la porta del mare

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In un paesino sul mare ha inizio la vicenda di Giuseppe, un ragazzo come tanti, che sceglie di abbandonare la sua terra per andare a studiare a Milano. Sognatore, sensibile e romantico, Giuseppe affronta la vita con la leggerezza e l’inquietudine dei suoi vent’anni, che lo portano a compiere delle scelte che modelleranno per sempre la sua esistenza. Finché un destino cinico e inesorabile lo costringerà, in una sorta di resa dei conti, a intraprendere un viaggio alla ricerca di se stesso. Un romanzo leggero e drammatico nello stesso tempo, caratterizzato da un ritmo veloce e compatto.

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DESCRIZIONE:

In un paesino sul mare ha inizio la vicenda di Giuseppe, un ragazzo come tanti, che sceglie di abbandonare la sua terra per andare a studiare a Milano. Sognatore, sensibile e romantico, Giuseppe affronta la vita con la leggerezza e l’inquietudine dei suoi vent’anni, che lo portano a compiere delle scelte che modelleranno per sempre la sua esistenza. Finché un destino cinico e inesorabile lo costringerà, in una sorta di resa dei conti, a intraprendere un viaggio alla ricerca di se stesso. Un romanzo leggero e drammatico nello stesso tempo, caratterizzato da un ritmo veloce e compatto.

L'AUTORE:

Francesco Rago è nato a Castel San Giovanni (PC) nell’agosto del 1979. Nel 2003 si è laureato in Scienze dell’Educazione, con indirizzo di esperto nei processi formativi. Attualmente si occupa di formazione professionale presso una società del settore. “La porta del mare” è il suo romanzo d’esordio.

Titolo: La porta del mare Autore: Francesco Rago

Editore: 0111edizioni Collana: SelezionePagine: 172 Prezzo: 13,20 euro

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LA BANDA DEL BOOKO (CHE SI LEGGE BUCO)

ANONIMA SEQUESTRI ovvero PERSONAGGI RAPITI

Hai un amico scrittore e vuoi fargli uno scherzo o un dispetto, oppure vuoi "vendicarti" per qualcosa ma non hai ancora trovato il sistema per "fargliela pagare"? RAPISCIGLI un personaggio e fallo rivivere in un tuo racconto, poi chiedi il riscatto all'autore: se paga, il suo personaggio ne uscirà indenne, altrimenti MORIRA'!

Se fra i libri che hai letto c'è un personaggio che ti ha particolarmente colpito e che ti è rimasto impresso per qualche motivo, puoi unirti alla Banda del BookO ( che si legge Buco) per un'IMPRESA A DELINQUERE assolutamente fuori dal comune: RAPISCI IL PERSONAGGIO, TIENILO IN OSTAGGIO E CHIEDI UN RISCATTO. Per rapire un personaggio è necessario renderlo protagonista di un racconto con DUE FINALI, uno a lieto fine e uno tragico (il personaggio MUORE!). Verrà reso pubblico un solo racconto, in base all'esito della richiesta di riscatto: se l'autore paga, il finale sarà "lieto", altrimenti il personaggio farà una tragica fine. Non ti senti abbastanza "scrittore" per buttare giù un racconto? Non fa niente! Rapisci ugualmente un personaggio: se l'autore del libro da cui lo hai rapito non pagherà il riscatto, daremo la notizia dell'uccisione della vittima. Se invece pagherà... bé, a morire sarai tu (ossia il bandito), durante il bliz di liberazione.

TUTTI I RACCONTI VERRANNO PUBBLICATI IN ANTOLOGIA

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Francesco Rago

LA PORTA DEL MARE

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www.0111edizioni.com

www.ilgiralibro.com

LA PORTA DEL MARE 2008 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2009 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2009 Francesco Rago

ISBN 978-88-6307-190-0 In copertina: immagine shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Maggio 2009 da Digital Print – Segrate (MI)

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"Uomo libero, amerai sempre il mare! Il mare è il tuo specchio: contempli

la tua anima nel volgersi infinito dell'onda che rotola e il tuo spirito è un abisso altrettanto amaro."

Charles Baudelaire

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Questo romanzo è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avveni-menti sono il frutto dell’immaginazione dell’autore. Qualsiasi riferimento a fatti, luoghi, persone esistenti o esistite, è puramente casuale.

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In un certo senso ho sempre pensato di appartenere al mare.

Alle sue immense profondità, al fascino e al mistero delle sue acque. Alla bellezza del suo colore. Forse perché ci sono nato e cresciuto in un posto di mare. Mi chiamo Giuseppe e vengo da un piccolo paese della Sicilia, vicino a Pa-lermo. Mia madre è insegnante d’italiano alle scuole medie, mentre mio padre ha sempre fatto il pescatore. Io ho preso un po’ da tutti e due, infatti, se è vero che ho amato il mare fin da subito, anche le letture sono da sempre una mia grande passione. Da ragazzino mi piaceva andare a pesca con mio padre, mi sembrava di es-sere il padrone delle acque su quella barchetta sgangherata. Restavamo per ore a farci cullare dal costante movimento delle onde e mio padre mi dava l’impressione di avere una forza incredibile, che si leggeva nei suoi lunghi silenzi e nel suo sguardo fiero. - Papà, da grande voglio essere come te - dicevo sempre. - No, tu non devi fare questa vita – mi rispondeva ogni volta. - Allora perché tu la fai? - . - Perché io non ho avuto le possibilità per fare altre scelte. Ma tu vedrai che ce le avrai – tagliava corto. Lui che per una vita intera ha fatto il pescatore ed è sempre rimasto in quel paesino in riva al mare. Tutte le mattine alle cinque a tirare su le reti e a but-tare giù le lenze. E quella puzza di pesce e di salsedine che non ti va più via dalla pelle, che ormai è parte di te. In inverno tutto quanto cadeva in letargo e gli uomini aspettavano l’arrivo dell’estate rintanati dentro a un bar.

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8 Francesco Rago

Io trascorrevo la maggior parte del mio tempo chiuso in casa a leggere tutti i libri che mia madre comperava o prendeva in prestito dalla biblioteca. Ben presto mi accorsi che questo mio passatempo rendeva particolarmente orgo-gliosi i miei genitori. - Antonio – ripeteva spesso mia madre – Vedrai che Giuseppe nostro, si prenderà una bella laurea e se ne andrà a stare su al nord - . Mio padre, uomo di poche parole annuiva soddisfatto – Dici bene Maria - . Io ho sempre avuto l’idea che gli inverni passassero tutto sommato veloci, lasciando in fretta il posto alle dolci estati, quando la gente si svegliava dal suo torpore, pronta ad accogliere l’arrivo dei turisti che erano attirati dalla nostra terra come le api dal miele. E allora tutti si davano da fare, c’era chi affittava camere, chi apriva un chiosco vicino alla spiaggia, chi vendeva i prodotti della nostra terra ai bordi delle strade, chi andava a vivere in una baracca per affittare il proprio appartamento. Mio padre usciva in barca la mattina molto presto, quando fuori c’era ancora il buio della notte e rientrava con il sole già alto, per vendere il pesce fresco al mercato, alle pescherie oppure ai ristoranti. Anche noi ragazzini non vedevamo l’ora che arrivasse l’estate per poter gio-care tutto il giorno in riva al mare. Ci piaceva andare in una spiaggia che avevamo scoperto noi, lontana dal centro, poco frequentata dai turisti perché poco accessibile, nella quale a po-chi metri dalla riva c’era uno scoglio stretto ma molto alto, con al centro un buco rettangolare che lo faceva assomigliare ad una porta. Tutti i giorni, all’insaputa dei nostri genitori, ci avventuravamo con la bici-cletta giù per un sentierino e poi proseguivamo a piedi. Con la nostra fantasia c’eravamo immaginati che quello scoglio così regola-re, ma al tempo stesso con quella forma tanto strana, fosse la porta d’ingresso per accedere del mare. Lo ribattezzammo subito: la porta del ma-re. L’acqua era ancora bassa in quel punto e noi facevamo a gara per raggiunge-re quello scoglio e arrampicarci sopra quell’ampia fessura. A volte facevamo i tuffi, altre volte stavamo seduti con le gambe a penzolo-ni a farci accarezzare dalla schiuma delle onde, come se fossimo sospesi sull’acqua. Poi l’estate passava e la porta del mare rimaneva sempre lì, piantata sul fon-do, ferma immobile, qualsiasi cosa potesse succedere.

***

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Insieme al ritmo incalzante delle stagioni erano i miei anni che volavano via velocemente e ben presto, quasi senza accorgermene, mi ritrovai a frequen-tare il liceo classico di Palermo. In quel periodo i viaggi in corriera, da casa verso scuola e viceversa, segna-vano il ritmo delle mie giornate. A scuola conobbi Marco il mio compagno di banco, che mi trasmise la sua passione per la chitarra. Un giorno andai a casa sua per preparare una versione di greco e, dopo un po’, lui tirò fuori la sua chitarra dalla custodia e incominciò a suonare un pezzo di Lucio Battisti. Ne rimasi molto affascinato. - Posso provare? – gli domandai. Mi sembrò bellissimo tenere tra le mani uno strumento, che emetteva dei suoni a seconda di come muovevo le dita. Mi misi in testa di riuscire a suonarla. Fu così che, grazie all’aiuto di Marco, imparai a conoscere gli accordi e per Natale domandai ai miei genitori di poterne avere una in regalo. I miei mi accontentarono e così la chitarra divenne un altro interesse, oltre alle letture e allo studio, con il quale trascorrere le mie giornate adolescen-ziali. A mano a mano che il tempo passava e diventavamo più grandi, io e gli altri ragazzi del paese non aspettavamo più l’estate per andare a giocare in riva al mare, ma per incontrare le ragazze, che venivano a trascorrere le estati da noi con le loro famiglie. Allora ci recavamo alla nostra spiaggia, soprattutto alla sera, per organizzare dei falò. Portavamo qualche bottiglia di vino e un po’ di roba da mangiare e stavamo seduti per ore davanti al fuoco, a pochi metri dal mare, che di notte, non so perché, ma aveva un aspetto spaventoso. Forse per il buio nel quale era rac-chiuso. A guardare bene in mezzo all’acqua si intravedeva solo la porta del mare, quello scoglio a pochi metri da riva mi faceva subito ricordare come quel posto mi fosse così familiare. Io ero sempre il più richiesto ai falò perché me ne stavo tutto il tempo a suo-nare e a cantare, mentre i miei amici ne approfittavano per andarsi ad appar-tare con le ragazze che invitavamo. A me non importava molto, mi bastava bere un paio di bicchieri di rosso e stringere tra le mani la mia chitarra, ed ero contento così.

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Un’estate però conobbi una ragazza di Milano, aveva vent’anni, io diciasset-te. C’eravamo conosciuti un pomeriggio nel quale me ne stavo seduto alla spiaggia a provare qualche pezzo, rapito dall’azzurro del mare. Ormai quel posto era diventato il mio rifugio nel quale cercare un po’ di tranquillità. Credevo che non ci fosse nessuno nei paraggi, così mi ero lasciato andare ed avevo alzato un po’ troppo il volume del mio canto. - Complimenti. Sei bravissimo – all’improvviso sentii una voce femminile alle mie spalle. Mi girai e vidi una ragazza che mi fissava. - Grazie. Pensavo non ci fosse nessuno – risposi un po’ imbarazzato. - Continua pure, mi piace ascoltarti - . E così dicendo si sedette di fianco a me. Io ripresi a suonare e con la coda dell’occhio cercavo di osservarla senza che lei se ne accorgesse. Alla fine, dopo aver fatto conoscenza, decidemmo di darci appuntamento per il giorno dopo alla stessa ora e nello stesso posto e così facemmo per i giorni a seguire. Io arrivavo sempre un po’ prima e mi mettevo a strimpellare la chitarra fino a quando non la vedevo comparire, ed allora il cuore incominciava a batter-mi più forte, anche se io andavo avanti cercando di fare finta di niente. Mi ero preso una bella cotta per quella ragazza. Si chiamava Monica. Lei mi chiedeva sempre di suonare qualcosa, ed io allora, muovevo le dita agili tra le corde di nylon, cercando di non deludere le sue richieste. Poi, quando smettevo, iniziava a parlarmi ed io restavo in silenzio ad ascol-tarla, affascinato dalla sua bellezza e dai suoi modi di fare ai quali non ero abituato. Studiava giurisprudenza all’università, mi raccontava che un giorno sarebbe diventata avvocato, come suo padre. Le piaceva descrivermi la sua vita a Milano, fatta di incontri, amicizie, loca-li, serate e divertimenti. E mentre parlava si accendeva una sigaretta dietro l’altra. Era venuta in vacanza con il padre, la compagna del padre e il piccolo fratel-lastro. Da quello che mi diceva si stava annoiando molto e non vedeva l’ora di ri-tornare a Milano. Ed io non capivo come fosse possibile una cosa del genere. Guardai con la coda dell’occhio quell’affascinante distesa d’acqua e le dissi stupito – Ma qui c’è il mare, non ti accorgi di quanto è bello? - .

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- Beppe, a me piace il mare… – fece una lunga pausa. Durante quel silenzio pensai che mi faceva piacere essere chiamato Beppe, mi sembrava avesse un suono migliore. Qui tutti quanti mi chiamavano Pinu ed io fino ad allora non mi ero mai posto il problema, ma in quell’istante ca-pii che avrei voluto essere chiamato Beppe; per sempre. Poi Monica riprese il discorso - Ma oltre al mare non c’è nient’altro. La vita è troppo tranquilla, piatta, io sono abituata ad uscire la sera, qui mi annoio. E poi con quelle due palle al piede di mio padre e della sua compagna che con-trollano ogni mio movimento. Credimi, una vacanza insopportabile. Sono stata costretta a venire, altrimenti me ne sarei andata a Rimini con il Fede. Chissà che cosa starà combinando a quest’ora - . - Chi è il Fede? – le domandai un po’ ingenuamente. - E’ il mio ragazzo. Ci frequentiamo da quasi un anno. E’ iscritto anche lui alla mia stessa università, solo che è due anni avanti a me. Ci siamo cono-sciuti un pomeriggio in biblioteca - . E seguì l’intero racconto della loro travagliata relazione. Io continuavo ad ascoltare in silenzio cercando di mascherare la mia eviden-te delusione. - Lo sai cosa mi piace di te? – mi domandò lei. - No. Che cosa? – le chiesi io, con una certa curiosità. - Mi piace il tuo modo di fare, la tua gentilezza. Sei così diverso dai ragazzi che sono abituata a frequentare in città - . - Lo devo prendere come un complimento? - . - Sì, ti ho fatto un bel complimento. Inoltre se proprio vuoi saperlo ti trovo un ragazzo carino - . Diventai rosso come un pomodoro e abbassai istintivamente lo sguardo. Lei se ne accorse e mi disse sorridendo – Che c’è ti vergogni? Non te lo a-veva mai detto nessuna? - . - No, è solo che… - . Non feci in tempo a finire la frase che mi ritrovai le sue labbra sopra le mie. Chiusi gli occhi sforzandomi di non pensare a niente e quando poco dopo ci staccammo, mi sembrò quasi che mi girasse la testa. - E’ stato bello – commentò lei, come se si sentisse in dovere di dire qualco-sa. - Già – fu tutto quello che uscì dalla mia bocca, mentre sentivo lo stomaco spaccarsi in due per l’emozione. Decisi dunque di osare qualcosa di più e con un coraggio che ignoravo di poter avere, le chiesi – Senti, visto che alla sera ti annoi e non sai cosa fare,

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ti andrebbe se domani ti porto a fare un giro in barca? Potremmo fare una specie di pic nic? - . - Sarebbe fantastico – rispose lei con entusiasmo. - Allora siamo d’accordo. Ci vediamo domani sera alle sette e mezza giù al molo, dove mio padre tiene la barca – le dissi. - Perfetto. Tu porta i panini e qualcosa da mangiare, io penso alla roba da bere – aggiunse lei. E con un bacio d’intesa ci salutammo.

*** Il giorno seguente ero molto agitato e avevo come l’impressione che non vo-lesse mai arrivare la sera. Per tutto il pomeriggio rimasi chiuso nella mia camera a suonare la chitarra e quello era sicuramente il modo migliore per rilassarmi e sentirmi bene. Finalmente venne il momento tanto atteso ed io mi presentai all’appuntamento con un paio di boxer da bagno aderenti, una camicia di li-no anni settanta e un paio di occhiali da sole. Questi ultimi presi in prestito da un mio cugino che una decina di anni prima era stato in America, impor-tando qualche idea nuova per aprire un locale, un cappello bizzarro e i mitici Ray Ban a goccia. Mi sentivo molto figo conciato così. Sulle spalle portavo uno zainetto rovinato contenente due panini, quattro tramezzini, e un pacchetto di patatine. Aspettai più di mezz’ora sul molo, ma Monica non arrivava, così pensai che forse avesse cambiato idea e che magari al pomeriggio fosse venuta in spiaggia a cercarmi per dirmelo, ma io me ne ero rimasto tutto il giorno a casa. “Che scemo che sono stato” dissi tra me e me. Ormai erano passate le otto ed io decisi di tornarmene a casa con le pive in saccoccia, quando sentii una voce che mi stava chiamando. - Beppe, aspetta…sto arrivando - era Monica che mi correva incontro scon-volta e con aria stremata. - Che ti è successo? – le domandai. Lei prese un attimo fiato e mi disse – Scusa tanto. Mio padre mi ha beccato con qualche bottiglia nella borsa e non voleva farmi uscire, così sono scap-pata di casa - . Non fece nemmeno in tempo a finire la frase che, dall’angolo della strada in fondo, sbucò un signore di mezza età che correva goffamente, appesantito

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da un’evidente pancetta. Urlava come un forsennato – Monica!!! Torna su-bito qui – . - Merda! E’ lui – gridò spaventata Monica. Per un attimo rimasi fermo immobile senza sapere cosa fare, poi preso dall’adrenalina del momento dissi – Sbrigati, svelta - . La presi per un braccio trascinandola di corsa sopra la barca di mio padre, in un lampo staccai la cima e incominciai a remare a più non posso. Quando ormai avevamo già preso il largo ripresi fiato e mi misi ad osservare quella figura ridicola che andava su e giù per il molo continuando ad agitarsi senza darsi tregua. I pescatori della zona erano tutti voltati, intenti a guardare con curiosità quella scena grottesca. - Certo che tuo padre è uno che non molla - dissi. - E’ uno stronzo. Non gliene è mai fregato niente di me e adesso dopo tanti anni ha deciso che deve tornare a fare il padre - . Poi si alzò in piedi repentinamente e con una rabbia feroce iniziò a gridare – Vaffanculo! Vaffanculo! - . La barca prese a dondolare a destra e a sinistra e per un attimo pensai che saremmo finiti in mare. - Calmati, altrimenti ci ribaltiamo. E allora sono cazzi davvero – le dissi con fermezza. Per fortuna si calmò. Mentre continuavo a remare non potevo fare a meno di provare un senso di pietà nei confronti di quell’uomo, che in lontananza fissava il mare per scru-tare ogni nostra mossa. - Forse è meglio se ti riporto a terra – le dissi. - Non ci pensare neanche – mi rispose in un tono che non ammetteva repli-che. Dopo un breve tragitto raggiungemmo la nostra spiaggetta ed io legai la bar-ca alla porta del mare, che con la sua fessura era l’ideale per stringerci attor-no una fune. Ci sedemmo sulla sabbia vicino al bagnasciuga ed io preparai una coperta sulla quale appoggiare la roba da mangiare. Monica estrasse dallo zaino una bottiglia di vodka alla pesca ed un paio di birre, poi si accese una sigaretta. - Siamo in vacanza e continua a starmi addosso, non lo sopporto più. Farmi tutte queste storie per una bottiglia. Fortuna che non mi ha trovato le sigaret-te - . Quando stappammo le birre incominciammo ad essere più rilassati.

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- E’ stupendo – disse Monica osservando il tramonto che si affacciava sul mare. Scrutammo per un po’ l’orizzonte in silenzio, che a guardarlo da quel tratto di natura incantevole era ancora più bello. Poi rapidamente venne il buio e noi due restammo illuminati dal chiarore della luna che si rifletteva nel mare e che sembrava un gigantesco lampione fissato nel cielo. Tra un sorso di vodka e uno di birra, Monica mi raccontò ancora una volta della sua vita. Ma stavolta ne parlò in maniera diversa, più sincera, tirando fuori tutta l’amarezza che aveva dentro di sé. Mi parlò dell’università che le aveva imposto il padre, mentre lei avrebbe voluto studiare psicologia perché voleva diventare un’analista. Mi parlò del suo ragazzo che non la capiva mai abbastanza perché troppo preso da sé stesso. Mi parlò delle sue amiche trop-po false ed egoiste, che spesso la facevano sentire così sola. Mi parlò della sua famiglia che si era sfasciata diversi anni fa quando lei era ancora una ra-gazzina. Anch’io avrei voluto raccontarle un po’ di me, delle mie letture, dell’emozione che mi dava suonare la chitarra, delle serate trascorse al bar del paese, dei giri in barca con mio padre, dell’attesa dell’estate, dei momen-ti pensierosi vissuti in riva al mare. Ma probabilmente non avrebbe capito il mio mondo, come del resto io non capivo il suo. Così le dissi solo – Mi dispiace - . - Non è colpa tua. Non pensiamoci più – rispose lei afferrandomi la mano. Ci avvicinammo lentamente e ci baciammo con una passione diversa dal giorno prima. Io sentivo il suo profumo salirmi nelle narici, mentre con le mani le accarezzavo i capelli. Quasi senza pensarci le slacciai lentamente il costume, mentre lei era intenta a sfilarmi la camicia. Mi distesi sopra di lei e facemmo l’amore come se in quel momento fosse la cosa più naturale che si potesse fare. Accadde tutto molto in fretta. Per me era la prima volta, per lei no. Alla fine restammo sdraiati in silenzio a contemplare la luna sopra di noi ed io pensai a quante volte mi ero immaginato quel momento. Mi resi conto che, forse, la bellezza delle cose sta propria nell’attesa e nell’aspettativa che ci creiamo, piuttosto che nell’effettiva realizzazione. Stava iniziando a fare davvero freddo, così io e Monica, in silenzio, ci strin-gemmo e sorseggiammo un altro goccio di vodka per scaldarci. Ad un tratto sentimmo dei rumori dietro di noi.

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Ci girammo d’istinto e scrutammo nell’ombra una figura che era appena scesa dal sentiero, e che stava trascinando i suoi passi ormai stanchi verso di noi. - Vi ho beccati, finalmente – risuonò nella quiete della notte la voce incon-fondibile del padre di Monica. Sentii il cuore scoppiarmi nel petto. - E’ mio padre – strillò Monica, come se avesse appena visto un fantasma. - Presto. Corriamo sulla barca – le dissi con una certa concitazione. Rapidamente ci alzammo e percorremmo quei pochi metri che ci separavano dal mare. Sentii l’acqua fredda salirmi fino alle ginocchia e quando arrivai in prossi-mità della barca mi ci lanciai sopra senza pensarci troppo, poi afferrai per una mano Monica nell’intento di tirarla a bordo. Mentre ero affaccendato a slegare la fune sentii l’acqua muoversi vicino a noi e capii che il padre di Monica ci aveva ormai raggiunti. - Fermati, bastardo – gridò con rabbia. Mi voltai verso l’acqua sotto di noi e vidi il volto di quell’uomo, rosso pao-nazzo per lo sforzo che stava compiendo nel tenere con una mano la cima della barca e con l’altra l’estremità dello scoglio. Per un attimo lo guardai dritto in quei suoi piccoli occhi scavati all’interno di quel faccione rotondo e mi sembrarono talmente inespressivi da essere quasi ridicoli. Subito dopo però mi resi conto della situazione ed ebbi un rigurgito di paura, così afferrai i remi e incominciai a vogare come un disperato. Ad un certo punto sentii il mio remo destro sbattere contro qualcosa, provo-cando un rumore sordo. Ci fu un grido di dolore. - Oddio che hai fatto – fece Monica. Mi affacciai per verificare l’accaduto e mi accorsi di avere colpito diretta-mente alla testa quel povero disgraziato. Lo vidi immobile, piantato nel mare con il capo chino, mentre con le mani si toccava la ferita dalla quale stava uscendo parecchio sangue. Istintivamente pensai che la cosa migliore da fare fosse scappare, perché non appena quell’uomo si fosse ripreso, mi avrebbe certamente ammazzato. Alla fine prevalse il mio buon senso così scesi dalla barca e con l’aiuto di Monica lo trascinammo verso riva. Anche se c’era molto buio intorno si notava che il suo viso era molto pallido e a fatica teneva gli occhi aperti. - Gli da fastidio la vista del sangue – mi disse Monica.

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In qualche modo gli tamponammo la ferita con dei fazzolettini imbevuti di vodka, poi presi la barca e mi diressi a riva per chiedere soccorso. Poco dopo tornai con la guardia medica del paese, che gli applicò qualche punto di sutura e lo ricondusse a casa. Quando i miei genitori vennero a sapere dell’accaduto andarono a scusarsi con il signore, che per fortuna non volle sporgere denuncia. Per punizione rimasi chiuso nella mia camera per il resto dell’estate, così ebbi modo di leggere un bel po’ di libri, suonare la mia chitarra e riflettere sull’accaduto. Da quella sera in cui successe di tutto non vidi mai più Monica, anche se ci impiegai parecchio tempo a farmi passare la cotta che avevo preso per lei.

*** Finite le scuole superiori e diplomatomi con il massimo dei voti, scelsi di frequentare la facoltà di Lettere a Milano. Amavo così tanto la letteratura che non avevo dubbi sul fatto che mi sarebbe piaciuto fare l’insegnante. Non so di preciso perché decisi di andare a Milano, probabilmente per il ri-cordo ormai mitizzato di Monica e dei suoi racconti, ma anche perché ne a-vevo sempre sentito parlare come di un posto pieno di opportunità. Devo ammettere che per uno come me, abituato a stare in un paesino di un’isola del sud, non fu certo semplice scegliere di andare a vivere in città. E soprattutto a Milano, la metropoli italiana, il posto dove caos e frenesia ti risucchiano in un vortice continuo, dove la vita costa cara e il denaro la fa da padrone. Il giorno che lasciai il mio paese non scorderò mai le lacrime di mia madre che mi salutava commossa e lo sguardo fiero e orgoglioso di mio padre. A loro che non avevano mai lasciato quel paese, se non per il viaggio di nozze a Ischia, sembrava una cosa incredibile che io me ne andassi a stare così lon-tano. Erano tristi per la mia partenza, ma al tempo stesso contenti per l’opportunità che la vita mi stava regalando. Io ero per lo più curioso di intraprendere questa nuova fase della mia esi-stenza. Mi sentivo grande abbastanza per superare le difficoltà che parenti e amici mi prospettavano ogni volta che dicevo loro che sarei andato a studia-re a Milano.

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In fondo ho sempre pensato che nella vita non ci sia niente di peggio che farsi condizionare, nelle proprie scelte, dalle frustrazioni e dalle paure degli altri. I miei genitori avevano pensato che i primi tempi sarebbe stato importante avere l’appoggio di qualcuno, così per un po’ me ne andai a vivere a casa di un mio parente alla lontana; un cugino di mia mamma, emigrato a Milano una trentina di anni prima, per fare il ferroviere. L’idea non mi entusiasmava più di tanto, ma la situazione sarebbe durata il tempo di trovarmi un appar-tamentino per conto mio. Appena sceso alla stazione fui subito colpito dal casino. Rimasi a bocca a-perta, in qualche modo affascinato da tutto quel via vai di gente che correva da tutte le parti. Ognuno con un obiettivo, uno scopo, ognuno per i cazzi suoi. Dalle mie parti nessuno correva, nessuno andava mai da nessuna parte, si stava fermi ad aspettare. Mi venne a prendere il cugino di mia madre che da subito mi diede l’impressione di essere una gran brava persona. - Benvenuto – mi disse sorridendo, mentre mi stringeva la mano. Mi portò a casa per farmi conoscere la moglie e la figlia, che aveva la mia stessa età. Mi dissero che avrei dovuto sentirmi completamente a mio agio, come se fossi stato a casa mia; erano molto educati e gentili. I miei genitori mandavano loro un assegno mensile per il disturbo del vitto e dell’alloggio. Mi avevano riservato una cameretta piccola ma accogliente nella quale mi ero sistemato con le mie poche cose. Era la stanza dell’altro loro figlio, Lorenzo, che in quel periodo stava facendo il militare a Falcona-ra Marittima e che ne avrebbe avuto ancora per qualche mese. Fin dai primi giorni mi sembrò una famiglia regolare, come tante altre. Il cugino di mia madre, Franco, era una persona molto dedita al lavoro, men-tre la moglie Carla era la classica casalinga attenta alla pulizia e alla cura del focolare domestico. Infine c’era Giorgia, la figlia, lavorava come apprendi-sta parrucchiera in un noto negozio del centro della città. Il suo sogno era quello di aprire un salone tutto suo, ma diceva che avrebbe dovuto mettere via ancora molti soldi prima di poterci riuscire. - Sognare non costa niente – mi disse una volta che affrontammo l’argomento. - Sono pienamente d’accordo – convenni io. Giorgia era una ragazza un po’ particolare, aveva sempre l’aria un po’ triste come se portasse dentro di sé una sorta di disagio al quale nessuno avesse accesso. Di aspetto non era propriamente bella, i lineamenti del suo viso e-

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rano un po’ troppo grossolani, ma aveva un fisico slanciato che le conferiva comunque un certo fascino. Durante il giorno Franco e Giorgia andavano a lavorare ed io frequentavo le lezioni in università. In breve tempo imparai come districarmi in quel labirinto sotterraneo che era la metropolitana e che per me rappresentava una novità assoluta. Quando ero in casa me ne restavo chiuso nella mia cameretta a leggere e a studiare oppure a strimpellare la mia chitarra, stando bene attento a non di-sturbare la signora Carla. I primi tempi, durante i quali mi trovavo immerso nel grigio autunno mila-nese, mi capitava di avere dei momenti di sconforto e di sentirmi un po’ so-lo. Pensavo alla mia Sicilia e al mare, alla mia famiglia e ai miei amici. Pensavo ai profumi e ai sapori a cui ero abituato e che lì non riuscivo più a sentire. E allora mi veniva voglia di prendere il primo treno e di tornare al mio paese, ma poi prevaleva in me il desiderio e la voglia di farcela con le mie forze. Era una sfida con me stesso ed io dovevo vincerla. Mi ripetevo nella mia testa: “E’ bello il mio paese, ma adesso sono a Mila-no, la metropoli, la capitale della finanza e della moda, la città delle promes-se e delle opportunità. E’ qui che devo costruire il mio futuro, non devo far-mi sovrastare dagli inganni dei ricordi e della nostalgia”. Pensai che per sentirmi meno solo avrei dovuto incominciare a frequentare delle persone e a uscire un po’ di più di casa.

*** In università faticavo a stabilire dei rapporti che andassero al di là del fre-quentare le lezioni o la biblioteca. Appena suonava la campanella tutti se ne andavano da qualche parte come se fossero sempre protesi verso qualcosa. Io invece me ne restavo immobile ad osservarli. Un giorno, mentre mi trovavo in camera, concentrato nell’intento di prepara-re i miei primi esami, Giorgia mi bussò alla porta. - Io e i miei amici stasera usciamo a bere qualcosa. Ti va di venire con noi? – mi chiese. - Volentieri – risposi io, senza pensarci troppo. Fu così che alla sera incominciai ad uscire con lei e la sua compagnia. Fin da subito mi accorsi di non avere molte affinità con loro, anzi mi sentivo molto diverso, ma decisi che avrei dovuto farmeli andare bene, altrimenti rischiavo di marcire da solo in quella stanzetta.

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La compagnia era formata quasi tutta da ragazzi sulla ventina e le uniche due ragazze erano Giorgia e una sua amica. I ragazzi indossavano tutti un piumino smanicato, come se fosse la loro divisa ufficiale e giravano su degli scooters senza specchietti e con la marmitta modificata. Durante la settima-na stavano rinchiusi in un bar a bere e fumare per far venire l’ora di andare a dormire. Giorgia e l’altra ragazza avevano sempre l’aria annoiata ed io non riuscivo a capire perché continuassero ad uscire con quei tipi, ma decisi che non avrei fatto domande in proposito, perché in fondo non erano affari miei. Per quel che mi riguardava Giorgia era grande abbastanza per prendere le sue decisioni da sola. I ragazzi con me parlavano pochissimo, il più delle volte mi ignoravano, probabilmente perché avevano capito che non ero come loro. Fin dalla prima sera che li incontrai, quando mi domandarono – Cosa fai nella vita? - . - Studio lettere all’università – risposi io. La parola studio, unita alla parola lettere provocò l’ilarità generale. Loro lavoravano già tutti, a parte qualcuno pluribocciato che stava ancora finendo di frequentare le scuole superiori. Non ci misi molto a capire che in quel gruppo c’era un leader, una specie di capo che decideva sempre cosa fare e dove andare. Tutti gli altri si adegua-vano di conseguenza. Si chiamava Sandro ed era un ragazzo piuttosto tarchiato, con la testa com-pletamente rasata e un paio di orecchini per ciascuno dei lobi. Dava sempre l’impressione di essere molto agitato e ti bastava incrociare per un attimo il suo sguardo tagliente, per sentirti in soggezione. Durante la prima sera cercò di studiarmi il più possibile. - Fumi? – mi domandò ad un certo punto, porgendomi il suo pacchetto di sigarette. Tutti quanti si girarono verso di me per vedere la mia reazione ed io per un attimo esitai, guardando il pacchetto stretto tra le dita gialle di Sandro. - Si, grazie – risposi nel modo più convincente possibile. Prima di allora avevo fumato sporadicamente qualche sigaretta durante i falò sulla spiaggia al mio paese, ma senza mai prendere l’abitudine. Da quella sera incominciai a fumare senza sapere bene il perché, probabil-mente per non essere visto ancora più strano di quanto già mi guardassero. Il sabato sera era la serata clou, nella quale tutti si esaltavano e cercavano di esagerare il più possibile. Facevamo tappa in diversi bar, si iniziava con qualche birra per poi prose-guire con giri di amari e superalcolici vari.

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Io cercavo di star dietro il più possibile al loro ritmo, fino a quando non sen-tivo lo stomaco dilatarsi e allora capivo che era meglio fermarsi. Sandro, che era sempre il più scatenato di tutti, dimostrava ogni volta di non avere limiti. - Facciamo un ultimo giro – diceva all’improvviso, mentre si voltava a chiamare il cameriere di turno. Dopo di che, a bordo degli scooters, andavamo belli carichi alla solita disco-teca in periferia. La discoteca era un po’ il loro territorio e la valvola di sfogo di tutta la set-timana; così quando ne avevano voglia, cercavano un pretesto per fare a pu-gni con qualcuno. Bastava uno sguardo di troppo o una parola in più e San-dro scattava come una molla. In quei casi io cercavo di starmene il più in disparte possibile. Una volta, all’ingresso del locale, mentre stavamo facendo la fila, un tipo, senza accorgersene passò davanti a Sandro, che quella sera era parecchio su di giri e si guardava intorno come se non stesse aspettando altro. Sandro, che studiava molto attentamente la sua preda, lì per lì fece finta di niente. Noi inizialmente ci eravamo tutti quanti stupiti, ma dal modo in cui sorrideva si capiva che stava studiando qualcosa, probabilmente attendeva il momento giusto per gustarsi il suo momento di vendetta. Il tizio che aveva osato un simile affronto, era un ragazzo sulla trentina, pet-tinato e vestito per bene, lampadato e palestrato, molto curato e disinvolto. Era in compagnia di una biondina appariscente, stretta in una minigonna mozzafiato, forse un po’ troppo truccata, ma sicuramente una bella ragazza. Sandro li curò per tutta la sera, non perdendoli mai di vista. Loro, ignari, be-vevano cocktails al bancone e si dimenavano giù in pista. Sandro fumava e tracannava bottiglie di birra appoggiato ad una colonna di fianco alla pista. Verso le tre del mattino, i due si diressero al guardaroba e Sandro con un cenno della mano ci fece segno di seguirlo. – Adesso ci divertiamo – disse. – E’ tardi lascia perdere. Cosa hai intenzione di fare? – gli chiese Gigi, un altro dei ragazzi della compagnia. - Non lascio perdere proprio un cazzo, chiaro? – grugnì Sandro, schiumando rabbia dalla bocca. – Ok, come vuoi – concluse Gigi impaurito . Li frequentavo ancora da poco tempo, ma avevo capito subito che quando Sandro si metteva in testa una cosa non c’era verso di levargliela. I due malcapitati entrarono nel parcheggio diretti verso la loro macchina. Noi dietro a seguirli, in attesa di capire cosa avesse in mente il nostro capo.

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Quando il ragazzo fece per girare le chiavi nella portiera, Sandro con un bal-zo in avanti gli si avvicinò dicendogli – Ehi stronzetto. Che bella macchina che hai. E’ una decappottabile? Te l’ha comprata Papà?- . – E tu chi cazzo sei? Che cazzo te ne frega? – replicò perplesso il ragazzo, che aveva i muscoli e il fisico per farsi rispettare. Ma Sandro, in più di lui, aveva addosso una straordinaria dose di cattiveria, che per fare a botte è l’ingrediente principale. - Risposta sbagliata – disse, e con un pugno ben assestato spaccò lo spec-chietto retrovisore. - Figlio di puttana! – esclamò il tizio scagliandosi furiosamente addosso a Sandro. Mossa discutibile, pensai io, provando una sorta di pietà verso quel povero ragazzo. Sandro gli prese la testa con una mano per tenerlo a distanza e, mentre quel-lo si dimenava e agitava i pugni per aria, gli tirò una ginocchiata in bocca. Il sangue incominciò a uscire a fiotti dalle labbra del poveretto, che si river-sò per terra mettendosi a piagnucolare. – Cosa ti ho fatto? – riuscì a malapena a domandare sputando un po’ di sali-va mischiata a sangue. - All’entrata mi sei passato davanti senza chiedermi il permesso, non sei sta-to molto educato - rispose Sandro con una certa tranquillità – Ora se vuoi che chiudiamo i conti, devi fare una scelta - . - Che scelta? - . - E’ semplice. O ti distruggo la macchina o mi faccio la tua ragazza – disse con un ghigno che non prometteva nulla di buono. Noi eravamo attorno a guardare la scena, curiosi di vedere fino a che punto la vicenda sarebbe andata avanti. Dentro di me pensai che forse sarebbe stato il caso di chiamare la polizia, ma poi riflettei sul fatto che gli altri me l’avrebbero potuta fare pagare molto cara. Il tizio era ancora steso per terra e con le mani si teneva la bocca senza par-lare. La sua ragazza era immobile a pochi metri da lui, come se fosse pietrificata. - Allora! Muoviti a scegliere altrimenti scelgo io – esclamò Sandro sempre più malvagio. - Ti prego, la macchina no! È nuova, mio papà mi ammazza, con quello che è costata - . Dopo aver sentito queste parole la ragazza si mise a gridare, agitando le braccia come se fosse in preda ad una crisi isterica – Sei una merda. Tu e la tua macchina del cazzo. Mi fai schifo - .

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- Vedi che sei proprio un coglione – gli disse Sandro, mentre lo afferrava per il collo e gli assestava un paio di schiaffoni a mano aperta. Poi guardando la ragazza le disse con tono pacato, oserei dire dolce, se non fosse stato total-mente in contrasto con quella situazione – Andiamo, ti accompagniamo a casa noi. Lascia perdere questo verme schifoso. Ti ha barattato per la sua macchina del cazzo - e così dicendo sferrò un altro calcione, stavolta al fana-le anteriore dell’automobile, mandandolo in frantumi. Il tipo in terra piangeva sempre più disperato e senza più un briciolo di di-gnità si rivolse a Sandro con tono supplichevole – Ti prego basta - . A quel punto la ragazza gli passò vicino e con la punta della scarpa gli mollò un calcio dritto negli stinchi facendolo nuovamente piegare in due dal dolo-re. – Per favore, portatemi a casa – disse rivolgendosi a noi. Sandro annuì e caricandola sullo scooter la riaccompagnò verso casa. Io tirai un sospiro di sollievo pensando che sarebbe potuta finire anche peggio.

*** Con il passare dei giorni mi stavo sempre di più affezionando a Giorgia, la consideravo una buona amica e questa sua fragilità interiore che lasciava trasparire, mi ispirava un senso di protezione. Avrei voluto poterle guardare dentro per capire che cosa non andasse. Ma ogni volta che provavo a domandarle qualcosa, lei mi sorrideva e mi ri-peteva sempre – Va tutto bene - . Io, invece quasi senza accorgermene, piano piano mi stavo adeguando allo stile di vita dei ragazzi che frequentavo. C’erano alcune serate nelle quali incominciavo davvero a bere forte e alle volte facevo fatica a reggermi in piedi. E più bevevo più mi sentivo accettato e ben voluto dal resto del gruppo. Giorgia, ogni volta che succedeva, con pazienza mi riaccompagnava a casa, mi teneva per mano e mi diceva – Non ti preoccupare, ci sono qua io - . Una sera, in uno dei nostri soliti sabato del cazzo, eravamo in discoteca. Gli altri ballavano, mentre io ero appoggiato al bancone e mi scolavo una birra dietro l’altra, pensando che mi stavo rompendo di stare in quel posto e avrei voluto essere già a letto. Poi la birra fece il suo effetto e mi venne voglia di pisciare. Mi diressi svelto verso il bagno e quando entrai, con grande sorpresa, vidi Giorgia stretta in una angolo tra Ste e Paolo, due ragazzi della nostra com-pagnia, che cercavano di palparla e di infilarle le mani da tutte le parti.

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Provai una rabbia enorme in quel momento. - Toglietele subito le mani di dosso – urlai con ferocia. Loro mi guardarono un po’ stupiti e Paolo disse – Beppe, non stiamo facen-do niente, fatti i cazzi tuoi che è meglio per tutti, fidati -. - Ma questi sono cazzi miei – ribattei io – Giorgia vieni, andiamo a casa, so-no piuttosto stanco - . - No, non ci vengo. Sono grande abbastanza per decidere. Non ho bisogno della tua protezione – disse Giorgia con voce alterata. Era visibilmente u-briaca. - Hai sentito? Te lo ripeto ancora una volta, fatti i cazzi tuoi – disse di nuovo Paolo con fermezza. - Ma non vedete che ha bevuto troppo? Siete proprio due stronzi – risposi cercando di mantenere la voce ferma, anche se le gambe incominciarono a tremare. Fu allora che Paolo e Ste mollarono Giorgia e si diressero velocemente ver-so di me. Il primo a colpirmi fu Ste che mi mollò un pugno nella pancia fa-cendomi perdere l’equilibrio. Subito dopo fu la volta di Paolo che mi prese la testa e me la sbatté, per fortuna non in modo violento, contro la porta, fa-cendomi definitivamente cadere per terra. - Ne hai avute abbastanza? – mi gridò Ste sollevandomi la faccia. Giorgia piangeva in un angolo del bagno e con la voce spezzata si mise a implorarli – Basta! Fermatevi, per favore -. Per mia fortuna in quel momento arrivarono due buttafuori, probabilmente attratti dal casino, e ci sbatterono a calci nel culo fuori dal locale. Paolo e Ste a bordo dei loro scooters, dopo avermi insultato e minacciato abbondantemente, si avviarono verso un altro locale. Per loro la serata sa-rebbe stata ancora lunga. Io invece ero a pezzi e l’unica cosa che desideravo era di infilarmi nel letto. Mi faceva male una gamba e Giorgia era piuttosto ubriaca, così sorreggen-doci a vicenda ci incamminammo verso casa. A piedi la strada era piuttosto lunga e ogni tanto ci dovevamo fermare per strada perché Giorgia doveva vomitare. - Perché lo hai fatto? – mi domandò improvvisamente. - Perché non mi piaceva quello che ti stavano facendo – tagliai corto io. Proseguimmo in silenzio fino a casa. Provai un senso di sollievo quando finalmente riuscii ad entrare nel letto; ero molto stanco e mi sentivo ancora scosso per quello che era successo.

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Stavo già dormendo quando sentii le coperte alzarsi, così mi svegliai di so-prassalto. Nel buio incominciai a muovere le mani fino a tastare qualcosa. Era il corpo nudo e caldo di Giorgia che avanzava verso di me. - Giorgia, cosa stai facendo! – le sussurrai cercando di tenere il tono della voce il più basso possibile. - Io ti voglio bene Beppe. Voglio stare con te – disse lei prendendomi le ma-ni. - Anch’io ti voglio bene Giorgia. Ma non è questo il modo. Sei ancora u-briaca. Per favore esci dal mio letto e vai in camera tua - . - Sai Beppe, ho apprezzato molto quello che hai fatto stasera. Tu non sei come gli altri ragazzi. Tu sei sempre così sincero e premuroso nei miei con-fronti. Tu ci tieni davvero a me - . - Ci tengo e anche molto. Ed è per questo che ora ti chiedo di uscire fuori da questa camera. Domani quando ci sveglieremo troveremo il modo di affron-tare la cosa con più lucidità - . - Ti prego non respingermi – sussurrò lei avvicinandosi al mio orecchio, quasi implorando. - Ma non capisci che lo sto facendo per te? – le domandai io baciandola sul-la mano – Tu meriti più rispetto. Devi imparare ad avere più fiducia in te stessa e per riuscire a farlo non devi più uscire con quegli stronzi. Ti usano e basta - . - Hai ragione – disse Giorgia incominciando a singhiozzare. - Adesso calmati però. Altrimenti i tuoi ci sentiranno - . Non ebbi quasi il tempo di finire la frase che la porta si aprì adagio e illumi-nato dalla luce del corridoio vidi comparire il volto di Carla. La scena che le si presentò davanti era piuttosto complessa da spiegare. Nel mio letto c’era sua figlia, nuda e con il viso coperto di lacrime. Carla rimase sorpresa, incredula, atterrita. Aveva negli occhi una delusione che non scorderò mai più. – Tu! Proprio tu! In casa mia. Ti abbiamo accolto come un figlio. Come hai potuto – disse con una voce stanca. - Non prendertela con lui. E’ stata tutta colpa mia – intervenne in mia difesa Giorgia. - Tu rivestiti e fila di corsa in camera tua – intervenne a quel punto Franco, che nel frattempo si era affacciato anche lui alla porta della mia camera. Avrei tanto voluto spiegare che era solamente un malinteso, che si trattava di un grosso equivoco e che io a quell’ora avrei solamente desiderato essere nel pieno dei miei sogni. Ma le parole non mi uscivano dalla bocca. Gli sguardi di Carla e Franco erano diventati impossibili da sostenere.

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Mi alzai, preparai le mie cose e lasciai subito l’appartamento. Fuori era ormai giorno e nel cielo si intravedeva un pallido sole, avvolto nel grigio inverno della città.

*** Ovviamente non ebbi il coraggio di raccontare ai miei genitori quello che era successo, così dissi solo che avevo trovato un’ altra sistemazione, anche se in realtà per un breve periodo me ne andai a stare in un ostello. In università la bacheca degli annunci era piena di persone che cercavano studenti con i quali dividere l’affitto esorbitante di un appartamento milane-se. Mi diedi subito da fare, tirai giù una decina di numeri e incominciai a tele-fonare. La ricerca di un posto dove stare divenne per qualche giorno la mia occupazione principale, così fissai numerosi appuntamenti per conoscere i potenziali coinquilini e dare un occhio alle loro abitazioni. Nella situazione in cui mi trovavo, decisi che non potevo permettermi di es-sere molto esigente. Dopo qualche incontro andato a finire male, rimasi piuttosto scoraggiato. Fino a quando una mattina, per caso, appena fuori dalla biblioteca, mi capitò di ascoltare un discorso tra due ragazze. Una stava raccontando all’altra, che uno dei coinquilini con cui abitava aveva lasciato la casa all’improvviso, e quindi avrebbero dovuto cercare un sostituto per dividere l’affitto. Pensai che quello dovesse essere il mio giorno fortunato, così mi presentai dicendole che ero in cerca di una sistemazione. La ragazza si mostrò subito disponibile e al pomeriggio, dopo pranzo, mi portò a vedere l’appartamento. La casa era abbastanza grande e accogliente, inoltre, cosa da non sottovalu-tare, l’affitto era alla portata delle mie tasche. C’erano tre camere da letto, il bagno, la cucina e un soggiorno attrezzato con un divano letto a due piazze. In giro c’era quel disordine dal quale si capiva subito che era una casa abita-ta da studenti. - Mi piace – dissi rivolgendomi alla ragazza. - Sono contenta – fece lei – Però prima di decidere ti devo far conoscere gli altri coinquilini. Una volta che ci siamo conosciuti meglio e non ci sono problemi, puoi prenderti la camera anche subito-. E così dicendo radunò gli altri due ragazzi per fare le presentazioni del caso. Il primo impatto fu subito molto positivo, per lo meno mi sembravano to-

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talmente diversi dagli amici di Giorgia che avevo frequentato in quei primi mesi della mia avventura milanese. La ragazza si chiamava Simona e devo dire che, fin dal primo momento in cui la vidi, rimasi colpito dal suo modo di vestire piuttosto trasandato, che la faceva apparire meno attraente di quanto fosse in realtà. Frequentava il se-condo anno della mia stessa facoltà, infatti avevo l’impressione di averla già vista prima di quella mattina. Mi disse che suonava il basso e che spesso si esercitava in casa. – E’ un problema? – mi domandò – Perché per il ragazzo che c’era prima di te lo era. Per cui è meglio se ce le diciamo subito certe cose - . Mi venne da sorridere. – Io suono la chitarra e spesso mi esercito in casa. E’ un problema? – le chiesi ironicamente. Dopo aver sentito quelle mie parole cambiò totalmente espressione del viso e con un sorriso che la prendeva da guancia a guancia, mi disse – Fantastico. Per quanto mi riguarda sei dei nostri - . Poi c’era Pierfrancesco – Ma tutti mi chiamano Pier – si affrettò a precisare. Pier era un ragazzo alto e magro con la barba e i capelli lunghi, sembrava una specie di Sandokan. Era iscritto al secondo anno di scienze politiche. - Per me sei dei nostri – disse subito con gentilezza – L’unica cosa, ti avviso che io fumo in casa, spero non ti dia fastidio - . - Niente affatto. Fumo anch’io – gli risposi. A quel punto mi strinse la mano dandomi il benvenuto. Infine c’era Giangi che con i suoi ventiquattro anni era il più vecchio della casa. Giangi era piuttosto corpulento e non molto alto, portava occhiali spessi ap-poggiati sul naso e aveva l’aria di uno che aveva passato la vita davanti ad un computer. Era iscritto all’ultimo anno di ingegneria informatica. Grandis-simo appassionato di tutto ciò che concerne la cultura giapponese. Anche lui si dichiarò d’accordo ad affittarmi la camera libera. - Allora? – mi domandò Simona – Quando ti trasferisci? - . - Subito. Se per voi va bene – risposi con entusiasmo. Ero molto felice di avere trovato una casa dove abitare e di poterla condivi-dere con dei ragazzi come loro. Pensai che finalmente le cose stessero an-dando per il verso giusto. - Così su due piedi? Non vuoi neanche pensarci su? – mi domandò Pier. - Ci ho già pensato abbastanza – replicai in maniera sicura. - Questo ragazzo ha le idee chiare. Mi piace – disse Giangi.

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La sera stessa arrivai nell’appartamento con una valigia, un borsone e la mia chitarra a tracolla. Sistemai le mie cose e scesi giù al bar a comprare una bottiglia per fare un brindisi con i miei nuovi coinquilini. - Alla mia nuova casa e al nostro incontro – dissi alzando il bicchiere. Si instaurò fin dal primo momento una grande complicità fra di noi ed io fi-nalmente incominciai a non sentirmi più solo in quella grande città.

*** Mi resi conto di stare attraversando una nuova fase della mia vita, come se avessi voltato pagina. Durante il giorno frequentavo le lezioni e preparavo i miei esami nella bi-blioteca dell’università e quando tornavo a casa ero felice di trascorrere le mie serate con Pier, Giangi e Simona. Tra me e Simona si creò da subito un rapporto speciale per via della musica e per il fatto che, frequentando la stessa facoltà, avevamo parecchi argomen-ti in comune. A volte capitava che iniziavo a suonare un pezzo con la chitarra e allora lei si metteva seduta ad ascoltarmi. Altre volte ero io che la ascoltavo mentre si esercitava con il basso. Mi accorsi immediatamente che era una bassista fenomenale. - Come hai imparato a suonare così bene? – le domandai la prima volta che mi capitò di sentirla. - Non lo so. Mi è sempre venuto piuttosto naturale, anche se ho studiato pa-recchio e ho preso lezioni per molto tempo. Ho incominciato molto piccola con la chitarra, poi dopo un po’ di anni sono passata al basso - . Parlavamo a lungo di musica e di dischi, confrontandoci sui nostri artisti preferiti. Nel fine settimana succedeva di frequente che andavamo ad assistere al con-certo di qualche gruppo, che si esibiva nei locali della città. A volte anda-vamo da soli, altre volte venivano anche Pier e, più raramente, Giangi, che era sempre difficile da schiodare dal suo computer. La sera prima di un esame di solito ci chiudevamo in camera e Simona mi provava la lezione e mi aiutava a ripetere. Era un’amica davvero eccezionale ed ogni volta ringraziavo il destino per avermela fatta incontrare, tra le milioni di persone che vagavano in giro per Milano.

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C’erano certe serate in cui ci mettevamo tutti e quattro a tavola a cenare e tra un bicchiere di vino e una sigaretta si andava avanti a parlare fino a notte fonda. E devo dire che mi piaceva molto confrontarmi con Pier che si dimo-strava sempre una persona con dei punti di vista e delle idee interessanti. Era un ragazzo piuttosto intelligente e con una grande cultura, con lui si po-teva chiacchierare di qualsiasi cosa, ma soprattutto gli piaceva discutere di politica, che era la sua grande passione. Io restavo affascinato ad ascoltarlo, perché lui aveva le idee chiare su tutto, sapeva sempre da che parte stare. Al contrario di me, che a quei tempi ero abbastanza incerto e disinteressato, non riuscivo a prendere una posizione netta su determinati argomenti. Pier sapeva con sicurezza che finita l’università avrebbe tentato la carriera politica. Io invece continuavo a pensare che avrei fatto l’insegnante di lette-ratura, anche se non avevo ancora un’idea precisa del mondo del lavoro. – Beppe, o sei da una parte o sei dall’altra. Il mezzo non esiste, non c’è più – mi ripeteva spesso, utilizzando questa frase per vari contesti della vita . O bianco o nero, insomma. Per me invece non era così, c’era il bianco, c’era il nero e in mezzo c’erano tante sfumature. Spesso pensavo che non tutto era così preciso e ben definibile come poteva sembrare. Però ammiravo molto la determinazione e l’impegno che ci met-teva Pier nel manifestare le proprie posizioni e a volte mi sarebbe proprio piaciuto essere come lui. Anche con Giangi mi piaceva passare il mio tempo, nonostante non avessi-mo molte cose in comune. Lui era un grande appassionato del Giappone e a volte poteva apparire per-sino un po’ troppo fanatico. Una volta gli domandai con curiosità - In cosa i giapponesi sono così avan-ti?– Lui mi guardò esterrefatto e mi disse – In tutto. Dai fumetti, ai cartoni ani-mati, alle tecnologie, alle automobili. Persino nello stile di vita e nell’organizzazione della società. Vuoi che continui? – . - No, sei stato molto chiaro - . Anche se per me era difficile capire, visto che la mia cultura personale, fatta per lo più di letture e musica, non contemplava nessun tipo di influenza o-rientale. “Punti di vista” pensavo. Diceva che prima o poi si sarebbe messo d’impegno per imparare a com-prendere le lingue orientali. Nel frattempo stava progettando il suo primo viaggio in Giappone come premio per la sua imminente laurea.

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- Ti faccio vedere una cosa – mi disse un giorno accompagnandomi in came-ra sua. Da dietro al letto con mia grande sorpresa estrasse una spada giapponese. - L’ho comprata in un negozietto qui a Milano. Che te ne pare? - . - Molto bella ma è meglio se la metti via prima che ti fai male – gli risposi scoppiando a ridere. Giangi era un tipo piuttosto originale.

*** Per il mio ventesimo compleanno i miei amici decisero di farmi un sorpresa. Tornai a casa nel tardo pomeriggio e li trovai tutti e tre riuniti ad aspettarmi. - Buon compleanno! – esclamarono in coro. – Svelto, preparati che andiamo a festeggiare – mi disse Simona. - Dove andiamo? – feci io. - Non fare troppe domande. Altrimenti non è più una sorpresa. – rispose Pier. - Va bene, come volete voi - dissi . - Il festeggiato sei tu, però i locali li decidiamo noi – si affrettò a precisare Giangi. Mi portarono a fare l’aperitivo in un posto vicino ai navigli, frequentato per lo più da giovani studenti. Mi venne da sorridere, ricordando la prima volta che presi parte ad uno dei famigerati aperitivi milanesi. Ero in città da pochi giorni ed entrai in un af-follato bar del centro, restandomene un po’ in disparte, curioso e attento nell’ osservare tutte quelle persone che a quell’ora si davano appuntamento per bere e mangiare qualcosa insieme. Pensai che si trattasse di un bel modo per socializzare e liberarsi dallo stress delle proprie giornate, ma in fondo non lo trovavo molto diverso da quello che succedeva al mio paese. L’unica differenza era che, dalle mie parti, le persone andavano al bar alla sera dopo mangiato e ci rimanevano fino all’ora di andare a dormire. Tutti tranne mio padre, lui è sempre stato un tipo piuttosto solitario. Bevemmo un paio di Martini chiacchierando spensieratamente, fino a quan-do arrivò l’ora di andare a cenare. - Ti va di mangiare giapponese? Hanno aperto un ristorante nuovo qua in zona – mi domandò Giangi.

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Non ero mai stato in un locale giapponese ed ero curioso. Inoltre siccome per me francamente un posto valeva un altro, mi dispiaceva non farlo con-tento visto che ci teneva tanto; così accettai di buon grado la sua proposta. - E’ un ristorante che ha aperto da pochissimo, dicono che il cibo è fresco e cucinato bene. Me ne hanno parlato alcuni compagni di università -. - Mi fa proprio piacere poterlo sperimentare stasera – gli risposi per fargli piacere. Una volta entrati ci fecero accomodare ad un tavolo di vetro con dentro dei pesci rossi. Una specie di acquario rotondo sopra il quale mangiare, coperto con delle tovagliette decorate. Un’idea davvero originale. Giangi chiese di poter utilizzare le bacchette, mentre noi optammo per le ca-re e vecchie forchette. – Dovreste abituarvi a usare le bacchette. Paese che vai usanza che trovi. Non ve l’hanno mai insegnato? – ci domandò piuttosto meravigliato. - Già, ma qui non siamo in un altro paese. Siamo ancora a Milano, fino a prova contraria – rispose Pier. Ci facemmo tutti una bella risata convenendo che ognuno avrebbe mangiato come ne aveva voglia. L’ambiente del locale era molto tranquillo, mi guardai intorno e vidi qualche coppietta, due tizi di mezza età in giacca e cravatta che discutevano anima-tamente, un tavolo con cinque ragazze che ridevano e si scambiavano pette-golezzi, ed un signore un po’ avanti con gli anni che se ne stava seduto pen-sieroso al suo posto. Ordinai dei piatti con dei nomi piuttosto incomprensibili, ma che Giangi mi assicurò essere a base di pesce fresco, riso e verdure. Il tutto accompagnato dalla birra, anche se non era proprio un abbinamento corretto. E devo dire che a parte la birra, che non era certo il massimo, il cibo lo tro-vai tutto sommato buono. Durante la cena parlammo dei nostri progetti futuri. Pier ci disse che gli sarebbe piaciuto molto poter fare un’esperienza all’estero, magari tramite l’università. Giangi ancora una volta ci ribadì la sua intenzione di trascorrere un po’ di tempo in Giappone non appena si fosse laureato. - Sarà il regalo di laurea dei miei genitori – disse. Pensai che si trattasse di un regalo piuttosto costoso. D’altra parte Giangi era il figlio di un noto chirurgo di Pavia e di problemi economici certo non ne aveva.

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- Io ho un progetto in testa, un’idea a cui sto pensando da un po’ di tempo. Ma per il momento non posso dire di più – disse Simona in modo un po’ mi-sterioso. - E tu? Non dici niente? – mi domandò Pier. - Non so – feci io. Non sapevo veramente cosa rispondere. Il mio progetto lo avevo già realiz-zato ed era stato intraprendere quel viaggio dalla Sicilia per venire a vivere a Milano. - Ai tuoi vent’anni – disse Pier alzando il bicchiere per brindare. Era l’ennesimo brindisi che facevamo dall’inizio della serata. Vidi Giangi per un attimo un po’ incerto. Non era abituato a bere tanto e probabilmente era arrivato il momento di fermarlo. Nel frattempo una cameriera dai tratti decisamente orientali si avvicinò al tavolo per sparecchiare. Devo ammettere che anche se io non ho mai avuto una particolare predile-zione per le donne con gli occhi a mandorla, quella ragazza era davvero ca-rina. Aveva un viso molto fine, non era tanto alta, ma fisicamente era ben fatta e aveva una lunga chioma di capelli neri. Appena si allontanò, Giangi si rivolse a me e a Pier dicendoci - Notevole la ragazza, non trovate? -. - Perché non le chiedi di uscire? – chiese subito Pier. - Sì – intervenni io – Pier ha ragione. Dovresti buttarti ogni tanto - . Giangi, che era ormai visibilmente brillo, ci pensò su un attimo e poi disse con una certa enfasi – Avete ragione. Dovrei essere più convinto con le ra-gazze - . La cameriera ci passò davanti svariate volte, ma Giangi non si decideva mai a fare il primo passo. Rimaneva fermo e continuava ad osservarla con uno sguardo un po’ da maniaco. Alla fine, dopo aver bevuto l’ennesimo sorso di birra, prese coraggio e al passaggio della ragazza la fermò, tentando un timido approccio. – Ciao, come ti chiami? Io sono Gianluigi, per gli amici Giangi…no, co-sì…insomma…ecco mi chiedevo se mi puoi dare il tuo numero di telefono - - Perché ?- domandò lei gelida. - Non so, era solo un’idea. Per uscire insieme qualche volta – e così dicendo, in modo un po’ goffo la prese per un braccio. La cameriera lo guardò con due occhi feroci, si divincolò dalla presa e si al-lontanò in fretta.

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Giangi ci rimase molto male, iniziò ad arrossire e ad urlare ad alta voce – Come si permette di non darmi nemmeno risposta? Chi cazzo si crede di es-sere, la più bella del reame? - . Le persone sedute agli altri tavoli si girarono e incominciarono a guardarci storto. - Ehi amico, calmati adesso – fece Pier – Ci stai facendo fare una figura di merda-. - No, non mi calmo proprio per un cazzo - rispose lui sempre più agitato. L’alcool aveva prodotto i suoi effetti e Giangi era diventato piuttosto mole-sto. La cameriera passò un’altra volta nella nostra direzione per andare a portare le ordinazioni al tavolo dietro al nostro. - Ehi tu, non ce l’hai la lingua? – le gridò Giangi ormai incontenibile. A quel punto la ragazza scappò di corsa in cucina. Gli altri clienti che avevano assistito alla scena erano sempre più sbigottiti. - Calmatelo – ci disse il signore del tavolo di fianco. - Scusateci, lo portiamo via subito – fece Pier imbarazzato. - Scusateci un cazzo – strillò di nuovo Giangi. Pochi istanti dopo, dalla cucina uscirono due tipi con il grembiule e la faccia poco raccomandabile. Si avvicinarono al tavolo e ci intimarono di andarcene all’istante. - Ce ne andiamo subito – disse Simona. Loro fecero una faccia brutta e ci guardarono allontanarci dal locale. A stento riuscimmo a trascinare fuori Giangi, che continuava ad inveire con-tro tutto e tutti. Ci dirigemmo verso casa cercando di calmarlo. Ad ogni modo convenimmo tutti, che la serata potesse definirsi conclusa. Appena rientrati nell’appartamento sentimmo suonare il citofono. - E adesso chi cazzo può essere? – domandai a Pier. - Non ne ho idea. Prova a sentire – mi rispose lui. Mi affacciai dalla finestra e vidi i due orientali del ristorante. In quel mo-mento realizzai che ci avevano seguiti fino a casa. - Cosa volete ancora? – gridai. - Dovete pagare il conto del locale – disse uno dei due. In effetti, nella fretta, ci eravamo scordati di pagare la cena. - Avete ragione, ci siamo dimenticati. Ditemi quanto vi dobbiamo e vi butto giù i soldi – dissi. - Penso che cinquecentomila lire possano andare bene – proseguì il tipo di prima

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- Non è un po’ caro? - . - Abbiamo aggiunto il disturbo. E’ un’offerta non negoziabile. Altrimenti quando scendete ve la facciamo pagare in un altro modo - . Rimasi un attimo sconcertato di fronte alla loro minaccia. - Dicono che vogliono cinquecentomila lire per chiudere la storia oppure ci aspettano giù – dissi rivolgendomi agli altri. - Per l’amor del cielo, diamogli quello che ci chiedono e chiudiamo qui la faccenda. Quei tipi non scherzano – intervenne Simona. - Centomila a cranio. Giangi duecento perché ha esagerato – propose Pier. Per noi che eravamo studenti, a quei tempi sborsare centomila lire non era poco, tuttavia pareva essere l’unica soluzione per evitare guai peggiori. - Va bene. Facciamo la colletta e glieli lancio giù in strada – dissi io. In quel preciso istante, senza che ce ne accorgessimo, Giangi si affacciò alla finestra urlando a squarcia gola – Fottetevi brutti bastardi. Adesso vi faccio vedere io. Vengo giù e vi taglio a fettine - . Poi si precipitò in camera sua e ne uscì impugnando la sua spada giappone-se. Provammo a dissuaderlo, ma lui ci guardò con due occhi da far paura; così nessuno di noi ebbe il coraggio di opporsi ulteriormente e senza che po-tessimo fare nulla per fermarlo, scese le scale come un samurai. Ci sporgemmo dal davanzale per assistere alla scena. - Figli di puttanaaaaa! – Giangi sbucò di corsa dal portone brandendo la spada sopra la testa con entrambe le braccia. - Guarda! Sembra Gammon, l’amico di Lupin – disse ridendo Pier. - E’ vero – risposi divertito. La scena stava assumendo sempre più contorni comici. I due giapponesi, forse sorpresi dal suo impeto, si diedero alla fuga come due lepri. Giangi dietro a loro non mollava di un centimetro e li inseguiva in ciabatte, tra insulti e minacce – Vi ammazzo, vi ammazzoooo! - . Ritornò poco dopo sano e salvo, anche se un po’ stanco per la corsa. Li ave-va messi in fuga ed ero sicuro che, dallo spavento che avevano preso, non si sarebbero più fatti rivedere. - Toglimi una curiosità. Li avresti veramente colpiti con la spada? – gli do-mandai. - Non lo so. Adesso però devo vomitare – e così dicendo si chiuse nel ba-gno. Nel frattempo Simona e Pier, mi mostrarono il mio regalo di compleanno. - Chiudi gli occhi – mi disse Simona. Quando li riaprii davanti a me c’era una splendida chitarra acustica. Per un attimo rimasi a bocca aperta senza parlare.

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- Non dici niente? Almeno dicci se ti piace? – chiese Pier. - E me lo chiedi? E’ una Fender…stupenda…ma non dovevate – risposi un po’ imbarazzato. - Dovevamo. Era ora di cambiare la tua chitarra classica e passare a qualcosa di diverso – disse Simona. - Perché non ci suoni qualcosa? Così la sentiamo – fece Pier. Ed io la presi in mano delicatamente e incominciai a suonare. E così feci nei giorni a seguire, racchiudendo in quello strumento una parte di me stesso. I giorni passavano veloci e Giangi, tempo qualche settimana, si sarebbe lau-reato e avrebbe lasciato l’appartamento per sempre. Ci dispiaceva molto pensare che uno di noi se ne sarebbe andato, ma erava-mo comunque contenti per lui, che stava per realizzare il suo sogno di parti-re per il Giappone. Decidemmo di festeggiare con qualche giorno di anticipo la sua laurea e la sua partenza. - Ti portiamo a divertirti – disse Simona. - E stavolta decidiamo noi – precisò Pier. Trascorremmo un’allegra serata in giro, a fare tappa nei diversi locali della Milano by night. Tornammo a casa che ormai era giorno, stravolti dalla nottata e dalle troppe birre che ci eravamo scolati. Prima di andare a dormire non ci restava che consegnare il nostro regalo di laurea a Giangi. - Questo è il nostro pensiero per te – gli disse Simona porgendogli un pacco. Giangi lo scartò avidamente, come un bambino alle prese con i doni di Nata-le. Dentro alla confezione c’era una raccolta di manga giapponesi originali, che sapevamo mancare alla sua collezione. Fu molto difficile riuscire a mettere insieme tutti quei numeri, ma alla fine, dopo aver girato molti posti e consultato alcuni nerds esperti in materia, ce l’avevamo fatta. Eravamo molto orgogliosi di noi stessi, sapevamo che sarebbe stato conten-to. - Grazie – furono le uniche parole che riuscì a dire sul momento. Si vedeva che era commosso. - Non vi dimenticherò mai – aggiunse una volta ripreso fiato. - Infatti non devi dimenticarci. Anche se fra poco sarai dottore, non vuol di-re che tu non possa venirci a trovare – disse Pier. - Già. E poi noi come potremmo dimenticare un tipo come te. Anche volen-do sarebbe un po’ difficile – dissi io per sdrammatizzare.

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Scoppiammo tutti quanti a ridere prima di salutarci per andare a dormire, con il sole tiepido del mattino che ormai bussava alle nostre finestre.

*** Arrivò l’estate e mi separai un po’ a malincuore dai miei amici. Ognuno di noi se ne andava con il suo viaggio, per poi ritrovarci a settembre. A parte Giangi che ovviamente non sarebbe tornato. Trascorsi quasi due mesi al mio paese. Giorni dolci in riva al mare a ritrovare la pace e la familiarità di quei posti che mi erano tanto mancati. Giorni trascorsi con la mia famiglia e i miei amici a raccontare la vita in una grande città. Giorni sospesi tra la voglia di andare e restare. Rapidamente l’estate volse al termine ed io, tornato a Milano, mi preparai ad affrontare il secondo anno di università. Con gli esami ero praticamente in pari, anche se facevo il minimo indispen-sabile per restare al passo. Tuttavia in quel periodo, non so bene per quali motivi, mi trovai ad affronta-re una specie di crisi interiore. Forse era dovuta al fatto di volermi rendere indipendente o magari era sol-tanto un pizzico di immaturità, fatto sta che quell’autunno lo trascorsi a ri-flettere sulla mia situazione. Poi si sa che l’autunno, da sempre, porta con sé un po’ di malinconia. Mi sentivo molto deluso dall’esperienza universitaria. Le lezioni non erano mai all’altezza delle mie aspettative e difficilmente suscitavano in me quella curiosità che avevo manifestato durante il periodo del liceo. Inoltre quel sapere che mi veniva trasmesso, mi dava l’idea di essere troppo astratto, così distante dalla vita di tutti i giorni. Nel momento in cui mi ero iscritto, ero praticamente sicuro che avrei voluto essere un professore di lettere, ma in quel periodo mi sembrava che quella non fosse più la mia vocazione. Pensai che probabilmente l’università fosse il mio modo di rendere orgo-gliosi i miei genitori, ma questo non poteva più essere un motivo sufficiente per andare avanti. Mentre ero intento ad affrontare queste mie problematiche, cercando la forza per ritrovare le giuste motivazioni, mi capitò di dare un esame senza mai a-vere aperto il libro. Mi presentai davanti al professore totalmente imprepara-to.

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- Lei ha frequentato le mie lezioni? – fu la prima cosa che mi chiese. - Tutte – risposi io. - Ha comprato il mio libro? - . - Sì, eccolo – e glielo mostrai. - Bene. E come lo ha trovato? - . - Interessante – dissi in maniera vaga. In realtà non so nemmeno perché continuassi a fingere, forse volevo solo vedere fino a dove sarei potuto arrivare. - Bene – ripeté il professore – Sciacca Giuseppe, mi dica una cosa. Lei non è di Milano, vero? Da dove viene? – . - Vengo dalla Sicilia- gli risposi. Il professore a quel punto incominciò ad entusiasmarsi. Mi raccontò che i suoi nonni erano siciliani, mentre suo padre era emigrato a Milano da ragaz-zo, in cerca di fortuna. Mi disse anche che da piccolo trascorreva tutte le estati in un paesino della Sicilia, per combinazione, a pochi chilometri dal mio. - Lo conosco bene – gli feci io. Parlammo per un po’ del clima, del cibo e del mare. Fu un colloquio molto cordiale. Alla fine mi chiese un paio di cose sul programma del suo corso. Io risposi in modo abbastanza approssimativo, sforzandomi di ricordare quello che a-vevo sentito a lezione. Presi ventotto. Il professore mi congedò dicendomi – Mi raccomando Sciacca, continui co-sì. Sempre in gamba - . “Già, sempre in gamba” pensai con amarezza. Qualsiasi studente al posto mio sarebbe stato contentissimo, ma per me, in quel momento della mia vita, non fu così. Quell’episodio rappresentò la classica goccia che fece traboccare il vaso, fa-cendo crollare ulteriormente le mie motivazioni. Pensai che fosse arrivato il momento di dare una svolta alla mia vita. Decisi che avevo bisogno di trovare nuovi stimoli al di fuori del circuito u-niversitario.

*** Abbandonata l’università trovai un impiego in un supermercato alla periferia di Milano. Mi occupavo del reparto orto-frutticolo.

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Caricavo e scaricavo la merce dai camion, la trasportavo nel magazzino e infine la sistemavo negli scaffali del reparto. Non era il massimo, ma pensai che da qualche parte avrei dovuto iniziare. Inoltre la paga non era affatto male. Lavoravo prevalentemente su due turni. Il primo incominciava la mattina alle sette e finiva alle tre del pomeriggio, il secondo partiva alle tre del po-meriggio e terminava alle undici di sera. Io preferivo il turno della mattina, così una volta finito, avevo il tempo di dedicarmi alla mia chitarra. Incominciai anche a scrivere e a buttare giù dei testi che un giorno o l’altro mi sarebbe piaciuto mettere in musica, nei quali racchiudevo i miei stati d’animo e i miei pensieri in libertà. Mi piaceva scrivere, pensavo che fosse un modo come un altro per esprime-re le mie sensazioni. A volte, prima di addormentarmi, mi capitava di pensare al giorno in cui, per la prima volta, lasciai il mio paese per venire a Milano a studiare. Mi sem-brava di rivedere le lacrime di mia madre e lo sguardo fiero di mio padre; e allora mi veniva un nodo in gola. Non avevo ancora trovato il coraggio di avvisarli che avevo mollato l’università, anche perché non ero ancora del tutto sicuro. Pensavo che ma-gari dopo una pausa di riflessione avrei trovato di nuovo la voglia di rico-minciare e allora era inutile creare delle preoccupazioni ai miei genitori. Anche se in cuor mio sapevo che questo era un alibi per non affrontare la situazione. Nel frattempo i sensi di colpa maturavano e crescevano dentro di me. Gli unici che sapevano della mia scelta erano Pier e Simona che si dimostra-rono solidali e comprensivi fin da subito. – Ne sei proprio sicuro di voler abbandonare? – mi domandò Simona la sera che gliene parlai. - Sicurissimo, ma ti garantisco che non è stato facile – le risposi. - Avrai le tue buone ragioni. Ti auguro di realizzare i tuoi sogni - disse . Il problema è che io in quel momento pensavo di non avere più sogni da rea-lizzare, solo una realtà da vivere per il meglio che potevo. La cosa che più mi confortava era l’amicizia e l’affetto che provavo nei con-fronti di Simona, con la quale trascorrevo molto del mio tempo libero. C’era una grande sintonia fra di noi. Una sera mi trovavo in un pub con Pier a bere una birra e lui ad un certo punto mi disse – Secondo me tu e Simona siete fatti l’uno per l’altra - . - Dici davvero? – gli domandai.

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- Sì. E penso che siate gli unici a non esservene mai accorti. Secondo me non c’è niente di peggio che incontrare la propria anima gemella e non ac-corgersene. Ma magari mi sto sbagliando, non voglio certo intromettermi. Anzi dimentica quello che ti ho appena detto - . Ma io non riuscii a dimenticarlo e ci pensai per qualche giorno. “E se avesse ragione lui? ” mi chiedevo in continuazione. Una sera tardi io e Simona eravamo sul divano davanti alla TV. Io ero stan-co perché ero appena tornato dal lavoro, lei aveva un’aria piuttosto annoiata. In sottofondo si sentiva una voce provenire dalla televisione “quando ho ini-ziato non credevo che andasse a finire così…prima erano pochi spiccioli, poi sempre di più…sono arrivato a giocarmi interi stipendi…ho dilapidato il conto in banca…sono arrivato persino a rubare nel portafogli di mia mo-glie…Sono stato in clinica…l’ho dovuto fare per mia moglie, per i miei figli, ma soprattutto per me stesso…quelle dannate macchinette, se solo potessi tornare indietro”. Fissavo lo schermo in silenzio, ma in realtà avevo soltanto voglia di stare vicino a Simona. Mi sembrava di sentire il battito ritmato del suo cuore e cercavo di capire che suono avrebbe potuto fare se si fosse unito al mio. Improvvisamente il mio sguardo incrociò furtivamente il suo. - Che hai stasera? Mi sembri strano? – mi chiese lei. - Nulla – le risposi. - Ormai penso di conoscerti abbastanza bene. Secondo me hai qualcosa - . Esitai un momento. - E’ un po’ di tempo che sto pensando ad una cosa - . - Non vuoi dirmela? - . Seguì una lunga pausa nella quale non riuscivo a sostenere il suo sguardo. - Sai Simo, stavo pensando a noi due in modo diverso – dissi quasi senza accorgermene, con il cuore che nel frattempo aveva raddoppiato i battiti. Lei mi sorrise in silenzio, perché non c’era bisogno di aggiungere altro, si avvicinò e mi prese la mano. Ci baciammo in una maniera un po’ goffa e innaturale. Ci staccammo in fretta e, guardandoci negli occhi, capimmo subito di aver commesso un erro-re e di aver compiuto una forzatura. Non è detto che l’amicizia debba per forza sfociare in qualcosa di più gran-de. Entrambi eravamo probabilmente alla ricerca di un sentimento che ci era-vamo illusi di poter trovare l’uno nell’altra. Ma non era così.

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Ce ne facemmo una ragione fin da subito e il nostro legame ne uscì addirit-tura rafforzato. Non ne parlammo più, semplicemente andammo avanti come se non fosse mai accaduto nulla. Una sera Simona entrò in camera mia mentre ero impegnato a scrivere sul mio quaderno. - Che fai? – mi domandò. - Scrivo - risposi. - Lo vedo. Che cosa scrivi? - . - Sono delle mie riflessioni, degli spunti che un giorno o l’altro mi piacereb-be mettere in musica - . - Fantastico. Fammi dare un’occhiata - . Ero molto titubante a far leggere i miei appunti a qualcuno, perché in fondo è un po’ come mettersi a nudo di fronte agli altri. Ma con Simona era diverso, così decisi di farle dare un’occhiata al mio qua-derno, anche se la cosa mi imbarazzava. Si sedette sul letto e incominciò a leggere con attenzione. Passarono alcuni minuti che mi sembrarono un’eternità. - Che belle cose scrivi – mi disse. - Davvero ti piacciono? – le chiesi felice. - Molto. Ci sono alcuni testi che varrebbe davvero la pena mettere in musica--Da quella sera, senza troppe pretese, decidemmo di provare a comporre del-le canzoni basandoci sulle cose che avevo scritto. - Così, tanto per il piacere di farlo – le dissi. - Vedrai che ci divertiremo – fece lei.

*** Un pomeriggio, tornato dal lavoro, Pier ci radunò in soggiorno e ci comuni-cò che avrebbe lasciato Milano. Fu un fulmine a ciel sereno. - Parto per l’Erasmus – ci disse – Andrò a stare un anno a Madrid - . Io rimasi a bocca aperta, mi dispiaceva veramente tanto che, dopo Giangi, anche Pier ci lasciasse. Pensai a come le cose cambiano intorno a noi, anche se certe volte ci piacerebbe che rimanessero esattamente come sono. Pensai che il giorno che se ne fosse andata via anche Simona, mi sarei ritro-vato di nuovo da solo; diventai triste. - Mi dispiace molto che tu te ne vada – gli dissi. - E’ solo per un anno. Poi torno qui con voi – mi rispose.

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In cuor mio era come se mi sentissi che non sarebbe mai più ritornato in quell’appartamento, ma lo tenni per me. La sera prima della sua partenza io e Simona decidemmo di organizzare a casa nostra una cena a buffet, per salutare la sua partenza. Non doveva esse-re un triste addio, ma un allegro modo per augurargli buona fortuna. Radunammo un po’ degli amici e dei compagni di università che frequenta-va Pier. Ci fu un bel passaparola, vennero in tanti e la serata fu molto divertente. Alcune persone le conoscevo già, molte altre non le avevo mai viste. Rimasi sorpreso da quanta gente conoscesse Pier. – Avanti Beppe! Ma dove ti sei cacciato? Voglio che ci suoni qualche pezzo. Altrimenti cosa te l’abbiamo regalata a fare la chitarra? – sentii la voce di Pier provenire dal salotto, mentre io ero in cucina intento a versarmi un bic-chiere di vino. Partì un coro – Beppe! Beppe! Beppe! - . Capii di non potermi sottrarre. - Va bene, va bene. Vi accontento subito - , in fondo avevo bevuto abbastan-za per superare la soglia dell’imbarazzo. - Ma solo se Simona mi accompagna con il basso – dissi . E tutti in coro – Simona! Simona! Simona! -. - Ok. Con vero piacere – disse lei ad alta voce. Incominciammo a suonare qualche pezzo che ci ricordavamo, cercando di soddisfare le richieste degli invitati. Tutti quanti intorno a noi cantavano e ci applaudivano. Era veramente una bella situazione. Così alla fine, preso dall’eccitazione del momento, attaccai con l’ultima delle canzoni che io e Simona avevamo arrangiato. Era un pez-zo molto orecchiabile che parlava della fine di un amore, ma in chiave ironi-ca. Gli avevamo messo un bel giro di chitarra. Feci un cenno di intesa a Simona e lei mi venne dietro con il basso. Gli altri ragazzi battevano le mani e seguivano il ritmo, mostrando di gradi-re. Non gli dicemmo che l’avevamo scritta noi, magari avranno pensato che fosse di qualche cantautore sconosciuto. Chissà. Dopo un bel po’ che stavamo suonando sentii la gola farsi sempre più secca, così mi alzai per prendermi una birra fresca dal frigo. Con mio grande disappunto mi accorsi che in cucina non c’era ormai più niente da bere, avevano fatto piazza pulita di tutto. “Mi resta la scorta personale che tengo in camera” pensai tra me e me diri-gendomi verso la mia stanza da letto.

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Sullo scaffale della mia libreria avevo ancora un paio di lattine. - Che fai ti bevi la birra calda? Prendi un po’ della mia – fece una voce alle mie spalle. Mi girai di scatto e vidi una ragazza che avevo notato precedentemente in salotto. Non la conoscevo, pensai dovesse essere un’amica di Pier. Era mol-to carina, aveva dei lunghi capelli castani che le arrivavano fino alle spalle, un fisico slanciato e un viso con i lineamenti molto delicati. Mi guardava con quegli occhi grandi color nocciola. - Grazie – le risposi dopo un attimo di titubanza –Te ne bevo un sorso - . - Sei bravo a suonare la chitarra – mi disse. - Diciamo che me la cavo – risposi io arrossendo. - Comunque io sono Sonia - . - Piacere – le dissi allungandole la mano – Io sono Giuseppe. Sei un’amica di Pier? - . - Se devo essere sincera non lo conosco proprio. Diciamo che sono un’amica di alcuni suoi amici. Mi hanno detto che c’era una specie di festa e mi sono imbucata. Spero di non esser stata maleducata - . - Niente affatto. Anzi hai fatto benissimo a venire. La serata l’abbiamo or-ganizzata io e Simona, quindi ti do ufficialmente il benvenuto a casa nostra - - Grazie. Simona è la ragazza che suona il basso? - . - Sì, è lei - . - E’ la tua ragazza? - . - No. E’ una mia amica – risposi, cercando di mascherare l’evidente imba-razzo. In quel momento Simona si affacciò alla porta. - Scusate. Ho interrotto qualcosa? – ci domandò. - No, figurati. Stavamo solo facendo due chiacchiere – le dissi, sforzandomi di reggere il suo sguardo. - Di là chiedono se possiamo fare qualche altro pezzo. Mi sa che ci hanno preso gusto - . - Va bene. Vengo subito - . - Ti aspetto in soggiorno – e così dicendo se ne andò. Ricominciai a suonare con tutta la voglia e l’energia che sentivo ogni volta che prendevo in mano la mia chitarra. Per un attimo pensai alle serate davanti al fuoco, sulla spiaggia, con la testa girata a fissare la porta del mare avvolta nell’oscurità delle acque, e in quel momento mi sembrò che l’atmosfera fosse la stessa. Cambiava il contesto, ma le sensazioni che riuscivo a provare erano sempre quelle.

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Mentre suonavo, con lo sguardo cercavo furtivamente il volto di Sonia e, ogni volta, trovavo i suoi occhi puntati verso di me, a fissarmi con un’ inten-sità che mi metteva in soggezione. Proseguimmo fino a quando gli invitati incominciarono ad andarsene e la serata si concluse. Quando Sonia si alzò, ci lanciammo un’ ultima occhiata prima che sparisse dietro la porta. Per un attimo pensai di andarle a parlare, ma alla fine la ti-midezza mi bloccò. - Grazie di tutto – disse Pier rivolgendosi a me e a Simona – E’ stata una se-rata meravigliosa - . Il giorno dopo si imbarcò su un volo per Madrid, lasciando un grande vuoto dentro quel nostro appartamento. Le cose stavano cambiando più rapidamente di quanto ce ne rendessimo conto.

*** Qualche giorno dopo la partenza di Pier, io e Simona ci ritrovammo soli all’interno della casa. - Ci sono un paio di situazioni che dobbiamo risolvere – mi disse. - Quali? – le chiesi. - Prima di tutto dobbiamo trovare dei nuovi coinquilini per dividere l’affitto. Già in tre, dopo la partenza di Giangi facevamo molta fatica, ma ora in due è diventato improponibile - . - Hai ragione. Anche se ora ho un lavoro, l’affitto è comunque troppo pesan-te anche per me. Cosa possiamo fare? - . - Metteremo un annuncio in università - . - Ok. E l’altra situazione da risolvere? -. - Ti ricordi la sera del tuo compleanno quando al ristorante parlammo dei nostri progetti futuri? - . - E come no. Io ero l’unico scemo a non averne - . - Già. Io invece dissi che avevo in testa un’idea, ma che non avevo intenzio-ne di parlarne. Ricordi? - . - Sì, ricordo bene - . - E’ arrivato il momento che te ne parli - . - Avanti. Ti sto ascoltando – dissi sempre più curioso di sapere. - L’altra sera abbiamo suonato alla grande insieme. C’era una grande intesa tra di noi. Vorrei formare una band - . - Come una band? Ma siamo solo in due - .

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- Diciamo che in università ho conosciuto qualcuno che ritengo possa fare al caso nostro. Tu non devi fare niente. Penserò io ad organizzare il tutto. Che mi dici? – mi domandò con due occhi intrisi di speranza, ai quali non si po-teva dire di no. Non avevo mai suonato in una band. L’idea mi stuzzicava. - Dico che va bene. Ci sto. A patto che riusciamo a far coincidere il tutto con il mio lavoro al supermercato - . - Tranquillo. Lascia fare a me – disse Simona eccitata dalla cosa. Dopo circa una settimana si presentò a casa con tue tizi. Uno era un ciccione rasato con due folte basette unite al pizzetto, mentre l’altro era uno spilungone con i capelli tutti sparati in alto. A vederli insieme formavano una bella coppia, mi ricordavano un po’ i Blues Brothers, solo un po’ più punk. - Ti presento Matteo, detto il cinghiale –; e non facevo certo fatica a capire il perché, – E lui invece è Gabriele o se preferisci Lele - . - Piacere – dissi io. Il cinghiale era un personaggio che istintivamente mi ispirava una gran sim-patia. Era veramente grosso e aveva una testa rotonda simile ad una palla da bowling. Sul collo aveva il tatuaggio di una specie di lucertola che si arram-picava. Lui mi disse che raffigurava un geko. Il Lele al contrario era molto alto e magro, aveva il viso un po’ allungato, i lineamenti spigolosi e la faccia di un tipetto furbo. Il cinghiale era un batterista, mentre il Lele era un chitarrista. Simona li aveva reclutati entrambi tramite conoscenze comuni. - Hai visto? Abbiamo trovato i componenti strumentali della band, adesso manca solo un cantante - disse Simona. - E dove proveremo? – chiesi io. - Allestiremo la sala prove nel mio garage - intervenne il cinghiale – E’ il posto ideale. Ci suono la batteria tutti i giorni. L’ho completamente insono-rizzato e nessuno ci romperà i coglioni - . - E quando si comincia? – domandai. - Se per voi va bene potremmo fare sabato pomeriggio – disse Simona in modo deciso. Andò bene per tutti, così ci ritrovammo quel sabato pomeriggio riuniti nel garage del cinghiale. - Ma cosa suoniamo? – chiesi io. – Per iniziare direi di suonare un po’ liberamente, in una sorta di jam ses-sion. Per conoscerci mi sembra l’ideale – fece Simona, candidandosi ad es-sere la vera leader del nostro gruppo.

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- E il cantante? – le domandai io. - Per ora non ci serve, suoniamo e basta. Quando avremo trovato il nostro stile e avremo capito cosa vogliamo fare lo sceglieremo di conseguenza – rispose lei. Proprio per il fatto di non avere mai suonato in una band, quando attaccam-mo ebbi la netta sensazione che non saremmo mai riusciti a fonderci in un gruppo. Avevo come l’impressione che ognuno di noi fosse un individuo a parte, completamente staccato dagli altri e che sarebbe stato impossibile formare un insieme perfetto. Ma fortunatamente mi sbagliavo. Dopo varie sessioni di prova e dopo averci messo tanto impegno, capii che tutti noi eravamo accomunati dal fatto di amare la musica e questo era il punto di partenza che ci stava portando ad essere un gruppo. Ed io mi accorsi che avrei dovuto allargare parecchio i miei confini musicali che fino a quel momento erano abbastanza ristretti. - Beppe, non offenderti. Ma tu ascolti sempre quei quattro cantanti – mi dis-se un giorno il Lele. E aveva ragione, così incominciai a mettermi di impegno per aprirmi di più verso nuovi generi musicali. Mischiando il nostro background culturale e i nostri gusti personali, alla fine riuscimmo a mettere insieme una sorta di nostro repertorio. Arrivammo a toccare alcuni mostri sacri del panorama musicale rock anni settanta e ottanta. Roba tipo gli Who, Janis Joplin, i Doors, i Led Zeppellin, i Cure, i Clash, solo per citarne alcuni. Nomi che solo a pronunciare mi facevano tremare le gambe. - Ok, ci siamo - fece una sera il Lele – Ora dobbiamo solo trovare il cantante che fa per noi - . Mi venne un’idea a cui stavo pensando già da un po’. - Sentite – dissi – Si è creata una bella atmosfera fra di noi. Non vorrei che inserendo una persona nuova si andasse a rovinare questo bel clima - . - Ho capito, ma mica possiamo rimanere senza cantante. Non si è mai vista una band senza cantante – rispose il cinghiale. - Il nostro cantante ce l’abbiamo già – affermai molto tranquillamente. - E dove? – domandò il Lele. Si creò un momento di silenzio nel quale gli altri mi fissavano in attesa che io proseguissi. - E’ Simona. Ha una voce stupenda – .

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- Ma tu sei pazzo. Te lo puoi scordare – rispose decisa Simona – Io suono il basso, non mi va di cantare - . Alla fine dopo molte insistenze riuscii a convincerla almeno a provarci. Ero sicuro che sarebbe andata alla grande. - Dai… solo una volta, proviamo un pezzo solo – le dissi . - Ok, ma solo per provare – fece lei. Suonammo un vecchio pezzo di Patti Smith. Simona lo interpretò stupen-damente, ci mise una passione e un’energia da fare accapponare la pelle. E particolare non da poco, aveva una gran bella voce, morbida ma al tempo stesso graffiante. - Bene. Direi che abbiamo risolto il nostro problema – disse soddisfatto il Lele. A quel punto Simona capì che non poteva continuare ad opporsi e si convin-se di essere non solo la bassista, ma anche la cantante del nostro gruppo. Ormai eravamo in grado di esibirci in pubblico.

*** Nei giorni seguenti la partenza di Pier, mi capitò spesso di ripercorrere con la mente l’incontro con Sonia. E ogni volta che pensavo a lei, sentivo lo stomaco in subbuglio. Era da molto tempo che non provavo simili sensazio-ni. Pensavo alle sue parole, al suo sorriso, ai suoi occhi che mi fissavano in quel modo. Mi sarebbe piaciuto chiamarla, magari per chiederle di uscire, o magari soltanto per sentire la sua voce. Cercavo di immaginarmi la telefo-nata, cosa le avrei detto e come mi sarei comportato. Ma non avevo il suo numero di telefono e non sapevo nemmeno chi fosse. Era un’amica di amici di Pier, questi erano gli unici indizi che mi aveva lasciato. Avrei potuto rin-tracciare alcuni degli invitati di quella sera e chiedere se la conoscessero, ma non ne ebbi il coraggio. Passarono alcune settimane e il pensiero di lei incominciava ad affievolirsi schiacciato dalla routine delle mie giornate fatte di lavoro e prove con il gruppo. Un pomeriggio, quando meno me lo sarei aspettato, tornando a casa dal su-permercato, trovai Sonia sotto al mio portone. - Ciao – dissi io, faticando a fare uscire la voce. - Ciao – rispose semplicemente lei. Restammo per un po’ in silenzio quasi a voler studiare le mosse dell’altro.

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- Come mai da queste parti? – le chiesi quando il silenzio divenne intollera-bile. - Sono venuta a cercarti – rispose lei fissandomi dritto negli occhi. - Davvero? – domandai fingendo di essere meravigliato, anche se in realtà lo avevo sperato durante tutti quei giorni . - Davvero. Visto che non mi hai più chiamato ho pensato di venire io da te - - Ti avrei chiamato, ma non avevo il tuo numero - . Ci fu un’altra pausa. - Mi fai salire? – mi domandò lei. - Certo, vieni – e mentre pronunciavo queste ultime parole fui colto da una sensazione di euforia che si mescolava alla paura che avevo dentro. Paura che quel momento tanto atteso finisse in qualche modo per svanire. Poi guardai il suo viso di sfuggita, mentre salivamo su per le scale e i pen-sieri si dissolsero rapidamente. - Ti ho pensato molto in questi giorni – le parole mi scivolarono fuori dalla bocca quasi senza che io le controllassi. Lei mi sorrise dolcemente. - Vieni – e così dicendo la portai in camera mia, per il timore che da un momento all’altro dalla porta d’ingresso potesse entrare Simona a rovinare l’atmosfera, com’era successo l’ultima volta. Ci sedemmo sul letto senza sapere bene come dovevamo comportarci. Nel frattempo Sonia osservava attentamente la mia camera, sbirciava tra i miei dischi e leggeva i titoli dei miei libri. Sembrava volesse scoprire qual-cosa in più su di me, senza farmi nessuna domanda. - Questo l’ho letto anch’io – disse ad un certo punto. - Certo – feci io – Questo è il ritratto di Dorian Gray, l’hanno letto tutti - . - Hai ragione, mi hai scoperto. Non sono una gran lettrice - . Scoppiammo a ridere, poi la guardai nel profondo degli occhi e senza pen-sarci troppo, mi avvicinai e la baciai sulle labbra. Era quello che avrei voluto fare sin dal primo momento in cui l’avevo vista. Ci baciammo non so per quanto tempo, senza dire niente; poi in maniera molto spontanea incominciammo a parlare e ci raccontammo tutto. Le parlai del mio paese, di casa mia, del mare, del mio arrivo a Milano, di come non era stato facile ambientarsi. Le raccontai del perché avevo lasciato l’università e del mio lavoro che non era certo quello che sognavo, ma che mi permetteva comunque di mantenermi. Le dissi del mio incontro con Si-mona, di come ci sentivamo uniti dalla passione per la musica e di come mi piaceva potermi esprimere suonando la mia chitarra.

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Lei a sua volta mi parlò della sua vita. Da quel momento iniziammo a vederci quasi tutti i giorni e ad abituarci l’uno all’altro. Stavamo insieme, se così si può dire, e sentivo che questo no-stro rapporto diventava sempre più solido giorno dopo giorno. Sonia era sicuramente diversa da me, forse era per questo che ci completa-vamo a vicenda. Lei era nata e cresciuta a Milano, viveva sola con il padre senza mai aver conosciuto la propria madre, che era morta poco dopo il par-to. Proprio per questo motivo Sonia e suo padre erano legati da un amore profondo e viscerale. Infatti il padre fin da quando lei era piccola aveva sempre cercato di non farle mai mancare niente, sforzandosi di raddoppiare il proprio affetto e la propria presenza quasi a voler supplire all’assenza di una figura materna. Sonia dal canto suo aveva capito fin da subito tutto que-sto e aveva sempre cercato di non creare problemi. Era come se il loro rap-porto si nutrisse di un senso di colpa tacito e reciproco. Il padre si sentiva in colpa per non averla potuto fare crescere con accanto la propria madre come era naturale che fosse, mentre Sonia si sentiva in colpa perché la sua mam-ma era morta dopo averle dato la vita. Sembrava che il destino si fosse acca-nito su di loro, mischiando la vita con la morte nello stesso giorno. Sonia fin da bambina era sempre stata molto diligente e matura e dopo aver terminato brillantemente il liceo scientifico si era iscritta a Economia. Finiti gli studi voleva lavorare nel marketing per qualche grande azienda. Era una ragazza con i piedi per terra e le idee chiare. Anche se era molto giovane sapeva già quello che voleva dalla vita. Io al contrario ero più insi-curo e sognatore e ancora non sapevo che strada avrei preso. L’unica cosa che sentivo in quel momento è che volevo stare con Sonia, avevo bisogno di lei.

*** All’inizio della nostra storia ero un po’ preoccupato per la mia amicizia con Simona, mi sentivo a disagio. Ero talmente abituato a trascorrere il mio tem-po libero con lei che mi sentivo quasi in colpa ad escluderla così all’improvviso. Per cui una sera sentii il bisogno di chiarire. - Non c’è nessun problema da parte mia. Mi fa piacere che tu sia felice con lei. L’unica cosa che ti chiedo è di venire alle prove e di impegnarti come hai sempre fatto. Ci credo molto nel nostro progetto – mi disse in maniera molto razionale, quasi distaccata.

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Ed io fui più sollevato, anche se nello stesso tempo capii che il nostro rap-porto stava in qualche modo cambiando e non sarebbe stato più lo stesso di prima. D’altra parte se c’era una lezione che avevo imparato in quegli anni era che nella vita le cose sono in continuo mutamento. A Sonia, invece, decisi di non dire niente di quel famoso bacio con Simona, perché non volevo creare inutili motivi di gelosia e tensione per una vecchia faccenda ormai sepolta. La sera, quando non suonavo o Sonia non doveva preparare un esame, sta-vamo sempre insieme. Spesso a casa mia, oppure andavamo a fare un giro in qualche locale o magari al cinema. Al di là di quello che facevamo l’importante per noi era stare insieme, questo ci bastava per sentirci bene. Qualche volta, dopo aver fatto l’amore ci addormentavamo e poi di colpo lei si svegliava e diceva sottovoce – Beppe sveglia…è tardissimo. Devo correre a casa - e di corsa scendeva giù per le scale. Io la guardavo dalla finestra sparire a bordo della sua Punto grigia ed ero sempre contento al pensiero che ci saremmo rivisti l’indomani. Una volta capitò che non ci svegliammo e tirammo dritti fino alle otto di mattina. Successe un gran casino, il padre di Sonia volle a tutti i costi sapere dove la figlia trascorreva le sue serate. - Sonia, adesso tu mi devi dire dove vai e con chi esci. Vieni sempre a casa tardi, stanotte non sei neppure rientrata. Lo sai che stavo per chiamare la po-lizia? Mi hai fatto passare la notte in bianco, ero preoccupatissimo - . - Scusa papà, ma mi sono addormentata, non ho fatto niente di male - . - Cosa vuol dire mi sono addormentata? Dove? Con chi? – . - A casa di Giuseppe, il mio ragazzo. Ma non è successo niente, eravamo stanchi e ci siamo addormentati- . - E chi è questo Giuseppe? – . - E’ un ragazzo che ho conosciuto un po’ di tempo fa. Stiamo insieme - . - Da quanto va avanti questa storia? – . - Circa sei mesi – . - E perché non mi hai mai detto niente? – . - Non lo so, aspettavo di capire se si trattasse di una cosa seria – . - Ed è una cosa seria? - . - Direi proprio di sì - . - Beh, allora mi piacerebbe tanto conoscere questo ragazzo con cui mia fi-glia trascorre tutto il suo tempo. Venerdì lo inviti qui a cena da noi - . - Ma…- . - Niente ma – .

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Suo padre era uno con cui era difficile mettersi a discutere, un uomo che quando si ficcava in testa una cosa, andava fino in fondo. Proveniente da una famiglia milanese di ceto medio, aveva iniziato a lavorare molto giova-ne come magazziniere, in una piccola ditta di ricambi per auto. Era sempre stato un uomo dedito al risparmio e al sacrificio, con un grande spirito di i-niziativa e una straordinaria forza di volontà. Così quando il proprietario della ditta andò in pensione, lui decise di rilevarla, migliorandola e portan-dola nel corso degli anni ad avere una certa rilevanza nel settore. Tutta la sua vita era rappresentata dall’amore per Sonia e dalla determinazione con cui conduceva la sua azienda. Ad ogni modo se lui si era messo in testa di conoscermi non ci sarebbe stato nessuno in grado di fargli cambiare idea. Io quel venerdì sera avevo le prove con il gruppo. Ci stavamo preparando per il concerto che un paio di giorni dopo avremmo dovuto tenere in un locale vicino a Milano. - Venerdì non posso proprio, ho le prove – dissi a Sonia. - Le dovrai rimandare. Venerdì c’è la cena punto e basta. Non lo capisci che mio padre ora che ha scoperto la nostra relazione vuole a tutti i costi incon-trarti. Altrimenti la sera non mi fa più uscire. Io lo conosco, è fatto così – fece Sonia. - Hai bisogno del suo permesso per uscire? – le domandai in modo un po’ provocatorio. - Guarda Beppe, non fare lo stronzo. Non mi sembra di chiederti tanto. Per me è importante – . - Non è per fare lo stronzo, ma se lo vuoi proprio sapere la situazione mi agita. Non so come comportarmi, come vestirmi, cosa dire… - . - Vestiti normalmente, non c’è mica bisogno che tu venga in giacca e cravat-ta. E comportati con naturalezza. Vedrai che andrà benissimo – . - Cosa dico a Simona e agli altri? Lo sai che domenica sera abbiamo il con-certo – . - Gli dici la verità, che hai un impegno importante che non puoi rimandare. Tutte le sere suoni la tua chitarra, i pezzi che provate sono sempre gli stessi e di concerti ne avete già fatti. Non mi sembra che sia la fine del mondo se per una volta salti le prove. Ti prego, fallo per me – . Capii di non avere molta scelta, era una cosa che andava fatta e basta. Ne andava del mio rapporto con Sonia. La sera stessa dissi a Simona che quel venerdì non sarei potuto andare alle prove e lei non la prese affatto bene. - Che sarebbe questa novità che non vieni alle prove? – mi chiese.

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- Nessuna novità, solamente che venerdì ho un impegno e non riesco ad es-serci. Tutto qua – risposi io. - E se posso chiedere, quale sarebbe questo impegno improrogabile? – . - Scusa, ma devo portarti la giustificazione per saltare un giorno di prove? Siamo arrivati a questi livelli? – . - E’ inutile Beppe, che fai dell’ironia. Lo sai che il punto è che prima di un concerto è bene ripassare i pezzi. Abbiamo un paio di canzoni nuove in sca-letta, che sarebbe giusto provare un pochettino meglio. Adesso che stiamo incominciando a bazzicare i locali della zona, ci stiamo facendo conoscere e raccogliamo due soldi, non mi sembra il caso di mollare – . - Scusa Simo, hai ragione, ma qui non si tratta di mollare. Solo che è succes-so un casino con il padre di Sonia e adesso ha organizzato una cena perché vuole conoscermi. Credimi la cosa non mi fa piacere, ma non posso proprio mancare – . - Va bene, ho capito. Proveremo senza di te, lo dirò io agli altri, ma promet-timi che non diventerà un’abitudine – . - Promesso - . Era un periodo piuttosto intenso per me. Le giornate al supermercato erano già di per sé pesanti, mentre i concerti in giro stavano diventando sempre più frequenti. Il resto del tempo libero lo passavo con Sonia. Era difficile riuscire a conciliare tutto quanto.

*** Venerdì arrivò in un batter d’occhio. Alle quindici in punto staccai dal lavoro e corsi da un fioraio in centro a comprare una pianta grassa, come gentile omaggio per l’invito a cena. Da qualche tempo avevo scoperto di essere attratto dalle piante grasse. Le vidi una sera in un documentario alla televisione e ne rimasi incuriosito pa-recchio, così comperai alcune riviste con le foto e le descrizioni, per appro-fondire un po’ l’argomento. Al contrario di quello che avevo sempre pensa-to, rimasi stupito dal fatto che anche quel tipo di piante fossero molto delica-te e andassero trattate con una certa cura. Pensai che un giorno mi sarebbe piaciuto imparare a coltivarle. Per il mo-mento mi limitai a comprarne una da tenere nel soggiorno di casa. Per il padre di Sonia, dopo un’attenta analisi, scelsi un’ Agave manifesta maculosa, appartenente alla famiglia delle piante grasse succulente. Era dif-ficile da descrivere, si potrebbe dire che aveva dei gambi allungati, tipo dei

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tentacoli, come una sorta di polipo. Non so perché la scelsi, forse era proprio perché mi ricordava un animale marino. Sonia arrivò a prendermi con la sua macchina verso le otto. Mi ero fatto trovare impeccabile. Indossavo una camicia bianca che mi ave-va regalato mia mamma per la maturità, dei pantaloni beige e un paio di mo-cassini eleganti che praticamente non avevo mai messo. Mi aspettavo dei complimenti, invece Sonia si dimostrò più concentrata sul-la pianta grassa. - Cos’è che hai in mano? – mi domandò stupita. - E’ l’Agave manifesta maculosa. Ti piace? – le chiesi. - Ti avevo detto di portare una bottiglia di vino o una scatola di cioccolatini – - Troppo banale. Mi piaceva l’idea della pianta. Non va bene?- . - No no va bene, per carità. Sbrighiamoci altrimenti facciamo tardi – . - Sai, sono un po’ nervoso. Ti dispiace se fumo in macchina? – . - Lo sai che mi da fastidio in macchina – . - Per una volta non potresti fare un’eccezione? – . - Va bene fuma pure, ma non ti azzardare a tirare fuori le sigarette davanti a mio padre - . - Perché? Non mi hai detto di essere me stesso? – . - Sì, ma preferirei se evitassi di fumare in casa mia, davanti a mio padre, se non ti dispiace – . - Ok. Se proprio ti da fastidio cercherò di evitare – . Durante il breve tragitto non riuscivo a smettere di pensare che in quel mo-mento sarei dovuto essere alle prove. Mi sentivo in colpa verso Simona e il resto del gruppo. - Così tu saresti Giuseppe – esordì il padre di Sonia aprendoci la porta. - Sì, infatti. Piacere – risposi io porgendogli la mano nel tentativo di nascon-dere un certo imbarazzo. - Piacere mio – disse lui, stringendomi la mano con decisione – Sono Gianni il padre di Sonia -. - Questa è per lei – ; e gli allungai la manifesta maculosa. - Una pianta grassa? Che pensiero carino. Se non altro non è la solita botti-glia di vino – disse ridendo. Io lanciai un’occhiata verso Sonia come per dirle “Te l’avevo detto che era un pensiero originale”. Lei mi fulminò con il suo sguardo. Era la prima volta che andavo a casa sua, così mi guardai un po’ intorno e rimasi colpito dall’ordine e dall’eleganza di quell’appartamento. Tutto quel-

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lo che c’era in quella casa mi faceva pensare che rispecchiasse in pieno il carattere preciso e delicato di Sonia. Ci accomodammo su un morbido divano bianco e incominciammo a scam-biare quattro chiacchiere, cercando di rompere il ghiaccio. Fortunatamente venne presto il momento di mettersi a tavola. - E’ pronto. Possiamo iniziare a sederci – disse Sonia mettendo la testa fuori dalla cucina. - Cos’ hai cucinato di buono? – le domandai io, tanto per dire qualcosa. - Niente, in realtà sto scaldando i piatti della rosticceria qua all’angolo – ri-spose lei in maniera secca. - E’ un’ottima rosticceria. La migliore di Milano, vedrai che ti piacerà senz’altro – intervenne suo padre. - Non ho alcun dubbio, mi piacerà sicuramente. E poi da quando vivo da so-lo a Milano ho imparato ad apprezzare un po’ di tutto - . - Dunque non è molto che sei a Milano. Non lo sapevo. Sonia mi ha parlato così poco di te, anzi per la verità non me ne ha parlato per niente. Lo sono venuto a sapere quasi per caso. La sera usciva spesso e tornava sempre a ca-sa tardi, l’altra notte non è tornata per niente. Così mi sono un po’ preoccu-pato. Tu mi capisci vero? - . - Certo. La capisco benissimo, ma non deve preoccuparsi. L’altra sera è sta-to un caso, stavamo guardando la televisione, eravamo molto stanchi e ci siamo addormentati. Tutto qua - . - Può succedere. Ma mi sono detto: perché non conoscere Giuseppe? Se mia figlia ci tiene tanto, è giusto che lo presenti anche a suo padre. O sbaglio? – . - No, ha fatto bene - risposi cercando di sorridere, anche se in realtà mi stava venendo un po’ di agitazione. Avevo una gran voglia di fumare. Nel frattempo arrivò Sonia con un piatto di tagliatelle ai funghi belle fuman-ti. Iniziammo a mangiare e Gianni stappò una bottiglia di vino rosso fermo, molto invitante. - Te ne intendi di vino? – mi chiese. - Non sono un grande intenditore - risposi io – Però mi piace berlo. Cioè so-lo un bicchierino intendo - . - Allora assaggia questo. E’ un vino siciliano ottimo – e così dicendo, me ne versò mezzo bicchiere in un raffinato calice di vetro. - Buono, vero? – domandò lui. - Già. Buono davvero. E’ un vino che conosco bene. E’ un vino della mia terra – dissi lasciando trasparire un pizzico d’ orgoglio. CONTINUA...