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Il Mensile delle amministrazioni pubbliche - 10/2016 La riforma del Codice dell’Amministrazione Digitale Testo Unico Società partecipate e nuovo Codice dei contratti: disposizioni comuni ed elementi di contatto Il saldo di finanza pubblica (pareggio di bilancio) dopo la legge 12 agosto 2016, n. 164 L’istituto del whistleblower: bilancio in chiaro scuro di uno strumento ancora da valorizzare

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Il Mensile delle amministrazioni pubbliche - 10/2016

La riforma del Codice dell’Amministrazione Digitale

Testo Unico Società partecipate e nuovo Codice dei contratti: disposizioni comuni ed elementi di contatto

Il saldo di finanza pubblica (pareggio di bilancio) dopo la legge 12 agosto 2016, n. 164

L’istituto del whistleblower: bilancio in chiaro scuro di uno strumento ancora da valorizzare

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Sommario Amministrazione5 La riforma del Codice dell’Amministrazione Digitale: Il processo di innovazione tecnologica dopo il d.lgs.

26 agosto 2016, n. 179di Fabio Trojani

19 Testo unico delle società pubbliche e prorogatio degli organi di amministrazione e controllo delle societàin house di Tiziano Tessaro

Finanza 24 Il saldo di finanza pubblica (pareggio di bilancio) dopo la legge 12 agosto 2016, n. 164 di Marcello Quecchia

Tributi locali 34 Novità sulle controversie catastali di Luigi Lovecchio

Personale41 L’istituto del whistleblower: bilancio in chiaro scuro di uno strumento ancora da valorizzare di Paolo Canaparo

Appalti 47 Testo unico società partecipate e nuovo Codice dei contratti: disposizioni comuni ed elementi

di contattodi Fabio Moretti

Polizia locale 65 Le cause di estinzione del rapporto di lavoro per la polizia locale di Luca Falcitano

Servizi demografici 72 La scelta del cognome nella coppia dell’unione civile di Tiziana Piola

10 / 2016

Il Mensile delle amministrazioni pubbliche

Hanno collaborato a questo numero

Fabio Trojani Segretario comunale, specialista in diritto amministrativo. Avvocato

Marcello Quecchia Responsabile di area finanziaria e tributi in enti locali

Luigi Lovecchio Docente di Diritto tributario avanzato Facoltà di Economia di Roma Tre

Paolo Canaparo Viceprefetto presso Ministero dell’Interno

Fabio Moretti Funzionario Ufficio partecipazioni Comune di Arezzo

Luca Falcitano Ispettore di p.m.

Tiziana Piola Responsabile Servizi demografici Comune di Savona

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I l Mens i le de l le amminis t raz ioni pubbl iche

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Comuni d’Italia / 10/2016 / Il Mensile delle Amministrazioni Pubbliche

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Riforma CADAmministrazione

La riforma del Codice dell’Amministrazione Digitale: Il processo di innovazione tecnologica dopo il d.lgs. 26 agosto 2016, n. 179di Fabio Trojani

A seguito dell’adozione del d.lgs. 26 agosto 2016, n. 179, recante modifiche ed integrazioni al Codice dell’amministrazione digitale in at-tuazione della delega di cui alla legge 124/2015, rimangono in vigore le disposizioni in tema di documentazione amministrativa e le regole in materia di conservazione di archivi e documenti. Si interviene, invece, su diverse disposizioni del CAD, al fine di rendere agevole la “transi-zione alla modalità operativa digitale”.

Ne parla Ernesto Belisario su PA Digitale Channel

Ne parla Ernesto Belisario su

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Amministrazione / Riforma CAD Comuni d’Italia / 10/2016

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La transizione alla modalità operativa digitale: dalla centralità della posizione del cittadino ai diritti di cittadinanza digitale

Con la legge 124/2015 (c.d. Legge Madia) il Governo è stato delegato a modificare e in-tegrare il codice dell’amministrazione digitale – CAD, di cui al d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, “al fine di garantire ai cittadini e alle imprese, anche attraverso l’utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, il diritto di accesso a tutti i dati, i documenti e i servizi di loro interesse in modalità digitale, nonché al fine di garantire la semplificazione nell’accesso ai servizi alla persona”.

Le modifiche vertono sulla cittadinanza digitale e sulla transizione alla modalità operati-va digitale, al fine di favorire un nuovo processo di innovazione e di crescita, in un mo-mento in cui occorre razionalizzare le risorse pubbliche e favorire la semplificazione delle relazioni tra PA e tra enti e cittadini / imprese.

La scelta del Parlamento non è stata quella di riscrivere l’intero corpo delle disposizioni in tema di digitalizzazione amministrativa (che in alcuni casi rimangono ancora frammen-tate e a volte di difficile ricostruzioni), ma di mantenere l’impianto normativo consolidato (ossia il d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82 – CAD), apportando allo stesso – come detto – modi-fiche ed integrazioni.

Si tratta di una modifica del CAD per sottrazione: si è inteso procedere con la rimozione di ciò che non serve o di ciò che non è servito.

La conseguenza è che, a seguito dell’adozione del d.lgs. 26 agosto 2016, n. 179 (pub-blicato in G.U. n. 214 del 13.9.2016, in vigore dal 14 settembre 2016), recante modifiche ed integrazioni al Codice dell’amministrazione digitale in attuazione della delega di cui all’art. 1 della legge 124/2015, rimangono in vigore le disposizioni in tema di documen-tazione amministrativa (contenute nel d.P.R. 445/2000) e le regole in materia di conser-vazione di archivi e documenti (di cui al d.lgs. 42/2004).

Si interviene, invece, su diverse disposizioni del CAD, al fine di rendere agevole la “tran-sizione alla modalità operativa digitale” (in questi termini cfr. art. 1, comma 1 lettera n) della legge 124/2015) e si modificano anche testi ormai “anacronistici”, prevedendo op-portune abrogazioni di disposizioni contenute nel d.lgs. 39/1993 e nei decreti d’urgenza, adottati al fine di recepire nel nostro ordinamento l’Agenda Digitale Europea (in partico-lare, il d.l. 5/2012 e il d.l. 179/2012).

L’obiettivo della delega è di portare il cittadino al centro e di provare ad “alleggerirlo” di una serie di doveri e di oneri: pertanto, con il d.lgs. 179/2016 si è inteso spostare sulle spalle più robuste della PA gli obblighi e gli oneri del cittadino, per cui vale l’equazione “diritti cittadini = doveri per la PA”.

In questa ottica il decreto legislativo 179/2016 poggia le sue basi sulla centralità dei di-ritti dei cittadini, rispetto alla posizione di favor del cittadino nel rapporto con la PA

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Amministrazione / Riforma CAD Comuni d’Italia / 10/2016

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Nella legge generale sul procedimento amministrativo e nel TU sulla documentazione amministrativa sono previsti (tuttora vigenti) una serie di obblighi in capo alle pubbliche amministrazioni, connessi alla c.d. decertificazione.

L’art. 18, comma 2 della legge 241/1990 prevede che “I documenti attestanti atti, fatti, qualità e stati soggettivi, necessari per l’istruttoria del procedimento, sono acquisiti d’uf-ficio quando sono in possesso dell’amministrazione procedente, ovvero sono detenuti, istituzionalmente, da altre pubbliche amministrazioni”. Il legislatore, con la disposizione ivi richiamata, ha inteso far venir meno il ruolo di “postino” da parte del cittadino per conto della PA, prevedendo l’obbligo per le pubbliche amministrazioni dell’acquisizione d’ufficio di documenti attestanti atti, fatti e stati soggettivi già in possesso della PA pro-cedente o di altra amministrazione.

L’articolo ivi considerato prevede solamente l’onere in capo al cittadino di dover indica-re, su richiesta dell’amministrazione procedente “i soli elementi necessari per la ricerca dei documenti”.

Questa disposizione purtroppo è stata disattesa e ha trovato scarsa applicazione, poi-ché le PA hanno continuato imperterrite nell’onerare (e quindi nell’obbligare) il cittadino a fornire documenti, sfruttando la posizione di sudditanza dello stesso.

A ciò deve aggiungersi che l’art. 18, comma 3 della legge 241/1990 prevede che “pari-menti sono accertati d’ufficio dal responsabile del procedimento i fatti, gli stati e le qua-lità che la stessa amministrazione procedente o altra pubblica amministrazione è tenuta a certificare”.

Viene da chiedersi come impattino le disposizioni del nuovo CAD rispetto alle previsioni già presenti nella legge 241/1990: queste ultime restano pienamente efficaci e trovano compiuta attuazione nell’obbligo di comunicazione tra PA mediante sistemi informatici ovvero tramite il sistema pubblico di connettività (cfr. art. 47 del CAD).

La posizione del cittadino nelle relazioni con la PA è stata rilanciata con l’introduzione nell’art. 40 del d.P.R. 445/2000 del comma 1 del d.P.R. 445/2000 (da parte dell’art. 15, comma 1, lett. a), l. 12 novembre 2011, n. 183), novella denominata “decertificazione”: con questa previsione si è previsto che “Le certificazioni rilasciate dalla pubblica ammini-strazione in ordine a stati, qualità personali e fatti sono valide e utilizzabili solo nei rap-porti tra privati. Nei rapporti con gli organi della pubblica amministrazione e i gestori di pubblici servizi i certificati e gli atti di notorietà sono sempre sostituiti dalle dichiarazioni di cui agli articoli 46 e 47”.

Queste disposizioni hanno come limite di basarsi sulla centralità del procedimento am-ministrativo, nell’ambito dell’agire amministrativo, e nel non riconoscere un diritto pieno del cittadino alla comunicazione digitale.

Con la novella al CAD, ad opera del d.lgs. 179/2016, si sposta la centralità (e quindi l’am-bito di intervento) dal procedimento amministrativo ai diritti dei cittadini, attraverso il riconoscimento di “diritti di cittadinanza digitale” ed il principio della “transizione alla

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modalità operativa digitale”, espressamente richiamato dall’art. 1, comma 1 lettera n) della legge 124/2015.

Il principio testé considerato, con l’adozione del decreto delegato di riforma, è espressa-mente richiamato negli articoli 13 e 17, comma 1bis del nuovo CAD, così come modifica-to dal d.lgs. 179/2016.

È questo pertanto il fondamento della riforma dal lato delle pubbliche amministrazioni: favorire la transizione alla modalità operativa digitale e promuovere i processi di riorga-nizzazione finalizzati alla realizzazione di un’amministrazione digitale e aperta.

Questo processo di transizione deve avvenire tramite due diverse modalità o approcci:

- ridefinizione e semplificazione dei procedimenti amministrativi, mediante una discipli-na basata sulla loro digitalizzazione e per la piena realizzazione del principio dell’in-nanzitutto digitale (“digital first”), in base al quale il digitale è il canale principale per tutte le attività amministrative, salva la facoltà di scelta da parte del cittadino;

- innovazione e reingegnerizzazione di processo, nel rispetto del principio del “digital swicth off”, ossia sistemi e servizi in cui il digitale è l’unico ed esclusivo canale di co-municazione o di relazione tra PA e cittadini / imprese (un esempio al riguardo è rin-venibile nell’obbligo della fatturazione elettronica ovvero con riferimento all’accesso ai servizi erogati dall’INPS).

Gli obiettivi di breve, medio e lungo periodo della riforma del CAD ad opera del d.lgs. 179/2016Con la riforma del CAD, come riferito dall’amministrazione e riportato nel parere del Consiglio di Stato del 17 marzo 2016, sullo schema di decreto legislativo predisposto dal Governo, si intendono raggiungere una serie di obiettivi specifici, differenziati in base al termine di attuazione, ossia:

1) nel breve periodo, implementare alcuni diritti, ritenuti ormai parte integrante di quelli spettanti ai cittadini e alle imprese, ovvero: a) il diritto all’assegnazione di un’identità digitale attraverso la quale accedere e uti-

lizzare i servizi erogati in rete dalle pubbliche amministrazioni;b) il diritto all’inserimento di un proprio domicilio digitale nell’Anagrafe nazionale

della popolazione residente ed il diritto a eleggere un proprio domicilio speciale digitale;

2 nel medio periodo, si intendono riconoscere una serie di posizioni soggettive e di misure di agevolazione e si semplificazione delle relazioni:a) il diritto di utilizzare le soluzioni e gli strumenti informatico-giuridici nei rapporti

con le pubbliche amministrazioni, anche ai fini della partecipazione al procedi-

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mento amministrativo, dando in tal modo piena attuazione al citato principio del “digital first”;

b) favorire i pagamenti verso le pubbliche amministrazioni attraverso i servizi di pa-gamento elettronico, ivi inclusi, per i micro-pagamenti, anche quelli basati sull’uso del credito telefonico;

c) necessità di ridefinire il Sistema pubblico di connettività (SPC);d) definizione dei criteri di digitalizzazione del processo di misurazione e valutazione

della performance;e) disponibilità di connettività a banda larga e ultralarga e accesso alla rete internet

presso uffici pubblici anche attraverso una rete wi-fi ad accesso libero;3) nel lungo periodo: superamento delle problematiche connesse:

a) al gap del paese rispetto al resto d’Europa in materia di digitalizzazione, che vede l’Italia al venticinquesimo posto in Europa nella diffusione della connessione inter-net tramite banda larga, nell’utilizzo di internet, nella diffusione delle competenze digitali, nel livello di innovazione digitale delle piccole e medie imprese e nella presenza di servizi pubblici digitali;

b) c.d. digital divide, ovvero il divario esistente tra chi ha accesso effettivo alle tec-nologie dell’informazione e chi ne è escluso, in modo parziale o totale, in ragione delle proprie condizioni economiche, del livello di istruzione, della qualità delle infrastrutture e della provenienza geografica.

Pertanto, con il d.lgs. 179/2016 lo Stato, in ossequio a quanto previsto dall’Agenda digitale europea (ADE) e anche dall’Agenda digitale italiana (ADI), si propone di superare l’arre-tratezza tecnologica del Paese, creando le condizioni per contrastare le principali criticità, che costituiscono il fondamento di quel gap di cui si è in precedenza detto, ossia:

1) uso eccessivo della carta nel normale funzionamento delle amministrazioni;2) la complessità e l’incompletezza della vigente disciplina in materia di domicilio digita-

le dei cittadini e delle imprese;3) l’utilizzo di software con standard non aperti e dipendenti da specifiche tecnologie

proprietarie, differenti da ciascuna amministrazione;4) carenza di forme d’integrazione dei soggetti interessati con i sistemi informativi;5) assenza di una identità digitale di cittadini e imprese che impedisce l’utilizzo dei ser-

vizi erogati dalle PPAA;6) la non effettività dei principi di cittadinanza digitale;7) l’analfabetismo della cultura digitale della cittadinanza, con particolare riguardo alle

categorie a rischio di esclusione;8) la difficoltà di effettuare pagamenti con modalità elettroniche;9) l’incompetenza tecnologica dei dirigenti pubblici nell’attuare la transizione verso la

modalità operativa digitale;

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10) la persistente difficoltà nella navigazione sui siti internet delle pubbliche amministra-zioni, per la ricerca di documenti e informazioni pubbliche.

I capisaldi della riforma del CAD: cittadinanza digitale, cultura digitale e competitività digitale

La riforma del CAD ha i suoi capisaldi sulle c.d. 3C:

a) cittadinanza digitale;b) cultura digitale;c) concorrenza digitale.L’art. 1 della legge 124/2015 è rubricato “Carta della cittadinanza digitale”, per cui la novità più rilevante del decreto di riforma del CAD è il riconoscimento della centralità del cittadino nella relazione con le PA e le società a controllo pubblico e dei diritti di cittadinanza digitale. Quest’ultima rappresenta uno status, ossia il complesso dei diritti di utilizzo delle ICT nella relazione tra cittadino / imprese e la pubblica amministrazione, ai fini della fruizione dei servizi pubblici e dell’accesso ai dati e ai documenti in modalità dematerializzata, nonché mediante l’utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione.

È questo il fulcro della riforma, che trova i propri capisaldi nella novella e modifica degli articoli 3, 3-bis, 5, 64 e 65 del CAD i propri corollari.

La cittadinanza digitale, come status, al fine di essere piena ed effettiva, presuppone che siano adottate azioni in concreto tese al superamento dei possibili ostacoli sia di natura tecnologia, sia di natura cognitiva e delle competenze individuali.

Pertanto, si deve immaginare il cittadino al centro della relazione con le PA e si deve prevede che qualunque rapporto e interazione necessari con i soggetti pubblici possa-no avvenire mediante l’utilizzo delle ICT; da qui:

- diritto all’uso delle tecnologie e all’utilizzo delle ICT per presentare domande, istanze e dichiarazioni;

- diritto all’utilizzo di sistemi di pagamento elettronico;- diritto al ricevimento delle comunicazioni elettroniche;- facoltà di non dover conservare documenti, che per legge devono essere conservati

dalle pubbliche amministrazioni. Perché la cittadinanza digitale possa dirsi effettiva, si segnalano le opportune modifiche e integrazioni da parte del d.lgs. 179/2016 agli articoli 8 e 13 del CAD:

- quanto al primo, al comma 1 all’espressione alfabetizzazione informatica si è sostitu-

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ita quella più compiuta di cultura digitale tra i cittadini, che è un obiettivo di politica e di crescita, con “particolare riguardo alle categorie a rischio di esclusione, anche al fine di favorire l’utilizzo di servizi digitali delle pubbliche amministrazioni”;

- nell’art. 13, dopo il comma 1, è stato introdotto il comma 1bis, che dispone che “le politiche di formazione di cui al comma 1 sono altresì volte allo sviluppo delle com-petenze tecnologiche e manageriali dei dirigenti, per la transizione alla modalità ope-rativa digitale”.

Quanto alla cultura digitale, il Governo nel 2014 ha adottato il “Programma nazionale per la cultura, la formazione e le competenze digitali”, avente un orizzonte temporale che coincide con la programmazione europea (2014-2020), parte integrante dell’Agenda Digitale Italiana, a cui contribuiscono per la definizione dell’Asse Strategico “Competen-ze digitali”.

Il Programma nazionale si propone di definire il quadro strategico e operativo entro cui sviluppare la cultura e le competenze digitali del Paese.

Inoltre, è uno strumento che intende raccordare e porre in rete le iniziative territoriali e settoriali già esistenti: si tratta di un lavoro in progress, che deve recepire le nuove esi-genze della cittadinanza, e mantenere un allineamento costante tra scelte strategiche, direttrici operative e piano di azione.

Lo sviluppo delle competenze digitali e in generale della consapevolezza digitale è fon-damentale per il nostro Paese, che soffre su questo campo di uno svantaggio molto grave nei confronti della gran parte dei Paesi Europei, come rilevato da diversi rapporti internazionali. Ne paghiamo le conseguenze sul fronte dello sviluppo economico-socia-le, ma anche dell’inclusione e dell’esercizio dei diritti democratici. Le competenze digitali (in continua evoluzione) sono necessarie per un utilizzo efficace degli strumenti e dei servizi digitali di uso comune nella vita quotidiana compreso l’ambito lavorativo, senza fi-nalità professionali specifiche. Il nesso con il concetto di cittadinanza digitale nasce pro-prio dall’idea che saper utilizzare strumenti e servizi digitali ad un livello anche basilare, ma comunque adeguato allo scopo, sia una condizione oggigiorno sempre più necessa-ria per poter partecipare alle dinamiche sociali, economiche e politiche della realtà in cui viviamo ed esercitare i nuovi diritti legati proprio alla pervasività del digitale.

La prima versione delle Linee Guida è stata presentata il 28 maggio 2014 a FORUM PA 2014. Le Linee guida sono comunque uno strumento in progress e questa prima versio-ne è il risultato anche della consultazione pubblica online (culturadigitale.partecipa.gov.it) avviata lo scorso 10 aprile e conclusasi il 12 maggio 2014.

Le Linee guida hanno le finalità di:

a) proporre una definizione condivisa di competenze digitali, incluse quelle relative alle alfabetizzazioni digitali delle professioni

b) avviare un’attività di mappatura delle iniziative di e-inclusion, alfabetizzazione, forma-zione digitale già avviate nel Paese (buone pratiche);

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c) definire obiettivi e modalità di realizzazione del “Programma nazionale per la cultura, la formazione e le competenze digitali” coerenti con il programma Horizon 2020;

d) indicare le modalità di avvio di una campagna per la valorizzazione delle iniziative in atto;e) definire le modalità di promozione e di finanziamento di nuove iniziative;f) avviare il confronto e la collaborazione tra gli attori su progetti e iniziative comuni;g) definire le integrazioni tra le attività del Programma e le Linee guida degli altri assi

strategici dell’Agenda digitale italiana (e-commerce, e-government, open data, ricer-ca e innovazione, città intelligenti).

Infine, il riconoscimento della cittadinanza digitale e la promozione della cultura digitale, non possono prescindere dalla vitalità del mercato e dalla fornitura di nuovi servizi, per cui è necessario promuovere la c.d. “concorrenza digitale”: questa non è rinvenibile nel-la legge delega, né nel d.lgs. 179/2016; tuttavia, si evince dal principio di cui alla lettera m) dell’art. 1 della legge 179/2016, secondo cui occorre “assicurare la neutralità tecnolo-gica delle disposizioni del CAD”.

Il principio di neutralità tecnologica presuppone che si possano utilizzare tecnologie differenti, che prescindano da una tipologia di tecnologia o da un’altra; ciò favorisce la promozione della concorrenza e la crescita di piccole e medie imprese, a tutto vantag-gio dei cittadini e degli utilizzatori delle soluzioni e delle tecnologie.

Si pensi a tal fine al Regolamento UE eIDAS n. 2014/910, in tema di servizi fiduciari, che verrà esaminato nel capitolo 5.

Quindi il Programma Nazionale della cultura e delle competenze digitali si propone come modello di approccio, ma allo stesso tempo come luogo di incontro delle inizia-tive di innovazione, anche oltre il digitale, in grado di innescare un circolo virtuoso tra cittadini sempre più competenti e coprogettisti dei servizi, un settore pubblico sempre più consapevole della propria missione di traino di una richiesta di servizi di qualità e un settore privato sempre più affamato di innovatori e di competenze tecnologiche qualifi-cate, per poter soddisfare e anticipare le richieste di cittadini e amministrazioni.

Prestatori di servizi fiduciari e servizi fiduciari: una nuova visione e dimensione per lo sviluppo dei servizi on-line e per la garanzia della fiducia dei cittadini e delle imprese nell’accesso Per garantire ai cittadini e alle imprese il diritto di accedere ai servizi di loro interesse in modalità digitale, il legislatore ha delegato il Governo a intervenire, modificando ed integrando il CAD, al fine di “adeguare l’ordinamento alla disciplina europea in materia di identificazione elettronica e servizi fiduciari per le transazioni elettroniche” (cfr. art. 1, comma 1 lettera p) della legge 124/2015).

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I servizi fiduciari sono disciplinati dal Regolamento (UE) n. 910/2014 del Parlamen-to Europeo e del Consiglio del 23 luglio 2014 (pubblicato in G.U.C.E. L 257/73 del 28/08/2014), in vigore dall’1 luglio 2016.

Il regolamento ha lo scopo di creare un quadro normativo uniforme in tutti gli stati membri, per cui non deve essere recepito nell’ordinamento interno, trovando applicazio-ne diretta.

Il nostro legislatore, con la c.d. “legge Madia” ha delegato il Governo ad adeguare l’ordinamento alla disciplina europea in materia di servizi fiduciari, per cui con il d.lgs. 179/2016 sono stati abrogati gli articoli 26 e 27 del CAD, eliminando la figura dei certifi-catori ed introducendo un quadro normativo relativo ai prestatori di servizi fiduciari.

Come ben espresso nel considerando 1) del Regolamento UE n. 910/2014 (Regolamento eIDAS) “instaurare la fiducia negli ambienti online è fondamentale per lo sviluppo eco-nomico e sociale. La mancanza di fiducia, dovuta in particolare a una percepita assenza di certezza giuridica, scoraggia i consumatori, le imprese e le autorità pubbliche dall’ef-fettuare transazioni per via elettronica e dall’adottare nuovi servizi”.

Pertanto, secondo quanto proclamato nel considerando 2, il Regolamento eIDAS “mira a rafforzare la fiducia nelle transazioni elettroniche nel mercato interno fornendo una base comuna per interazioni elettroniche sicure tra cittadini, imprese e autorità pub-bliche, in modo da migliorare l’efficacia dei servizi elettronici pubblici e privati, nonché dell’eBusiness e del commercio elettronico nell’Unione europea”.

A ciò deve aggiungersi che la direttiva 2006/123/CE del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno (pubblicata in GUCE L 376 del 27/12/2006), dispone che “gli Stati membri creino “sportelli unici” per garantire che tutte le procedure e formalità rela-tive all’accesso a un’attività di servizi ed al suo svolgimento possano essere facilmente espletate a distanza ed elettronicamente attraverso lo sportello unico corrispondente e con le autorità competenti”.

Pertanto, numerosi servizi online accessibili presso gli sportelli unici richiedono l’identifi-cazione, l’autenticazione e la firma elettronica.

Da ciò deriva che gestire la transizione alla modalità operativa digitale richiede di raffor-zare la fiducia dei cittadini e delle imprese e di avere un quadro di regole e di operatori che garantiscano questa fiducia.

Tant’è che nel considerando n. 12 del Regolamento eIDAS si prevede che “lo scopo del regolamento è garantire che per accedere ai servizi online transfrontalieri si possa di-sporre di un’identificazione e un’autenticazione elettronica sicura”.

Per far ciò il regolamento prevede che “al fine di migliorare la fiducia delle piccole e me-die imprese (PMI) e dei consumatori nel mercato interno e di promuovere l’impiego di servizi e prodotti fiduciari è opportuno introdurre le nozioni di servizi fiduciari qualificati e di prestatori di servizi fiduciari qualificati” (cfr. considerando n. 28).

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Da ciò deriva che “tutti i prestatori di servizi fiduciari dovrebbero essere soggetti ai re-quisiti del regolamento eIDAS, in particolare a quelli in materia di sicurezza e respon-sabilità, al fine di garantire la dovuta diligenza, la trasparenza e l’attendibilità delle loro operazioni e servizi”.

Nel considerando n. 35 si prevede che “tenendo conto del tipo di servizi fornito dai pre-statori di servizi fiduciari, per quanto riguarda tali requisiti è opportuno distinguere tra servizi fiduciari qualificati e non qualificati”.

Il regolamento eIDAS fornisce la definizione di servizio fiduciario, nell’articolo 1 paragra-fo 1 n. 16: “un servizio elettronico fornito normalmente dietro remunerazione consistente in diversi elementi, aventi ad oggetto sei tipologie di strumenti: firme elettroniche, sigilli elettronici, validazioni temporali elettroniche, servizi elettronici di recapito certificato, autenticazione di siti web e conservazione di firme, sigilli o certificati”.

Il legislatore delegato ha abrogato, come detto in precedenza, gli articoli 26 e 27 del d.lgs. 82/2005, in quanto a livello di ordinamento comunitario scompare la figura e la nozione del certificatore, che viene sostituita da quella di prestatore di servizi fiduciari.

In particolare, al fine di favorire la libertà di prestazione dei servizi, il Regolamento eI-DAS introduce la figura soggettiva del prestatore di servizi fiduciari, definita come “una persona fisica o giuridica che presta uno o più servizi fiduciari”.

Al fine di garantire livelli diversi di sicurezza e di fiducia, i prestatori di servizi fiduciari sono distinti in due categorie a seconda che siano qualificati o non qualificati.

Il prestatore di servizi fiduciari qualificati è definito, sempre dal regolamento eIDAS, come “un prestatore di servizi fiduciari che presta uno o più servizi fiduciari qualificati e cui l’or-ganismo di vigilanza assegna la qualifica di prestatore di servizi fiduciari qualificato”.

Pertanto, la distinzione tra queste due figure di operatori è basata sulla natura qualifica-ta o meno del servizio fiduciario offerto. Un servizio è definito “qualificato” ove l’attività (ossia il servizio) oggetto di prestazione “soddisfa i requisiti pertinenti stabiliti dal rego-lamento 910/2014 EU”.

Nell’attuazione di quanto previsto all’art. 1 lettera p) della legge 124/2015 il legislatore delegato ha novellato l’art. 29 del CAD.

In primis, viene modificata la rubrica dell’articolo 29, mediante la sostituzione della locu-zione “Accreditamento” con quella di “Qualificazione e accreditamento”.

Il nostro ordinamento pertanto prevede e disciplina due diversi regimi di garanzia relati-vamente alla prestazione dei servizi dell’ICT: la qualificazione e l’accreditamento.

La qualificazione, secondo le disposizioni del regolamento eIDAS, riguarda la prestazio-ne dei servizi fiduciari.

A tal fine, l’art. 29, comma 1 del nuovo CAD, così come novellato dal d.lgs. 179/2016, di-spone che “i soggetti che intendono avviare la prestazione di servizi fiduciari qualificati”

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(secondo la definizione contenuta nel regolamento eIDAS) “presentano all’Agenzia per l’Italia Digitale – AgID domanda di qualificazione, allegando alla stessa una relazione di valutazione della conformità accreditato dall’organo designato ai sensi del Regolamento CE 765/2008 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 luglio 2008 e dell’articolo 4, comma 2 della legge 99/2009”.

Il nuovo quadro di riferimento per chiedere ed ottenere la qualificazione è ispirato alle indicazioni contenute nel considerando n. 43) del Regolamento eIDAS, il quale prevede che “al fine di assicurare la conformità dei prestatori di servizi fiduciari qualificati e dei servizi da essi prestati ai requisiti stabiliti dal regolamento, un organismo di valutazione della conformità dovrebbe effettuare una valutazione della conformità” e impone altresì che “i prestatori di servizi fiduciari qualificati debbano trasmettere all’organismo di vigi-lanza (nell’ordinamento interno l’AGID) le relazioni di valutazione di conformità risultanti”.

Nel considerando n. 44) del medesimo regolamento si prevede che, al fine di garantire un quadro coerente ed un livello elevato di sicurezza e certezza giuridica, “la valutazione di conformità di prodotti e servizi” dovrebbe trovare sinergie con i regimi in materia di accreditamento degli organismi di valutazione della conformità e vigilanza del mercato (ad es. previsti dal Regolamento (CE) n. 765/2008.

Al fianco della qualificazione, il nostro ordinamento interno prevede un’altra forma di controllo della conformazione dei servizi agli standard tecnologici di sicurezza e affidabi-lità: l’accreditamento, che costituisce il secondo sistema di verifica e di assicurazione di garanzia delle “qualità soggettive” e degli standard dei prestatori e dei servizi, previsto dal nostro legislatore.

Questo secondo regime è previsto esclusivamente per le particolari categorie e specie di servizi tipici del nostro diritto interno: posta elettronica certificata, gestore dell’identi-tà digitale di cui all’articolo 64, conservatore accreditato di documenti informatici, di cui all’articolo 44-bis del CAD.

AI sensi dell’art. 29, comma 2 del nuovo CAD si prevede che “il richiedente (la qualifica-zione o all’accreditamento) deve trovarsi nelle condizioni previste dall’articolo 24 del Re-golamento eIDAS”. Pertanto, l’entrata in vigore del regolamento eIDAS ha determinato il superamento delle condizioni che erano richieste in precedenza per i certificatori.

Ad integrazione dei requisiti generali previsti dal regolamento, l’art. 29, comma 3 del d.lgs. 82/2005 (così come novellato dal d.lgs. 179/2016) prevede che, fatto salvo quanto previsto dall’articolo 44-bis, comma 3 del CAD e dall’articolo 14, comma 3 del d.P.R. 68/2005, il ri-chiedente (la qualificazione o l’accreditamento) deve inoltre possedere i requisiti individua-ti con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri da fissare in base ai seguenti criteri:

a) per quanto riguarda il capitale sociale, graduazione entro il limite massimo di cinque milioni di euro, in proporzione al livello di servizio offerto;

b) con riferimento alle garanzie assicurative, graduazione in modo da assicurarne l’ade-guatezza in proporzione al livello di servizio offerto”.

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Nella bozza originaria di schema di decreto adottato dal Governo di riforma del CAD, l’art. 29, coma 2 prevedeva che “il richiedente deve possedere i requisiti di cui all’artico-lo 27”; inoltre, l’art. 29 comma 3 era sostanzialmente invariato per cui si sarebbe conti-nuato a prevedere (per la prestazione dei servizi fiduciari qualificati) l’obbligatorietà per “il richiedente, se soggetto privato, in aggiunta a quanto previsto dal comma 2:

a) avere forma giuridica di società di capitali e un capitale sociale non inferiore a quello necessario ai fini dell’autorizzazione alla attività bancaria in qualità di banca di credito cooperativo ai sensi dell’articolo 14 del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385;

b) garantire il possesso, oltre che da parte dei rappresentanti legali, anche da parte dei soggetti preposti alla amministrazione e dei componenti degli organi preposti al controllo, dei requisiti di onorabilità richiesti ai soggetti che svolgono funzioni di am-ministrazione, direzione e controllo presso banche ai sensi dell’articolo 26 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385.

Nella bozza finale, il regime di qualificazione è stato oggetto di profonda modificazio-ne, poiché, come detto in precedenza, i requisiti previsti dall’art. 27 del CAD sono stati abrogati, dovendosi considerare esclusivamente quelli di cui all’art. 24 del regolamento eIDAS; a ciò deve aggiungersi che con l’abrogazione dell’articolo 27, è stato novellato l’art. 29, comma 3 per cui si prevede il rinvio ad un DPCM, che deve prevedere i requisiti ulteriori che non sono più legati alla natura giuridica (forma di società di capitali) e ad un capitale sociale minimo non inferiore a quello necessario ai fini dell’autorizzazione alla attività bancaria (ossia 5 milioni).

Il legislatore delegato, recependo le indicazioni ed i rilievi mossi dal Consiglio di Sta-to del 17 marzo 2016 (n. 430/2016), che, in sede di parere sullo schema di decreto, ha richiamato l’attenzione sul fatto che il succitato requisito avesse suscitato “contrarietà nelle associazioni di categoria degli operatori di comunicazione elettronica di servizi ac-cessibili al pubblico” poiché l’elevato capitale sociale produrrebbe l’effetto di escludere dalla possibilità di accreditamento alcune imprese che già operano nel settore.

La Commissione speciale aveva pertanto invitato l’amministrazione a chiarire le ragioni sottese a tale previsione, “tenendo conto che l’obiettivo da raggiungere potrebbe con-sistere nell’individuazione di un punto di equilibrio fra l’esigenza di selezionare aziende che assicurino un servizio conforme agli standard individuati dall’Amministrazione stessa e quella di non escludere dal mercato società che, pur in possesso di accertati requisiti di affidabilità, non dispongano del capitale societario richiesto dall’articolo de quo.

Nella formulazione finale, recependo le indicazioni espresse dal Consiglio di Stato (da ultimo anche nel parere n. 1204/2016 del 17/05/2016), il legislatore ha previsto i seguenti requisiti ai fini dell’ottenimento dell’accreditamento:

a) quanto al capitale sociale: i prestatori devono possedere possa essere graduato fino ad un massimo di 5 milioni di euro, e non come avveniva nel regime precedente ca-

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pitale sociale non inferiore a quello necessario per esercizio attività bancaria; inoltre, sempre a questo fine, si prevede che la previsione sia “in proporzione al livello di servizio offerto”;

b) riguardo alle garanzie assicurative, si prevede che le stesse siano graduate in modo da assicurare l’adeguatezza in proporzione al livello di servizio offerto”.

La novella pertanto intende favorire e promuovere l’ingresso nel mercato dei servizi fi-duciari di nuovi soggetti e di incentivare l’innovazione.

Quindi, in sintesi per quanto riguarda il mercato dei fornitori, le figure soggettive previ-ste sono quattro, come previsto dal combinato disposto degli articoli 29 e 30 del CAD così come novellato dal d.lgs. 179/2016:

1) prestatori di servizi fiduciari qualificati;2) gestori di posta elettronica certificata, che è uno strumento tipico del nostro ordina-

mento interno e nazionale, che non trova eguali in altri stati europei;3) gestori dell’identità digitale di cui all’art. 64 (SPID);4) conservatori accreditati, ai sensi dell’art. 44-bis, che è rimasto invariato, salvo che

nell’aver previsto il legislatore delegato che l’accreditamento, da chiedersi ad AGID, è “secondo le regole tecniche di cui all’articolo 71”.

ConclusioniLa riforma del CAD, nel mettere al centro del proprio disegno riformatore la cittadinan-za digitale, promuove e favorisce la transizione verso la modalità operativa digitale, che è il presupposto per garantire i diritti dei soggetti giuridici (identità digitale, diritto ai pagamenti elettronici, domicilio digitale, facoltà di presentare istanze e dichiarazioni on line e di accedere ai servizi in modalità digitale, facoltà di non dover conservare i docu-menti, che siano obbligatoriamente conservati da parte della PA per obbligo di legge).

Per consentire l’effettività della cittadinanza digitale occorre il necessario apporto dei poteri pubblici e delle imprese:

- quanto ai primi, l’art. 8 del nuovo CAD prevede che Stato, pubbliche amministrazio-ni e società a controllo pubblico promuovono iniziative volte a favorire la diffusione della cultura digitale tra i cittadini. A tal fine, anche in base a quanto previsto dal nuovo TU sui servizi di interesse economico generale, si aprono nuove frontiere rela-tive all’assunzione di attività finalizzate alla soddisfazione di bisogni ed interessi della collettività (ossia servizi pubblici di interesse generale, relativi alla cultura digitale);

- con riferimento alle imprese, il nuovo quadro di riferimento in tema di servizi fiduciari, nell’ottica della neutralità tecnologica, è finalizzato a far crescere la fiducia dei consuma-tori e dei soggetti giuridici nell’utilizzo degli strumenti e nella fruizione dei servizi online, vero presupposto per l’innovazione dei processi amministrativi e la crescita sostenibile.

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Un ruolo propulsivo fondamentale è riconosciuto, dall’art. 14-bis del CAD (introdotto dall’art. 13, comma 2 del d.lgs. 179/2016), all’AgID, che da un lato è preposta alla rea-lizzazione degli obiettivi dell’Agenda Digitale Italiana e dell’Agenda Digitale Europea, dall’altro è chiamata a “promuovere l’innovazione digitale nel Paese e l’utilizzo delle tecnologie digitali nell’organizzazione della pubblica amministrazione e nel rapporto tra questa, i cittadini e le imprese”.

Ad AgID, ai sensi dell’art. 14-bis comma 2, sono attribuite le funzioni di “promozione della cultura digitale e della ricerca anche tramite comunità digitali regionali” e i compiti di “vigilanza sui servizi fiduciari ai sensi dell’art. 17 del regolamento eIDAS.

Cultura e competitività digitali sono i fattori di successo condizionanti il processo di in-novazione in atto e la transizione alla modalità operativa digitale.

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TU delle società pubblicheAmministrazione

Testo unico delle società pubbliche e prorogatio degli organi di amministrazione e controllo delle società in housedi Tiziano Tessaro

Una delle novità contenute nel nuovo “Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica” (d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175, in G.U. n. 120 dell’8 set-tembre 2016), che maggiormente è passata in sordina è quella contenuta nel comma 15 dell’art. 11 a mente del quale “agli organi di amministrazione e controllo delle società in house si applica il d.l. 16 maggio 1994, n. 293, converti-to, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 1994, n. 444”, ovvero la disciplina della proroga degli organi amministrativi.

Il comma 15, art. 11 del “Testo unicoico in materia di società partecipate” palesa l’inten-zione del legislatore di assimilare sia pure limitatamente al profilo qui considerato, le so-cietà in house agli enti pubblici.

La sottolineatura appare necessaria e va ben oltre l’ambito angusto della norma in commento, dimostrando la labilità dei confini tra pubblico e privato, lontani cioè dalla tranquillizzante idea «che esistano due diritti, l’uno per i rapporti tra privati, l’altro

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per quelli tra amministrazioni pubbliche e privati»1. Probabilmente essa può essere spiegata in modo convincente solo con l’idea secondo cui indipendentemente dalla qualificazione formale in termini di ente pubblico, a talune società a capitale pubblico che presentano determinati requisiti possono applicarsi specifiche discipline settoriali previste per i soggetti pubblici, se ciò è ritenuto necessario per la tutela di determinati interessi rilevanti per l’ordinamento: con valutazioni fatte in alcuni casi dallo stesso le-gislatore (come ad es. in materia di appalti pubblici ai sensi del d.lgs. 50/2016, o in tema di diritto di accesso agli atti – art. 22, l. 241/1990). La stessa questione a ben vedere, concerne la tematica della trasparenza, su cui come evidenzia lo stesso tormentato te-sto dell’art. 22 del d.lgs. 175/2016 le problematiche circa la completa applicabilità della disciplina pubblicistica appaiono non certo marginali.

Talvolta, il superamento di un approccio in termini meramente formali è stato effet-tuato dalla giurisprudenza (come nel caso della giurisdizione amministrativa sugli atti: Cass. civ., sez. un., 4 novembre 2009, n. 23322, in Foro amm. CDS 2009, 12, 2824; Cons. Stato, sez. IV, 30 gennaio 2006, n. 308), ovvero rimesso alla valutazione degli interpreti (ad es. in tema di giurisdizione): cosicchè, ai fini della individuazione della disciplina applicabile alle società a capitale pubblico, di volta in volta i fattori sopra elencati hanno sempre più accentuato i profili pubblicistici di queste ultime e, con-seguentemente, individuato una serie di normative pubblicistiche ritenute applicabili in presenza di determinate condizioni a soggetti privati (anche per quanto tuttora in modo poco chiaro della giurisdizione della Corte dei Conti: con norma prevista dall’ art. 12 del d.lgs. 175/2016).

Ed è quello che avviene nel caso specifico, in riferimento al regime della prorogatio,in virtù della disposizione espressa contenuta nel d.lgs. 175/2016.

La conclusione non è affatto nuova. Ed, infatti, si era già ritenuto in passato che la proroga di organi amministrativi prevista dall’art. 1, d.l. 16 maggio 1994 n. 293, con-vertito con la legge 15 luglio 1994 n. 444, trovasse applicazione anche nei confronti del Presidente del Consiglio di amministrazione di una Azienda speciale (TAR Calabria, sede di Catanzaro, sentenza 12 marzo 2004 n. 622) osservando che l’azienda speciale ha personalità giuridica di diritto pubblico ed è riconducibile alla categoria degli enti pubblici economici.

Va ricordato al riguardo che la Corte costituzionale, con sentenza n. 208 del 16 apri-le-4 maggio 1992 (in Cons. Stato 1992, 1, 793), aveva in precedenza affermato che dal complesso normativo vigente non è possibile desumere che la c.d. prorogatio, di fatto, incerta nella sua durata, costituisca regola generale dell’ordinamento, valevole per gli organi amm.vi. A tale conclusione, infatti, non consente di pervenire in primo luogo la disciplina normativa della prorogatio in materia di enti locali, considerato che essa si rife-risce a soggetti aventi peculiari caratteristiche (territorialità, natura di enti politici espo-

(1) Melis, La storia del diritto amministrativo, in Trattato di diritto amministrativo, a cura di Cassese, Milano, 2000, I, 155.

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nenziali di comunità) che ne escludono la valenza di principio generale valevole per tutti gli enti ed organi pubblici avulsi da quel contesto.

La Corte aveva, poi, affermato che la generalità del principio non può trarsi neppure dalle norme che dispongono in tema di organi costituzionali e di rilevanza costituzionale (per ammetterla, limitarla o escluderla), considerato che trattasi di previsioni tassative e diversificate, non significative di una regola uniforme, inapplicabili, pertanto, alla diver-sa specie degli organi amministrativi, la cui disciplina trova fondamento nell’art. 97 della Costituzione, con la cui norma l’istituto della prorogatio a tempo indefinito confligge.

Infatti, i princìpi della riserva di legge in materia di organizzazione amministrativa e di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione escludono che, in pre-senza di previsioni normative che dispongono sulla durata degli organi e limitano tem-poralmente la loro competenza, possa ammettersi la prorogatio a tempo indeterminato dei medesimi, in tal modo attribuendo al soggetto che deve provvedere alla sostitu-zione il potere di determinare la durata dell’organo pur in presenza di una norma che quest’ultima già dispone. Anzi, le disposizioni introdotte dal d.l. 16 maggio 1994, n. 293, convertito dalla 1. 15 luglio 1994, n. 444, nel dettare norme sul regime di proroga de-gli organi amministrativi scaduti e degli atti da questi emanati, e nel sanzionare come nulli gli atti posti in essere al di fuori dei limiti previsti, valgono anche se la proroga è disposta con apposito provvedimento anziché operare in via di fatto (TAR Veneto n. 368 dell’11 febbraio 1997).

Sulla base dei principi costituzionali sopra richiamati si è affermato, pertanto, che la pro-roga degli organi amministrativi scaduti può aversi solo nei casi espressamente preve-duti dalla legge e nei limiti (temporali e di contenuto della potestà esercitabile) da essa indicati, come nel caso della norma in esame.

Il d.l. 16 maggio 1994, n. 293, convertito dalla I. 15 luglio 1994, n. 444 volto a colmare la lacuna creata dalla citata sentenza della Corte costituzionale ed emanato proprio allo scopo di dare attuazione alle indicazioni fornite dalla pronuncia prevede (art. 3) che gli organi amministrativi non ricostituiti nel termine di cui all’art. 2 sono prorogati per non più di quarantacinque giorni, decorrenti dal giorno della scadenza del termine medesimo. Nel periodo in cui sono prorogati, gli organi scaduti possono adottare esclusivamente gli atti di ordinaria amministrazione, nonché gli atti urgenti e indifferibili con indicazione specifica dei motivi di urgenza e indifferibilità. Gli atti non rientranti fra quelli indicati nel comma 2, adottati nel periodo di proroga, sono nulli.

Va sottolineato peraltro che la normativa che prevede la nullità degli atti emessi da un organo prorogato esclude (art. 1) dall’applicazione gli organi rappresentativi delle regio-ni, delle province, dei comuni e delle comunità montane e gli organi che hanno comun-que rilevanza costituzionale.

Ora la norma in esame sembra affermare il principio secondo cui la materia degli organi di amministrazione e controllo delle società in house – nell’essere ricondot-

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ta entro il quadro regolativo apprestato dal d.l. n. 293 del 16 maggio 1994, recan-te “disciplina della proroga degli organi amministrativi”, convertito in l. n. 444 del 15 luglio 1994,ed in particolare all’art. 1 (secondo cui la disciplina de qua trova applicazione “agli organi di amministrazione attiva, consultiva e di controllo dello Stato e degli enti pubblici”, essendone esclusi, tra l’altro, esclusivamente “gli orga-ni rappresentativi delle regioni, delle province, dei comuni”) – sembra offrire un buon motivo per ricondurre tali società alla categoria degli enti pubblici economici (Consiglio Stato, sez. V, n. 432 del 6.4.1998), attraverso la clausola generale che, nel delinearne lo spettro applicativo, fa appunto generico riferimento agli “enti pubblici”. La norma in rassegna potrebbe peraltro anche essere intesa più semplice-mente come esplicazione di una regola volta ad applicare segmenti di discipline pub-blicistiche, come nel caso specifico quella relativa alla prorogatio, senza procedere alla riqualificazione del soggetto come ente pubblico (cfr. Corte cost. 23 luglio 2013, n. 229): ma il riferimento esplicito alla categoria degli enti pubblici e il rinvio effettuato alla legge 15 luglio 1994, n. 444, valevole solo per le società in house, potrebbe anche di-mostrare il contrario.

La Corte costituzionale (1° febbraio 2006, n. 29), peraltro, chiamata a pronunciarsi sul-la legittimità di una legge regionale che imponeva alle società a capitale interamente pubblico, affidatarie del servizio pubblico, l’obbligo del rispetto delle procedure di evidenza pubblica imposte agli enti locali per l’assunzione del personale dipendente, ha affermato che “la disposizione in esame non è volta a porre limitazioni alla capacità di agire delle persone giuridiche private, bensì a dare applicazione al principio di cui all’art. 97 cost. rispetto ad una società che, per essere a capitale interamente pubbli-co, ancorché formalmente privata, può essere assimilata, in relazione al regime giu-ridico, ad enti pubblici”: sottolineando ancora di più l’ambiguità della nozione stessa di società in house dove «l’uso del vocabolo società qui serve solo allora a significare che, ove manchino più specifiche disposizioni di segno contrario, il paradigma organiz-zativo va desunto dal modello societario», ma “di una società di capitali intesa come persona giuridica autonoma cui corrisponde un autonomo centro decisionale e di cui sia possibile individuare un interesse suo proprio, non è più possibile parlare»: che di società di capitali hanno «solo la forma esteriore», ma sono in realtà una longa manus della p.a. e dove “la distinzione tra socio (pubblico) e società (in house) non si realizza più in termini di alterità soggettiva” (sentenza Cass. Sezioni Unite, n. 26283 del 2013).

Peraltro, secondo la giurisprudenza citata, sussiste la piena compatibilità, tra l’effetto de-cadenziale e la prosecuzione interinale delle funzioni connesse all’ufficio interessato dalla decadenza in regime di prorogatio, da parte del soggetto investito della carica, nono-stante la scadenza del periodo di durata conseguente al rinnovo del Consiglio comunale sulla base dei cui indirizzi era stato in precedenza nominato.

Si tratta quindi conclusivamente di una disposizione che aggiunge un ulteriore tas-sello di specialità al tormentato quadro delineato in tema di società in house in cui

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la regolamentazione pubblicistica di una società pur sempre retta dalle regole del codice civile trova esplicitazione non solo in relazione ai profili della trasparenza e del diritto di informazione, della disciplina degli appalti, del controllo e giurisdizione della Corte dei conti in tema di responsabilità degli amministratori, ma ora anche della durata in carica degli organi di amministrazione e controllo.

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Pareggio di bilancioFinanza

Il saldo di finanza pubblica (pareggio di bilancio) dopo la legge 12 agosto 2016, n. 164 di Marcello Quecchia

Con le modifiche introdotte dalla legge 12/08/2016, n. 164 alla legge 24/12/2012, n. 243 si è quasi completamente definito il meccani-smo per il concorso degli enti locali al raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica. Quanto previsto dalla legge n. 164/2016 ha final-mente messo un punto fermo sulle modalità di calcolo del nuovo saldo di finanza pubblica per il pareggio di bilancio, definendo anche l’inseri-mento del fondo pluriennale vincolato.

Normativa di riferimentoPer l’approfondimento delle tematiche attinenti al nuovo saldo di competenza che ha sostituito il patto di stabilità interno come meccanismo per il concorso degli enti locali al raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica1, si devono considerare la seguente normativa e prassi:

· art. 1, commi 710, 711 e 712, della legge 28/12/2015, n. 208 (legge di stabilità 2016);· artt. 9 e 10 della legge 24/12/2012, n. 243;

(1) Per un confronto tra il saldo di finanza pubblica per il pareggio di bilancio e il patto di stabilità interno si veda sul n. 2 (mar-zo-aprile) 2016 de “la Finanza locale” l’articolo di Marcello Quecchia “Confronto tra il nuovo saldo per il pareggio di bilancio (SPB) e il patto di stabilità interno (PSI)”.

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Finanza / Pareggio di bilancio Comuni d’Italia / 10/2016

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· legge 12/8/2016, n. 164, di modifica della legge 24/12/2012, n. 243;· art. 162 del decreto legislativo 18/08/2000, n. 267 (TUEL);· decreto del Ministero dell’economia e delle finanze del 30/3/2016;· decreto del Ministero dell’economia e delle finanze del 20/6/2016 (protocollo n.

53279);· circolare della Ragioneria generale dello Stato n. 5 del 10/2/2016.

Il nuovo equilibrio di bilancio dopo la legge 12.8.2016, n. 164 di modifica della legge 24.2.2012, n. 243

La legge n. 164/2016, che ha modificato la legge n. 243/2012, ha eliminato i diversi equi-libri, da garantire sia in fase di previsione che in fase di rendicontazione, che il testo ori-ginario della legge n. 243/2012 aveva introdotto.

Il testo originario della legge n. 243/2012 aveva infatti disposto che il bilancio degli enti locali dovesse ritenersi in equilibrio quando il bilancio stesso garantisse otto diversi pa-rametri specifici:

1) un saldo non negativo tra le entrate finali e le spese finali in termini di competenza in sede di previsione;

2) un saldo non negativo tra le entrate finali e le spese finali in termini di cassa in sede di previsione;

3) un saldo non negativo tra le entrate correnti e le spese correnti, incluse le quote di capitale di ammortamento dei prestiti, in termini di competenza in sede di previsio-ne;

4) un saldo non negativo tra le entrate correnti e le spese correnti, incluse le quote di capitale di ammortamento dei prestiti, in termini di cassa in sede di previsione;

5) un saldo non negativo tra le entrate finali e le spese finali in termini di competenza in sede di rendicontazione;

6) un saldo non negativo tra le entrate finali e le spese finali in termini di cassa in sede di rendicontazione;

7) un saldo non negativo tra le entrate correnti e le spese correnti, incluse le quote di capitale di ammortamento dei prestiti, in termini di competenza in sede di rendicon-tazione;

8) un saldo non negativo tra le entrate correnti e le spese correnti, incluse le quote di capitale di ammortamento dei prestiti, in termini di cassa in sede di rendicontazione.

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Come anticipato, l’art. 1 della legge n. 164/2016, modificando l’art. 9 della legge n. 243/2012, ha uniformato il concetto di equilibrio di bilancio con il nuovo saldo di finanza pubblica indicato dai commi 710, 711 e 712 dell’art. 1 della legge n. 208/2015. Dopo le modifiche introdotte dalla legge n. 164/2016 gli enti locali devono conseguire (il legislato-re ha sostituito il termine “registrano” con la locuzione “conseguono”) due soli equilibri:

1) un saldo non negativo tra le entrate finali e le spese finali in termini di competenza in sede di previsione;

2) un saldo non negativo tra le entrate finali e le spese finali in termini di competenza in sede di rendicontazione.

L’art. 1 della legge n. 164/2016, confermando quanto indicato dal d.lgs. n. 118/20112 e quanto disposto dal comma 711 dell’art. 1 della legge n. 208/2015, ha precisato, intro-ducendo il comma 1-bis all’art. 9 della legge n. 243/2012, quali siano le entrate finali e le spese finali:

- le entrate finali sono quelle di cui ai primi cinque titoli dell’entrata:- titolo 1: entrate correnti di natura tributaria, contributiva e perequativa (E.Titolo 1);- titolo 2: trasferimenti correnti (E.Titolo 2);- titolo 3: entrate extratributarie (E.Titolo 3);- titolo 4: entrate in conto capitale (E.Titolo 4);- titolo 5: entrate da riduzione di attività finanziarie (E.Titolo 5).- le spese finali sono quelle di cui ai primi tre titoli della spesa:- titolo 1: spese correnti (U.Titolo 1);- titolo 2: spese in conto capitale (U.Titolo 2);- titolo 3: spese per incremento di attività finanziarie (U.Titolo 3).Sia per quanto attiene alle entrate finali, che per quanto inerisce alle spese finali, si deve tener conto esclusivamente degli stanziamenti e degli accertamenti/impe-gni di competenza, non rilevando le riscossioni e i pagamenti.Per la corretta considerazione degli stanziamenti e degli accertamenti/impegni di com-petenza, si deve sempre tenere presente quanto disposto dal principio contabile gene-rale n. 16 (principio della competenza finanziaria) e dal paragrafo § 2 dell’allegato n. 4/2 al d.lgs. n. 118/2011 (principio contabile applicato concernente la contabilità finanziaria): tutte le obbligazioni giuridicamente perfezionate attive e passive, che danno luogo a entrate e spese per l’ente, devono essere registrate nelle scritture contabili quando l’ob-bligazione risulti perfezionata, con imputazione all’esercizio in cui l’obbligazione viene a scadenza – la scadenza dell’obbligazione è il momento in cui l’obbligazione stessa di-venta esigibile.

(2) Si veda il quadro generale riassuntivo di cui all’allegato n. 9 al d.lgs. n. 118/2011.

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Si sottolinea inoltre come agli equilibri indicati dall’art. 1 della legge n. 164/2016 si debba tuttavia aggiungere anche quanto indicato dall’art. 162, comma 6, del d.lgs. n. 267/2000 (TUEL), modificato dal d.lgs. n. 126/2014 e integrato dal d.lgs. n. 118/2011. Le previsioni di competenza relative alle spese correnti (U.Titolo 1), compreso il fondo plu-riennale vincolato di spesa corrente (U.FPV corrente), sommate alle previsioni di com-petenza relative ai trasferimenti in conto capitale (U.Titolo 2, macroaggr. 04), al saldo negativo delle partite finanziarie [(E.Titolo 5 – U.Titolo 3), se < 0], e alle quote di capitale delle rate di ammortamento dei mutui e degli altri prestiti (U.Titolo 4), con l’esclusione dei rimborsi anticipati, non possono essere complessivamente superiori alle previsioni di competenza dei primi tre titoli dell’entrata (E.Titolo 1 + E.Titolo 2 + E.Titolo 3), al fondo pluriennale vincolato di entrata per le spese correnti (E.FPV corrente), ai contributi desti-nati al rimborso dei prestiti (E.Titolo 4, tipologia 200, categoria 6) e non possono avere altra forma di finanziamento:

Equilibrio di parte corrente art. 162, comma 6, TUEL

U.Titolo 11 + U.Titolo 2, macroaggr. 04 + [(E.Titolo 5 — U.Titolo 3), se < 02] + U.Titolo 43 ≤

E.Titolo 1 + E.Titolo 2 + E.Titolo 3 + E.FPV corren-te + (E.Titolo 4, tipologia 200, categoria 6)

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Nel caso in cui non si tenesse in considerazione l’art. 162, comma 6, del TUEL, ma soltanto quanto indicato dal nuovo art. 9 della legge n. 243/2012 e quanto disposto dall’art. 1, commi 710, 711 e 712, della legge n. 208/2015, si rischierebbe di finanziare una parte di spese correnti dell’anno con entrate in conto capitale dello stesso anno (dato che le entrate e le spese finali includono sia partite correnti che investimenti), vio-lando il principio ragionieristico secondo il quale le spese ripetitive devono essere finan-ziate da entrate ripetitive.

Non si deve poi dimenticare che l’art. 162, comma 6, del d.lgs. n. 267/2000 prescrive che venga altresì garantito un fondo di cassa finale non negativo.

(3) Compreso il fondo pluriennale vincolato di spesa corrente (U.FPV corrente).

(4) Se il titolo 5 dell’entrata (alienazione di partecipazioni e di titoli e la riscossione di crediti) è maggiore del titolo 3 della spesa (acquisizione di partecipazioni e di titoli e la concessione di crediti), tale saldo positivo delle partite finanziarie finanzia il rimbor-so anticipato di mutui e prestiti, ovvero gli investimenti [paragrafo 9.10 del principio contabile applicato concernente la program-mazione di bilancio (allegato n. 4/1 al d.lgs. n. 118/2011)] (nel caso di finanziamento degli investimenti da parte del saldo positivo delle partite finanziarie, si genera dunque necessariamente un avanzo di parte corrente).

(5) Nel calcolo, il titolo 4 della spesa va inserito al netto dei rimborsi anticipati di mutui e prestiti.

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Il trattamento del fondo pluriennale vincolato tra le entrate e le spese finali dopo la legge n. 164/2016L’introduzione del fondo pluriennale vincolato (FPV) nel calcolo del pareggio di bilancio e nel nuovo saldo previsto dalla legge di stabilità 2016 per il concorso degli enti locali agli obiettivi di finanza pubblica rappresenta una delle novità più importanti introdotte dalla legge n. 164/2016.

La legge n. 164/2016, modificando la legge n. 243/2012, chiarisce come debbano esse-re considerati il fondo pluriennale vincolato di spesa e il fondo pluriennale vincolato di entrata, distinguendo tuttavia il loro trattamento in due distinti periodi:

· dal 2017 al 2019;· dal 2020 in poi.Il comma 1-bis dell’art. 9 della legge n. 243/2012, come inserito dall’art. 1, comma 1, let-tera b), della legge n. 164/2016, prevede che:

- per il triennio 2017/2019 l’introduzione del fondo pluriennale vincolato di spesa (tra le spese finali) e del fondo pluriennale vincolato di entrata (tra le entrate finali) sia defi-nita dalla legge di bilancio6 compatibilmente con gli obiettivi di finanza pubblica;

- a decorrere dal 2020 tra le spese finali è incluso il FPV di spesa, mentre tra le entrate finali è incluso il FPV di entrata.

Dunque per il triennio 2017/2019 è necessario valutare quanto sarà inserito da parte del legislatore nelle relative leggi di bilancio, rilevando altresì come il nuovo comma 1-bis dell’art. 9 della legge n. 243/2012 preveda che il FPV di entrata e il FPV di spesa sia di-sciplinato dalla legge di bilancio “su base triennale”, dovendo dunque garantire agli enti locali una adeguata capacità programmatoria per un orizzonte temporale di tre anni.

Una domanda: tutto il fondo pluriennale vincolato di spesa potrà essere inserito tra le spese finali dal 2020?

L’ultimo periodo del nuovo comma 1-bis dell’art. 9 della legge n. 243/2012 prevede che dal 2020 il fondo pluriennale vincolato sarà incluso tra le entrate finali e tra le spese finali solamente se finanziato dalle entrate finali.In considerazione del fatto che, come analizzato sopra, le entrate finali sono date dai primi cinque titoli delle entrate, il fondo pluriennale vincolato generato dall’appli-cazione dell’avanzo di amministrazione, ovvero dall’accensione di mutui (titolo 6 dell’entrata), non rileverà tra le entrate e le spese finali nemmeno dal 2020!

(6) La legge di bilancio ha sostituito la legge di stabilità, come previsto dall’art. 2 della legge 4.8.2016, n. 163, modificando la legge 31.12.2009, n. 196.

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Il FPV finanziato da entrate finali, a regime, consentirà una migliore programmazione degli investimenti con cronoprogramma pluriennali: se correttamente costituito, il FPV costituirà una entrata finale che consentirà di finanziare interventi che saranno ultimati negli anni successivi all’accertamento dell’entrata finale originaria.

A tale fine, si deve sempre tenere in considerazione che, come indicato dal paragrafo 5.4 del principio contabile applicato concernente la contabilità finanziaria (allegato n. 4/2 al d.lgs. n. 118/2011), possono essere finanziate dal fondo pluriennale vincolato:

A) tutte le voci di un quadro economico di una spesa di investimento (lavori pubblici) sulla base di un progetto approvato: la costituzione del FPV è consentita in presenza di impegni assunti sulla base di obbligazioni giuridiche perfezionate, imputate se-condo esigibilità, ancorché relative solamente ad alcune voci del quadro economico approvato con il progetto (tuttavia, l’impegno delle sole spese di progettazione non consente la costituzione del FPV per le spese contenute nel quadro economico pro-gettuale);

B) le spese di investimento (lavori pubblici) riferite a procedure di affidamento attivate ai sensi dell’art. 53, comma 2, del d.lgs. n. 163/20067, unitamente alle voci di spesa con-tenute nel quadro economico dell’opera, ancorché non impegnate (per procedure attivate si intende: i) pubblicazione del bando di gara entro l’esercizio; ovvero ii) tra-smissione entro l’esercizio degli inviti a partecipare alla gara; ovvero iii) affidamento diretto entro l’esercizio.

È necessario prestare attenzione che, sia per la fattispecie A), che per l’ipotesi B), in caso di assenza di aggiudicazione definitiva entro l’anno successivo, le risorse accertate cui il FPV si riferisce confluiscono nell’avanzo di amministrazione vincolato per la ripro-grammazione della spesa di investimento e il FPV deve essere ridotto di pari importo.

L’applicazione dell’avanzo di amministrazioneL’art. 10, comma 3, della legge n. 243/2012, come sostituito dall’art. 2, comma 1, lettera a), della legge n. 164/2016, prevede che gli investimenti finanziati con l’applicazione dell’a-vanzo di amministrazione siano effettuati sulla base di apposite intese concluse in am-bito regionale che garantiscano, per l’anno di riferimento, il rispetto del saldo di finanza pub-blica del complesso degli enti locali della Regione interessata, compresa la Regione stessa.

Nel caso in cui gli investimenti finanziati con l’applicazione dell’avanzo di amministrazio-ne non rientrino nelle apposite intese regionali, tali investimenti possono essere effet-tuati sulla base dei patti di solidarietà nazionali8.

(7) In considerazione dell’introduzione del nuovo codice dei contratti, il riferimento all’art. 53, comma 2, del d.lgs. n. 163/2006 deve adesso intendersi all’art. 59 del d.lgs. n. 50/2016.

(8) Art. 1, comma 732, della legge n. 208/2015 (patto di solidarietà nazionale orizzontale).

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Operazioni di indebitamentoCome per gli investimenti finanziati con l’applicazione dell’avanzo di amministrazione, l’art. 10, comma 3, della legge n. 243/2012, come sostituito dall’art. 2, comma 1, lettera a), della legge n. 164/2016, prevede che anche le operazioni di indebitamento siano effettuati sulla base di apposite intese concluse in ambito regionale che garantisca-no, per l’anno di riferimento, il rispetto del saldo di finanza pubblica del complesso degli enti locali della Regione interessata, compresa la Regione stessa.

Nel caso in cui le operazioni di indebitamento non rientrino nelle apposite intese regionali, tali investimenti possono essere effettuati sulla base dei patti di solidarietà nazionali9.

Si deve altresì sottolineare come l’art. 2, comma 1, lettera a), della legge n. 164/2016, sostituendo il comma 3 dell’art. 10 della legge n. 243/2012, non ha riproposto l’ultimo periodo dell’originario comma 3, laddove veniva previsto che ciascun ente territoriale potesse in ogni caso ricorrere all’indebitamento nel limite delle spese per rimborsi di prestiti risultanti dal proprio bilancio di previsione (titolo 4 della spesa). Dunque, dopo l’entrata in vigore della legge n. 164/2016 (vale a dire dal 13/09/2016), gli enti locali non potranno più indebitarsi al di fuori delle apposite intese concluse in ambito regionale.

Il fondo crediti di dubbia esigibilità (FCDE)Il fondo crediti di dubbia esigibilità è previsto dall’art. 167 del d.lgs. n. 267/2000 ed è disciplinato dal paragrafo (§) 3.3 e dall’esempio n. 5 dell’appendice del principio conta-bile applicato concernente la contabilità finanziaria (allegato n. 4/2 al d.lgs. n. 118/2011). Il FCDE ha la funzione di “sterilizzare” una quota dei crediti a bilancio, in ragione della specifica capacità di riscossione storica dei crediti stessi.

Lo stanziamento annuo al FCDE previsto nel bilancio di previsione finanziario, per espres-sa indicazione recata dall’art. 1, comma 712, della legge n. 208/2015, deve essere sottratto alle spese finali per il calcolo del saldo di finanza pubblica per il pareggio di bilancio.

Il FCDE è imputato alla missione 20, programma 02, della spesa.

I fondi rischi e spese futureIl comma 712 dell’art. 1 della legge n. 208/2015, oltre a disporre la sottrazione dell’FC-DE dalle spese finali per il saldo di finanza pubblica, prevede tale sottrazione anche per quanto attiene agli stanziamenti relativi ai fondi rischi e spese future (missione 20, pro-gramma 03, della spesa).

I fondi rischi e spese future sono previsti dall’art. 167, comma 3, del TUEL.

(9) Si veda la nota 8.

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Il fondo di riservaCome indicato dal paragrafo B.3 della circolare della Ragioneria generale dello Stato n. 5/2016, il fondo di riserva non deve essere sottratto alle spese finali utili per il saldo di finanza pubblica per il pareggio di bilancio. Infatti, il fondo di riserva non è citato dal comma 712 dell’art. 1 della legge n. 208/2015.

Detrarre fin dalla elaborazione del bilancio di previsione finanziario il fondo di riserva dalle spese finali rilevanti ai fini del saldo per il pareggio di bilancio, significherebbe dare per scontato che il fondo di riserva non sarà sicuramente utilizzato nell’esercizio.

D’altra parte, la quota di fondo di riserva non utilizzata durante l’esercizio, quota che non sarà poi impegnata, confluirà nel risultato contabile di amministrazione e, in sede di rendiconto, non rientrerà tra le spese finali impegnate rilevanti ai fini del saldo di finanza pubblica.

Il fondo di riserva, previsto dall’art. 166 del TUEL, è imputato alla missione 20, program-ma 01, della spesa.

Calcolo del saldo di finanza pubblica per il pareggio di bilancioDa quanto detto sopra, il calcolo per il rispetto del saldo di finanza pubblica previ-sto dall’art. 1, commi 710, 711 e 712, della legge n. 208/2015, integrato dalla legge n. 243/2012, come modificata dalla legge n. 164/2016, può essere così riassunto, con l’indi-cazione nella parentesi del segno algebrico:

- (+) accertamenti entrate finali (titolo 1 + titolo 210 + titolo 3 + titolo 4 + titolo 5 dell’entrata, come classificati nel quadro generale riassuntivo di cui all’allegato n. 9 al d.lgs. n. 118/2011 e dall’art. 9, comma 1-bis, della legge n. 243/2012) [gli accertamenti sono relativi esclusivamente alla gestione di competenza];

- (-) impegni spese finali (titolo 1 + titolo 2 + titolo 3 della spesa, come classificati nel quadro generale riassuntivo di cui all’allegato n. 9 al d.lgs. n. 118/2011 e dall’art. 9, comma 1-bis, della legge n. 243/2012) [gli impegni sono relativi esclusivamente alla gestione di competenza];

- (+) accantonamento annuo al fondo crediti di dubbia esigibilità, sia di parte corrente che di parte capitale, per la parte non finanziata con l’avanzo di amministrazione11;

(10) Ai sensi dell’art. 1, comma 20, della legge n. 208/2015, nelle entrate finali non deve essere considerato il cosiddetto “fondo IMU/TASI”, vale a dire il contributo erariale stanziato per mitigare gli effetti negativi sui bilanci comunali conseguenti all’esclusio-ne dall’assoggettamento a IMU dell’abitazione principale, nonché del differente assoggettamento a IMU dei terreni agricoli nei Comuni montani (nel 2016 il contributo previsto a favore dei Comuni assomma a euro 390 milioni complessivi).

(11) Il paragrafo (§) 9.2 del principio contabile applicato concernente la contabilità finanziaria (allegato n. 4/2 al d.lgs. n. 118/2011) prevede che, dopo l’approvazione del rendiconto, «resta salva la possibilità di impiegare l’eventuale quota del risultato di ammi-nistrazione “svincolata”, sulla base della determinazione dell’ammontare definitivo del fondo crediti di dubbia esigibilità rispetto alla consistenza dei residui attivi di fine anno, per finanziare lo stanziamento riguardante il fondo crediti di dubbia esigibilità nel

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- (+) accantonamenti di parte corrente ai fondi spese e rischi futuri;- LIMITATAMENTE AL 2016, (+) fondo pluriennale vincolato di entrata (E.FPV”), non

riveniente dal ricorso all’indebitamento;- LIMITATAMENTE AL 2016, (-) fondo pluriennale vincolato di spesa (U.FPV), non rive-

niente dal ricorso all’indebitamento;- PER IL TRIENNIO 2017/2019, (+) fondo pluriennale vincolato di entrata (E.FPV”), come

disciplinato dalla legge di bilancio;- PER IL TRIENNIO 2017/2019, (-) fondo pluriennale vincolato di spesa (U.FPV), come

disciplinato dalla legge di bilancio;- DAL 2020, (+) fondo pluriennale vincolato di entrata (E.FPV”) finanziato dalle entrate

finali (dunque non finanziato né dall’applicazione dell’avanzo di amministrazione né da indebitamento);

- DAL 2020, (-) fondo pluriennale vincolato di spesa (U.FPV) finanziato dalle entrate fi-nali (dunque non finanziato né dall’applicazione dell’avanzo di amministrazione né da indebitamento).

Si ricorda come il saldo per il pareggio di bilancio sia rispettato quando tale saldo risulti pari o superiore a zero.

Spazi di manovra nella gestione del saldo di finanza pubblica

Da quanto detto sopra discende che vengono liberati degli spazi finanziari a seguito del calcolo del nuovo saldo per il pareggio di bilancio come disposto dall’art. 1, commi 710-711-712, della legge n. 208/2015, nonché in considerazione dell’elenco delle spese finali già indicato dal quadro generale riassuntivo di cui all’allegato n. 9 al d.lgs. n. 118/2011 e dall’art. 9, comma 1-bis, della legge n. 243/2012.

Tali spazi finanziari liberati possono essere utilizzati per l’applicazione dell’avanzo di amministrazione con le modalità indicate dall’art. 187 del d.lgs. n. 267/2000 (TUEL).Gli spazi finanziari che si liberano sono quelli di seguito elencati (tra parentesi è indicato il segno di rilevanza algebrica sugli spazi liberati):

a) (+) spese per il rimborso delle quote di capitale dei prestiti (titolo 4 della spesa) – questi spazi derivano dalla mancata introduzione del titolo 4 della spesa tra le spe-se finali del quadro generale riassuntivo di cui all’allegato n. 9 al d.lgs. n. 118/2011 e dell’art. 9, comma 1-bis, della legge n. 243/2012;

bilancio di previsione dell’esercizio successivo a quello cui il rendiconto si riferisce». Tale facoltà è confermata anche dall’art. 187, comma 2, del TUEL.

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b) (+) fondo crediti di dubbia esigibilità, sia di parte corrente (missione 20, programma 02, titolo 1, macroaggregato 10 della spesa), che di parte capitale (missione 20, pro-gramma 02, titolo 2, macroaggregato 05 della spesa) – questi spazi derivano dalla espressa esclusione indicata dall’art. 1, comma 712, della legge n. 208/2015 di tale spesa dal calcolo delle spese finali;

c) (+) fondi spese e rischi futuri (missione 20, programma 03, titolo 1, macroaggregato 10 della spesa) – questi spazi derivano dalla espressa esclusione indicata dall’art. 1, comma 712, della legge n. 208/2015 di tale spesa dal calcolo delle spese finali.

Si deve ritenere che gli spazi sopra indicati[a), b) e c)] possano essere liberamente utilizzati per l’applicazione dell’avanzo di amministrazione. Ulteriori applicazioni dell’avanzo di amministrazione devono invece essere ricomprese nelle intese re-gionali previste dall’art. 10, comma 3, della legge n. 243/2012.

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Comuni d’Italia / 10/2016 / Il Mensile delle Amministrazioni Pubbliche

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Controversie catastaliTributi locali

Novità sulle controversie catastalidi Luigi Lovecchio

Con il d.lgs. n. 156/2015 è stata data attuazione alla delega in materia di revisione del contenzioso tributario, recata nell’articolo 10, legge n. 23/2014. Uno degli elementi più qualificanti di tale delega è rappresentato dal criterio secondo cui le sentenze dei giudici tributari devono essere do-tate di provvisoria esecutività tanto a favore dell’ente impositore che a fa-vore del contribuente.

PremessaCon il d.lgs. n. 156/2015 è stata data attuazione alla delega in materia di revisione del contenzioso tributario, recata nell’articolo 10, legge n. 23/’14. Uno degli elemen-ti più qualificanti di tale delega è rappresentato dal criterio secondo cui le sentenze dei giudici tributari devono essere dotate di provvisoria esecutività tanto a favore dell’ente impositore che a favore del contribuente. Si è voluto così colmare una la-cuna dell’assetto previgente che vedeva il contribuente in posizione evidentemente svantaggiata di un duplice ordine di situazioni. In primo luogo, per ciò che concerne il diritto al rimborso delle somme versate medio tempore in pendenza di giudizio, risul-tate indebite in forza della pronuncia di primo o di secondo grado dei giudici tributa-ri, la formulazione originaria dell’articolo 68, comma 2, d.lgs. n. 546/1992, disponeva espressamente l’obbligo a provvedere da parte dell’ente impositore entro 90 giorni dalla notifica della sentenza. Tuttavia, nelle ipotesi di inottemperanza a tale precetto di legge, non era chiaro quale strada potesse adire il contribuente al fine di ottene-re in via forzata l’attuazione dei suoi diritti. Ed invero, tanto il rimedio del giudizio di

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Tributi locali / Controversie catastali Comuni d’Italia / 10/2016

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ottemperanza (art. 70, d.lgs. n. 546/1992), quanto quello del procedimento di esecu-zione ordinario, in forza del codice di rito (art. 70, cit., comma 1), presupponevano il passaggio in giudicato della sentenza. Non è un caso che la Corte di Cassazione non avesse trovato di meglio se non suggerire al riguardo la strada dell’istanza di rimborso delle somme indebitamente pagate in pendenza di giudizio, con successiva impugna-zione del silenzio rifiuto1.

Vi era poi l’altra fattispecie rappresentata dalla pronuncia di condanna dell’ente imposi-tore alla restituzione delle somme pagate prima dell’instaurazione del giudizio, segna-tamente nelle liti da rimborso. In questo caso, l’originario art. 69, d.lgs. n. 546/1992, non lasciava spazi a dubbi sorta, disponendo espressamente che l’obbligo della restituzione in capo alla parte pubblica operava solo dopo il passaggio in giudicato della sentenza.

Per superare tale disciplina chiaramente squilibrata a sfavore di uno degli attori del pro-cesso, la riforma è intervenuta per l’appunto in due direzioni: a) da un lato, integrando il dettato dell’articolo 68, comma 2, d.lgs. n. 546/1992, con la previsione espressa che, in caso di inadempienza dell’ente all’obbligo di restituzione delle somme indebitamente pagate medio tempore dal contribuente decorsi 90 giorni dalla notifica della sentenza, quest’ultimo ha la facoltà di attivare il giudizio di ottemperanza, pur in presenza di una sentenza solo provvisoriamente esecutiva; b) dall’altro, riformulando integralmente l’arti-colo 69, d.lgs. n. 546/1992, disponendo che la sentenza di condanna dell’ente imposito-re al rimborso di somme in favore del contribuente, ivi incluse le spese di lite, è anch’es-sa immediatamente esecutiva, di tal che ove la stessa non sia eseguita entro 90 giorni dalla notifica, il contribuente può ugualmente attivare il giudizio di ottemperanza.

Inoltre, per tutelare la parte pubblica dai rischi del successivo recupero delle somme rimborsate, legittimato dal ribaltamento delle sentenze intermedie, a causa ad esem-pio di situazioni di inesigibilità o di irreperibilità del contribuente, il medesimo articolo 69 prescrive che in caso di rimborso di somme superiori a 10.000 euro, con esclusione delle spese di lite, il giudice può subordinare l’esecuzione dello stesso alla prestazione di una garanzia, prestata in conformità allo schema approvato in un futuro decreto delle Finanze. Allo scopo, l’articolo 12, d.lgs. n. 156/2015, ha differito al primo giugno scorso l’efficacia del dettato del novellato articolo 69, d.lgs. n. 546/1992.

Vale evidenziare conclusivamente sul punto come invece la restituzione delle somme versate dal contribuente in pendenza di giudizio non possa mai essere subordinata alla prestazione di una garanzia, di tal che la procedura di cui al sopra ricordato articolo 68, comma 2, d.lgs. n. 546/1992, è già pienamente operativa sin dal primo gennaio 2016.

(1) Rimedio, come è ovvio, del tutto inefficace, rispetto al quale appariva normalmente preferibile attendere la conclusione del procedimento principale e quindi, una volta ottenuta la sentenza definitiva, attivare il giudizio di ottemperanza ordinario

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Le controversie catastaliL’articolo 69 riformulato estende la provvisoria esecutività delle sentenze a quelle aventi ad oggetto gli atti relativi alle operazioni catastali. Nel contempo, si è provveduto ad abroga-re l’articolo 69 bis della legge sul contenzioso tributario. In forza di quest’ultimo articolo, le sentenze riferite a dette tipologie di contenzioso divenivano titoli esecutivi, ai fini della le-gittimazione della annotazione negli atti catastali, solo dopo il loro passaggio in giudicato. Per effetto della novella, invece, le pronunce dei giudici tributari danno immediatamente titolo al soggetto interessato di chiederne l’iscrizione nei registri catastali a cura dell’Agen-zia delle Entrate. Lo scopo, con tutta evidenza, non può che essere quello di consentirne una applicazione anticipata, funzionale all’assolvimento dei tributi, in principal modo, dei tributi comunali2. In questo caso, l’immediata esecutività della pronuncia non richiede una specifica azione di condanna, ma consegue direttamente dalla decisione del giudice, “in funzione costitutiva con efficacia sostanzialmente condannatoria”3.

Allo scopo, il soggetto interessato4, in caso di inerzia del Fisco, dovrà seguire la procedura sopra illustrata, in merito alle sentenze di condanna, consistente nella notifica della senten-za e, dopo l’inutile decorso di 90 giorni, nell’attivazione del giudizio di ottemperanza.

Le implicazioni di tale nuovo assetto legislativo, in punto di applicazione dei tributi co-munali, sono tuttavia piuttosto problematiche. Per comprenderne la portata, occorre ricordare l’orientamento della Suprema Corte in merito all’efficacia delle pronunce sulle liti catastali in materia di Ici, in vigenza della precedente disciplina.

Va in primo luogo evidenziato che, secondo l’orientamento prevalente5, deve ravvisarsi una relazione di pregiudizialità dipendenza tra il rapporto catastale e il rapporto d’impo-sta, avente ad oggetto i tributi comunali6. Ne consegue che l’accertamento giudiziale della rendita catastale, una volta divenuto definitivo, “vincola non solo il contribuente ma anche l’ente impositore tenuto ad applicare l’imposta unicamente sulla base di quella rendita”7.

Ha osservato ancora la Suprema Corte che la rendita determinata dal giudice si consi-dera iscritta in atti ex tunc, sin dal momento della efficacia della rendita impugnata. Ne derivava ulteriormente che il termine decadenziale per proporre l’istanza di rimborso dei tributi indebitamente versati sulla base della rendita annullata decorre dal passaggio in giudicato della sentenza avente ad oggetto il rapporto catastale8.

(2) IMU e TASI

(3) C. Glendi, Commento all’art. 69 del d.lgs. n. 546/1992, in C. Glendi, C. Consolo, A. Contrino, Abuso del diritto e novità sul processo tributario, Milano, 2016, p. 281

(4) Che in questa sede non agisce propriamente in veste di contribuente.

(5) Da ultimo tuttavia messo in discussione, in modo abbastanza deciso, dalla sentenza n. 1704/2016 della Corte di Cassazione

(6) Sotto questo profilo, considerata l’identità delle regole di base, queste considerazioni devono ritenersi senz’altro valide an-che per l’IMU e la TASI.

(7) Cass., n. 22126/2010 e n. 18440/2012.

(8) Cass.. n. 11094/2008.

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Trasponendo queste affermazioni nel contesto della nuova efficacia immediata delle pronunce aventi ad oggetto le vicende catastali, sembra corretto desumerne le seguenti conclusioni:

- una volta ottenuta l’iscrizione in catasto della rendita rideterminata dal giudice9, il contribuente è legittimato ad assolvere i tributi comunali sulla base delle nuove ri-sultanze catastali. Va infatti ricordato che, ai sensi dell’articolo 5, d.lgs. n. 504/1992, richiamato ai fini IMU dall’articolo 13, d.l. n. 201/’11, la base imponibile IMU/TASI si determina sulla base delle rendite risultanti in catasto, al primo gennaio di ciascun anno. A questo riguardo, si ritiene che l’efficacia della statuizione del giudice, in pun-to di decorrenza, non possa che essere ex tunc, anche se si tratta di pronuncia non definitiva, poiché l’unica differenza rispetto al giudicato dovrebbe essere la stabilità degli effetti, non già la maturazione di questi;

- conseguentemente, il contribuente potrebbe anche proporre istanza di rimborso di quanto versato in eccedenza rispetto alla rendita accertata dal giudice, in ragione della sopra delineata retroattività di quest’ultima. Nei riguardi di tale istanza, il comune è a sua volta legittimato a non provvedere al rimborso, eccependo la non definitività della ren-dita iscritta. Il contenzioso che ne dovesse scaturire, dovrebbe essere sospeso, ai sensi del novellato art. 39, d.lgs. n. 546/1992, in attesa della conclusione della lite sulla rendi-ta10. Deve tuttavia ritenersi che l’iscrizione delle rendite provvisoriamente esecutive non determini il decorso dei termini di decadenza della proposizione dell’istanza di rimborso del tributo11, che dovrebbe continuare a ricollegarsi solo alla pronuncia definitiva, in ra-gione della evidente diversità delle situazioni giuridiche a confronto12. Sembra corretto quindi affermare che il contribuente ha la mera facoltà, e non l’onere, di proporre istanza di rimborso, in via di anticipazione degli effetti della lite sulla rendita, giustificata per l’ap-punto dalla provvisoria esecutività delle decisioni dei giudici a lui favorevoli;

- una volta concluso il giudizio, i rapporti d’imposta maturati medio tempore, compresi quelli regolati dalle determinazioni provvisorie del giudice, devono essere oggetto di una “riliquidazione” sulla base della rendita definitivamente stabilita. Ne consegue che, in caso di differenze a debito del contribuente, il comune provvederà a emet-tere atti di accertamento13 contenenti il recupero della sola differenza d’imposta, in analogia con quanto disposto nell’articolo 74, legge n. 342/200014. Non è chiaro se

(9) Che potrebbe anche risolversi nella temporanea eliminazione della nuova rendita e conseguente ripristino di quella prece-dente

(10) Tra le molte, Cass. n. 25678/2008.

(11) Consistenti in cinque anni dal pagamento, ai sensi dell’articolo 1, comma 164, legge n. 296/2000.

(12) È infatti irreversibile il mancato rispetto del termine decadenziale, mentre gli effetti della rendita provvisoriamente iscritta in catasto non possono che essere temporanei, suscettibili di essere ridefiniti alla luce degli esiti conclusivi del giudizio.

(13) Aventi una funzione sostanzialmente liquidatoria, per l’appunto, del conguaglio dovuto.

(14) Ai sensi del comma 3 di tale articolo, “per gli atti che abbiano comportato attribuzione o modificazione della rendita, adot-tati entro il 31 dicembre 1999, non ancora recepiti in atti impositivi dell’amministrazione finanziaria o degli enti locali, i soggetti attivi di imposta provvedono, entro i termini di prescrizione o decadenza previsti dalle norme per i singoli tributi, alla liquidazione

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il termine di decadenza entro cui provvedere a tale recupero decorra dalla data di conclusione del processo sulla rendita, in parallelismo con quanto statuito dalla Cas-sazione in ordine ai termini decadenziali dei rimborsi. Si ritiene che allo scopo sia necessaria una espressa previsione legislativa. In caso di differenze a credito per il contribuente, questi avrà l’onere di presentare una istanza di rimborso, entro i termini decadenziali che decorrono per l’appunto dalla data in cui si è verificato il giudicato.

Ma vi è di più.

L’impugnazione della rendita catastale potrebbe infatti essere proposta dal comune, sempre davanti alle Commissioni Tributarie, come da ultimo chiarito dalle Sezioni Uni-te della Corte di Cassazione15. Non può esservi dubbio sul fatto che anche le sentenze emesse su ricorso del comune siano dotate della medesima provvisoria esecutività, an-che alla luce della lettera della formulazione del nuovo articolo 69. Ne consegue che le considerazioni sopra esposte troveranno applicazione, a parti rovesciate, con l’effetto che, in presenza di sentenza di accoglimento del ricorso:

- l’ente impositore sarà legittimato a richiederne l’annotazione negli atti catastali, acce-dendo, se del caso, al giudizio di ottemperanza;

- ottenutane l’iscrizione, lo stesso dovrà sollecitarne la notifica agli interessati da parte dell’Agenzia delle Entrate, a sensi e per gli effetti dell’articolo 74, legge n. 342/2000, eventualmente ponendo in essere un’attività sostitutiva, attraverso la notifica di un atto di accertamento di sola imposta, fondato sull’applicazione della rendita determinata dal giudice;

- medio tempore, il comune avrà titolo di pretendere il versamento dei tributi sul-la base della rendita iscritta, in forza delle regole generali delle imposte comunali e salvo conguaglio da effettuarsi in funzione della misura accertata in via definitiva dall’Organo giudiziario.

Non è ovviamente questa la sede per affrontare tutte le implicazioni derivanti dalle mo-difiche in commento, nella materia delle imposte locali, anche se è indubbio che si tratta di situazioni di complessa gestione, rispetto alle quali è lecito chiedersi se davvero l’anti-cipazione degli effetti delle controversie sulle rendite catastali sia preferibile ai fini della migliore tutela degli interessi in gioco.

Il minimo che possa osservarsi è che occorre accompagnare la novella processuale con una adeguata disciplina procedurale da inserirsi nel corpo della normativa di riferimento dei singoli tributi.

o all’accertamento dell’eventuale imposta dovuta sulla base della rendita catastale attribuita”. Per quanto si tratti di disposizione specificamente riferita agli atti adottati entro il 31 dicembre 1999, la stessa ben può ritenersi espressione del principio di caratte-re generale, a mente del quale ogni qualvolta vi è una attribuzione di rendita con effetti retroattivi non previamente notificata al contribuente, la retroattività non comporta l’irrogazione di sanzioni”.

(15) Cass. n. 15201/2015.

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La disciplina intertemporaleCome si è già anticipato, le modifiche in tema di esecutività delle sentenze di condanna dell’Amministrazione sono efficaci solo a partire dal primo giugno 2016. Tanto, nel presup-posto che entro tale data sia stato emanato il decreto delle Finanze in ordine al contenuto della garanzia cui l’esecuzione della sentenza può essere subordinata. Va peraltro segnalato come, ai sensi dell’articolo 12, comma 2, d.lgs. n. 156/2015, l’applicazione del nuovo artico-lo 69 sembri comunque sospesa, in attesa dell’adozione del decreto suddetto, anche nell’i-potesi in cui16 il termine del primo giugno 2016 dovesse decorrere inutilmente. Si è dunque creata una situazione, per vero piuttosto singolare17, in forza della quale l’attuazione di di-sposizioni poste a presidio dei diritti del contribuente viene a dipendere dalla buona volon-tà del Ministero delle Finanze, che nel processo è la controparte del contribuente. Ne con-segue pertanto che sino alla pubblicazione del predetto decreto, le sentenze di condanna al rimborso di somme versate ante causam possono essere eseguite solo dopo il passag-gio in giudicato delle stesse. La medesima regola vale per le spese di giudizio liquidate in favore del contribuente. Stante la lettera della previsione legislativa in esame, non sembra peraltro consentito ipotizzare una disciplina della esecutività a doppio binario, ovverosia già vigente per le controversie di valore non superiore a 10.000 euro nonché per la parte riferita alla refusione delle spese di giudizio, per le quali l’obbligo di garanzia non sussiste mai, e invece a efficacia differita per le altre tipologie di liti. A stretto rigore, infatti, la ma-teria della esecutività delle sentenze di condanna degli Uffici fiscali sembra rappresentare un blocco unico, destinato a essere attuato in via unitaria. Non si può però escludere che, laddove l’emanazione del decreto tardi di molto, la giurisprudenza sia indotta ad adottare interpretazioni “forzanti” del testo di legge, ad esempio, nel senso qui sopra ipotizzato18.

Occorre tuttavia stabilire a quale atto o provvedimento del processo ricollegare l’operati-vità del nuovo articolo 69. Cioè, detto in altri termini, quali sentenze di condanna, a partire dalla data di pubblicazione del suddetto decreto, siano dotate della provvisoria esecuti-vità. In proposito, si sono affacciate due tesi. Secondo la prima, coerente con il principio dell’entrata in vigore immediata di tutte le disposizioni processuali, l’esecutività dovrebbe valere anche per le sentenze depositate in precedenza, non ancora eseguite. Secondo l’o-pinione dell’Agenzia delle Entrate19, invece, le modifiche dovrebbero trovare applicazione solo a decorrere dalle sentenze depositate dopo il primo giugno di quest’anno. Quest’ulti-ma sembra la tesi preferibile, atteso che la ratio del differimento dell’efficacia delle nuove disposizioni sulle sentenze di condanna è quella di consentire al giudice di prevedere nel dispositivo la condizione della prestazione della garanzia e ciò può avvenire solo se, al mo-mento della adozione della pronuncia, il decreto è stato pubblicato.

(16) Puntualmente verificatasi.

(17) Per usare un eufemismo.

(18) In questo senso, da ultimo, si veda CTP Venezia, n. 313/13/2016 del 20 giugno scorso.

(19) Circolare n. 38 del 2015.

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Non è chiaro inoltre come impatta la disciplina transitoria sulle nuove regole in ordine alla efficacia delle pronunce sulle liti catastali. Il suddetto articolo 12 del decreto attuati-vo di riforma rinvia esplicitamente l’abolizione dell’articolo 69 bis, d.lgs. n. 546/1992, che come detto prevede l’iscrivibilità in catasto delle sole rendite risultanti da sentenze pas-sate in giudicato, al primo giugno 2016, ma non ne lega le sorti alla data di adozione del provvedimento delle Finanze sulle garanzie. Ne deriva che, a partire da tale data, l’arti-colo 69-bis suddetto deve ritenersi senz’altro soppresso. Non dovrebbe invece ritenersi ostativa alla immediata eseguibilità delle pronunce in esame la circostanza che l’entrata in vigore del nuovo articolo 69 sia ulteriormente differita nel tempo, in dipendenza del ritardo della pubblicazione del decreto ridetto, poiché quest’ultimo articolo, nella for-mulazione originaria20, riguarda solo le sentenze di condanna in favore del contribuente, mentre qui si controverte di decisioni che accertano o annullano una rendita catastale, senza dimenticare che, come sopra evidenziato, nella fattispecie in esame il ricorrente potrebbe anche essere il comune.

La considerazione che precede risulterebbe altresì giustificata dal fatto che le liti cata-stali non hanno alcuna correlazione con il decreto delle Finanze, poiché le relative deci-sioni non possono essere subordinate alla prestazione di garanzie.

Ecco quindi che, a legislazione vigente, la situazione che si verifica con riferimento alle controversie catastali vede, nel contempo, l’eliminazione della norma che rinviava al giu-dicato gli effetti della rendita determinata dal giudice, e l’entrata in vigore dell’articolo 67 bis, d.lgs. n. 546/1992, che, interpretato in conformità ai precetti della legge delega, dovrebbe comportare una naturale esecutività provvisoria delle sentenze dei giudici tributari, salvo che la norma non preveda espressamente in modo diverso. Senonchè, anche assumendo la correttezza delle conclusioni che precedono, difetterebbe comun-que lo strumento per ottenere in via coattiva l’esecuzione delle sentenze in esame, atte-so che il giudizio di ottemperanza, ai sensi del novellato articolo 70, d.lgs. n. 546/1992, presuppone sempre il passaggio in giudicato della sentenza, salve le eccezioni di cui all’articolo 68, comma 2, e all’articolo 69, nuova versione. La provvisoria esecutività delle pronunce in materia catastale è infatti assicurata solo da quest’ultima previsione legisla-tiva, per il tramite appunto del giudizio di ottemperanza.

La conclusione che pare più attendibile è dunque quella secondo cui anche le pronunce dei giudici aventi ad oggetto gli atti catastali diventano immediatamente esecutive, solo con l’entrata in vigore del novellato articolo 69.

(20) Che rimane efficace in virtù del diritto intertemporale.

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Comuni d’Italia / 10/2016 / Il Mensile delle Amministrazioni Pubbliche

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WhistleblowerPersonale

L’istituto del whistleblower: bilancio in chiaro scuro di uno strumento ancora da valorizzaredi Paolo Canaparo

A distanza di più di tre anni dall’adozione della norma che tutela il dipendente pubblico che segnala illeciti, l’ANAC ha realizzato il primo monitoraggio sullo stato dell’arte del whistleblowing in Italia (dal titolo “Segnalazione di illeciti e tutela del dipendente pub-blico: l’Italia investe nel whistleblowing, importante strumento di prevenzione della cor-ruzione”) per conoscere il suo stato di applicazione ed apprezzare quanto l’istituto sia effettivamente avvertito come misura di prevenzione della corruzione. Il monitoraggio è stato effettuato sulla base sia delle segnalazioni giunte all’Autorità al 31 maggio 2016, sia di quelle ricevute da un campione significativo di 34 pubbliche amministrazioni e 6 società partecipate, al fine di individuare alcune caratteristiche del segnalante italiano, la tipologia di condotte illecite denunciate e gli esiti dalle stesse scaturiti.

Il paper è estremamente interessante perché evidenzia le carenze mostrate dall’istitu-to e le conseguenti esigenze di riforma, affrontando il delicato tema del rapporto tra il whistleblower e il Responsabile per la prevenzione della corruzione (RPC) e segnalando l’importanza che la gestione delle segnalazioni assuma per la più efficace azione di pre-venzione amministrativa degli episodi di corruttela.

La Convenzione civile sulla corruzione del 1999, ratificata con legge n. 112/2012, e la Convenzione Onu del 2003, ratificata con legge n. 116/2009, dispongono affinchè gli Stati aderenti si impegnino ad adottare misure di protezione a favore di chi, in buona fede e sulla base di ragionevoli sospetti, denunci casi di illegalità. Raccomandazioni di contenuto analogo provengono dal Working group on bribery, incaricato del monito-raggio sull’attuazione della convenzione Ocse sulla lotta alla corruzione degli impie-gati pubblici nelle operazioni economiche internazionali (1997, ratificata con legge n.

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Personale / Whistleblower Comuni d’Italia / 10/2016

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300/2000); dal Groupe d’Etats contre la corruption, istituito dal Consiglio d’Europa per controllare l’adeguamento degli stati alle misure anti-corruzione previste in sede UE; nonché dal G-20 Anti-corruption working group, costituito in ambito Ocse, che ha pre-disposto i Guiding principles for whistleblower protection legislation.

Nell’ordinamento giuridico nazionale, il whistleblowing è stato introdotto solo di recente, con la legge n. 190/2012, il cui articolo 1, comma 51, ha inserito l’art. 54-bis nel corpo del Testo Unico del Pubblico Impiego (TUPI), tutelando dal licenziamento e da ritor-sioni il dipendente pubblico che segnali illeciti di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro. La norma recepisce le prescrizioni delle convenzioni solo parzial-mente e, per molti versi, in maniera inefficace, come evidenziato dagli stessi organismi internazionali: considera esclusivamente l’ambito pubblico, ignorando quello privato; salvaguarda il denunciante in modo insufficiente; ha carattere “piuttosto generico e non esaustivo”, specie per ciò che riguarda i canali di segnalazione ed i dispositivi di prote-zione.

Nel suo paper, l’ANAC ha evidenziato lo spirito che ha animato il legislatore naziona-le del 2012, il quale, attingendo, in particolare, dall’esperienza anglosassone, ha inteso introdurre anche in Italia un “nuovo modo” di essere dipendente pubblico, che, con le sue segnalazioni, può richiamare l’attenzione di autorità interne o esterne su condotte di illegalità, riconducibili ad una qualificazione lata di corruzione, e cioè le varie si-tuazioni in cui, nel corso dell’attività amministrativa, si riscontri l’abuso da parte di un soggetto del potere a lui affidato al fine di ottenere vantaggi privati. Il fine precipuo è di riportare le procedure amministrative ed i comportamenti dei dipendenti pubblici sui “binari della legalità”, in un’ottica di prevenzione della corruzione. In particolare, il detto istituto consente – se sostenuto dalla “cultura dell’ente” improntata a traspa-renza e integrità – di far emergere situazioni di disfunzione, di irregolarità e, infine, di illegalità che nuocciono all’efficacia dell’azione amministrativa e che rischiano di trasci-nare l’amministrazione di fronte al giudice penale e, peggio ancora, di essere oggetto nella sua globalità – magari per il comportamento di uno o di pochi – di discredito an-che molto pesante. Dà corpo a quella riforma copernicana nei rapporti fra PA e cittadino avviata con la legge n. 190/2012: il controllo diffuso del cittadino, anche nella veste di dipendente dell’amministrazione, sull’operato pubblico.

La disciplina del whistleblowingTale misura di prevenzione della corruzione ha trovato posto nel Piano Nazionale An-ticorruzione che ha richiamato le pubbliche amministrazioni ad adottare i necessari accorgimenti tecnici per garantire la tutela dei dipendenti che segnalano condotte il-lecite con l’introduzione di obblighi di riservatezza nel Piano triennale di prevenzione della corruzione (P.T.P.C.). A completamento della disciplina nazionale in materia di whistleblowing, le Linee guida adottate dall’ANAC, assunte con la determinazione

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n. 6 del 28 aprile 2015, hanno, peraltro, inteso, da una parte, delineare l’ambito sog-gettivo e oggettivo di applicazione dell’articolo 54-bis e, dall’altra, fornire indicazioni in ordine alle misure che le pubbliche amministrazioni devono approntare per tutelare la riservatezza dell’identità dei detti dipendenti; nonché, dare conto delle procedure svi-luppate da ANAC, per la tutela della riservatezza dell’identità sia dei propri dipendenti che segnalano condotte illecite che di quelli delle altre amministrazioni che trasmetta-no all’Autorità una segnalazione. Deve, peraltro, ricordarsi che, nel nostro ordinamento, segnalare condotte illecite, quindi, avere un comportamento collaborativo, rientra tra gli obblighi di condotta previsti nel Codice di comportamento dei pubblici dipendenti (d.P.R. 62/2013), che espressamente impone, infatti, al dipendente di segnalare al proprio superiore gerarchico eventuali situazioni di illecito nell’amministrazione di cui sia venuto a conoscenza.

Le difficoltà attuativeCertamente l’istituto è nuovo ed estraneo alla nostra cultura: talmente estraneo che nel vocabolario della lingua italiana non vi è al momento nemmeno una parola per dare un nome a al dipendente che segnala condotte illecite. Rimane il fatto che, evidenzia l’ANAC, le aspettative del legislatore del 2012 sono andate deluse: nei primi anni di ap-plicazione della normativa primaria, si sono registrate molteplici carenze nella disciplina e diversi aspetti di criticità che hanno inciso sul marginale utilizzo e/o sul mal funziona-mento di questo fondamentale strumento di prevenzione. Tra quest’ultimi, le interferen-ze dei vertici dell’amministrazione e dell’organo di indirizzo politico e la diffusa resisten-za culturale nei confronti del whistleblower, tanto evidente da rendere ancora difficile trovare un termine italiano che non abbia l’accezione negativa di delatore o spia. A tutt’oggi, la segnalazione, all’interno delle amministrazioni pubbliche, più che strumen-to di prevenzione del rischio, viene ancora percepita come un “elemento di rischio” da una fetta di dipendenti pubblici e le condotte illecite e la mala gestio vengono ritenute non come una “deviazione” ma, come una “forma connaturale” della condotta ammini-strativa.

La vigente disciplina ha ricevuto da parte delle amministrazioni una applicazione che, a distanza di più tre anni dalla legge, può oggettivamente ritenersi – secondo l’ANAC – poco soddisfacente: da una parte, deve considerarsi che quasi tutte le amministrazioni hanno adottato una procedura informatica con annesso indirizzo mail per ricevere le segnalazioni; dall’altra parte, deve considerarsi che poca attenzione hanno posto alla possibilità di affiancare questa misura con percorsi di formazione in grado di avviare un cambiamento culturale capace di modificare la percezione diffusa che “soffiare nel fi-schietto” sia un comportamento affine alla delazione.

L’ANAC sostiene come, complessivamente, i pubblici dipendenti continuino a non avver-tire il suo utilizzo come strumento di prevenzione della corruzione, non vogliono creare

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problemi ai colleghi che potrebbero essere coinvolti in affari illeciti, sono diffidenti sulla possibilità che il sistema possa garantire loro veramente una tutela.

Gli interventi di riforma dell’istitutoCon ciò – rileva l’ANAC – il whistleblower deve affrontare, oltre al discredito interno, anche misure di discriminazione inflitte dai superiori, senza che ci siano idonei canali di informazione dell’autorità che deve verificare la legalità e la regolarità dei procedimenti disciplinari che ne derivano. Occorre anche tener conto della condizione di debolezza (anche psicologica) del dipendente che richiederebbe un trattamento “integrato”, una sua “presa in carico” dal momento in cui egli incomincia a valutare l’opportunità di se-gnalare a quando gli effetti della segnalazione si manifestano, passando per la stessa presentazione della segnalazione. In altri ordinamenti (quello olandese e quello slo-veno, per esempio) vi sono strumenti “di accompagnamento” (privatistici o pubblici-stici) che spiegano al segnalante se si possa segnalare (ovvero se il fatto rientri nell’am-bito di applicazione della norma), come scrivere la segnalazione, come accompagnarla con la opportuna documentazione utile a dare concretezza e consistenza ai fatti che si segnalano, come difendersi da trattamenti di retaliation. Nell’ordinamento italiano tali forme di accompagnamento non esistono ancora.

Sulla base di tali considerazioni, l’ANAC ha richiamato l’esigenza di una riforma dell’isti-tuto, considerato che un importante contributo verso una applicazione più “piena e par-tecipata” potrebbe giungere dagli interventi correttivi dell’art. 54-bis del T.U.P.I. attual-mente in corso di esame in Parlamento. Si tratta, in par ticolare, del disegno di legge A.S. “Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato” (già approvato in prima lettura dalla Camera dei Deputati), con il quale, per le pubbliche amministrazioni, è sancita la segretezza de-gli autori delle segnalazioni, che dovranno pervenire all’ANAC, all’autorità giudiziaria o alla Corte dei conti. Vietata ogni forma di discriminazione verso il segnalante, in caso contrario, la detta Autorità può comminare una sanzione amministrativa pecuniaria. Una analoga sanzione è prevista per il RPC che non inoltri la segnalazione a chi di competen-za Sempre all’ANAC viene affidato il compito di redigere delle linee guida per definire strumenti adatti a garantire la segretezza del segnalante. Per il settore privato si è scelto di intervenire modificando il decreto legislativo n. 231/2001, relativo alla disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, agendo sui Modelli di organiz-zazione e di gestione (i cosiddetti Moc) dell’ente idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi. Attraverso questi strumenti vengono recepiti i principi e gli strumenti pensati per la pubblica amministrazione.

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Personale / Whistleblower Comuni d’Italia / 10/2016

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Il rapporto tra RPC e whistleblowerUna interessante sezione del paper dell’ANAC è stato dedicato al rapporto tra RPC e whistleblower. In tale sezione l’Autorità ha evidenziato come le legge n. 190 del 2012 e il Codice di comportamento abbiano individuato nel superiore gerarchico il soggetto interno all’amministrazione competente a ricevere le segnalazioni del whistleblower. Tale previsione ha creato non poche difficoltà applicative, tenuto conto che spesso le con-dotte illecite e i casi di mala gestio di cui il whistleblower viene a conoscenza riguardano proprio i superiori gerarchici, ponendo un ostacolo operativo al segnalante e l’esigenza di individuare un altro soggetto che, compatibilmente con la funzione, potes-se ricevere la segnalazione. Con l’Orientamento dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (A.N.AC.) n. 40 del 11 giugno 2014, tale soggetto è stato individuato nel RPC, poiché, come precisato nella Determinazione dell’A.N.AC. n. 6 del 28 aprile 2015, “a livello am-ministrativo, il sistema di prevenzione della corruzione disciplinato nella legge 190/2012 fa perno sul RPC a cui è affidato il delicato e importante compito di proporre strumenti e misure per contrastare fenomeni corruttivi”.

La gestione delle segnalazioni del whistleblowerIl RPC in tal modo ha assunto – come ha rilevato l’ANAC – un ruolo centrale nella ge-stione del whistleblowing, che non si esaurisce, peraltro, in una singola azione (l’atto di segnalazione) ma si configura, piuttosto, come un vero e proprio processo, una succes-sione di fasi conseguenti: dalla ricezione e dal trattamento di ciascuna segnalazione fino alla previsione e alla verifica dell’attuazione della misura inserita nel Piano triennale per la prevenzione della corruzione (PTPC). Nella prima fase del processo, il RPC cura la rice-zione, l’analisi della segnalazione e l’avvio del procedimento istruttorio, i cui esiti saranno trasmessi, per i rispettivi profili di competenza, all’Ufficio dei provvedimenti disciplinari, all’ANAC, alla Procura della Repubblica, alla Procura della Corte dei Conti o al Diparti-mento della Funzione Pubblica.

Il presidio di questa parte iniziale del processo di whistleblowing è di fondamentale importanza, poiché consente al RPC di acquisire quell’expertise per cogliere le critici-tà del meccanismo e individuarne le migliori soluzioni, da trasporre come misure nel PTPC. Specularmente, il RPC, proprio perché è il soggetto preposto alla predisposizio-ne e all’aggiornamento del PTPC, che presuppone l’analisi sia del contesto esterno sia del contesto interno dell’amministrazione, dispone di una più ampia base informativa, utile a gestire più efficacemente ciascuna segnalazione: il RPC conosce dove e come intervenire nei rivoli dell’organizzazione. Quest’ultimo è nelle condizioni di andare oltre l’apparenza e di “entrare” nella condotta effettiva della propria amministrazione. Il whi-stleblower possiede informazioni tendenzialmente più “qualificate”, ossia più circostan-ziate, dettagliate e supportate da documentazione probatoria, che permettono al RPC

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Personale / Whistleblower Comuni d’Italia / 10/2016

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di decodificare più facilmente anche quei meccanismi corruttivi più “sofisticati”, che in modo opaco si sono insinuati nella struttura organizzativa e nella prassi comportamen-tale dell’amministrazione pubblica. Sulla base informativa acquisita, il RPC, inoltre, su un piano più generale, trova le leve più efficaci a rafforzare il radicamento e l’operatività dell’istituto.

L’investimento sul RPCL’ANAC evidenzia, come nella fase successiva a quella di prima applicazione della nor-mativa sul whistleblower, e in una prospettiva più moderna e corretta di prevenzione della corruzione, il RPC, sul fronte interno, debba trasformare l’istituto da mero adempi-mento burocratico a preziosa occasione per accrescere il livello di efficienza della azio-ne amministrativa, per radicare un cambio di mentalità e un nuovo approccio a questa misura di prevenzione della corruzione nell’ente di appartenenza (da un “sistema di re-gole” ad un “sistema di valori”). Nel contesto esterno, invece, sottolinea l’ANAC, come il RPC debba diffondere la conoscenza dell’istituto, innanzitutto, per creare una robusta “rete di protezione civile” al whistleblower, capace di dargli il necessario supporto mora-le, psicologico e materiale nel gravoso percorso intrapreso.

Per non far perdere efficacia all’istituto, l’ANAC rileva, infine, come sia di fondamentale importanza dunque che i vertici di ciascuna amministrazione effettuino un forte investi-mento sul RPC, con un orizzonte temporale almeno a medio-termine, superando una gestione emergenziale e meramente burocratica del whistleblowing. Ciò significa ap-prontare una gestione strutturale ed efficace dell’istituto che consenta al detto respon-sabile di disporre di adeguati “strumenti di lavoro”, che possono essere individuati nella piena indipendenza, nell’ampia autonomia e nella continua professionalizzazione, oltre che in una efficiente struttura a supporto, dotata di idonei strumenti informatici e forma-ta da personale (interno) numericamente congruo e professionalmente adeguato.

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Comuni d’Italia / 10/2016 / Il Mensile delle Amministrazioni Pubbliche

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TU partecipate e nuovo Codice

Appalti

Testo unico società partecipate e nuovo Codice dei contratti: disposizioni comuni ed elementi di contattodi Fabio Moretti

Le interrelazioni del Codice dei contratti con l’appena pubblicato decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175 “Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica” si possono riassumere in tre prin-cipali tematiche, vale a dire: le attività ammissibili riguardo alle so-cietà partecipate, il modello gestionale in house e le società a parte-cipazione mista pubblico-privata.

1. PremessaIl 2016 rappresenta un anno di forti transizioni per quanto concerne l’attività legislativa in materia di pubbliche amministrazioni. Non poteva essere diversamente, consideran-do come l’adeguamento del quadro normativo nazionale alle direttive comunitarie n. 2014/23/UE (aggiudicazione dei contratti di concessione) e n. 2014/24/UE (appalti pub-blici) e n. 2014/25/UE (procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali) si sia incrociato con l’approvazione dei decreti attuativi di cui alla legge 7 agosto 2015, n. 124 (Deleghe al Governo in mate-ria di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche, c.d. legge “Madia”). Attraverso

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quest’ultima, in particolare, il Governo è stato delegato ad adottare, entro dodici mesi, alcuni decreti legislativi di semplificazione per i settori delle partecipazioni societarie delle amministrazioni pubbliche e dei servizi pubblici locali di interesse economico ge-nerale.

Prima dell’emanazione dei suddetti decreti ha tuttavia visto la luce il rinnovato Codice dei contratti pubblici, di cui al d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, ciò richiedendo una impegna-tiva e minuziosa azione di coordinamento da parte del legislatore delegato, chiamato a rendere omogenei e coerenti i contenuti di quanto andava declinando in relazione ai settori su cui era chiamato a legiferare con i precetti già affermati in materia di contrat-tualistica pubblica. In questa sede, osserveremo dunque le principali interrelazioni del Codice dei contratti con l’appena pubblicato decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175 (“Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica”, di seguito anche “Testo unico” o “t.u.”).

Il d.lgs. n. 175/2016 fa riferimento al nuovo Codice dei contratti sia attraverso sempli-ci richiami diretti (come, ad es., per la definizione “controllo analogo congiunto” resa dall’art. 2, comma 1, lett. d), che si correla alla nozione di “società in house”), sia per il tramite di più complesse articolazioni di norme tra loro correlate, le quali abbisognano di un più intenso sforzo interpretativo, al fine di consentire l’individuazione di un signifi-cato coerente e finito. Tra queste, esamineremo di seguito, senza pretesa di esaustività, ma nell’ottica di una visione congiunta delle due norme in esame, le tre principali te-matiche che collegano il sistema delle partecipazioni pubbliche al d.lgs. 50/2016, vale a dire: le attività ammissibili riguardo alle società partecipate, il modello gestionale in hou-se e le società a partecipazione mista pubblico-privata.

Le attività per le quali è consentito la costituzione di società partecipate o l’acquisto di società già costituite

L’art. 4 del Testo unico prevede condizioni e limiti per la costituzione di società a parteci-pazione pubblica (anche indirette) ovvero per l’acquisizione o il mantenimento dì singole partecipazioni. Sono due gli aspetti di cui le amministrazioni pubbliche debbono tenere conto:

1. la stretta necessarietà della partecipazione per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali;

2. lo svolgimento di attività rientranti tra quelle espressamente indicate e consentite dal Testo unico.

Sotto il primo aspetto, ritroviamo alla lettera, salvo il richiamo alle finalità generali, quanto già disposto dall’art. 3, comma 27, primo periodo, della legge n. 244/20071. Nella sostan-za, in ordine alla generale definizione degli scopi istituzionali degli enti locali, occorre rifarsi

(1) Oggi abrogato, proprio ad opera dell’art. 28 del d.lgs. 175/2016.

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al combinato disposto degli artt. 3 e 13 del d.lgs. n. 267/20002 (funzioni dei comuni) ed all’art. 14, comma 27 del d.l. n. 78/2010 (funzioni fondamentali dei comuni), come sostituito dall’art. 19 del d.l. n. 95/20123.

Per ciò che concerne il secondo aspetto, il Testo unico si occupa di indicare le attività consentite alle società partecipate dalle amministrazioni pubbliche, a tal fine richiaman-do in più passaggi, sui quali concentreremo l’attenzione, il d.lgs. 50.

Più precisamente, stabilisce l’art. 4, comma 2, del d.lgs. 175 che «Nei limiti di cui al com-ma 1, le amministrazioni pubbliche possono, direttamente o indirettamente, costituire società e acquisire o mantenere partecipazioni in società esclusivamente per lo svolgi-mento delle attività sotto indicate:

a. produzione di un servizio di interesse generale, ivi inclusa la realizzazione e la gestio-ne delle reti e degli impianti funzionali ai servizi medesimi;

b. progettazione e realizzazione di un’opera pubblica sulla base di un accordo di pro-gramma fra amministrazioni pubbliche, ai sensi dell’articolo 193 del decreto legislati-vo n. 50 del 2016;

c. realizzazione e gestione di un’opera pubblica ovvero organizzazione e gestione di un servizio d’interesse generale attraverso un contratto di partenariato di cui all’artico-lo 180 del decreto legislativo n. 50 del 2016, con un imprenditore selezionato con le modalità di cui all’articolo 17, commi 1 e 2;

d. autoproduzione di beni o servizi strumentali all’ente o agli enti pubblici par-

(2) L’articolo 3, comma 5, del d.lgs. n. 267/2000 afferma che «I comuni e le province sono titolari di funzioni proprie e di quelle conferite loro con legge dello Stato e della regione, secondo il principio di sussidiarietà. I comuni e le province svolgono le loro funzioni anche attraverso le attività che possono essere adeguatamente. esercitate dalla autonoma iniziativa dei cittadini e delle loro formazioni sociali.», mentre il primo comma dell’art. 13 così recita: «Spettano al comune tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio comunale, precipuamente nei settori organici dei servizi alla persona e alla comunità, dell’assetto ed utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico, salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri soggetti dalla legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze.».

(3) L’art. 14, comma 27, del d.l. n. 78/2010 dispone che: «27. Ferme restando le funzioni di programmazione e di coordinamento delle regioni, loro spettanti nelle materie di cui all’articolo 117, commi terzo e quarto, della Costituzione, e le funzioni esercitate ai sensi dell’articolo 118 della Costituzione, sono funzioni fondamentali dei comuni, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione: a) organizzazione generale dell’amministrazione, gestione finanziaria e contabile e controllo; b) organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito comunale, ivi compresi i servizi di trasporto pubblico co-munale; c) catasto, ad eccezione delle funzioni mantenute allo Stato dalla normativa vigente; d) la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale; e) attività, in ambito comunale, di pianificazione di protezione civile e di coordinamento dei primi soccorsi; f) l’organizzazione e la gestione dei servizi di raccolta, avvio e smaltimento e recupero dei rifiuti urbani e la riscossione dei relati-vi tributi; g) progettazione e gestione del sistema locale dei servizi sociali ed erogazione delle relative prestazioni ai cittadini, secondo quanto previsto dall’articolo 118, quarto comma, della Costituzione; h) edilizia scolastica per la parte non attribuita alla competenza delle province, organizzazione e gestione dei servizi scolastici; i) polizia municipale e polizia amministrativa locale; l) tenuta dei registri di stato civile e di popolazione e compiti in materia di servizi anagrafici nonché in materia di servizi elettora-li, nell’esercizio delle funzioni di competenza statale; l-bis) i servizi in materia statistica.».

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tecipanti, nel rispetto delle condizioni stabilite dalle direttive europee in materia di contratti pubblici e della relativa disciplina nazionale di recepimento;

e. servizi di committenza, ivi incluse le attività di committenza ausiliarie, apprestati a supporto di enti senza scopo di lucro e di amministrazioni aggiudicatrici di cui all’ar-ticolo 3, comma 1, lettera a), del decreto legislativo n. 50 del 2016».

A tali previsioni generali, si affiancano, poi, ulteriori norme derogatorie che allargano ulteriormente le possibili opzioni delle amministrazioni pubbliche sul tema4.

I diretti riferimenti al Codice dei contratti pubblici sono quindi espressi con riferimento alle attività delineate alle lettere b), c), d) ed e).

Art. 4, comma 2, lett. b)Progettazione e realizzazione di un’opera pubblica sulla base di un accordo di program-ma fra amministrazioni pubbliche, ai sensi dell’articolo 193 del decreto legislativo n. 50 del 2016.

L’attività assentita di cui al comma 2, lett. b) fa riferimento all’istituto della “società pub-blica di progetto”, soggetto senza fine di lucro già presente nell’ordinamento giuridico a partire dall’art. 5-ter, d.lgs. n. 190/2002 (inserito dal d.lgs. n. 189/2005) e, quindi, dall’art. 172 del d.lgs. n. 163/2006. Quest’ultima norma è oggi trasfusa nel nuovo codice dei con-tratti pubblici all’art. 193, richiamato, appunto, dall’art. 4, comma 2, lett. b), del Testo unico

(4) Così prosegue l’art. 4 del Testo unico: “3. Al solo fine di ottimizzare e valorizzare l’utilizzo di beni immobili facenti parte del proprio patrimonio, le amministrazioni pubbliche possono, altresì, anche in deroga al comma 1, acquisire partecipazioni in so-cietà aventi per oggetto sociale esclusivo la valorizzazione del patrimonio delle amministrazioni stesse, tramite il conferimento di beni immobili allo scopo di realizzare un investimento secondo criteri propri di un qualsiasi operatore di mercato. 4. Le società in house hanno come oggetto sociale esclusivo una o più delle attività di cui alle lettere a), b), d) ed e) del comma 2. Salvo quanto previsto dall’articolo 16, tali società operano in via prevalente con gli enti costituenti o partecipanti o affidanti. 5. Fatte salve le diverse previsioni di legge regionali adottate nell’esercizio della potestà legislativa in materia di organizzazione amministrativa, è fatto divieto alle società di cui al comma 2, lettera d), controllate da enti locali, di costituire nuove società e di acquisire nuove partecipazioni in società. Il divieto non si applica alle società che hanno come oggetto sociale esclusivo la gestione delle partecipazioni societarie di enti locali, salvo il rispetto degli obblighi previsti in materia di trasparenza dei dati finanziari e di consolidamento del bilancio degli enti partecipanti. 6. È fatta salva la possibilità di costituire società o enti in attuazione dell’articolo 34 del regolamento (CE) n. 1303/2013 del Par-lamento europeo e del Consiglio del 17 dicembre 2013 e dell’articolo 61 del regolamento (CE) n. 508 del 2014 del Parlamento europeo e del Consiglio 15 maggio 2014. 7. Sono altresì ammesse le partecipazioni nelle società aventi per oggetto sociale esclusivo la gestione di spazi fieristici e l’orga-nizzazione di eventi fieristici, nonché la realizzazione e la gestione di impianti di trasporto a fune per la mobilità turistico-sportiva eserciti in aree montane. 8. È fatta salva la possibilità di costituire, ai sensi degli articoli 2 e 3 del decreto legislativo 27 luglio 1999, n. 297, le società con carat-teristiche di spin off o di start up universitari previste dall’articolo 6, comma 9, della legge 30 dicembre 2010, n. 240. 9. Con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze o dell’organo di vertice dell’amministrazione partecipante, motivato con riferimento alla misura e qualità della partecipazione pubblica, agli interessi pubblici a essa connessi e al tipo di attività svolta, riconducibile alle finalità di cui al comma 1, anche al fine di agevolarne la quota-zione ai sensi dell’articolo 18, può essere deliberata l’esclusione totale o parziale dell’applicazione delle disposizioni del presente articolo a singole società a partecipazione pubblica. Il decreto è trasmesso alle Camere ai fini della comunicazione alle commissioni parlamentari competenti”.

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in ottica di coordinamento. L’opzione in discorso concerne la progettazione e realizzazio-ne di un’opera pubblica (a mezzo di una forma di partenariato operante nell’ambito della finanza di progetto), tipicamente di rilevante impatto nazionale o sovra regionale. Segna-liamo, a riguardo, come, raffrontando le disposizioni di cui al rinnovato Codice dei contrat-ti con le prevedenti di cui al d.lgs. n. 163/2006, risultano persi i riferimenti alla necessitata approvazione della proposta del soggetto aggiudicatore da parte del CIPE.

Art. 2, comma 2, lett. c)Realizzazione e gestione di un’opera pubblica ovvero organizzazione e gestione di un servizio d’interesse generale attraverso un contratto di partenariato di cui all’articolo 180 del decreto legislativo n. 50 del 2016, con un imprenditore selezionato con le modalità di cui all’articolo 17, commi 1 e 2.

Pertiene all’attività di cui alla lettera c), in coordinamento con il successivo art. 17 del Testo unico e l’art. 180 del d.lgs. n. 50/2016, la tipica forma di partenariato pubblico privato isti-tuzionalizzato costituita dalle società miste in cui l’imprenditore privato è selezionato con i criteri di cui all’art. 17, comma 1 e 2 (di cui diremo in seguito), vale a dire attraverso una gara “a doppio oggetto.

Tale modello gestionale, è validamente utilizzabile:

- per la realizzazione e gestione di un’opera pubblica5;- per la gestione dii servizi di interesse generale (economico o non).Nella definizione resa dall’art. 3, comma 1, lett. eee), del d.lgs. 50/2016, il “contratto di partenariato pubblico privato”, è il contratto a titolo oneroso stipulato per iscritto con il quale una o più stazioni appaltanti conferiscono a uno o più operatori economici per un periodo determinato in funzione della durata dell’ammortamento dell’investimento o delle modalità di finanziamento fissate, un complesso di attività consistenti nella realiz-zazione, trasformazione, manutenzione e gestione operativa di un’opera in cambio della sua disponibilità, o del suo sfruttamento economico, o della fornitura di un servizio con-nesso all’utilizzo dell’opera stessa, con assunzione di rischio secondo modalità individua-te nel contratto, da parte dell’operatore.

(5) Calda, o tiepida, secondo quanto previsto dall’art. 180, comma 2, d.lgs. 50/2016. Le “opere calde” si distinguono dalle “opere fredde”, in ragione della intrinseca capacità a generare flussi di cassa attraverso ricavi da utenza in misura tale da coprire i costi di investimento e remunerare adeguatamente il capitale investito dal partner privato. Vi sono poi le c.d. “”opere tiepide”, le quali, pur avendo la capacità di generare reddito, non producono tuttavia ricavi di utenza in misura tale da ripagare interamente le risorse impiegate per la loro realizzazione, rendono così necessario un contri-buto pubblico per l’esecuzione. Per quanto concerne il campo di applicazione del PPP, come rilevato dalla dottrina, esso riguarda in particolare la realizzazione delle opere c.d. self liquidating, definite calde, ovvero opere in cui si prevede il pagamento di tariffe da parte dell’utente fruitore del servizio, e quindi attraenti per il soggetto privato. Infatti, la capacità di produrre flussi di cassa costituisce ovviamente una delle attrattive per i privati i quali sono incentivati ad effettuare investimenti. V. Bonfanti V., “Il partenariato pubblico privato alla luce del nuovo codice dei contratti pubblici”, in www.amministrazioneincam-mino.luiss.it, 20 luglio 2016.

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L’art. 180 del Codice dei contratti, rubricato, appunto, “Partenariato pubblico privato”, afferma che: “Il contratto di partenariato è il contratto a titolo oneroso di cui all’articolo 3, comma 1, lettera eee). Il contratto può avere ad oggetto anche la progettazione di fattibilità tecnico ed economica e la progettazione definitiva delle opere o dei servizi connessi”6.

Art. 17, comma 2, lett. d)Autoproduzione di beni o servizi strumentali all’ente o agli enti pubblici partecipanti, nel rispetto delle condizioni stabilite dalle direttive europee in materia di contratti pubblici e della relativa disciplina nazionale di recepimento.

Qualora i beni o servizi autoprodotti non siano destinati ad una utenza, ma siano rivol-ti alle amministrazioni pubbliche socie, si usa parlare di società strumentali, laddove la

(6) Questo, il testo completo dell’art. 180 del d.lgs. 50/2016: “1. Il contratto di partenariato è il contratto a titolo oneroso di cui all’articolo 3, comma 1, lettera eee). Il contratto può avere ad oggetto anche la progettazione di fattibilità tecnico ed economica e la progettazione definitiva delle opere o dei servizi connessi.2. Nei contratti di partenariato pubblico privato, i ricavi di gestione dell’operatore economico provengono dal canone riconosciuto dall’ente concedente e/o da qualsiasi altra forma di contropartita economica ricevuta dal medesimo operatore economico, anche sotto forma di introito diretto della gestione del servizio ad utenza esterna.3. Nel contratto di partenariato pubblico privato il trasferimento del rischio in capo all’operatore economico comporta l’allocazione a quest’ultimo, oltre che del rischio di costruzione, anche del rischio di disponibilità o, nei casi di attività redditizia verso l’esterno, del rischio di domanda dei servizi resi, per il periodo di gestione dell’opera come definiti, rispettivamente, dall’articolo 3, comma 1, let-tere aaa), bbb) e ccc). Il contenuto del contratto è definito tra le parti in modo che il recupero degli investimenti effettuati e dei costi sostenuti dall’operatore economico, per eseguire il lavoro o fornire il servizio, dipenda dall’effettiva fornitura del servizio o utilizzabilità dell’opera o dal volume dei servizi erogati in corrispondenza della domanda e, in ogni caso, dal rispetto dei livelli di qualità con-trattualizzati, purché la valutazione avvenga ex ante. Con il contratto di partenariato pubblico privato sono altresì disciplinati anche i rischi, incidenti sui corrispettivi, derivanti da fatti non imputabili all’operatore economico.4. A fronte della disponibilità dell’opera o della domanda di servizi, l’amministrazione aggiudicatrice può scegliere di versare un ca-none all’operatore economico che è proporzionalmente ridotto o annullato nei periodi di ridotta o mancata disponibilità dell’opera, nonché ridotta o mancata prestazione dei servizi. Tali variazioni del canone devono, in ogni caso, essere in grado di incidere significa-tivamente sul valore attuale netto dell’insieme degli investimenti, dei costi e dei ricavi dell’operatore economico.5. L’amministrazione aggiudicatrice sceglie altresì che a fronte della disponibilità dell’opera o della domanda di servizi, venga cor-risposta una diversa utilità economica comunque pattuita ex ante, ovvero rimette la remunerazione del servizio allo sfruttamento diretto della stessa da parte dell’operatore economico, che pertanto si assume il rischio delle fluttuazioni negative di mercato della domanda del servizio medesimo.6. L’equilibrio economico finanziario, come definito all’articolo 3, comma 1, lettera fff), rappresenta il presupposto per la corretta allo-cazione dei rischi di cui al comma 4. Ai soli fini del raggiungimento del predetto equilibrio, in sede di gara l’amministrazione aggiudi-catrice può stabilire anche un prezzo consistente in un contributo pubblico ovvero nella cessione di beni immobili che non assolvono più a funzioni di interesse pubblico. A titolo di contributo può essere riconosciuto un diritto di godimento, la cui utilizzazione sia strumentale e tecnicamente connessa all’opera da affidare in concessione. Le modalità di utilizzazione dei beni immobili sono defini-te dall’amministrazione aggiudicatrice e costituiscono uno dei presupposti che determinano l’equilibrio economico-finanziario della concessione. In ogni caso, l’eventuale riconoscimento del prezzo, sommato al valore di eventuali garanzie pubbliche o di ulteriori meccanismi di finanziamento a carico della pubblica amministrazione, non può essere superiore al trenta per cento del costo dell’in-vestimento complessivo, comprensivo di eventuali oneri finanziari.7. La documentata disponibilità di un finanziamento è condizione di valutazione di ammissione ad un contratto di partenariato pub-blico privato. La sottoscrizione del contratto ha luogo previa la presentazione di idonea documentazione inerente il finanziamento dell’opera. Il contratto è risolto di diritto ove il contratto di finanziamento non sia perfezionato entro dodici mesi dalla sottoscrizione del contratto. 8. Nella tipologia dei contratti di cui al comma 1 rientrano la finanza di progetto, la concessione di costruzione e gestione, la conces-sione di servizi, la locazione finanziaria di opere pubbliche, il contratto di disponibilità e qualunque altra procedura di realizzazione in partenariato di opere o servizi che presentino le caratteristiche di cui ai commi precedenti.».

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strumentalità indica lo svolgimento, da parte delle stesse, di attività per il soddisfaci-mento di esigenze proprie degli enti di riferimento.

L’attività consentita di cui alla lett. d) fa riferimento proprio alle c.d. “società strumenta-li”, introdotte nel nostro ordinamento dall’art. 13 del d.l. 4 luglio 2006 n. 2237 ed ogget-to di numerosi interventi giurisprudenziali, resi ancor più dibattuti a seguito dell’entrata in vigore del d.l. n. 95/2012, che aveva prospettato numerosi elementi di ambiguità dal punto di vista applicativo.

La disposizione di cui al c.d. decreto Bersani prevedeva che «al fine di evitare alterazio-ni o distorsioni della concorrenza e del mercato e di assicurare la parità degli operatori nel territorio nazionale, le società, a capitale interamente pubblico o misto, costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali all’attività di tali enti in funzione della loro attività», nonché, «nei casi consentiti dalla legge, per lo svolgimento esternalizzato di funzioni amministrative di loro competenza, devono operare con gli enti costituenti o partecipanti o affidanti, non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, né in affi-damento diretto né con gara, e non possono partecipare ad altre società o enti aventi sede nel territorio nazionale».

La norma escludeva dal suo campo di applicazione, i «servizi pubblici locali», nonché «i servizi di committenza o delle centrali di committenza apprestati a livello regionale a supporto di enti senza scopo di lucro e di amministrazioni aggiudicatrici di cui all’artico-lo 3, comma 25, del Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163». Le società strumentali, inoltre, doveva-no essere ad oggetto sociale esclusivo e non potevano agire in violazione delle regole dianzi specificate. In base alla previsione legislativa di cui all’art. 13 del d.l. n. 223/2006, era precluso lo svolgimento di attività strumentali per il tramite di società che non fosse-ro ad oggetto esclusivo: non risultava quindi possibile che la stessa società che opera in house svolgesse per conto di uno o più enti attività strumentali e gestisse servizi pubbli-ci locali8.

Nel 2013, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 del d.l. n. 95/20129, nella sola parte in cui ha previsto particolari forme di “soppressione” di società strumentali anche regionali10. In particolare, nei confronti delle società controlla-te direttamente o indirettamente dalle pubbliche amministrazioni, che “abbiano conse-guito nell’anno 2011 un fatturato da prestazione di servizi a favore di pubbliche ammini-strazioni superiore al 90 per cento dell’intero fatturato”, si impone, alternativamente, lo

(7) Oggi abrogato dall’art. 28 del d.lgs. 175/2016.

(8) Corte dei conti, Sez. di Contr. Reg. per il Veneto, deliberazione n. 74/2012/PAR del 25 gennaio 2012.

(9) Decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai citta-dini), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135

(10) Corte cost., sentenza n. 229 del 23 luglio 2013.

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scioglimento o la privatizzazione (commi 1 e 2). Si prevede che le stesse sopravvivano e continuino ad essere titolari di affidamenti diretti (comma 8) solo nelle ipotesi nelle qua-li, «per le peculiari caratteristiche economiche e sociali, ambientali e geo-morfologiche del contesto, anche territoriale, di riferimento, non è possibile un efficace ed utile ricor-so al mercato» o nei casi nei quali siano stati predisposti dei piani di razionalizzazione e di ristrutturazione delle medesime società. Il secondo comma del citato art. 4 ha esclu-so, tra l’altro, dal campo di applicazione della norma le «società che svolgono servizi di interesse generale, anche aventi rilevanza economica». L’interpretazione della norma operata dalla pronunzia confermava la possibilità, per le Regioni, di ricorrere legittima-mente al modello societario per l’esercizio di attività direttamente strumentali rispetto alle proprie finalità istituzionali, restringendo invece in maniera significativa i margini di percorribilità di tale opzione per gli enti locali.

Osserviamo come il Testo unico non riporta una definizione specifica di “società stru-mentale”, mentre da una lettura coordinata di alcune delle nozioni introdotte dall’art. 2, comma 1, possiamo inquadrare la c.d. “società in house”. Queste ultime, come meglio vedremo a breve, vengono indicate dall’art. 2, comma 1, lett. o), come «le società sulle quali un’amministrazione esercita il controllo analogo o più amministrazioni esercitano il controllo analogo congiunto».

La disposizione di cui alla lettera d), che stabilisce l’ammissibilità dell’attività di «autopro-duzione di beni o servizi strumentali all’ente o agli enti pubblici partecipanti», segnala come tale attività debba comunque essere rispettosa delle condizioni stabilite dalle direttive europee in materia di contratti pubblici e della relativa disciplina nazionale di recepimento, ossia il d.lgs. 50/2016.

Essa, inoltre, deve evidentemente essere letta congiuntamente al successivo comma 4, che così dispone: «Le società in house hanno come oggetto sociale esclusivo una o più delle attività di cui alle lettere a), b), d) ed e) del comma 2. Salvo quanto previsto dall’ar-ticolo 16, tali società operano in via prevalente con gli enti costituenti o partecipanti o affidanti». Il requisito dell’esclusività dell’oggetto sociale è così tenuto distinto da quel-lo della prevalente operatività con gli enti costituenti o partecipanti, consentendo alle società in house di avere come oggetto sociale esclusivo (allargato) tutte le attività consentite di cui al comma 2 – ad eccezione della realizzazione e gestione di un’opera pubblica ovvero organizzazione e gestione di un servizio d’interesse generale attraverso un contratto di partenariato, prevista alla lett. c) – e non solamente una di esse.

Permangono, ad una prima analisi, alcune criticità di ordine interpretativo relativamente all’art. 4 del d.l. n. 95/2012, atteso che i commi 7 e 8, pure di interesse, non rientrano tra le abrogazioni stabilite dall’art. 28 del Testo unico. Ricordiamo in proposito che il Consi-glio di Stato ha affermato che «Il modello organizzativo dell’in house providing è stato recentemente decifrato da questa Sezione (Cons. Stato, sez. III, 7 maggio 2015, n.2291) come modalità eccezionale, rispetto a quella ordinaria della scelta dell’affidatario in esito a procedure concorrenziali, e precluso dal combinato disposto dell’art. 4, commi

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7 e 8, d.l. n.95 del 2012 (che obbligano, per un verso, le pubbliche amministrazioni ad acquisire beni e servizi mediante procedure concorrenziali e che consentono, per un altro verso, l’affidamento diretto a società a totale partecipazione pubblica nelle sole ipotesi di gestione di servizi di interesse generale, ed esula dall’ambito di tale eccezio-ne il contratto che attiene a un servizio strumentale all’amministrazione affidataria del servizio)»11.

In sostanza, il combinato disposto degli artt. 5 e 192 del d.lgs. 50/2016 pare riaffermare la possibilità di effettuare affidamenti diretti a società in house strumentali, ponendo-si di fatto in contrasto con l’art. 4, commi 7-8, del d.l. 95/2012, come interpretato dal C.d.S.: vi è una interpretazione diversa ed ulteriore? Dobbiamo ritenere u commi non più applicabili secondo tale lettura?

In relazione alla previsione recata dall’art. 192, co. 1, del d.lgs. 50/2016, secondo cui l’iscrizione all’elenco delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori che operano mediante affidamenti diretti nei confronti di proprie società in house, istitui-to presso l’ANAC ai sensi del medesimo comma, avviene dopo che è stata riscontrata l’esistenza dei requisiti secondo le modalità e i criteri che l’Autorità definisce con pro-prio atto, lo stesso Presidente dell’ANAC, con comunicazione del 3.8.2016 ha precisato che «Nelle more, tenuto conto dell’efficacia non costitutiva ma meramente dichiarativa dell’iscrizione (cfr. parere del Consiglio di Stato del 1° aprile 2016 n. 855), l’affidamento diretto alle società in house può essere effettuato, sotto la propria responsabilità, dalle amministrazioni aggiudicatrici e dagli enti aggiudicatori in presenza dei presupposti le-gittimanti definiti dall’art. 12 della direttiva 24/2014/UE e recepiti nei medesimi termini nell’art. 5 del d.lgs. n. 50 del 2016 e nel rispetto delle prescrizioni di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 192, a prescindere dall’inoltro della domanda di iscrizione.

In un’ottica sistematica, deve infatti ritenersi che la previsione dell’art. 192, comma 1, (secondo cui la domanda di iscrizione consente alle amministrazioni di procedere ad ef-fettuare affidamenti diretti all’ente strumentale), presupponga l’istituzione dell’elenco e l’adozione dell’atto dell’Autorità e, conseguentemente, che la disposizione non valga a istituire, nel diverso attuale contesto, la pregiudizialità dell’inoltro della domanda rispet-to alla possibilità di effettuare affidamenti in house».

Infine, nella Relazione illustrativa all’Atto 297-bis, si rileva come non sono state accolte le proposte della Conferenza unificata volte a includere le ipotesi di svolgimento esterna-lizzato di funzioni amministrative, in quanto la scelta del legislatore delegato è di limitare la previsione ai servizi strumentali.

Art. 17, comma 2, lett. e)Servizi di committenza, ivi incluse le attività di committenza ausiliarie, apprestati a sup-

(11) Cons. Stato, sez. III, 7 maggio 2015, n. 2291; Cons. Stato, sez. III, 17 dicembre 2015, n. 5732.

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porto di enti senza scopo di lucro e di amministrazioni aggiudicatrici di cui all’articolo 3, comma 1, lettera a), del decreto legislativo n. 50 del 2016.

Attraverso le attività indicate alla lettera e), viene consentita la costituzione o parteci-pazione di società aventi ad oggetto la conduzione di servizi di committenza (ivi incluse le attività di committenza ausiliarie) approntati a supporto (i) di enti senza scopo di lu-cro, e (ii) di amministrazioni aggiudicatrici di cui all’art. 3, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 50/2016.

Riguardo alle società di committenza, attraverso cui le amministrazioni pubbliche pos-sano procedere ad acquisire in maniera centralizzata lavori, servizi o forniture, vengono richiamate dunque definizioni e concetti propri della contrattualistica pubblica. Ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 50/2016, per “amministrazioni aggiudicatrici” si intendono «le amministrazioni dello Stato; gli enti pubblici territoriali; gli altri enti pub-blici non economici; gli organismi di diritto pubblico; le associazioni, unioni, consorzi, comunque denominati, costituiti da detti soggetti».

La lettera i) del medesimo comma 1 definisce “centrale di committenza” «un’ammini-strazione aggiudicatrice o un ente aggiudicatore che forniscono attività di centralizza-zione delle committenze e, se del caso, attività di committenza ausiliarie».

Quanto alle attività di “centralizzazione delle committenze” (lett. l), esse sono date dalle «attività svolte su base permanente riguardanti:

1) l’acquisizione di forniture o servizi destinati a stazioni appaltanti;2) l’aggiudicazione di appalti o la conclusione di accordi quadro per lavori, forniture o

servizi destinati a stazioni appaltanti».A loro volta, le “attività di committenza ausiliarie” (lett. m)) sono definite come «le attività che consistono nella prestazione di supporto alle attività di committenza, in par-ticolare nelle forme seguenti:

1) infrastrutture tecniche che consentano alle stazioni appaltanti di aggiudicare appalti pubblici o di concludere accordi quadro per lavori, forniture o servizi;

2) consulenza sullo svolgimento o sulla progettazione delle procedure di appalto;3) preparazione delle procedure di appalto in nome e per conto della stazione appal-

tante interessata;4) gestione delle procedure di appalto in nome e per conto della stazione appaltante

interessata».Non si tratta, evidentemente, di una novità, dal momento che già l’art. 3, comma 27, della legge n. 244/20007 stabiliva che «(…) È sempre ammessa la costituzione di società che producono servizi di interesse generale e che forniscono servizi di committenza o di centrali di committenza a livello regionale a supporto di enti senza scopo di lucro e di amministrazioni aggiudicatrici di cui all’articolo 3, comma 25, del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n.

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163, e l’assunzione di partecipazioni in tali società da parte delle amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, nell’ambito dei rispettivi livelli di competenza».

I richiami al Codice dei contratti in materia di in house providing

Con l’espressione “in house providing”, viene indicato un modulo organizzativo in virtù del quale la pubblica amministrazione provvede direttamente, mediante società a tal fine costituite, alla produzione dei beni e dei servizi di cui ha bisogno (c.d. “autopro-duzione”), senza necessità del ricorso al mercato e, quindi, senza necessità del previo esperimento di una procedura di gara. Si tratta di un istituto sorto nel diritto europeo a partire dalla sentenza Teckal del 199912, con la finalità di limitare le ipotesi in cui si può derogare alle regole della “concorrenza per il mercato” mediante il ricorso a forme di affidamenti diretti di compiti relativi alla realizzazione di opere pubbliche o alla gestione di servizi pubblici, ovvero di servizi strumentali rivolti all’amministrazione partecipante.

La giurisprudenza europea, a partire dalla sentenza Teckal, aveva dunque indicato quali requisiti necessari ai fini della configurazione dell’in house:

i) la partecipazione interamente pubblica;ii) l’esercizio da parte dell’amministrazione di un controllo analogo a quello esercitato

sui propri servizi;iii) lo svolgimento dell’attività prevalentemente a favore dell’amministrazione controllan-

te13.Sussistendo queste condizioni – veniva affermato – verrebbe meno nel soggetto affida-tario la terzietà (intesa come alterità soggettiva), che rappresenta il presupposto per la stipulazione di un contratto d’appalto, e, quindi, non troverebbe applicazione l’obbligo, stabilito dalla normativa comunitaria, di attribuire i servizi necessariamente mediante gara.

I principi enunciati dalla Corte di Giustizia Europea sono stati in seguito recepiti anche dal nostro ordinamento positivo. Il Testo unico sull’ordinamento degli Enti locali (d.lgs. 18 agosto 2000 n. 267) stabiliva, all’art. 113, comma 4, lett. c), che l’erogazione dei ser-vizi pubblici locali di rilevanza economica poteva essere affidata «a società a capitale interamente pubblico a condizione che l’ente o gli enti pubblici titolari del capitale so-ciale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano».

((12)) Corte di giustizia CE, Sez. V, sentenza Teckal 18 novembre 1999, in causa C-107/98.

((13)) Ex multis, Corte di Giustizia CE Sez. III 10 settembre 2009 n. 573; Corte di Giustizia CE Sez. III 13 novembre 2008 n. 324; Corte di Giustizia CE Sez. II 17 luglio 2008 n. 371; Corte di Giustizia CE Sez. VII 10 aprile 2008 n. 323; Corte di Giustizia CE Sez. II 19 aprile 2007 n. 470; Corte di Giustizia CE Sez. I 11 maggio 2006 Corte di Giustizia CE Sez. Corte di Giustizia CE Sez. n. 340; Corte di Giustizia CE Sez. I 6 aprile 2006 n. 410; Corte di Giustizia CE Sez. V 18 novembre 1999 n. 107).

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Le amministrazioni pubbliche locali e regionali, inoltre, ai sensi dell’art. 13 del d.l. n. 223/2006, potevano fare ricorso alle società in house al fine della produzione di beni o servizi strumentali rivolti agli stessi enti promotori o comunque azionisti della società per svolgere le funzioni di supporto di tali amministrazioni pubbliche secondo l’ordinamento amministrativo14.

A seguito dell’emanazione delle direttive 23/2014/UE e 24/2014/UE gli elementi caratte-rizzanti il modello c.d. “in house” hanno conosciuto talune significative modifiche rispet-to alle precedenti prescrizioni di matrice comunitaria e nazionale. Dapprima il nuovo Co-dice dei contratti di cui al d.Lgs. 50/2016 e, adesso, il d.lgs. n. 175/2016, recante Testo unico sulle società a partecipazione pubblica hanno quindi proceduto all’accoglimento di codeste novità.

Le direttive del 2014 hanno quindi in parte modificato i tratti distintivi dell’in house am-mettendo, eccezionalmente, «forme di partecipazione di capitali privati che non com-portano controllo o potere di veto, prescritte dalle disposizioni legislative nazionali, in conformità dei trattati, che non esercitano un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata» ed indicando in modo puntuale nel limite superiore all’80% l’entità dell’attività che deve essere svolta a favore dell’amministrazione pubblica.

La lettura congiunta delle definizioni di cui alle lettere o), c) e d) dell’art. 2, comma 1, del Testo unico offre una nozione di società in house allineata ai rinnovati principi comunita-ri. Sono qualificate come “società in house” «le società sulle quali un’amministrazione esercita il controllo analogo o più amministrazioni esercitano il controllo analogo con-giunto» (lett. o)). Risalendo ai concetti richiamanti in siffatta definizione, osserviamo che il “controllo analogo” è «la situazione in cui l’amministrazione esercita su una società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi, esercitando un’influenza de-terminante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della società con-trollata. Tale controllo può anche essere esercitato da una persona giuridica diversa, a sua volta controllata allo stesso modo dall’amministrazione partecipante» (lett. c)), men-tre per “controllo analogo congiunto” si intende «la situazione in cui l’amministrazione esercita congiuntamente con altre amministrazioni su una società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi. La suddetta situazione si verifica al ricorrere delle condizioni di cui all’articolo 5, comma 5, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50» (lett. d)).

All’apparenza, quindi, solamente nella definizione del controllo analogo congiunto troviamo un riferimento esplicito a disposizioni del Codice dei contratti. Occorre tuttavia considerare come l’art. 5, comma 1, del d.lgs. 50/2016, in cui sono fissate le condizioni che devono sussistere per consentire il delinearsi di una società in hou-se15, afferma una norma di portata generale, espressiva dei principi introdotti a livel-

(14) Cons. Stato, sez. V, 7 luglio 2009, n. 4346.

(15) Come evincibile dall’esame congiunto degli artt. 5 e 192 del Codice degli appalti, afferenti al modello in house.

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lo comunitario dalle sopra menzionate direttive n. 2014/23/UE e 2014/24/UE in mate-ria di concessioni ed appalti.

Peraltro, rileviamo come nel testo dell’atto 297-bis trasmesso al Parlamento dopo il C.d.M. del 14 luglio 2016 che aveva approvato l’ultima bozza di decreto legislativo recante Testo unico delle società a partecipazione pubblica, la definizione di società in house di cui alla lett. o) faceva esplicito riferimento al Codice dei contratti, attra-verso la tecnica del rinvio normativo, indicandole come quelle società «per le quali sono soddisfatte le condizioni di cui all’articolo 5, comma 1, del decreto legislativo n. 50 del 2016», vale a dire:

a) l’amministrazione aggiudicatrice o l’ente aggiudicatore esercita sulla persona giuridi-ca di cui trattasi un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi;

b) oltre l’80 per cento delle attività della persona giuridica controllata è effettuata nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dall’amministrazione aggiudicatrice controllante o da altre persone giuridiche controllate dall’amministrazione aggiudica-trice o da un ente aggiudicatore di cui trattasi;

c) nella persona giuridica controllata non vi è alcuna partecipazione diretta di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati previste dalla legi-slazione nazionale, in conformità dei trattati, che non esercitano un’influenza determi-nante sulla persona giuridica controllata.

Nel contesto del d.lgs. n. 175/2016, chiaramente, i concetti di amministrazione aggiudi-catrice e di ente aggiudicatore indicati nel Codice dei contratti pubblici debbono essere ricondotti al campo di applicazione dell’art. 4, vale a dire alle amministrazioni pubbliche come definite dall’art. 2 del Testo unico16.

Il coordinamento della disciplina nazionale in materia di in house providing con quella europea e, in particolare, con le nuove disposizioni dettate dalla direttiva 2014124/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sugli appalti pubblici, non viene esaurito, quindi, dall’impianto definizionale dell’art. 2 del Testo unico.

A tal fine, maggiori specificazioni sono rese nell’ambito del successivo articolo 16 del d.lgs. 175/2016, il quale, al primo comma, stabilisce che «Le società in house ricevono affidamenti diretti di contratti pubblici dalle amministrazioni che esercitano su di esse il controllo analogo o da ciascuna delle amministrazioni che esercitano su di esse il control-lo analogo congiunto solo se non vi sia partecipazione di capitali privati, ad eccezione di quella prescritta da norme di legge e che avvenga in forme che non comportino controllo o potere di veto, né l’esercizio di un’influenza determinante sulla società controllata».

(16) Ricordiamo che, secondo le definizioni di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 50/2016, ai fini del suddetto codice si intende per: «a) «am-ministrazioni aggiudicatrici», le amministrazioni dello Stato; gli enti pubblici territoriali; gli altri enti pubblici non economici; gli organismi di diritto pubblico; le associazioni, unioni, consorzi, comunque denominati, costituiti da detti soggetti;:(…) c) «amministrazioni aggiudicatrici sub-centrali», tutte le amministrazioni aggiudicatrici che non sono autorità governative centrali.»

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Dal lato dispositivo, la norma pare quindi confermare l’ammissibilità degli affidamenti di-retti in favore di società in house strumentali, nei termini più sopra esaminati (le attività strumentali rientrano difatti tra quelle assentite, come abbiamo visto rispetto all’art. 4). Per quanto attiene all’inquadramento dei requisiti previsti per l’in house providibng, si provvede a ribadire i limiti alle partecipazioni dei privati, in coerenza con l’impostazione introdotta già dalle direttive appalti e concessioni del 2014 e poi recepite nel Codice dei contratti all’art. 5, comma 1, lett. c).

È inoltre prevosto dal terzo comma dell’art. 16 che la sussistenza dei requisiti richiesti per l’in house providing sia fissata già nelle disposizioni degli statuti societari, con parti-colare riguardo alla previsione:

- che oltre l’ottanta per cento del loro fatturato sia effettuato nello svolgimento dei compiti a esse affidati dall’ente pubblico o dagli enti pubblici soci;

- che la produzione ulteriore rispetto al suddetto limite di fatturato sia consentita solo a condizione che la stessa permetta di conseguire economie di scala o altri recuperi di efficienza sul complesso dell’attività principale della società.

Ai sensi del comma 4, il mancato rispetto del limite quantitativo di cui al comma 3 costitu-isce grave irregolarità ai sensi dell’articolo 2409 del codice civile17 e dell’articolo 15 del De-creto (“Monitoraggio, indirizzo e coordinamento sulle società a partecipazione pubblica”).

A seguito del mancato rispetto del limite quantitativo inerente al fatturato indicati al comma 3, stabilisce il successivo comma 5 che la società in house può sanare l’irregola-rità se entro tre mesi:

- rinunci a una parte dei rapporti di fornitura con soggetti terzi, sciogliendo i relativi rapporti contrattuali, oppure

(17) Stabilisce l’art. 2409 cod. civ. (Denunzia al tribunale) che: «I. Se vi è fondato sospetto che gli amministratori, in violazione dei loro doveri, abbiano compiuto gravi irregolarità nella gestione che possono arrecare danno alla società o a una o più società controllate, i soci che rappresentano il decimo del capitale sociale o, nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di ri-schio, il ventesimo del capitale sociale possono denunziare i fatti al tribunale con ricorso notificato anche alla società. Lo statuto può prevedere percentuali minori di partecipazione. II. Il tribunale, sentiti in camera di consiglio gli amministratori e i sindaci, può ordinare l’ispezione dell’amministrazione della so-cietà a spese dei soci richiedenti, subordinandola, se del caso, alla prestazione di una cauzione. Il provvedimento è reclamabile. III. Il tribunale non ordina l’ispezione e sospende per un periodo determinato il procedimento se l’assemblea sostituisce gli amministratori e i sindaci con soggetti di adeguata professionalità, che si attivano senza indugio per accertare se le violazioni sussistono e, in caso positivo, per eliminarle, riferendo al tribunale sugli accertamenti e le attività compiute. IV. Se le violazioni denunziate sussistono ovvero se gli accertamenti e le attività compiute ai sensi del terzo comma risultano insufficienti alla loro eliminazione, il tribunale può disporre gli opportuni provvedimenti provvisori e convocare l’assemblea per le conseguenti deliberazioni. Nei casi più gravi può revocare gli amministratori ed eventualmente anche i sindaci e nominare un amministratore giudiziario, determinandone i poteri e la durata. V. L’amministratore giudiziario può proporre l’azione di responsabilità contro gli amministratori e i sindaci. Si applica l’ultimo comma dell’articolo 2393. VI. Prima della scadenza del suo incarico l’amministratore giudiziario rende conto al tribunale che lo ha nominato; convoca e presiede l’assemblea per la nomina dei nuovi amministratori e sindaci o per proporre, se del caso, la messa in liquidazione della società o la sua ammissione ad una procedura concorsuale. VII. I provvedimenti previsti da questo articolo possono essere adottati anche su richiesta del collegio sindacale, del consiglio di sorveglianza o del comitato per il controllo sulla gestione, nonché, nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, del pubblico ministero; in questi casi le spese per l’ispezione sono a carico della società».

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- rinunci agli affidamenti diretti da parte dell’ente o degli enti pubblici soci, scioglien-do i relativi rapporti. In questo caso, le attività sono riaffidate dall’ente con procedure competitive nel rispetto del Codice dei contratti. In quest’ultimo caso le attività pre-cedentemente affidate alla società controllata devono essere riaffidate, dall’ente o dagli enti pubblici soci, mediante procedure competitive regolate dalla disciplina in materia di contratti pubblici, entro i sei mesi successivi allo scioglimento del rappor-to contrattuale. Nelle more dello svolgimento delle procedure di gara i beni o servizi continueranno ad essere forniti dalla stessa società controllata.

Tra le abrogazioni del testo unico troviamo l’art. 3-bis, comma 6, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 14818, oggi sostituito dalla previsione qui posta all’art. 16, comma 7, per la quale «Le società di cui al presente articolo sono tenute all’acquisto di lavori, beni e servizi secon-do la disciplina di cui al decreto legislativo n. 50 del 2016. Resta fermo quanto previsto dall’articolo 192 del medesimo decreto legislativo n. 50 del 2016».

Le società a partecipazione mista pubblico-privataArt. 17 (Società a partecipazione mista pubblico-privata)Comma 1Nelle società costituite per le finalità di cui all’articolo 4, comma 2, lettera c), la quota di partecipazione del soggetto privato non può essere inferiore al trenta per cento e la selezione del medesimo si svolge con procedure di evidenza pubblica a norma dell’ar-ticolo 5, comma 9, del decreto legislativo n. 50 del 2016 e ha ad oggetto, al contempo, la sottoscrizione o l’acquisto della partecipazione societaria da parte del socio privato e l’affidamento del contratto di appalto o di concessione oggetto esclusivo dell’attività della società mista.

I contatti tra Testo unico delle società a partecipazione pubblica e Codice dei contratti si fanno decisamente stretti con riferimento alle società miste. L’art. 5, comma 9, del d.l-gs. n. 50/2016, difatti, aveva già stabilito che «Nei casi in cui le norme vigenti consento-no la costituzione di società miste per la realizzazione e gestione di un’opera pubblica o per l’organizzazione e la gestione di un servizio di interesse generale, la scelta del socio privato avviene con procedure di evidenza pubblica».

La condizione contenuta in codesta previsione, riconnessa all’esistenza di un esplicito consenso normativo alla costituzione di società miste per le finalità indicate, risulta sod-disfatta dall’art. 4, comma 2, lett. c) del Testo unico, il quale acconsente le partecipazioni in società aventi ad oggetto, appunto, la “realizzazione e gestione di un’opera pubblica

(18) La norma abrogata affermava che “Le società affidatarie in house sono tenute all’acquisto di beni e servizi secondo le dispo-sizioni di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, e successive modificazioni”.

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Appalti / TU partecipate e nuovo Codice Comuni d’Italia / 10/2016

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ovvero organizzazione e gestione di un servizio d’interesse generale”, purché ciò avven-ga «attraverso un contratto di partenariato di cui all’art. 180 del decreto legislativo n. 50 del 2016, con un imprenditore selezionato con le modalità di cui all’articolo 17, commi 1 e 2». Il Testo unico sulle società a partecipazione pubblica esprime, appunto, il richiesto assenso normativo, occupandosi di declinare coerentemente la modalità di selezione del partner privato secondo il modello della gara a doppio oggetto. Non viene fatta di-stinzione tra appalto e concessione. Per parte sua, con riferimento alle suddette società, il primo comma dell’art. 17 del d.lgs., nel rispetto di quanto previsto dal menzionato art. 5, comma 9, del Codice dei contratti, espressamente richiamata, ribadisce che la sele-zione del soggetto:

· si svolge con procedure di evidenza pubblica;· ha ad oggetto, al contempo, la sottoscrizione o l’acquisto della partecipazione socie-

taria da parte del socio privato e l’affidamento del contratto di appalto o di conces-sione oggetto esclusivo dell’attività della società mista.

Con riferimento alle specifiche disposizioni relative alle società a partecipazione mista pubblico-privata contenute nell’art. 17, è stata dunque accolta l’osservazione del Con-siglio di Stato volta a coordinare la disciplina del partenariato pubblico-privato del rin-novato Codice dei contratti pubblici con quanto previsto dall’art. 4, comma 2, lett. c), la quale è stata a sua volta modificata in ossequio alle indicazioni pervenute.

Nel primo comma dell’art. 17, inoltre, troviamo una specificazione in ordine ai rapporti di composizione interni alla società mista come dallo stesso declinata. Per le sole so-cietà costituite per le finalità di cui alla menzionata lettera c), la quota di partecipazione del soggetto privato non può essere inferiore al trenta per cento, mentre non è indica-to un limite massimo. Quanto alle rimanenti prescrizioni dell’art. 4 del d.lgs. 175/2016, il legislatore, nel delineare le attività per il cui svolgimento è consentita la costituzione o l’acquisizione/mantenimento di partecipazioni da parte delle amministrazioni pubbliche, non pone preclusioni particolari al fatto che le compagini societarie abbiano al loro in-terno dei privati. Ciò conduce a ritenere che per le società operanti nelle altre tipologie di attività assentite sia possibile procedere a ricercare un partner privato anche sola-mente finanziario e per quote di partecipazioni inferiori al 30%. In quest’ultimo senso, possiamo anzi osservare anzi come, nel caso delle società in house, il rispetto delle con-dizioni previste all’art. 5, comma 1, del d.lgs. 50/2016, come richiesto dalla definizione stessa di cui all’ 2, comma 1, lett. l), del Testo unico, rappresenta fattivamente un chiaro vincolo alla partecipazione di partner privati, ancor più di quanto accade per quelli indu-striali. Il riferimento è, in particolare, alla condizione indicata dalla lettera c) del richiama-to art. 5, comma 1, del nuovo Codice dei contratti, la quale richiede che «nella persona giuridica controllata non vi sia alcuna partecipazione diretta di capitali privati, ad ecce-zione di forme di partecipazione di capitali privati previste dalla legislazione nazionale, in conformità dei trattati, che non esercitano un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata».

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Il comma 2 stabilisce che il socio privato deve possedere i requisiti di qualificazione previsti da norme legali o regolamentari in relazione alla prestazione per cui la società è stata costituita, nonché i necessari requisiti di qualificazione generali e speciali di ca-rattere tecnico ed economico-finanziario, da specificare nel bando di gara unitamente al criterio di aggiudicazione.

Lo stesso comma definisce il contenuto del bando di gara, il quale deve specificare:

- l’oggetto dell’affidamento;- i necessari requisiti di qualificazione generali e speciali di carattere tecnico ed econo-

mico-finanziario dei concorrenti;- il criterio di aggiudicazione che garantisca una valutazione delle offerte in condizioni

di concorrenza effettiva in modo da individuare un vantaggio economico comples-sivo per l’amministrazione pubblica che ha indetto la procedura. I criteri di aggiudi-cazione possono includere, tra l’altro, aspetti qualitativi ambientali, sociali connessi all’oggetto dell’affidamento o relativi all’innovazione. In ordine ai criteri di aggiudi-cazione, viene lasciata la possibilità di includere aspetti qualitativi ambientali, sociali connessi all’oggetto dell’affidamento o relativi all’innovazione19.

All’avviso pubblico sono allegati la bozza dello statuto e degli eventuali accordi paraso-ciali, nonché degli elementi essenziali del contratto di servizio e dei disciplinari e regola-menti di esecuzione che ne costituiscono parte integrante.

La durata della partecipazione privata alla società, la quale non può essere superiore alla durata dell’appalto o della concessione. Correlata alla questione della durata è la previsione secondo la quale lo statuto deve prevedere meccanismi idonei a determinare lo scioglimento del rapporto societario in caso di risoluzione del contratto di servizio, da cui ritraiamo l’essenzialità di tale ultimo elemento, volto a regolare i rapporti tra le parti (comma 3). Oltre ai menzionati requisiti, viene anche contemplata la possibilità di inte-grare all’interno degli statuti alcune clausole derogatorie rispetto alle disposizioni del codice civile (comma 4), volte ad enfatizzare la natura e le ragioni del partenariato, pur restando entro le formule societarie civilistiche.

Una specifica norma – legata all’art. 17 ed alla necessità di una gara a doppio oggetto – è recata dall’art. 7, comma 5, rispetto al caso in cui sia prevista la partecipazione all’atto costitutivo di soci privati, ribadendo che la scelta di questi ultimi avviene con procedure di evidenza pubblica a norma dell’art. 5, comma 9, del d.lgs. n. 50 del 2016.

Il Codice dei contratti pubblici trova quindi un nuovo richiamo al sesto comma dell’art. 17.

Art. 17, comma 6Alle società di cui al presente articolo che non siano organismi di diritto pubblico, costi-

(19) Il legislatore evidenzia qui alcuni elementi, tuttavia segnalando come non si tratti di una elencazione non esaustiva.

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tuite per la realizzazione di lavori o opere o per la produzione di beni o servizi non desti-nati ad essere collocati sul mercato in regime di concorrenza, per la realizzazione dell’o-pera pubblica o alla gestione del servizio per i quali sono state specificamente costituite non si applicano le disposizioni del decreto legislativo n. 50 del 2016, se ricorrono le seguenti condizioni:

a. la scelta del socio privato è avvenuta nel rispetto di procedure di evidenza pubblica;b. il socio privato ha i requisiti di qualificazione previsti dal decreto legislativo n. 50 del

2016 in relazione alla prestazione per cui la società è stata costituita;c. la società provvede in via diretta alla realizzazione dell’opera o del servizio, in misura

superiore al 70% del relativo importo.Viene quindi chiamata in causa la definizione di organismo di diritto pubblico di cui all’art. 3, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 50/2016, secondo cui: «d) «organismi di dirit-to pubblico», qualsiasi organismo, anche in forma societaria, il cui elenco non tassa-tivo è contenuto nell’allegato IV20:

1) istituito per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale;

2) dotato di personalità giuridica;

3) la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico oppure la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi oppure il cui organo d’amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico».

(20) Allegato IV - Elenco degli organismi e delle categorie di organismi di diritto pubblico nei settori ordinari. Organismi: - Mostra d’oltremare S.p.A. - Ente nazionale per l’aviazione civile - ENAC - Società nazionale per l’assistenza al volo S.p.A. - ENAV - ANAS S.p.A. - Consip S.p.A. (Quando Consip agisce in qualità di centrale di committenza per la autorità sub-centrali) Categorie: - Consorzi per le opere idrauliche; - Università statali, gli istituti universitari statali, i consorzi per i lavori interessanti le università; - Istituzioni pubbliche di assistenza e di beneficenza; - Istituti superiori scientifici e culturali, osservatori astronomici, astrofisici, geofisici o vulcanologici; - Enti di ricerca e sperimentazione; - Enti che gestiscono forme obbligatorie di previdenza e di assistenza; - Consorzi di bonifica; - Enti di sviluppo e di irrigazione; - Consorzi per le aree industriali; - Comunità montane; - Enti preposti a servizi di pubblico interesse; - Enti pubblici preposti ad attività di spettacolo, sportive, turistiche e del tempo libero; - Enti culturali e di promozione artistica.

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Comuni d’Italia / 10/2016 / Il Mensile delle Amministrazioni Pubbliche

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Estinzione del rapporto di lavoroPolizia locale

Le cause di estinzione del rapporto di lavoro per la polizia localedi Luca Falcitano

Le cause di estinzione del rapporto nella polizia locale sono le seguenti:1. collocamento a riposo (pensionamento) per raggiunto limite dell’anziani-

tà massima in servizio;2. decesso del dipendente;3. risoluzione del rapporto di lavoro dopo il superamento del c.d. periodo

di “comporto” per un dipendente pubblico dichiarato non idoneo allo svolgimento di qualsiasi tipologia di lavoro all’interno;

4. dimissioni del dipendente (da presentarsi nelle modalità che vedremo a breve);

5. mobilità per trasferimento del dipendente ad altra amministrazione (ov-viamente questa cessazione è prevista solo per il datore di lavoro che era titolare del contratto di lavoro);

6. risoluzione del rapporto di lavoro a seguito di collocamento in disponibilità;7. licenziamento disciplinare con o senza preavviso.

Non essendoci nulla da dire per i primi due punti ed avendo già trattato della risoluzione del rapporto di lavoro in altra occasione (articolo nelle pre-cedenti edizioni di Crocevia), tratteremo immediatamente delle dimissioni volontarie.

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Polizia locale / Estinzione del rapporto di lavoro Comuni d’Italia / 10/2016

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Le dimissioni volontarieÈ l’art. 12 CCNL Enti locali 9 maggio 2006 a trattare delle dimissioni volontarie del di-pendente pubblico in riferimento ai termini di preavviso collegati alla risoluzione del rapporto di lavoro.

Il dipendente che decide di dimettersi deve inviare nei termini previsti (vedi nota 74) ap-posita comunicazione scritta all’amministrazione di dipendenza.

È in facoltà della parte che riceve la comunicazione di risoluzione del rapporto di lavoro di risolvere il rapporto stesso, sia all’inizio, sia durante il periodo di preavviso, con il con-senso dell’altra parte.

L’assegnazione delle ferie non può avvenire durante il periodo di preavviso. Pertanto, in caso di preavviso lavorato si dà luogo al pagamento sostitutivo delle stesse.

Il periodo di preavviso è computato nell’anzianità di servizio a tutti gli effetti.

La risoluzione del rapporto di lavoro per dimissioni volontarie opera dal primo giorno del mese successivo a quello di compimento dell’età prevista. L’amministrazione comuni-ca comunque per iscritto l’intervenuta risoluzione del rapporto di lavoro.

Il dipendente il cui rapporto di lavoro si sia interrotto per effetto di dimissioni può ri-chiedere, entro 5 anni dalla data delle dimissioni stesse, la ricostituzione del rapporto di lavoro.

In caso di accoglimento della richiesta, il dipendente è ricollocato nella medesima posi-zione rivestita, secondo il sistema di classificazione applicato nell’ente, al momento delle dimissioni.

Per effetto della ricostituzione del rapporto di lavoro, al lavoratore è attribuito il tratta-mento economico corrispondente alla categoria, al profilo ed alla posizione economica rivestita al momento della interruzione del rapporto di lavoro, con esclusione della re-tribuzione individuale di anzianità e di ogni altro assegno personale, anche a carattere continuativo e non riassorbibile.

Ovviamente la ricostituzione del rapporto di lavoro è subordinata alla disponibilità del corrispondente posto nella dotazione organica dell’ente.

La mobilità volontaria nella polizia localeEsistono due diverse tipologie di mobilità:

1. quelle c.d. permanenti in cui il dipendente passa definitivamente da un’amministra-zione ad un’altra. In questo caso l’istituto si perfeziona attraverso una cessione del contratto individuale di lavoro da un’amministrazione ad un’altra;

2. le mobilità temporanee invece come si può intuire dalla parola hanno carattere tem-

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Polizia locale / Estinzione del rapporto di lavoro Comuni d’Italia / 10/2016

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poraneo, ovverosia in questo caso il trasferimento da un’amministrazione ad un’altra avviene solo per un certo lasso di tempo, infatti titolare del rapporto di lavoro resta l’amministrazione di origine. In questa tipologia gli istituti più importanti sono il Co-mando e il distacco, che ai sensi dell’art. 2-sexies del d.lgs. 165/2001 possono essere utilizzate dalle pubbliche amministrazioni: “con le modalità previste dai rispettivi ordi-namenti, personale di altre amministrazioni per un periodo non superiore a tre anni, fermo restando quanto già previsto da norme speciali sulla materia, nonché il regime di spesa eventualmente previsto da tali norme e dal presente decreto”.

Anche un Agente di polizia locale, come tutti i dipendenti pubblici, può decidere di cambiare amministrazione attraverso l’istituto della mobilità volontaria, che consiste nel passaggio di un dipendente da un’amministrazione all’altra, su domanda del dipendente stesso, previa partecipazione ad una selezione pubblica di mobilità ai sensi dell’art. 30 del d.lgs. 165/2001 da parte della p.a. di destinazione e conseguente successivo accor-do tra le amministrazioni.

Ovviamente dopo aver partecipato ad un bando di selezione per mobilità, per dare esecuzione al trasferimento occorre il nullaosta definitivo da parte della propria ammini-strazione e si potrà quindi dar luogo al trasferimento solo se il datore di lavoro originario è d’accordo.

Va segnalato che per alcuni dipendenti pubblici l’approvazione del d.l. 90/2014 ha par-zialmente riformato l’art. 30 del d.lgs. 165/2001 (che parla dell’istituto della mobilità) relativamente al nullaosta preventivo da parte dell’amministrazione di provenienza, san-cendo, l’abolizione dell’obbligo dell’assenso dell’amministrazione di provenienza per “il trasferimento tra le sedi centrali di differenti ministeri, agenzie ed enti pubblici non eco-nomici nazionali”.

All’indomani dell’approvazione del d.l. 90/2014 la dicitura “enti pubblici non economi-ci” aveva fatto gioire moltissimi colleghi di diversi uffici pubblici, e questa falsa notizia dell’abolizione dell’obbligo del nullaosta preventivo al trasferimento per tutti i dipenden-ti pubblici (accentuata altresì dal grande clamore mediatico che è stato dato a questa riforma), ha creato moltissime discussioni nei forum specialistici su internet. Peccato che leggendo più attentamente la dicitura completa, ovverosia “enti pubblici non economi-ci nazionali”, tutti quanti hanno capito che la tanto pubblicizzata abolizione dell’assenso dell’amministrazione di appartenenza valeva solo per alcuni comparti a livello nazionale, con relativa esclusione, quindi, dei dipendenti degli Enti locali.

Per i dipendenti di quegli Enti nazionali, al momento, l’abolizione dell’obbligo dell’assen-so dell’amministrazione di provenienza, sembrerebbe avere natura temporanea, poiché, come si evince dallo stesso art. 4 del d.l. 90/2014, questa novità è da considerarsi “in via sperimentale e in attesa dell’introduzione di nuove procedure per la determinazione dei fabbisogni standard di personale delle amministrazioni pubbliche”.

Altra condizione da rispettare per il trasferimento con mobilità senza l’assenso dell’am-

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ministrazione di provenienza è che: “l’amministrazione di destinazione abbia una percen-tuale di posti vacanti superiore all’amministrazione di appartenenza”

L’amministrazione di destinazione provvede alla riqualificazione dei dipendenti la cui domanda di trasferimento è accolta, eventualmente avvalendosi, ove sia necessario pre-disporre percorsi specifici o settoriali di formazione, della Scuola nazionale dell’ammini-strazione. All’attuazione del presente comma si provvede utilizzando le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.

Il d.l. 90/2014 ha introdotto la possibilità, per le amministrazioni, di trasferire i propri di-pendenti in altra sede, sia rimanendo incardinati nell’organico dello stesso ente, sia pre-vedendo il trasferimento in altra amministrazione (previo accordo tra le stesse PA), con la sola condizione che le sedi siano collocate nel territorio dello stesso Comune, ovvero a distanza non superiore ai cinquanta chilometri.

Nell’approvazione di tale disposizione è stata prevista apposita deroga all’art. 2103 terzo periodo del codice civile che afferma che il prestatore di lavoro non può essere trasferi-to da una unità produttiva ad una altra se non per comprovate ragioni tecniche, organiz-zative e produttive.

Con il mantenimento di queste due ultime condizioni (collocamento nello stesso Comu-ne ovvero a distanza non superiore ai cinquanta chilometri), attraverso un decreto del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, previa consultazione ed eventuale intesa, ove necessario, con le confederazioni sindacali rappresentative, è sta-ta prevista, altresì, la possibilità di fissare dei criteri per il passaggio diretto di personale tra amministrazioni, senza preventivo accordo tra le stesse, al fine di garantire l’esercizio delle funzioni istituzionali da parte delle amministrazioni che presentano carenze di or-ganico.

Queste ultime disposizioni si applicano anche ai dipendenti con figli di età inferiore a tre anni, che hanno diritto al congedo parentale, e ai soggetti che usufruiscono dei per-messi di cui all’articolo 33, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 e successive modificazioni, previo l’ovvio consenso degli stessi alla prestazione della propria attività lavorativa in un’altra sede.

La disciplina della messa in disponibilità per la polizia localeLa messa in disponibilità è da ricomprendere tra le c.d. mobilità imposte dall’ammini-strazione.

In quest’ultimo caso è l’amministrazione che impone al dipendente il trasferimento, ciò può avvenire per due motivazioni oggettive:

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a) fusione e/o trasferimento di competenze tra diverse amministrazioni, con contestuale passaggio di personale da un ente ad un altro.

In caso di trasferimento di competenze tra amministrazioni qualora il dipendente rifiuti il trasferimento (sempreché non sia possibile ricollocare lo stesso dipendente all’interno dell’amministrazione che cede il servizio), è possibile procedere al licenzia-mento del licenziamento stesso;

b) dichiarazione di eccedenza di personale in relazione alle esigenze funzionali o alla situazione finanziaria dell’ente pubblico.

Ogni ente pubblico deve per legge effettuare una ricognizione annuale sulla propria dotazione organica per accertare se vi siano al proprio interno settori in cui vi sia ecce-denza di personale.

Qualora venga effettivamente accertata l’eccedenza di personale, scattano le procedure previste dall’art. 33 del d.lgs. 165/2001; in prima istanza si deve comunicare al Diparti-mento della Funzione pubblica, anche in sede di ricognizione annuale, l’avvenuto accer-tamento di eccedenza di personale presso l’amministrazione.

Va sottolineato che tutte le pubbliche amministrazioni hanno l’obbligo di effettuare la ricognizione annuale del personale, per le PA che non adempiono a tale obbligo scatta il divieto di assunzione.

Una volta avvertito il Dipartimento della Funzione Pubblica, ai sensi del comma 4 dell’art. 33 si deve dare un’informazione preventiva alla Rappresentanze Sindacali Unita-rie dell’Ente ed alle Organizzazioni Sindacali, riguardo alla procedura che l’ente stesso sta ponendo in essere.

L’informativa ai sindacati ex art. 33 d.lgs. 165/2001 è inoltrata dal dirigente dell’Ufficio in cui viene accertata l’eccedenza di personale. Lo stesso dirigente, qualora non ottemperi alle disposizioni di cui all’art. 33 del d.lgs. 165/2001 è passibile di responsabilità discipli-nare.

Questa che adesso viene definita semplicemente “un’informazione preventiva” alle OO.SS., in verità prevede, ai sensi dell’art. 6 del d.lgs. 165/2001, l’avvio di un esame congiunto con i Sindacati, al fine di individuare criteri e modalità per procedere ai col-locamenti in disponibilità dei dipendenti pubblici.

Decorsi 30 giorni dall’avvio dell’esame con le OO.SS. la pubblica amministrazione pro-cede alla dichiarazione di esubero del personale ed alla messa in mobilità del personale eccedente.

Prima delle recenti riforme del d.lgs. 165/2001, gli Enti che dovevano procedere al col-locamento di personale in disponibilità, avevano l’obbligo di indicare nell’informativa ai sindacati i motivi dell’esubero di personale, nonché le motivazioni (indicanti altresì gli impedimenti tecnici ed organizzativi) che impedivano di ricollocare il personale in ecces-so all’interno dell’amministrazione stessa.

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Su questa informativa ai Sindacati si apriva il confronto tra le OO.SS. stesse e l’ammini-strazione, ed in caso di disaccordo il confronto proseguiva, con l’obbligo di partecipa-zione dell’ARAN, presso il Dipartimento della Funzione Pubblica.

È evidente quindi che adesso con la trasmissione della sola “informativa” ai Sindacati è scomparsa la possibilità dell’esame congiunto riguardo alle motivazioni dell’esubero, infatti diversamente da quanto previsto prima delle recenti modifiche, il T.U. non pre-vede che cosa debba essere scritto nell’informativa ai sindacati, lasciando quindi libe-ro il contenuto.

Bisogna altresì notare come, diversamente dal settore privato, nell’art. 33 del T.U.P.I. non vi sia alcun riferimento relativamente al numero dei dipendenti in eccesso necessario per dichiarare lo stato di eccedenza di personale.

Trascorsi dieci giorni dall’informazione ai Sindacati, l’amministrazione deve applicare l’art. 72, comma 11, d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla l. 6 agosto 2008, n. 133, ovvero verificare se tra i dipendenti in eccesso vi sia da collocare a riposo il personale che ha raggiunto l’anzianità massima di servizio.

Quanto appena indicato è contenuto nel comma 5 dell’art. 33 del d.lgs. 165/2001 e si tratta di una norma concepita al fine di agevolare il processo di riduzione degli assetti organizzativi delle pubbliche amministrazioni.

Qualora non vi sia personale da collocare a riposo l’amministrazione deve verificare se vi sia possibilità di ricollocare i dipendenti in eccesso all’interno della stessa amministrazio-ne ovvero presso altre amministrazioni comprese nell’ambito del territorio della Regione; per i passaggi ad altre amministrazioni al di fuori del territorio regionale si farà riferimen-to ai singoli CCNL di ogni comparto.

Qualora non sia possibile ricollocare il personale in esubero, trascorsi 90 giorni dall’In-formativa ai Sindacati, l’amministrazione colloca in disponibilità i dipendenti.

Dalla data di collocamento in disponibilità il lavoratore ha diritto per 24 mesi ad un’inden-nità pari all’80 % dello stipendio più l’eventuale assegno familiare a cui si ha diritto, con la sospensione di tutte le obbligazioni inerenti al rapporto di lavoro e la sospensione di qual-siasi altro emolumento retributivo, fatta eccezione per quanto indicato poc’anzi.

I periodi di godimento dell’indennità sono riconosciuti ai fini della determinazione dei requisiti di accesso alla pensione, nonché della misura della pensione stessa.

Al termine dei 24 mesi il dipendente è da intendersi licenziato.

Va specificato che secondo la dottrina in verità al termine dei 24 mesi di messa in dispo-nibilità non ci si trova davanti ad un licenziamento ma bensì ad risoluzione automatica ex lege del rapporto, in quanto non è necessario alcun atto di recesso né tanto meno il preavviso.

La nuova disciplina introdotta dall’art. 5 del d.l. 90/2014 (che ha modificato l’art. 34 del d.lgs. 165/2001) ha previsto la possibilità, per il dipendente collocato in disponibilità, di

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Polizia locale / Estinzione del rapporto di lavoro Comuni d’Italia / 10/2016

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richiedere, negli ultimi sei mesi prima del licenziamento definitivo, di essere ricolloca-to in deroga all’articolo 2103 del codice civile (che tra l’altro sancisce che un lavoratore non può essere adibito a mansioni lavorative inferiori a quelle per cui è stato assunto) nell’ambito dei posti vacanti in organico, in una qualifica inferiore o in posizione econo-mica inferiore della stessa o di inferiore area o categoria di un solo livello per ciascuna delle suddette fattispecie.

Qualora qualche dipendente venga ricollocato in una qualifica inferiore, perde il diritto all’indennità prevista per il collocamento in disponibilità, ma mantiene il diritto di essere successivamente ricollocato nella propria originaria qualifica e categoria di inquadra-mento, anche attraverso le procedure di mobilità volontaria di cui all’articolo 30 del d.l-gs. 165/2001.

Questa tipologia di ricollocazione non può avvenire prima dei trenta giorni anteriori alla data di scadenza dei 24 mesi di cui all’articolo 33, comma 8 del d.lgs. 165/2001.

Tratteremo del licenziamento con o senza preavviso alla luce delle recentissime modifiche introdotte, nei prossimi articoli quando ci occuperemo del procedimento disciplinare.

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Comuni d’Italia / 10/2016 / Il Mensile delle Amministrazioni Pubbliche

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Unioni civili: la scelta del cognomeServizi demografici

La scelta del cognome nella coppia dell’unione civiledi Tiziana Piola

La legge 20 maggio 2016, n. 76 “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”, entrata in vigo-re il 5 giugno 2016, ha introdotto al comma 10 un’importante e soprattutto rivoluzionaria novità nella coppia: “Mediante dichiarazione all’ufficiale di sta-to civile le parti possono stabilire di assumere, per la durata dell’unione tra persone delle stesso sesso, un cognome comune scegliendolo tra i loro cognomi. La parte può anteporre o posporre al cognome il proprio cogno-me, se diverso, facendone dichiarazione all’ufficiale di stato civile”.

L’intenzione del legislatore era sicuramente quella di rafforzare il concetto di formazione so-ciale sancito dall’articolo 2 della Costituzione, marcando maggiormente il termine “famiglia” per quelle coppie che hanno dovuto sopportare un iter legislativo alquanto travagliato. Tut-tavia il legislatore ha effettuato una scelta che non trova corrispondenza in nessuna altra nor-ma del nostro ordinamento italiano: in Italia a seguito del matrimonio la coppia non assume un cognome di famiglia, come invece è disciplinato da ordinamenti di altri Stati. Inoltre, se da un lato la legge assicura un riconoscimento aggiuntivo al termine “coppia”, dall’altro, trat-tandosi di un vero e proprio cambiamento di cognome, comporta un mutamento di identità che incide sulla vita di ciascuno. La sfera affettiva è soddisfatta ma non quella burocratica: le parti che assumono un nuovo cognome dovranno modificare i propri documenti, il codice fiscale, c’è una ripercussione su eventuali figli, anche maggiorenni. Ma vediamo cosa com-porta una simile decisione.

Ad oggi il codice civile italiano stabilisce all’articolo 143 bis: “La moglie aggiunge al pro-prio cognome quello del marito e lo conserva durante lo stato vedovile, fino a che passi

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a nuove nozze” Si tratta di un automatismo normativo, che peraltro non trova applica-zione pratica, retaggio di una cultura patriarcale, sul quale il legislatore non è mai inter-venuto per modificarlo, nemmeno in occasione della riforma del diritto di famiglia. La Corte di cassazione in una sentenza del 13 luglio 1961 ha affermato: l’art. 143 bis del co-dice civile va interpretato nel senso che la moglie ha il diritto, non l’obbligo, di aggiun-gere il cognome del marito al proprio. Ancora secondo il Consiglio di Stato nel parere n. 1746/97 del 10 dicembre 1997, “ai fini dell’identificazione della persona vale esclusi-vamente il cognome da nubile”. Neppure nel disegno di legge, che è stato avanzato in Italia sulla modifica dell’attribuzione del cognome ai figli, si fa cenno al “cognome di famiglia”. Nella legislazione tedesca invece, in caso di matrimonio è possibile determina-re un cognome di famiglia comune direttamente avanti al funzionario, che ha celebrato il matrimonio civile. Il coniuge, il cui cognome non è stato scelto come cognome comu-ne di famiglia, può scegliere di fare anteporre o seguire il proprio cognome originario a quello comune di famiglia.

Nella nuova legge sulle unioni civili, invece, il diritto garantito dalla coppia è stato inter-pretato dal decreto attuativo1 e anche dalle indicazioni operative del Ministero dell’In-terno2, in questa fase transitoria in attesa delle modifiche al regolamento di stato civile, come un vero e proprio cambiamento di cognome: non a caso viene apposta un’anno-tazione modificativa a margine dell’atto di nascita della parte che ha assunto il nuovo cognome, determinandone una nuova identità.

Analizziamo le norme: dal tenore del comma 10 articolo 1 della legge n. 76/2016 si evin-cono due possibilità per le parti che si vogliono unire civilmente:

1. Si può assumere un solo cognome nella coppia, scegliendolo fra quelli posseduti dal-le parti.

2. Si può decidere di aggiungere al cognome posseduto dalla parte un cognome co-mune, scelto tra quelli posseduti nella coppia. La parte può decidere di anteporre o posporre tale cognome.

Esempi pratici: le parti si chiamano, una ROSSI e l’altra VERDI

a) le parti possono dichiarare di scegliere un cognome comune per entrambi: ROSSI;

Ciò sta a significare che, per chi possedeva già il cognome Rossi, non cambia nulla, mentre colui che si chiamava Verdi, può decidere di sostituire il suo cognome Verdi con il cognome Rossi.

b) le parti hanno scelto il cognome comune ROSSI: una parte continuerà a chiamarsi ROS-SI, l’altra parte potrà scegliere di chiamarsi ROSSI VERDI oppure VERDI ROSSI. Sempre la

(1) D.P.C.M. 23 luglio 2016, n. 144: “Regolamento recante disposizioni transitorie necessarie per la tenuta dei registri nell’archivio dello stato civile, ai sensi dell’articolo 1, comma 34, della legge 20 maggio 2016, n. 76. (16G00156) (GU n.175 del 28-7-2016 ) “

(2) D.M. 28 luglio 2016: “Approvazione delle formule per gli adempimenti degli ufficiali di stato civile, in materia di unioni civili tra persone dello stesso sesso”

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parte che subirà il cognome, vedrà modificata la sua identità nell’atto di nascita.

Tale scelta deve essere effettuata di fronte all’ufficiale di stato civile e dal tenore delle formule in due momenti diversi.

1) Le parti possono decidere di assumere il “cognome di famiglia” durante la costituzione dell’unione civile. Nella formula n. 4 predisposta dal Ministero dell’Interno è indicato: “le parti, contestualmente, mi hanno dichiarato di voler assumere per l’intera durata dell’u-nione, scegliendolo tra i loro cognomi, il seguente cognome comune: ...” (indicare il co-gnome di una delle parti e se lo stesso sia anteposto o posposto al cognome dell’altra).Ciò sta a significare che le parti possono decidere di possedere un cognome comu-ne, ma la parte che non aveva tale cognome può, sempre nella stessa sede, decidere di anteporre o posporre il cognome scelto, oltre a sostituirlo completamente.

2) Le parti possono decidere di assumere il “cognome di famiglia” dopo aver costituito l’unione civile: né la legge, né il d.P.C.M. dà un termine a questa scelta. Quindi le par-ti potrebbero cambiare il proprio cognome anche molto tempo dopo la costituzione dell’unione, l’importante è che il mutamento avvenga durante la durata dell’unione.

Il d.P.C.M. non specifica il momento in cui deve essere recepita la dichiarazione, all’art. 4 infatti: “Nella dichiarazione di cui all’articolo 3, le parti possono indicare il cognome co-mune che hanno stabilito di assumere per l’intera durata dell’unione ai sensi dell’articolo 1, comma 10, della legge. La parte può dichiarare all’ufficiale di stato civile di voler an-teporre o posporre il proprio cognome, se diverso, a quello comune”. Qui si parla solo della dichiarazione resa nell’ambito della dichiarazione di costituzione dell’unione civile. Mentre il Ministero dell’interno prevede una formula specifica, la numero 6, da iscrivere sempre nel registro provvisorio delle unioni civili. La norma, inoltre, non indica quale sia l’ufficiale di stato civile competente a ricevere la dichiarazione. Quindi si suppone qua-lunque ufficiale di stato civile, anche se per comodità le parti sceglieranno l’ufficiale di stato civile del comune di loro residenza.

Tale scelta dichiarata nella costituzione dell’unione civile oppure a seguito dell’unione ci-vile, si configura come un vero e proprio cambiamento di cognome con le conseguenze giuridiche che ne derivano.

A tal proposito citiamo l’art 49 lettera p) del d.P.R. 396/2000: “negli atti di nascita si an-notano i provvedimenti che determinano il cambiamento o la modifica del nome o del cognome relativi alla persona cui l’atto si riferisce; quelli che determinano il cambiamen-to o la modifica del cognome relativi alla persona da cui l’intestatario dell’atto ha deri-vato il cognome, salvi i casi in cui il predetto intestatario, se maggiorenne, si sia avvalso della facoltà di poter mantenere il cognome precedentemente posseduto”.

Dalla norma discendono due aspetti operativi:

1. il cambiamento di cognome deve essere annotato sull’atto di nascita della parte, al fine del suo cambiamento di identità;

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2. anche i figli, che derivano il cognome dal genitore che lo ha modificato, automatica-mente cambiano il loro cognome.

Per quanto riguarda il primo punto, allo stato attuale se non viene modificato il regola-mento di stato civile, occorrerà apporre sull’atto di nascita della parte un’annotazione, come previsto dalla nuova formula 17: “con dichiarazione costitutiva di unione civile del ... ( indicare tutti gli estremi del o dei provvedimenti), iscritta nel registro provvisorio del-le unioni civili del Comune di ................. anno ................. parte ................. serie ................. n. ..., ................. ( nome e cognome) ha anteposto/posposto al suo cognome il cognome comune dell’unione civile di seguito indicato: .................”.

Dalla lettura della formula sorgono due incongruenze rispetto alla norma:

- sembrerebbe che la volontà di cambiamento del cognome possa essere espressa solo nell’atto di costituzione dell’unione e non anche successivamente, visto il richiamo degli estremi dell’atto dell’unione;

- sembrerebbe che la parte possa decidere solo di anteporre o posporre il cognome comune scelto e non anche di sostituirlo.

Certo è che se le parti sono intenzionate a individuare un cognome comune, non vedo problemi ostativi affinché la parte che subisce il cambiamento non possa sostituire com-pletamente il proprio cognome, anche perché non saprei proprio individuare motivi di rifiuto, vista la legge così generale.

A questo punto, una volta deciso il cambiamento del cognome, occorre procedere alle variazioni sugli atti di stato civile.

Verrà apposta anche l’annotazione a margine dell’atto dell’unione civile: “Annotazione nell’at-to di costituzione dell’unione della scelta del cognome (articolo 4, decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri ................. 2016, n. ...) ................. (cognome e nome di una della parti) ha assunto il nuovo cognome ................. come da dichiarazione resa nell’atto controscritto). Ram-mentiamo che quest’ultima annotazione non deve essere certificata, ma nei certificati dovran-no essere già modificate le generalità.

Non è stata predisposta la formula di cambiamento di cognome quando la dichiarazio-ne è resa dopo la costituzione dell’unione, ma a mio avviso, devono essere sempre mo-dificate le generalità anche nell’atto dell’unione civile.

Dalla disamina sopra riportata si evince chiaramente la portata di un simile cambiamen-to: il soggetto cambia le generalità con le quali potrà essere identificato. Non è un pro-blema da sottovalutare, poiché la parte, che subisce il mutamento, dovrà cambiare:

- tutti i documenti di riconoscimento: tra i quali la carta d’identità, la patente ed il pas-saporto;

- il codice fiscale che serve a identificare in modo univoco ai fini fiscali ed amministrati-vi i cittadini;

- eventuali contratti privatistici;

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- i conti correnti, depositi, fondi ed investimenti bancari;- la posizione INPS e così via.Sicuramente nell’assicurare un obiettivo lodevole, il legislatore non ha “calcolato” le pesanti conseguenze. Se la moglie aggiunge al proprio cognome quello del marito, per lo Stato non c’è problema: il nuovo “cognome di famiglia” può essere affiancato a quello da nubile sulla carta di identità, e nulla più, poiché l’identità rimane inalterata. Se un omosessuale, invece, decide di cambiare il proprio cognome assumendo quello del compagno (o della compagna) viene automaticamente inserito nel suo codice fiscale, dopo tutte le variazioni di stato civile ed anagrafiche sopra evidenziate. In pratica cam-bia identità, con una serie di conseguenze non indifferenti.

È indispensabile pertanto che l’ufficiale di stato civile che recepisce una simile dichiara-zione, renda edotte le parti affinché queste ultime siano ben consapevoli delle conse-guenze giuridiche.

Il secondo aspetto operativo che incide ulteriormente, riguarda il cambiamento del cogno-me ai figli. Se il genitore cambia il cognome, il cognome viene cambiato in automatico an-che a coloro che derivano il cognome da colui che lo ha cambiato per cui ai figli minori vie-ne cambiato automaticamente il cognome apponendo sul loro atto di nascita la formula 160 del d.m. 5 aprile 2002:

Annotazione di cambiamento o di modifica di cognome o di nome, o di entrambi, relativi al padre o alla madre (articolo 49, primo comma, lettera p) del decreto del presidente della Re-pubblica 3 novembre 2000, n. 396).

- ... (nome e cognome), padre (o: madre) di ..., ha assunto il nuovo cognome: ..., come da annotazione apposta all’atto di nascita n. ... parte ... serie ... anno ... del Comu-ne di ...”.

Quindi se un omosessuale e ha avuto in precedenza dei figli, e a tali figli è stato attribu-ito il proprio cognome, questi lo cambiano assumendo il nuovo cognome del padre o della madre (nel caso di donna che ha riconosciuto da sola il proprio figlio).

È appena il caso di ricordare che a garanzia del diritto di mantenimento dell’identità, occor-re avvisare l’altro genitore, che svolge il ruolo di tutore, esercitando la propria responsabi-lità genitoriale insieme all’ex compagno/a. Una comunicazione, in applicazione della legge 241/1990 sarà più che opportuna. Tuttavia questo genitore non potrà opporsi al mutamen-to del cognome del proprio figlio di fronte all’ufficiale di stato civile, poiché quest’ultimo applica tassativamente la legge. Nel caso in cui l’altro genitore avesse da presentare le proprie osservazioni, potrà recarsi esclusivamente dal Giudice, il quale valuterà l’interesse del minore ascoltando i genitori ed eventualmente anche il minore se ha più di 12 anni.

Per quanto riguarda il maggiorenne, rammentiamo l’articolo 33 del d.P.R. 396/2000: “Il figlio maggiorenne che subisce il cambiamento o la modifica del proprio cognome a seguito della variazione di quello del genitore da cui il cognome deriva (...) hanno facoltà di scegliere, entro un anno dal giorno in cui ne vengono a conoscenza, di mantenere il

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cognome portato precedentemente, se diverso, ovvero di aggiungere o di anteporre ad esso, a loro scelta, quello del genitore”.

Ciò sta a significare che anche il maggiorenne subisce il cambiamento, ma ha la facoltà en-tro un anno dal giorno in cui ne è venuto a conoscenza, di dichiarare di voler mantenere il cognome portato precedentemente.

Dal punto di vista operativo, il maggiorenne subisce la variazione apportando l’anno-tazione di cambiamento del cognome a margine del suo atto di nascita con la formula summenzionata n. 160.

L’ufficiale di stato civile dovrà avvisare immediatamente per lettera raccomandata dell’accaduto il maggiorenne, affinché quest’ultimo possa decidere, eventualmente, di mantenere il cognome da lui sempre posseduto senza subire variazioni.

Il maggiorenne può mantenere il cognome precedente, mediante dichiarazione resa di fronte all’ufficiale di stato civile con formula 114-quater del d.m. 5 aprile 2002, che dovrà essere annotata sul suo atto di nascita con formula 160-bis del d.m. 5 aprile 2002.

Nella pratica, al fine di evitare che anche solo per un giorno il maggiorenne possa subi-re il cambiamento con le conseguenze sopra riportate, l’ufficiale di stato civile lo potrà avvisare prima di procedere alla variazione anagrafica in modo tale che il maggiorenne possa rendere contestualmente la dichiarazione di mantenimento del cognome.

L’assunzione del nuovo cognome per la coppia dell’unione civile, ha un termine: “per la durata dell’unione civile”.

La legge prevede un automatismo esplicito, la decisione non dura per sempre: le parti torneranno al proprio cognome a seguito dello scioglimento dell’unione che potrà avve-nire per morte o per scioglimento giurisdizionale o amministrativo.

Da ciò ne consegue il moltiplicarsi degli aspetti operativi problematici per gli ufficiali di stato civile Si prevederà allora di apporre un’annotazione a margine dell’atto di nascita a seguito di quella che scioglie l’unione. Ai figli che derivano il cognome dal genitore, che lo modifica nuovamente, verrà attribuito il “vecchio cognome”: insomma un “pasticcio burocratico che ha notevoli conseguenze sia sul piano morale, materiale che giuridico.

Un articolo di legge apparentemente innocuo, ma che nei fatti è un totale cambio di identi-tà. Il nome è il segno che identifica ogni persona e, in quanto tale, costituisce parte essen-ziale e irrinunciabile della personalità, quale primo e più immediato elemento dell’identità personale. La pretesa del legislatore di modificare un nome già attribuito a un individuo sembrerebbe un’ingerenza nella vita privata e familiare oltreché discriminatoria visto che ciò non accade per i matrimoni.

Rammentiamo che il comportamento che l’ufficiale di stato civile deve tenere è solo transitorio: infatti entro la fine dell’anno interverranno i decreti attuativi legislativi3 a mo-

(3) Art. 1, comma 28 legge 20 maggio 2016, n. 76: “Fatte salve le disposizioni di cui alla presente legge, il Governo è delegato

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difica del regolamento di stato civile e delle leggi connesse quale, tra le altre, il diritto internazionale privato.

Ci si augura, pertanto che il comma 10 della legge possa essere interpretato diversamente consentendo alle parti dell’unione civile di poter assumere, mediante dichiarazione all’ufficia-le di stato civile, per la durata dell’unione civile, un cognome in analogia a quanto previsto dall’articolo 143-bis c.c. per il cognome della moglie, e che quindi tale eventuale dichiara-zione non comporti una vera e propria modifica del cognome, con conseguente variazione anagrafica ma abbia il solo effetto di consentirne l’uso, per la durata dell’unione civile.

Tale soluzione interpretativa è più vicina all’istituto del matrimonio e meno dolorosa dal punto di vista giuridico.

ad adottare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o piu’ decreti legislativi in materia di unio-ne civile tra persone dello stesso sesso nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi: a) adeguamento alle previsioni della presente legge delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni; b) modifica e riordino delle norme in materia di diritto internazionale privato, prevedendo l’applicazione della disciplina dell’unione civi-le tra persone dello stesso sesso regolata dalle leggi italiane alle coppie formate da persone dello stesso sesso che abbiano contratto all’estero matrimonio, unione civile o altro istituto analogo; c) modificazioni ed integrazioni normative per il necessario coordinamento con la presente legge delle disposizioni contenute nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti e nei decreti“.