   principio 

dell’autocertificazione,   delegando   spesso   ai   professionisti   privati   la 

valutazione sulla conformità delle opere e del loro insediamento nel tessuto 

urbano. 

Dalle questioni procedurali il centro d’interesse si spostò sempre più verso 

le città: la legge n. 179 del 1992, ad esempi si pose il problema del recupero 

della   qualità   degli   spazi   cittadini   istituendo   i   cosiddetti   Programmi   di 

Recupero ed i Programmi Integrati di Intervento. La realizzazione di questi 

avveniva  e  avviene  attraverso  un processo di  concertazione   tra  operatori 

pubblici e privati, soprattutto nell’ambito dell’edilizia pubblica. 

L’ultima parentesi storica va fatta sull’istituzione di alcuni programmi nel 

corso di tutto gli anni ’90, che riguardano proprio il meccanismo decisionale 

della concertazione:

­ Programmi di recupero urbano PREU (Art. 16 L. n. 493/93)

Programmi proposti  dal comune in concertazione con soggetti  pubblici  e 

privati   i   cui   fini   sono   vanno   dalla   rivalutazione   dell’arredo   urbano, 

completamento di insediamenti esistenti fino al recupero di edifici.

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­ Programmi di Riqualificazione Urbana PRIU (D.M. del 21.12.94)

Si tratta di un bando nazionale destinato ai comuni che propongono i loro 

progetti.

­ Contratti di quartiere (delibera CER5.6.97)

E uno strumento per la rivalutazione abitativa e insediativi al quale possono 

prendere atti gli enti pubblici , i privati e le associazioni senza fini di lucro.

­ Programmi di Riqualificazione Urbana e Sviluppo Sostenibile PRUSST 

(Decr. Min. LL.PP. 8.10.98)

I comuni, su proposta di soggetti pubblici o privati, presentano dei progetti 

di rivalutazione del tessuto urbano al Ministero dei Lavori Pubblici il quale 

si impegna con un finanziamento parziale dell’opera alla relativa attuazione. 

2.4 L’urbanistica imposta dall’impresa

Tramite   la   lettura   storica   dell’urbanistica   italiana   è   emerso   come   vi   sia 

sempre   stata  una   lunga   reticenza  da  parte  dei   comuni   a  dare   attuazione 

all’urbanizzazione pubblica, costretti in un certo senso a fare il gioco delle 

forze imprenditoriali che agivano sul territorio. Il nodo problematico, come 

abbiamo   sottolineato   più   volte,   si   è   rivelato   l’acquisizione   delle   aree 

necessarie destinate all’intervento pubblico, poiché non fu mai scardinato il 

principio per il quale l’indennità espropriativa doveva compensare anche il 

maggior valore dell’area derivante dalle scelte del piano urbanistico. A tal 

proposito   la  corte  costituzionale,   in  diverse sentenze,  si  dimostrò  sempre 

molto sensibile alle ragioni dei proprietari fondiari anziché alle prerogative 

della pubblica utilità. 

L’incapacità   di   reperire   i   finanziamenti   per   predisporre   gli   interventi 

pubblici   portò   all’approvazione   delle   legge   ponte   del   1967.   Questa 

imponeva   ai   privati   un  piano   insediativo  generale   al   quale   riferirsi   e   li 

obbligò inoltre a partecipare agli oneri urbanizzativi derivanti da ogni loro 

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intervento   edificatorio.   L’idea   di   realizzare   le   opere   d’urbanizzazione 

attraverso le quote imposte a chi percepiva la rendita immobiliaria era nata 

anche alla luce dell’evidente speculazione che fino a quel momento aveva 

caratterizzato   lo   sviluppo   urbano,   compromettendo   irreversibilmente   il 

futuro aspetto delle città. Su questa linea va inquadrata la successiva stipula 

dei “piani attuativi” che prevedevano, infatti, la cessione gratuita delle aree 

destinate  allo  spazio  pubblico  agli  stessi  assegnatari  delle   lottizzazioni,   i 

quali   dovevano   a   loro   volta   occuparsi   della   realizzazione   dei   servizi 

d’urbanizzazione. Passaggio ulteriore, su questa linea, fu l’istituzione delle 

“concessioni edilizie” che, oltre a quanto detto prima, prevedevano anche 

l’obbligo   di   pagamento   degli   operatori   privati   di   quote   designate 

all’urbanizzazione  generale  della  città.  Però,  nonostante   il   tentativo  della 

legge   10/77(legge   Bucalossi)   di   vincolare   tali   proventi   all’effettiva 

realizzazione delle opere di urbanizzazione  e all’acquisizione delle aree da 

espropriare,  i  comuni,  sia a causa di periodi caratterizzati  da congiunture 

economiche sfavorevoli  sia  perché   lo  stato  ha sempre avuto  una politica 

fiscale molto accentratrice, hanno protratto sin oggi   la prassi di destinare 

questi   ricavi   al   pagamento   dello   loro   spese   correnti,   svuotando   così   di 

significato tutte le conquiste legislative in tale ambito. 

Chi   è   dunque   che   decide   della   città?   Quali   sono   le   prospettive   per 

l’urbanistica? Ovviamente le dinamiche sin qui descritte corrispondono alle 

linee generali  che hanno in diversa forma occupato gli scenari delle città 

italiane. Il caso di Bologna meriterebbe di essere trattato a parte, poiché ha 

visto  al  suo interno attori  peculiari  quali   le cooperative  edili,   influenzate 

nella   loro azione da un certo clima politico che non si  trovava nel resto 

d’Italia. 

Ad oggi   rimane aperta   la  questione di  una nuova riforma urbanistica.   Il 

punto,   principale   e   irrisolto,   resta   dunque   l’emancipazione   delle 

amministrazioni   locali   dal   dominio   della   proprietà   immobiliaria   e   della 

rendita   fondiaria.   Altro   aspetto   centrale   è   però   la   necessità   di   costruire 

un’azione ordinaria organica per la pianificazione del territorio che ancora 

avviene   attraverso   interventi   di   tipo   straordinario,   vanificando   così   i 

tentativi di progettazione unitari fin qui approvati. Si aggiungono inoltre le 

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tematiche relative all’impatto ambientale dell’edilizia e alla partecipazione 

cittadina in fase di progettazione, questioni che non hanno ancora avuto un 

risvolto legislativo rilevante. 

2.5 I laboratori di urbanistica partecipata

Generalmente   un   laboratorio   di   urbanistica   partecipata   consiste 

nell’istituzione   di   un   tavolo   di   confronto   fra   cittadini,   associazioni   e 

amministrazioni del quartiere per la revisione o progettazione di un piano, 

che può  essere istituzionalizzato attraverso un atto amministrativo che ne 

ponga le condizioni  e  i   limiti.  Ci  sono però  anche casi  di   laboratori  che 

presentano una formalizzazione più blanda, attraverso un semplice atto del 

quartiere o altri che sono del tutto privi di ufficializzazione. Vi sono infine 

casi in cui non vi è una partecipazione diretta dell’amministrazione ai lavori, 

lasciando ad altri soggetti il compito di progettare. 

Il caso che prendiamo in considerazione è quello dei Laboratori riconosciuti 

con un atto amministrativo, dove le parti in gioco sono appunto, oltre gli 

addetti ai lavori, anche i cittadini interessati. Questo strumento com’è chiaro 

ha lo scopo di fornire un’alternativa progettuale al classico ‘partenariato’ tra 

amministrazioni e operatori privati, che ha formato e organizzato le nostre 

città  fino ad oggi. Nei paragrafi precedenti ho descritto anche la storia di 

tale rapporto, vissuto in molti casi come un’imposizione dall’alto, almeno 

per quegli abitanti che vivono in prima persona gli spazi interessati da una 

determinata rigenerazione, o che comunque vorrebbero per lo meno avere 

diritto a prendere parola in questioni di tal fatta. Così il laboratorio dovrebbe 

essere un mezzo per sopperire a questa disfunzione. Ovviamente, la buona 

riuscita  dipende non solo dalla  partecipazione volontaria  dei cittadini  ma 

anche dalle condizioni di premessa che vengono stabilite.

Il   problema   di   partenza   è   la   proprietà   del   terreno.   È   chiaro   che   se   la 

proprietà è comunale i margini decisionali del laboratorio saranno molto più 

alti   e   l’unico   fattore  discriminante   rimarrebbe   la  capacità   finanziaria  del 

comune, anche in base all’importanza che attribuisce all’opera, per costruire 

in   quel   determinato   spazio.  Se   si   tratta   quindi   di   una   realizzazione   che 

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comporta   prezzi   contenuti,   l’amministrazione   può   anche   permettersi   di 

caricarsi l’onere per intero, invece di ricorrere all’intervento dei privati, nel 

qual caso le scelte possibili  sono generalmente due:  la prima è  quella di 

cedere parte dello spazio in questione e relativi diritti edificatori ai privati, 

vincolandoli   in   cambio   alla   costruzione   degli   spazi   pubblici   nel   resto 

dell’area; la seconda invece è quella di fornire concessioni ai privati in zone 

diverse da quella interessata.  Quando invece i proprietari del terreno sono i 

privati   bisogna  pensare   ad  un   indennizzo,   pratica   che  viene   sempre  più 

sostituita con lo strumento della ‘perequazione’, ovvero che a fronte della 

gratuita cessione da parte dei privati di loro terreni per la realizzazione di 

opere pubbliche vengono concessi diritti edificatori in altre aree di proprietà 

pubblica.   I  comuni  ovviano così  al  problema dell’esproprio  ma spesso e 

volentieri  hanno abusato  di  questo  strumento,  moltiplicando  così   le  aree 

urbanizzate dato che, all’aumentare dell’edilizia  pubblica,  era previsto un 

aumento equivalente di quella privata. 

Altra questione è l’uso di destino che un’amministrazione locale vuole fare 

di una determinata area: sempre più spesso le politiche di ‘governance’ della 

città   mirano   ad   un   rifacimento   dell’assetto   urbano   vòlto   ad   una 

riqualificazione di facciata attraverso l’innesto d’infrastrutture per le quali in 

molte  circostanze non viene preso in considerazione il punto di vista del 

vicinato. La nuova città vuole essere ripensata in funzione dei turisti e dei 

consumatori,   per   i   quali  vengono  disposti  mezzi  di   collegamento  e  poli 

attrattivi, in entrambi i casi difficilmente valutati anche rispetto alle esigenze 

della diversità di chi abita veramente quegli spazi. 

Cambia però,  anche il significato degli  spazi pubblici:  i parchi urbani ad 

esempio   si   associano   sempre   più   ad   un   immaginario   di   abbandono   e 

degrado:   la   ‘mixité’   sociale   spesso   ha   portato   ad   aree   di   segregazione 

anziché a spazi diversamente compositi. 

Un altro aspetto interessante della città contemporanea, come si può notare 

dagli  studi di Jane Jacobs (Jacobs 1969), è   la percezione che gli abitanti 

hanno del verde pubblico. Esso viene considerato come valore aggiunto solo 

quando rientra in una sfera privata, e sicuramente il formarsi delle nuove 

‘gated communities’, piccole enclavi spesso situate nel polmone verde della 

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città,   sono   una   manifestazione   di   questo   fenomeno.   Qual   è   dunque 

l’interesse   o   lo   stimolo   dei   cittadini   a   partecipare   ad   un   laboratorio   di 

urbanistica?   Se   non   in   un’ottica   privatistica?   In   questo   senso   gli   spazi 

pubblici vengono letti come luogo degli altri, insicuri ed estranei da sé, ai 

quali sono preferibili luoghi di attività commerciali agglomerate, dove poter 

così   soddisfare   la   propria   esigenza,   attraverso   la   sovrapposizione   delle 

funzioni,   di   risparmio   di   tempo.   I   luoghi   pubblici   perdono   la   loro 

dimensione   sociale   per   diventare   semplici   punti   di   transito,   anche   a 

discapito  della  propria  memoria   storica.  Quindi  progettare  uno spazio  di 

quartiere   finalizzato   ad   uso   di   tutto   il   vicinato   comporta   un   grado   di 

empatia, e non di coesione2,  fra tutte le diverse comunità presenti. 

Ultimo   scoglio   interno   alla   pratica   dei   laboratori   riguarda   il   problema 

‘terminologico’,  o  meglio   la  necessaria  mediazione   tra   i  diversi   registri: 

linguaggio tecnico, amministrativo, politico e i numerosi gerghi dei cittadini 

vengono   interpretati   e   mediati   da   una   figura,   generalmente   definita 

“Facilitatore”, che permette ai gruppi compositi di partecipare attraverso la 

comprensione dei differenti strumenti d’analisi.

Le   città   che   in   Italia   hanno   sperimentato   maggiormente   i   laboratori 

partecipati sono state Torino e Roma, facendone una pratica consolidata. In 

Europa  le  esperienze  da segnalare   sono diverse,  soprattutto   in  Germania 

dove il ministero ha avuto proprio una linea di finanziamento(Intervista a 

Giovanni Ginocchini 27.02.2008). 

Il   caso  dell’‘ex­mercato’,   che   analizzeremo  nello   specifico  nel   prossimo 

capitolo,  rappresenta un’esperienza unica:  infatti  non è  mai stato  istituito 

nessun   laboratorio   di   urbanistica   partecipata   per   un   intervento   così 

importante   e   così   imponente,   soprattutto   in   termini   di   superficie 

disponibile3.

2.6 Conclusione

2 Il concetto di coesione può generare fraintendimenti: i futuri spazi non devono mirare all’integrazione, che resta comunque una questione personale, ma alla disposizione di luoghi in cui tutti possano esternare la propria diversità e con gli stessi diritti. 3 30 ettari, c.a.

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Come si può intuire da quanto detto, l’urbanistica italiana ha dovuto fare i 

conti fino ad oggi con un’espansione della città scarsamente monitorata. La 

visione  d’insieme delineata   in  questo  capitolo  era   tesa  ad evidenziare   in 

particolar modo il carattere ideale di certe normative che non furono mai 

attuate  per via  dell’influenza  esercitata  dalle  varie  pressioni  economiche. 

Quali siano a questo punto le prospettive realistiche in materia non è chiaro, 

è bene precisare però, che per divincolarsi dalla prassi della pianificazione 

territoriale contrattata a tutto vantaggio dell’iniziativa privata e avvicinarsi 

alle  sfide  della   tutela  ambientale  e  della   riqualificazione  degli   spazi,  c’è 

bisogno di una risoluta riforma urbanistica che sblocchi definitivamente i 

nodi   critici   storici   analizzati   in   questo   capitolo.   I   laboratori   aprono  una 

nuova prospettiva  tesa a recuperare   la sfiducia dei  cittadini  nei confronti 

delle amministrazioni, ma possono nascondere al loro interno un tentativo di 

governance con fini di consensualità diffusa; e dall’altra lo spazio pubblico 

non sempre viene percepito come un valore aggiunto e sono spesso gli stessi 

cittadini  a non nutrire  alcun  interesse nella  partecipazione attiva alla  sua 

progettazione.  Nel prossimo capitolo  analizzeremo un caso particolare di 

laboratorio   che,   contrariamente   a   quanto   ci   si   aspetterebbe,   è   stato 

caratterizzato da una forte partecipazione degli abitanti della zona. 

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Capitolo 3 

La   Bolognina:   Il   caso   del   laboratorio   di   urbanistica 

partecipata dell’ “Ex­mercato”

3.1 Introduzione

Nel capitolo precedente abbiamo approfondito il rapporto che si instaura fra 

le amministrazioni  e gli  operatori  privati  ai  fini  della  progettazione della 

città.  Adesso   faremo  una   ricognizione   specifica   sul   caso  del   laboratorio 

d’urbanistica   partecipata   della   Bolognina.   Questo   rappresenta,   per   il 

particolare contesto in cui è avvenuto, un esempio che almeno ai fini della 

partecipazione può considerarsi riuscitissimo. La sua unicità risiede inoltre 

nelle   caratteristiche   dello   spazio   in   questione:   la   grande   ampiezza   e   la 

localizzione in una parte della città centrale per il futuro asseto urbano. Nel 

capitolo che segue analizzeremo le varie spinte sociali che hanno portatato a 

questo   percorso,   e   come   queste   abbiano   interagito   con   questo   nuovo 

strumento di progettazione.

3.2 La Bolognina

Così come tante altre città italiane di fine Ottocento, Bologna, a fronte della 

nascente attività   industriale,   iniziò   il  suo sviluppo urbano verso l’esterno 

della città,  al tempo rigidamente delimitata dalla cinta muraria. Fu a nord 

del nucleo storico che, con la realizzazione della stazione ferroviaria e con 

la creazione di una prima filiera di attività industriali e artigianali, nacque la 

prima periferia storica di Bologna, appunto col nome ‘Bolognina’. Di fatto il 

quartiere   assunse   nel   tempo   una   forte   connotazione   operaia   e   doveva 

rispondere   alle   prime   richieste   di   residenza   generate   dalla   forte 

immigrazione   dalle   campagne   circostanti.   Questo   allargamento,   rivolto 

verso   la   pianura   a   settentrione,   fu   inizialmente   pianificato   dal   piano 

regolatore   del   1889,   che,   rimarcando   quella   che   era   una   delle   linee 

architettoniche   al   momento   più   in   voga   in   Europa,   prevedeva   un 

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insediamento a scacchiera con maglia regolare di isolati 100x104 metri ed 

un’altezza media di quattro piani per gli edifici. Inoltre, erano previste delle 

corti nella parte interna degli isolati che costituissero uno spazio pubblico a 

servizio   dei   caseggiati.   I   criteri   dettati   dal   Piano   furono   però   eseguiti 

soltanto   in   una  porzione   limitata   rispetto   a   quella   stabilita   in   principio, 

ovvero la zona compresa tra via Matteotti, via Carracci, via Bolognese e via 

Fioravanti.   Ad   ogni   modo,   a   partire   da   questo   primo   nucleo   iniziò   a 

delinearsi un quartiere fortemente caratterizzato dalla costruzione di edilizia 

popolare,   cosa  che   comportò   un   forte   sentimento  d’appartenenza,   sia   di 

classe   che   di   vicinato,   dove   il   ritmo   della   vita   era   scandito   dal   lavoro 

industriale   e  da  un’intensa   socialità   diffusa.  Quest’ultima   si  manifestava 

principalmente   attraverso   la   partecipazione   attiva   a   diverse   strutture 

comunitarie, quali ad esempio i circoli ricreativi e culturali, le associazioni 

sportive amatoriali  e   le  piccole  sezioni  del  partito  comunista.  Negli  anni 

Cinquanta, con l’avvento del boom economico, il quartiere fu preso di mira 

dalla nuova immigrazione del meridione, che comportò un’ulteriore  innesto 

di   edilizia,   sia   pubblica   che   privata,   pur   non   compromettendo   l’aspetto 

sociale  di   fondo.  Fu  negli  anni  Ottanta   invece,  con   la  dismissione  delle 

fabbriche della zona e l’incalzare del settore terziario nel centro storico che 

il   quartiere   iniziò   a   cambiare   faccia,   sino   a   divenire   quello   che   oggi 

vediamo. Il forte “collante” sociale di un tempo si è  man mano dissolto, 

aprendosi,   anche   se   non   sempre   volontariamente,   all’arrivo   di   nuove 

‘componenti’. Agli storici abitanti della zona si sono aggiunti altri mondi, 

spesso tra loro non comunicanti: la comunità Cinese, gli altri migranti, gli 

studenti   fuori   sede   e   gli   italiani   che  usano   il   quartiere   solamente   come 

“dormitorio” (PianoB2007). È anche grazie a questi gruppi che il quartiere 

ha mantenuto al suo interno una discreta presenza di attività commerciali, in 

particolare  al  dettaglio,  distinguendosi  così  dall’anonimato   tipico  di  altre 

zone   periferiche   della   città,   progettate   sull’onda   dell’architettura 

funzionalista   degli   anni   Sessanta.   Ciononostante   lo   sfaldamento   della 

socialità diffusa è anche legato a un cambiamento del significato spaziale 

che le persone attribuiscono al quartiere: i punti aggregazionali di una volta 

sono   ora   diventati   fatiscenti   e   le   corti   interne   agli   isolati   convertite   in 

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parcheggi  per   i   suoi   inquilini:   i   luoghi  di   interrelazione  vengono  quindi 

ricondotti   sempre   più   alla   sfera   privata,   dando   alla   spazio   urbano   una 

funzione di transito o di commercio.

La Bolognina si configura oggi come un quartiere popolare che sta subendo 

un   forte   invecchiamento   della   popolazione,   soprattutto   a   causa   della 

tendenza di molti, che una volta raggiunta l’autonomia dal nucleo familiare 

di partenza, tendono in gran numero a trasferirsi nei paesini limitrofi. Inoltre 

la sua caratteristica aggiuntiva, come già detto, dell’importante presenza di 

stranieri non ne fa un quartiere principalmente multietnico o comunque non 

lo identifica e struttura secondo esigenze riconducibili ad un’etnia piuttosto 

che un’altra, né tantomeno ha sviluppato politiche d’integrazione qualora ve 

ne fosse stata   l’esigenza.  Di  certo   le  profonde  trasformazioni  sociali  che 

sono avvenute al suo interno hanno portato ad un allontanamento dal mondo 

operaio, senza però sradicarne il suo tratto popolare ancora visibile.

3.3 La zona dell’Ex­mercato e la sua dismissione

L’idea di stabilire il mercato ortofrutticolo in quella porzione di territorio 

limitata  da  una  parte  dalla  Bolognina   storica,  quella   costruita   secondo   i 

dettami  del  piano   regolatore  del  1889,  e  dall’altra,   ad  ovest,  dalla   linea 

ferroviaria Bologna­Venezia, fu presa all’inizio degli anni Trenta ma, la sua 

costruzione fu conclusa solo alla fine degli anni Cinquanta, e da allora in poi 

questo luogo diventò a pieno parte dell’identità del quartiere. 

La   storia   della   zona   dell’ex   mercato   s’inquadra   sempre   nella   logica 

dell’importanza strategica che ricopriva il quartiere per la vicinanza con lo 

snodo  ferroviario,  che  sembrava  rendere  più   agevole   lo   stoccaggio  delle 

varie  derrate   che  dovevano  essere   lì   smistate.   In   realtà,   col  passare  del 

tempo   e   lo   sviluppo   urbanistico   sempre   maggiore   verso   l’esterno   della 

periferia, fu proprio la sua posizione a rivelarsi svantaggiosa per gli abitanti 

della zona: l’aumentare del flusso delle merci nel corso degli anni produsse 

un carico di ‘traffico pesante’ tale,  che la rete viaria esistente non era in 

grado   di   incanalare.   Lo   spazio   in   questione   infatti   era   ampissimo   e   la 

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presenza del fascio dei binari, sia ad ovest che a sud, creava una particolare 

condizione di “taglio” dal resto della città, che non lasciava altra alternativa 

se non quella  di  scaricare  tutto   il   traffico sulla  maglia  ottocentesca  della 

Bolognina, le cui strade non erano state progettate in vista di un tale uso. 

Senza contare che questa zona doveva servire anche da congiunzione per 

tutti i mezzi, privati e non, provenienti da nord, con il resto della città, in 

particolare il centro storico, e necessitava pertanto di uno stravolgimento del 

sistema viario,  attraverso  la costruzione di  un asse nord­sud che partisse 

dalla tangenziale e confluisse nei viali della circonvallazione nei pressi della 

stazione. Nella parte sud del mercato e di tutta la Bolognina c’era anche da 

tenere in considerazione il futuro passaggio della TAV e dunque la relativa 

‘cantierizzazione’ per l’ampliamento della zona ferroviaria. 

Dunque, sintetizzando, il nuovo ruolo che ricopriva il quartiere nell’assetto 

generale della città, l’inutilità della presenza del mercato in quella zona, la 

struttura   viaria   da   riformare   alla   luce   della   nuova   funzionalità   di 

congiunzione, il futuro cantiere della TAV e la rivendicazione degli abitanti 

di   un   risarcimento   per   un   vuoto   di   servizi   (dato   il   peso   causato   dalla 

presenza   del   mercato   in   tutti   quegli   anni)   rappresentarono   l’insieme   di 

concause che hanno portato alla previsione nel Piano Regolatore Generale 

del 1985­89 della ‘delocalizzazione’ del mercato al di fuori di quest’area: si 

aprì così un grande bacino di progettazione nevralgica per il futuro aspetto 

della città, in particolar modo perché il 43% dell’area era già di proprietà 

comunale, rendendo possibile una capacità  edificatoria pubblica di grande 

respiro. 

Il PRG in questione si limitava a dare le linee generali, destinando l’area ad 

un’importante riqualificazione e ricucitura del tessuto urbano periferico:

  “…l’obiettivo principale è quello di dare una conclusione all’assetto delle grandi   maglie   ottocentesche,   che   dominano   l’organizzazione   urbanistica   del quartiere   Bolognina,   prevedendo   un   intervento   interstiziale   che,   a   contatto   del tessuto urbano ed edilizio della Bolognina verso ovest, riprenda completandola per un intera fascia di quattro moduli  la maglia originale. Il  collegamento nord­sud dell’asse sud­ovest , l’asse dell’ ’89, con i viali di circonvallazione, scavalcando il fascio delle aree ferroviarie…”4

4 Piano Regolatore 1985­89 del comune di Bologna

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L’effettiva dismissione del mercato avvenne solo a metà degli anni Novanta, 

e   da   qui   si     susseguirono   una   sequela   di   piani   e   progetti   rivolti   alla 

rigenerazione di un’area che per la sua ampiezza e posizione strategica si 

trovava a dover soddisfare da un lato le esigenze infrastrutturali  viarie in 

larga scala e dall’altro la richiesta di soluzioni urbane di quartiere rivolte 

agli abitanti della zona. 

Come indicato dal piano regolatore del 1985, i primi progetti erano pensati 

secondo lo schema ottocentesco della Bolognina storica, con l’intenzione di 

riproporre una struttura a maglia  ortogonale con modello  edilizio  a corte 

(Ginocchini  e  Tartari  2007),  ma nonostante   l’approvazione  nel  1999 del 

“Disegno Urbano Concertato” dell’architetto catalano Ricardo Bofil, che si 

conformava a tali direttive, la sua attuazione fisica non ebbe mai luogo. 

Successivamente, con la nuova giunta di centro destra, si decise di ripensare 

i progetti passati  e di avviare un nuovo percorso progettuale:  si pensò  di 

destinare in quell’area la nuova sede unificata degli uffici comunali e, alla 

luce di una riprogettazione  maggiormente ambiziosa del nodo ferroviario e 

della stazione centrale in un ottica internazionale, circoscrivere nuovi assetti 

di mobilità (Ginocchini2007). Fu stilato un piano di modello insediativio a 

pettine, cioè aumentando la superficie utile di edificazione. L’idea era quella 

di  costruire  un  comparto  autonomo rispetto  al   tessuto  ottocentesco  della 

Bolognina, con spazi pubblici interni alle fascie residenziali e che dunque 

privilegiassero   gli   abitanti   di   quegli   edifici   mentre   a   nord,   lungo   via 

Gobbetti,   era   prevista   l’edificazione   di   uno   studentato   con   funzione   di 

edificio­barriera. In pratica vennero meno le istanze dei cittadini storici di 

quella zona attraverso l’imposizione dall’alto di un progetto che strappava al 

quartiere   uno   spazio   che   avrebbe   potuto   rappresentare   una   potenziale 

risposta alle esigenze sociali e urbanistiche attese. 

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 Fonte: Studio Corrado Scagliarini architetto (Bologna)

Questo  progetto  generò  dunque un  forte  malcontento   tra  una  parte  della 

popolazione del quartiere che, pertanto, cominciò ad attivarsi attraverso una 

raccolta   di   firme   (raggiungendo   le   4000)   e   la   formazione   del   comitato 

“Fuori le mura”. Quest’ultimo si occupò di attivare una rete di protesta che 

mirava  ad una riprogettazione  partecipata  della  zona,  distribuendo,   in   tal 

senso, un questionario agli abitanti del quartiere, cui seguirono una serie di 

osservazioni  depositate  presso il  comune. Con il  cambio di governo, che 

tornò in mano al centro­sinistra, e il radicalizzarsi del conflitto, nel gennaio 

del   2005   una   delibera   di   Giunta   istituì   formalmente   il   laboratorio   di 

urbanistica partecipata dell’ex­mercato. L’amministrazione, dall’altra parte, 

oltre al trasferimento di tutti gli uffici comunali, collocava tale area al centro 

della   porzione   di   territorio   che   nel   futuro   sarebbe   stata   oggetto   dei 

cambiamenti più profondi della città, proprio perché l’intenzione era quella 

di  creare qui  la  nuova immagine internazionale di Bologna,  attraverso la 

realizzazione  dello   snodo principale  della   futura  mobilità  pubblica,  nello 

specifico   con   la   costruzione   della   nuova   stazione   ferroviaria   e   delle 

interconnessioni tra il “people mover” e la metrotranvia.

Così se da una parte si disponeva uno strumento di partecipazione dal basso, 

dall’altra veniva imposta dall’alto una riqualificazione dell’area attorno alla 

zona dell’ex mercato che poneva di   nuovo lo spettro di un futuro carico 

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urbanistico,   rendendo   sensibile   la   zona   a   possibili   manovre   di 

gentrificazione  da  parte  delle   imprese   immobiliari.   I  privati,   infatti,  dato 

l’alto indice di edificabilità stabilito dal piano regolatore del 1985­89, in tale 

area, nutrivano grandi interessi di profitto.

3.4 Il laboratorio di urbanistica partecipata dell’Ex­mercato

Come   già   detto   in   precedenza   il   caso   dell’ex­mercato   rappresenta 

un’esperienza unica nella storia dei laboratori d’urbanistica partecipata per 

via della collocazione e della vastità dell’area oggetto di riqualificazione. Il 

laboratorio, istituito su delibera dell’amministrazione comunale nel gennaio 

del 2005, nasce sostanzialmente da una forte richiesta dal basso, da parte del 

quartiere   stesso,   inizialmente   rappresentato   da   3   realtà   associative   della 

zona: L’XM24, il centro Katia Bertasi e il comitato Fuori le mura. Questo 

laboratorio   deve   essere   letto   alla   luce   di   un   percorso   partecipativo   che 

durava già da diversi anni: i vari progetti sull’area, succedutisi durante le 

diverse Amministrazioni, sono stati sempre oggetto di attenzione da parte 

del quartiere. Questo lo si deve in parte al particolare tessuto sociale che 

abbiamo precedentemente descritto (paragrafo storico) ma, bisogna anche 

ricondurlo   al   riferimento   identitario   che   il   mercato   in   un   certo   senso 

rappresenta  per  gli  abitanti  storici  del  quartiere.  Di   fatto   l’identità  di  un 

luogo   è   spesso   legata   alle   istituzioni,   in   senso   lato,   che   in   quel   luogo 

esistono e nel bene e nel male  il  mercato ortofrutticolo era un elemento 

costitutivo del quartiere: da una parte in quanto ‘posto di lavoro’ di un buon 

numero di abitanti della zona e dall’altra portava con sé un carico di traffico 

che ha spesso messo in ginocchio la mobilità del quartiere. Non è un caso 

dunque se la gran parte dei partecipanti del laboratorio avesse un’età medio­

alta  ed abitava  nella  Bolognina  se non da sempre almeno da un elevato 

numero di anni; la presenza di giovani o dei nuovi abitanti del quartiere è 

stata infatti limitata, se non del tutto assente. Mancata partecipazione che si 

potrebbe  spiegare   in   relazione  ad  un  mancato   riconoscimento  del  valore 

dello  spazio appunto,  da parte di queste due tipologie di abitanti.  Infatti, 

rispetto   ai   cittadini   storici   per   i   quali   il   quartiere  è   stato   il   luogo  della 

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residenza, del lavoro e della socialità, i nuovi abitanti passano nel quartiere 

solo una frazione minima della loro esistenza, quella legata alla residenza. 

Estendendo il discorso si potrebbe dire che nella città di oggi infatti il luogo 

della residenza non coincide molto con il luogo della vita, ma c’è una netta 

distinzione tra i due. Per chi vive la città in questo senso la partecipazione al 

laboratorio  non  rappresentava  un  interesse  e  avrebbe potuto  esserlo  solo 

nella misura in cui lo spazio oggetto di ridisegnazione era lo stesso della 

residenza, cosa che l’ex­mercato sicuramente non rappresentava dato che lì 

non vi erano residenze. 

Dunque questo laboratorio  nasce dal basso e prendono parte ai lavori  un 

centinaio   di   cittadini,   di   cui   la   gran   parte   erano   abitanti   storici   che 

riconoscevano in quello spazio un’importanza per la zona. Bisogna notare 

anche   che   la   gran   parte   di   loro   non   erano   legate   alle   tre   associazioni 

proponenti, segnando così uno scarto tra quelli che in qualche modo hanno 

spinto inizialmente perchè il laboratorio si facesse e quelli che poi ne hanno 

effettivamente preso parte.

Le due critiche principali mosse dalla cittadinanza all’ultimo progetto erano 

la divisione da parte dei tecnici del nuovo comparto dal vecchio quartiere, 

creando in un certo senso una sorta di enclave, e la re­disposizione del verde 

pubblico a beneficio di tutti gli abitanti del quartiere. Il comune dall’altra 

parte  ha posto dei paletti  che non potevano essere discussi:  in primis,  la 

realizzazione   in   quello   spazio   della   sede   unificata   del   comune   e   poi 

l’esigenza di una percentuale di superficie da dedicare ad edilizia privata. 

Quest’ultimo  aspetto   in  particolare  era  abbastanza  contorto  perchè   in  un 

certo senso la rendita immobiliare per gli operatori privati restava comunque 

immutata   dal  momento   che   il   municipio  garantiva   comunque  un’uguale 

cubatura  da realizzare   in  quello  spazio.  Questo  implica  che  la  superficie 

utile  sulla  quale edificare  sarebbe diminuita,  ma  in  compenso si  sarebbe 

ristabilita la rendita parallelamente alla possibilità di costruire in altezza, o 

meglio   aumentando   la   densità   abitativa   relativa.   Da   qui   ci   potremmo 

ricondurre a quanto detto nel secondo capitolo, ovvero a quanto l’operatore 

pubblico legato a diverse esigenze non può facilmente contrastare il volere 

del privato.

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Il   laboratorio   a   partire   da   queste   due   critiche   iniziali   come   dalle   due 

invarianti  doveva dunque  ridisegnare   il  progetto   attraverso   l’incontro   tra 

cittadini e progettisti.

Il   percorso   dei   lavori   è   stato   stabilito   durante   le   assemblee   iniziali   e 

condotto   dai   facilitatori,   professionisti   inter­partes   che,   come   abbiamo 

accennato,   dovevano  occuparsi   di  mediare   i   diversi   registri   linguistici   e 

rendere l’iter progettuale comprensibile a tutti. Vennero stabilite due macro­

scansioni temporali dei lavori. La prima fase prevedeva tre momenti al suo 

interno:   il   primo   era   l’approfondimento   e   la   discussione   del   piano,   il 

secondo la ridefinizione, attraverso le proposte emerse dalle assemblee, e il 

terzo   infine   la   verifica   del   piano   con   la   presentazione   di   un’ipotesi 

definitiva. La seconda fase, invece, doveva riguardare nel dettaglio le linee 

guida   tracciate   precedentemente,   ovvero   stabilire   puntualmente   in   che 

maniera attuare il nuovo piano. 

Nella  prima  fase  gli  argomenti  di  discussione  decisi  dai  partecipanti  e   i 

progettisti erano quattro5:

­ Mercato e città. Le connessioni, il perimetro e il nodo stazione.

­ Mercato e quartiere. Un nuovo centro per la Bolognina.

­ Abitare al mercato 1°. Sostenibilità ambientale e paesaggio.

­ Abitare al mercato 2°. Sostenibilità sociale e attività commerciali.

La formula di questi primi incontri di discussione prevedeva una prima parte 

di   presentazione   del   tema   ad   opera   dei   progettisti   e   una   seconda   di 

discussione in gruppi. Furono predisposti anche tutta una serie di strumenti 

di comunicazione sussidiari rivolti sia ai partecipanti che ai cittadini. Anche 

questi   strumenti,   come   la   newsletter   e   il   sito   web,   prevedevano   una 

redazione aperta e partecipata. Questa fase di ascolto reciproco si concluse 

nel giugno 2005 con la redazione di due documenti di sintesi, uno stilato dai 

5 Così come riportato dai documenti del laboratorio consultabile sulla pagina internet http://www.comune.bologna.it/laboratoriomercato/

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facilitatori e un altro dal coordinamento delle associazioni dei cittadini, nei 

quali si evidenziavano gli obiettivi generali di revisione6:

1. la congiunzione fra il comparto e la zona nella quale si colloca;

2. la mobilità  interna, ma soprattutto esterna con particolare attenzione ai 

pericoli di crescita

    insostenibile del traffico veicolare privato;

3. la distribuzione del verde pubblico;

4. le collocazioni di funzioni nell’area (scuola, sede AUSL, ecc…);

5. la qualità costruttiva e delle infrastrutture d’area;

6. i luoghi di sviluppo della socialità e delle forme di aggregazione.

Da questi obiettivi emerse l’esigenza di un nuovo piano piuttosto che una 

semplice   revisione   del   vecchio   progetto.   L’amministrazione   si   trovò 

costretta a riavviare per intero l’iter progettuale validando in un certo senso 

l’operato del laboratorio. 

A questo punto, dal semplice ascolto si passò dunque ad un vero e proprio 

momento di co­progettazione.  I progettisti  si proposero in questa sede di 

elaborare un nuovo disegno che tenesse in seria considerazione le esigenze 

espresse   dal   laboratorio.   A   questo   si   sarebbero   accompagnati   una   serie 

d’incontri  bilaterali   tra  i  progettisti  stessi,   le associazioni,   il  quartiere  e  i 

diversi settori delle amministrazioni, cui sarebbero seguite delle simulazioni 

in pubblico delle varie opzioni che si andavano via via sviluppando. Da qui, 

bisognava   poi   stilare   un   nuovo   piano   che   doveva   essere   discusso   dai 

partecipanti, anche in piccoli gruppi se non addirittura individualmente. 

Durante questi incontri, molto vissuti e a volte anche conflittuali si è infine 

arrivati  ad  una  sostanziale  condivisione  delle   richieste  dei  vari  attori,   in 

particolare sulle questioni riguardanti il riposizionamento delle aree verdi, in 

maniera che fossero accessibili a tutto il quartiere, sull’ampliamento degli 

spazi dedicati ad usi e servizi pubblici e sull’inserimento di scelte tecniche 

che  dovevano  conferire   al  nuovo  insediamento  caratteri   sperimentali  dal 

6 Vengono qui riportate le sei linee guida del coordinamento delle associazioni dei cittadini così come sono scritte nel documento da loro redatto.

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punto di vista della sostenibilità ambientale di alto livello. Fu così che nel 

marzo del 2006 fu adottato il nuovo piano condiviso che venne nel luglio 

dello stesso anno approvato dal consiglio comunale. 

Finisce così   la prima fase del laboratorio.  Rispetto al vecchio progetto  il 

nuovo assetto portava il seguente cambio di bilancio (Ginocchini e Tartari 

2007) :

­ residenza: + 18%

­ altri usi (uffici, commercio, altro): ­ 41%

­ ricettivo: ­ 80%

­ totale comparto: ­ 6%

­ usi e servizi pubblici: + 43 %

Fonte: Studio Corrado Scagliarini architetto (Bologna)

Nello specifico è  stato progettato  un grosso parco verde a ridosso di via 

Fioravanti intorno al quale sarà definita l’area urbana secondo i tracciati a 

maglia della Bolognina storica. Questo spazio verde, insieme alla pensilina 

già esistente che rappresenterà una piazza coperta e multifunzionale, farà da 

cerniera fra il nuovo comparto e il vecchio quartiere. La rete viaria interna al 

nuovo comparto  alternerà   così  diversi   tipi  di  gerarchie  per   scomporre   il 

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traffico al fine di limitare al suo interno la presenza delle automobili e dare 

maggior risalto ai tracciati ciclo pedonali. Il traffico di via Gobetti sarà in 

parte interrato lasciando fuori solo il traffico lento di servizio al quartiere. Il 

nuovo asse nord­sud di cui abbiamo discusso precedentemente sarà previsto 

all’esterno   del   comparto   lungo   la   linea   dove   una   volta   vi   era   il   fascio 

ferroviario che collegava Venezia che verrà lì messo in trincea per alleviare 

l’impatto  visivo  e   acustico.  Questa  nuova  struttura  viaria   indispensabile, 

oltre a fungere da connessione tra il centro e la seconda periferia, scaricherà 

dalle  funzioni  di   transito  pesante  l’intero  comparto e  anche  la  stessa via 

Fioravanti.

Fonte: Studio Corrado Scagliarini architetto (Bologna)

Lo spazio pubblico  è   stato   tutto   ripensato  in   funzione dello  svolgimento 

della vita civica attraverso l’inserimento e la dislocazione di diversi servizi 

destinati   al   quartiere   (scuola,   poliambulatorio,   palestra,   centro   sociale   e 

culturale, uffici di quartiere, zone commerciali). Il piano inoltre prevede la 

totale assenza di recinzioni.

Il   nuovo   piano   concentra   la   capacità   edificatoria   nella   parte   centrale 

aumentando la densità abitativa relativa e destinando il suolo intorno a spazi 

aperti e verdi.   Il mix sociale delle future residenze che qui si ricaveranno 

sarà garantito attraverso le diverse percentuali di edilizia libere ed edilizia 

non   convenzionale   previste,   in   particolare   quest’ultima   è   incrementata 

sensibilmente rispetto  al  vecchio progetto.  Anche questi  edifici  dovranno 

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rispecchiare   il   tessuto urbano della  Bolognina  storica.  Tutto  ciò,   insieme 

anche alle attività commerciali che qui si stabiliranno, è stato pensato oltre 

che ai fini del continuum urbano richiesto dai partecipanti del laboratorio 

con   il   quartiere   preesistente   anche   nell’intenzione   di   garantire   un   certo 

grado di ‘mixité’  urbana nel comparto per far sì  che coesistessero al suo 

interno  opportunità  per  diversi  stili  di  vita.   In  questo  senso verrà  aperto 

anche un collegamento diretto dall’altra parte del comparto con il parco di 

villa  Angeletti,  un polmone verde della  città  che  fino ad oggi  è   rimasto 

estraneo al quartiere. 

Ultima punto del piano riguarda il tema energetico; infatti in rapporto alle 

risorse pubbliche disponibili sono stati inseriti nei programmi di attuazione 

determinati  requisiti energetici che si configurano come progetto pilota per 

tutta la città7. 

L’esperienza del laboratorio si conclude poi con la seconda fase, ancora in 

corso, dove sono state e saranno discusse al dettaglio, sempre seguendo il 

metodo partecipato, tutte quante queste linee del piano. Il laboratorio viene 

finanziato  da qui   in poi  dal  progetto  europeo Grow, che ha come scopo 

quello di promuovere questo tipo di esperienze su scala nazionale. 

7 In generale, il piano adotta i seguenti requisiti tecnici e impiantistici:­ Centrale di cogenerazione, alimentata a gas metano, a servizio dell’intero insediamento e distribuzione delle reti impiantistiche in cunicoli tecnologici. La centrale sarà dimensionata sul comparto al netto del risparmio energetico ottenibile dalle prescrizioni energetiche di piano;­ Certificazione energetica degli edifici sulla base dei criteri Casaclima, già adottati dalla Provincia Autonoma di Bolzano. In particolare, tutti gli edifici privati dovranno essere classe C (70kWh/mqanno), tutti gli edifici pubblici classe B (50kWh/mqanno) ad eccezione della scuola che dovrà essere classe A (30kWh/mqanno);­ Utilizzo degli apporti solari passivi, tramite un corretto orientamento degli edifici e la definizione di “lati caldi” lungo i quali disporre le zone giorno;­ Coperture piani e verdi su tutti gli edifici per diminuire il reirraggiamento di calore in atmosfera;­ Produzione di acqua calda sanitaria tramite pannelli solari su tutti gli edifici;­ Predisposizione di tutti gli edifici all’impianto fotovoltaico, per incentivare il privato a dotarsi di un impianto che gli consenta di vendere energia, oltre che di consumarla;­ Predisposizione di una rete duale di raccolta delle acque per favorirne il recupero e il riciclo, grazie a 2 cisterne interrate di accumulo per uso irriguo e ad un bacino di laminazione, che scolma nel Canale Navile;­ Previsione di una superficie permeabile di terreno (sia pubblico che privato) pari a circa il 35% della superficie territoriale e di una superficie semipermeabile (30% di permeabilità) pari al 25%;­ Raccolta dei rifiuti solidi urbani tramite 6 isole ecologiche interrate, in sostituzione di 128 contenitori tradizionali fuori terra.

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È   chiaro   dunque   come   quello   dell’Ex­mercato   rappresenti   un   caso 

esemplare di urbanistica partecipata che ha spiazzato per certi versi anche 

l’Amministrazione comunale di Bologna che a vanto di ciò ne ha fatto di 

questo strumento una prassi per gran parte dei suoi nuovi progetti. 

In questa sede ho già discusso di come la partecipazione accordata sia da 

ritenersi in gran parte dovuta ad un tessuto sociale particolare presente nel 

quartiere,  principalmente   tra   i  suoi abitanti  storici.  Questo stesso stimolo 

alla  partecipazione  sarà   sicuramente  più  difficile  da  trovare   in  altre  aree 

della città, o in altri contesti dove l’interesse dei residenti è minimo se non 

nullo.

3.5 Conclusione

Possiamo concludere dicendo che effettivamente intorno all’area dell’ ex­

mercato ortofrutticolo si sia creata molta attenzione, dovuta principalmente 

al contesto sociale della Bolognina, ma anche al riferimento identitario che 

tale luogo caratterizzava per molti abitanti del quartiere. Questa esperienza 

mostra   anche   la   quasi   totale   impossibilità   di   mettere   freno   alla   rendita 

immobiliaria   che   rimane   comunque   quasi   sempre   assicurata:   le 

Amministrazioni sono fortemente legate al volere di tali attori, soprattutto 

per un questione di natura economica. 

Sicuramente il laboratorio, là dove vi sia un interesse, rappresenta un grande 

valore aggiunto, che va di volta in volta contestualizzato al tessuto sociale 

sociale del luogo nel quale verrà attuata la rigenerazione. 

Nella città dei flussi, dove i luoghi assumono una funzione semplicemente 

connettiva,   la   partecipazione   della   popolazione   è   generalmente   legata   a 

situazioni   emergenziali.  Trovare   lo   stimolo  alla  partecipazione  vuol  dire 

anche riempire di significato il futuro utilizzo di quegli spazi. 

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CONCLUSIONI

Lo studio sin qui condotto si è posto come primo obiettivo quello di definire 

la   città   da   un   punto   di   vista   prettamente   sociologico,   delineando   in 

particolare   i   cambiamenti   occorsi   nel   passaggio   dalla   città   industriale   a 

quella   contemporanea.  La  città   difatti   può   essere   letta   attraverso  diversi 

criteri e noi ne abbiamo evidenziato quelli delle principali scuole e dei filoni 

della sociologia urbana, in particolare soffermandoci sul concetto di spazio 

in   quanto   dimensione   fondamentale   del   processo   complessivo   di 

trasformazione strutturale che sta avvenendo nella società (Castells 2002). Il 

presupposto   di   partenza,   come   più   volte   ripetuto,   si   fonda   sulla 

considerazione che ogni progettazione di uno spazio comporta nel futuro dei 

potenziali   iter   sociali.   Dunque   l’urbanista   e   l’architetto   non   possono 

esimersi dal prendere in debita considerazione le implicazioni sociali di ogni 

loro futura realizzazione.

Assumendo, secondo Castells (Castells 1974), che il processo di formazione 

della città è alla base delle reti urbane e condiziona l’organizzazione sociale 

dello  spazio,  nel secondo capitolo  abbiamo tentato  di dimostrare come a 

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causa   di   certe   circostanze   storiche   questa   considerazione   per   noi 

fondamentale  sia  stata  spesso esclusa dalle  valutazioni  progettuali  e  così 

anche il punto di vista degli abitanti venuto meno, a favore dell’operato dei 

privati e dunque della rendita immobiliaria. Il Piano Regolatore Generale, 

che infatti doveva essere lo strumento attraverso il quale bisognava rendere 

vivibili   i  nuovi   insediamenti  urbani  della  crescita   italiana,  è   stato  spesso 

usato per altri fini. La ragione principale di questa mancata pianificazione è 

la carenza di risorse finanziarie delle amministrazioni locali che le ha molte 

volte costrette a subordinare i fini iniziali al volere dei privati. Nell’ultimo 

paragrafo  del   secondo capitolo  però,   abbiamo  mostrato   come all’interno 

dell’urbanistica pubblica si siano aperti spazi per la partecipazione dal basso 

attraverso dei   laboratori  partecipati,  anch’essi  però,   in  parte  alla   luce del 

primo   capitolo,   penalizzati   dagli   stessi   attori   che   vorrebbero   esserne 

coinvolti. L’esigenza di una costruzione più vicina al volere degli abitanti 

dei   quartieri   oggetto   di   rigenerazione   trova   la   sua   ragione   d’essere   nel 

momento in cui ci  si sente realmente parte dello spazio pubblico,  che se 

vissuto   come   luogo   di   transito,   come   sembra   accadere   nella   città 

contemporanea,   non   suscita   alcun   interesse   d’intervento   partecipativo. 

Dunque   uno   strumento   come   quello   del   laboratorio   non   trova   facile 

legittimazione da un punto di vista sociale se non in determinati particolari 

contesti. Difatti, crediamo che rispetto alla vecchia città industriale dove il 

quartiere   caratterizzava   in   maniera   totalizzante   la   vita   dei   suoi   abitanti 

essendo   il   luogo   della   residenza,   del   lavoro   e   della   socialità,   la   città 

contemporanea rideclina il significato di tali  spazi. Nella nuova città  vi è 

una   dislocazione   degli   interessi   che   prescinde   dal   luogo   di   residenza   e 

rifluisce in contesti privati. Il carattere identitario del vicinato è andato via 

via  sgretolandosi   lasciando spazio  alla  “città  dei   flussi”:  spazio  pubblico 

inteso punto di transito e connessione e il cui valore aggiunto, invece che 

opportunità di socialità diffusa (come poteva essere nel ‘vecchio quartiere’, 

ad esempio), si esprime nel rapporto quantità  tempo risparmiato – qualità 

attività offerte.

Tuttavia per non rimanere ad un grado di astrazione troppo alto si è deciso 

di analizzare il caso specifico del laboratorio di urbanistica partecipata della 

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Bolognina.   Qui   abbiamo   potuto,   con   gli   strumenti   sociologici   e   tecnici 

sviluppati nei primi due capitoli, attuare un’interessante ricerca sul campo. 

Attraverso la lettura di tutti i documenti redatti durante quest’esperienza ci 

siamo ritrovati  di   fronte ad un caso particolarissimo per   la  possibilità  di 

riprogettare una vastissima zona che si trova al centro della trasformazione 

urbana   di   Bologna   e   fulcro   di   quella   che   sarà   la   sua   rivoluzione   della 

mobilità   pubblica   e   dove   appunto  gli   amministratori   si   stanno  giocando 

l’internazionalità della città. Qui, grazie ad uno straordinario tessuto sociale, 

si   è   attivato   un   percorso   dal   basso   di   contrapposizione   al   continuo 

susseguirsi   di   progetti   che   non   tenevano   in   considerazione   le   differenti 

richieste   che   invece  gli   abitanti   coltivavano.  Qui   in  un  certo   senso  si  è 

scardinato il consueto paradigma del partenariato tra pubblico e privato che 

ha sempre caratterizzato la formazione degli spazi della città. 

I laboratori potrebbero dunque aprire una nuova prospettiva all’urbanistica 

ma devono fare prima di  tutto  i  conti  col significato sociale  attribuito  di 

volta in volta agli spazi: una pratica di questo tipo deve essere infatti calata 

nel contesto e in base ad esso modellata, non passibile di regolamentazioni 

aprioristiche.

In   un   futuro   in   cui   la   maggior   parte   della   popolazione   mondiale   vivrà 

sempre   più   nella   città   bisognerà   seguire   con   attenzione   i   processi   di 

formazione   di   questi   spazi   in   relazione   alla   loro   continua   evoluzione 

semantica. Il problema della rappresentatività si evidenzia da una parte nel 

disinteresse  delle   amministrazioni  nei   confronti  delle   esigenze  pubbliche 

degli abitanti e dall’altra dal disinteresse di questi ultimi nella designazione 

degli   spazi   pubblici.   A   questo   proposito   è   interessante   notare   come, 

parallelamente   alla   diminuzione   dell’incidenza   ‘cittadina’   in   ambito 

pubblico,   l’architettura   degli   interni   si   sia   profondamente   sviluppata 

riempiendo   i  nostri   appartamenti  di   comfort  e   tante  piccole   teconologie, 

quante possano rispondere alle più svariate esigenze quotidiane.

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1974, La questione urbana, Venezia, Marsilio Editori

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SITOGRAFIA:

­ http://www.comune.bologna.it/laboratoriomercato/

­ http://www.eddyburg.it

NORMATIVA:

­ Piano Regolatore generale 1985­89 del comune di bologna

­ Piano Strutturale Comunale con delibera del Consiglio Comunale di 

Bologna n. 157 del 16/07/2007

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Ringrazio il sistema bibliotecario del polo Bolognese per avermi permesso di possedere qualcosa senza averlo mai avuto e dunque di significare 

qualcosa senza essere nessuno.

Un altro ringraziamento vorrei farlo a chi ha scelto di stampare in fronte retro la propria tesi e qualsiasi scritto da lui redatto, attutendo così l’impatto 

ambientale causato da migliaia e migliaia di fogli sparsi per tutto il mondo accademico.

Un ringraziamento a Bologna e alle sue bici.

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ALLEGATO

Intervista a Giovanni Ginocchini

27.02.2008Intervista a:Giovanni GinocchiniArchitetto,   si   occupa   di   urbanistica,   partecipazione,   comunicazione. Collabora con il Dipartimento Architettura e Pianificazione del Politecnico di Milano. Partecipa alla redazione della rivista internazionale “planum.net”. Dal 2005 è consulente del comune di Bologna. Ha coordinato le attività del Laboratorio Mercato.

Che significa istituire un laboratorio? Qual è il ruolo del facilitatore?

Nel caso dell’ex­mercato l’istituzione del  laboratorio significa proprio un atto formale del comune di Bologna che, attraverso un atto di giunta e di consiglio, ha dato forma istituzionale a questo laboratorio specificando tutta una serie d’indirizzi e di compiti. Diversi sono i motivi per cui aveva senso istituirlo da un punto di vista formale. In realtà un laboratorio non sempre nasce   da   questi   presupposti:   avvolte   ci   sono   laboratori   che   hanno   una formalizzazione più blanda e dove magari è il quartiere che li formalizza attraverso un proprio atto, o, come mi è capitato, vi sono casi in cui non vi è nessuna   formalizzazione   vera   e   propria,   dove   l’atto   volontario   da   parte dell’amministrazione,  o  di  un gruppo  tecnico,  non presupponeva un  atto amministrativo formale. Nel caso dell’”ex­mercato”, a mio modo di vedere, è un valore aggiunto che questo   luogo   di   discussione   fosse   riconosciuto   a   tal   punto   d’avere   una formalizzazione con un atto di giunta. Poi   c’è   anche   tutta   una   tradizione  di   laboratori   che  non  prevedono  una partecipazione diretta dell’amministrazione, avvolte ci sono stati laboratori che nascevano su impulso dell’università piuttosto che di altri soggetti e che vedevano nell’amministratore una controparte. 

Questo laboratorio come nasce?

Questo   laboratorio   nasce   su   richiesta   e   su   spinta   del   quartiere   ma, soprattutto da questo coordinamento di rappresentazioni. Nasce dal basso. La   sua   particolarità   è   che   viene   istituito   anche   formalmente dall’amministrazione   che   ne   fa   strumento   di   governo   e   luogo   di progettualità.

Tu ricoprivi il ruolo di “Facilitatore”? Che cos’è un “Facilitatore”?

La definizione di “Facilitatore” non è esaustiva, e in realtà il nostro ruolo, oltre   che  di   facilitazione,  è   stato   anche  di   progettazione  del   percorso   e 

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quindi  di   suggerimento  dei   tempi,  delle  modalità   e  degli   strumenti,   non escludendo di volta in volta di indicare eventuali deviazioni e possibilità per cambiare   in   corsa   le   modalità   di   lavoro.   Di   solito   “Facilitatore”   viene definito colui che all’interno di un gruppo di lavoro ha il ruolo di facilitare la   discussione,   ma   qui   c’è   stato   anche   un   ruolo   di   coprogettazione   del percorso,   sia   con   la   associazionismo   che   con   il   quartiere   e   con l’amministrazione.

Si trattava anche di mediare i diversi linguaggi.

Sì,   il  “Facilitatore” doveva mediare all’interno dei gruppi di  lavoro e,  in particolar modo, doveva farsi carico della compresenza dei diversi registri linguisti   dei   soggetti:   il   linguaggio   tecnico,   il   linguaggio dell’amministratore,   il   linguaggio   politico   e   il   linguaggio   dei   semplici abitanti.   Questi   ultimi   avevano   al   loro   interno   sia   partecipanti   con competenze alte, sia altri che per la prima volta affrontavono questo tema. La  mediazione  più   forte   è   quella   fra   tecnici   e   non   tecnici,   però,   anche all’interno  dei  diversi  gruppi  era  necessaria  un’operazione  di  mediazione ulteriore. Questo è un modo di lavorare per far sì che in gruppi compositi tutti abbiano la possibilità di dire la propria e gli altri di ascoltarla. Questo è il senso del lavoro.

Qual’era la composizione dei partecipanti all’interno del laboratorio? Quale sono state le dinamiche interne? 

La composizione era molto varia. Erano presente moltissime associazioni diverse tra loro: dai gruppi parrocchiali  al  collegio costruttori,  dal centro sociale   ex­mercato  24   al   centro  per   anziani,   e   infine   anche   i   sindacati. Quindi,  gruppi  molto  differenti   tra   loro,  ma  uniti,   attraverso   il   comitato “fuori le mura”, dall’idea di ripensare insieme il progetto per quest’area così vasta. Erano molti  anche i singoli cittadini che grazie al lavoro di questo comitato si sono sensibilizzati a questa problematica e con piacere hanno aderito al laboratorio. 

Il   collegio   costruttori   edili   della   provincia   di   Bologna   che   ruolo   a giocato all’interno del laboratorio?

Innanzitutto   quello   di   attento   osservatore,   e   non   tanto   per   interessi immediati, dato che comunque l’area era in parte pubblica e in parte della cassa   di   risparmio,   quanto   piuttosto   come   interessato     alle   attuazioni seguenti, quindi al progetto. In realtà forse anche un po’ curioso di capire che tipo di dinamiche generava una discussione organizzata in quel modo. Alcuni costruttori  hanno continuato a partecipare fino alle ultime fasi del laboratorio. Il loro contributo avvolte è stato quello di singoli costruttori che mettevano in luce alcune questioni a loro più care, ad esempio, uno di loro, nella  parte   finale  del   laboratorio,  si   interessò  a capire  come si  potessero mantenere gli  standard di sicurezza richiesti  dal mercato oggi.  Lo spazio pubblico, infatti,  sappiamo essere una ricchezza ma che comporta sempre 

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più   una   serie   di   problematicità   notevoli,   in   particolare   in   fase   di progettazione e di fruibilità futura di questi spazi. I costruttori erano molto interessati al tema del nuovo modo di costruire, il tema dell’energia etc.Interessati anche alla forma finale che avrebbe preso questo comparto, che di fatto è uno dei più importanti e dove si costruirà di più a Bologna nei prossimi  cinque anni.   Infatti,  prima  che   le  operazioni  previste  nel  piano strutturale, quelle della zona del mercato e dell’ex­lazaretto sono le sole due aree del vecchio piano regolatore che ancora devono essere sviluppate, e che dunque rappresenteranno il business dei privati nei prossimi anni. 

La rigenerazione  dell’ex  mercato  è   inquadrabile   in  un  progetto  più ampio di allargamento del centro città oltre la cinta muraria. Questo potrebbe   comportare   il   rischio   che   la   riqualificazione   di   tale   aria aumenti   il   valore   economico   della   zona,   stravolgendo   così   il   tessuto sociale della Bolognina. Vi è secondo lei questo rischio? Non dobbiamo temere future manovre di “gentrificazione”? 

Questo è uno dei temi più interessanti da trattare d’ora in poi. L’esperienza del   laboratorio   è   interessante   perché   si   sono   verificate   una   serie   di circostanze che non sempre si verificano: un tessuto sociale molto attivo e partecipativo, un interesse a sperimentare da parte delle amministrazioni e dei progettisti, un area dalle caratteristiche molto particolari, in parte libera e in   parte   con   delle   pre­esistenze   interessanti,   con   una   storia   dietro interessante. Sulla Bolognina è utile dire due cose: Una, che la Bolognina è già   stravolta  nei   fatti,   il   quartiere   industriale,  popolare  e  produttivo  non esiste   più.   Esiste   una   parte   di   città   la   cui   popolazione   è   cambiata radicalmente,  e che cambia in continuazione.  Io abito lì  e vedo come, di fatto, la presenza delle nuove popolazioni migranti,  il ricambio fortissimo della   popolazione   anziana   che   viene   sostituita   perlopiù   da   giovani   in particolare studenti, siano il sintomo di un cambiamento forte e dinamico che va governato ma senza  la  nostalgia  di  un quartiere  operaio  che non esiste  più.   Il   fatto  che nel   futuro possa arrivare  una popolazione  con un tenore di vita più alto, che si potrà permettere di comprare le case della parte privata del progetto, a prezzi anche piuttosto alti, io la vedo come un aspetto positivo che diversifica anche dal punto di vista sociale  questo quartiere. Bisogna capire però come possa convivere con la parte di edilizia sociale che   è   prevista   in   buona   parte   della   zona   del   mercato,   che   andrà   ad aumentare così anche quella già esistente nel quartiere. Non a caso uno dei principali problemi che aveva il vecchio piano era quello di creare una zona che un po’ si proteggesse da quello che aveva intorno, per varie ragioni. Sicuro è, però, che questa è un po’ la tendenza che l’operatore privato ha in questa fase, cioè quella di costruire delle enclavi, proprio perché è questo quello  che gli  chiede il  mercato:  posti  sicuri,   telecamere e  in casi   limite anche   i   vigilantes.   Il   mercato   chiede   piccole   zone   protette,   e   il   nuovo progetto della zona è invece sicuramente opposto a questa logica. Ciò può creare  anche  dei  problemi,   e   tutti  noi   che  abbiamo  partecipato  a  questa esperienza   siamo   un   po’   preoccupati     di   capire   come   tutti   questi   spazi 

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pubblici   saranno   gestiti   e   vissuti,   e   se   ci   sarà   qualcuno   che   poi effettivamente si prenderà cura o meno. È un po’una scommessa. Questi sono i due aspetti rilevanti: uno, la Bolognina è già cambiata ed è proprio in fase di rielaborazione totale. Due, il fatto che lì ci sarà edilizia sociale e non si andrà a costruire un quartiere per ricchi come se fosse un enclave, ma piuttosto si cercherà di sperimentare la “mixité”, nella speranza di farcela. Il problema della “gentrificazione” c’è tutto, però qui a Bologna meno forte che in altre parti dell’Europa. Difatti il nostro centro storico è ancora abitatissimo sia di famiglie che di gente che va a lavorare. In altre città d’Europa il centro storico è diventato turismo, uffici e studenti, ed è per questo che lì non ci sono i conflitti che abbiamo noi in alcune zone, dove vi è   ancora  questa   convivenza  positiva   tra   chi   abita,   tra   chi   viene  qui   per studiare e chi viene qui per lavorare. Le   politiche   che   si   fanno   adesso   a   Bologna   sono   attente   a   limitare   il fenomeno  della   “gentrificazione”.  L’idea  che   si  vuole  praticare  è   quella della “mixité”, vista anche come un antidoto alla “gentrificazione”. Certo è che una riqualificazione ha delle sue conseguenze. Quando in Inghilterra abbiamo presentato il nostro laboratorio, nell’ambito del progetto europeo ”Grow”, alla fine di questa presentazione un manager di una agenzia di sviluppo pubblica inglese mi ha detto che questa cosa era molto interessante,  e che se un area di quel genere, così posizionata, con quel tipo di infrastrutture che si vanno a realizzare lì intorno fosse stata in Inghilterra, la domanda che un amministratore si sarebbe fatta è: investo su quell’area   soldi  miei   affinché   quell’area  possa  contribuire  a   chi  ci   abita intorno   oppure   su   faccio   una   grande     operazione     immobiliare   che   mi permetta di far scendere le tasse a tutti i cittadini Bolognesi? La sua scelta sarebbe stata sicuramente la seconda. Effettivamente il comune aveva lì un patrimonio enorme, un ottima posizione e una superficie vastissima. Uno poteva dire: “faccio tutta edilizia privata, la sfrutto al massimo e con quei soldi calo le tasse o faccio qualsiasi altra cosa”, e in questo senso avremmo avuto un operazione di “gentrificazione” potente e che sicuramente avrebbe avuto anche un vantaggio dal punto di vista dell’immagine rispetto a tutta la città. Adesso la campagna elettorale e tutta sulla diminuzione delle tasse e con un beneficio finanziario del genere esso avrebbe potuto far tante altre cose, mentre qui si è scelta una strada diversa.

Come si pone l’esperimento del laboratorio nel quadro italiano? 

Le due città che più hanno sperimentato su questo tema sono state Torino e Roma. Bisognerebbe valutare i risultati di questa stagione intorno alla metà degli anni ’90. Torino ha avuto una lunga storia che ancora continua con i “contatti di quartiere”, con il progetto “Urban”e con l’istituzione del “settore periferie” dentro il comune che si è proprio occupato di queste cose. Idem a Roma dove si abbiamo l’  “OSPEL”. Queste due sono le città  che hanno fatto   del   laboratorio   uno   strumento   di   azione   di   governo   abbastanza consolidato. Poi ci sono altre piccole esperienze sparse per l’Italia. Anche in Europa   la   tradizione   è   precedente   a   Bologna,   soprattutto   nel   mondo anglosassone,   in   particolar   modo   in   Inghilterra.   Da   segnalare   sono   le esperienze  francesi  e  quelle   tedesche.   In  Germania  il  ministero  ha avuto 

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proprio una linea di finanziamento in merito, e Berlino ha vissuto un lungo periodo in cui ha realizzato esperienze del genere sotto il nome di “quarter management”.   Possiamo   tranquillamente   dire   che   in   Europa   sono   state diverse le esperienze in questi anni. Qui a Bologna ci avvantaggiamo anche di queste esperienze fatte dagli altri, che ci hanno permesso di evidenziare anche le debolezze di questo strumento.Però,   nonostante   la   storia   dei   laboratori   sia   abbastanza   corposa, probabilmente nessuno ha mai fatto una cosa del genere su un intervento così importante e così imponente come quello dell’”ex­mercato”.

Quali sono generalmente gli ostacoli alla partecipazione? Il caso dell’ex­mercato non rappresenta comunque un eccezione?

Noi abbiamo anche esperienze molto meno intense di quella del ex­mercato, sia dal punto di vista della quantità di persone partecipi sia della qualità del contributo che ne viene. Ci sono alcune difficoltà tipiche in questo tipo di strumento   dove  è   l’amministrazione   a   proporti   il   laboratorio   e   non  una esperienza   che   nasce   direttamente   dal   basso.   Di   solito quest’amministrazione ha avuto l’accortezza di lanciare questi  progetti   in situazioni in cui c’erano già dei soggetti interessati ad interagire in questi termini. Ma c’era comunque una difficoltà di comunicazione: bisognava far passare il messaggio per cui il cittadino poteva partecipare veramente, e che la sua voce sarebbe stata presa in considerazione. Diciamo che la sfiducia di fondo nel rapporto tra cittadini e istituzioni emerge spesso.

Nonostante ciò, sotto questo aspetto, Bologna resta comunque un isola felice rispetto al resto d’Italia. 

Infatti   poi   facciamo   delle   cose   belle,   ed   io   devo   dire   che   mi   diverto moltissimo   a   fare   questo   lavoro.   Ho   avuto   l’opportunità   di   conoscere persone motivate, di gran generosità, che spendono un sacco di tempo della loro vita per fare attività volontaria e che sono innamorate del loro territorio e della gente che ci vive. Sicuramente a Bologna rispetto al resto d’Italia c’è un   grado   d’interazione   molto   alto,   ciò   non   cambia   che,   comunque,   la sfiducia di fondo resta sempre. L’altro tema, intrecciato al precedente, è quello di riuscire a dare risposte all’altezza delle domande che ti vengono poste, e questo è dovuto al fatto che i cittadini spesso vedono la macchina amministrativa come un tuttuno, mentre   in   realtà   essa   è   molto   settorializzata   ed   è   quindi   difficile   dare risposte a 360 gradi. Puoi riuscire a dare risposte efficaci solo su questioni di cui ti occupi da vicino ma generalmente le domande hanno una portata che   interessa   vasti   ambiti   della   macchina   governativa.   Un   altro   tema   è quello  del   tempo,  nel  senso che   i   tempi  delle  amministrazioni  non sono quelli dei cittadini.   E a sua volta i tempi delle trasformazioni urbane sono proprio   all’opposto   rispetto   ai   tempi  dei   cittadini,   ed  è   qui   che  bisogna capirsi e essere chiari sin dall’inizio. Un   altro   aspetto   è   che   avvolte   le   richieste   sono   diverse,   ed   è   molto importante far chiarezza sin dall’inizio:  dire cos’è   in gioco e cosa no.  Il cittadino   non   può   pensare   di   decidere   tutto   lui   perché   l’amministratore 

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spesso ha una serie di vincoli finanziari, di questioni già approvate e dunque non più negoziabili. Soprattutto all’inizio è importante accordarsi su quali sono   gli   spazi   della   discussione.   E   avvolte   una   parte   di   persone potenzialmente   interessate   le   perdi   proprio   perché   non   ritengono sufficientemente  ampi gli  spazi  di  contrattazione.  Una parte  del  lavoro è stata proprio quella di dire che tutto parco non era possibile. E lì sta anche nella disponibilità  delle persone a mettersi  in gioco e vedere cosa si può fare. 

Quali sono i vincoli finanziari principali per un’amministrazione?

Il   costo   delle   opere,   ma   anche   i   contratti   già   siglati   che   non   possono rischiare di essere stracciati;  le faccio un esempio: nella vicenda mercato una parte di persone voleva metter in discussione la presenza in quell’area della sede unica del comune, un progetto che al momento della nascita del laboratorio aveva già avuto un contratto siglato e un “project financing” già studiato, e la cui rinuncia avrebbe comportato per la amministrazione una grossa multa. L’amministrazione ha scelto in questo caso di non mettere in discussione quest’opera.

Lo strumento del laboratorio si è ormai formalizzato a Bologna?

In questa fase diciamo che ha raccolto un interesse sia dell’amministrazione, sia   dei   quartieri,   sia   dell’associazionismo.   Io   penso   che  poi,   a   un   certo punto, potranno esserci anche strumenti e modalità  diversi, e credo anche che la cosa importante e che si cominci a pensare affinché  il  dialogo fra amministratori,   cittadini   e   tecnici,   perché   a  me   interessa  molto   anche   la componente   tecnica­progettuale,   sia   fruttuoso   e   non   solo   di contrapposizione o di protesta. Poi, è chiaro che, se non si elimineranno tutti conflitti  e che se certe  posizioni  rimarranno inconciliabili,  questo tipo di modalità di lavoro non è una panacea per tutti i mali. Però si può fare. Del resto   si   fa   in   tutta   Europa   e   gli   stessi   documenti   dell’Unione   Europea propongono i processi inclusivi come una delle modalità per governare la città. Non è che ci siamo inventati niente. 

A che punto è il progetto?

Questo è interessante. L’attuale fase è la seguente: la parte privata è stata venduta dalla banca ad un attuatore che è il gruppo Val d’Adige. Questi ha comprato l’area e quindi anche i diritti per edificare su quest’area. La cosa particolare è appunto che si sia aggiudicata questa gara con prezzi piuttosto elevati. Questo ci riporta al problema che dicevamo all’inizio: le case della parte   privata   costeranno   parecchio.   Comunque,   la   Val   d’Adige   avrà   il compito  di costruire  e organizzare   le  opere di urbanizzazione  primarie  e dunque   della   costruzione   del   parco   e   delle   strade   che   poi   rimarranno pubbliche. Per la parte pubblica il comune ha fatto un bando, che inizialmente ha avuto qualche problema, ma che infine è stato aggiudicato. Si prevede anche lì  di 

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partire a breve. Nella parte pubblica ci sarà una piccola parte di edilizia a prezzo di mercato, una parte di edilizia a prezzo convenzionato e una parte di   puro   affitto.   Questo   fa   parte   delle   politiche   che   l’amministrazione dall’inizio   aveva   messo   in   chiaro,   ovvero   quella   di   aprire   una   nuova stagione di edilizia sociale a Bologna perché  il  problema della casa è un problema   reale   e   quindi   l’amministrazione   s’impegnava   a   promuovere nuove case a basso prezzo, assolutamente al di fuori dei prezzi del mercato destinate a giovani e a persone che non si possono permettere, in una fase della loro vita, di pagarsi un affitto a prezzi di mercato. Questo è un segnale di attenzione da parte dell’amministrazione per limitare la “gentrificazione”, attraverso   l’idea   che   lì,   accanto   ad   un   area   privata   venduta   a   cifre astronomiche il pubblico non ha speculato ma ha promosso proprie politiche che sono quelle delle case sociali, del verde e dei servizi pubblici, lontano da  una   logica  di  puro  profitto  o  puro  bilancio.   In   Inghilterra   avrebbero sicuramente fatto in modo diverso.Un altra cosa che sta andando avanti è tutto il tema infrastrutturale attorno all’alta velocità e la nuova strada dell’asse nord­sud. 

L’urbanistica può occuparsi della coesione sociale?

Secondo me se ne deve occupare, però sapendo bene quali sono i suoi limiti, poiché altrimenti è molto rischioso. Quando l’urbanista ha voluto progettare pensando   di   governare   anche   le   relazioni   sociali   ha   fatto   dei   disastri spaventosi, ad esempio le vele di Napoli. Si possono fare alcune cose, ma solo alcune. 

Quali sono gli strumenti dell’amministrazione nel rapporto coi privati? L’urbanistica   avvolte   ha   anche   dei   problemi   di   strumentazione   e   di legislazione. Adesso ci siamo inventati questa cosa della perequazione, un metodo alternativo all’espropriazione. Gli enti pubblici, avendo problemi di soldi, attuano le loro politiche costruendo dei meccanismi per cui il privato, quando fa un operazione deve cedere in cambio una serie di possibilità che non sono solo gli standard, ma che possono essere anche delle aree, oppure, altre  opportunità.   Il  nuovo piano strutturale  prevede  la  possibilità  che   le amministrazioni  possano  farsi  cedere  da  un proprietario  privato  un area, concedendogli in cambio i diritti di edificazione  da un'altra parte. Tutti dei meccanismi affinché non si imponi al privato ma, gli si diano le possibilità di fare i suoi utili  acquisendo in cambio dei beni per l’ente pubblico. Lo strumento  della  perequazione  c’è  nelle   leggi   regionali  ma  non  in  quelle nazionali. In teoria questa è un arma un po’ spuntata. 

Il  tema più   importante per la città  del futuro è  il  fatto che sia   una città accogliente, in grado di offrire tante possibilità diverse e quindi possibilità per stili di vita diversi, culture diverse e anche modi di lavorare diversi e quindi secondo me la sfida più importante è quella di attrezzarsi per avere dei luoghi interessanti e capaci di assolvere a delle richieste,  che sono le nostre e sono molto esigenti. 

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