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PRESENTAZIONE 7 Presentazione Vi è un gran vociare nel nostro Paese e nel mondo di «ricerca traslazionale», ovvero quella parte della scienza più vicina all’applicazione pratica e, nel caso della ricerca medica, più vicina alle istanze dei malati. Nel 2003, il «Journal of the American Medical Association», la rivista di riferimento della medicina clinica statunitense, introduceva una rubrica di Translational Medical Research con lo scopo di ridurre la distanza fra i ricercatori di base — quelli che del malato non vedono che frammenti di tessuti, cellule sparse o residui organici, o addirittura cercano di ricostruire nel ratto ciò che succede nel corpo del paziente — e i ricer- catori clinici, quelli che il malato lo vedono, lo toccano, lo sentono, gli parlano e cercano strumenti più efficaci per far diagnosi, cura e riabilitazione. Gli editori di questa prestigiosa rivista facevano in questo modo spazio all’approccio «bedside to bench and back to bedside» (dal letto del malato al laboratorio e ritorno), che parte dai bisogni clinici concreti, cerca di dare risposte significative con rigore metodologico utilizzando la tecnologia più avanzata disponibile, e restituisce al malato una cura a più elevato tenore diagnostico, terapeutico e riabilitativo. Purtroppo, i ricercatori in grado di dare corpo e volto a questo approccio, di palese pregnanza clinica, non sono numerosi, per la verticalità delle competenze necessarie. Il ricercatore traslazionale deve conoscere a fondo i problemi clinici del malato — conoscenza che può avere solo trattandolo in prima persona, non «per sentito dire» — ma allo stesso tempo deve avere contezza di prima mano degli strumenti tecnologici più avanzati, siano questi tecniche di analisi biochimi- ca, di imaging, ecc. Per questa ragione gran parte della ricerca biomedica viene

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PRESENTAZIONE 7

Presentazione

Vi è un gran vociare nel nostro Paese e nel mondo di «ricerca traslazionale», ovvero quella parte della scienza più vicina all’applicazione pratica e, nel caso della ricerca medica, più vicina alle istanze dei malati. Nel 2003, il «Journal of the American Medical Association», la rivista di riferimento della medicina clinica statunitense, introduceva una rubrica di Translational Medical Research con lo scopo di ridurre la distanza fra i ricercatori di base — quelli che del malato non vedono che frammenti di tessuti, cellule sparse o residui organici, o addirittura cercano di ricostruire nel ratto ciò che succede nel corpo del paziente — e i ricer-catori clinici, quelli che il malato lo vedono, lo toccano, lo sentono, gli parlano e cercano strumenti più efficaci per far diagnosi, cura e riabilitazione. Gli editori di questa prestigiosa rivista facevano in questo modo spazio all’approccio «bedside to bench and back to bedside» (dal letto del malato al laboratorio e ritorno), che parte dai bisogni clinici concreti, cerca di dare risposte significative con rigore metodologico utilizzando la tecnologia più avanzata disponibile, e restituisce al malato una cura a più elevato tenore diagnostico, terapeutico e riabilitativo.

Purtroppo, i ricercatori in grado di dare corpo e volto a questo approccio, di palese pregnanza clinica, non sono numerosi, per la verticalità delle competenze necessarie. Il ricercatore traslazionale deve conoscere a fondo i problemi clinici del malato — conoscenza che può avere solo trattandolo in prima persona, non «per sentito dire» — ma allo stesso tempo deve avere contezza di prima mano degli strumenti tecnologici più avanzati, siano questi tecniche di analisi biochimi-ca, di imaging, ecc. Per questa ragione gran parte della ricerca biomedica viene

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8 LA RIABILITAZIONE NELLA DEMENZA GRAVE

effettuata da ricercatori di base che affrontano problemi di scarso impatto clinico o da ricercatori clinici con strumenti inadeguati o obsoleti.

L’autrice di questo libro ha la dote di unire competenze di ricerca di base nel campo dell’analisi tecnologicamente avanzata delle neuroimmagini a una profonda ispirazione clinica. Questo raro connubio è stato reso possibile dal lungo periodo che Marina Boccardi, psicologa e dottore di ricerca in neuroscienze, ha passato lavorando per metà del suo tempo in un ambiente fortemente clinico come quello di un nucleo Alzheimer bresciano e per l’altra metà nel laboratorio di neuroimmagine dell’Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico Fate-benefratelli di Brescia. Qui Marina Boccardi ha trovato il metodo e gli strumenti di analisi computerizzata delle immagini di risonanza magnetica che le hanno permesso di approfondire le domande relative all’accuratezza diagnostica e alla comprensione fisiopatologica dei pazienti che osservava nel nucleo Alzheimer e di generare prodotti scientifici di spessore internazionale.

In questo volume Marina Boccardi ha profuso la ricchezza delle conoscenze generate da questo lento e faticoso ma fecondo processo di fertilizzazione reciproca fra l’esperienza clinica sul campo, che emerge prepotente da ogni pagina, e l’ap-profondimento scientifico. Studio e pratica si distinguono chiaramente in alcune sezioni, ma nella maggior parte sono così fortemente compenetrate da risultare individualmente invisibili. Lasciamo al lettore apprezzarne il portato clinico.

Soprattutto, dalla lettura peraltro scorrevole e piacevole del volume, emerge in modo dirompente il desiderio, sfruttando le più moderne conoscenze (neuro-psicologiche in particolare ma anche cliniche e neurodiagnostiche), di ridare vita a un corpo martoriato dalla malattia, ma che per questo, malgrado i vuoti e le lacune, non è meno corpo e conserva sino alla fine la capacità di essere attore di relazioni interpersonali. Il messaggio che emerge è chiaro: è questo l’unico atteggiamento possibile per chiunque sia coinvolto a vario titolo nella cura di pazienti affetti da malattie croniche e in particolare da una demenza, che trova quotidianamente la propria declinazione in un ottimismo che sa soppesare anche i piccoli guadagni e che, grazie a una «lettura attenta» e talora molto difficile (da qui la necessità di dotarsi di strumenti e conoscenze raffinati) della sofferenza fisica e psicologica di chi ci è affidato, sa trovare una risposta adeguata ai suoi bisogni, la cui validità scientifica resta talvolta da dimostrare ma che si fonda su solide basi culturali. È nell’invito a cogliere la vita, fatta di significati e relazioni, anche dietro apparenti scampoli di vita — in realtà semplicemente parte della storia vitale di una persona — il messaggio forte che l’autrice ci vuole trasmettere. Un ottimismo applicato alla pratica geriatrica, senza il quale è elevato il rischio di fenomeni di rigetto, ma che deve essere temperato attraverso l’acquisizione di competenze specifiche se non vuole trasformarsi in mero altruismo. Un ultimo aspetto che qualifica il

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PRESENTAZIONE 9

volume consiste, per usare le parole di Robert Kane — noto geriatra americano —, in un’«intolleranza creativa verso lo status quo». Questo atteggiamento emerge soprattutto dalla critica talora aspra rivolta agli attuali modelli riabilitativi più diffusi e popolari (vedi il capitolo quarto). È questo un altro messaggio importante che emerge dalla lettura dei vari capitoli: soprattutto in un ambito quale quello della riabilitazione delle demenze, in assenza spesso di chiare evidenze scientifiche, è necessario un atteggiamento critico, non fine a se stesso, bensì finalizzato alla ricerca di nuovi approcci che sappiano nutrirsi dell’evoluzione delle conoscenze. Auguriamo al volume il successo che merita presso coloro che quotidianamente assistono persone affette da demenza.

Giovanni B. Frisoni, NeurologoOrazio Zanetti, Geriatra

IRCCS Centro S. Giovanni di Dio – Fatebenefratelli, Brescia

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INTRODUZIONE 11

Introduzione

Questo manuale nasce in una situazione piuttosto particolare, determinata da una moltiplicazione dei casi riconosciuti di demenza, dall’allestimento di servizi appositamente progettati per questo tipo di pazienti, e al contempo da un divario, ancora oggi aperto, fra l’avanzamento delle conoscenze specifiche sul trattamento della demenza, specialmente in ambito istituzionale, e la sua applicazione pratica. Naturalmente il materiale scientifico a disposizione è ancora piuttosto carente sotto diversi punti di vista. Per esempio, rarissimi sono gli studi che, dimostrando l’efficacia terapeutica di un intervento, abbiano fornito anche una misurazione del grado di generalizzabilità alla vita quotidiana del risultato ottenuto. Scarsi sono anche i lavori orientati alla cura di demenze moderate o gravi, più rappresentate nelle residenze socio-assistenziali (RSA) rispetto a quelle lievi, trattate piuttosto in regime di day hospital. Analogamente, trattamenti studiati per gruppi di pazienti eterogenei come quelli dei contesti reali sono ancora da considerare, a causa della necessità del metodo scientifico di eliminare il più possibile variabili spurie e non controllabili. Pure, disponiamo di un corpo di conoscenze che, sebbene destinato a ulteriore sviluppo, è tristemente sottoutilizzato per ragioni di tipo sostanzialmente logistico ed economico. Il problema principale risiede nel fatto che, nel concreto, gli interventi terapeutici orientati a livelli cognitivo, sociale ed emotivo delle persone affette da demenza sono affidati a mani non specializzate, generalmente animatori, educatori, fisioterapisti, ausiliari e assistenti ad perso-nam. Si tratta di figure professionali che potrebbero svolgere adeguatamente tale compito, se solo fossero affiancate da supervisori con almeno minime competenze

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12 LA RIABILITAZIONE NELLA DEMENZA GRAVE

neuropsicologiche. Anche la sola mancanza di conoscenza della lingua inglese negli ambienti assistenziali è in grado di sancire il divario fra il piano applicativo e quello teorico. Infatti, i più importanti contributi scientifici riguardanti la ria-bilitazione della demenza sono pubblicati su riviste internazionali di cui non si dispone di traduzione in lingua italiana. Sono rarissimi gli istituti che prevedono nella loro pianta organica la presenza di uno psicologo, così come, sul piano teorico, rari sono i ricercatori che abbiano sufficienti competenze pratiche da poter efficacemente comunicare agli operatori i concetti veramente rilevanti per l’applicazione pratica del trattamento.

Da questa situazione è evoluto un metodo di cura delle demenze fondato, molto semplicemente, sulla raccolta e progressiva modificazione delle uniche tecniche di cui fosse disponibile qualche traduzione in lingua italiana. In poche parole, la ROT (Reality Orientation Therapy; Taulbee e Folsom, 1966; Floren-zano, 1988) e la VT (Validation Therapy; Feil, 1996) devono il loro successo nel nostro Paese alla traduzione in italiano dei lavori originari che ne descrivono la tecnica e alla successiva divulgazione nei libri di testo universitari e parauniver-sitari di argomento psichiatrico o assistenziale. Si vedrà nel prossimo capitolo quali siano esattamente le lacune nel razionale terapeutico di queste tecniche; ciò che interessa ora è sottolineare come esse, piuttosto deboli dal punto di vista scientifico e perciò poco efficaci, siano state affidate a operatori non esperti di neuropsicologia delle demenze quali strumenti adeguati a riabilitare, a migliorare i disturbi comportamentali o almeno a gestire pazienti particolarmente complessi come quelli con grave compromissione cognitiva. Ne è derivato uno sproporzio-nato sforzo e sacrificio di risorse umane, e i casi di burn-out, nonché l’eccessivo turn-over del personale, non sono serviti a risalire alle cause dell’inefficienza di questi metodi. La ragione profonda di ciò, forse, risiede anche in una sfiducia di fondo degli stessi amministratori e gestori del sistema assistenziale ai diversi livelli decisionali riguardo alla reale possibilità di fare qualcosa di utile, e quindi al fatto che valga la pena di investire denaro, per pazienti con gravi forme di compromissione cognitiva.

È stato così affidato a persone insufficientemente esperte il difficile compito di discriminare, nei pochi tipi di programmi riabilitativi disponibili, quali fossero gli elementi utili o, addirittura, applicabili, e di inventare che cosa altro si potesse fare per questi pazienti. Attualmente, si concorda sul fatto che la ROT adottata nei reparti che accolgono persone con demenza è molto diversa da quella descritta da Folsom. In ogni nucleo Alzheimer è stato compiuto un riadattamento, analogo, nelle linee generali, per ogni reparto protetto perché questi cambiamenti sono comunque vincolati dalle caratteristiche intrinseche della malattia e del sistema cognitivo dei pazienti che si vanno a trattare, ma diverso nei dettagli, tanto che

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INTRODUZIONE 13

davvero non si può affermare che si applichi, nei diversi nuclei Alzheimer, il medesimo intervento riabilitativo (Spector et al., 2001).

Nei numerosi anni trascorsi dall’ideazione di ROT e VT, non solo è avvenuto questo progressivo aggiustamento di obiettivi e interventi sul campo ma il contesto era, ed è tuttora, tale da offrire terreno ideale per l’attecchimento di qualsiasi pacchetto terapeutico proposto come risolutivo, quasi magico. In tale situazione queste proposte rischiano spesso di essere accolte in modo relativamente acritico e di alimentare, in chi si sente impotente nel trattare le demenze, l’aspettativa che ogni nuova proposta possa essere quella giusta e decisiva.

Il presente contributo è stato inizialmente proposto nel 2002 e progressiva-mente modificato nel corso degli anni successivi nel tentativo di porre in qualche modo rimedio a questa complessa situazione culturale e assistenziale, e di fornire agli operatori, anche privi di competenze neuropsicologiche, la consapevolezza della complessità delle diverse funzioni cognitive, della sindrome determinata dal venir meno della loro efficienza, e dei principali parametri da considerare nel corso di un intervento terapeutico. Il manuale introduce a una serie di conoscen-ze piuttosto complesse, che nulla hanno a che fare con i pacchetti riabilitativi preconfezionati. Si è comunque svolto un intenso lavoro di semplificazione nella spiegazione delle varie funzioni neuropsicologiche, inteso ad allargare le com-petenze degli operatori, che necessitano della padronanza di questi principi per svolgere il non facile lavoro di assistenza e riabilitazione dei malati di demenza. L’aspettativa del pacchetto magico verrà sistematicamente delusa; anzi, si sug-gerirà di diffidare delle soluzioni eccessivamente semplificatrici, e piuttosto di chiedere l’affiancamento di figure professionali appropriate o di consulenti che periodicamente supervisionino l’intervento, al fine di mettere massimamente a frutto le conoscenze proposte.

In ogni caso è necessario tenere conto che, nella salute come nella malattia, la persona è un organismo massimamente complesso, refrattario a ogni sem-plificazione teorica. Gli stessi concetti neuropsicologici semplificano troppo. La semplificazione è necessaria per affrontare la realtà, conoscerla e in qualche modo padroneggiarla, ma se i principi teorici a nostra disposizione sono eccessivamente semplificatori, i tentativi di interagire proficuamente con il mondo esterno verranno frustrati. Ogni paziente con demenza è caratterizzato da una configurazione di compromissione cognitiva un po’ diversa. C’è una grande varietà di condizioni cliniche dementigene da cui una persona potrebbe essere colpita, condizioni che talora si sommano nel medesimo individuo, caratterizzate dal coinvolgimento di diverse proteine, diverse strutture cerebrali e, conseguentemente, di diverse funzioni cognitive specifiche. In più, ogni malattia attacca un sistema nervoso con una sua storia personale e una sua vulnerabilità specifica. La stessa malattia di

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14 LA RIABILITAZIONE NELLA DEMENZA GRAVE

Alzheimer avrà un’espressione radicalmente diversa nel contadino e nel manager di un’azienda, e queste differenze si ripercuoteranno a tutti i livelli, dal grado di compromissione delle diverse funzioni cognitive all’ambito di riserva cerebrale, e quindi di recuperabilità di ciascuna di queste funzioni, all’umore, alle questioni etiche nel momento della comunicazione della diagnosi e oltre. Considerati questi elementi, risulta ovvio che l’ipersemplificazione, sebbene rassicurante da principio, non può aiutare molto nella cura effettiva della malattia; al contrario, occorre un sistema concettuale articolato per adattare interventi mirati alle diverse persone, nei diversi momenti della loro vita, che continuerà con la stessa complessità cognitiva, sociale e affettiva nelle diverse fasi della malattia.

L’adattamento individuale dei principi terapeutici che verranno proposti non comporta che il trattamento debba essere rivolto a una persona alla volta. L’inter-vento individualizzato può essere applicato nell’ambito delle attività di gruppo, in cui ai diversi partecipanti possono essere attribuiti diversi ruoli, ciascuno dei quali va a sollecitare le funzioni che costituiscono l’obiettivo degli interventi terapeutici individuali. Tuttavia, lo sforzo iniziale di comprendere la complessità dell’indivi-duo e delle sue funzioni cognitive non permetterà solo di finalizzare l’intervento alle peculiarità di ogni paziente, ma fornirà gli strumenti per semplificare ogni compito proposto, a beneficio di tutti i pazienti che, in misura variabile, hanno comunque qualche grado di compromissione di quella medesima funzione. Il compito potrà quindi essere compreso, nel gruppo, anche da coloro che non lo stanno svolgendo in prima persona, cosa che condurrà a risultati apprezzabili. E questo compito potrà progressivamente essere ricomposto, se non in tutta la sua complessità, almeno a qualche livello, non appena ci si renderà conto che la riabilitazione svolta ha migliorato l’efficacia di quella funzione cognitiva.

Tenendo conto di queste premesse, e analizzati i principali pregiudizi in materia di riabilitazione delle demenze e i problemi delle correnti riabilitative attualmente più in uso, verranno proposti alcuni elementi di neuropsicologia che permettano di comprendere la natura delle funzioni cognitive, del loro coinvolgimento nelle demenze e l’effetto della loro compromissione sul vissuto e sul comportamento dei pazienti. Pertanto, il trattamento che ne deriva non ha alcunché di rivoluzionario nel panorama scientifico. Sembra anzi particolarmente strano che in tanti anni non si siano mai applicati in modo sistematico, nella routine assistenziale-riabilitativa, semplici concetti mutuati dalla neuropsicologia, scienza sì giovane, ma non tanto da non poter essere presa in seria considera-zione nella pratica quotidiana. L’impegno necessario ad apprendere tali concetti permetterà di riuscire poi a semplificare le realtà cliniche osservate nel concreto e di riassemblare gli elementi di funzionalità residua o riabilitabile, nel tentativo di ristabilire il più possibile l’integrità della persona affetta da demenza.

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CHE COSA SONO LE DEMENZE 15

Che cosa sono le demenze

Prima di entrare nel merito della riabilitazione delle varie forme di demenza, è opportuno approfondire la definizione di queste sindromi.

Si parla di demenza quando si verifica un lento e progressivo declino di più di una funzione cognitiva, e il declino dipende da una condizione organica cerebrale. Perché il termine sia propriamente utilizzato, le funzioni cognitive deficitarie devono aver raggiunto una piena maturazione nella storia pregressa dell’individuo affetto da demenza. Se tali funzioni non fossero mai arrivate a piena maturazione, sebbene il paziente sia attualmente in età geriatrica, non si potrebbe parlare di demenza, trattandosi invece di ritardo mentale. Se invece le funzioni cognitive hanno raggiunto un normale sviluppo e da un certo punto della vita adulta o anziana cominciano a deteriorarsi, si può parlare di quadro dementigeno.

La compromissione di una, seppur importante, funzione cognitiva non basta a qualificare una persona come demente. Seppure la funzione compromessa fosse la memoria, un individuo in cui questa sola funzione sia anche gravemente colpita sarebbe affetto da amnesia, e non da demenza. La differenza fra un pa-ziente con una compromissione cognitiva focale (come un amnesico, un afasico, un aprassico, ecc.) e uno affetto da demenza consiste nel fatto che tutte le altre funzioni cognitive, che sono integre nel primo caso, generalmente permettono al paziente con compromissione focale di essere consapevole dei propri sinto-mi, e di mettere conseguentemente in atto delle strategie che gli permettano di gestirsi il più possibile autonomamente nel corso della vita quotidiana. Anche

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qualora venisse meno l’autonomia, il paziente continuerebbe a essere orientato nel proprio ambiente fisico e sociorelazionale, e a mantenere una motivazione e una relazione appropriate nei confronti dei diversi elementi della sua vita. Nel caso della demenza, invece, sebbene una funzione cognitiva possa essere colpita molto più delle altre (come la memoria nella demenza di Alzheimer), vi è un’importante compromissione anche di altre funzioni cognitive (l’orientamento, la prassia, la motivazione, il comportamento, ecc.), e tale compromissione crea una complessa sindrome per cui la persona non solo ha dei deficit cognitivi, ma nel complesso non riesce più a relazionarsi in modo adeguato con il proprio ambiente e a organizzare la propria gestione personale.

Di conseguenza, un ulteriore punto necessario nella definizione della demenza consiste nel fatto che la compromissione cognitiva deve avere un impatto sullo svolgimento delle funzioni strumentali e di base della vita quotidiana (fare la spesa, prepararsi da mangiare, usare il denaro e i mezzi pubblici, ecc.). Senza questa ripercussione negativa sulla funzionalità quotidiana, il paziente ha magari un declino di certe funzioni cognitive, ma non è definibile come affetto da demenza.

Un’altra situazione in cui si osserva un deterioramento cognitivo che però non disturba la gestione personale si riscontra in un certo numero di persone vicine o già in età senile, che formano ormai una categoria diagnostica ben distinta e sempre più studiata: quella del deterioramento cognitivo lieve (Petersen et al., 1999; 2001). Sebbene le persone con questo tipo di diagnosi abbiano maggior rischio di sviluppare una demenza, non è detto che tutte progrediscano in questo stadio, ragion per cui questa categoria diagnostica ha una certa indipendenza da quella della demenza. La definizione di demenza correntemente fornita dal DSM IV indica come funzione invariabilmente deficitaria la memoria e specifica che deve essere coinvolta almeno una di altre funzioni cognitive, secondo quanto detto sopra. Questo è vero per la malattia di Alzheimer (Alzheimer’s Disease, AD), in cui appunto il disturbo di memoria è il principale campanello d’allarme che caratterizza i sintomi fin dall’esordio (McKhann et al., 1984). Tuttavia non è interamente vero per numerose altre demenze, caratterizzate dal primario coinvolgimento di altre funzioni cognitive. Per esempio, nella demenza fronto-temporale (Fronto-Temporal Dementia, FTD) la funzione cognitiva più coinvolta è il comportamento, inadeguato dal punto di vista innanzitutto della condotta sociale e personale, mentre la memoria diventa deficitaria molto più avanti nel corso della malattia (Neary et al., 1998; McKhann et al., 2001). Ugualmente, nell’afasia primaria progressiva e nella demenza semantica si possono osservare importanti compromissioni della funzionalità linguistica (produzione e comprensio-ne rispettivamente), laddove la memoria non soffre in modo particolare, almeno nelle fasi iniziali e moderate di malattia (Neary et al., 1998).

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CHE COSA SONO LE DEMENZE 17

Accanto a questi esistono quadri di demenza non determinati da una malattia neurologica degenerativa, ma da cause interamente reversibili se diagnosticate in tempo (Carbonin e Antonelli Incalzi, 2005), per cui si raccomanda di svolgere un iter diagnostico presso centri di eccellenza per le malattie neurologiche senili.

La demenza colpisce circa il 5% della popolazione ultrasessantacinquenne, e questa percentuale raddoppia ogni 5 anni in più di età, per arrivare a colpire circa metà degli anziani che hanno superato gli 85 anni. Della totalità dei casi di demenza, la maggior parte è rappresentata dai malati di Alzheimer. Infatti, circa il 65% dei soggetti ha questa malattia, ma vi è una percentuale aggiuntiva in cui le alterazioni patologiche dell’AD si sommano ad altre caratterizzazioni neuropatologiche, come la demenza con base vascolare o con corpi di Lewy (Small et al., 1997). È vero perciò che la stragrande maggioranza dei casi di demenza coincide con la presenza di AD, ma questa convinzione può essere fuorviante qualora insorgano in età senile condizioni anomale che non coin-volgano primariamente la memoria. I casi di FTD, per esempio, sono a volte sottodiagnosticati, o affrontati piuttosto tardi nel corso della malattia, perché, non consapevoli del fatto che altri tipi di demenza possono coinvolgere sistemi cognitivi differenti da quelli che elaborano le funzioni di memoria e di orienta-mento, si tende a credere che la persona sia piuttosto affetta da una condizione di tipo psichiatrico.

Infine, la demenza, inclusa l’AD, è particolarmente frequente in età senile, cioè oltre i 65 anni di età, ma più raramente può insorgere in età presenile. Questo avviene più spesso per certe malattie neurodegenerative, come l’FTD, ma può accadere anche per l’AD.

Alcune diagnosi differenziali

Si parla di diagnosi differenziale quando si cerca di distinguere condizioni cliniche somiglianti fra loro. La difficoltà principale incontrata in ambito dia-gnostico consiste, in questo caso, nel separare i sintomi chiaramente dell’AD da quelli di tipi simili di demenza, magari in cui si fondono insieme AD e altre condizioni patologiche.

Nei prossimi paragrafi verranno descritte nel dettaglio due demenze dege-nerative: la demenza di Alzheimer (AD) e la demenza frontotemporale (FTD). Questi due tipi di demenza sono particolarmente diffusi; in particolare, l’AD è la più frequente malattia neurodegenerativa dell’età senile (dopo i 65 anni), mentre l’FTD è la più frequente malattia neurodegenerativa presenile (prima dei 65 anni). Essi sono prototipici anche per un’altra ragione.

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LE DEMENZE E LE DISCIPLINE CHE LE TRATTANO 33

Le demenze e le disciplineche le trattano

La demenza si colloca in una zona di confine fra diverse discipline: la neurologia, in quanto malattia che colpisce il cervello; la psichiatria, in quanto accompagnata dai cosiddetti disturbi comportamentali che includono sintomi tipicamente osservati nelle psicosi, come deliri e allucinazioni, e da vissuti di gra-ve disagio come la depressione; la geriatria, in quanto malattia che tipicamente insorge nell’età senile; la psicologia, intesa come scienza che studia il modo in cui la persona si rappresenta gli elementi del mondo esterno e si attiva per interagire con essi e perseguire i propri obiettivi. Queste diverse discipline conducono anche ad approcci terapeutici molto diversi. Le discipline di taglio medico, come neuro-logia, geriatria e psichiatria, lavorano all’individuazione dell’ottimale trattamento farmacologico in grado di rallentare il danno neurologico in corso, adottano rimedi già collaudati per altre forme di malattia mentale in cui sia richiesta una riduzione del comportamento aberrante o un’attenuazione dei vissuti negativi, e cercano i trattamenti con la massima compatibilità rispetto alle altre malattie compresenti nonché ai relativi trattamenti farmacologici già in corso. La psicologia tenta una strada radicalmente diversa: cerca di individuare il meccanismo mentale per cui alla persona affetta da demenza il mondo appare distorto. Individuato il meccanismo, a livello psicologico si cerca di subentrare correggendo la distorsione e tentando di avviare il paziente verso l’utilizzo di modalità più efficaci o di strategie integrative che gli permettano di utilizzare meglio le funzioni presenti e interagire in modo più proficuo con il suo ambiente. Esattamente come le discipline mediche sono divise in diversi settori che si occupano di cose diverse, come appunto la neurologia e la

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psichiatria, anche la stessa psicologia si suddivide a sua volta in ambiti differenti, che approfondiscono aspetti distinti del funzionamento mentale. Poiché la demen-za è definita proprio in base alla compromissione di alcune funzioni cognitive, in questo contesto ci si concentrerà su quegli approcci che meglio di altri descrivono queste funzioni, in particolare la neuropsicologia e altri settori al confine con la neurologia. Attualmente, infatti, le più recenti specializzazioni in ambito psicologico, così come in psichiatria, sconfinano sempre di più nella neurologia: le funzioni psicologiche sono il prodotto dell’attività neuronale e approcci come la neuro-psicologia e la psicobiologia mirano a spiegare come il funzionamento di diversi moduli o circuiti cerebrali conduca alle diverse funzioni cognitive. Sempre di più questi ambiti stanno sfumando l’uno nell’altro, non solo in psicologia ma anche in altre discipline, man mano che aumenta la conoscenza dei meccanismi biologici che generano le malattie mentali. La sempre più chiara componente neurologica delle classiche malattie psichiatriche, per esempio, ha condotto alla cosiddetta psichiatria biologica. Analogamente, una parte progressivamente maggiore di psicologia viene spiegata o correlata a concreti corrispettivi neurologici, come testimonia, per esempio, il recentissimo avvento della neuropsicoanalisi (Kandel, 1998; 1999; Mancia, 2006).

In questo manuale verranno perciò forniti anche semplicissimi elementi di neurologia per capire come dall’organizzazione neuronale si giunga alle funzioni che permettono di interagire con l’ambiente, e come queste possano essere compromesse in seguito a un danno a tali circuiti biologici. In base a questi criteri, e cercando di beneficiare degli avanzamenti di queste diverse discipline, si cercherà quindi di ricostruire nel modo più tridimensionale possibile la natura del malfunzionamento cognitivo dei malati di demenza, le ambiguità delle terapie attualmente in uso e le strategie terapeutiche, di tipo riabilitativo o assistenziale, più fruttuose. Per arrivare a ciò, si partirà dalle conoscenze (o credenze) che costituiscono l’attuale patrimonio culturale relativo alle demenze, per entrare gradualmente sempre più nel dettaglio del funzionamento cognitivo.

La cura delle demenze

L’enorme problema sanitario e sociale collegato all’elevata percentuale di casi di demenza in società che, come la nostra, hanno una lunga aspettativa di vita, ha naturalmente condotto a investire rilevanti risorse umane ed economiche nella ricerca delle possibili terapie che possano risolvere, arrestare o almeno ri-tardare il deterioramento progressivo del cervello e della cognitività delle persone affette da tale malattia.

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PRINCIPALI PREGIUDIZI NEL TRATTAMENTO DELLE DEMENZE 39

Principali pregiudizi nel trattamentodelle demenze

Prima di entrare nel dettaglio della caratterizzazione della demenza e dei metodi per trattarla, è opportuno considerare alcuni pregiudizi molto diffusi, che possono deformare la corretta concezione di questa malattia e avere importanti ripercussioni sul suo trattamento. Tali idee preconcette sono diffuse nella popo-lazione, ma anche in molti setting clinici non specializzati sulle demenze.

La demenza senile

Un pregiudizio molto diffuso consiste nel ritenere che la demenza derivata da una malattia neurologica che causa una degenerazione delle strutture cerebrali sia la malattia di Alzheimer, mentre le altre siano tutte demenze senili, ove per «demenza senile» si intende il processo del normale invecchiamento fisico il quale, come colpisce il corpo, che perde in efficienza motoria, così colpisce il cervel-lo, che perde in efficienza cognitiva. In realtà, l’invecchiamento non comporta necessariamente l’indementimento, come dimostra l’esistenza di molti anziani che, seppure rallentati in molte funzioni, dementi non sono. Esattamente come certi anziani perdono la capacità di deambulare, ma altri no, il normale invec-chiamento non comporta la perdita grave di una o più funzioni, che è invece determinata da una vera e propria malattia. Naturalmente un individuo anziano può essere più suscettibile e ammalarsi più facilmente rispetto a uno giovane, ma la malattia di cui soffre (fisica o neurologica) può colpire anche una persona

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più giovane, ed è una malattia relativamente indipendente dall’età cronologica della persona. Quando si dice che certi anziani non sono AD, ma hanno solo una demenza senile, si parla in modo molto improprio. Magari questi anziani non hanno la classica malattia di Alzheimer, ma hanno altri tipi di demenza — causati da anomalie in altre proteine e altri sistemi, o magari da problemi primariamente vascolari — che comunque hanno come effetto quello di danneggiare ben de-finiti distretti cerebrali. Si può anche riscontrare la concomitanza di diverse di queste condizioni, che sommano nel medesimo individuo i loro effetti patogeni fino a determinare una malattia ancora più difficile da individuare perché risulta dalla somma di malattie eterogenee. In ogni caso, però, se c’è un’importante perdita di funzionalità cognitiva che si ripercuote pesantemente sulle capacità di vita autonoma del paziente, si tratta di una vera e propria demenza, ovvero di una malattia specifica, che si può definire «senile» per indicare che si verifica più spesso negli anziani e che, in sostanza, non si è ben capito di quale malattia si tratti esattamente, ma non per suggerire che sia normale per la vecchiaia.

Alcune demenze, come quelle di tipo frontotemporale, sono in realtà pre-senili perché compaiono nella tarda età adulta (dopo i cinquant’anni circa), ma anche l’AD può colpire persone molto giovani. Storicamente, la denominazione «demenza senile» ha origine dalle descrizioni dei primi psichiatri, che la contrap-ponevano alla dementia praecox, cioè precoce, giovanile, per indicare la perdita della corretta funzionalità cognitiva che si osserva nella schizofrenia, malattia che, come ora ben noto, è in realtà molto diversa dalla demenza e insorge nella tarda adolescenza o all’inizio della età adulta.

Che cosa si intende per «riabilitazione»

La selva di idee, teorie e concetti relativi alla riabilitazione cognitiva del pa-ziente con demenza parte proprio dal termine riabilitazione. Inspiegabilmente, questo termine è ampiamente accolto nelle sue diverse accezioni quando si parla dei trattamenti fisici a cura di fisiatri e fisioterapisti, ma genera una bufera di repli-che e controversie quando si tratta della sfera cognitiva e psicologica. Riabilitare, come recita il dizionario Zingarelli (1995), ha come primo significato, molto banalmente, «rendere di nuovo abile». In secondo luogo, si riferisce al «riportare membra o funzioni menomate a una normale attività». Lavorando con il paziente demente, in linea generale, la riabilitazione cognitiva segue almeno due filoni distinti. Innanzitutto si cerca di ripristinare quelle funzioni dell’individuo che non sono compromesse per un effettivo danno neurologico, ma che non vengono più esercitate e andranno quindi perdute, in quanto il paziente non è più in grado di

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PRINCIPALI PREGIUDIZI NEL TRATTAMENTO DELLE DEMENZE 43

intrinseci determinati dalla malattia, oltre i quali il paziente non potrà comunque andare, ma entro i quali egli può comunque raggiungere il funzionamento migliore possibile, cioè ottimale in base alle limitazioni oggettive. Inoltre, questo tipo di posizione tiene conto del fatto che gli interventi non dovranno essere rivolti solo al paziente, perché anche l’ambiente può essere modificato per andare incontro alle persone con patologie invalidanti, e questo rientra ancora nel programma riabilitativo, il cui obiettivo è appunto permettere alla persona il miglior funziona-mento possibile nella sua comunità. Questa prospettiva, lungi dal considerare il paziente una persona sbagliata che non si riuscirà mai a migliorare abbastanza, richiede una maturazione della società nella direzione dell’aprirsi all’accoglienza di persone per certi aspetti svantaggiate, ma positive sotto molti altri generalmente sottovalutati. Questo concetto di riabilitazione è particolarmente ricco, perché non si basa unicamente sull’obiettivo di ripristinare la funzione persa, bensì punta a restituire al paziente una posizione, un ruolo, un significato, una vita vissuta in modo autentico nella sua comunità, cioè nella rete sociale, affettiva o comunque relazionale che costituisce l’importantissimo tessuto della vita di ciascuno. Punta cioè a restituire al paziente un po’ di vita vera, nella sua ricchezza e completez-za, che spesso gli viene negata per le più svariate ragioni. Anziché limitarsi al tentativo di modificare l’individuo «sbagliato», si cerca di modificarlo per quanto possibile e al contempo gli si va incontro rendendosi compatibili a lui. Cosa che, naturalmente, offrirà maggiori probabilità di successo ai suoi sforzi.

Ebbene, l’insieme di queste cose è considerato «riabilitativo» in ambito psi-chiatrico. Come possiamo essere tanto più severi con gli anziani che soffrono di demenza?

Differenza fra cura e guarigione

Un pregiudizio diffuso specialmente fra le persone comuni, non specialiste in materie mediche, consiste nel ritenere che, se una malattia è tale che non se ne possa guarire, come l’AIDS, un tumore maligno o, appunto, una demenza degenerativa, allora la malattia è incurabile (Peters et al., 1989). Questo pre-giudizio si fonda, tra l’altro, su una pluralità di significati delle parole curare e incurabile nella nostra lingua, perciò a maggior ragione merita un poco di attenzione. È possibile, e perciò doveroso, dedicare cure a pazienti che non potranno guarire dai loro mali. «Curare» non è un esatto sinonimo di «guarire», e in questa accezione appare più chiaro che, sebbene non si possa guarire, non è vero che non valga la pena di curare. Curare una persona con una malattia progressivamente ingravescente significa rallentare il peggioramento, allungare

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la vita o, per lo meno, migliorarne la qualità. La demenza, dal suo esordio, ha un percorso di numerosi anni prima del decesso del paziente. Se l’obiettivo delle cure consistesse anche solo nel migliorare la qualità di tutti questi anni di vita, potremmo dire che non ne vale la pena perché tanto il paziente rimane demente e con la demenza morirà?

Alleanza terapeutica

Un pregiudizio che invece è diffuso anche fra chi tratta le demenze riguarda l’alleanza terapeutica. Questa è una sorta di patto, più o meno esplicito, fra il malato e colui che lo cura, che prevede l’impegno reciproco, concordando per esempio tempi e modi di trattamento, aderendo alle indicazioni terapeutiche, ecc., in virtù di un’intesa di fondo sull’obiettivo comune di risolvere o comunque curare il problema dell’assistito. Data l’importante compromissione cognitiva dei pazienti affetti da demenza, nei corsi di formazione per operatori assistenziali, così come in buona parte della letteratura scientifica (Cummings, 2001; Kaufer, 2001), si afferma che per ottenere benefici nell’iter terapeutico del malato di AD è essenziale stringere una solida alleanza terapeutica con il suo caregiver.

Questa affermazione è generalmente accettata senza grande scalpore, in quanto il malato di demenza ha un evidente deficit mnestico che può verosimilmente compromettere la sua capacità di aderire al programma della cura, di mantenere gli appuntamenti e perseguire consapevolmente un iter terapeutico. Questo tipo di affermazione, tuttavia, ha scarso riguardo del fatto che il paziente è il malato di demenza, non il suo caregiver. È vero che anche i familiari sono vittime non sempre riconosciute di questa malattia, ed è vero che si deve a loro se il malato di demenza verrà accompagnato al day hospital, alle valutazioni periodiche, ai trial clinici mirati a testare le più recenti terapie, ecc. Tuttavia, un atteggiamento fondato su questa credenza ha l’implicita conseguenza di scavalcare il malato, di proseguire negli interventi indipendentemente dalle sue scelte e dalle sue prefe-renze, e sostanzialmente di agire senza curarsi di guadagnarsi in qualche modo la sua fiducia. Questa modalità disturba molto la terapia, di qualunque tipo essa sia, perché va ad aggravare il senso di impotenza del paziente, a rendere cosa certa il fatto che oramai è totalmente incapace ed estraneo al mondo, anche per gli aspetti che lo riguardano direttamente. A sua volta, questo atteggiamento ha le sue radici nel fatto che le persone che assistono il demente sono sicure che i problemi di memoria gli impediscano di entrare a pieno titolo in queste relazioni e decisioni che lo riguardano. Al contrario, chi lavora a stretto contatto con i malati anche gravi di demenza sa come essi sappiano riconoscere, magari anche solo in

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RAZIONALE E LIMITI DEGLI INTERVENTI TRADIZIONALI 53

Razionale e limiti degli interventi tradizionali

Si è detto della strana situazione che ha alimentato l’attecchimento nella tra-dizione assistenziale di tecniche riabilitative quali la ROT e la VT. Non solo queste tecniche si sono mantenute per lunghi anni quali principali interventi riabilitativi, ma, prive di alcun razionale terapeutico scientificamente condiviso, sono anche state sottoposte post hoc a validazione sperimentale dei loro effetti. Normalmente, il percorso scientifico che conduce ad applicare una terapia prevede, approssima-tivamente, i seguenti passi logicamente consequenziali (Camp, 2001):

1. la conoscenza su base scientifica della malattia;2. l’ideazione di una terapia, in base agli obiettivi stabiliti e ai possibili meccanismi

grazie a cui tale terapia può verosimilmente funzionare;3. la verifica dell’efficacia della terapia ideata.

Naturalmente non sempre l’iter scientifico è così regolare, e uno di tali casi è appunto quello della riabilitazione della demenza, che oltre a essere stato poco lineare contiene alcuni elementi decisamente paradossali (Camp, 2001). Analizziamo quindi più nel dettaglio il razionale teorico e le basi scientifiche delle terapie più in uso.

La Reality Orientation Therapy (ROT)

La ROT fu introdotta nel 1966 da Taulbee e Folsom, che la importarono da una prima applicazione orientata alla cura dei traumatizzati cranici delle guerre.

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La traduzione italiana fu resa disponibile nel 1988 per opera di Florenzano. La ROT prevede, come principio fondamentale, la continua ripetizione al paziente delle sue coordinate spazio-temporali e personali. La ripetizione avviene in modo formale, ovvero in gruppi organizzati, che si incontrano con sistematicità, com-posti da persone accomunate da un simile grado di deterioramento cognitivo, e in modo informale, grazie ad ausili come calendari, orologi, cartelloni, ai quali gli assistenti o altri caregiver riportano frequentemente l’attenzione del malato nel corso della giornata. Analizziamo sommariamente in che modo questa ap-plicazione terapeutica ha percorso i tre passi sopra descritti.

1. La conoscenza della malattia su cui si basa questo tipo di trattamento con-siste nella consapevolezza, obiettivamente piuttosto generica, che i malati di demenza, come molti traumatizzati cranici, sono disorientati dal punto di vista spazio-temporale e personale e vivono perciò in un mondo sganciato dalla realtà circostante.

2. La terapia ideata si basa sull’obiettivo di restituire loro l’orientamento nella realtà condivisa dalle persone sane cercando di agire sulla memoria. I pos-sibili meccanismi su cui tale terapia fonderebbe il suo funzionamento sono presupposti nel fatto, ben noto riguardo ai processi mnestici normali, che la ripetizione del concetto da ricordare aiuta il consolidamento e quindi la ritenzione in memoria.

3. La ROT è poi effettivamente stata sottoposta a prove mirate a testarne l’effi-cacia (Spector et al., 2000b). Tali studi sono stati svolti con la piena consape-volezza degli stessi esaminatori che i trattamenti testati erano estremamente eterogenei fra i diversi campioni esaminati, tanto che un lavoro critico di un esperto del settore è proprio intitolato: Si può riabilitare la ROT? (Spector et al., 2001).

Come può apparire piuttosto evidente, questo percorso ha diverse falle in tutte e tre le fasi di progettazione della terapia. La conoscenza della malattia sottesa da questo intervento è molto approssimativa, il meccanismo d’azione può rievocare un noto processo di consolidamento normale, ma non tiene conto della plausibilità dell’obiettivo di riportare un malato di demenza all’orientamento consapevole nella realtà contingente, di quali meccanismi ci si possa realmente servire in quanto maggiormente risparmiati dalla degenerazione neuronale, e dell’importante fatto che l’orientamento non si basa, o almeno non solo, sulle funzioni mnestiche, ma si compone anche di altre operazioni mentali molto complesse. Infine, la verifica empirica dell’efficacia si fonda su un insieme di interventi modificati nel corso dei molti anni trascorsi dall’introduzione di questa terapia, fino a distinguersi notevolmente, e in modo reciprocamente eteroge-

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Tutte le modalità di intervento proposte nel presente manuale sono intera-mente conformi a questo tipo di approccio. La descrizione delle funzioni neuro-psicologiche, del tipo di deficit che deriva dal loro indebolimento nelle demenze e dei piccoli «trucchi» che permettono di aggirare o migliorare le difficoltà cruciali si rende necessaria per riuscire a mettere concretamente in pratica, in diversi modi possibili, questo genere di riabilitazione, utilizzando le inclinazioni delle persone con cui si lavora, non contrastando i vincoli imprescindibili imposti dalla malattia stessa, e mirando non a recuperare l’irrecuperabile, bensì a migliorare tutto ciò che è suscettibile di miglioramento, prima fra tutte la qualità della vita.

Una difficoltà cruciale: la scelta degli obiettivi riabilitativi

Dipanate diverse ambiguità relative al razionale teorico e terapeutico dei trattamenti più in uso per la demenza, rimaniamo comunque a fronteggiare un compito che, lungi dall’essere finalmente chiarito, si propone come ancora più difficile. Se i trattamenti tradizionali non rispondevano in modo adeguato e com-pleto alle necessità riabilitative della demenza, almeno ci toglievano dall’impaccio di dover scegliere e decidere autonomamente come procedere...

Ma se il «come procedere», il «cosa fare», è un problema relativo agli stru-menti da utilizzare, c’è prima ancora il bisogno di capire dove si voglia veramente andare con l’intervento riabilitativo. I trattamenti tradizionali hanno abituato a un messaggio del tipo «con il malato di AD fai così, che è il modo giusto», e non hanno mai costretto ad affrontare l’enigma e la responsabilità del capire che cosa è preferibile ottenere da un trattamento rivolto a questo tipo di paziente. I trattamenti più recenti sono orientati in una direzione decisamente più fruttuosa, ma la loro divulgazione è ancora limitatissima; inoltre, il fatto che siano migliori non esime dal doverne comprendere gli assunti e le logiche.

Il problema è ancora troppo difficile perché, nell’applicazione quotidiana, sia risolvibile autonomamente dai soli operatori. Esattamente come per l’idea-zione delle terapie, bisogna aver chiare alcune fasi e alcune nozioni di carattere neurologico e psicologico, che permettano di definire ciò che è di fatto rag-giungibile con un intervento mirato e di conseguenza come progettare questo intervento. La scelta di che cosa si intende ottenere con un trattamento non è scevra, inoltre, da questioni etiche, talora realmente complesse.

Il problema della scelta degli obiettivi, tuttavia, è assolutamente fondamen-tale. Se non si ha ben chiara la meta dell’intervento, non si riesce a giustificare in modo professionale ciò che si sta facendo, né, di fatto, è veramente possibile progettare alcunché. L’obiettivo condiziona infatti gli strumenti che si scelgo-

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RAZIONALE E LIMITI DEGLI INTERVENTI TRADIZIONALI 63

no, il percorso da seguire, i parametri con cui verrà valutata la funzionalità del trattamento e, di conseguenza, gli aggiustamenti che si dovranno fare. Sebbene incidenti di percorso possano sempre modificare un po’ quanto definito a tavolino, se non ci si sforzasse di pensare a priori a questa serie di cose si procederebbe come in una città sconosciuta senza una mappa, o senza conoscere la lingua degli abitanti, che potrebbero altrimenti indicare la strada.

Partiamo quindi dalla definizione di demenza. Questa malattia si caratterizza per la perdita di alcune funzioni cognitive, tale da incidere sulla vita quotidiana, ostacolando l’adattamento della persona al suo ambiente. La risposta che istinti-vamente e generalmente si tende a fornire per colmare le lacune della demenza, punta in modo molto diretto alla natura del problema: la cognitività. Si ipotizza che la riabilitazione cognitiva possa arginare questi problemi e fronteggiare nel modo più corretto la malattia, cosa che per i malati di demenza in fase lieve è sicuramente appropriata. I primi deficit di memoria possono essere affrontati inizialmente mediante l’utilizzo di strategie, come per esempio usare alcuni ausili per ricordarsi appuntamenti o cose da fare, o esercitare diverse funzioni cognitive per potenziare la riserva cerebrale e contrastare il più possibile la perdita di funzionalità. In questo caso, gli obiettivi sono chiaramente quelli di ritardare il più possibile il decadimento cognitivo in modo da allungare la fase della vita ancora relativamente normale o comunque garantire un ottimale adattamento all’ambiente in cui il paziente ha sempre vissuto.

Tuttavia, quando la demenza è progredita a fasi più avanzate — caratterizzate da importanti disturbi comportamentali e in cui il margine di funzionalità residua comincia a essere gravemente distaccato dalla soglia della normalità — puntare unicamente o primariamente alla cognitività comincia a essere piuttosto discu-tibile. Infatti, qual è l’obiettivo che ci si propone puntando alla cognitività? Le funzioni perse non vengono più ripristinate, e ne verranno perse ulteriormente. Se, in fase lieve, combattere strenuamente per il mantenimento della cognitività di per sé aveva il senso di riuscire a mantenere il paziente in casa sua, nella sua famiglia, con un adattamento ancora normale o quasi, quando la demenza è più inoltrata una cognitività un po’ migliore o un po’ peggiore si traduce non tanto in differenze qualitative nella vita del paziente, o nella sua autonomia, bensì in un differente esito ai test neuropsicologici. È certamente doveroso fare il pos-sibile per ritardare la perdita di ciò che è rimasto, ma di fronte a un malato di demenza in fase avanzata notiamo che i problemi comportamentali sono spesso più gravi e urgenti che non la cognitività di per sé.

Questo comporta dunque l’obiettivo di risolvere i problemi comportamentali. Ma cosa significa risolvere questo tipo di problemi? Siamo veramente sicuri di aver capito in che cosa consiste la natura dei problemi comportamentali? Spesso

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persone che svolgono le attività riabilitative credono poco nei possibili risultati e quindi nel valore di ciò che stanno facendo, perciò non si spendono per difendere il setting della loro stessa attività. Lasciare che gli incontri vengano continuamente interrotti e disturbati significa veicolare due messaggi. Il primo è che ciò che stiamo facendo conta così poco che qualsiasi cosa capiti in quello spazio fisico può avere la precedenza. Il secondo è che anche i nostri utenti contano poco e possono essere disturbati, perché tanto non stanno facendo nulla di particolarmente im-portante o impegnativo. Questo messaggio passa in modo particolarmente facile, appunto perché questi utenti sono dementi, ed è comunque convinzione diffusa che qualsiasi cosa si faccia con loro sia solo un pretesto per passare del tempo, ma non sia di fatto utile. Il peggio è che questo messaggio arriva anche agli utenti stessi, cui già non mancano le ragioni per autosvalutarsi.

Ovviamente, l’inadeguatezza del setting impedisce materialmente che le attività riabilitative possano svolgersi in modo efficace. Si pensi agli sforzi di un operatore che sta cercando anche solo di ottenere e possibilmente orientare l’attenzione di un gruppo di pazienti con demenza, come può andare avanti nel suo programma se nell’ambiente ci sono stimoli disturbanti, come altre persone che parlano o che passano, o il rumore di una televisione accesa in una stanza vicina. E si pensi agli sforzi dei pazienti, a quanto è costoso e difficile per loro svolgere certi compiti in condizioni normali, allo sforzo aggiuntivo richiesto per superare i disturbi ambientali.

Altre caratteristiche più fini del setting, come per esempio la garanzia di puntualità agli appuntamenti, la regolarità delle terapie, ecc., hanno più a che fare con il patto tra paziente e terapeuta chiamato «alleanza terapeutica» e sono ugualmente importanti. Per quanto i pazienti possano non esserne esplicitamente consapevoli, questi elementi influenzano positivamente l’alleanza terapeutica perché il paziente apprende comunque che con una certa cadenza verrà l’ope-ratore atteso e l’effettivo realizzarsi dell’aspettativa rafforza la fiducia e facilita l’adesione all’attività.

L’identificazione di un setting adeguato e il suo rispetto sono condizioni necessarie alla riabilitazione dei pazienti con demenza così come per qualsiasi intervento psicologico o, comunque, terapeutico (come quando si va dal medico o dal fisioterapista).

Puntare sulle funzioni iperapprese

Le capacità iperapprese sono quelle che sono state ripetute così tante volte che sembra quasi impossibile che il paziente non sia davvero più in grado

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PRINCIPI GENERALI NEGLI INTERVENTI RIABILITATIVI 73

di svolgerle. Si pensi a quante volte una casalinga ha lavato i piatti o a quanto meccanicamente vengano ripetute le preghiere del rosario negli anziani dei nostri paesi. Sicuramente queste funzioni sono caratterizzate da gradi diversi di com-plessità, connessa al livello di programmazione richiesta. Ad esempio, passare con la spugna insaponata tutte le stoviglie, che già si trovano nel lavandino, può essere più semplice di apparecchiare la tavola, che richiede il ricordo di dove si trovano i piatti, dove le posate, dove i tovaglioli, e che comporta poi la prassia costruttiva del mettere tutti questi elementi nel corretto ordine.

Quindi, sebbene la funzione di apparecchiare la tavola sia iperappresa dalle casalinghe e possa quindi essere svolta più facilmente rispetto ad altre prassie relative a funzioni non iperapprese, apparecchiare è comunque più complesso e quindi più difficile che non lavare i piatti. Analogamente, se recitare le singole preghiere del rosario può essere una funzione iperappresa, quindi facilmente risvegliabile nei malati di demenza, la struttura completa del rosario quotidiano (l’ordine di successione delle diverse preghiere, i misteri, ecc.), per quanto ipe-rappresa, fa leva su funzioni cognitive e di programmazione che sono più difficili da espletare.

Gli elementi più semplici e routinari di queste funzioni sono così radicati nel sistema psicomotorio delle persone che sono anche i più semplici da elici-tare, cioè da risvegliare e far sì che vengano messi in azione. Fare in modo che il paziente metta in atto queste funzioni permette di avviare con relativamente poco sforzo una serie di attività riabilitative, di far sentire il paziente ancora relativamente capace e in controllo delle proprie competenze — anche se questo senso positivo può essere poco corrispondente alle vere capacità — e di continuare a esercitare queste funzioni, che così non rischieranno di essere perdute precocemente.

Disabilità in eccesso

Quando queste funzioni iperapprese risultano precocemente perdute, ge-neralmente si può parlare di disabilità in eccesso (Peters et al., 1989).

L’eccesso di disabilità è quell’insieme di deficit che non sono giustificati dalla degenerazione neuronale effettiva del paziente, ma sono secondari agli effetti che questo deterioramento ha avuto su altri aspetti, più globali, della sua vita. Per esempio, un semplice deficit di memoria può impedire a una persona, ancora in grado di intrattenere interazioni sociali, di mettersi attivamente in contatto con gli amici che usava frequentare, magari solo perché non riesce più a utilizzare correttamente il telefono. In questo modo le relazioni sociali

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diventano precocemente compromesse e l’individuo perde un gran numero di competenze legate alla socialità anche se in teoria sarebbe ancora in grado di esercitarle. Oltretutto, il deterioramento cognitivo, già in corso, progredisce a un ritmo sproporzionatamente maggiore di quanto sarebbe avvenuto se avesse mantenuto ancora molte relazioni, che comportano altrettante sollecitazioni motivazionali e cognitive.

Un altro esempio molto comune è quello della perdita delle funzioni di base della vita quotidiana (lavarsi, vestirsi, nutrirsi) causato da un eccesso di assistenza, in cui il paziente è mantenuto interamente passivo anche se è di fatto in grado di svolgere da solo la maggior parte di questi compiti. Si pensi a quando un paziente viene contenuto per limitare il rischio di caduta. Se la contenzione non viene adeguatamente intervallata, la capacità di deambulare può essere persa nel giro di poche settimane. Per questa ragione, ogni volta in cui sia prescritta la contenzione, questa deve essere intervallata da momenti in cui il paziente viene fatto camminare con un accompagnatore che lo assista per aiutarlo nei passaggi posturali o nei momenti di instabilità. Gli intervalli possono essere dettati dai ritmi naturali dell’andare in bagno o a tavola, o possono essere prescritti come deambulazione assistita dal fisioterapista. In ogni caso, non esercitare la funzione significa necessariamente perderla.

Un altro esempio purtroppo molto frequente nelle demenze in fase avanzata è il fatto che il paziente viene imboccato per accelerare i tempi necessari alla consumazione dei pasti. Malgrado sia verosimile che in fasi avanzate i pazienti non sappiano più fare un uso corretto delle posate nei movimenti più fini, rac-cogliere il cibo, anche con strumenti quali il cucchiaio, e portarlo alla bocca è un comportamento talmente iperappreso che in realtà sono pochissimi quelli che davvero non riescono più a farlo. Per il terapista occupazionale o l’educatore, è classico riscontrare, magari al ritorno da un periodo di ferie, che, porgendo un biscotto o un bicchiere con una bibita, il paziente, invece che porgere di riman-do una mano nel gesto di prendere, apre la bocca in atteggiamento di passività estrema… Si tratta naturalmente di una «finta» disabilità, che ci suggerisce come la funzione corrispondente vada al più presto ripristinata, possibilmente con la collaborazione anche degli altri operatori del reparto o degli altri caregiver.

Alleanza terapeutica con il paziente

Si è detto dell’erroneità del credere che l’alleanza terapeutica debba essere instaurata con il caregiver. Non che far questo non sia giusto, ma il malato deve essere in modo chiaro il primo destinatario del patto comune di lavorare per la

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Validità ecologica

Mentre anziani non dementi possono accettare di svolgere qualsiasi attività riabilitativa o di animazione come un pretesto per fare qualcosa di utile per la propria salute o per trascorrere gradevolmente il tempo, il malato di AD fa molta più fatica ad accettare questi tipi di attività. Da una parte, egli ha imparato a evitare ogni circostanza in cui potrebbe accadergli di fallire e che quindi ricordi a lui stesso e agli altri la sua gravissima incapacità e la malattia. Quante volte è capitato a operatori che cercavano di far impugnare una biro a uno di questi pazienti di sentirsi rispondere frasi del tipo: «Oh! Non ho gli occhiali, davvero non riesco a fare nulla senza gli occhiali!» oppure «No, guardi, in questo momento ho proprio mal di testa e non riuscirei a fare niente». Dall’altro lato, il solo mettere un paziente demente davanti a un compito anche semplice lo infantilizza o co-munque gli rammenta che lui così com’è non va bene, che dovrà esercitarsi e fare qualcosa per cambiare, per migliorare, sempre che riesca a svolgere il compito... Inoltre, il paziente demente istituzionalizzato ha spesso, e comprensibilmente, come unico desiderio quello di tornare nella sua casa, nella sua famiglia di un tempo, così come la ricorda dai tempi migliori. Qualsiasi attività venga proposta da un operatore è ai suoi occhi estremamente inutile e può essere osteggiata semplicemente perché impedisce al paziente di tornarsene subito a casa.

Per queste ragioni, le attività devono tener conto degli elementi motivazionali del paziente e devono essere «ecologicamente» valide.

Un intervento si definisce valido in senso «ecologico» quando è ben inserito nel contesto ambientale e può essere facilmente scambiato per un’attività neces-saria per il normale andamento delle cose. Un’attività ecologica, cioè, è natura-le, nel senso che è logico e sensato compierla alla luce della normale gestione quotidiana. È evidente come le attività occupazionali basate sulla riabilitazione delle funzioni di base della vita quotidiana siano attività valide ecologicamente (il malato deve comunque lavarsi e vestirsi), mentre l’attività del disegno, in un gruppo di pazienti anziani che non hanno specificamente un hobby di questo tipo, è poco ecologica.

Se in ogni intervento si presta attenzione a questo aspetto, sarà più facile ottenere la partecipazione del paziente e l’attività sarà più gratificante per lui, che riterrà di essersi reso veramente utile per questioni che lo interessano direttamente. Inoltre, essere accorti nella scelta di attività ecologiche aiuterà il malato a identifi-care gli elementi che lo circondano come parte di una sua nuova casa, perché li riconoscerà rilevanti per la gestione della sua vita quotidiana, e questo attenuerà anche la sua urgenza di fuggire via. Amalgamare bene gli aspetti ecologici a quelli motivazionali è importante proprio per il senso della vita di questi pazienti.

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Si parla invece di condizionamento operante quando viene premiato o punito un comportamento, e di conseguenza il soggetto impara ad attuarlo o a evitarlo a seconda della conseguenza automaticamente associata. Si noti che, pur trattandosi di apprendimento, non sempre vi sono le caratteristiche di volontà e consapevolezza tipiche del comportamento cosciente umano: questi tipi di ap-prendimento sono automatici e avvengono anche negli animali meno evoluti.

Esempi di condizionamento operante sono quelli utilizzati nello shaping, tecnica adottata per far apprendere sequenze complesse di comportamenti a persone con ritardo mentale. Per esempio, volendo insegnare a lavarsi i denti, ogni comportamento funzionale alla sequenza richiesta viene singolarmente rin-forzato, cioè premiato, con un dolce, con un complimento o altri stimoli positivi, finché l’intero comportamento viene svolto.

I principi del condizionamento vengono adottati nelle terapie per le demenze, nella terapia comportamentale e nella terapia contestuale, ma possono essere flessibilmente applicati a diverse situazioni, anche fuori dall’ambito di queste te-rapie. Si tratta di un elemento della complessa funzione dell’apprendimento che ha caratteristiche implicite, e perciò rientra fra quelli più preservati nel paziente affetto da demenza.

Non infantilizzare

Purtroppo una tendenza diffusa nel trattare i malati di demenza consiste nel trattarli un po’ come bambini. Il cambiamento delle possibilità comunicative costringe alla semplificazione dei termini, alla migliore scansione delle parole, all’utilizzo della mimica facciale e del linguaggio non verbale, tutte cose che siamo abituati a fare appunto con i bambini. Si aggiunga che le capacità cognitive di questi pazienti sono limitate proprio come quelle della prima infanzia, e il gioco è fatto. Si consideri quanto può essere umiliante, per persone che hanno fatto due guerre mondiali, sono state personaggi di rilievo nella Resistenza o hanno cresciuto numerosi figli e poi altrettanti nipoti, il fatto di non riuscire più a na-scondere le proprie incapacità e di essere trattate come bambini. Purtroppo la tendenza all’infantilizzazione determina anche la scelta delle attività. Si pensi a quanto spesso i pazienti anziani e dementi vengono invitati a colorare le stesse figure che colorano i loro bisnipoti…

Questo atteggiamento ha anche un corrispettivo teorico eminente: il mo-dello retrogenetico. Concettualizzata da Reisberg (Reisberg et al., 2002), questa teoria ipotizza che nell’involuzione cognitiva della demenza l’anziano ripercorra a ritroso le medesime tappe evolutive per le quali era passato quando le sue capa-

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PRINCIPI GENERALI NEGLI INTERVENTI RIABILITATIVI 85

cità cognitive si stavano sviluppando. Sicuramente si possono riscontrare diversi corrispettivi, per esempio nelle differenze di produzione linguistica, nella concomi-tante perdita di funzioni deambulatorie e continenza, ecc. Questo modello è però limitato perché non tiene conto del punto di partenza dei due processi. Mentre lo sviluppo parte da un livello di indifferenziazione e comporta, oltre a un guadagno di competenze, anche una maggiore differenziazione, l’involuzione parte da un sistema altissimamente differenziato, che perde parte delle competenze, ma non necessariamente tutte, e la perdita funzionale non si accompagna di pari passo alla cancellazione degli eventi passati che hanno plasmato l’individuo, sebbene questo individuo sembri non ricordarli in modo esplicito. Per esempio, se si fa una battuta maliziosa o piccante a un malato di demenza, molto probabilmente scoppierà a ridere, laddove un bambino — al quale potrebbe essere equiparato per altre funzioni cognitive — non avrà affatto modo di capirla. C’è un’indubbia asimmetria fra l’incremento e la perdita delle facoltà cognitive, in gran parte dovuta al bagaglio concreto di fatti, eventi, ricordi attualmente presenti in un anziano con poche capacità e in un bambino con poche capacità. Ma l’asimmetria non è solo in questo bagaglio. Anche le stesse funzioni cognitive, per quanto possano portare a un paragonabile risultato parziale, vengono svolte in modo molto diverso da bambini e anziani. I bambini hanno tutto il loro cervello, ancora da plasmare grazie all’apprendimento, e nello svolgere funzioni nuove impiegano interamente la loro enorme potenzialità creativa. Piccoli circuiti cerebrali vengono modificati dalla nuova esperienza e in questo processo il loro cervello comincia già a conoscere anche la perdita di alcuni neuroni, quelli non necessari per svolgere la funzione nel modo migliore. Nel caso dell’anziano, invece, l’eccessiva e patologica perdita di neuroni determina uno sforzo compensatorio che ancora impiegherà tutta la creatività del cervello che invecchia, per utilizzare in modo alternativo la riserva cerebrale e fare comunque fronte alla richiesta. Se il risultato finale può essere paragonabile, il processo che vi conduce non lo è affatto. Esistono anche eviden-ze sperimentali che sottolineano come, negli adulti sani, il medesimo processo cognitivo sia portato avanti in modo molto diverso rispettivamente da soggetti più giovani e più anziani, a parità di risultato finale, che in questo caso è nei limiti della norma per entrambi (Cabeza et al., 1997). Questo già può bastare a fare di giovani e anziani persone sostanzialmente diverse, e questo di fatto comporta che ci si atteggi in modo diverso con giovani e anziani, per ragioni che non sono solo relative alla buona educazione, ma sono un naturale riflesso del fatto che le persone a cui ci rivolgiamo elaborano diversamente gli stimoli, e istintivamente ci si porge nei loro riguardi nel modo più adeguato.

Questa adeguatezza dovrebbe essere tenuta presente anche laddove si fatica a capire esattamente che bagaglio c’è dietro a una funzione cognitiva di livello

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Emozione

È proprio nel grado di coinvolgimento della funzionalità emotiva che si può distinguere a grandi linee se un paziente sia affetto da AD o da FTD, o almeno se abbia qualche grado di compromissione frontale. Come si è detto, le emozioni non sono elaborate proprio dai lobi frontali, ma sono i lobi frontali che le sanno utilizzare in modo appropriato. Per questa ragione, di per sé le emozioni si possono ancora osservare sia in AD che in FTD, ma la differenza è che i pazienti con AD sanno farne un utilizzo adeguato, mentre quelli con FTD vivono emozioni molto labili e transitorie, di cui si dimenticano rapidamente. Un malato di AD, per esempio, sa dare il corretto tono emotivo a ciò che viene detto in una conversazione. Se fa errori di attribuzione è solo perché la sua memoria non gli consente di mettere insieme tutte le informazioni rilevanti per una comprensione completa della situazione, ma dall’espressione visiva e vocale i malati di AD decodificano senza problemi il vissuto emotivo altrui e vivono in modo adeguato il proprio. Al contrario, i malati di FTD non sanno interpretare gli indici di emotività che emergono dalla conversazione con le altre persone, cioè il loro tono della voce o l’espressione facciale, e sembrano altrettanto dissociati dal proprio vissuto. Per loro il fatto di essere affetti da una demenza non è un problema angoscioso come per un malato di AD, perché anche se hanno una consapevolezza teorica di un loro cambiamento nell’efficienza cognitiva, non riescono ad associare questa consapevolezza al corrispondente vissuto emotivo. In genere i malati di FTD hanno un’espressione facciale stereotipata, in cui è come stampata un’espressione magari anche emotiva (di felicità, di rabbia), ma che non si associa a un corrispondente sentimento interiore, o comunque non ha alcun nesso con gli avvenimenti o l’ambiente circostante. I pazienti con FTD che dipingono, spesso raffigurano persone dal volto estremamente felice, e loro stessi non sanno riconoscere l’espressione che hanno dipinto, dichiarandola neutra. Peraltro, questi pazienti sono giocherelloni, ripetono spesso le medesime battute o giochi di parole, e risultano facilmente fuori luogo in quanto non sanno sintonizzarsi con lo stato emotivo degli altri.

Talvolta, in particolare nei malati di AD, l’emotività sembra essere ecces-siva. In questi casi, la ragione risiede normalmente nel fatto che il paziente non ha capito la situazione a cui ha reagito male e, sentendosi sfuggire di mano una situazione che magari gli genera ansia, sfocia in una reazione eccessivamente emotiva, chiamata in genere «reazione catastrofica». Peraltro, le emozioni mar-catamente negative che si possono riscontrare nel malato di demenza sono la normale risposta alla constatazione dei propri deficit e si registrano soprattutto nella fase iniziale, in cui il paziente, oltre alla consapevolezza, ha ancora anche

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la memoria di questi deficit. Quando il paziente ha un vissuto del genere, vi è un problema perché si tratta di vissuti angosciosi, ma questo rivela anche che la parte emotiva è ancora relativamente integra, perché la risposta emotiva è adeguata alla situazione personale.

Competenza sociale

Di pari passo con l’emotività, la competenza sociale è maggiore nelle persone in cui c’è una certa integrità del sistema emotivo. Quindi, nei malati di AD, insieme alla capacità di percepire la propria condizione in modo appropriato, c’è anche la capacità di presentarsi in un modo compatibile con lo stato d’animo altrui, di entrare in empatia con quanto riferito da altri, di dedurre da indici non verbali (il tono della voce, la prosodia, ecc.) il vissuto emotivo degli altri e quindi di interagire in modo conseguente. I malati di AD sono anzi così bravi che utilizzano proprio tutte le risorse a loro disposizione per mimetizzare al massimo la loro perdita di efficienza mnestica, tanto che a volte si rimane stupiti quando si scopre che una persona nuova, momentaneamente ben amalgamata in un piccolo gruppo, ha una diagnosi di demenza. Talvolta questa risulta evidente piuttosto dal fatto che a un certo punto il malato in questione ripete un aneddoto riferito poco prima nella medesima conversazione, ma altrimenti null’altro poteva lasciar sospettare una demenza in questa persona (Zaitchik et al., 2004).

Al contrario, i malati di FTD si fermano al significato letterale di quanto detto in una conversazione e non riescono per esempio a intuire dalle parole dette una tonalità ironica, un doppio senso, ecc. Loro stessi fanno largo uso di giochi di parole, ma non è detto che ne capiscano a pieno il senso. Non sanno mettersi in sintonia con altri, esattamente come non ne sono in grado con se stessi, e amici e familiari li percepiscono come molto distanti, praticamente assenti, dove questa assenza indica il fatto che la parte più vera, quella della spontaneità emotiva e della partecipazione empatica alle relazioni, non è più rintracciabile. Come de-scritto prima a proposito della definizione clinica della malattia frontotemporale, i malati di FTD non solo non hanno più la capacità di svolgere i classici compiti di competenza sociale, come dimostrato da studi sperimentali specifici (Hodges e Miller, 2001; Gibbons et al., 2007), ma perdono proprio la nozione di ciò che rende umani i propri simili (Mendez e Lim, 2004) e probabilmente se stessi.

Oltre a questa grande differenza di fondo, ci sono dei gradi nella competenza sociale. Questa funzione cognitiva dipende non solo dall’emotività, ma anche da altre capacità cognitive che permettono di valutare la situazione altrui in base a informazioni da integrare a livello cognitivo. Quindi un malato di demenza potrebbe

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I DEFICIT NEUROPSICOLOGICI NELLA DEMENZA 139

Questi disturbi sono particolarmente snervanti per i familiari e i caregiver, in quanto sono poco conosciuti e perché sembra impossibile che un paziente continui a ripetere una cosa appena detta e non lo stia facendo apposta, o che si metta per esempio a fare una torta su un tavolo già ingombro di altre mille cose.

Altre funzioni frontali sono la capacità di astrazione e di giudizio. I pazienti con una compromissione frontale hanno generalmente un atteggiamento concreto, incapace di astrarre dagli elementi tangibili, e non sono in grado di fare semplici valutazioni. Esattamente come le perseverazioni o l’inflessibilità, anche questo fenomeno si osserva sia a livello linguistico, nella conversazione con il paziente, sia nel suo comportamento. Per esempio, se il paziente ha davanti a sé un oggetto dall’utilizzo molto tipico (un bicchiere, un telefono, una scopa) lo afferra e mette in atto il tipico comportamento legato a quell’oggetto, anche se non se ne riscontra alcuna necessità. Questo sintomo si chiama comportamento di utilizzo.

Attenzione

Si diceva che l’attenzione è una funzione molto costosa in termini energetici ed evoluta. In un individuo con coinvolgimento cognitivo, è estremamente pro-babile che le capacità attentive siano precocemente compromesse. L’attenzione può essere compromessa in diversi dei suoi aspetti. L’attenzione divisa (prestare attenzione a più compiti contemporaneamente) è indubbiamente fra gli aspetti più vulnerabili. Come è più difficile per noi prestare attenzione a più compiti simultaneamente, tanto che aumentando la difficoltà di uno bisogna abbandonare l’altro, così per il malato di demenza è pressoché impossibile prestare attenzione a più compiti nello stesso tempo. Se, per esempio, si rivolge la parola a un pa-ziente impegnato ad allacciarsi le scarpe, questo non sarà in grado di ascoltarci e risponderci mentre termina di annodare i lacci. Accadrà piuttosto che smetta di preoccuparsi delle scarpe per concentrarsi interamente su ciò che stiamo dicendo oppure che non si accorga che gli stiamo parlando. Oppure, cosa che purtroppo accade frequentemente, cercherà di fare entrambe le cose, ma farà confusione e non riuscirà né ad allacciarsi le scarpe né a seguire il nostro discorso.

Anche l’attenzione spaziale è vulnerabile, in particolare nel malato di AD, in cui il disorientamento spaziale è un sintomo precoce. Con l’indebolimento di questa funzione, il paziente non sarà più abile nel muovere il fuoco della sua attenzione nello spazio tridimensionale. Il comportamento tipico legato a questo deficit si manifesta quando chiamiamo da dietro le spalle un paziente che sta camminando davanti a noi. Egli si rende conto di essere chiamato da qualcuno, ma cerca a destra, cerca a sinistra, non riesce a orientare l’attenzione in un punto

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dello spazio che non cada nel suo campo visivo e non riesce così a identificare chi lo stia chiamando. Può capitare, in questo tentativo di orientamento dell’atten-zione, che, guidato dalla sua vana ricerca, non riesca più a prestare l’attenzione necessaria alla propria postura, e che perda l’equilibrio nel volgere lo sguardo in diverse e improbabili direzioni. Per questa ragione si raccomanda di non chiamare il paziente da dietro le sue spalle, bensì di entrare prima nel suo campo visivo.

Naturalmente, anche l’attenzione selettiva è gravemente compromessa. Essa viene infatti facilmente catturata dagli stimoli ambientali più evidenti, indi-pendentemente dalle scelte che il paziente intende fare volontariamente. Questo è molto evidente nella conversazione. Alcuni pazienti, anche con una demenza piuttosto avanzata, possono partecipare apparentemente piuttosto bene a una conversazione semplice, ma se passa una persona vicino all’interlocutore, se al loro orecchio arriva una parola pronunciata da persone estranee alla conversazione o se associano in modo forte un particolare ricordo a un aspetto della conversazio-ne, essi si agganciano a questi elementi e continuano la conversazione in modo improprio. È evidente che, per mantenere l’adeguatezza della conversazione, chi la conduce deve tutelarla dall’interferenza di stimoli distrattori.

L’attenzione sostenuta, se il contesto non ha molti stimoli di distrazione, può essere abbastanza utilizzata dal paziente, sebbene talora non si capisca dove sia il confine fra il sostenere l’attenzione e un vero e proprio sintomo perseverativo!

Dato che, come si è visto, l’attenzione è quella funzione essenziale per dirigere le energie necessarie all’elaborazione degli stimoli, è facile intuire come questo solo deficit sia in grado di rendere presto molto inefficiente il comportamento del paziente, nonché di spiegare in parte altri disturbi cognitivi (si ricordi che non è possibile ricordare ciò cui non si presta attenzione: il deficit attentivo peggiora un deficit mnestico già presente). Del resto, una parte dei deficit attentivi può essere arginata mediante semplici accorgimenti di tipo protesico apportati all’ambiente e al contesto, come appunto prevenire l’intrusione non guidata di stimoli estranei all’attività in corso, evitare di fornire più richieste contemporanee al paziente, non chiamarlo quando non si è nel suo campo visivo, ecc.

Percezione

Le demenze con compromissione specifica delle funzioni percettive sono piuttosto rare. Una di queste è la malattia con corpi di Lewy, che include nella sua sintomatologia delle marcate allucinazioni visive, o comunque numerosi fenomeni dispercettivi, cioè di alterata percezione, generalmente a carico del sistema visivo. Questo significa che, nel caso dell’allucinazione, un paziente può vedere oggetti,

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vissuto molti anni da «sani» dopo la morte di queste persone. In genere questo dipende soprattutto dal fatto che il paziente non riesce più ad accedere coscien-temente alle nozioni riguardanti la sua vita e attiva le conoscenze e gli schemi comportamentali più spesso adottati in passato (iperappresi): è per questo, ad esempio, che vuole andare a fare commissioni per la sua famiglia anche quan-do ormai da molto tempo risiede in una casa di riposo. Talvolta sembra che il paziente conosca la propria condizione attuale, ma si autoconvinca di elementi assolutamente erronei nel tentativo di rendere congruente e non drammatica, come in realtà è, la propria condizione. Il venir meno di molti elementi mnestici costringe il paziente a reintegrare con false memorie gli elementi mancanti e a convincersi in modo delirante della loro realtà. Talvolta, quindi, certi deficit di memoria a lungo termine e autobiografica non sono proprio deficit mnestici, quanto ricostruzioni arbitrarie che permettono al paziente di crearsi una rap-presentazione il più possibile congruente, e il meno drammatica possibile, della sua condizione attuale. Tuttavia, anche i veri e propri ricordi personali vanno attenuandosi progressivamente, in seguito al combinarsi di questo meccanismo con gli effetti della degenerazione neuronale e della mancanza di sollecitazione dei ricordi stessi.

Concordemente con la maggior compromissione della modalità esplicita delle funzioni mnestiche, nel testare la MLT si nota come, tra le funzioni di recupero dell’informazione, la rievocazione (cioè il recupero volontario, quindi esplicito) sia più compromessa del riconoscimento (recupero non volontario ma indotto, quindi implicito). Cioè, se si chiede a un malato di demenza come si chiami, per esempio, un cognato che gli sta facendo visita, il paziente può non riuscire a rievocarne autonomamente e in modo volontario il nome, ma se gli si permette di scegliere fra tre nomi, in genere opta per quello corretto, mostrando di riconoscerlo con prontezza e decisione. In questo caso, il nome corretto che è stato presentato ha attivato automaticamente (modo implicito) la traccia mnestica di fatto esistente che il paziente non riusciva a riattivare in modo volontario ed esplicito. Un’altra cosa che succede classicamente in istituto è che un paziente, se interrogato, non sa dire, per esempio, il nome del proprio figlio, ma quando questo infila la porta per andare via, il paziente (che in modo implicito, in seguito a numerose ripetizioni, ha anche imparato che non lo rivedrà almeno fino all’indo-mani) immediatamente lo chiama per nome per riattirarlo a sé! Anche in questo caso è stato il modo implicito, indotto dal contesto e non mediato dalla decisione consapevole di rievocare il nome del figlio, a permetterne il recupero.

La memoria semantica, che è una MLT, può arrivare a essere compro-messa, ma in genere questo avviene negli stadi molto avanzati della malattia. Tranne che in demenze particolari, come appunto quella semantica, che colpisce

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I DEFICIT NEUROPSICOLOGICI NELLA DEMENZA 147

precocemente e prevalentemente questo tipo di memoria, essa è relativamente risparmiata (Kopelman, 1985; Greene e Hodges, 1996; Christensen et al., 1998). Può essere più compromessa nei casi in cui i pazienti non vengono stimolati dal punto di vista cognitivo, ma se si svolge una riabilitazione completa, il lavoro sulla memoria semantica è possibile, in quanto la funzione è danneggiata più sul versante della rievocazione esplicita che non del magazzino in cui tali memorie sono custodite. Ovviamente, nelle fasi più avanzate della malattia, in cui anche funzioni come il linguaggio sono seriamente compromesse, si può ipotizzare una perdita delle conoscenze semantiche, difficilmente dimostrabile ma verosimile, a causa dell’estesissima degenerazione cerebrale che caratterizza gli ultimi stadi.

La modalità implicita è preservata, rispetto a quella esplicita, in tutte le funzioni di memoria. In particolare, la memoria procedurale è abbondantemente risparmiata nella maggior parte dei malati di demenza, oltre che nei malati di AD. Quando le procedure sono compromesse, in genere ciò è dovuto a un’insufficiente stimolazione e riabilitazione del paziente, e la condizione è quindi data da disabilità in eccesso. Anche di fronte a importanti deficit procedurali, è in genere possibile recuperare ampiamente la funzionalità del paziente con adeguati interventi. Ciò dimostra che il problema sta in buona parte non nella compromissione della memoria procedurale, ma nell’eccesso di disabilità, cioè in quell’insieme di deficit creati non dalla malattia in sé, ma da una serie di situazioni di deprivazione e di ipostimolazione che ne conseguono.

Per quanto riguarda gli aspetti affettivi della memoria, bisogna distinguere un paio di situazioni. La prima riguarda il fatto che una decisa connotazione emotiva rende gli episodi molto più facili da memorizzare. Questo si verifica in tutte le persone, e l’effetto si mantiene nei malati di demenza anche in fase avanzata. Ciò si verifica grazie alle interazioni fra ippocampo e amigdala: se la stimolazione è accompagnata da una connotazione emotiva, purché non eccessiva, l’attività ippocampale viene potenziata. Nelle persone sane, questo fenomeno si mostra come una memorizzazione a lungo termine immediata, senza bisogno della fase di apprendimento o di strategie; nei malati di demenza si esprime come la crea-zione di un ricordo nuovo, di eventi recenti, che il paziente riesce a verbalizzare e richiamare volontariamente, cosa rarissima da osservare in condizioni ordinarie. Sarà capitato a chi lavora in istituti di ricovero a lungo termine di vedere pazienti richiamare alla memoria e parlare volontariamente del nipotino neonato che è da poco stato loro presentato, o chiedere, anche dopo diverse ore, informazioni di un paziente che si sia sentito male nel bel mezzo di una attività di gruppo. La seconda situazione riguarda la memoria affettiva considerata in qualità di memoria implicita. Si è già osservato che l’aspetto mnestico dell’affettività è particolare e che bisogna distinguere ciò che è affettività da ciò che è memoria nel senso

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comportamentale. Naturalmente, parlare di riabilitazione del pensiero è tan-to vago quanto ambizioso, per cui ci si concentrerà su alcune delle più note, compromesse e importanti funzioni cognitive generalmente attribuite a questo dominio cognitivo.

Sistema posteriore-valutativo e orientamento

Benché non sia una funzione neuropsicologica chiaramente definita, quanto piuttosto il risultato di un insieme di funzioni che per lo più convergono a co-stituire elementi separati in un contesto unitario e significativo, l’orientamento è chiaramente e selettivamente compromesso nell’AD. Per minimizzare le conseguenze di tale compromissione possono essere suggeriti alcuni interventi basati soprattutto su modalità di compensazione mediante nuove strategie, o francamente protesiche, quando vi sia una primaria compromissione di questa funzione. Per pazienti in cui, invece, le funzioni relative all’orientamento non sono primariamente compromesse, anche i metodi tipici della ROT sortiscono ottimi risultati, perché fanno leva su funzioni mnestiche e di orientamento non crucialmente colpite dalla malattia.

Orientamento spaziale

Un primo passo per intervenire sull’orientamento consiste nella sempli-ficazione dell’ambiente in cui il paziente ha bisogno di orientarsi; dopodiché è necessario un intervento specifico sulla percezione spaziale e sull’attenzione spaziale. Semplificare l’ambiente serve, tra l’altro, a evitare che stimoli irrilevanti possano distrarre il paziente, confondendo la sua percezione, la comprensione e la memoria degli stimoli rilevanti per orientarsi. Specialmente se il paziente abita ancora al proprio domicilio, è di cruciale importanza semplificare l’ambiente e agevolare gli spostamenti, in modo che imprevisti di percorso non distolgano l’attenzione facendo nuovamente perdere l’orientamento. Sebbene in generale sia opportuno evitare i cambiamenti, essi sono generalmente ben giustificati se si tratta di semplificare il cammino verso i luoghi di cui il paziente si serve au-tonomamente. Un esempio classico consiste nella necessità di trovare il bagno di notte, il che è utile sia al malato sia ai familiari, che possono riposare di più. Gli interventi spesso necessari a questo riguardo possono anche consistere nel cambiare la collocazione della camera del paziente, per spostarla in quella attigua al bagno e permettergli un percorso più breve. Si dovrà fare attenzione che non vi siano ostacoli (tavolini, poltroncine, ecc.) fra il letto e la porta e materiali in qualche modo pericolosi. L’utilizzo di tappeti può essere d’ostacolo se il pazien-

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te tende a inciampare, ma può anche essere d’aiuto se si usano passatoie che disegnino il percorso verso il bagno: ogni espediente deve essere testato sulla persona stessa per verificarne l’eventuale efficacia. Uno fra gli accorgimenti più curiosi ideati da familiari perché una signora con demenza trovasse, alzandosi di notte, il percorso per il bagno, era consistito, dopo il trasferimento della camera da letto della signora nella stanza accanto al bagno, nell’apporre a un’altezza da corrimano un nastro da cantiere che dal comodino arrivava all’interno del bagno: la signora aveva l’abitudine di toccare questo nastro, e molto facilmente lo seguiva fino in bagno, tornando poi in camera senza disturbare nessuno.

Nell’istituto, l’ambiente può essere personalizzato anche tramite una segna-letica che indirizzi chiaramente verso i luoghi di interesse. Si noti che difficilmente il paziente se ne servirà spontaneamente: spesso dovrà essere ripetutamente sollecitato a esplorare lo spazio, a osservare la segnaletica e a servirsene come strategia per orientarsi.

In questo caso è opportuno evitare di modificare la disposizione degli ele-menti ambientali e piuttosto far ripetere innumerevoli volte gli stessi percorsi, in quanto comunque la riabilitazione si basa soprattutto su un apprendimento implicito permesso dalla continua ripetizione.

Accompagnando i pazienti, può essere utile sollecitarli a dirigere l’attenzione verso gli stimoli rilevanti. Poiché l’attenzione spaziale è deficitaria, ed è sempre più difficile per loro distoglierla dal precedente oggetto di attenzione per riorientarla su stimoli nuovi, è utile sollecitarli attivamente aiutandoli sia con il linguaggio che con i gesti a dirigere l’attenzione nel modo più opportuno per elaborare gli stimoli ambientali e spaziali di interesse.

Orientamento temporale

La classica riabilitazione dell’orientamento temporale, come realizzata dalla ROT, si basa su un apprendimento verbale esplicito delle informazioni relative alla data del giorno. Questo apprendimento in genere non determina, nel malato di AD, un vero e proprio miglioramento nella capacità di orientamento temporale. Piuttosto, il risultato è uno sterile apprendimento mnemonico che non ha alcuna generalizzazione, cioè nessuna applicabilità di questa informazione al di fuori del setting riabilitativo stesso. La ROT non è necessariamente da abbandonare per questo, in quanto comunque sollecita molte funzioni cognitive, tuttavia un orientamento temporale più efficace si ottiene con altre modalità. Come per l’utilizzo della segnaletica, il paziente va costantemente sollecitato a servirsi degli appositi strumenti (il calendario, l’orologio, ecc.), che dovranno essere presenti e ben visibili nel suo ambiente. Analogamente, deve essere sollecitato a servirsi di qualsiasi strategia utile per derivare l’informazione che gli interessa (guardare

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sati, si possono presentare le loro fotografie e chiedere che cosa fanno venire in mente. Volendo aiutare i pazienti, si può ridurre il cerchio, prima chiedendo se si tratti o no di personaggi famosi (in genere i pazienti rispondono correttamente a questa domanda) e poi fornendo una scelta multipla, chiedendo cioè se questi personaggi appartengano al mondo dello sport, della politica o dello spettacolo (in genere escludono con decisione lo sport, ma capita che tentennino fra politica e spettacolo...). Comunque, in modo più o meno diretto e rapido, si riescono a recuperare i nomi di diversi presidenti, e il passo successivo, quello cioè di far combaciare ogni nome alla faccia corrispondente, diventa relativamente breve. Il successo finale dipende non solo dal quadro di compromissione del paziente, ma anche dall’abilità, nonché dalla pazienza, dell’operatore nello scomporre il compito e nell’ideare sentieri alternativi che conducano al ricordo. Esercitarsi sullo stesso materiale facilita progressivamente il recupero delle informazioni in questione, per cui si può scegliere di lavorare per argomenti e cambiando tema non frequentemente ma, per esempio, con cadenza mensile.

Memoria episodica

L’esempio appena proposto è eseguibile nell’ambito di attività di gruppo. Individualmente si può lavorare con materiale personale su ricordi episodici della propria vita, secondo quanto suggerito dalla terapia di reminiscenza (Spector et al., 2000a); il criterio di accedere alle memorie mediante recupero implicito piuttosto che tramite rievocazione attiva diretta è ugualmente utile in questo ambito: possono cambiare il materiale e il contesto, ma questo metodo aiuta in entrambe le situazioni a ripristinare un ricordo difficilmente accessibile. Perciò, quanto detto in generale sulla memoria esplicita è esattamente applicabile anche per i sottotipi di memoria esplicita, come appunto la memoria episodica.

Vi è un caso particolare di memorie autobiografiche che richiedono un’attenzione diversa. È osservazione comune che pazienti gravi e piuttosto disturbati ritengano erroneamente che certi familiari, da molto tempo scom-parsi, siano ancora vivi e li stiano aspettando. Difficilmente si può distoglierli da questa convinzione, che assume le caratteristiche del delirio e risponde a una chiara esigenza emotiva: quella di avere ancora una vita normale e di poter rientrare nella famiglia, com’era nei tempi migliori. Nel caso in cui sia in corso una riabilitazione delle memorie a lungo termine con orientamento personale, è preferibile evitare di correggere in modo diretto il paziente delirante e piuttosto lasciar perdere e distoglierne l’attenzione. Informazioni personali normalmente soggette a convinzione delirante possono essere proposte indipendentemente, cioè fornite come informazioni da ricordare nel corso della riabilitazione o della conversazione, poiché in caso contrario sicuramente non verrebbero accettate,

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anzi, si esacerberebbe la condizione emotiva e conflittuale nei confronti della realtà. Se c’è comunque resistenza da parte del paziente ad accoglierle, sarà meglio selezionare quali informazioni sia opportuno fornire e quali sia preferibile evitare in ogni caso. È però altrettanto vero che, se occupato a svolgere attività riabilitative ben congegnate, il paziente non vive una condizione negativa e con-flittuale. Come si è detto, una buona riabilitazione cognitiva ha ottimi risultati sul vissuto emotivo e riduce i disturbi comportamentali, fra cui le convinzioni deliranti. Questo si evince anche dalla meta-analisi condotta sulla ROT (Spector et al., 2000b), in cui è stato rilevato che il fornire informazioni attuali non peg-giora i disturbi comportamentali dei pazienti. La ragione sta nel fatto, appunto, che tali informazioni vengono date non in risposta al delirio del paziente, bensì indipendentemente, in un contesto in cui il paziente non sta delirando, ma sta seguendo un’attività significativa con attenzione.

Memoria semantica

A proposito dello status della memoria implicita, si è sottolineato come la memoria semantica, tradizionalmente ritenuta esplicita, consista di fatto in conoscenze suscettibili di attivazione esplicita, ma che possono essere attivate anche con metodi di tipo implicito. Le associazioni mentali e il fatto che gli stimoli attinenti fungono da priming (cioè attivano e facilitano l’utilizzo) di idee, concetti e memorie collegate, permettono di potenziare la riabilitazione delle memorie semantiche residue dei pazienti con demenza. Un esercizio che mira in modo molto specifico alla memoria semantica consiste nei compiti di classificazione. Presentato un elemento, per esempio la parola «mestolo», probabilmente i pazienti non sapranno dire prontamente a quale categoria semantica appartenga (utensili da cucina), ma si possono porre altre domande più proficue che coinvolgono comunque la conoscenza semantica di quell’elemento, come a che cosa serve, chi lo usa in genere, ecc. Un’applicazione ancora migliore di un simile esercizio lo si ha nelle attività occupazionali: ad esempio, riordinando le stoviglie, si può chiedere al paziente di mettere insieme quelle di una stessa categoria (oggetti per cucinare, per mangiare, per bere) e sotto-categoria (i bicchieri con i bicchieri, le tazze con le tazze, ecc.).

Anche i compiti di produzione (categoriale, per lettere, ecc.) servono a mantenere attive le conoscenze semantiche e sono benefici anche per molte altre funzioni cognitive.

È molto facile ideare interventi che richiedano l’utilizzo di conoscenze semantiche, in quanto qualsiasi banale richiesta — come quella di descrivere oggetti o di commentare affermazioni o opinioni — comporta in qualche misura la loro attivazione.

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che si tratta di idee deliranti è inutile impiegare ulteriori energie per riportare il paziente alla realtà. Dovendo comunque intervenire, sarà opportuno utilizzare gli elementi stessi del delirio per restituire al paziente una versione di fatti o situazioni per lui accettabile, cioè compatibile con il suo sistema di credenze. Per esempio, a una paziente (accade soprattutto alle donne) che vuole andarsene via, convinta che sua madre (che, se fosse viva, avrebbe oltre cento anni!) la stia aspettando per il pranzo, si può rispondere che la madre al momento sta riposando e che la si raggiungerà per il pranzo portando noi qualcosa di pronto, quando è ora. Questo la convincerà a rimanere tranquilla dove si trova, mentre se la si volesse convincere che sua madre è deceduta molti anni prima, per quanto la paziente in altri momenti mostri di esserne consapevole, nel momento in cui delira non si smuoverebbe affatto dalla sua convinzione.

È possibile quindi intervenire sui deliri, ma perché l’intervento sia proficuo è necessario capire quale sia la loro origine, e conseguentemente definire con chiarezza e coerenza quale obiettivo sia necessario ed etico perseguire. Le seguenti distinzioni possono aiutare a chiarire come considerare i deliri man mano che si presentano, anche qualora i contenuti specifici siano notevolmente diversi.

Delirio come tentativo di ricostruire la realtà

Molto spesso, specialmente nel malato di AD, il delirio può consistere in un’errata interpretazione della realtà. Ciò deriva direttamente dal fatto che questi malati sono cognitivamente compromessi su almeno tre livelli di elaborazione cognitiva assolutamente necessari per la corretta comprensione della realtà: la percezione (soprattutto nella sua elaborazione secondaria), il ricordo e la rappre-sentazione. Si badi che parlare di corretta comprensione della realtà può essere illusorio anche per le persone normali. Per quanto infatti ci si attenga a elementi concreti e condivisi dalle altre persone della comunità, non sempre si dispone di tutti gli elementi per comprendere esattamente e pienamente qualsiasi situazione, e in genere la nostra comprensione consiste di fatto nell’interpretazione più proba-bile e più condivisibile. Il fatto che si possa discordare sull’interpretazione di fatti o situazioni complesse è una prova che, quando diciamo di comprendere, in realtà stiamo piuttosto interpretando i fatti, in quanto spesso ci sono piccoli o grandi elementi di cui non disponiamo e che sarebbero necessari per una comprensione, ovvero un’interpretazione, più corretta. Naturalmente, se sbagliamo, non stiamo delirando, in quanto l’aggiunta di elementi mancanti ci fa correggere la nostra lettura dei fatti. Ma questo esempio aiuta a capire come un malato di demenza, che per via della compromissione cognitiva non riesce ad avere molti elementi necessari a comprendere le situazioni, costruisca delle interpretazioni che gli servono per

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formarsi una visione globale dei fatti esattamente come facciamo quotidianamente, ma servendosi di meno elementi, quindi sbagliando di più nella sua ricostruzione, costruendo un’interpretazione più lontana dalla realtà. Il contesto viene percepito in modo parziale da questi pazienti, a causa dei disturbi dell’orientamento dell’at-tenzione e di working memory, e gli elementi percepiti vengono ricordati male a causa dei disturbi di memoria. Infine, perché gli elementi cognitivi possano essere elaborati dalla persona è necessario che vengano mentalmente rappresentati, e come si è visto i malati di demenza hanno difficoltà in ognuna di queste fasi ne-cessarie per raccogliere gli elementi necessari a capire la realtà circostante.

Questa ricostruzione basata su elementi parziali diventa poi delirante quando il paziente ci si aggrappa disperatamente e la difende anche di fronte a evidenze discordanti. Le persone normali non lo fanno perché il loro sistema cognitivo è in grado di fare un passo indietro e ricostruire un’interpretazione di elementi e situazioni interamente diversa, se quella precedente viene sconfermata. Per un paziente con demenza questo procedimento del tornare indietro e rifare un’opera-zione così complessa è, oltre che difficilissimo, anche angosciante, perché significa ricordare che non è più in grado di capire cose anche piuttosto elementari, e che la sua separazione dal mondo e dagli altri è gravissima. Questo insieme di problemi, prettamente cognitivi prima che psichiatrici, giustifica pienamente il fatto che il paziente si aggrappi a quei piccoli prodotti, per lui comunque assai complessi, che sono le sue fallaci ricostruzioni della realtà, fino a farle diventare convinzioni per lui imprescindibili, deliranti per chi osserva. L’esempio più tipico di questa situazione è proprio il frequentissimo delirio di latrocinio. Il malato di AD, tipicamente, non ritrova gli oggetti di utilizzo quotidiano a causa dei disturbi di memoria. Non ricordando di soffrire di questo problema, non interpreta il mancato ritrovamento come dovuto alla sua malattia, ma lo attribuisce al fatto che altri possano aver messo mano alle sue cose. Ciò può comportare a sua volta che vada a nascondere le cose cui tiene maggiormente, in modo che eventuali malintenzionati non possano trovarle, e di conseguenza gli oggetti saranno sempre più introvabili sia per lui sia per chi cerchi di aiutarlo nel ritrovamento.

Delirio come meccanismo di difesa

Riguardo al delirio di latrocinio bisogna sottolineare anche un altro aspetto. Per le persone normali può essere relativamente facile ritenere di non ricordare dove si è messo un oggetto, mentre il malato di demenza attribuisce immedia-tamente ad altri, in modo delirante, la ragione del mancato ritrovamento. Ciò può essere semplicisticamente classificabile come comportamento delirante e psicotico. Tuttavia, con questa modalità di attribuzione esterna della causa degli

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vivide e inquietanti. In quel momento fu facile improvvisare, sull’onda della lettura quotidiana, che quelle visioni strane erano un incantesimo della signora P. (assidua partecipante al gruppo che aveva scelto il personaggio di una maga), la quale cercava di distogliere il signore in questione dal compimento del suo incarico (in quel momento il signor M. doveva apporre in bacheca le lettere che formavano la data del giorno), esattamente come avveniva per gli eroi descritti nell’Orlando Furioso. Il signor M. raccolse con senso dell’umorismo questa interpretazione fiabesca dei fatti e la utilizzò per prestare più attenzione al compito da svolgere che all’esperienza allucinatoria. Si noti che questo, ovviamente, non servì affatto a eliminare l’allucinazione, ma solo a distoglierne il più possibile l’attenzione del paziente. Un altro effetto positivo fu che questo genere di interpretazione permise al signor M. di ritenere illusoria la sua percezione, non effettivamente pericolosa, bensì il risultato di un inganno che era meglio trascurare. È improba-bile che il signor M. avesse veramente creduto all’ipotesi dell’incantesimo, ma il suo desiderio di superare questa difficoltà e il fatto di aver ricevuto da persona di fiducia questo suggerimento gli comunicarono, sostanzialmente, la sensazione di non pericolosità della situazione e una possibile strategia per superarla (appunto crederla illusoria, e prestare più attenzione al compito che stava svolgendo). L’intera situazione fu, se così si può dire, fortunata: se non fosse stata fatta da poco la scelta dei personaggi fiabeschi, sarebbe stato difficile ricamare una simile versione dei fatti.

È evidente, comunque, che si tratta di situazioni piuttosto delicate. Spie-gazioni del genere non si possono dare con leggerezza e senza antefatti che abbiano senso per il paziente. In particolare è necessario evitare che il paziente senta minimizzare il suo problema, o ritenga magari di essere preso in giro. Pur-troppo spesso gli espedienti che risultano utili per aiutare i pazienti a superare esperienze inquietanti dipendono da tentativi estemporanei dettati da intuizioni del momento, e bisogna quindi procedere con cautela e sensibilità rispetto a come viene accolto il nostro intervento.

Aggressività

L’aggressività è riportata come un importante disturbo comportamentale piuttosto frequente nella demenza. I comportamenti aggressivi spaventano per diverse ragioni. Innanzitutto sembrano difficilmente prevedibili e refrattari ai ten-tativi dei caregiver di calmare la situazione. Inoltre, i pazienti affetti da demenza, se fisicamente sani, possono avere una forza fisica impressionante. Anche piccole signore vecchissime e tutte pelle e ossa sanno sfoderare un’incredibile energia

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fisica se si arrabbiano contro qualcuno. Tuttavia non sempre si è consapevoli che la capacità di questi pazienti di coordinare una sequenza fisica effettivamen-te lesiva per una persona adulta e sana è veramente molto limitata. I malati di demenza possono obiettivamente riuscire a nuocere ad altre persone con la loro stessa malattia, con interventi aggressivi maldestri, per esempio spingendole e facendole cadere. I modi maneschi sono invece molto prevedibili e facili da schi-vare e da parare per una persona normale. Può risultare più difficile rispondere alla forza fisica pura, effettivamente importante in questi malati. Un esempio è quando un paziente afferra una persona per un polso: la presa è così salda che è veramente difficile liberarsene. Oppure, una bella difficoltà può essere incontrata nell’impedire a un paziente di uscire da una porta quando egli è determinato a fuggire. Si sottolinea però che questi comportamenti sono molto carenti dal punto di vista della programmazione e del controllo volontario, e l’unica difficoltà consiste appunto nel controllare la forza fisica pura.

Questo può sembrare molto, ma non è affatto così: se solo i caregiver disponessero di elementari conoscenze di difesa personale potrebbero sfuggire a simili attacchi fisici in modo molto appropriato, cioè proteggendo la propria incolumità, non facendo male all’aggressore malato di demenza, e anzi risolvendo il contatto fisico con modi dolci. Infatti, se si risponde a una modalità aggressiva con altrettanta aggressività, motivata da paura e tentativo di autodifesa, il malato si sente ancora più in pericolo e diventa ancora più aggressivo. Se invece si risolve una sua tentata aggressione in modo dolce, parando disinvoltamente e senza paura il colpo e accompagnando il braccio del paziente fino a metterselo sotto il proprio come in una passeggiata a braccetto, l’atteggiamento del paziente vira rapidamente verso l’idea che la persona aggredita non è nemica ma potrebbe essere un amico prezioso, che forse può meglio risolvere i suoi problemi, e la sua aggressività svanisce con poca fatica. Ovviamente, nel fare questo, anche gli altri modi di chi affronta il malato devono essere congruenti, quindi si eviterà di rimproverare il paziente e piuttosto ci si mostrerà preoccupati di ciò che lo turba e alleati nel tentativo di proteggerlo, interessandosi su come poterlo aiutare a risolvere la sua difficoltà. Il principio che sta alla base è che il malato di demenza, quando diventa aggressivo, lo fa perché si sente in pericolo, e la sua aggressività è in realtà una sorta di autodifesa, sebbene il pericolo non sia sempre chiaro nemmeno nella sua mente. Permettere al malato di sentirci vicini e, soprattutto, in ascolto è ciò che lo fa sentire fuori pericolo, al sicuro, compreso e protetto, accettato e accolto dal suo caregiver, e questo è generalmente sufficiente perché l’aggressività svanisca nel nulla in brevi istanti.

Per quanto riguarda invece le tecniche fisiche per gestire la situazione nel momento critico in cui si esprime l’aggressività, si accenna semplicemente che,