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La scelta pubblica Capitolo 6 1. Prime definizioni Le teorie della scelta pubblica estendono gli strumenti analitici del- l’economia alle decisioni non di mercato [Mueller 1989, 1]. L’obiettivo è studiare l’interazione tra attori razionali in contesti quali i parlamen- ti, le elezioni, le amministrazioni. La public choice può essere dunque considerata come la zona di intersezione tra scienze economiche e scienze politiche. A fare da cerniera tra questi due paradigmi sono proprio i concetti di scelta e di pubblico. Scegliere significa rinunciare a qualcosa a favo- re di qualcos’altro. Come abbiamo visto nel terzo capitolo, il presup- posto fondamentale del modo di ragionare dell’economia è la consta- tazione che «nessun pasto è gratis»: quindi, stabilire delle priorità è sia una necessità legata al nostro stare in un mondo di risorse non infini- te, sia una facoltà legata alla nostra capacità di ragionare. L’idea di pubblico ha a che vedere con i vincoli che collegano i nostri destini individuali a quelli dei nostri simili. Sono impegnati in decisioni pubbliche una famiglia che sceglie dove andare in ferie, un condominio che valuta se cambiare la caldaia, una nazione che vota in un referendum tra monarchia o repubblica. Gli effetti delle decisioni pubbliche ricadono anche su quanti non le condividono e su quanti non partecipano, perché esclusi o autoesclusi, ad esempio perché non vogliono spendere tempo e denaro ad occuparsi di tali questioni. In ogni caso, come abbiamo già sottolineato nel primo capitolo, questo aggettivo non ha relazione né con il diritto pubblico, né con la presen- za di spettatori, ma soltanto con situazioni in cui per il singolo indivi- duo è impossibile seguire in totale autonomia le proprie preferenze, perché occorre confrontarsi con quelle degli altri. Il riferimento all’economia comporta una precisa scelta di campo sul piano metodologico. Gli studi di cui ci occupiamo in questo capi- tolo utilizzano infatti logiche deduttive per ampliare la conoscenza dei

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Page 1: La scelta pubblica Capitolo 6 - politichepubbliche.org · La scelta pubblica Capitolo 6 1. Prime definizioni Le teorie della scelta pubblica estendono gli strumenti analitici del-l’economia

La scelta pubblica Capitolo 6

1. Prime definizioni

Le teorie della scelta pubblica estendono gli strumenti analitici del-l’economia alle decisioni non di mercato [Mueller 1989, 1]. L’obiettivoè studiare l’interazione tra attori razionali in contesti quali i parlamen-ti, le elezioni, le amministrazioni. La public choice può essere dunqueconsiderata come la zona di intersezione tra scienze economiche escienze politiche.

A fare da cerniera tra questi due paradigmi sono proprio i concettidi scelta e di pubblico. Scegliere significa rinunciare a qualcosa a favo-re di qualcos’altro. Come abbiamo visto nel terzo capitolo, il presup-posto fondamentale del modo di ragionare dell’economia è la consta-tazione che «nessun pasto è gratis»: quindi, stabilire delle priorità è siauna necessità legata al nostro stare in un mondo di risorse non infini-te, sia una facoltà legata alla nostra capacità di ragionare.

L’idea di pubblico ha a che vedere con i vincoli che collegano inostri destini individuali a quelli dei nostri simili. Sono impegnati indecisioni pubbliche una famiglia che sceglie dove andare in ferie, uncondominio che valuta se cambiare la caldaia, una nazione che vota inun referendum tra monarchia o repubblica. Gli effetti delle decisionipubbliche ricadono anche su quanti non le condividono e su quantinon partecipano, perché esclusi o autoesclusi, ad esempio perché nonvogliono spendere tempo e denaro ad occuparsi di tali questioni. Inogni caso, come abbiamo già sottolineato nel primo capitolo, questoaggettivo non ha relazione né con il diritto pubblico, né con la presen-za di spettatori, ma soltanto con situazioni in cui per il singolo indivi-duo è impossibile seguire in totale autonomia le proprie preferenze,perché occorre confrontarsi con quelle degli altri.

Il riferimento all’economia comporta una precisa scelta di camposul piano metodologico. Gli studi di cui ci occupiamo in questo capi-tolo utilizzano infatti logiche deduttive per ampliare la conoscenza dei

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fatti sociali: per questo sono spesso individuati con termini quali teoriededuttive (o razionali, o assiomatiche, o formali) della scelta pubblica(o sociale, o collettiva)1 [Muzzio e De Maio 1988, 128]. Ad accomuna-re queste diverse denominazioni è il fatto di applicare il metodo de-duttivo ad alcune assunzioni di base sulle caratteristiche degli attori,mutuate dalle teorie microeconomiche e in genere riassunte con l’eti-chetta di individualismo metodologico.

In effetti il nome dato a questo capitolo è un po’ riduttivo, perchéil suo obiettivo è fornire una prima, semplice introduzione all’interoarco dei contributi che la teoria politica positiva può dare allo studiodelle politiche pubbliche. Dunque nel paragrafo 3, accanto alla publicchoice in senso tecnico, saranno presentati altri approcci teorici, qualile teorie dei giochi e delle scelte sociali.

1.1. Un’appartenenza controversa

La diretta derivazione dall’economia rende altamente controversal’appartenenza di questi approcci all’area dei policy studies. TheodoreLowi, tra i più eminenti studiosi di politiche pubbliche, nel discorsotenuto nel 1992 quale presidente dell’APSA, considera la public choicee la public policy come due modi alternativi di fare scienza politica2.

Se è vero che anche i paradigmi presentati nei capitoli precedentisono oggetto di valutazioni discordanti, tuttavia pochi mettono in dub-bio il loro diritto di cittadinanza nel territorio dei policy studies. Inquesto caso è diverso: secondo una parte rilevante della disciplina, leteorie che gravitano intorno a questa quarta ed ultima casella occupe-rebbero abusivamente tale spazio, perché muoverebbero da presuppo-sti analitici del tutto incompatibili con il concetto di politica pubblica.

Contro questa posizione, stanno le argomentazioni di quanti con-siderano non solo non incompatibili, ma per certi versi convergenti ledue prospettive, quella orientata alle politiche pubbliche e quellaorientata alle scelte pubbliche. Se facciamo nostra questa tesi, non èper rispettare la simmetria della mappa 2 X 2 che ci ha guidato fin dalsecondo capitolo. È vero che ricondurre le politiche pubbliche alla piùgenerale categoria delle scelte pubbliche richiede il sacrificio di tuttiquegli aspetti che solo una descrizione «naturalistica» dei processi puòcogliere: tuttavia i limiti ci sembrano ampiamente superati dai vantag-gi, in termini di parsimonia, di acutezza e di trasparenza dei modelliesplicativi.

Per capire meglio i motivi dell’inclusione di queste teorie nel no-stro percorso, conviene riprendere i punti fondamentali di questa po-lemica.

1 Benché questi termini non siano sinonimi, nell’uso sono spesso interscambiati.2 Una terza alternativa è identificata da Lowi nello studio dell’opinione pubblica.

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1.2. Quale razionalità in una scelta razionale?

Un primo gruppo di autori contesta il contributo della public choicesottolineando i limiti dei suoi assunti teorici fondamentali. Secondoquesta posizione critica, i concetti di razionalità e di autointeresse, chestanno alla base dell’individualismo metodologico, sarebbero incompa-tibili con quello che le ricerche empiriche ci raccontano circa il modo dicomportarsi dei policy makers e dei policy takers. Vediamo dunque piùda vicino le reali implicazioni di questa scelta di paradigma.

L’individualismo metodologico. Per le teorie razionali, protagonistidelle scelte, private o pubbliche, sono sempre e soltanto gli individui:

Quando adotto l’individualismo metodologico, presuppongo che gli indi-vidui siano le unità analitiche di base per fare teoria politica. Si inizia consi-derando alcune caratteristiche essenziali degli esseri umani. Sono gli individuiche percepiscono, pensano, valutano, scelgono e agiscono. Le organizzazioninon sono altro che aggregazioni di individui per realizzare qualche vantaggiocongiunto o qualche bene pubblico [V. Ostrom 1977, 1511].

L’attribuzione della facoltà di scelta a organismi collettivi, quali ilparlamento, o il governo, o l’elettorato, è solo una metafora approssi-mativa e spesso fuorviante, perché capace di occultare la radicale dif-ferenza che esiste tra il decidere da soli e il decidere in tanti [Bucha-nan 1990]. Dunque, concetti quali «l’intenzione del legislatore» sonoun ossimoro [Shepsle 1992].

Occorre comunque sottolineare che questa impostazione non com-porta l’idea che le persone agiscano ignorando l’esistenza degli altri. Comepuntualmente sottolinea Vincent Ostrom [1977, 1511], l’individualismometodologico è ben diverso da una scelta individualistica, perché quest’ul-tima ammette che la singola persona possa prescindere dagli altri e dalleloro preferenze, situazione che non si dà mai nelle scelte pubbliche.

Il concetto di preferenza. L’individualismo metodologico identificagli attori in base alle preferenze che manifestano. Perché un attore siaconsiderato razionale, occorre che le sue preferenze rispettino alcunielementari criteri.

Innanzi tutto, devono esistere. Detto in modo meno banale, da-vanti a due alternative, x e y, un individuo deve essere in grado di ri-conoscersi in una di questi tre condizioni:

• preferire x a y;• preferire y a x;• essere indifferente tra x e y.In altre parole, l’individuo razionale deve essere capace di dare un

ordine alle sue preferenze circa tutte le situazioni che gli si possonopresentare davanti3.

3 Si noti che questa condizione consente la collocazione di due o più alternative«a pari merito».

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In secondo luogo, l’ordine delle preferenze deve rispettare la pro-prietà transitiva. Se considero x preferibile a y (x > y), e y preferibile az (y > z), devo considerare x preferibile a z (x > z). Se il mare mi piacepiù della montagna, e la montagna più della campagna, deve anchepiacermi più il mare della campagna.

Si noti che questi requisiti non ci dicono assolutamente nulla circai contenuti delle preferenze; non ci suggeriscono che cosa sia giusto orazionale scegliere. Nel terzo capitolo, abbiamo usato un concetto dirazionalità che ci portava a concludere che, per prendere una mosca,è più efficiente, e quindi più razionale, usare la paletta anziché ricorre-re alla camera a gas. Secondo il criterio di razionalità utilizzato in que-sto capitolo, che io preferisca ammazzare la mosca con la paletta, conla camera a gas, o facendo esplodere la casa, non fa alcun problema.Quel che serve è semplicemente la capacità di schierarsi rispetto allealternative, e di farlo in modo coerente. Questa base è infatti sufficien-te per costruire il concetto di funzione di utilità.

La funzione di utilità. «Un importante risultato della teoria econo-mica è stato il mostrare che, se le preferenze di una persona rispetta-no certi assiomi di coerenza e continuità, allora queste preferenzepossono essere rappresentate da una ben definita (e continua) funzio-ne di utilità. Pertanto, per quella persona, il comportamento raziona-le – così come definito dal modello basato su preferenze e opportu-nità – equivale alla massimizzazione della sua utilità» [Harsanyi1977b, 86].

Anche in questo caso, occorre notare che, nonostante i significatievocati dal termine usato, una funzione di utilità non è altro che unarappresentazione matematica delle preferenze di un individuo circa lediverse combinazioni di beni legate alle varie alternative possibili. Direche una persona sta massimizzando la sua funzione di utilità equivalea dire che sta cercando di ottenere quel che più le sta a cuore, che sitratti dell’istruzione dei figli o di una vincita alla roulette.

1.3. Primi equivoci

Di per sé, dunque, l’individualismo metodologico non richiedeattori né particolarmente sofisticati nel valutare le varie alternative, nécinicamente concentrati su valori venali.

I presupposti su cui si basa sono implicitamente adottati dalla stra-grande maggioranza delle persone in molte situazioni della vita di tuttii giorni. Quando vediamo un posto libero per il parcheggio in unastrada trafficata, e abbiamo un’auto davanti a noi che, come noi, cercaun posteggio, non attendiamo che ci ceda il posto, ma ci comportiamosulla base della realistica ipotesi che lo vada ad occupare. Al super-mercato ci mettiamo in fila alla cassa con la coda più corta: e dato che

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tutti ragioniamo così, le casse tendono ad avere le code della stessalunghezza.

Dunque, parlare di utilità non richiede alcuna adesione a una vi-sione edonistica o grettamente materialistica: «L’economista non con-sidera in modo restrittivo il concetto di autointeresse. La scelta indivi-duale è semplicemente caratterizzata da comportamenti che miranoalla massimizzazione dell’utilità. Molte motivazioni umane, compresil’amore, l’altruismo e il potere, generano comportamenti che possonoessere considerati di massimizzazione dell’utilità» [Amacher, Tollisone Willett 1976, 25; v. anche Downs 1957, 37; Tullock 1971].

Insomma, nessuna delle varie interpretazioni del comandamento«ama il prossimo tuo come te stesso» di per sé entra direttamente inrotta di collisione con il postulato dell’autointeresse. Se proprio voglia-mo dare una valenza descrittiva al tipo di umanità di cui parlano leteorie razionali, possiamo rifarci al ritratto che Giulio Andreotti dà dise stesso: «Io non sono più buono né più cattivo degli altri»4. O, comedice Roland McKean, «Può darsi che un funzionario pubblico non sichieda ogni mattina “che cosa può fare per me oggi il prodotto inter-no lordo?”, ma certo non si chiede neanche ogni mattina “che cosaposso fare io per il prodotto interno lordo?”» [McKean 1964, 246].

E tuttavia sarebbe un grave errore considerare gli assunti dell’indi-vidualismo metodologico come una scommessa sulla frequenza statisti-ca di certi tipi antropologici, perché il suo obiettivo è proprio l’oppo-sto: costruire una teoria che prescinda totalmente dalle idiosincrasie,dai gusti e dalle inclinazioni psicologiche individuali.

È vero, al suo esordio la public choice ha talvolta ceduto alla tenta-zione di intendere la «voracità» dei policy makers in senso non metafo-rico. Ma, come nota James Buchanan, «ora si riconosce che almenouna parte della tradizionale enfasi della public choice era sbagliata.Oggi l’accento si è spostato dai postulati sulle motivazioni degli attoripolitici alla struttura degli incentivi della politica» [1993, 69].

Le ricerche di cui ci occupiamo in questo capitolo muovono da al-cune assunzioni di base circa le preferenze degli attori, le caratteristichedei beni pubblici, l’influenza delle regole decisionali, il peso dei costidell’informazione, per derivare ipotesi sui rapporti tra policy makers epolicy takers in particolari settori dell’intervento pubblico, quali le poli-tiche previdenziali o ambientali, e in particolari ambiti istituzionali, qualii parlamenti, le agenzie indipendenti, gli stati federali.

Dunque, com’è possibile che un paradigma così neutro – per nondire generico – rispetto alle implicazioni descrittive e normative suscitireazioni tanto negative da indurre alcuni a bandirlo dal campo deipolicy studies? Perché, quando si passa dalla gente in coda al super-mercato, ai politici in coda per un posto in parlamento, i presuppostidella public choice appaiono a molti come devastanti?

4 Intervista al «Corriere della Sera», 1o ottobre 1999.

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1.4. Il problema della semplificazione

Per coloro che sottolineano l’incompatibilità tra i due approcci, lapublic choice comporta una rappresentazione dei processi decisionalidistorta da una semplificazione troppo brusca e irrealistica, capace dilavare via gli aspetti più interessanti del policy making. Insomma, a esse-re contestata è la possibilità di studiare le politiche come un caso specia-le delle scelte razionali. In effetti, i due concetti sono sovrapponibili soloparzialmente. Per fare una scelta, occorre vedere bene il legame tra lealternative in gioco e gli effetti da esse prodotti, capire in quanto temposi manifesteranno, e con quale intensità. Come abbiamo ampiamentespiegato nei capitoli quarto e quinto, molte ricostruzioni negano espres-samente che queste condizioni si verifichino nei processi da cui derivanole politiche pubbliche, che emergerebbero invece da interazioni caratte-rizzate da indeterminatezza, disordine, se non vera e propria casualità.

Dunque, le politiche pubbliche non sono solo scelte: sono ancherisultati di eventi che nessuno ha esplicitamente voluto, di situazioniche hanno preso la loro piega per una serie di fattori che sfuggono alcontrollo degli attori.

La replica a questo argomento sottolinea come la radicale sempli-ficazione cui ricorrono queste le teorie non sia fine a se stessa. Nessu-no studioso di public choice ha problemi a riconoscere che una granparte delle vicende umane non dipende da vere scelte, ma da reazioniemotive, o da contingenze casuali [G. Miller 2000, 536]. Il fatto è che,se l’obiettivo è costruire modelli capaci di gettare una qualche luce suciò che avviene nella sfera delle decisioni pubbliche, adottare comepunto di riferimento la definizione microeconomica di scelta razionalefornisce un parametro più saldo del suo opposto, la reazione emotiva,o irrazionale, o fortuita, sulla cui base è difficile avanzare previsioni ededuzioni.

Dobbiamo infatti ricordare che i contributi di cui ci occupiamointendono trarre dai postulati di base nuove inferenze sfruttando lerisorse della deduzione. Per procedere su questa strada, è necessariocostruire modelli capaci di cogliere gli aspetti essenziali di una situa-zione, senza perdersi nella selva dei particolari che fanno di ogni vi-cenda di policy una storia a sé stante. Quando funziona, questo pro-cesso di formalizzazione e di deduzione logica permette di rilevareimplicazioni non visibili «a occhio nudo», perché soffocate da unaserie di dettagli marginali [Fiorina 1975]. Ma anche quando i continon tornano, quando la realtà smentisce le previsioni, il ricercatoretrae dalla prova dei fatti spunti preziosi per riaggiustare le varie com-ponenti del suo impianto: le assunzioni di base, le logiche, i dati dicontesto... In ogni caso, anche quando le conclusioni teoriche insisto-no ad andare in una direzione diversa dall’evidenza empirica, il model-lo continua a splendere di luce propria, perché rivela aporie e para-dossi altrimenti invisibili [Downs 1957].

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Dunque, l’apporto che queste teorie possono dare alla concretaconoscenza dei processi per la selezione delle politiche pubbliche è ditipo indiretto, ed emerge soprattutto nella fase di costruzione delleipotesi da sottoporre a verifica empirica. In altre parole, il valore delleteorie razionali non dipende da una generica verosimiglianza dei lorocostrutti analitici. I manichini utilizzati nei crash test condividono coni veri esseri umani ben pochi aspetti: ma quei pochi sono costruiti se-lettivamente proprio per darci informazioni su come si comporta uncorpo umano in quel particolare frangente. Da questo punto di vista,il tocco di realismo ottenibile con l’aggiunta dei capelli o del rossetto,che tanto giova ai manichini delle vetrine, non migliora per nulla l’ef-ficacia della simulazione.

Allora il problema non è se le assunzioni postulate dalle teorie ra-zionali rispecchiano abbastanza fedelmente la realtà. Tutti i modellisono brutali semplificazioni: questo vale per le teorie razionali, comeper le metafore del bidone della spazzatura o dei triangoli di ferro. Ilgiudizio sul loro maggiore o minore realismo non può essere formula-to in assoluto perché, qualunque significato si dia alla parola «realtà»,le sue molteplici facce la rendono inadeguata come semplice e imme-diato termine di paragone. Il giudizio ha senso solo con riferimento aciò che i modelli intendono spiegare, predire o, almeno, monitorare[M. Friedman 1953]. I topini geneticamente modificati a occhio e cro-ce somigliano all’uomo molto meno di una scimmia. Eppure, ci per-mettono di capire gli effetti di certi farmaci sull’uomo meglio dellasperimentazione sulle scimmie.

Dunque, a fare la differenza non è il realismo delle assunzioni, mala loro capacità di attivare sonde capaci di penetrare processi altrimen-ti occlusi. Per rispondere alla domanda «quando una drastica sempli-ficazione è troppo drastica?» non si deve guardare solo alle caratteri-stiche del manichino, ma anche a quelle del modello e delle ipotesiche si vogliono testare: c’è congruenza tra l’impianto dell’uno e l’im-pianto dell’altro? Come spiega Elionor Ostrom, «i modelli sono utilinell’analisi delle politiche quando sono tagliati su misura per un parti-colare problema. I modelli possono essere usati in modo inappropriatose applicati allo studio di situazioni problematiche che non corrispon-dono esattamente alle assunzioni del modello» [1999, 41].

Questo passaggio dà alla questione una nuova dimensione, chepossiamo formulare in questi termini: quali costi e quali benefici deri-vano dall’analizzare le politiche pubbliche usando come punto di os-servazione quello specifico artificio che è l’attore razionale? Il prototi-po è adeguato al modello, e il modello agli obiettivi della ricerca? Perquesta via è davvero più semplice anticipare gli spostamenti degli atto-ri in carne ed ossa, monitorare le loro strategie, oppure la semplifica-zione è del tutto strampalata e fuorviante, come usare un topolino pertestare i freni di un’automobile, o un manichino per sperimentare unamedicina?

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Le pagine che seguono sono un tentativo di mostrare che, conl’applicazione delle teorie razionali alle politiche pubbliche, siamonell’ambito delle semplificazioni del primo tipo, cioè non insensate.

1.5. Due teorie economiche del governo

Le interpretazioni più affrettate in genere considerano il rapportotra le teorie della scelta pubblica e lo studio del policy making comeuna trasposizione nel campo descrittivo del radicale conflitto che incampo prescrittivo ha contrapposto l’analisi razionale delle politichealla policy inquiry. Ma si tratta di una lettura sbagliata. Anzi, il piùforte argomento a favore della compatibilità tra public choice e ricer-che condotte con metodi induttivi, in campo prescrittivo o descrittivo,sta proprio nel fatto che da questi diversi fronti provengono critichemolto simili all’analisi razionale delle politiche.

Su questo punto occorre fare molta attenzione, perché il ricorrerein questo capitolo di molti dei termini che abbiamo usato nel terzo –razionalità, economia, efficienza, deduzione, utilità, massimizzazione,beni pubblici, ecc. – può generare, e di fatto ha generato, l’idea total-mente errata di una continuità teorica tra i due paradigmi, quandoinvece essi interpretano in maniera diametralmente opposta la sfidaintellettuale lanciata dal modo di ragionare dell’economia [Buchanan eMusgrave 1999].

Ricapitoliamo brevemente i punti cardine della teoria economicadel governo su cui si basano l’economia del benessere e larga partedell’analisi razionale delle politiche. Compito delle istituzioni pubbli-che è correggere i fallimenti del mercato prodotti dalla presenza dimonopoli, di esternalità, di beni pubblici, o di allocazioni chiaramenteinique. Attraverso le politiche regolative e distributive, una collettivitàpuò perseguire equilibri più efficienti di quelli cui pervengono gli at-tori economici in base alle sole logiche di massimizzazione dell’utilitàindividuale.

Per la public choice, la produzione delle politiche ha implicazionitutte diverse, perché lo stato, il governo, le istituzioni pubbliche nonsono meccanismi automatici capaci di emettere, come per magia, il livel-lo ottimale di beni pubblici o di regolazione. Perché ci siano outcomes,occorre che specifici gruppi di cittadini, gli elettori, i politici, i funziona-ri pubblici, i magistrati, agiscano in modo coordinato per raggiungerequesto obiettivo. Ma quali garanzie esistono che quegli stessi individui,che nel mercato si comportano da free riders, e scelgono all’insegna del-l’autointeresse, nell’arena politica cambino punto di vista e logiche diazione, diventando devoti e disinteressati promotori del bene pubblico?

Da questa fondamentale critica l’economia del benessere esce bollatacome un «approccio da nirvana» [Demsetz 1969] per il suo idealismoserafico, che la porta a considerare il governo come un attore esogeno,

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unitario e benevolo [Buchanan e Musgrave 1999, 4], cioè una specie dideus ex machina che interviene a rimediare ai fallimenti del mercato:

La teoria economica convenzionale implicitamente richiede al governo difare determinate cose, ma non dà conto del perché dovrebbe farle; così il go-verno ha un’esistenza esterna al sistema teorico e agisce come un «despotabenevolo»5 che è in grado di, e ha motivi per, selezionare e portare avanti po-litiche socialmente ottime. In altri termini, i postulati economici che si assumeguidino il comportamento degli altri attori (consumatori, lavoratori, proprieta-ri...) non varrebbero per guidare il comportamento di coloro che stanno algoverno o lo influenzano (elettori, politici, burocrati, ecc.) [N. Miller 1986, 3].

Per la public choice, invece, qualunque confronto tra decisioni dimercato e decisioni pubbliche richiede che siano tenute ferme le carat-teristiche degli attori che si muovono nelle due arene: «[Il significatodella public choice] può essere riassunto nella scoperta, o riscoperta,che le persone vanno trattate come massimizzatrici razionali delle loroutilità in tutti i ruoli che svolgono» [Buchanan 1978, 17]. Quandovendono un appartamento o decidono dove andare in vacanza, maanche quando votano o erogano fondi pubblici.

1.6. Scegliere con altri e per altri

Una coerente teoria economica delle decisioni pubbliche devedunque basarsi su un unico modello di attore razionale. Ma, nel con-tempo, deve anche cogliere la distanza analitica che separa il decidereciascuno per sé dal decidere tutti insieme. In quest’ultimo caso, infatti,possono venir meno quei criteri che danno coerenza e motivazionealle scelte individuali. Insomma, un unico tipo di umanità, ma in siste-mi di vincoli e di incentivi totalmente diversi.

Consideriamo in primo luogo la coerenza. Le procedure per ap-prodare a scelte collettive possono generare paradossi che complicanograndemente l’interpretazione di quello che un gruppo davvero vuole.Se io preferisco x a y, e mi viene offerta una nuova alternativa z, inbase ai principi che abbiamo appena presentato, ho a disposizionesolo due possibilità: posso continuare a preferire x, o posso preferire z:ma certo, ceteris paribus, non posso scegliere y. Un gruppo di amiciorganizza un picnic e va dal salumiere per farsi preparare i panini. Ilsalumiere comunica di poter imbottire tutti i panini col pollo, o tutticol prosciutto. Gli amici votano e scelgono pollo. Quando hanno de-ciso, il salumiere li avverte che ora è pronto anche l’arrosto di vitello.Così tornano a riunirsi e, senza che sia violato alcun requisito di razio-nalità, il prosciutto diventa l’alternativa più votata. Infatti un certo

5 L’espressione è di Tullok [1976, 40 trad. it.].

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numero di quanti avevano scelto il pollo potevano avere come primapreferenza il vitello: è questo loro legittimo spostamento a rilanciare lesorti del prosciutto [questo esempio è raccontato in Lowi 1976, 218].

Dunque, che un’alternativa, uscita perdente da un referendum oda un confronto a due, dia del filo da torcere alle altre quando la rosadelle scelte si amplia, può apparire una follia a un commentatore di-stratto, ma è perfettamente compatibile con i postulati circa la raziona-lità degli attori. Solo una rozza concezione del «corpo» elettoralecome di un insieme con molte membra, ma con un’unica testa, puòtrovare bizzarra la cosa.

In secondo luogo, nelle scelte collettive non è detto che chi ha fat-to pendere l’ago della bilancia a favore di una certa soluzione possapoi godersi i vantaggi della scelta, o sia chiamato a pagarne le conse-guenze negative. Il politico che porta all’approvazione una riforma delsistema previdenziale più equa e più lungimirante può essere punitodallo scontento di alcune categorie nella tornata elettorale successiva,perché gli adolescenti di oggi, pensionati di domani, ancora non vota-no. Il parlamentare che riesce a concentrare i benefici di un provvedi-mento sul suo collegio elettorale, facendone ricadere i costi su gruppisociali lontani dalla sua regione, ha buone probabilità di veder cresce-re il consenso. Insomma, a differenza di quanto avviene nelle rappre-sentazioni stilizzate del mercato competitivo, nell’arena politica nonesistono elementi per immaginare all’opera una mano invisibile che facoincidere la massimizzazione dell’interesse individuale con risultatiparetianamente ottimi [Buchanan e Tollison 1972].

Un osservatore malizioso potrebbe notare che un qualche sospettoverso queste dinamiche emerge dalla stessa economia del benessere,che in realtà vede i governi non come gli autori, ma come gli esecutoridi piani elaborati con l’assistenza determinante dell’economista, esper-to nell’analisi costi-benefici. Quando manca il consenso unanime, ri-chiesto dal concetto di ottimo paretiano, il suo contributo è infattidecisivo per dare significato a quella funzione del benessere sociale,capace di rappresentare la pietra di paragone per la valutazione dellepolitiche.

Proprio questa tutela è radicalmente contestata sul piano descritti- voe su quello normativo dagli autori che si riconoscono nel paradig-ma della scelta pubblica, in termini che richiamano molto da vicino irilievi mossi da Lindblom o da Wildavsky. Come afferma Buchanan[1966, 28 e 36], in un contributo esplicitamente rivolto agli scienziatipolitici, «non esiste una “funzione del benessere sociale”, né un “inte-resse pubblico” in una società di individui liberi di scegliere, e non sivede la ragione di inventare tali concetti per convenienza analitica [...].L’efficienza non può essere definita indipendentemente dal calcolo discelta del singolo cittadino come partecipante al processo politico».

Qualche anno dopo, Heclo e Wildavsky [1974, 360] così defini-scono le aspirazioni dei tecnici del Tesoro inglesi: «Cercano ardente-

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mente una pietra filosofale, la funzione del benessere che li renda ca-paci di determinare il valore relativo degli stanziamenti per l’una o perl’altra finalità – autostrade invece di ospedali, o di scuole, o di case.Amano la politica (politics), ma in segreto sono a disagio per la loroincapacità di sostituire al conflitto politico una formula razionale».

Entrambe queste citazioni condividono l’idea che in una democra-zia non ci siano scorciatoie tecnocratiche per risolvere i conflitti d’in-teresse che contrappongono gli individui.

Dunque, per le decisioni cui pervengono gli attori nell’arena poli-tica, valgono due conclusioni:

• non esistono criteri oggettivi per trarre dai risultati indicazionipiù generali o più profonde sulla «volontà popolare», perché taleestrapolazione potrebbe essere immediatamente smentita da variazionianche minime del contesto della scelta;

• è arbitrario sottoporre gli esiti delle decisioni pubbliche a valu-tazione «scientifica» usando come punto di riferimento una presuntafunzione del benessere sociale perché questa, priva di ogni analogiacon la funzione d’utilità individuale, non rispecchierebbe altro che lepreferenze dell’esperto di turno.

L’unica fondata curiosità analitica è guardare ai processi che gene-rano le decisioni pubbliche, per vedere che fine fanno le preferenzeindividuali quando entrano nel frullatore delle scelte politiche: qualiriescono a prevalere, quali sono sacrificate, quali si combinano in coa-lizioni, quali pagano il conto, quali risentono enormemente di piccolidettagli procedurali. L’obiettivo è capire il funzionamento del frullato-re, non intervenire sul gusto del frullato.

La metafora del frullatore e del frullato ci serve per presentare unultimo tipo di perplessità circa l’inclusione di queste teorie in un testosulle politiche pubbliche. A ben vedere, superando i tanti pregiudizi incircolazione, la public choice si occupa molto più di politics che di policy,molto più di istituzioni che di linee d’intervento in problemi di rilevanzacollettiva. Fritz Scharpf 6 afferma che lo studio delle politiche si basa sudue concetti: l’importanza dell’interazione e la centralità del problema.In un certo senso, si può dire che l’analisi razionale delle politiche esaltala centralità del problema, ma sacrifica l’importanza dell’interazione; lapublic choice fa l’inverso, assegnando alle regole entro cui avviene l’inte-razione la capacità di strutturare l’esito del processo.

E tuttavia occorre ricordare che, a partire dal fondamentale lavorodi Downs, La teoria economica della democrazia [1957], che considerale policies assieme ai voti come il perno dello scambio tra elettori ecandidati, le politiche pubbliche rappresentano il tipo di scelta pubbli-ca più affascinante e più studiato. Certo, se la citazione che segue fos-

6 F.W. Scharpf, Institutions in Comparative Policy Research, paper, 2000, inhttp://www.mpi-fg-koeln.mpg.de/publikation/working_papers/wp00-3/wp00-3.html(agosto 2001).

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se del tutto vera, dovremmo buttare via gli altri capitoli del libro: «Lateoria formale è stata la base di quel poco di teoria realmente scienti-fica che si può trovare negli studi di policy» [Muzzio e De Maio 1988,133]. Ma che tale giudizio non sia del tutto falso è la tesi che intendia-mo dimostrare con l’inclusione di queste teorie nel nostro percorso.

2. L’affermazione del paradigma

2.1. Stati Uniti

2.1.1. Radici lontane

La public choice si innesta su alcuni elementi distintivi della vicen-da politica e culturale americana, quali l’individualismo e l’attenzioneper le implicazioni pratiche delle regole costituzionali.

Ne La democrazia in America, Tocqueville scrive:

L’individualismo è una parola recente, nata da un’idea nuova. I nostri padriconoscevano solo l’egoismo: l’amore sfrenato di sé, che porta l’uomo a ricondurreogni cosa a sé medesimo e a preferirsi a tutti. L’individualismo è un sentimentoconsapevole e pacifico, che dispone ogni cittadino a isolarsi dalla massa dei suoisimili e a tenersene a distanza con la propria famiglia e i propri amici. L’egoismoè un vizio antico quanto il mondo, ma l’individualismo è d’origine democratica esi sviluppa a misura che le condizioni si eguagliano [1835, 202 trad. it.].

«Interesse bene inteso», «egoismo illuminato», «materialismo onesto»sono i termini con cui lo studioso francese sottolinea la novità di un con-cetto che si pone su un piano diverso rispetto alle categorie dell’etica tra-dizionale e che ha stretti legami con la democrazia. Sulla stessa lunghezzad’onda si colloca John Dewey quando scrive: «Il vero individualismo è unrisultato dell’allentamento di una morsa, quella dell’autorità dei costumi edelle tradizioni, come riferimento per le convinzioni» [Dewey 1916]7.

L’esperimento costituzionale americano consiste proprio nel saldarequesto individualismo al disegno dell’impianto istituzionale [Dorn 1991].

In primo luogo, con la tutela dei diritti di proprietà e con una vi-sione contrattuale del mandato che gli elettori affidano agli eletti, leistituzioni danno ai cittadini incentivi perché badino ai propri interes-si, senza concedere deleghe in bianco, ma vigilando sui tangibili effettidelle decisioni politiche per i loro affari, per la loro famiglia, per laloro comunità. Questa attenzione concreta e oculata sta alla base diquelle virtù repubblicane indispensabili per sostenere il funzionamentodelle istituzioni democratiche [McClosky e Zaller 1984].

7 In http://www.ilt.columbia.edu/projects/digitexts/dewey/d_e/contents.html(agosto 2001).

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Come scrive Madison, «Se gli uomini fossero angeli, non ci sarebbebisogno dei governi. Se fossero gli angeli a governare gli uomini, non cisarebbe bisogno di controlli esterni o interni sui governi»8. Come ènoto, per proteggere i centri di governo dagli intrighi, dalla corruzione,dalle fazioni animate da interessi miopi, i padri fondatori hanno architet-tato una struttura a celle, priva di un unico centro, grazie al bicamerali-smo, al federalismo, alla divisione dei poteri [Buchanan e Tullock 1962].

Ma questa rete di sedi decisionali ha anche il compito di spezzarequalunque legame troppo diretto tra deliberazioni politiche e quelconcetto dai contorni indefiniti che è la volontà popolare [Riker1982]. La scelta di Madison, a favore della democrazia rappresentativae contro la democrazia diretta di stampo populista, deriva da una ri-flessione che secondo molti osservatori anticipa i problemi evidenziatidai paradossi delle scelte sociali, di cui ci occuperemo tra breve[McLean e Urken 1992]. Nei Federalist Papers,

le tendenze della democrazia popolare a diventare instabile, opprimente e in-concludente sono evidenziate come il maggior problema da risolvere nel co-struire un governo che possa e voglia proteggere i diritti individuali [...]. Dun-que, il trionfo della scienza politica dei federalisti è spesso considerato come untrionfo della democrazia rappresentativa su quella diretta [Mashaw 1997].

2.1.2. Riferimenti comuni con la scienza politica

Questa impostazione originaria fornisce alla public choice un po-tente ancoramento nella tradizione costituzionale americana:

Tullock ed io ci consideriamo come semplici utilizzatori degli strumentidell’economia, e guardiamo alla struttura della politica americana nel modo incui James Madison l’ha concepita [Buchanan 1995]9.

Un linguaggio e un modo di ragionare simili sono stati usati da Alexan-der Hamilton e da James Madison nei Federalist Papers, da Tocqueville,Hobbes, Locke, Rousseau, Hume e Smith. Molti teorici politici tradizionalierano economisti politici che usavano il ragionamento economico per pensareai problemi dell’organizzazione politica [V. Ostrom 1977, 1509].

È importante osservare che questa comune matrice agevola il dialogo,o almeno la convivenza, anche con quella parte della scienza politica diimpronta pluralista, che pure è decisamente orientata più verso i metodiinduttivi che verso quelli deduttivi: «Il recente sviluppo dell’approccio dipublic choice [...] ha stimolato una ricerca e un dibattito scientifico conver-gente con il lavoro di Hamilton, Madison e Tocqueville. Questo sviluppo

8 In The Federalist, n. 51.9 http://woodrow.mpls.frb.fed.us/pubs/region/int959.html (agosto 2000).

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rafforza anche gli studi politici contemporanei nella tradizione policentricadi autori quali Norton Long, Charles E. Lindblom, Morton Grodzins,Aaron Wildavsky e Daniel J Elazar» [Gregg 1974, 77].

Certo, anche in questo contesto non mancano le polemiche e gliattacchi, anche durissimi [Golembiewski 1977; Green e Shapiro 1994;1995]. Ma accanto ad essi si sono schiusi, fin dagli albori della publicchoice, ampi spazi di collaborazione.

Lasswell, nel 1951, nel volume curato con Lerner sulle policy sciences,ospita un contributo di Kenneth Arrow sui modelli matematici nellescienze sociali e, nella sua introduzione, scrive: «Molti dei più significativicontributi a una teoria generale della scelta [...] sono stati prodotti dapersone che non erano scienziati politici (nella divisione del lavoro accade-mico)» [Lasswell 1951, 4]. Procede citando i nomi di von Neumann eMorgenstern, i padri della teoria dei giochi, e dello stesso Arrow, per poipassare, dopo alcune righe, ad esaminare il contributo della psicanalisi, unsalto coerente con l’importanza da lui attribuita a ogni tipo di analisi delleinterazioni tra individui nelle vicende politiche10.

Nel 1953, Dahl e Lindblom con il loro volume Politics, Economics,and Welfare colgono gli aspetti problematici collegati al passaggio dallepreferenze individuali a quelle collettive. E questo loro lavoro è citato daAnthony Downs, nel 1957, nel suo pionieristico volume An EconomicTheory of Democracy, destinato a diventare un classico della public choice.

David Easton ospita nel 1966 un intervento di Buchanan nella rasse-gna da lui curata sulle nuove tendenze nello studio della politica. Delresto, già nel 1953 lo stesso Easton aveva evidenziato le analogie tra ilconcetto economico di equilibrio e la sua idea di sistema politico, e ave-va scritto, preveggente: «Non è inconcepibile che un esperto nell’uso distrumenti matematici possa elaborare dei rapporti logici complessi fravariabili e linea politica (policy) al fine di indicare i punti di equilibrio.Questo genere di analisi logica sarebbe il primo stadio di sviluppo diuno schema per semplificare la realtà» [Easton 1953, 312 trad. it.].

Insomma, l’ibridazione tra scienza politica ed economia è stata alungo cercata, anche se poi il nuovo nato è parso ad alcuni un mostro,capace di infettare con astruse formule matematiche e con disegni in-comprensibili tutte le sedi di confronto scientifico11.

10 «La scienza politica, in quanto è una delle scienze delle relazioni interpersona-li, non si occupa degli “stati” e dei “governi”, ma degli atti concreti degli esseri uma-ni» [Lasswell e Kaplan 1950, 200 trad. it.]. Si veda anche la citazione di Catlin, chenel 1927 scriveva: «L’oggetto della scienza politica è costituito dagli atti degli indivi-dui, non degli Stati. La volontà individuale è l’unità politica più semplice» [cit. daLasswell e Kaplan 1950, 17 trad. it.]. Vincent Ostrom [1977] ricorda come già Las-swell e Kaplan avessero compiuto un passaggio fondamentale per la stipulazione diuna teoria del valore sganciata da considerazioni di tipo normativo, laddove definisco-no un valore come «un evento desiderato» [Lasswell e Kaplan 1950, 16 trad. it.].

11 Per una ricostruzione che accentua invece le difficoltà e le incomprensioni, v.Mitchell [1999].

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2.1.3. La fortuna scientifica e politica

Dall’inizio degli anni ’60, i singoli approcci, fino ad ora compresisotto la generica etichetta di teorie razionali, cominciano ad avere unapiù precisa consapevolezza delle loro potenzialità e originalità, e ricer-cano autonomi centri di aggregazione. Qui ci limitiamo ad accennarealla costituzione della scuola di Public Choice, la branca più stretta-mente intrecciata allo studio delle politiche pubbliche.

Dopo il successo del loro volume, dal titolo Il calcolo del consenso[1962], Buchanan e Tullock organizzano alcune riunioni, cui parteci-pano, assieme ad economisti quali Anthony Downs e Mancur Olson,anche politologi e filosofi quali William Riker, Vincent Ostrom, JohnRawls12. L’obiettivo delle riunioni è duplice. In primo luogo, il gruppointende spezzare il monopolio detenuto dalla scienza politica, per por-tare lo stesso rigore formale e lo stesso impianto concettuale dellascienza economica nello studio di temi quali le regole istituzionali o ilruolo dei politici e dei burocrati [Ordeshook 1993]. Il secondo obiet-tivo è contrastare l’imperante paradigma keynesiano, dimostrando chel’intervento pubblico non è una sorta di panacea capace di risolvere leimperfezioni del mercato, ma può a sua volta generare fallimenti piùinsidiosi di quelli che intende sanare. Nel 1965 è costituita la PublicChoice Society. La sua rivista, «Papers on Non-market DecisionMaking», dopo pochi anni assumerà il nome definitivo di «PublicChoice».

Nel decennio successivo, assieme alle critiche, arrivano anche iprimi importanti riconoscimenti. Nel 1972, a Kenneth Arrow vieneassegnato il premio Nobel per l’economia. Altri economisti impegnatinello studio delle decisioni pubbliche, quali George Stigler e JamesBuchanan, riceveranno lo stesso riconoscimento rispettivamente nel1982 e nel 1986.

Oggi gli articoli basati sui postulati della public choice sono ospitatidalle più importanti riviste in ogni campo delle scienze sociali e deldiritto.

Per quanto riguarda lo studio delle politiche pubbliche, nel 1977la Policy Studies Organization organizza un convegno dal titolo De-ductive Models in Policy Analysis [Tullock e Wagner 1978], destinatoad aprire una prospettiva del tutto nuova nell’analisi delle politiche fi-scali, di bilancio, sanitarie, pensionistiche. L’applicazione del ragiona-mento economico muove infatti in una direzione diametralmente op-posta a quella tradizionalmente indicata dall’economia del benessere edall’analisi costi-benefici. L’attenzione è concentrata non sui fallimentidel mercato, ma su quelli della politica, un’arena dominata da logiche

12 Poiché le riunioni prendevano come base alcuni dipartimenti universitari dellaVirginia, i partecipanti si definivano Virginia Group.

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perverse, per il ricatto reciproco tra politici a caccia di voti ed elettoria caccia di privilegi, per la tendenza dei burocrati a gonfiare l’attivitàdei loro uffici, per l’indifferenza e la disinformazione in cui compren-sibilmente si rifugiano molti elettori-contribuenti.

L’impatto di queste tesi sul dibattito politico fu enorme. Se è veroche i primi tentativi di applicare il nuovo credo risalgono al presidentedemocratico Carter, tuttavia è l’avvento del repubblicano RonaldReagan a dare vasta popolarità alle teorie economiche della democra-zia, presentate come suggello scientifico alla svolta liberista. Le tesisull’inefficienza della regolazione, sui vantaggi delle privatizzazioni, sul-la necessità di blindare il bilancio dello stato per metterlo al riparodalle incursioni delle lobbies, appaiono come la logica conclusione diun approccio orientato a dimostrare come le virtù della democraziapossano trasformarsi in vizi.

Le biografie di alcuni esponenti di spicco della Public Choice evi-denziano ancora una volta l’intricatissimo rapporto esistente negli StatiUniti tra la produzione di conoscenze e la loro pratica applicazione.

William Niskanen è, come vedremo tra breve, l’autore della piùimportante analisi economica delle logiche di azione dei burocrati,contenuta nel volume Bureaucracy and Representative Government[1971]. Come racconta lui stesso [1998], le sue prime esperienze dilavoro hanno come sfondo le think tanks impegnate nelle politichedella difesa (RAND Corporation, Institute for Defense Analyses) e ilPentagono. Alla metà degli anni ’70, Niskanen è tra i fondatori delNational Tax Limitation Committee e studia la formulazione di leggiper contenere la pressione fiscale. In questa sua veste, nel 1980 parte-cipa alla campagna elettorale di Ronald Reagan. Passa quindi a un in-carico direttivo nell’Office of Management and Budget (v. terzo capi-tolo, paragrafo 2). Intanto, insegna economia all’università di Berkeley.Per cinque anni è direttore dello staff di economisti della casa automo-bilistica Ford. Nel 1985 diventa presidente del Cato Institute, unathink tank di orientamento liberista. Si sospende da questo incaricoquasi subito, perché il presidente Reagan lo chiama alla Casa Bianca adirigere il Council of Economic Advisers. Negli anni ’90 torna al ver-tice del Cato Institute. Dal 1998 al 2000 è presidente della PublicChoice Society.

Biografie come quella di Niskanen spiegano perché molti conside-rino impresso nel codice genetico della public choice un orientamentoliberista e un pregiudizio negativo nei confronti dell’intervento pubbli-co. Torneremo su questo tema nell’ultimo paragrafo, presentando iprincipali rilievi sollevati dai critici. Occorre tuttavia notare che i de-cenni successivi hanno visto un costante sforzo per interporre unamaggiore distanza fisica e analitica tra la costruzione della teoria e laformulazione di concrete proposte operative. Anche se le think tanksdi orientamento liberista continuano a basare sui classici della publicchoice le loro proposte di riforma istituzionale, elettorale, burocratica,

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o previdenziale, tale declinazione prescrittiva è ormai nettamente di-stinta dalla sfera dell’elaborazione teorica, con finalità descrittive eesplicative. Del resto, le stesse politiche di deregolazione o di privatiz-zazione possono essere a loro volta sottoposte ad analisi: non per mo-dificarle, ma per vedere come hanno agito su di esse le lame del frul-latore, cioè le procedure decisionali per capire quali paradossi hannogenerato, quali nuove occasioni di scambio hanno dischiuso.

2.2. Europa

Molti studiosi americani, nel ricostruire la genesi intellettuale delleteorie razionali della politica, ammettono onestamente un dato: i nu-clei concettuali, poi riformulati con tanto successo dall’altra parte del-l’oceano, erano già presenti, con almeno cinquant’anni di anticipo, nelpensiero economico europeo, sia pure dispersi e, per taluni aspetti, inconflitto tra loro.

Le tre correnti più citate sono la scuola svedese, la scuola austria-ca, e la scuola italiana di scienza delle finanze, per diversi motivi tutteinsoddisfatte rispetto alle teorie che si andavano affermando nel mon-do anglosassone, e tutte orientate a fare del concetto di efficienza nonuna proprietà oggettiva delle decisioni pubbliche, ma una proprietàdel loro rapporto con le preferenze individuali.

Per quanto riguarda il primo gruppo, un episodio illustra in modoimmediato il rapporto tra la scuola di public choice e l’impostazione del-l’economista svedese Knut Wicksell. Mentre studia per il dottorato di ri-cerca all’università di Chicago, James Buchanan scopre in bibliotecaun’opera giovanile di Wicksell sulla tassazione e la traduce avidamente:«Il messaggio era: il governo non deve essere considerato come un de-spota benevolo. Gli outcome politici sono il risultato dell’interazione trapersone che ricoprono ruoli diversi e che agiscono per autointeresse.Nel settore pubblico, l’unico test di efficienza valido è la regola dell’una-nimità. Dunque, nella politica economica le riforme richiedono un cam-biamento delle regole al cui interno si muovono gli attori politici»13.

L’idea che l’ampiezza del consenso sia l’unico parametro per valu-tare le scelte dei governi, al punto da fare dell’unanimità la regola piùsicura per le decisioni pubbliche, sposta la chiave del giudizio dall’out-come (il frullato del paragrafo precedente), alle procedure decisionali(il frullatore). Questa svolta è al centro dell’impostazione della publicchoice [Wagner 1988] e costituisce il tema principale del volume cheJames Buchanan scrive con Gordon Tullock nel 1962, dal titolo Il cal-colo del consenso.

13 W. Breit, Selected Chronology, 1999, in http://www.gmu.edu/jbc/fest/files/breit.htm.

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Per quanto riguarda il contributo della scuola austriaca, ricordia-mo il nome di un autore, Friederich von Hayek, a lungo citato nelquarto capitolo per il suo approccio individualistico alla teoria delledecisioni: «I termini “consapevole” e “deliberato” hanno senso soloquando si riferiscono a singoli individui» [Hayek 1952, 189 trad. it.].Di altri due economisti austriaci, Joseph Schumpeter e Oskar Morgen-stern, torneremo a parlare tra breve. Il primo è citato da Downs comeil precursore della sua teoria economica della democrazia [1957, 61trad. it.].

Il secondo, con il matematico John von Neumann, è autore del-l’opera Theory of Games and Economic Behavior (1944), pietra miliaredella teoria dei giochi.

Della scuola italiana parleremo tra alcune righe, ma possiamo an-ticipare qui una conclusione generale: nonostante la contiguità geogra-fica, questi temi sono rimasti sostanzialmente estranei all’agenda di ri-cerca degli studiosi europei di scienza politica14. Quando riemergono,a fatica e con ritardo, negli anni ’70, non è per moto proprio, ma perla fama conquistata dall’altra parte dell’oceano; ed è soprattutto neipaesi anglofoni che guadagnano una qualche attenzione15. Del resto, inGran Bretagna, con la svolta di Margaret Thatcher, si andavano deli-neando quelle stesse condizioni politiche che in America stavano con-tribuendo alla popolarità della public choice, spesso presentata, volenteo nolente, come la base scientifica per le politiche di deregolazione edi privatizzazione.

2.3. Il caso italiano

2.3.1. La scuola italiana di scienza delle finanze

Già nel 1880, Mazzola, Pantaleoni, Sax e De Viti De Marco compironosforzi rudimentali per analizzare l’economia pubblica all’interno del modellodello scambio. Sax e Mazzola trattarono del lato «domanda» dei beni pubbli-ci, identificando i bisogni pubblici come distinti da quelli privati. Pantaleoniestese il calcolo marginale e lo applicò al legislatore che debba compiere scel-te relative a entrambe le parti del bilancio. De Viti De Marco esplicitamentecostruì un modello all’interno del quale i consumatori e i produttori di benipubblici formano la stessa comunità di persone [Buchanan 1975, 51 trad. it.].

Dunque, la scuola italiana di scienza delle finanze è pervenuta conlargo anticipo all’idea che i politici possano essere considerati attorirazionali, cui applicare gli stessi strumenti dell’economia. Ma questa

14 La Società europea di public choice, fondata nel 1972, si afferma stabilmentenel panorama delle associazioni accademiche solo verso la fine degli anni ’80.

15 Il riferimento è ai lavori di Michael Laver, Brian Berry, Robert E. Goodin,Michael Taylor, David Robertson.

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impostazione è rimasta sostanzialmente estranea allo sviluppo dellascuola italiana di scienza politica, al suo inizio quasi completamenteassorbita dallo studio delle élite.

Anche in anni molto recenti, quando ormai la public choice negliStati Uniti era diventata una componente molto importante dellascienza politica, in grado di occupare – per qualcuno, di monopolizza-re – con i suoi contributi le principali riviste scientifiche, lo studiodella sfera pubblica con i metodi dell’economia rimaneva un’occupa-zione di pochi16.

Eppure, non è che la vita politica italiana sia avara di spunti perun’interpretazione economica di quel che avviene nel suo ambito. Èancora una volta Buchanan a ricordarci che il nostro paese può offriregli esempi più trasparenti della legittimità delle teorie razionali, perchéqui è più sottile la patina di idealismo che in altre nazioni vela i giochinell’arena pubblica:

Ero venuto a conoscenza di alcuni autori italiani che avevano posto moltaattenzione a un modello di stato e di politica. Così ho passato un anno inItalia [1955-56]. Questo ha cambiato il mio punto di vista sulla politica per-ché molti americani, quanto meno della mia generazione, avevano ancora unavisione romantica della politica. Gli italiani hanno avuto, almeno per me, lafunzione di suscitare molto scetticismo, molte nuove domande. Se non avessispeso quell’anno in Italia, forse non sarei stato capace di approdare a questarealistica visione critica della politica (politics) [Buchanan 1995]17.

In effetti, molti leader italiani meriterebbero un’iscrizione honoriscausa alla Public Choice Society per il disincanto che traspare dalleloro dichiarazioni.

Don Sturzo, il fondatore del partito popolare, scriveva: «Una voltadeputati si deve fare di tutto per restarvi, trasformando il mandato inuna professione, con le sue prospettive, i suoi miglioramenti, casa epensione comprese. Più si consolida il mestiere e più si forma lo spiri-to di corpo, la “casta”, e più si rende difficile l’avvicendamento , sulquale è basata ogni sana democrazia»18.

Enrico Mattei, protagonista della politica energetica del nostropaese, ripeteva di considerare i partiti come taxi: «Salgo, pago e mifaccio portare dove voglio»19.

Nel maggio 1982, in una fase di difficili rapporti tra la democraziacristiana e il partito socialista, Giulio Andreotti espone una teoria destina-ta a ritornare spesso nel dibattito politico, la teoria dei due forni. In

16 Citiamo tra gli altri D’Alimonte [1977], Martelli [1983], Rusconi [1989], Re-gonini [1984]; in anni più recenti, v. Giannetti [1993], Zucchini [1997], Chiaramonte[1996].

17 http://woodrow.mpls.frb.fed.us/pubs/region/int959.html (luglio 2000).18 Cit. da Enzo Biagi, «Corriere della Sera», 6 gennaio 1991.19 Cit. da Italo Pietra, «Corriere della Sera», 3 febbraio 1988.

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un’epoca segnata da forti contrapposizioni ideali tra cattolici e comunisti,la metafora suscitò vivaci reazioni, perché sosteneva che, com’è logico peril consumatore confrontare i prezzi di più fornai, per scegliere il più con-veniente, così era logico per la democrazia cristiana sorvolare sulle conti-guità ideologiche e stringere alleanze con chi – tra i socialisti e i comunisti– era disposto a cedere i suoi voti alle condizioni meno esose.

Gli esempi potrebbero continuare. Ma il problema non è dimo-strare che i politici sono cinici, o che in Italia lo sono più che in altripaesi, un assunto empiricamente molto fragile e teoreticamente pocosignificativo. Molti autori insistono a ritenere che questa tesi debbastare necessariamente alla base delle teorie razionali della politicaquando considerano, ad esempio, l’epoca di Tangentopoli20 comeun’evidenza a favore della public choice, e i virtuosi anni dell’immedia-to dopoguerra come una sua smentita. Nel paragrafo 1 abbiamo chia-rito che l’autointeresse di cui parlano le teorie razionali è assolutamen-te neutro rispetto al grado di venalità o di altruismo delle concretepreferenze degli attori. Certamente Mattei non agiva per interessi gret-ti o personali quando promuoveva, con metodi spregiudicati, l’autono-mia dell’Italia in campo energetico. Se avesse guardato al proprio tor-naconto, forse non avrebbe pagato con la vita la sfida da lui portataalle grandi compagnie petrolifere.

Il problema è capire come mai la visione dello stesso spettacolopolitico possa avere confermato in Buchanan l’idea che la semplifica-zione introdotta dalle teorie economiche della democrazia è accettabilee fruttuosa (come usare un manichino nel crash test), mentre portavalarga parte degli scienziati sociali italiani alla conclusione opposta(come usare un manichino per un esperimento sui farmaci).

2.3.2. I due destini di Pareto

Per approfondire questa diversa impostazione, è utile tornare a unmomento in cui i destini delle teorie economiche e quelli delle teorie po-litiche si sono non solo sfiorati, ma intrecciati nella riflessione di una stessapersona. Si consideri la diversa serie di concetti evocati di qua e di là dal-l’Atlantico dal nome di Pareto. Mentre in Italia è citato soprattutto cometeorico delle élite politiche, negli Stati Uniti il suo nome finisce in tutti imanuali di scienza politica al capitolo «teorie formali» per il concetto diottimo paretiano, che da lui prende nome. Questa espressione, «ottimoparetiano», è divenuta talmente comune che più nessuno fa riferimentoalle sue opere in bibliografia. Infatti la definizione paretiana di efficienzacostituisce il più noto e più chiaro criterio di valutazione del risultato diun processo decisionale collettivo (v. terzo capitolo, paragrafo 2). Ma an-

20 Nome coniato per identificare la diffusione della corruzione negli anni ’80.

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che molto difficile da soddisfare. Pareto per primo è pienamente consape-vole del fatto che governare è, nella stragrande maggioranza dei casi, vio-lare il suo criterio, l’unico sostenibile in termini economici:

La podestà pubblica deve necessariamente paragonare – non occorre oraricercare con quali criteri – le varie utilità. Quando, per esempio, rinchiude incarcere il ladro, essa paragona le sofferenze che gli impone coll’utilità che neè conseguenza pei galantuomini, e stima grossolanamente che questa compen-si almeno quelle; altrimenti lascerebbe andare libero il ladro. [...] In sostanzaessa [la podestà pubblica] compie grossolanamente l’operazione che con rigo-re compie l’Economia pura, e rende omogenee, mercè certi coefficienti, quan-tità eterogenee [Pareto 1916-1988, vol. IV, 2006-2007].

La riflessione di Pareto contiene due idee fondamentali per lo svi-luppo delle teorie razionali. La prima riguarda i limiti dell’uso dellecategorie economiche in chiave prescrittiva. Il suo concetto di ottimosi pone infatti come una barriera oltre la quale gli aggettivi «economi-co», «oggettivo», «razionale», «logico» perdono significato, se riferitiall’esito delle decisioni collettive21. La seconda idea coglie la possibilitàche le scelte pubbliche siano studiate con due strumenti diversi e al-ternativi: con i metodi deduttivi dell’economia, che considerano lepreferenze come date, e con i metodi induttivi della sociologia o del-la scienza politica, che studiano la genesi e la trasformazione dellepreferenze [Tullock 1972]. Le risorse dell’uno sono i limiti dell’altro:

In Economia pura, non si può considerare una collettività come una per-sona; in Sociologia, si può considerare se non come una persona, almenocome un’unità [Pareto 1916-1988, vol. IV, 2007].

Alla base della biforcazione non stanno due diverse opinioni circala società e l’umanità che la compone, ma stanno due metodi di infe-renza diversi. Così, se il secondo approccio deve fare ricorso a concettiquali società o stato, il primo non può permetterseli, perché il suopunto di forza sta proprio nel cogliere dietro queste metafore la pre-senza di tante funzioni d’utilità tra loro in conflitto: dei governati e deigovernanti; dei ladri e delle guardie, dei contribuenti e degli erogatoridi denaro pubblico. Questo lavoro di decostruzione del concetto diutilità sociale è lo specifico contributo che il ragionamento economicopuò portare allo studio delle scelte pubbliche:

I teologi ed i metafisici, per amore dell’assoluto, che è unico; i moralisti,per indurre l’individuo a curare il bene altrui; gli uomini di Stato, per indurlo

21 Come è noto, la tesi secondo cui il principio di Pareto sarebbe di per sé suf-ficiente a fondare una teoria liberale della politica è esplicitamente negata da Sen:«Se uno ha determinati valori liberali, può trovarsi a dover evitare di aderireall’ottimalità paretiana» [1970, 157].

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a confondere l’utilità propria con quella della patria; ed altre persone, persimili motivi, sogliono ridurre talvolta esplicitamente, spesso implicitamente,tutte le utilità ad una sola [Pareto 1916-1988, vol. IV, 1995].

Capire le ragioni della distinzione tra questi due modi di studiarele decisioni pubbliche è fondamentale per apprezzare il valore deicontributi che entrambi possono dare. E la vicenda intellettuale diPareto è la più chiara dimostrazione che una stessa persona può eccel-lere in entrambi i paradigmi.

Negli Stati Uniti, questo modo di impostare il problema del rap-porto tra teorie induttive e teorie deduttive ha aperto uno spiraglioper coltivare relazioni basate sul rispetto reciproco. Nella scienza po-litica italiana è invece prevalsa l’idea che le teorie economiche richie-dano l’adesione a una visione atomistica e meccanica delle relazioniumane:

Quando Pareto scriveva, la contrapposizione dei due modelli era in granparte superata nelle maggiori teorie dei suoi contemporanei: piuttosto cheverso due modelli alternativi per l’interpretazione del fenomeno sociale, lateoria sociologica si veniva orientando verso l’utilizzazione dei due modellicome schemi interpretativi di due forme diverse e ricorrenti di società, sia chesi trattasse della grande dicotomia di Tönnies (accolta anche da Max Weber)tra comunità (o società di tipo organico) e associazione (o società di tipomeccanico), sia che si trattasse della grande dicotomia di Durkheim tra socie-tà fondata sulla solidarietà meccanica e quella fondata sulla solidarietà orga-nica [Bobbio 1973, 29].

Dunque, non due modi di guardare agli stessi fenomeni sociali, madue classi diverse di fenomeni sociali: su questa base, il dialogo diven-ta difficile.

3. Riferimenti teorici e metodologici

Se negli altri capitoli un lettore frettoloso potrebbe anche saltare ilparagrafo 3, in questo caso l’equilibrio del capitolo è spostato tutto afavore dei fondamenti, perché è impossibile applicare le teorie dedut-tive allo studio del policy making, senza capire prima il loro modo diragionare.

Nelle pagine precedenti, abbiamo parlato di teorie «razionali»,«della scelta pubblica», «positive», utilizzando questi termini comesinonimi. Adesso è venuto il momento di essere più precisi e di guar-dare da vicino a queste diverse prospettive analitiche. Il campo di ri-cerca è ampio, complesso e in continua espansione [G. Miller 1997]:questo dato impone una dura selezione, perché le teorie economicheche possono risultare interessanti per lo studioso di politiche pubbli-che sono tante, troppe.

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LA SCELTA PUBBLICA 423

Nel selezionare quali contributi presentare, e quali relegare sullosfondo, abbiamo seguito il criterio della massima coerenza possibilerispetto all’impostazione adottata nel capitolo precedente. Abbiamodunque incluso solo le teorie che si confrontano con gli aspetti microdel policy making, quelle che cercano di spiegare le ricorrenti affinitàtra la natura della posta in gioco, le relazioni tra gli attori, le regole daessi concretamente seguite per «andarcene fuori». Nel quarto e nelquinto capitolo, per definire queste corrispondenze, abbiamo usatoun’espressione contorta e intraducibile, ma fondamentale: la politicsdel policy making. Le teorie incluse nel nostro percorso devono talescelta alla loro capacità di confrontarsi con questo concetto, per darglicontenuti univoci e rigorosi. L’obiettivo non è esonerare il lettore daulteriori approfondimenti, ma sottolineare l’originalità di questo mododi ragionare.

3.1. La ricerca di rendite

Il primo gruppo di teorie che presentiamo sembra smentire tuttoquello che abbiamo detto finora circa la differenza tra autointeresse edegoismo e circa la natura contingente del rapporto tra public choice econservatorismo politico [Stigler 1959]. Chiediamo quindi ai lettori disospendere il loro giudizio su questi temi fino alla fine del capitolo.Oggi la polemica radicale, e talvolta ingenua, nei confronti dell’inter-vento pubblico rappresenta solo una delle possibili declinazioni diquesta impostazione: ma la sua originaria aggressività ha avuto un ruo-lo determinante nell’incrinare quell’immagine affabile e bonaria delsettore pubblico, che permetteva agli approcci economici tradizionalidi sorvolare sui molti problemi insiti nella scelta e nell’attuazione dellepolitiche.

I contributi più significativi delle teorie sulla ricerca di rendite sicollocano in un triangolo che ha per vertici George Stigler [1971] e laScuola di Chicago, Gordon Tullock [1967] e una parte della Scuoladella Virginia, Mancur Olson [1965] e l’Università del Maryland.

L’assunto comune, di derivazione microeconomica, vede l’arenapolitica popolata da attori che hanno come principale obiettivo lamassimizzazione del loro interesse personale, esattamente come avvie-ne nel mercato. Le politiche pubbliche sono la merce di scambio concui i governanti acquisiscono il consenso dei governati e dispongonodi una parte del loro reddito, attraverso il prelievo fiscale. Gli elettori-contribuenti stanno al gioco, votando e pagando le tasse, perché sonointeressati al prodotto dei governi in termini di difesa nazionale, pen-sioni, trasporti pubblici. Il problema è che, a differenza di quanto av-viene nel mercato, nell’arena politica il punto di equilibrio tra doman-da di politiche pubbliche, da parte dei cittadini comuni, e offerta, daparte dei governanti, rischia di essere sistematicamente inefficiente in

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senso paretiano, determinando situazioni in cui l’interesse miope asfruttare per fini personali le cariche pubbliche si tramuta in un malecollettivo. Infatti le decisioni pubbliche aprono enormi opportunitàper trasferimenti di risorse dalla vasta platea della popolazione a ri-strette categorie di beneficiari, siano questi i politici, i burocrati, o igruppi d’interesse, tutti pronti ad approfittare di queste ghiotte occa-sioni per massimizzare le loro personali utilità in termini di prospettivedi carriera, di seguito personale e, perché no, di conti in banca.

Insomma, se il fornaio di Adam Smith, grazie a motivazioni basatesull’autointeresse, ci fa arrivare il pane in tavola e, in un mercato con-correnziale, ci permette di acquistarlo al prezzo migliore, l’assessore aitrasporti che ci fa arrivare l’autobus sotto casa, spinto dallo stessoautointeresse, può impunemente imporci – tra oneri diretti e indiretti,tra disservizi e scomodità – un prezzo più alto di quello che paghe-remmo in una transazione di mercato, e può usare questa rendita peralimentare le sue clientele.

I cittadini, che vedono nell’arena politica la via per rimediare aifallimenti del mercato, rischiano quindi di cadere dalla padella allabrace, perché incorrono nei fallimenti della politica, in molti casi anco- rapiù inefficienti e iniqui dei primi22.

Questi esiti paretianamente subottimi non possono essere spazzativia dalla competizione politica ma, anzi, per certi versi sono indissolu-bilmente legati ad essa. L’origine delle rendite coincide infatti conquelle stesse condizioni che permettono l’esercizio della democrazia,con i partiti, la propaganda, le elezioni, il tessuto delle organizzazionidegli interessi, il lobbying: cercare di eliminarle, porterebbe a buttarevia il bambino con l’acqua sporca, perché richiederebbe una inaccetta-bile compressione dei diritti politici e della libertà di associazione.

Dunque, nell’arena politica, gli interessi intensi e concentrati godonodi un sistematico vantaggio rispetto a quelli diffusi tra la quasi totalitàdei cittadini, ma proprio per questo stemperati dal fatto che nessuno nefa una questione cruciale. Le democrazie, instaurate per garantire l’affer-mazione delle preferenze dei molti rispetto a quelle dei pochi, devonocontinuamente fare i conti con l’ineliminabile tendenza a produrre l’ef-fetto opposto. Benché convergenti, le dimostrazioni di questo assuntosono articolate in modo diverso dai diversi autori che ricorrono al con-cetto di rendita politica.

3.1.1. Le politiche dal lato dell’offerta

Tullock e Stigler ragionano in una prospettiva top-down o, permeglio dire, dal lato dell’offerta. Nei loro modelli, sono i legislatori ad

22 Si ricordi per la caustica osservazione di Stigler quanto riportato nel terzocapitolo, paragrafo 5.

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essere studiati come attori razionali. Le loro strategie sono analizzatecome una forma di investimento delle risorse connesse alla carica: ce-teris paribus il parlamentare cercherà di utilizzare la sua influenza sullalegislazione per ottenere il massimo ritorno in termini di consenso, equindi di carriera, quando, alla fine del mandato, si ripresenterà alcorpo elettorale. Secondo l’ipotesi di Downs [1957], di Stigler [1971;1975], di Tullock [1970], i politici tendono ad accantonare le lorospontanee preferenze circa le varie opzioni di policy, per promuovereinvece quelle scelte che garantiscono il massimo rendimento in voti,più o meno come un produttore cinematografico guarda al botteghi-no, e non ai suoi gusti personali, quando deve decidere quali film fi-nanziare.

Nel valutare la «solvibilità» in termini di consenso elettorale deigruppi che si contrappongono nell’ambito di una politica pubblica, ilegislatori sono in grado di cogliere la differenza che esiste tra dividerela torta in poche fette grandi e dividerla in molte fette piccole. Nelprimo caso, si creano degli affezionati clienti; nel secondo, solo deidistratti fruitori. Le norme che impongono di confezionare le mozza-relle in sacchetti con la data di scadenza non hanno cambiato la vita anessun consumatore, anche se possono avere evitato il ricovero inospedale a qualche decina di persone. Che cosa questo provvedimentocomportasse in termini di costi per il rinnovo degli impianti e deimetodi di distribuzione era invece immediatamente evidente ai pro-duttori. Quando si tratta di stendere nel dettaglio la regolazione, èlogico che per il politico la riconoscenza di questi ultimi sia più inte-ressante del generico consenso dei primi.

In altre parole, la struttura degli incentivi nell’arena politica pena-lizza i cittadini comuni, i molti che non si aspettano certo di arricchirecon le norme a tutela dei consumatori o dell’ambiente, rispetto allelobby che si aspettano molto – e quindi sono disposte a dare molto –per vedere realizzate le politiche pubbliche per loro vantaggiose [Sti-gler 1971; Tollison 1982]. Pensiamo alla tipica situazione in cui si vie-ne a trovare il politico che deve scegliere tra due strategie, ad esempioin campo fiscale, entrambe senza oneri aggiuntivi a carico del bilanciodello stato. La prima alternativa toglie molto a pochi cittadini con red-diti elevati, per dare poco ai molti con redditi bassi. La seconda faesattamente l’inverso. Sapendo di doversi confrontare con interessi chesono – nel caso dei molto abbienti – circoscritti, ma intensi, e – nelcaso dei più disagiati – diffusi, ma deboli, il nostro parlamentare sicomporterà come un Robin Hood alla rovescia, che toglie ai poveriper dare ai ricchi.

I piccoli aumenti delle imposte a favore dei molti non sono in grado dispingere questi elettori a pagare i costi, per loro relativamente elevati, in ter-mini di opportunità perse, di informazione e di organizzazione, ma necessariper approfondire la situazione, arrivare a un accordo, coordinare il loro nu-

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meroso gruppo, in modo da sostenere la proposta. Invece, le misure che for-niscono sconti fiscali ai pochi possono dare a questi elettori grandi vantaggi acosti inferiori, offrendo forti incentivi perché si mobilitino e organizzino illoro sostegno, senza per altro comportare, per i molti, aumenti delle imposteingenti o, meglio, visibili. Alla luce di queste relazioni tra un legislatore, i suoipiccoli gruppi di sostenitori, e il resto del suo elettorato, diventa razionale peril legislatore negoziare con i suoi colleghi, che sono in una situazione analoga,i voti per ridurre le tasse a una serie di piccoli gruppi d’interesse. Se non rie-sce a farlo, tutto quello che può esibire alla gente del suo collegio è una seriedi sconfitte su misure che potevano dare riduzioni fiscali agli interessi specia-li, senza essere in grado di fornire nessuna riduzione di simili proporzioni perla massa degli elettori [Miner e Chalice 1978, 64].

Si noti che queste dinamiche non presuppongono alcuna uscitadall’ambito della legalità, quale si avrebbe con il ricorso alla corruzio-ne degli eletti o all’intimidazione degli elettori. Il fatto è che spostarele decisioni che riguardano i beni pubblici dal mercato all’arena poli-tica di per sé non le protegge dalle asimmetrie provocate dal fenome-no del free rider. E le precauzioni adottate dai padri fondatori, con ladivisione dei poteri e il mandato parlamentare a termine, non sonosufficienti a impedire che chi intravede forti vantaggi approfitti del suomaggiore potenziale organizzativo.

3.1.2. Una nuova teoria dei gruppi d’interesse

Mancur Olson [1965] colloca le ragioni di questa asimmetria all’in-terno di un’analisi dal lato della domanda, bottom-up, e concentra l’at-tenzione su un fattore cruciale, l’ampiezza dei gruppi d’interesse, da cuifa dipendere l’incisività delle risorse organizzative a loro disposizione.Secondo la sua teoria, le organizzazioni che si battono per interessimolto diffusi, quali le associazioni ambientaliste o i sindacati, devonofare i conti con la razionalità del free riding, che porta i numerosi desti-natari dei benefici a sperare che siano gli altri a pagare i costi della mo-bilitazione. Per i singoli membri di queste vaste platee, il successo del-l’azione collettiva assume infatti i contorni di un bene pubblico. Unnuovo contratto di lavoro di categoria, una riforma del servizio sanitarionazionale, la revisione della curva delle aliquote fiscali a favore dei tantiche hanno poco sono tutti provvedimenti in grado di produrre benefi-ci anche per chi non ha pagato i costi per la loro approvazione, perchéha evitato di partecipare agli scioperi sindacali, non ha sostenuto i par-lamentari proponenti, non ha finanziato le campagne di stampa.

In questi casi, le defezioni sono assolutamente razionali dal punto divista del singolo attore: se il contratto di categoria viene firmato, la validitàerga omnes gli permette di goderne i vantaggi senza averci rimesso niente.Se invece anche i compagni di lavoro fanno a scaricabarile, non è certocon il suo isolato impegno che può ribaltare una trattativa perdente.

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LA SCELTA PUBBLICA 427

E tuttavia, come nel caso dell’inquinamento ambientale, l’effetto ditante decisioni individuali razionali si rivela un male pubblico, perchésvuota l’incisività dell’azione collettiva e condanna i molti ad essere siste-maticamente sottorappresentati. Questo paradosso non colpisce infatti igruppi concentrati: ceteris paribus, le compagnie petrolifere non fannofatica a «fare cartello» nella determinazione del prezzo della benzina,tenendo sotto controllo la tendenza al free riding, che danneggerebbe in-vece qualunque tentativo di organizzare gli automobilisti.

La conclusione di Olson è in netto contrasto con i presuppostiimpliciti nelle teorie pluraliste sulle organizzazioni. Decine di volumisulla teoria dei gruppi ci hanno abituato a pensare agli interessi in ter-mini idraulici, come a una massa d’acqua: più ampio è il volume, piùcresce la forza di pressione. L’analisi razionale porta invece alla con-clusione opposta: nell’azione collettiva, il numero è un handicap, per-ché il fatto di essere in tanti indebolisce, anziché rafforzare, la motiva-zione a far valere le proprie ragioni.

3.1.3. Le politiche discriminatorie

Un terzo varco rende le istituzioni democratiche vulnerabili alle in-cursioni di chi vuole ricavare posizioni di rendita: ad aprirlo, è il princi-pio di maggioranza su cui esse si reggono. In genere, per far approvareun provvedimento, è sufficiente la metà più uno dei votanti, verificatadirettamente, nel caso di un referendum o, più spesso, indirettamente,attraverso il voto dei rappresentanti eletti in parlamento. Ma per finan-ziare quello stesso provvedimento, è obbligatorio il concorso di tutti,perché non è possibile sottrarsi al pagamento delle imposte, anche senon se ne condivide l’utilizzo. Dunque, le politiche preferite dai vincito-ri sono prodotte anche con le tasse dei vinti, mentre nelle transazioni dimercato ciascuno paga solo per i beni che ha scelto.

Questa caratteristica dell’arena politica, che di fatto equivale all’im-possibilità, per le minoranze, di «chiamarsi fuori»23, dischiude la pos-sibilità di strategie di collusione in cui una risicata maggioranza di be-neficiari riesce a imporre i costi delle scelte da essi preferite a tutta laplatea degli elettori-contribuenti.

Gordon Tullock [1967; 1976] ha approfondito questo concetto intermini che non disdegnano il recupero del concetto di efficienza pro-prio dell’economia del benessere. Immaginiamo che esistano tre villag-gi, esattamente con le stesse caratteristiche. Tutti sono traversati da unfiume, e tutti hanno all’ordine del giorno la costruzione di un ponte. Icosti dell’operazione sono identici nei tre casi: 15 milioni. Anche il si-stema di finanziamento è identico. Ammettiamo, per semplicità, che in

23 Il riferimento è al concetto di exit, formulato da Hirschman [1970].

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Villaggio A Villaggio B Villaggio C

ogni villaggio ci siano solo tre votanti-contribuenti, tutti con lo stessolivello di reddito. Il costo per ciascuno di loro è quindi pari a 5 milio-ni. A variare, nei tre villaggi, sono solo i benefici connessi alla costru-zione del ponte, riassunti nella tabella 6.1.

Se i tre progetti vengono messi ai voti, nel villaggio A la costruzio-ne è approvata, perché si esprimono a favore i cittadini di riga 1 e 2.E la scelta è legittima anche in termini di costi e benefici sociali. Nelvillaggio B il ponte è bocciato, perché solo riga 1 vota a favore, anchese i benefici sociali eccedono i costi. Nel villaggio C il ponte è appro-vato per il sì di riga 1 e 2, anche se i costi sociali eccedono i benefici.

L’ultimo esempio rappresenta la materializzazione del rischio, paven-tato dai padri fondatori, di una dittatura della maggioranza, costituita daun cartello di interessi ristretti, e cementata dal trasferimento di risorse daiperdenti ai vincenti, con l’uso spregiudicato di politiche discriminatorie,cioè ritagliate su misura per aggregare il minimo consenso indispensabileper la loro approvazione [Buchanan, Tollison e Tullock 1980].

Le tre asimmetrie, identificate come le principali responsabili delladiffusione delle rendite politiche, possono naturalmente sovrapporsi,cumulando i loro effetti, sino a generare politiche che, benché appro-vate con procedure democratiche, sono molto lontane dal rispetto diquei criteri di efficienza e di equità, che dovrebbero distinguere ladecisione politica rispetto agli esiti del mercato.

Come è facile capire, questi argomenti hanno fornito una fortebase teorica per le politiche di privatizzazione e di deregolazione [Ben-son 1984]. E tuttavia la loro ispirazione, più populista che conservatri-ce, di per sé consente le più diverse declinazioni prescrittive. Del re-sto, da discendenti di Machiavelli, sappiamo che l’usare il realismocome chiave di lettura delle logiche politiche è un’impresa spesso inbilico tra cinismo e moralismo.

3.2. Le teorie della scelta sociale

Le teorie della scelta sociale concentrano la loro attenzione sulladifferenza che esiste tra il decidere da soli e il decidere in tanti. Il

TAB. 6.1. Benefici derivanti dalla costruzione del ponte (in lire)

Cittadino riga 1 10.000.000 12.500.000 6.000.000

Cittadino riga 2 7.500.000 3.750.000 6.000.000

Cittadino riga 3 2.500.000 3.750.000 50.000

Fonte: Rielaborazione da John M. Abowd, Public Choice, in http://old-instruct1.cit.cornell.edu:8000/econ101-abowd/lecture-public-choice.html.

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LA SCELTA PUBBLICA 429

passaggio dalle scelte individuali a quelle sociali non è ovvio e sconta-to. Il singolo risolve da sé il problema di come confrontare le variealternative: qualunque logica segua, compreso il lancio della monetinaper affidarsi alla sorte, quando esterna il risultato della sua decisione,attesta di identificarsi in una data scelta. Può darsi abbia dubbi e per-plessità ma, nel momento in cui si iscrive a una facoltà, acquistaun’automobile, gioca al lotto, ci autorizza a pensare che, tutto somma-to, si riconosca nella strada che imbocca.

Risalire a che cosa davvero vuole una collettività, quando non siesprime all’unanimità, è molto più complicato, e può addirittura di-ventare impossibile. Se al referendum per l’abrogazione di una leggevota il 49%, e tutti i votanti si esprimono per la sua eliminazione,questo dato in Italia è considerato insufficiente quale dimostrazione diuna volontà popolare di cambiamento: in Svizzera, è letto come unaprova schiacciante. Quando poi le alternative crescono, come succedein molte decisioni di politics o di policy, le cose si ingarbugliano ancoradi più. Dunque, non possiamo pensare al risultato di un’assemblea dicondòmini, di un voto parlamentare, di un’elezione, come alla naturaleestensione delle decisioni di un individuo:

La teoria della scelta sociale consiste nella descrizione e nell’analisi delmodo in cui le preferenze degli individui membri di un gruppo sono amalga-mate in una decisione per l’intero gruppo: come sono aggregati nella mozioneapprovata i valori dei membri di un comitato; come la selezione dei gover-nanti riflette – o non riflette – le preferenze dell’elettorato; come le venditeall’asta e le contrattazioni decentrate amalgamano i gusti dei partecipanti[Riker 1986, xi].

Il fatto di poter vedere solo il risultato dell’aggregazione, sulla basedelle regole in vigore in quel dato momento per quella data decisione,è il problema fondamentale della scelta sociale. Per tornare alla nostrametafora, vediamo il frullato e il frullatore, ma non c’è verso di risalireda questi dati agli ingredienti originari: non sappiamo se le fragole era-no tante e piccole, o poche e grosse; non sappiamo che gusto avrebbeavuto il frullato se avessimo usato un frullino a mano... Che si tratti didecidere quale film andare a vedere tutti insieme, o chi dev’essere ilcapo del governo, nelle scelte sociali il passaggio dalle preferenze deisingoli a quelle collettive richiede comunque una regola di aggregazio-ne delle prime: «si vota a maggioranza semplice», oppure «decide ilpiù anziano», oppure «decide chi è stato penalizzato la volta prece-dente».

Dunque, le scelte sociali si manifestano solo attraverso le regole:ma se queste sono lo strumento indispensabile per la loro rilevazione,sono anche la barriera che si interpone tra l’esito finale e le preferenzedei singoli. Per tornare all’esempio del referendum, non c’è verso didire più di quello che abbiamo detto: stanti le regole del gioco, il ri-sultato è «no all’abrogazione» se siamo a Como, «sì all’abrogazione»

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se siamo a Chiasso. Sapere come la pensa la popolazione è impossibi-le, perché non è dato sapere come avrebbe votato il 51% che si èastenuto, se le regole fossero state diverse. Nel caso italiano, l’astensio-ne potrebbe essere calcolata, come quando, nel 1990, la Coldiretti in-vitò i suoi iscritti a disertare il referendum voluto dagli ambientalisti,per l’abolizione di norme molto tolleranti sull’uso dei pesticidi in agri-coltura. In questo caso, un piccolo gruppo di persone, tra loro bencoordinate, potrebbe avere determinato il risultato. Ma a generarel’astensione potrebbe essere anche l’aspettativa di una vittoria dei no,data per scontata e condivisa.

Molta gente pensa che votare ci dica «la preferenza del gruppo» [...]. Mai gruppi non preferiscono nulla. Non sono esseri umani. Il fatto che parliamodi «volontà popolare» non vuol dire che la «volontà popolare» esista. La scel-ta di un gruppo sicuramente non è indipendente dal processo con il quale èfatta la scelta. Dunque, non c’è proprio alcuna «vera» preferenza di un grup-po. Gli esiti che le diverse procedure possono consentire a un gruppo di rag-giungere sono i più vari. Tutti questi esiti sono in un certo senso accettabili ecorretti. Ma alcuni sono più accettabili per una persona, altri lo sono per al-tre persone [Riker 1986, 19].

Si noti che questa impostazione può essere letta come un altromodo per affrontare il problema della funzione del benessere sociale,problema che l’economia del benessere e le analisi razionali delle politi-che risolvono ammettendo una qualche forma di comparabilità tra lepreferenze individuali, in modo che diventino misurabili e integrabili traloro [Barry e Hardin 1982]. Questa operazione è considerata arbitrariadalle teorie della scelta sociale. Poniamo di disporre delle funzioni diutilità di ciascuno dei componenti della nostra collettività: qualcunopreferisce le strade alle scuole, qualcun altro le scuole agli ospedali, ecosì via. Come pesare queste opzioni? Quale operatore logico applicarea queste preferenze per far saltare fuori un risultato univoco, che ci per-metta di dire: «questo è quello che vuole questo gruppo di persone»?Quale frullatore devo usare – quali lame, quale velocità, ecc. – per esse-re sicura che il gruppo apprezzerà poi il gusto del frullato? Che cosafaccio se uno mette una fragola e un altro una bistecca? Si può imporreuna regola «vale solo la frutta»? E se una maggioranza preferisse «valesolo la carne»? Ma allora come fare il referendum? Con quali regole,svizzere o italiane? E a chi spetta approvarle? La funzione del benesseresociale deve indicare una procedura standard – un software, una costi-tuzione – in grado di operare in tutte le circostanze e qualunque sia lapersonale preferenza di chi la applica.

Dunque, gli elementi della scelta sociale non sono due, le alterna-tive in gioco e le preferenze dei singoli, com’è per le scelte individuali,ma sono tre, per l’inevitabile presenza di un altro scomodo fattore, leregole di aggregazione.

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LA SCELTA PUBBLICA 431

3.2.1. Il teorema dell’impossibilità

Le regole sono un fattore scomodo perché non sempre riescono agarantire l’approdo a scelte sociali coerenti, cioè rispettose della pro-prietà transitiva, funzione che invece, secondo l’individualismo meto-dologico, è di norma assicurata dalla testa delle persone, capaci didare un ordine univoco alle loro preferenze.

Consideriamo una situazione che da almeno duecento anni24 attiral’interesse degli studiosi delle procedure di scelta: le maggioranze cicliche,il più noto tra i paradossi del voto, chiamato «paradosso di Condorcet».

Ammettiamo di avere tre individui, A, B, C, e tre alternative, x, ye z. Ad esempio, tre condòmini che devono decidere che fare del cor-tile del palazzo: x equivale a posti auto, y a giochi per i bambini, z aun giardino. Le preferenze dei tre attori sono rappresentate dal nume-ro d’ordine che ciascuno assegna alle varie alternative: la prima è postain testa a tutte, e così via. Ammettiamo che i tre condòmini abbianol’ordine di preferenze rappresentato nella tabella 6.2.

Una votazione sulla base della loro prima preferenza darebbe letre destinazioni alla pari e non permetterebbe di approdare a una de-cisione. In questi casi, può tornare utile ricorrere a sistemi di voto piùsofisticati e completi, capaci di rilevare non solo la prima preferenza,ma l’intero ordinamento stabilito da ciascuno. Il metodo più solidoprevede confronti a due a due per tutte le alternative possibili.

In questo caso, gli spareggi a coppie darebbero questo risultato:• x è preferito a y da una maggioranza (A e C);• y è preferito a z da una maggioranza (A e B).Dunque, in base alla proprietà transitiva, ci aspetteremmo di tro-

vare che una maggioranza preferisce anche x a z. E invece, colpo discena, una maggioranza (B e C) preferisce z a x!

La conclusione è sconcertante: anche adottando sistemi di votomolto sensibili all’intero ordine delle preferenze, una collettività conqueste caratteristiche si trova nell’impossibilità di approdare a unadecisione stabile, perché l’esito di qualunque votazione può essere ri-baltato, ponendo in modo diverso l’ordine della scelta. In altre parole,il processo decisionale non ha un unico punto di equilibrio, perchénon esiste una e una sola mozione che, messa ai voti, è sempre in gra-do di battere tutte le altre. Individui razionali, pur rispettosi della pro-prietà transitiva nell’ordinamento delle loro preferenze, possono gene-rare società «irrazionali», perché incapaci di approdare a scelte pubbli-che altrettanto coerenti.

24 Il riferimento è ai lavori di Jean-Charles Borda (1781) e del Marchese di Con-dorcet (1785) e, che hanno sviluppato metodi di votazione ancora oggi identificati coni loro nomi. Cento anni dopo si occupò assiduamente di questi temi anche il reveren-do Charles Dogson, più noto con il nome di Lewis Carroll, con cui firmò l’opera chegli ha dato la fama, Alice nel paese delle meraviglie.

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432 CAPITOLO 6

TAB. 6.2. Il paradosso del voto di Condorcet

x y z

A 1° 2° 3°

B 3° 1° 2°

C 2° 3° 1°

Le implicazioni di questo risultato sono state approfondite e gene-ralizzate con metodi formali in una delle scoperte più importanti perla storia delle scienze sociali del ventesimo secolo: il teorema dell’im-possibilità di Kenneth Arrow [1951; 1963]25.

L’autore parte dalla definizione dei requisiti minimi di una «buo-na» regola decisionale che, per essere veramente tale, deve soddisfarecinque condizioni indispensabili:

1. deve portare a risultati che obbediscano agli stessi criteri di ra-zionalità richiesti ai processi ordinativi individuali: in altre parole, deveprodurre esiti che rispettino la proprietà transitiva, esorcizzando il ri-schio di maggioranze cicliche26;

2. deve permettere una relazione positiva tra spostamenti nei valo-ri individuali e spostamenti nei valori sociali: se un membro della col-lettività cambia idea, e preferisce x a y, mentre prima preferiva y a x,questo suo cambiamento a favore di x non deve trasformarsi in unpeggioramento della posizione di x in quella che potremmo chiamare«la classifica generale»;

3. deve garantire l’indipendenza dalle alternative irrilevanti: se unaopzione prima disponibile viene a cadere, per questo solo fatto la po-sizione relativa delle opzioni superstiti non deve subire modifiche nella«classifica generale». Lo stesso vale nel caso che una nuova alternativasi aggiunga alle altre27;

4. deve assicurare la sovranità dei cittadini: gli individui sono libe-ri di scegliere senza vincoli, e nessuno può imporre restrizioni, perchétutte le graduatorie logicamente possibili sono ammissibili;

5. deve impedire l’affermazione di un dittatore: è esclusa l’esisten-za di individui in grado di imporre le loro personali preferenze comepreferenze della collettività.

La conclusione di Arrow è inderogabile: quando due o più indivi-

25 Talvolta citato come teorema della possibilità. È importante rimarcare il con-testo da cui emerge questa fondamentale opera, finanziata tra il 1948 e il 1949 da duethink tanks (RAND Corporation e Rockefeller Foundation), e sostenuta non solo daeconomisti, ma anche da studiosi quali Abraham Kaplan, Herbert Simon, David Ea-ston, cui vanno i ringraziamenti dell’autore nella prefazione.

26 Dunque, i metodi di votazione usati nell’esempio precedente, compresa la re-gola di maggioranza, non soddisfano questo primo requisito.

27 Dunque, la regola di maggioranza, il metodo di votazione adottato nell’esem-pio del picnic, non soddisfa neanche questo terzo requisito.

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dui hanno a che fare con tre o più alternative, non esiste nessuna pro-cedura decisionale in grado di assicurare il rispetto di tutte e cinquequeste condizioni: «Non ci può essere una costituzione che soddisfasimultaneamente le condizioni della razionalità collettiva, il principiodi Pareto28, l’indipendenza delle alternative rilevanti e la non dittato-rialità» [Arrow 1967, 228].

Detto in altri termini, non c’è verso di assicurare stabilità e coerenzaagli esiti delle scelte collettive, se non accettando qualche compromessocirca l’uguaglianza dei cittadini e l’ugual valore delle loro preferenze. Intaluni casi, queste restrizioni possono sembrare innocenti, come quandoal presidente di un’assemblea viene concesso un qualche potere nelladeterminazione dell’ordine del giorno e, quindi, delle mozioni ammissi-bili. Ma la breccia, piccola o grande che sia, rivela l’esistenza di un co-stante e fragile compromesso tra sensatezza delle decisioni e democrati-cità delle procedure decisionali. Come ha commentato Samuelson inoccasione del conferimento del premio Nobel per l’economia ad Arrow,«Aristotele deve essersi rivoltato nella tomba: la teoria della democrazianon può più essere la stessa (e in effetti non lo è più stata) dopo Ar-row» [Samuelson 1972, cit. in Holler 1982].

Termini quali «volontà popolare» o «consenso generale», comune-mente usati nei testi di teoria politica o nei discorsi dei leader, si rive-lano come primitive rappresentazioni antropomorfiche di quel che inrealtà è solo il prodotto contingente di procedure imperfette [Riker1982, 18; Schelling 1984, 93].

3.2.2. Conseguenze in termini normativi

La scoperta di un salto logico incolmabile tra scelta individuale escelta sociale ha prodotto una rivoluzione nel modo di pensare le co-stituzioni, le consultazioni elettorali, le procedure parlamentari. Leconseguenze sono state dirompenti sia per le teorie normative dellademocrazia, sia per la ricerca positiva [McLean e Urken 1995]. Fac-ciamo un rapido accenno anche alle prime, nonostante ci troviamonella colonna dei contributi descrittivi, solo per spiegare quali valori dibase fanno da sostegno a un modo di ragionare che a prima vista puòapparire cinico e antisociale.

Ad essere colpite dal teorema dell’impossibilità sono tutte quelleteorie che fondano la legittimità delle istituzioni democratiche su unaloro presunta capacità di rispecchiare fedelmente quella cosa in realtàsempre sfuggente che è l’orientamento generale dei cittadini. WilliamRiker [1982] definisce queste concezioni come populiste: suo bersaglio

28 Si noti che i requisiti 2 e 4 sono strettamente legati al rispetto del criterio diefficienza paretiana: se in una società tutti pongono in testa alle loro preferenze l’op-zione x, questa deve essere la preferenza della società.

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polemico è un’idea comunitaria e romantica della convivenza civile, cheha in Rousseau il principale ispiratore. A questa visione è contrappostauna impostazione, chiamata liberale, ben più cauta circa le virtù dellademocrazia, come del resto era prudente il realismo dei padri fondatoridella federazione americana, e di Madison in particolare. Da una taleprospettiva, il teorema dell’impossibilità cessa di essere un inquietanteparadosso, per diventare invece un prezioso punto di riferimento percapire quali promesse le democrazie possono davvero mantenere.

Innanzi tutto, una volta legate indissolubilmente le scelte socialialle procedure da cui sono emerse, l’ineliminabile imperfezione diqueste ultime conferisce un valore solo contingente alle prime [Riker1986, 142]. Come nell’esempio del referendum in Svizzera e in Italia,nessuno può dire come sarebbe andata in presenza di norme anchesolo un po’ diverse. Che si tratti di un’elezione, di una votazione inparlamento, della sentenza di una corte di giustizia, il risultato nonpuò ergersi a univoca e definitiva espressione della volontà popolare,perché comunque minato dall’instabilità o inadeguato rispetto a unrigoroso criterio di uguaglianza. Questi limiti valgono per tutte le pro-cedure che legittimano scostamenti dallo status quo non efficienti insenso paretiano, compreso il voto a maggioranza. Come aveva già det-to Schumpeter, «Evidentemente, la volontà della maggioranza è la vo-lontà della maggioranza, non la volontà del “popolo”. Quest’ultima èun mosaico che la prima non può assolutamente “rappresentare”»[1947, 260 trad. it.].

Sullo sfondo, c’è l’idea che il punto di forza della democrazia non ri-sieda nell’attesa di una fedele interpretazione della volontà popolare, mastia invece nei limiti di tempo e di competenze che vincolano chi esercitail potere, impedendogli di «andare troppo in là», e costringendolo a fer-marsi, a cedere ad altri la carica, a sottostare ad altre giurisdizioni.

Al vantaggio di indebolire la pretesa dei governanti di parlare anome del popolo, il teorema di Arrow somma quello di alimentare lafiducia degli esclusi dal potere nella possibilità di un cambiamento.Per quanto possa apparire paradossale, «l’inestirpabile potenziale didisequilibrio» [Riker 1983, 49] insito nel rischio di maggioranze cicli-che, di votazioni dall’esito contraddittorio, lungi dal costituire un pe-ricolo per la democrazia, può addirittura contribuire a legittimare lesue regole. Come scrive Buchanan, il carattere provvisorio, instabiledelle maggioranze

serve ad assicurare che le alternative concorrenti possano essere adottate eprovate in modo sperimentale e provvisorio, e sostituite da nuove alternativedi compromesso approvate da un gruppo di maggioranza, di composizionesempre mutevole. Questo è il processo democratico di scelta, quali che pos-sano essere le conseguenze sull’economia del benessere e sulle funzioni delbenessere sociale [...]. Se esistessero delle aree politiche, in cui specifici rag-gruppamenti di maggioranza possedessero identiche graduatorie delle alterna-

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tive sociali, diverrebbe necessario imporre delle restrizioni addizionali all’eser-cizio del potere decisionale della maggioranza [...]. Le minoranze, poste intali condizioni, non potrebbero più accettare le decisioni della maggioranzasenza rivoltarsi [Buchanan 1960, 291-292 trad. it.].

Ritorna in queste parole lo spettro che tanto preoccupava i padrifondatori: il rischio che la democrazia si tramuti in una tirannia dellamaggioranza, permettendo a una coalizione vincente di attuare legal-mente la sistematica esclusione di alcuni gruppi di cittadini. Se questoè il pericolo, l’imperfezione delle regole, la loro incapacità di evitarel’instabilità e le maggioranze cicliche, la loro zoppicante legittimazionerispetto al criterio di uguaglianza svolgono la straordinaria funzione direndere sempre precario e provvisorio il confine tra chi vince e chiperde: «gli attuali perdenti su un particolare problema possono spera-re ancora di diventare i vincitori su quello stesso problema, entrandoin nuove alleanze, scambiando i loro voti su qualche altro problema, oin generale impegnandosi in quel tipo di stratagemmi politici [...] chesono associati alla politica pluralista» [N. Miller 1983, 743].

Per chi ci ha seguito fin qui, queste parole suonano familiari, perchéhanno una straordinaria assonanza con le teorie presentate nel quartocapitolo, e più precisamente con il pragmatismo e con il pluralismo. Daqui nasce una prospettiva normativa completamente diversa da quella tra-dizionale per la valutazione di fenomeni quali l’instabilità delle coalizionie l’incoerenza delle scelte compiute nelle varie arene di policy. Questi pro-cessi, lungi dall’essere di per sé una patologia, contribuiscono ad alimen-tare le condizioni per il buon funzionamento di una democrazia [Regonini1995]. A dimostrazione di quanto sia estesa l’adesione a questa imposta-zione, citiamo le parole di due sostenitori forse inaspettati, March e Olsen,che scrivono, al termine della loro difesa delle istituzioni:

per una società probabilmente è meglio avere una continua contraddizionefra interessi, domande e valori in contrasto, che avere procedure che impon-gono una continua soluzione di tali contrasti [...]. Tentare di eliminare lecontraddizioni e le incongruenze mediante riconciliazioni, soluzioni e contro-partite può essere meno efficace che lottare con pressioni e ambiguità contra-stanti per cercare di stabilire una tollerabile alternanza [1989, 208 trad. it.].

La conclusione suona quanto meno controintuitiva per la nostracultura politica: la vera forza della democrazia sta nella sua debolezza.

3.2.3. Conseguenze in termini positivi

Il teorema dell’impossibilità ha dato l’avvio a un vivace settore diricerca intorno alle proprietà formali delle regole decisionali. A finiresul tavolo anatomico è soprattutto il più diffuso dei principi democra-tici: quello che richiede che le preferenze della maggioranza prevalga-

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no su quelle della minoranza. Utilizzando soprattutto le risorse meto-dologiche delle teorie spaziali del voto, di cui ci occuperemo tra breve,molti autori hanno studiato quali condizioni richiede e quali conse-guenze provoca il raggiungimento di esiti stabili nei processi decisiona-li governati dalla regola di maggioranza [Plott 1967; McKelvey 1979;Riker 1982; Schofield 1985; Sen 1970].

I risultati comportano un’estensione e un inasprimento della con-clusione di Arrow. Se le decisioni sono solo un po’ complicate29, lecondizioni necessarie per garantire stabilità agli esiti delle votazionidiventano estremamente difficili da rispettare [Plott 1967]. Se, nono-stante questa situazione, un gruppo approda a una decisione, il rap-porto tra la scelta collettiva e le preferenze individuali può essere ilpiù bizzarro e accidentale, al punto da scontentare tutti coloro chehanno preso parte alle votazioni [McKelvey 1976; 1979; Schofield1984]. Queste conclusioni, note come teorema del caos, portano a unribaltamento del modo di studiare le istituzioni.

La regola di maggioranza, come del resto qualunque altro criterio,appare come un metodo di scelta capace di generare praticamentequalunque esito, anche il più imprevedibile o contraddittorio [Riker1980]. L’agenda di ricerca esce capovolta: il problema non è più spie-gare l’anomalia dell’instabilità e del caos nelle decisioni politiche, maspiegare l’anomalia di quei casi di stabilità e coerenza che, nonostantetutto, riescono a emergere:

Può sembrare una perversione, ma la scoperta di proprietà benefiche inun’istituzione diventa immediatamente causa di grande curiosità e interesse daparte di chi adotta i modelli della scelta razionale. L’istituzione x svolge partico-larmente bene il compito y? Com’è possibile? Forse non sono stati razionali quel-li che hanno disegnato quell’istituzione? E, se lo erano, come ha fatto gente razio-nale a mettersi insieme per disegnare un’istituzione che effettivamente funziona?[...] Dato che individui razionali spesso non sono in grado di pervenire a risultatiefficienti, il fatto che un’istituzione funzioni non può essere considerato come unelemento sufficiente a spiegarne l’esistenza [G. Miller 2000, 542].

Quando il caos non è la norma, quando un parlamento non sov-verte il mese dopo le decisioni adottate il mese prima, quando la cortecostituzionale non smentisce se stessa a ogni sentenza, quando le poli-tiche pubbliche non hanno un andamento a zig zag, quando gli ospe-dali costruiti sono poi effettivamente utilizzati, quali dei requisiti diArrow sono stati violati?

Per ora non rispondiamo a questa domanda, ma sospendiamo quiil ragionamento, per riprenderlo tra breve, dopo avere ampliato il no-stro repertorio di risorse teoriche con l’esame di un nuovo gruppo diteorie razionali.

29 In termini tecnici, che saranno più chiari tra breve, se implicano più di unadimensione.

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3.3. La teoria dei giochi

La teoria dei giochi si propone di descrivere, spiegare e prevederele situazioni in cui due o più persone interagiscono tra loro in modotale che le scelte delle une influenzano le conseguenze delle sceltedelle altre [Schelling 1984]. Se gioco a pari e dispari, non posso sape-re se scegliendo pari ho vinto o perso, fino a quando non so che cosaha fatto il mio avversario. Quando osserviamo i giocatori impegnati inuna partita a poker, o a scacchi, conoscendo le regole del gioco, im-maginando che anche loro le conoscano e le rispettino, basandoci sul-l’ipotesi che giochino per vincere, possiamo capire la ragione delleloro mosse, possiamo collocarle entro precise strategie, e possiamoarrivare a predire quale sarà la scelta successiva.

La vita reale è più complessa di un mazzo di carte per il poker, ele politiche pubbliche sono tra i costrutti più elaborati della nostra vitasociale. E tuttavia, alcuni elementi possono accomunare i giochi e lepolitiche: entrambe queste attività presuppongono attori determinati atrarre dalle situazioni i massimi vantaggi possibili, ma anche obbligatia tenere conto delle scelte degli altri e a rispettare le regole in vigore.In vista delle elezioni, l’assessore al traffico di una città può decideredi fare un nuovo piano dei parcheggi: ma se vuole che non resti unpezzo di carta che si ritorce contro la sua immagine, deve tenere contodelle preferenze del comandante dei vigili urbani e di quelle degli au-tomobilisti, nonché dell’esistenza di un codice stradale che fissa chiarivincoli per tutti. La teoria dei giochi sfrutta queste analogie per spo-stare in là la frontiera della spiegazione e della previsione delle sceltesociali, «grazie all’identificazione di un limitato numero di schemi digioco, relativamente stabili e ricorrenti, che aiutano a ridurre, e dun-que a spiegare, la stupefacente varietà delle interazioni osservabili»[Scharpf 1978, 353].

Questa branca delle teorie razionali acquista dignità scientifica gra-zie al fondamentale contributo di John von Neumann [1928]. Dallasua collaborazione con l’economista Oskar Morgenstern nel 1944 na-sce un testo destinato a formare un’intera generazione di studiosi:Theory of Games and Economic Behavior. Nel 1950, John Nash iniziaa pubblicare i lavori che gli varranno, nel 1994, il premio Nobel perl’economia; a ricevere con lui il premio saranno chiamati altri due teo-rici dei giochi: John Harsanyi e Reinhard Selten.

Per capire come procede la teoria dei giochi, occorre tornare alterzo capitolo: qui, alla figura 3.1, nella parte relativa alla teoria delledecisioni, è riportato un esempio che riguarda la scelta tra l’acquistodi un’auto nuova o di una usata. Nell’impostare la struttura dell’alberodecisionale, occorreva tenere conto del fatto che le auto potessero ri-velarsi un gioiellino o un bidone. Ma, ad ogni modo, una cosa eracerta: l’auto non può decidere di fare la parte del gioiellino o del bi-done a seconda della scelta che io faccio, acquistandola o scartandola.

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Anche se molti sospettano il contrario, di norma si assume che le autonon siano vendicative. Se però un dirigente deve scegliere tra il rico-prire un posto importante con una nuova assunzione o con la promo-zione di un mediocre impiegato già in servizio, allora le cose si com-plicano, e la teoria delle decisioni mostra i suoi limiti. Una volta sca-valcato dal nuovo arrivato, l’attuale impiegato potrebbe rassegnarsi,ma potrebbe anche reagire con comportamenti ostili, mettendo in dif-ficoltà la direzione. A differenza di quanto accadeva per la sceltadell’auto, in questo caso la necessità di fermarsi a ragionare non di-pende da un’incertezza circa il valore delle due forme di investimento,la nuova assunzione o la promozione interna. Che la prima sia, in sé,la soluzione migliore, è fuor di dubbio. Il problema deriva dall’incer-tezza circa la reazione dell’altro: può spaventarsi, e migliorare le sueprestazioni, o può irritarsi, ingaggiando una sfida aperta.

Se la teoria delle decisioni è in grado di strutturare i problemi di otti-mizzazione nel caso di un unico decisore (una singola persona, ma ancheuna coalizione di governo, o un’impresa), la teoria dei giochi utilizza lamatematica per analizzare l’interazione tra due o più attori, tutti capaci difare le loro scelte tenendo conto di quelle a disposizione degli altri: in al-tre parole, tutti capaci di agire in modo strategico [Brams 1990].

Per questa sua capacità di cogliere l’interazione tra due o più sog-getti, tutti in grado di studiarsi e di condizionarsi a vicenda, la teoria deigiochi conosce applicazioni che spaziano ben oltre la sfera dell’econo-mia, per comprendere la competizione politica, le strategie militari, lapsicologia sperimentale, l’etica, e persino la biologia [Dixit e Nalebuff1991]. In fondo, molte delle situazioni di stallo riscontrabili nei rapportitra i partiti, o nei negoziati internazionali, o nella storia dell’evoluzione,possono essere lette come punti di equilibrio da cui gli attori non hannointeresse a scostarsi, siano questi gli eletti e gli elettori, i ministri degliesteri di due paesi rivali, o i vari segmenti del DNA [Smith 1982].

3.3.1. Elementi del modello

Dunque, quali sono gli elementi indispensabili per catturare unasituazione con gli strumenti della teoria dei giochi?

I giocatori. La costruzione del modello inizia dall’identificazione deigiocatori, cioè degli attori – singoli individui o squadre – le cui sceltesono tra loro intrecciate. I giocatori sono razionali, nell’accezione nor-malmente utilizzata dalle teorie economiche. E tuttavia, a differenza diquanto accade nei modelli finora discussi, le scelte di questi attori nonsono espressione diretta e immediata delle loro preferenze, ma sono ilrisultato di una riflessione capace di incorporare un qualche ragiona-mento circa le scelte degli altri giocatori con cui interagiscono. Questadifferenza è fondamentale. Gli individui che popolano le teorie razionali

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finora presentate fanno scelte autointeressate, ma spontanee, ingenue. Icondòmini dell’esempio precedente non si fanno turbare, nell’espressio-ne delle loro preferenze, dal fatto di concorrere a produrre maggioranzecicliche. I giocatori, invece, fanno le loro mosse solo dopo avere valutato

le combinazioni generate dalle mosse dell’altro.

Le vincite. Se nei modelli di derivazione microeconomica le pro-prietà delle preferenze degli attori razionali sono tali da consentire laloro rappresentazione attraverso una funzione di utilità, la teoria deigiochi, per ancorare le scelte dei suoi attori, deve fare ricorso a undiverso concetto, quello di payoff, capace di riassumere in una valuta-zione sintetica e impersonale le vincite associate ai diversi risultati peri diversi giocatori [Osborne e Rubinstein 1994].

È importante notare che i payoffs sono riferiti non alle scelte di ununico giocatore, ma all’incrocio tra le scelte di tutti i giocatori. Se gio-co a morra cinese, non posso sapere qual è il valore della mia scelta«carta» se non so qual è la mossa della mia avversaria: se lei gioca«sasso», mi va bene; se gioca «forbici» mi va male. Perché ci sia gioco,occorre che l’intera mappa delle combinazioni con le rispettive vincitesia nota a tutti i giocatori30.

Le strategie. Una strategia è un piano di azione completo che consi-dera tutte le evenienze possibili. I giocatori hanno la possibilità di sce-gliere tra mosse alternative, perché dispongono di più scelte, o azioni,ciascuna capace di influire sull’esito del gioco. Nel selezionare l’alterna-tiva più conveniente, tengono conto del fatto che i loro partner hannoun’analoga capacità di calcolo strategico. In un certo senso, uno schemadi gioco è un tentativo di dare forma definita al gioco di specchi tra lepersone, ad esempio Una e Altra, entrambe consapevoli che Una calco-la, ma anche Altra è capace di calcolare e di tenere in conto il fatto cheUna calcola; ma anche Una tiene conto del fatto che Altra tiene contodel fatto che Una calcola... Per le sue radici in questa serie di assunzioni,possiamo considerare la teoria dei giochi come una teoria delle cono-scenze condivise [Aumann 1988].

Le soluzioni. La teoria dei giochi si propone di analizzare come sicombinano vincite e strategie, per capire verso quali esiti tende ungioco. Alla base del suo modo di procedere sta la valutazione delleconseguenze delle diverse mosse e contromosse, per capire qual è lasoluzione, o le soluzioni, intorno a cui gravita il gioco, cioè qual è lasituazione in cui nessun giocatore ha più incentivi a cambiare la suastrategia perché, ferma restando quella degli altri, meglio di così co-munque non potrebbe fare.

30 Naturalmente non è necessario che siano note le risorse in mano all’altro gioca-tore. Se negli scacchi l’informazione è completa, nei giochi a carte coperte è incompleta.

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Il concetto di soluzione ha dunque valenze sia prescrittive, sia de-scrittive. Da un lato, ci dice che cosa devono fare i giocatori per com-portarsi da attori razionali. Dall’altro, ci dice dove, prima o poi, «vannoa parare» le situazioni caratterizzate dall’intreccio tra le strategie degliattori. Se la ricevuta fiscale è inutile per il cliente, e dannosa per il vete-rinario, è facile prevedere accordi in cui il veterinario fa uno sconto alcliente che non insiste a volere la ricevuta. Se il governo vuole spostarequesto centro di gravità, deve modificare la struttura del gioco, o ren-dendo più corposa la presenza di un nuovo giocatore, la guardia di fi-nanza, o cambiando la tavola dei payoffs e prevedendo, ad esempio, lapossibilità di detrarre dalle imposte le spese per il veterinario. Nel cam-po delle politiche pubbliche, «[la metafora del gioco] ci induce a guar-dare ai giocatori, a ciò che considerano la posta, alle strategie e alle tat-tiche, alle loro risorse, alle regole (che fissano le condizioni per la vitto-ria) e al fair play (che fissa i confini oltre i quali si ha frode o scorrettez-za), alla natura della comunicazione tra i giocatori (o alla sua assenza), algrado di incertezza circa gli esiti possibili» [Bardach 1977, 56].

3.3.2. Tipi di gioco

La teoria dei giochi dispone di numerose tipologie per catturare i trat-ti distintivi di una situazione caratterizzata dall’interazione tra più attori.

Il numero dei giocatori. La più semplice tipologia prende comebase il numero dei giocatori. I giochi tra due persone sono la categoriapiù elementare e più studiata. La loro struttura è in genere descrittacon il ricorso a una matrice in cui le scelte del primo giocatore, Riga,sono collocate nelle righe, e le scelte del secondo giocatore, Colonna,sono collocate sulle colonne. Le celle delle tavola risultante dall’incro-cio tra le righe e le colonne sono riempite con i payoffs dei due gioca-tori, in genere riassunti da due simboli, il primo indicante le vincite diRiga, e il secondo le vincite di Colonna.

Se ad esempio vogliamo costruire la matrice della morra cinese,dobbiamo procedere come in tabella 6.3, dove il payoff v (vittoria) èsuperiore a p (pareggio), che è superiore a s (sconfitta).

TAB. 6.3. Il gioco della morra cinese

Colonna

forbice carta sasso

forbice p, p v, s s, v

Riga carta s, v p, p v, s

sasso v, s s, v p, p

Fonte: Resnik [1987, 196 trad. it.].

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LA SCELTA PUBBLICA 441

Il modello qui presentato è molto semplice. Ma le complicazionipossono diventare enormi nel caso di giochi con un numero maggioredi giocatori, dove occorre dare conto dei payoffs associati a tutte lediverse combinazioni strategiche, e/o nel caso di giochi con mosse insequenza (come negli scacchi), e non simultanee (come nella morracinese); infatti nel primo caso è necessario ricorrere a una struttura adalbero per rappresentare le conseguenze di tutti i possibili svolgimentiad ogni stadio del gioco.

Il rapporto tra i «payoffs». Una seconda fondamentale tipologia èbasata sulle caratteristiche delle vincite, che possono essere tra loro inun rapporto a somma zero (o comunque fissa), o a somma variabile. Ilpoker e gli scacchi sono esempi di giochi a somma zero: la vincita diun giocatore comporta una perdita di ugual misura da parte dell’al-tro31. Questo tipo di giochi è del tutto competitivo e la contrapposizio-ne degli interessi è radicale: mors tua, vita mea.

Quando invece le poste in gioco possono essere ampliate o ristret-te a seconda delle strategie dei giocatori, siamo in presenza di giochi asomma diversa da zero. In questi casi, esiste un’area più o meno gran-de di sovrapposizione degli interessi, che pertanto non sono totalmen-te opposti.

Se i giochi a somma zero sono spesso «giochi» anche nel significa-to corrente del termine, perché sono costruiti intenzionalmente permettere alla prova le abilità dei singoli o degli schieramenti che si con-trappongono, è opinione corrente che molte interazioni in ambito eco-nomico e politico possano essere meglio descritte come giochi a som-ma diversa da zero. Le relazioni tra datori di lavoro e dipendenti sonospesso citate come esempio di giochi di questo secondo tipo, dato chei punti di contrapposizione si intrecciano agli interessi comuni. Nelleparole di un imprenditore: «Tra chi fa profitto e chi prende un salarioc’è sempre compatibilità: al massimo si litiga su come spartirsi le fette,ma intanto la torta cresce»32.

Lo spazio per la cooperazione. Nei giochi a somma zero, la coope-razione non ha spazio: è quanto accade con le elezioni in un sistemabipartitico, o con la revisione delle aliquote fiscali, quando deve rima-nere fisso il gettito complessivo. Nei giochi a somma diversa da zero,cooperazione e non cooperazione sono entrambi scenari in teoria pos-sibili, perché esistono sia esiti che avvantaggiano tutti gli attori, sia esitiche vedono alcuni vincere a spese degli altri. L’esempio delle relazionitra datori di lavoro e lavoratori torna di nuovo utile per illustrare en-

31 Anche la morra cinese è un gioco a somma zero, dato che il pareggio compor-ta zero punti per entrambi i giocatori, e la vittoria +1, cui corrisponde il –1 per il gio-catore perdente.

32 Dall’intervista all’imprenditore Dante Di Dario, in «Sette», 5 aprile 2001.

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trambe queste eventualità. La pace sociale è una situazione da cui tut-te le parti possono trarre qualche vantaggio; la sfida porta invece ungruppo a prevalere ai danni dell’altro.

In questo tipo di giochi, a fare la differenza, cioè a rendere razio-nale una strategia di cooperazione oppure una di non cooperazione, èl’esistenza o meno di condizioni che permettono ai giocatori di assu-mere in modo credibile l’impegno a perseguire gli obiettivi comuni. Sequesti accordi sono davvero vincolanti, allora la cooperazione si affer-ma come la scelta più conveniente per tutti. La possibilità di sottoscri-vere patti che prevedono penali in caso di defezione, l’esistenza di unaterza parte capace di assumere il ruolo di garante, la disponibilità adaccettare uno stretto monitoraggio delle proprie strategie, sono tuttisistemi che rendono razionale la cooperazione, perché a quel punto gliattori non hanno più motivo di temere di esporsi troppo, per poi ri-metterci. Il rilascio degli ostaggi dopo un rapimento, il disarmo con-cordato tra le grandi potenze, la separazione consensuale dopo la finedi un matrimonio sono tutti esempi di soluzioni cooperative a giochicon somma diversa da zero.

Infine, esistono situazioni in cui è possibile solo vincere insie-me, o perdere insieme. Rientrano in questa categoria i giochi di co-ordinamento. Si pensi alla generale utilità di un accordo circa laguida a destra o a sinistra. O si consideri il danno che può derivarealle regioni italiane nell’accesso ai fondi dell’Unione europea per ilfatto di presentarsi a Bruxelles in ordine sparso, senza una preven-tiva intesa. Possiamo pensare alle politiche che favoriscono l’incon-tro tra domanda e offerta di forza lavoro come a esempi di questogenere di giochi.

Il ruolo della comunicazione. È importante sottolineare che igiochi a somma zero o a somma diversa da zero danno un diversopeso alla comunicazione. Nei giochi del primo tipo, il fatto che igiocatori possano parlare tra loro è irrilevante. Ognuno sa che lacontrapposizione è totale, e che pertanto è sciocco dare credito aimpegni o promesse, perché «tanto, se appena può, mi tira un bi-done». Dunque, gli eventuali impegni e le dichiarazioni sono ariafritta33, perché esiste sempre un incentivo a rimangiarsi tutto, persfruttare la credulità dell’altro.

Invece, nei giochi a somma diversa da zero, la possibilità di comu-nicare, per concordare procedure e stringere accordi, è una variabilefondamentale, perché da essa dipende l’assunzione di quegli impegnicredibili che a loro volta spianano la strada al riconoscimento dellarazionalità della cooperazione. A quel punto, «se mi tira un bidone,danneggia me, ma danneggia anche se stesso».

33 Più elegantemente, cheap talk.

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LA SCELTA PUBBLICA 443

3.3.3. L’idea di equilibrio

Dall’incrocio tra le tipologie che abbiamo schematicamente presen-tato, nascono alcune delle più importanti acquisizioni della teoria deigiochi.

Consideriamo, ad esempio, il modello più semplice, basato su duegiocatori coinvolti in un gioco a somma zero. A questa categoria sonolegate alcune basilari proprietà delle soluzioni messe in luce dai padrifondatori della disciplina.

La prima rilevante scoperta ci dice che se cerchiamo, nella distri-buzione delle vincite, un punto di sella tale da corrispondere al valorepiù alto nella sua colonna, e al più basso nella sua riga, la coppia distrategie corrispondente rappresenta per i due giocatori il punto diequilibrio, cioè la scelta più conveniente per entrambi34.

L’esempio riportato nella tabella 6.4 si riferisce a un gioco tra duegiocatori, ciascuno con tre strategie a disposizione, cui corrispondonoi payoffs riportati nella tabella. Poiché si tratta di un gioco a sommazero, è sufficiente scrivere in ogni cella le vincite di un solo giocatore,Riga, dato che quelle dell’altro possono essere ricavate facilmente: 0per la casella R1C1, +1 per quella R1C2, e così via.

La soluzione di un gioco con queste caratteristiche può essere in-dividuata procedendo in questo modo. Innanzi tutto, Riga valuta inquale riga il suo peggiore risultato è il meno peggio. In altre parole,cerca di individuare in quale caso, mal che vada, può «portare a casa»il risultato più vantaggioso: come può ottenere il meglio per sé, se glialtri scelgono quel che è peggio per lui. Tra le tre strategie a sua di-sposizione (R1, R2 e R3), il risultato meno peggiore è garantito da R2,che assicura un payoff 1 anche se l’avversario fa la scelta meno favore-vole. Colonna ragiona in modo speculare, e seleziona la colonna in cuile sue perdite sono minori: sceglie pertanto C2 come strategia capacedi tutelarla davanti alle scelte meno propizie dell’avversario. Pertanto,la soluzione del gioco è la coppia di strategie C2 R2, da cui Riga gua-dagna 1, e Colonna perde 1.

Uno dei primi teoremi della teoria dei giochi ci dice che, se esisteun punto di minimax, cioè una coppia di strategie «prudenti», in gra-do di minimizzare le perdite qualunque sia la scelta dell’avversario, èrazionale per entrambi i giocatori attenersi a questo criterio. Tale solu-zione del gioco costituisce un punto di equilibrio, dato che nessungiocatore ha interesse a scostarsi dalla sua scelta, finché l’altro restafermo nella sua. Se Riga sceglie R2, qualunque altra scelta di Colonna,diversa da C2, comporta per lei costi più pesanti. Idem per Riga, seColonna sceglie C235.

34 Si badi, non in assoluto, ma relativamente a quelle modalità di interazione.35 Si noti che, nel caso della tabella dei payoffs della morra cinese, non esiste un

unico punto di equilibrio tale da fornire una precisa indicazione circa la soluzione del

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Nel 1928 John von Neumann dimostrò che ogni gioco a sommazero tra due giocatori ha una «soluzione», un punto di equilibrio.L’importanza di questo teorema risiede nel far intravedere la possibi-lità che, anche nel caso di interessi completamente contrapposti, i gio-catori approdino a soluzioni «razionali» nel senso che, rispetto ad esse,nessuno ha nulla da rimproverarsi. La guerra è guerra, o, meno dram-maticamente, la competizione è competizione: ma anche in queste si-tuazioni c’è una possibilità di scelta tra logiche inutilmente distruttivee autodistruttive da un lato, e logiche avvedute dall’altro.

E tuttavia il campo di applicazione del teorema di von Neumannrimane circoscritto a situazioni molto stilizzate, piuttosto lontane dalledinamiche all’opera in campo economico o politico. Il grande meritodi John Nash [1950] è di avere reso più generale e più astratto il con-cetto di equilibrio, facendone un’idea applicabile a tutti i giochi noncooperativi, indipendentemente dal numero dei giocatori e dalla rela-zione tra i payoffs: «Un equilibrio di Nash è un insieme di strategie –una per ogni giocatore – tale che ogni strategia nell’insieme è la mi-gliore risposta a tutte le altre» [Ordeshook 1992, 97].

In una situazione di equilibrio di Nash, le attese dei giocatori sonopienamente rispettate, e nessuno ha incentivi per modificare in modounilaterale le scelte compiute, finché gli altri giocatori non modificanole loro. Le strategie che concorrono a formare un equilibrio di Nash sisostengono le une con le altre, si giustificano a vicenda.

Il concetto di equilibrio è una risorsa analitica potente: ci dicedove tendono le interazioni, nell’assunzione che gli attori razionali se-guano tutti logiche simili, e che non trovino pace fino a quando anchel’ultimo non si è convinto che meno peggio di come è andata nonpoteva andare, date le scelte degli altri. La forza di questa evidenzacostituisce una specie di centro di gravità capace di attirare verso di séi giochi. Se consideriamo le possibili applicazioni al policy making,possiamo immaginare che, se una politica pubblica è un equilibrio diNash rispetto agli attori significativi, nessuno ha incentivi per ostaco-larla o per rimetterla in discussione: pertanto la sua implementazionesi autoalimenterà.

Si noti che, perché si verifichi una situazione di stabilità, non ènecessario che tutti ne traggano vantaggio. Nella soluzione al giocopresentato nella tabella 6.4, Colonna registra una perdita. È invece ne-

gioco, dato che tutte le righe, e tutte le colonne, contengono le stesse combinazioni divincite. E tuttavia, anche in questo caso la teoria è in grado di indicarci l’esistenza diun equilibrio. Per approdare alla sua dimostrazione, occorre però riflettere su un dato.Un giocatore in genere non sceglie una strategia pura (sempre sasso, o carta, o forbi-ci), ma una mista, cioè una distribuzione di probabilità tra le varie strategie pure,combinandole in modo bizzarro, con l’obiettivo di rendere meno prevedibili le suescelte per l’altro giocatore: due volte sasso, poi tre volte carta, poi una volta forbici,poi ancora due volte carta... Dunque, in questo caso l’equilibrio deve tenere conto del«fattore sorpresa» ideale.

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LA SCELTA PUBBLICA 445

TAB. 6.4. Il punto di minimax

ColonnaC1 C2 C3

R1 0 –1 7

Riga R2 4 1 2

R3 0 –3 8

cessario che chi è penalizzato sia convinto di non poter ulteriormenteridurre i suoi costi, date le scelte compiute dagli altri. Infatti gli abbi-namenti strategici che rientrano nell’equilibrio di Nash eliminano irimpianti, perché «non c’era altra strada», date le opportunità asse-gnate dalla vita.

In fondo, da questa rappresentazione dell’equilibrio esce un con-cetto di scelta sociale che trae la sua forza da controlli incrociati e daaspettative coordinate, sostenute da una comune lettura dei vincoli edelle risorse collegati alle varie situazioni [Scharpf 1990]. Nel caso deigiochi non cooperativi, la convergenza su insiemi di strategie che sisostengono a vicenda non richiede né accordi espliciti, né fini condivi-si, ma è garantita dal solo fatto che tutti sanno di ragionare allo stessomodo.

Dunque, l’esistenza di un equilibrio di Nash fornisce un riferimen-to univoco e universalmente apprezzabile in tutte le interazioni strate-giche? La risposta gela le speranze: purtroppo no.

Innanzi tutto, non è detto che le combinazioni strategiche qualifi-cabili come equilibri di Nash siano soltanto una per ogni gioco. Am-mettere che in certe situazioni si dia un’abbondanza di insiemi di scel-te con questa proprietà apre il problema di un raffinamento del con-cetto di equilibrio, in modo da farne uno strumento più incisivo e se-lettivo, per aumentare il suo potere euristico.

Ma c’è un secondo aspetto, ancora più allarmante: l’equilibrio dicui parla la teoria dei giochi è sì stabile, ma non necessariamente desi-derabile. Più precisamente, una soluzione può essere l’equilibrio di ungioco, ma nel contempo può cristallizzare una situazione inefficiente insenso paretiano per tutti i giocatori in essa coinvolti. Il dilemma delprigioniero è la celeberrima metafora utilizzata per dimostrare questaspiacevole possibilità.

3.3.4. Il dilemma del prigioniero

La storia è semplice. Due ladri compiono una rapina. Mentre fug-gono, dopo essersi liberati del bottino, la polizia li arresta per eccessodi velocità e li imprigiona in due celle separate, senza possibilità di

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comunicazione. Il magistrato sospetta che le loro colpe siano ben piùgravi, ma non ha le prove. Per questo invita ciascuno dei due a colla-borare con la giustizia, offrendo in cambio uno sconto di pena. Latabella 6.5 presenta gli anni di pena associati alle varie combinazioni36.

I due prigionieri hanno 12 ore di tempo per scegliere la loro stra-tegia, ciascuno nel più stretto isolamento.

Se si comportano da attori razionali, la loro scelta è obbligata,perché il gioco, non cooperativo e a somma diversa da zero, ha ununico equilibrio di Nash. Per individuarlo, Riga deve ragionare inquesto modo: «Se Colonna non confessa, a me conviene confessareperché, se non confesso, prendo 1 anno invece di una semplice multa.Se Colonna confessa, di nuovo mi conviene confessare, perché prendo5 anni invece di 10. Dunque, mi conviene confessare».

Colonna, a sua volta, deve fare lo stesso calcolo: «Se Riga non con-fessa, a me conviene confessare...».

Per effetto di questo ineccepibile ragionamento, Riga e Colonnadecidono entrambi di confessare. In questo modo sono condannaticiascuno a 5 anni di carcere. Se nessuno dei due avesse confessato,avrebbero avuto soltanto 1 anno ciascuno, un esito migliore per en-trambi, quindi paretianamente superiore rispetto a quello conseguitocomportandosi in modo razionale.

Questo risultato ha suscitato una straordinaria attenzione per tremotivi.

Innanzi tutto, il dilemma dimostra l’esistenza di situazioni in cuil’interazione tra attori razionali, pienamente informati delle conseguen-ze delle loro scelte, approda a esiti inefficienti, cioè subottimi in sensoparetiano. Detto altrimenti, il gioco ha sì un punto di equilibrio, maquesto è tale da generare il rimpianto per entrambi i giocatori.

In secondo luogo, il dilemma del prigioniero è spesso consideratocome una denuncia dei limiti di un concetto di razionalità che ha nelcalcolo del proprio interesse il suo tratto distintivo. Se i due prigionie-ri avessero nutrito fiducia nella disponibilità dell’altro a rischiare undanno personale, pur di dare una chance al bene collettivo (rappresen-tato dal risultato «1 anno di prigione a testa»), si sarebbero guardatientrambi dal confessare; avrebbero seguito una strategia di collabora-zione, e non di defezione, con reciproca soddisfazione finale. Per que-sto la storia è stata utilizzata come un altro modo di dimostrare lamiopia del free rider: apparentemente, rifiutandosi di pagare i costi perla produzione dei beni pubblici, chi inquina l’aria con una caldaiamalandata si comporta da furbo. Alla resa dei conti, però, il risultatodi tante furbate individuali è un male collettivo – l’irrespirabilità del-l’aria – che fa stare tutti molto peggio.

36 Si noti che in questo caso, al contrario dei precedenti, i valori inseriti nella ta-bella non devono essere massimizzati, ma minimizzati, trattandosi di anni di carcere.

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TAB. 6.5. Il dilemma del prigioniero

Colonna

non confessa confessa

Riganon confessa 1, 1 10, 0

confessa 0, 10 5, 5

In terzo luogo, il dilemma del prigioniero, gioco non cooperativo asomma diversa da zero, è diventato un potente strumento per esplora-re la zona intermedia tra i giochi a somma zero, rigorosamente compe-titivi, e i giochi a somma diversa da zero esplicitamente cooperativi:secondo alcuni autori, molte situazioni della vita reale si collocanoproprio in questa terra di mezzo, dove le ragioni a favore della colla-borazione si mescolano ad altre che spingono alla defezione: in questicasi, la presenza di istituzioni che vincolino gli attori ad assumere im-pegni credibili potrebbe fare la differenza, rendendo razionale la col-laborazione, con generale soddisfazione [Fudenberg e Levine 1998].Ma che cosa accade quando questa risorsa esterna non è disponibile?

3.3.5. Tra il conflitto e la collaborazione

Per esplorare queste situazioni, alcuni studiosi hanno provato autilizzare la simulazione, anziché la deduzione, come metodo per ana-lizzare le strategie degli attori. Gli esperimenti, condotti facendo repli-care le scelte a giocatori in carne ed ossa, hanno dimostrano l’impor-tanza della prospettiva temporale di cui questi dispongono [Axelrod1984]. Mentre il gioco a un solo colpo incoraggia le strategie «mordi efuggi»37, con esiti complessivamente subottimi, la certezza di avere da-vanti lo stesso interlocutore per più di una volta induce i giocatori aconcedere fiducia all’altro, per stare a vedere come viene ripagata laloro disponibilità [Bendor e Swistak 1997]. In effetti, in tornei fatti ditante partite tra gli stessi giocatori, la strategia vincente si rivela quelladella reciprocità (tit for tat): inizia collaborando, ma al giro successivo,rispondi con la collaborazione alla collaborazione, e con la defezionealla defezione.

L’idea che, nel lungo periodo, la coppia di strategie collaborazio-ne/collaborazione possa trovare la sua ricompensa, è un’acquisizionecui le scienze sociali attribuiscono un grande valore [Binmore 1998].In un certo senso, gli esperimenti condotti in laboratorio sembrano

37 Si ricordi che, anche se si accordano per non confessare, i giocatori hannosempre l’incentivo a tradire all’ultimo minuto, perché questa è la strategia che massi-mizza la loro vincita.

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dimostrare come lo stabile intreccio dei destini favorisca l’insorgeredella fiducia reciproca, anche in situazioni di competizione e in assen-za di istituzioni preposte a punire chi tradisce: «La fiducia è spessoraggiunta semplicemente con la continuità della relazione tra le parti econ il riconoscimento, da parte di ciascuno, che in certe situazionil’eventuale guadagno del tradimento è superato dal valore di una tra-dizione di fiducia che rende possibile una lunga serie di accordi futu-ri» [Schelling 1960, 134].

Questa constatazione sembra in grado di ricomporre la frattura,finora apparsa come insanabile, tra le logiche micro, seguite dagli indi-vidui razionali, e le esigenze macro, della società nel suo complesso.

Se attori razionali possono imparare che c’è una soluzione miglioredel far incancrenire i conflitti, e che questa consiste nel dare una chanceall’avversario, per verificare la sua disponibilità a collaborare, sembrasciogliersi l’enigma che dal XIX secolo ha segnato la storia delle scienzesociali. Infatti il problema di come possa emergere un ordine spontaneoda una situazione originaria in cui ogni uomo è lupo per l’altro, ha mar-cato la riflessione di Comte, di Spencer, di Durkheim [Sugden 1989].

Questa prospettiva apre una nuova serie di problemi: se impararead apprezzare i vantaggi della cooperazione è possibile, come mai inalcuni casi gli interessi in gioco riescono a superare le rispettive diffi-denze, mentre in altri mettono in scena sempre lo stesso estenuanteconflitto, come i duellanti di Conrad? Quali condizioni favorisconol’emergere di strategie che «danno una chance alla pace», e quali leostacolano?

Torneremo spesso su questo interrogativo nel prossimo paragrafo,perché nel policy making molte frizioni hanno una struttura analoga aquella del dilemma del prigioniero: tra ambientalisti e industriali, trainsegnanti e famiglie, tra impiegati e utenti di un servizio pubblico, lasfida senza esclusione di colpi può essere meglio della resa unilaterale,ma certo è peggio della collaborazione.

Per capire la diversa evoluzione di queste situazioni, è importanteguardare alle condizioni iniziali del confronto, quando i giocatori sistudiano a vicenda, per cogliere ogni indizio utile a rivelare con chi siha a che fare dall’altra parte [Ordeshook e Palfrey 1988]. Quandol’apertura di credito all’avversario non è protetta da norme o da auto-rità superiori, la capacità di instaurare un clima di fiducia e di circon-darsi di una buona reputazione può risparmiare l’amara esperienzavissuta dai due prigionieri [Kreps e Wilson 1982; E. Ostrom 1998].La teoria dei giochi di segnalazione studia tutte quelle manifestazioni,fatte di parole, ma soprattutto di azioni, capaci di rafforzare l’ipotesiche la collaborazione è possibile. Rientrano in questo repertorio attiquali pagare una cauzione, dare qualcuno in ostaggio, ma anche rinun-ciare a un emendamento, dare in lettura un documento riservato, spo-stare uno sciopero dei trasporti a una fascia oraria che lo renda menotraumatico.

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3.3.6. I giochi cooperativi

Torniamo ora ai giochi cooperativi, nei quali sono evidenti le metecomuni ed esistono le condizioni per dare una chance al bene colletti-vo: «In un gioco cooperativo, i giocatori possono accordarsi su ognipossibile combinazione di strategie, dato che possono stare sicuri chegli accordi saranno rispettati» [Harsanyi 1977, 92].

Cooperazione, accordo, rispetto dei patti, sono tutti termini chepossono indurre qualcuno a tirare un sospiro di sollievo: finalmente, ilrealismo cede il passo ai buoni sentimenti. Ma queste situazioni posso-no offrire il contesto per strategie meno nobili, che ci riportano imme-diatamente con i piedi per terra.

In un gioco cooperativo, il problema per una persona razionale è rispon-dere alla domanda: «in questo gioco, quale scelta strategica porta al migliorrisultato per tutti noi?». Se questo sembra eccessivamente idealistico, occorrepensare che i giochi cooperativi in genere comportano «pagamenti laterali»,cioè favori e accordi di scambio finché ognuno non ha ricavato il massimo.Dunque, il problema di una persona razionale in un gioco cooperativo è unpo’ più complicato di quel che sembra. La persona razionale deve chiedersinon solo «in questo gioco, quale scelta strategica porta al miglior risultato pertutti noi?», ma anche «quanto può essere elevata la tangente che posso ragio-nevolmente chiedere per il fatto di scegliere davvero quella strategia?»38.

Si pensi a un semplice gioco: a due persone viene chiesto di spar-tirsi un milione. Possono intascare il risultato della divisione solo seriescono a mettersi d’accordo. L’incentivo a trovare un’intesa eviden-temente esiste. Ma questo non significa che l’esito sia unico, facile daraggiungere ed equo. Se c’è un forte dislivello di reddito tra i due gio-catori, il più ricco potrà ricattare il più povero, imponendogli una di-visione ingiusta.

3.3.7. Contrattazioni e coalizioni

Le politiche pubbliche sono spesso il risultato di complesse nego-ziazioni o, come dice Lindblom [1959], di aggiustamenti reciproci trainteressi di parte. La teoria dei giochi di contrattazione permette difare ipotesi sull’influenza dei contendenti e sull’esito della loro intera-zione. Alcune conclusioni ricalcano quelle del senso comune: a paritàdi condizioni, ha più potere chi dispone di risorse alternative (comedimostra la parabola dei due forni di Andreotti), chi può sopportaremeglio il rinvio dell’accordo, chi può anche alzarsi e andarsene.

38 R.A. McCain, Game Theory: An Introductory Sketch, in http://william-king.www.drexel.edu/top/eco/game/game.html, 1999 (agosto 1999).

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Altri elementi, invece, sono meno scontati, perché apparentementesono segni di debolezza, capaci però di tramutarsi in un vantaggio chemette l’avversario con le spalle al muro [North 1993]. Se un debitorerischia davvero il fallimento, diventa conveniente per il creditore con-cedergli uno sconto. Lo stesso effetto può essere prodotto dalla deci-sione unilaterale di rinunciare a una parte delle proprie risorse, perdimostrare in modo convincente l’intenzione di arrivare all’accordo. Illeader sindacale che va al negoziato con un mandato che ha spaccatola sua organizzazione mette i datori di lavoro in una situazione diffici-le, perché le conseguenze di una rottura diventano dirompenti.

Quello della debolezza è un paradosso, perché «il potere di vinco-lare un avversario può dipendere dal potere di legare se stessi: nellecontrattazioni, la debolezza è spesso forza, la libertà può essere libertàdi capitolare, e tagliarsi i ponti alle spalle può bastare a distruggerel’antagonista» [Schelling 1960].

Una coalizione è un gruppo di giocatori che si impegna a coordinarele proprie strategie per raggiungere obiettivi comuni: un gruppo parla-mentare, una squadra di calcio, una confederazione sindacale. Ma parla-re di gruppi e di squadre pone immediatamente un problema: quale for-mazione, tra le tante teoricamente possibili, ha maggiori probabilità disopravvivenza? Per resistere, una coalizione deve risultare conveniente pertutti i suoi membri: altrimenti qualcuno avrà interesse a defezionare, acambiare casacca, in modo più o meno esplicito. In fondo, anche gli at-taccanti delle squadre di calcio talvolta mancano il goal in modo sospetto.

In un mondo in cui anche la lealtà ha un prezzo, quanto deve es-sere elevato l’ingaggio di un giocatore – o quanto deve essere alto ilvalore di mercato della sua reputazione – per evitare che faccia favoria pagamento alla squadra avversaria? Quali garanzie in termini di rie-lezione deve dare il segretario di un partito, per evitare che un depu-tato passi a militare nel gruppo politico opposto?

La risposta a questi quesiti dipende da una serie di circostanze chepossono rendere più o meno interessante la defezione dell’attore razio-nale agli occhi suoi e di chi dovrebbe comprarne la virtù. È chiaro, adesempio, che una maggioranza che si regge su pochi voti rappresentaun’occasione d’oro per parlamentari non precisamente idealisti.

In termini più generali, per definire la soluzione di questi giochi,occorre considerare tutte le coalizioni teoricamente possibili, e verifi-care in quale rapporto stanno tra loro. Più precisamente, si dice che lacoalizione C è dominata dalla coalizione C se anche uno solo dei par-tecipanti a C ha interesse a passare a C, senza che nessuno della coa-lizione di arrivo ne subisca danno. La soluzione del gioco, il suo core,il centro di gravità verso cui tendono i tiramolla, le congiure, gli intri-ghi, è definito dall’insieme di tutte le coalizioni non dominate. Finchégli attori non sono disposti secondo uno degli schieramenti compresinel core, il quadro sarà sempre in movimento, perché qualcuno avràinteresse a spostarsi da un fronte all’altro [Ordeshook 1986].

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3.3.8. Il potere di voto

Questa impostazione è ulteriormente approfondita con lo studiodel potere esercitato sulla base dei pacchetti di voti controllati da cia-scuna delle parti in causa. Si pensi ai voti amministrati dai gruppi par-lamentari, o dalle cordate di azionisti di una società, o dalle delegazio-ni dei governi in consessi internazionali.

Contrariamente a quel che appare a prima vista, il potere di votonon è proporzionale al numero di voti di cui dispongono i vari gruppi,ma alla fame che gli altri hanno del loro sostegno [Laver e Schofield1990]39.

Confrontiamo due parlamenti in cui governa la coalizione che con-quista la maggioranza assoluta. In entrambi sono presenti tre partiti.Nel primo caso, il partito A ha il 30% dei voti, il partito B il 55%, eil partito C il 15%. Nel secondo caso, il partito A ha il 25% dei voti,B il 35% e C il 40%. Nonostante A disponga di più voti rispetto adA, il suo potere di voto è inferiore, dato che B è autosufficiente, e Bno. Più precisamente, nel primo caso A e C, pur avendo una diversapercentuale di voti, hanno entrambi un potere di voto uguale a zero,mentre B detiene tutto il potere. Nel secondo caso, A, B e C dispon-gono tutti dello stesso potere40, avendo tutti lo stesso bisogno di cer-carsi un alleato. Dunque, «il potere a priori di ogni delegazione, vistocome la sua capacità di determinare il risultato di un voto, date lepreferenze delle altre delegazioni, dipende dalla distribuzione comple-ta del peso dei voti; non è correlata in modo diretto al proprio pesonel voto» [Leech 1992, 245].

Da questa conclusione derivano due importanti osservazioni. Innan-zi tutto, possiamo considerare questa parte della teoria dei giochi comeun fondamentale contributo alla teoria del potere [N. Miller 1982, 35].Infatti il ricorso a questo tipo di formalizzazione consente di cogliere ilcarattere dispositional del potere, cioè la sua natura non assoluta, madipendente dalla configurazione assunta dall’insieme delle risorse in gio-co: «Che un partecipante abbia un ruolo decisivo o meno, dipende nonsolo dal suo peso in termini di voti, ma anche dal peso di tutti gli altripartecipanti nel gioco del voto» [Holler 1982, 28].

In secondo luogo, questa idea di potere presuppone la capacità disfruttare a proprio vantaggio gli stratagemmi consentiti dalle regoledemocratiche, senza troppi scrupoli di coerenza ideologica. Infatti «[la

39 Da un’intervista a Silvio Berlusconi: «Io ho sperimentato quale angoscia siprova nelle stanze chiuse e fumose nelle quali si decidono i candidati e si subiscono iricatti anche da parte di chi ha solo l’1%, eppure vuole imporre personaggi inadeguatie candidature impossibili. Purtroppo questa è la legge dei ricatti. E subirli è una ne-cessità» «Corriere della Sera», 14 aprile 2000.

40 Per una discussione sugli indici di potere, v. Brams [1976].

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teoria dei giochi] definisce l’indice di potere per ogni giocatore comeil numero relativo di volte che il giocatore, aggiungendo il suo peso auna coalizione perdente, può farla diventare una coalizione vincente;in altre parole, è il numero relativo delle conversioni (swings) per quelgiocatore» [Leech 1992, 246].

Con un linguaggio più crudo, ma sicuramente rispettoso del sensodi questa definizione, il potere di una delegazione dipende da quantoè prezioso per gli altri un suo voltagabbana [Shapley e Shubik 1954;Banzhaf 1965].

Implicita nel gioco politico basato sulle regole è infatti la possibi-lità di una loro utilizzazione strumentale: a essere avvantaggiato è chiha la capacità di fare i conti, di sfruttare le opportunità, di cogliere lepotenzialità offerte dalla configurazione delle risorse degli altri. Comescrive Schattschneider [1942, 41, cit. in N. Miller 1983]: «Il politicoha una specializzazione tecnica basata sullo scoprire come trarre van-taggio dal comportamento dei numeri». L’effetto può suonare sgrade-vole: ma è impossibile eliminare le tre condizioni che lo alimentano –procedure prestabilite, libertà di voto e attori razionali – senza elimi-nare anche la democrazia.

3.4. Le teorie spaziali del voto

Le conclusioni dei precedenti paragrafi non sono di quelle chetranquillizzano. Le teorie sulla ricerca di rendite dipingono un’arenapolitica percorsa da policy makers famelici. Le teorie della scelta socia-le dimostrano che il caos è l’esito cui tendono i processi di scelta. Lateoria dei giochi descrive attori che si dibattono tra il dilemma delprigioniero e strategie di coalizione spregiudicate.

Eppure, se nelle decisioni pubbliche non esistessero zone di stabi-lità e di coerenza, non potremmo parlare nemmeno di politiche pub-bliche. È vero, i requisiti di lungimiranza e di efficacia stabiliti dal-l’analisi razionale delle politiche (terzo capitolo) sono considerati damolti come irrealistici. Ma anche chi difende l’idea delle politichecome aggiustamenti progressivi intravede una qualche coesione nelsuccedersi delle varie deliberazioni.

Dalla teoria della scelta sociale e dalla teoria dei giochi non coope-rativi si sono sviluppati negli ultimi cinquant’anni una serie di studispecificamente indirizzati ad approfondire i requisiti della stabilità nel-le scelte pubbliche. Ma in un certo senso stiamo girando sempre intor-no allo stesso problema: l’identificazione di una linea di frontiera lun-go la quale le interazioni trovano un loro assestamento, perché oltrenon è possibile andare, se non rimettendo tutto in discussione, perchégli scontenti diventano ancora più scontenti, o i soddisfatti meno sod-disfatti. Sia pure con riferimento a diverse definizioni di scelta, il con-cetto di efficienza paretiana, l’idea di equilibrio di Nash, il vincitore

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LA SCELTA PUBBLICA 453

dei confronti alla Condorcet41, il core dei giochi di coalizione, sonotutti modi per dare un profilo a questa linea di frontiera, oltre la qualesi avanza solo a proprio rischio e pericolo, perché tutto il potenziale diaccordo spremibile da una situazione è stato spremuto. Dunque, que-sti concetti sono strumenti molto interessanti, perché indicano doveuna collettività composta da individui razionali prima o poi dovrebbeattestarsi. Ma i problemi nascono dal fatto che in certi casi la loro uti-lità si dissolve, o perché identificano troppi equilibri, o perché non neidentificano nessuno, o perché gli equilibri identificati non sono poicosì soddisfacenti, come nel caso del dilemma del prigioniero.

Le teorie spaziali del voto cercano di capire quali condizioni pos-sono ridurre l’incidenza di tali inconvenienti. Dato che il loro impian-to è piuttosto complesso e tecnicamente sofisticato, ci limitiamo a pre-sentare il modo di procedere, rinviando per l’approfondimento a testispecifici [Mueller 1989; Martelli 1999].

Le fondamentali risorse delle teorie spaziali del voto sono di duetipi. La prima è il ricorso a un modo di rappresentare le situazioni discelta capace di sfruttare le analogie con la geometria. Da questa col-locazione delle alternative in uno spazio a una o più dimensioni, nasceil nome di teorie spaziali. La seconda è l’ancoraggio delle deduzioni adue occasioni di voto concrete, facilmente quantificabili, dai contorniben precisi, per altro ampiamente studiati dalla scienza politica: le ele-zioni e le deliberazioni parlamentari.

3.4.1. Le dimensioni del voto

Le teorie spaziali del voto considerano le proposte sul tappeto e leposizioni dei diversi attori come insiemi di punti nello spazio. La di-stanza tra una proposta X e i punti che identificano le posizioni deidiversi attori A, B, C, D... fornisce la rappresentazione grafica di quan-to vicina o lontana è la proposta X rispetto alle preferenze di ciascundecisore: più vicina ad A significa dunque preferibile per A [Enelow eHinich 1984].

Il raffigurare in questo modo le scelte di voto ha il vantaggio difacilitare la dimostrazione di una serie di proprietà non immediata-mente intuitive.

La prima e più semplice applicazione di questo modo di ragio-nare è il teorema del votante mediano di Black [1948; 1958] eDowns [1957], che identifica quali proprietà devono avere le pre-ferenze dei decisori perché la regola del voto a maggioranza funzio-ni bene, cioè dia risultati univoci. Le condizioni da rispettare sonodue, tra loro logicamente collegate. Innanzi tutto, le varie alternati-

41 Il riferimento è alla procedura di voto con tutti gli spareggi possibili, che noiabbiamo applicato per descrivere il paradosso del voto.

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454 CAPITOLO 6

Util

ità

0 10 20 30 40 50 60

sinistra s. moderata centro d. moderata destra

AMPIEZZA DEL DEFICIT PUBBLICO

ORIENTAMENTO DEI PARTITI

FIGURA 6.1. Scelte a una dimensione.

ve tra cui scegliere devono essere tutte identificabili come punticollocati su un’unica dimensione. Quanto si deve spendere per fareil regalo alla maestra, o quanto deve essere grande l’appartamentoda cercare per la famiglia, sono esempi di decisioni collettive chesoddisfano questa prima proprietà. In ambito politico, possiamopensare alle votazioni per stabilire l’ammontare complessivo deldeficit pubblico; o possiamo citare le elezioni in cui si deve sceglie-re un partito entro una gamma di posizioni ben rappresentate dal-l’asse destra/sinistra.

In questi casi, chi propone una mozione – il primo articolo dellalegge finanziaria, o il programma elettorale di un partito – potrebbeprendere una matita, segnare un punto sul segmento, e dire: la miaproposta preferita sta qui.

Evidentemente, questa prima condizione non è rispettata se i com-ponenti della famiglia che deve scegliere il nuovo appartamento hannoidee diverse non solo circa la sua ampiezza, ma anche circa il suo co-sto e la sua localizzazione.

La seconda condizione che deve essere soddisfatta riguarda unasorta di coerenza interna alle opinioni dei votanti. La loro curva dellepreferenze deve avere infatti un solo picco, un solo punto di massimo.

AB

C

0 10 20 30 40 50 60

Ampiezza del deficit pubblico

FIGURA 6.2. Curve di preferenza a un solo massimo in una decisione di bilancio.

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LA SCELTA PUBBLICA 455

In altre parole, l’interesse per le diverse proposte deve diminuire (inmodo più o meno brusco) man mano che queste si allontanano dalpunto maggiormente preferito.

Nella figura 6.2, immaginiamo tre parlamentari della Commissio- nefinanze con tre diverse curve di utilità: il primo, un monetaristaconvinto, pensa che portare a zero il deficit sia la scelta migliore,perché più alto è il deficit, più rischi corre l’economia. Il secondo ri-tiene che, purché il deficit sia contenuto nei limiti del patto di stabi-lità dell’Unione europea, un po’ di flessibilità non guasta. Il terzo èun keynesiano che ritiene indispensabile una politica di deficit, infunzione anticiclica. Tutte e tre queste preferenze rispettano il requi-sito di un solo punto di massimo: per A questo coincide con il valo-re 0, per B è 18, per C è 6042.

Nell’esempio del regalo alla maestra, questa condizione non è sod-disfatta se qualche mamma pensa che o si fa un regalo molto costoso,oppure è meglio una cosa simbolica, un bigliettino, un fiore. In questocaso, infatti, la curva delle preferenze è concava.

Il teorema di Downs e Black afferma che, quando sono soddi-sfatte queste due condizioni, i processi di voto hanno un punto diequilibrio; cioè, esiste sempre una mozione in grado di battere tut-te le altre; dunque, esiste un modo per sfuggire alle maggioranzecicliche.

Non solo: conoscendo le preferenze dei votanti, è possibile iden-tificare qual è la mozione vincente. A risultare imbattibile è la posi-zione preferita dal votante mediano, cioè dal votante che spaccal’elettorato in due gruppi di ugual numero: da una parte tutti i vo-tanti con il loro punto di massimo alla sua sinistra, dall’altra quellicon il loro punto di massimo alla sua destra. Se lui scende in campo,o se qualcuno fa sua quella posizione, nessun altro può contare suun consenso altrettanto grande. Infatti, qualunque sia il risultato delconfronto tra la mozione di A e quella di C, la mozione di B è ingrado di vincere contro entrambe. In un confronto tra A e B, B ot-tiene il proprio voto e quello di C, che certo preferisce un deficitmoderato al pareggio di bilancio. Per motivi speculari, in un con-fronto tra B e C, B può contare sul voto di A, spaventato dalla pro-spettiva di un deficit ancora maggiore. In termini più tecnici, in que-sto caso la regola di maggioranza riesce a selezionare il vincitore dispareggi di Condorcet, identificandolo nel votante mediano. Dun-que, il paradosso del voto è esorcizzato, e le scelte collettive acqui-stano stabilità e coerenza.

Finché sono rispettate le due condizioni appena discusse, la situazio- nenon muta anche se il numero dei votanti cresce, come avviene nelleconsultazioni elettorali, o se le loro preferenze premiano le posizioni

42 Questi valori sono identificati calando la perpendicolare dal punto di massimodella curva all’asse orizzontale.

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456 CAPITOLO 6

Util

ità

DA

B CE

sinistra s. moderata centro d. moderata destra

Orientamento dei partiti

FIGURA 6.3. Curve di preferenza a un solo massimo in una competizione elettorale.

estreme. Nel caso descritto dalla figura 6.3, è il programma elettoralepreferito da C a costituire il punto di equilibrio della consultazione.

Si noti che «stare nel mezzo», avere la posizione mediana, nonequivale a occupare il centro dell’asse orizzontale. Le teorie razionalisono basate sull’interazione: in nessun caso è possibile sapere chi vin-ce, se non considerando le preferenze degli altri attori. Se la maggio-ranza si riconosce in posizioni a destra o a sinistra del centro, il votan-te mediano è decentrato, come dimostrano tutti gli esempi che abbia-mo illustrato.

3.4.2. Equilibri indotti dalle preferenze

Se confrontiamo il risultato di stabilità di questo teorema con l’esitosconfortante di quello dell’impossibilità, una domanda sorge spontanea:dov’è il trucco? Quali delle condizioni di libertà e di uguaglianza postula-te da Arrow sono violate dai prerequisiti richiesti da Black e Downs?

Osservando più da vicino la condizione dell’unidimensionalità,notiamo che essa equivale a una restrizione molto forte della libertà diproporre qualunque mozione. È vero, ciascuno può collocarsi nel pun-to che preferisce lungo l’asse convenuto, ma non può introdurre nuo-ve dimensioni, complicare il quadro della scelta. Nel caso della deci-sione di bilancio, una parlamentare non può dire: «L’importante nonè il livello del deficit, ma è la destinazione della spesa». Così facendo,introdurrebbe un altro asse, ortogonale al primo, e lo spazio di sceltadiventerebbe bidimensionale: ognuno dovrebbe collocarsi non lungouna retta, ma in un piano; non solo rispetto all’ammontare del deficit,ma anche rispetto alla sua destinazione, ad esempio più o meno socia-le. Nel nostro secondo esempio, se un gruppo di elettori non si rico-nosce nell’asse destra-sinistra, perché ritiene che oggi la vera sfida siatra federalisti e centralisti, o tra onesti e disonesti, di nuovo fa saltareil requisito dell’unidimensionalità.

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LA SCELTA PUBBLICA 457

Detto in altri termini, questa condizione richiede che le preferenzedegli individui che compongono una collettività divergano sì nelle pro-poste specifiche, ma convergano nella definizione della dimensione checonta. Nelle decisioni unidimensionali, una cultura politica condivisasvolge la funzione di censurare preventivamente le proposte «stonate»:a quel punto, non occorre restringere la libertà di mozione, perchéognuno lo ha già fatto da sé, conformando le basi della sua visione delmondo a quelle degli altri [Riker 1980].

Anche la seconda condizione, la curva delle preferenze a un solomassimo, è molto esigente, perché presuppone che siano rispettatenon solo la proprietà transitiva, ma anche le leggi dell’incrementalismoe del pragmatismo: questo tipo di attori non è attirato da due estremi-smi per volta, non è settario, non ha particolari idiosincrasie ideologi-che, non ragiona per «tutto o niente» perché, come dice il proverbio,piuttosto che niente, è meglio piuttosto. In questo mondo, non trovaposto la mamma che dice «o un regalo costoso, o un semplice fiore».Ma evidentemente queste condizioni non si danno neanche quandouna frazione rivoluzionaria preferisce la vittoria elettorale dei conserva-tori a quella dei riformisti, come spesso è avvenuto nella storia deipartiti operai.

Quando la ciclicità delle maggioranze è evitata grazie al rispetto diquesti vincoli, possiamo parlare di un equilibrio indotto dalle preferen-ze. In questi casi, la condivisione di alcuni valori di fondo e un gene-rale atteggiamento pragmatico producono il miracolo di una democra-zia insieme aperta e stabile.

3.4.3. Equilibri pilotati

Negli anni ’70, le attese di equilibrio legate alla configurazione del-le preferenze lasciano il posto a una più severa valutazione delle con-dizioni richieste dal teorema del votante mediano. Come abbiamo ri-cordato al termine del paragrafo sulle teorie della scelta sociale, i teo-remi di McKelvey [1976; 1979] e Schofield [1978] dimostrano che èsufficiente anche un lieve scostamento dal requisito dell’unidimensio-nalità per far ripiombare i processi decisionali nel caos delle maggio-ranze cicliche, perché due dimensioni e tre decisori bastano a rendereinstabile la scelta collettiva, quando le preferenze non sono largamentesovrapposte. Nonostante i numeri piccoli, le conseguenze non sonocontenibili perché, quando la regola di maggioranza manca l’obiettivodi produrre esiti stabili, lo fa alla grande: a quel punto, qualunquecosa può succedere, nel senso che il processo decisionale può appro-dare a qualunque esito, compreso quello meno gradito a una maggio-ranza [Riker 1980].

Il contesto multidimensionale descritto da questi teoremi è interes-sante perché ha dalla sua un maggiore realismo: quale parlamentare

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458 CAPITOLO 6

vota sull’ammontare del deficit senza prima andare a controllare daquali voci questo è prodotto? quale elettore si accontenta solo dell’eti-chetta «destra-sinistra» quando deve deporre la scheda?

Le teorie che consideriamo ora vanno a cercare altrove le fonti diquel po’ di coerenza e di stabilità che esiste nelle decisioni che ci lega-no l’uno all’altro, per il fatto di vivere nello stesso spazio e nello stessotempo. La loro attenzione si concentra sulle istituzioni che, con le lororegole, danno una struttura al processo di voto, fissando che cosa si-gnifica, nei diversi casi, decidere a maggioranza. Dunque, gli equilibridi cui ora ci occupiamo non sono quelli indotti dalle preferenze, maquelli indotti dalla struttura, cioè dalle regole istituzionali:

A prevenire un’espressione dei gusti del tutto casuale è il fatto che ledecisioni sono in genere prese all’interno di una cornice di regole note, che èpoi ciò che chiamiamo comunemente istituzioni. Dato che le istituzionisenz’altro influiscono sul contenuto delle decisioni, noi possiamo vedere qual-cosa del futuro solo specificando quali sono questi effetti, e come sono pro-dotti [Riker 1980, 19]43.

A questo punto, diventa significativa la distinzione tra due diversicontesti di voto: le elezioni e i comitati. Nel primo caso, il voto di ungran numero di individui serve a selezionare, tra una rosa di candidati,quello preferito dagli elettori; nel secondo, il voto di un numero ri-stretto di individui serve a selezionare, tra una rosa di proposte, quellepreferite dai partecipanti44. La nostra attenzione si concentrerà sullericerche del secondo tipo, che trovano nel voto parlamentare il loropiù rilevante oggetto di studio.

Il potere di agenda. Negli esempi che abbiamo considerato finora,abbiamo spesso sfiorato un problema: se il teorema dell’impossibilitàrichiede che tutte le mozioni siano ammissibili, nei fatti un qualche cri-terio per smistare e razionalizzare le alternative deve pur essere trovato.

Torniamo al caso utilizzato per illustrare il ricorrere di maggioranzecicliche (tab. 6.2): se tronchiamo il confronto dopo i primi due spareggi,un vincitore salta fuori, ed è x. In molti casi, il criterio di non rimetterein gioco le alternative uscite perdenti da un precedente confronto sem-bra ragionevole. In fondo, procedere con ulteriori verifiche sarebbe unpo’ come imporre a una squadra che ha vinto la finale della coppa delmondo di scontrarsi con tutte le formazioni che sono state eliminate alprimo turno. Ma questa chiusura del confronto ha una curiosa conse-guenza: il risultato finale è sì stabile, ma viene a dipendere totalmente

43 La numerazione delle pagine si riferisce alla ristampa in Ordeshook e Shepsle[1982].

44 La prima linea di ricerca può essere considerata un approfondimento del lavo-ro di Downs, e la seconda del lavoro di Black.

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LA SCELTA PUBBLICA 459

TAB. 6.6. Il controllo dell’agendaOrdinatore Prima eliminatoria Primo vincitore Seconda eliminatoria Vincitore finale

A y contro z y y contro x x

B x contro z z z contro y y

C x contro y x x contro z z

dall’ordine con cui sono effettuati gli spareggi. Dunque, chi ha il con-trollo sugli abbinamenti per le eliminatorie, ha la possibilità di far preva-lere l’alternativa da lui preferita, come dimostra la tabella 6.6.

In altre parole, chi decide la successione delle votazioni, ad esem-pio perché presidente di un’assemblea, può decidere del loro risultato,pur lasciando assolutamente liberi i votanti di esprimere le loro prefe-renze [Plott e Levine 1978]. In questo caso, gli basta mandare perprime allo sbaraglio le due alternative che meno gli piacciono.

Si noti che nel nostro esempio per brevità abbiamo assunto glistessi ordinamenti delle preferenze della tabella 6.2, quella del para-dosso del voto. Ma la conclusione può essere estesa a ogni configura-zione delle preferenze.

Lo scambio del voto. Nei comitati, dove i numeri sono relativamen-te bassi e circolano facilmente informazioni sugli ordinamenti dellepreferenze altrui, si possono creare le condizioni ideali per lo scambiodel voto [Tullock 1976].

Ammettiamo che una commissione debba votare su due diverseproposte di legge: la prima sui controlli per mucca pazza, la secondasull’orario degli insegnanti. Per ciascuna di esse, si tratta di scegliere tradue versioni ad esempio, una più severa, e una più lassista. Rispetto adesse, i tre componenti hanno le preferenze riassunte nella tabella 6.7.

Se le votazioni avvengono senza che i votanti possano comunicare,il loro esito è pacifico: il primo provvedimento passa nella versione x,e il secondo nella versione k. In entrambi i casi, A vede realizzate lesue preferenze.

Ammettiamo ora che la comunicazione sia possibile, e che B e Cscoprano di avere preferenze opposte non solo per orientamento, maanche per intensità. Infatti a C preme molto la versione y, perché rap-presentante degli allevatori, e a B preme molto la versione z, perché rap-presentante degli insegnanti. Entrambi hanno sì le loro idee sul provve-dimento che considerano secondario, ma sono ben felici di metterle traparentesi pur di far prevalere le loro preferenze nella votazione a cuitengono di più. Decidono dunque di scambiarsi i voti: B voterà per laversione y nella prima votazione, e C ricambierà il favore votando znella seconda. A questo punto, l’esito è capovolto. Il primo provvedi-mento passa nella versione y, e il secondo nella versione z. A, presuntovincitore, vede sacrificate le sue preferenze in entrambe le decisioni.

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460 CAPITOLO 6

versione x versione y versione k versione z

1o 2o 1o 2o

1o 2o 2o 1o

2o 1o 1o 2o

TAB. 6.7. Lo scambio del voto

Votante Primo provvedimento Secondo provvedimento

A

B

C

Nota: 1o è preferito a 2o.

Gli emendamenti killer. L’obiettivo di un emendamento killer è ditrasformare una proposta che di sicuro vincerebbe in una propostaperdente [Calvert e Fenno 1994; Denzau, Riker, e Shepsle 1985]. Ri-cordate l’esempio degli amici che organizzano il picnic? In quel caso,a ribaltare l’esito della prima votazione, e a far vincere il prosciutto,era stata la cottura dell’arrosto. In un contesto istituzionale, se unpolitico scaltro può fare previsioni sull’ordinamento completo dellepreferenze dei suoi colleghi, può sempre tirare fuori dal cappello unanuova proposta, in grado di spaccare la preesistente maggioranza. Se-condo Riker [1982; 1984], importanti passaggi della storia costituzio-nale americana sono spiegabili in questi termini.

Ammettiamo che un disegno di legge per portare l’obbligo scola-stico a diciotto anni disponga di una risicata maggioranza di riformisti,che lo preferisce alla situazione attuale, lo status quo. I conservatoridevono riuscire a individuare un emendamento in grado di attirare,oltre ai loro voti, anche quelli di una frangia della maggioranza, conl’effetto di rendere inaccettabile il progetto originario agli occhi diun’altra parte dei proponenti. Ad esempio, potrebbero far approvare,con l’appoggio della parte più progressista della maggioranza, la con-cessione di un presalario a ogni studente. La proposta, così emendata,sarebbe considerata uno stravolgimento dalla parte più moderata, chea quel punto potrebbe allearsi con i conservatori, giudicando lo statusquo il male minore.

Il voto strategico. Gli emendamenti killer presuppongono la capa-cità, da parte di alcuni attori, di dissimulare le proprie reali preferen-ze, per sostituire il loro voto ingenuo, o spontaneo, con uno strategico,o sofisticato [Farquharson 1969].

L’effetto di calcoli del genere può essere clamoroso. Ritorniamoalla tabella 6.6, e consideriamo la prima riga, che assegna ad A il po-tere di agenda. Il prevedibile risultato finale, x, lascia scontento soprat-tutto B, che giudica questa come l’alternativa peggiore. Se però B si fadue conti, scopre che alla prima eliminatoria non gli conviene espri-mere le sue vere preferenze, e votare per y, perché questo spiana lastrada alla vittoria di x. Se invece vota z, questa alternativa va in finale,

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LA SCELTA PUBBLICA 461

dove riesce a prevalere nel confronto con x. Per B, un risultatosenz’altro meno pesante di quello prodotto da un suo voto ingenuo45.

Sull’effettiva praticabilità di queste strategie nei confronti politicireali, e soprattutto nei parlamenti, è in corso da tempo un vivace di-battito [Krehbiel e Rivers 1990; Riker 1982]. La loro implementazioneesige infatti due condizioni. Innanzi tutto, gli elettori devono capire etollerare una tattica che in prima istanza si presenta come un tradi-mento. Nel caso dell’obbligo scolastico, chi ha votato i parlamentariconservatori potrebbe sobbalzare quando sente delle loro proposte perdare il presalario a tutti gli studenti. In secondo luogo, occorre chesolo alcuni dei votanti siano capaci di dissimulare le loro vere prefe-renze, pur di affossare la proposta da essi ritenuta peggiore. Nel no-stro esempio, se anche i riformisti sono capaci di fare i conti, non ca-dono nella trappola e non approvano l’emendamento killer, benchéanche questa scelta non sia facile da spiegare agli elettori.

3.4.4. Equilibri indotti dalla struttura

Fino alla metà degli anni ’70, questi equilibri «pilotati» sono staticonsiderati soprattutto come dimostrazioni di quel particolare miscu-glio di intuito e di scaltrezza che costituisce l’essenza dell’abilità poli-tica [Riker 1983]. Negli anni successivi, la genialità individuale è sem-brata una spiegazione troppo singolare per giustificare la straordinariamole di decisioni stabili sfornate, ad esempio, nel corso di una legisla-tura [Ordeshook e Shepsle 1982]. L’attenzione si è dunque spostatasul potenziale di equilibrio fornito non dalla configurazione delle pre-ferenze, né dalla spregiudicatezza di alcuni, ma da quel fitto tessuto diregole e procedure capaci di iniettare stabilità nei processi di sceltapubblica. È interessante notare che, in quegli stessi anni, anche incampo induttivo si avviava un riorientamento analogo, grazie alla svol-ta neoistituzionalista. Tuttavia la convergenza è rimasta a lungo incon-sapevole o soffocata dalla dura polemica nei confronti dell’approcciorazionale, che i critici in genere identificano con la prima generazionedi studi, quella basata sulla ricerca di rendite [Dowding 1994].

Al centro del nuovo istituzionalismo di tipo deduttivo sta inveceun’idea: i teoremi del caos non tengono conto del fatto che nelle sceltepubbliche il criterio di maggioranza è applicato all’interno di norme eregolamenti che stabiliscono chi vota che cosa e quando, sottraendoqueste cruciali questioni al caso o a decisioni estemporanee: «Noi so-steniamo che la ricchezza empirica delle istituzioni politiche risiedenella miriade di modi in cui l’uniformità e la simmetria sono violate

45 Ovviamente, anche in questo caso non è necessario partire da preferenze chegenerano maggioranze cicliche: anche quando esiste un vincitore di Condorcet, l’usodel voto strategico può sottrargli il primato.

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462 CAPITOLO 6

[...] Il caos caratteristico della pura regola di maggioranza non riguar-da necessariamente le istituzioni che, pur basate sulla regola di mag-gioranza, sono molto strutturate e ricche di procedure» [Denzau,Riker e Shepsle 1985, 1120].

Dunque, le istituzioni possono essere considerate come contesticapaci di dare una struttura, cioè di imporre una disciplina, al con-fronto tra le diverse preferenze dei loro componenti [Shepsle 1979].Se analizziamo l’assemblea decisionale per eccellenza, il parlamento,vediamo all’opera una serie di norme molto circostanziate sui modi esui tempi del law making: grazie alla loro esistenza, anche il parlamen-tare più naif è nella condizione di concorrere a scelte collettive stabilifin dal primo giorno del suo ingresso in aula.

E proprio dal parlamento vengono gli esempi più chiari di comefunziona l’equilibrio indotto dalla struttura. Si pensi al potere di agen-da del presidente e dei capi dei gruppi parlamentari, o alle norme che,vietando la ripresentazione di emendamenti già bocciati, impedisconoalle maggioranze cicliche di emergere.

Ma a smistare i processi decisionali è soprattutto il sistema dellecommissioni parlamentari: questa forma di divisione del lavoro incana-la le varie proposte verso sedi adibite esclusivamente alla valutazionedi progetti tra loro omogenei per tema [Fiorina e Plott 1978; Shepslee Weingast 1987]. Grazie a questo meccanismo, è evitato il rischio diun’esplosione del numero di dimensioni simultaneamente rilevanti[Shepsle e Weingast 1984]. Con il suo lavoro istruttorio, fatto discambi di voti, la commissione mette l’aula davanti a una scelta sem-plice: o accettare il punto di equilibrio raggiunto, cioè la versione pro-posta dalla commissione, o tenersi lo status quo46. Se si trattasse di sce-gliere se assegnare 5 miliardi alla promozione del vino piemontese,oppure alle scuole per bambini non vedenti, oppure alla difesa di unalbero in via di estinzione, potremmo aspettarci esiti inconcludenti.Ma l’organizzazione «industriale» del law making [Weingast e Mar-shall 1988] ha come effetto proprio l’impedire che questo tipo di con-fronti a tutto campo arrivi all’assemblea. Dunque, da una parte la scel-ta sarà tra vino piemontese o tartufo, da un’altra tra bambini ciechi ebambini con difficoltà caratteriali, e così via.

A questo punto, il nostro lungo percorso è approdato a un campodi ricerca che si intreccia strettamente con lo studio del policy making.Vero è che le politiche non sono leggi: ma seguire il loro sviluppo congli strumenti della public choice diventa un modo per sfruttare le ana-logie tra i due oggetti di analisi, in modo da ricavare informazioni es-

46 Perché questo risultato sia raggiunto, non occorre che le commissioni abbiano,come nel parlamento italiano, poteri deliberanti: è sufficiente che abbiano poteri redi-genti.

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senziali sulle relazioni tra politici, burocrati, organizzazioni degli inte-ressi, magistrati, cittadini-elettori-contribuenti. Da un lato, il lawmaking consente un’elevata formalizzazione di tutte le variabili signifi-cative: chi vota, come vota, che cosa vota, quando vota; dall’altro, gliattori che lo promuovono non sono solo «rappresentanti del popolosovrano», ma sono attori interessati alla produzione e alla distribuzio-ne di politiche pubbliche, perché da questo dipendono le loro chancesdi rielezione. Insomma, possiamo essere abbastanza sicuri che stiamousando un manichino per un crash test, non per la sperimentazione diun farmaco.

4. Linee di ricerca

Nel presentare i contributi più utili per lo studio delle politichepubbliche, abbiamo mantenuto esattamente la stessa struttura del cor-rispondente paragrafo del capitolo precedente. Noi sosteniamo dun-que che attori, dinamica, stili, regole e contenuti sono gli aspetti chepermettono l’identificazione dei processi di policy, indipendentementedal metodo, induttivo o deduttivo, usato per la loro analisi.

L’adozione di una stessa griglia per entrambi gli approcci lasciacomunque aperto un problema. Per le teorie che stiamo indagando,le politiche pubbliche sono scelte pubbliche, cioè sono gli esiti del-l’interazione tra due o più persone, costrette a tener conto le unedelle preferenze delle altre, in un contesto di regole implicite oesplicite. Quindi, qualunque teoria razionale sul funzionamentodelle istituzioni è, in un certo senso, una teoria delle politiche. Maspesso i tratti dell’outcome effettivamente considerati sono estrema-mente schematici e rarefatti: il loro carattere di beni pubblici o dibeni privati, il loro scostamento dall’ottimo paretiano, la loro stabi-lità o vulnerabilità a nuovi equilibri. Per uno studioso del policymaking, è difficile scorgere in questi aspetti il profilo di una politi-ca pubblica, perché non vede traccia di tutto quel carico di com-plessità, incongruenze, approssimazioni successive che sa accompa-gnare ogni intervento di un qualche spessore. In effetti, molte delleanalisi potrebbero funzionare allo stesso modo se, invece di focaliz-zarsi, ad esempio, sulle politiche fiscali, descrivessero la ripartizionedelle spese in un condominio. Ma chiunque capisce che tra i dueambiti decisionali c’è un abisso.

D’altra parte, la drastica semplificazione del quadro di riferimentoè un passaggio obbligato per aumentare la parsimonia del modello,cioè il basso numero di variabili impiegate, e la generalizzabilità delleconclusioni, che sono i punti di forza del ragionamento deduttivo. Icontributi che ora presentiamo sono stati selezionati perché propongo-no un dignitoso equilibrio tra queste esigenze e la complessità dellepolitiche pubbliche nei contesti reali.

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464 CAPITOLO 6

Un’ultima nota introduttiva. Nelle analisi presentate, le valenzepositive (descrittive, predittive o esplicative) prevalgono su quelle nor-mative, o prescrittive. E tuttavia crediamo che, alla fine del capitolo,lettori e lettrici converranno con noi su un dato: queste teorie rappre-sentano un elemento fondamentale nella cassetta degli attrezzi del-l’analista che si proponga di intervenire sul policy making. La capacitàdi individuare il punto di equilibrio a cui tendono i processi, in assen-za di interventi correttivi, è una straordinaria risorsa, perché rivela ladistanza tra i libri dei sogni e le proposte con qualche probabilità disuccesso.

4.1. Gli attori

Le teorie della scelta pubblica, basate sull’individualismo meto-dologico, attribuiscono una rilevanza decisiva al profilo degli attoricoinvolti nel policy making. Secondo la loro impostazione, la rispo-sta alla domanda «Chi decide?» richiede l’incastro tra due serie diinformazioni:

• quali preferenze hanno le categorie che con le loro decisionipossono condizionare le politiche pubbliche?

• con quale intelaiatura di regole devono fare i conti per riuscire afarle prevalere?

Le questioni poste dal primo interrogativo hanno segnato la nasci-ta della public choice, dato che le analisi incentrate sulla ricerca di ren-dite in fondo si proponevano proprio di capire quale funzione di uti-lità può essere attribuita a politici, burocrati, leader delle organizzazio-ni degli interessi, per anticipare gli effetti della loro interazione.

Il secondo interrogativo si ricollega invece a una fase più recente,che trova nelle teorie spaziali del voto gli assiomi per trarre deduzionicirca le strategie degli attori.

4.1.1. I politici

Per le teorie razionali, il ruolo dei politici nel policy making sibasa sulla relazione tra elettori ed eletti. Nel contesto americano,abituale banco di prova delle tesi della public choice, i partiti sonoorganizzazioni deboli, visibili solo nei periodi elettorali, e le figurepolitiche che contano sono quelle che ricoprono cariche istituzionali,in parlamento o nel governo. Questo mondo è molto lontano daquello descritto dai modelli sul governo di partito di matrice euro-pea. Per le teorie della scelta pubblica, il ruolo dei politici è impor-tante solo quando ad essi compete il potere di prendere decisionivincolanti per tutti, in virtù di un mandato più o meno direttamentelegato al voto degli elettori.

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La competizione elettorale

Le ricerche sulla funzione di utilità dei politici sono probabilmenteil settore della public choice più discusso e più criticato. Alla loro ori-gine sta l’esigenza di definire quali preferenze possono essere attribuitea chi entra nell’arena politica, indipendentemente dal partito in cuimilita e dal contesto istituzionale in cui opera. Downs [1957], ripren-dendo l’impostazione di Schumpeter [1947], sostiene che la prioritàdel politico è acquisire i voti necessari per ricoprire una carica elettiva:

Di conseguenza, non si verifica mai nel nostro modello che i politici cer-chino una carica come mezzo per realizzare determinate politiche; il lorounico obiettivo è di ottenere i vantaggi connessi alla carica in quanto tali: leproposte politiche sono semplicemente un mezzo per quegli obiettivi perso-nali che possono raggiungere solo se eletti. Su questo ragionamento si basal’ipotesi fondamentale del nostro modello: i partiti formulano proposte poli-tiche per vincere le elezioni; non cercano di vincere le elezioni per realizzareproposte politiche [Downs 1957, 60 trad. it.].

Il capovolgimento di prospettiva rispetto alle tradizionali teoriedella democrazia non potrebbe essere più netto. Per queste ultime,infatti, le elezioni sono l’arena in cui si esprimono e si quantificano leaffinità progettuali tra candidati ed elettori. Per Downs e per gli autoriche si richiamano al suo modello, le elezioni sono il luogo dello scam-bio tra voti e politiche: gli elettori cedono il loro voto per ottenerepolitiche pubbliche il più possibile vicine alle loro preferenze; i politicivedono invece nei programmi solo un mezzo per guadagnare voti, lamoneta con cui, in una democrazia, si acquisiscono le cariche e glionori.

Occorre notare che l’opportunismo implicito in questo modellonon equivale necessariamente alla spregiudicatezza amorale: nel mo-mento in cui una persona, anche animata dai migliori propositi, decidedi entrare in politica, deve fare riferimento a un’unica unità di misuraper valutare il suo successo: il numero di voti che è capace di racco-gliere, la progressione delle cariche che riesce a ottenere. Se rispetto aquesti indicatori qualcosa va storto, deve chiedersi dove ha sbagliato,qual è la ragione del fallimento.

Certo, alcune versioni di questa teoria non sembrano fatte peraumentare la fiducia nei politici. Come scrive George Stigler, «Non homai incontrato un candidato alle elezioni che dicesse: “mi candidoperché, con l’aiuto della mia cara moglie e del mio futuro segretario,posso guadagnare di più in politica che altrove”» [1984, 151].

Qualcuno può pensare che non occorre scomodare le teorie razio-nali per queste conclusioni: basta andare al bar, o dal dentista, o dalcommercialista. Ma quello che il barista, il dentista o il commercialistanon dicono è che, operando in questo modo, i politici seguono esatta-mente la loro stessa logica, investendo le loro energie in modo da ga-

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rantirsi le migliori soddisfazioni, qualunque significato concreto si vo-glia dare a questo termine: soldi, fama, potere, carriera per i figli, op-pure – per chi ci tiene – solidarietà, spirito di servizio, espressione deipropri valori etici.

Dunque, in una democrazia l’ambizione del politico e il sistemadel mandato a termine, che impone agli eletti di ripresentarsi periodi-camente davanti agli elettori, sono la base della convergenza tra lepreferenze dei comuni cittadini e l’operato dei loro rappresentantinelle istituzioni47.

Se ora ritorniamo con la mente al teorema del votante mediano, ciaccorgiamo di poter avanzare interessanti ipotesi sulle caratteristicheformali dei programmi in un sistema bipartitico. Se gli elettori hannopreferenze a un solo picco, perché sono incrementalisti e pragmatici,vince il partito che riesce a inglobare il voto del votante mediano.Dato che entrambi i partiti intuiscono questo assioma, le loro strategieelettorali sono obbligate a convergere. Per prima cosa, devono cercaredi capire chi è e che cosa vuole l’elettore che con le sue preferenzespacca i votanti in due classi equivalenti: quelli che vorrebbero qualco-sa più a sinistra, e quelli che vorrebbero qualcosa più a destra. Poi,devono confezionare un programma capace di conquistare almeno ilsuo voto, oltre a quello del 50% di destra (se il partito è di destra) odi sinistra (se il partito è di sinistra). Questa logica porta necessaria-mente i due partiti ad avvicinare le loro proposte, fino a sfiorarsi. Laforza centripeta del teorema del votante mediano sembra così fornireuna solida spiegazione all’emergere di quei partiti «pigliatutto» [Kir-chheimer 1957], indifferenti alle discriminanti ideologiche e affamatidi voti, dei quali abbiamo parlato nel precedente capitolo. Ma se laconvergenza dei programmi non potrebbe che riempire di gioia il po-litico mosso da un autonomo interesse per le politiche, questa evenien-za può suscitare preoccupazione nel candidato razionale, perché gli to-glie l’esclusiva del prodotto da lui offerto48.

L’arena parlamentare

Secondo le teorie razionali, i politici, una volta entrati nelle istitu-zioni rappresentative, usano la loro carica soprattutto come un’occa-

47 Sulla base della sua lunga esperienza, Giulio Andreotti arriva a una conclusioneanaloga: «Parlando poi della campagna elettorale, l’ex presidente del consiglio ha aggiuntoche in genere i candidati in questo periodo non raccontano agli elettori molte bugie. “Solose pensano di farsi eleggere una volta sola possono farlo, proprio come un mercante puòvendere solo una volta delle patacche”» in «Corriere della Sera», 22 febbraio 1996.

48 Come ha affermato più volte Silvio Berlusconi nel corso del 2000, «Io non ren-do pubblico [il mio programma di governo] per non essere copiato dagli avversari e pergiocarmi queste carte in campagna elettorale» in «Corriere della Sera», 14 aprile 2000.

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sione per aumentare la loro popolarità e le probabilità di rielezione. Alcentro di questa strategia sta la produzione di politiche pubbliche gra-dite agli elettori, o ai gruppi più influenti.

Le varie articolazioni di questa ipotesi prendono in genere comeriferimento il Congresso americano: infatti il parlamento è l’istituzionerappresentativa per eccellenza; e i suoi poteri legislativi sono una risor-sa fondamentale per condizionare il policy making. Ma se questo è iltratto comune a una vasta serie di studi, che spesso abbinano la teoriaa una consistente parte empirica, le applicazioni seguono schemi di ra-gionamento diversi.

Il modello dello scambio. La prima generazione di ricerche stabili-sce una connessione molto stretta tra le preferenze degli elettori e lescelte dei parlamentari [Miller e Stokes 1963; Mayhew 1974]. Il mo-dello si basa su alcuni semplici elementi:

• i politici hanno preferenze di policy che ricalca pedissequamentequelle dei loro elettori: se un collegio ha un’economia prevalentementeagricola, i suoi parlamentari presteranno una particolare attenzione allapolitica agricola; se a caratterizzare il collegio è un’elevata presenza diindustrie high tech, i parlamentari saranno sensibili alle politiche dellaricerca;

• i parlamentari hanno notevoli margini di autonomia nella sceltadella commissione parlamentare in cui collocarsi. Questa decisione èmolto importante, dato il ruolo fondamentale che le commissioni svol-gono nell’organizzazione industriale del Law making [Fenno 1973;Weingast e Marshall 1988];

• per amplificare la loro influenza sui settori di policy più rilevantiper il loro elettorato, i parlamentari scelgono la commissione che hacompetenza su di essi: commissione agricoltura nel primo caso, com-missione istruzione e ricerca nel secondo [Adler e Lapinski 1997];

• per effetto di queste strategie, le commissioni finiscono con l’es-sere composte da parlamentari con preferenze abnormi, ipersensibili aitemi che trattano, eccentrici rispetto al votante mediano dell’assembleaplenaria [Niskanen 1971];

• grazie al lavoro delle commissioni, i processi decisionali delparlamento sono sì incanalati verso esiti stabili, ma il punto diequilibrio premia sistematicamente quanti avanzano le richieste piùesose.

Questa comune deformazione delle preferenze ha un duplice effet-to. All’interno della commissione, agevola il raggiungimento di accordiper bloccare sul nascere tutte le proposte giudicate punitive per il set-tore: «Non si chiede a un uomo d’affari di fissare un prezzo ai suoiprodotti che gli faccia perdere soldi. Non si chiede a chi ricorre a vielegali di presentare una causa debole. Sarebbe strano chiedere a unacommissione con poteri di agenda di scegliere un’agenda contraria allepreferenze dei suoi membri» [Riker 1986, 32]. Nei rapporti tra com-

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missioni, risulta facilitata la logica della reciprocità (log-rolling49): noirispettiamo le vostre scelte sulle politiche agricole, e voi rispettate lenostre sulla politiche della ricerca [Weingast e Marshall 1988].

La somma di queste dinamiche produce risultati tendenzialmenteinefficienti, perché disallineati per eccesso rispetto alle preferenze delvotante mediano: più sussidi all’agricoltura e più protezionismo neibrevetti tecnologici di quelli che massimizzerebbero l’utilità del citta-dino elettore contribuente consumatore.

Questa linea di analisi, identificata con termini quali modello delloscambio, o delle preferenze abnormi, o della reciprocità, assegna unruolo preponderante al lato della domanda di politiche pubbliche.

Negli anni ’70, grazie alle ampie e originali ricerche empiriche diRichard Fenno [1973; 1978], questa impostazione comincia a sembra-re troppo rozza rispetto alle complesse logiche di funzionamento del-l’intero Congresso. Certo, il modo di procedere di alcune commissionicon un forte radicamento territoriale (agricoltura, lavori pubblici, ecc.)è ben rappresentato dal modello. Ma che dire di settori quali la giusti-zia o gli affari esteri [Sinclair 1995], cui è affidata la tutela di benipubblici nel senso più generale del termine?

Il ruolo dell’informazione. La seconda generazione di studi partedalla constatazione che molte delle relazioni postulate dal modello pre-cedente sono meno dirette e immediate di come sono state descritte.

Innanzi tutto, l’elettorato, il collegio, sono termini troppo generici.Ogni politico assume come riferimento gruppi diversi di cittadini, aseconda dell’arena in cui si trova a operare: i suoi alleati politici quan-do è in gioco la definizione delle candidature da parte del partito; lazona geografica del suo collegio, durante la campagna elettorale; igruppi che lo finanziano quando sono in gioco decisioni allocative; isuoi più stretti sostenitori nelle questioni più delicate [Fenno 1978].Dunque, il calcolo delle conseguenze delle scelte di policy in termini diconsenso è più complicato di quanto appaia a prima vista, e richiedeal politico uno sforzo attivo per interpretare la situazione in cui si tro-va a decidere.

In secondo luogo, il parlamentare non è un semplice specchio dipreferenze altrui. L’idea che la sua funzione di utilità abbia una solacomponente, la quantità dei voti raccolti, è sembrata a molti studiosiuna semplificazione troppo brutale [Calvert 1985]. Oltre a volere larielezione, un parlamentare aspira a godere di un certo prestigio nel-l’istituzione e ha una sua idea di che cosa significhi fare buone politi-che pubbliche [Fenno 1973]. Dunque, l’ideologia può entrare comeuna componente importante nella decisione di voto [Davis e Porter

49 Dal sistema con cui si fanno rotolare a valle i tronchi lungo un fiume: se unosi incaglia, tutti quelli che seguono fanno lo stesso; se questo si sblocca, tutti tornanoa scorrere.

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LA SCELTA PUBBLICA 469

1989]. In fondo i politici non sono del tutto comparabili a uno studiodi avvocati, disposto a inseguire qualsiasi cliente. Per altro, una certacoerenza non è solo un «lusso», ma è anche un investimento, perchérende facilmente riconoscibile il prodotto offerto: se i colori dellaCoca-Cola sono il rosso e il bianco, rosso e bianco devono restare; seun parlamentare ha fama di intransigente fustigatore di corrotti, nonpuò approvare un’amnistia.

In terzo luogo, il contratto tra eletti ed elettori ha molte zoned’ombra, per le asimmetrie informative a favore dei primi, che dispon-gono di più elementi per valutare le risorse davvero disponibili e gliorientamenti degli altri parlamentari: data questa situazione, i politicihanno mille modi per sottrarsi alle richieste di chi li ha votati.

Ma l’informazione non è un problema solo per i comuni cittadini,svantaggiati quando cercano di capire che uso viene fatto dei loro voti.Secondo i modelli ora considerati, l’intero parlamento è a sua voltacontagiato da una simile difficoltà. Poiché i provvedimenti che arriva-no in aula spaziano in ogni campo dell’attività umana, dalle biotecno-logie alle lotterie, per il singolo parlamentare è molto alto il rischio dinon cogliere le conseguenze delle scelte approvate. A questo punto,l’attività istruttoria compiuta dalle commissioni si presenta con valenzenettamente più positive: grazie ad essa, è risparmiato all’assemblea ilpericolo di decisioni del tutto avventate [Gilligan e Krehbiel 1987;Krehbiel 1997].

In fondo, quando si parla di assegnazione di una proposta allacommissione per «competenza», questo vocabolo sintetizza una dop-pia valenza. Da un lato, c’è l’aspetto quasi proprietario di chi dice«questa è roba mia»: e questo è l’elemento colto dal modello delloscambio. Dall’altro lato, c’è l’esperienza di chi conosce il settore e savalutare la portata di un provvedimento: e questo è il significato sotto-lineato dal modello delle esigenze informative. In questo caso, non èlo scambio di favori, ma è soprattutto la specializzazione a sostenere laprassi della reciprocità tra commissioni.

Il ruolo dei partiti. I modelli basati sulle esigenze informative sidistaccano dalla prima generazione di studi per una lettura meno pes-simista del ruolo delle commissioni parlamentari, che intervengono aincanalare il law making verso esiti stabili.

Una rivalutazione analoga ha coinvolto anche il ruolo dei partitipolitici. Fino agli anni ’70, i partiti sono considerati semplici conteni-tori definiti dalle preferenze di chi ci sta dentro, cioè dei politici, chesi raggruppano in squadre e adottano una stessa etichetta per realizza-re economie organizzative [Downs 1957; Mayhew 1974]: una voltaconquistato il seggio, è l’eletto a vedersela con il problema di comeandare incontro alle preferenze degli elettori.

Questa rappresentazione è sembrata a molti autori inadeguata,perché incapace di vedere i problemi che si aprono per il singolo par-

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lamentare dal giorno in cui entra in aula, con la paura di ritrovarsi dasolo, di non saper distinguere tra amici e nemici, di sbagliare valuta-zione, di pagare un prezzo troppo alto per eventuali errori [Sinclair1992; Rohde 1991]. Il sistema dei gruppi parlamentari su base partiti-ca, con i loro leader e le loro sedi di confronto, fornirebbe un conte-sto favorevole all’instaurazione della fiducia e permetterebbe l’uscitadai dilemmi dell’azione collettiva [Cox e McCubbins 1992]. Organiz-zando le loro forze, i parlamentari di uno stesso partito possono ga-rantirsi beni pubblici quali un migliore coordinamento, una maggioreincisività al momento del voto, una buona reputazione agli occhi deisimpatizzanti. Se poi questo non basta ad assicurare la lealtà e il sensodell’appartenenza a una stessa «ditta», l’influenza che i leader hannonella destinazione delle cariche interne all’assemblea può fornire mo-tivazioni più concrete.

La discussione sulla rilevanza dei partiti nel law making è ancoraaperta. Con riferimento al caso americano, alcuni autori sostengonoche la crescente omogeneità delle scelte di voto secondo le afferenzepartitiche è un dato che consente diverse spiegazioni [Krehbiel 1998].Infatti i parlamentari eletti sotto una stessa etichetta potrebbero averepreferenze convergenti perché tali sono quelle dei loro elettori. Per ve-rificare quale delle due ipotesi è la più fondata, occorre isolare quellescelte in cui la disciplina di partito può davvero fare la differenza peril singolo parlamentare, perché le preferenze del suo elettorato lo in-durrebbero invece a votare in un altro modo. Dunque, si può sostene-re che i partiti contano solo quando riescono a far approvare provve-dimenti che non sarebbero mai passati senza il loro intervento. Ridefi-nita in questo modo più stringente, la teoria del peso crescente deipartiti sembra non trovare sostegno nei dati50.

Il voto personale. Nel 1978, Richard Fenno, dopo una serie di mi-nuziose ricerche, pubblica un libro, Home Style, che fin dal titolo ri-chiama l’attenzione su ciò che i parlamentari fanno non quando sonoin trasferta nella capitale, ma quando tornano a casa, alla cura del lorocollegio. L’idea è che il contatto diretto con le svariate richieste che glielettori sottopongono al politico costituisca un aspetto molto impor-tante del suo mandato. Larga parte di queste questioni hanno a chevedere non con la formulazione di leggi, ma con l’implementazione dipolitiche e il recapito di atti amministrativi: «Gli individui hanno biso-gno di qualcuno che interceda presso le burocrazie maneggiando i vi-talizi per i veterani, i versamenti alla sicurezza sociale, i documenti sulservizio militare, la pensione da dipendente pubblico, le pratiche d’im-migrazione» [Fenno 1978, 101]. Questa è l’altra faccia della rappre-

50 Occorre ricordare che negli Stati Uniti esistono serie di dati molto ampie suigruppi d’interesse che sostengono i vari parlamentari: grazie ad essi, è possibile ope-razionalizzare questo criterio e verificarlo con simulazioni.

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sentanza democratica, spesso trascurata dagli studiosi: e il politico chesi fa carico di queste esigenze accumula una credibilità che può anchespendere permettendosi posizioni più autonome nell’arena legislativa.

A conclusioni analoghe giunge, alcuni anni più tardi, una ricercasul voto personale, cioè su «quella porzione del sostegno elettorale diun candidato che trae origine da sue qualità, qualifiche, attività e pre-stazioni» [Cain, Ferejohn e Fiorina 1987, 9]. L’attività di «ambulato-rio» che ogni parlamentare svolge nel suo collegio è documentata conriferimento agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna, con medie, rispettiva-mente, di 71 e di 36 casi a settimana51. Secondo gli autori, questa retedi legami personali spiega larga parte del vantaggio elettorale di cui ingenere godono i parlamentari uscenti rispetto agli sfidanti: l’investi-mento fatto dai cittadini che hanno costruito il contatto rischierebbedi essere del tutto annullato dall’affermazione di un volto nuovo. I datiinfatti dimostrano che, salvo vistose divergenze con le sue posizioni, glielettori in genere preferiscono tenersi il rappresentante che avevano.Del resto, nel Congresso americano l’avvicendamento è dovuto piùall’indisponibilità a ripresentarsi di alcuni parlamentari che alla sanzio-ne di elettori insoddisfatti.

4.1.2. Il ruolo dei governi

Per molti scienziati politici europei, è il governo la sede istituziona-le più importante per costruire e rinsaldare i legami dei politici con glielettori, attraverso lo scambio tra voti e politiche. Può destare quindiuna certa sorpresa lo spazio relativamente marginale che la public choi-ce assegna all’analisi del ruolo degli esecutivi e ai rapporti interni allecompagini ministeriali, soprattutto se comparato con le centinaia distudi sul ruolo dei parlamenti.

In un certo senso, è come se l’esecutivo fosse ricondotto al signifi-cato letterale del termine, e considerato come dotato del solo potere diimplementare le politiche decise dal potere legislativo. Riprenderemotra breve questo concetto a proposito delle teorie principale-agente.

George Tsebelis [2000] dà una spiegazione più generale della cen-tralità del parlamento nel policy making americano, utilizzando la di-stribuzione dei punti di veto come chiave di volta per ricostruire i rap-porti tra i poteri dello stato: nel suo modello, «ad avere poteri di vetosono i decisori individuali o collettivi il cui accordo è necessario percambiare lo status quo» [Tsebelis 2000, 442]. Questo approccio al-

51 Da un’intervista del 1990 al sottosegretario alle Finanze Domenico Susi, risultauna sua attività di circa 10.000 casi in un anno: «Le richieste sono di due tipi: ci sonoquelli che chiedono soltanto di avere delle notizie per pratiche che riguardano, peresempio, la pensione che stanno aspettando da anni; c’è invece chi domanda un postodi lavoro o un trasferimento» in «Corriere della Sera», 5 dicembre 1990.

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l’analisi istituzionale riserva alcune sorprese rispetto alle tradizionalitipologie utilizzate nella comparazione dei sistemi politici:

In generale, nei sistemi presidenziali è il Congresso che fa un’offerta«prendere o lasciare» al presidente [...]. Per quanto riguarda la tesi secondola quale un «sistema presidenziale» significa che il presidente ha maggioripoteri, è vero che i presidenti hanno rilevanti poteri in politica estera, con ilcomando delle forze armate, e con l’emanazione di decreti immediatamenteesecutivi, ma il fatto che siano sempre costretti a giocare di rimessa nell’eser-cizio del potere di veto indica che la loro influenza legislativa è sensibilmentepiù bassa di quella del Congresso.

Ma spostiamoci dall’altra parte dell’Atlantico e studiamo i sistemi parla-mentari. In un sistema parlamentare, è il governo che presenta le proposte dilegge al parlamento [...]52. Nell’interazione tra governo e parlamento in unsistema parlamentare, il dato di fatto è che, mentre il teoria il parlamento puòemendare una proposta di legge del governo e modificarla sensibilmente,tuttavia il governo ha una posizione di rilevante vantaggio istituzionale [...], edunque il risultato finale sarà situato molto vicino alla proposta del governo.Pertanto, in pratica, è il governo ad avere poteri di agenda nei sistemi parla-mentari [Tsebelis 2000, 455-456].

Le ricerche che applicano il paradigma della public choice agli ese-cutivi tendono a rimarcare come anche in questi ambiti decisionali sia-no all’opera meccanismi basati sulla specializzazione e la reciprocità, ingrado di svolgere una funzione equivalente a quella delle commissioniparlamentari rispetto all’aula. Nelle loro deliberazioni, i governi si at-tengono infatti al criterio del dipartimentalismo [Laver e Shepsle1994]. Questo sistema fissa i confini delle competenze dei responsabilidei vari ministeri: attribuisce loro poteri di agenda ma, nel contempo,segmenta i processi decisionali e delimita le possibilità di intervento.Solo il ministro che ha alle sue spalle il dicastero competente può le-gittimamente farsi portavoce dell’amministrazione e del parere degliesperti, essendo l’unico autorizzato a usare il denaro pubblico per ac-quisire le loro consulenze.

Nei governi di coalizione, questo aspetto comporta un passaggiomolto delicato al momento della formazione dei governi, perché laforza dei diversi partiti non può tradursi automaticamente nella nume-rosità della loro delegazione nell’esecutivo, ma richiede un complessolavoro di taratura sulla base della diversa salienza elettorale delle com-petenze dei vari ministeri53. Con l’assegnazione delle deleghe, è stabi-lito il peso che le diverse aree di policy vanno ad assumere nel porta-foglio dei singoli partiti [Laver e Shepsle 1996].

52 Questa ricostruzione ritrae soprattutto il caso inglese.53 Come è noto, negli anni ’70 il problema della spartizione delle cariche tra le

varie correnti democristiane fu risolto con la formale quantificazione del «valore elet-torale» dei vari dicasteri contenuta nel «manuale Cencelli».

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Il raggiungimento di un punto di equilibrio stabile è inoltre facili-tato dal ruolo «dittatoriale» del capo del governo, dotato di poteri chenon hanno un corrispettivo nell’organizzazione parlamentare. Al primoministro spetta infatti fissare le precedenze nella realizzazione del pro-gramma, stabilire il punto di mediazione nei conflitti di competenzatra più dicasteri, esercitare poteri di veto sulle scelte dei singoli mini-stri, riassumere il senso delle decisioni dell’esecutivo davanti all’opinio-ne pubblica [Burch 1993].

4.1.3. I cittadini elettori contribuenti

Analizziamo ora la competizione elettorale dal lato della domanda.Secondo le teorie razionali della democrazia, i cittadini cedono unaparte del loro reddito, pagando le tasse, perché con il voto possonoottenere le politiche pubbliche che aumentano il loro benessere. Quin-di, il ruolo di contribuente e quello di elettore si sostengono e si inte-grano: come affermavano i coloni del Massachusetts, in rivolta controgli inglesi, «niente tasse senza rappresentanza politica».

Ma, come abbiamo visto, questo contratto tra eletti ed elettoripresenta alcuni problemi. Seguendo il ragionamento di Downs [1957],concentreremo la nostra attenzione su due conseguenze non del tuttoovvie: l’ignoranza razionale e l’astensione razionale.

L’ignoranza razionale. Scegliere il candidato cui dare il voto in teo-ria richiede un notevole investimento per la raccolta e l’elaborazionedi informazioni. L’elettore infatti deve:

• essere in grado di associare i nomi sulla scheda ai rispettivi pro-grammi;

• cogliere le loro differenze, che spesso sono minime, come spiegala teoria del votante mediano;

• predire il loro impatto sulle sue condizioni di vita;• valutare questo effetto rispetto alle sue preferenze;• integrare questi elementi, che si riferiscono al futuro, con quelli

che si riferiscono al passato, cioè alla prova che ha fornito il partito ola coalizione precedentemente al governo.

Ciascuno di questi passaggi è tutt’altro che banale, e potrebbemettere in serio imbarazzo anche il più esperto analista di politichepubbliche. Per la stragrande maggioranza dei cittadini, l’investimentorichiesto a occhio e croce non vale il beneficio delle conseguenze chepossono ricadere su ciascuno di loro per effetto del risultato elettoralepreferibile. Dunque, la stupefacente ignoranza di cui danno prova glielettori quando sono intervistati sui programmi elettorali, è razionale.

L’astensione razionale. Questa conclusione si incastra con un’altra:per decidere razionalmente se vale la pena di votare, l’elettore deve

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confrontare da un lato i costi certi dell’informazione e del recarsi alseggio, dall’altro i benefici attesi. Come ci ha insegnato la teoria delledecisioni, per calcolare questo secondo valore il cittadino deve quan-tificare la differenza d’impatto sul suo benessere dei vari programmielettorali, e moltiplicare questo valore per la probabilità che il suovoto decida l’esito delle elezioni. Dato che questa eventualità è estre-mamente remota, perché è abbastanza inverosimile che gli altri elettorisi dividano esattamente in parti uguali tra i diversi schieramenti, solochi si aspetta enormi guadagni dall’affermazione di un partito ha inte-resse a recarsi alle urne. Per la stragrande maggioranza degli elettori,l’astensione si presenta come la scelta più razionale.

Il paradosso del votante. Che qualcosa non funzioni in questomodo di ragionare, è sotto gli occhi di tutti. La partecipazione eletto-rale è, in tutti i paesi, di gran lunga superiore alle percentuali minimeche la teoria porterebbe a predire [Aldrich 1993]. In effetti, il para-dosso della partecipazione, o del votante54, è una delle spine nel fiancodella public choice, o almeno della sua prima generazione di studi[Grofman 1995]. Alla sua base stanno molte analogie con un altroparadosso, quello legato al concetto del free rider: teoricamente, nondovrebbero esistere organizzazioni a difesa dei beni pubblici che inte-ressano l’intero genere umano; eppure, ci sono gruppi che si battonoper l’ambiente, per i paesi poveri, per i condannati a morte.

D’altra parte, le conclusioni di Downs non sono del tutto strampa-late, perché è vero che la partecipazione elettorale scende quandosono i votanti a doversi attivare per ottenere il certificato elettorale, oquando le condizioni atmosferiche rendono più costoso l’esercizio delvoto, perché piove a dirotto, o perché il sole spinge alla gita fuoriporta. Del resto, una delle poche certezze della sociologia è la relazio-ne positiva tra livello d’istruzione e partecipazione politica: ed è logicopensare che i più istruiti possano acquisire le informazioni a costimeno elevati.

Le principali spiegazioni al paradosso del votante possono essereaggregate in due gruppi.

Il primo fa leva su un dato: in democrazia, nell’interazione tra elet-tore e candidato si intromette un terzo soggetto, il partito. Questapresenza ha l’effetto di abbattere i costi d’informazione per i votanti,come fa nel mercato il marchio della ditta, che di per sé fornisce im-portanti indicazioni sulle caratteristiche dei beni di consumo, la lorofascia di qualità, la loro popolarità [Poole e Rosenthal 1997].

Anche se il simbolo sulla lista vincola la loro libertà di azione, ipolitici hanno incentivi a sfruttare il nome del partito, più o menocome un commerciante può avere interesse ad acquistare in franchising

54 Da non confondere con il paradosso del voto, del quale abbiamo parlato nelparagrafo 3.

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il nome di una catena di negozi; in questo modo, può contare sulla ca-pillarità dei messaggi pubblicitari e sulla prevedibilità delle caratteristi-che del prodotto, più o meno uguale a Taranto come a Trento. Almomento dell’ingresso nelle istituzioni, a questi vantaggi si sommeran-no quelli derivanti dall’appartenenza a un gruppo parlamentare, giàdescritti nelle pagine precedenti.

Il secondo gruppo di spiegazioni critica in modo esplicito la con-cezione strumentale del voto, di fatto postulata dalle teorie razionali,che lo considerano come un investimento per ottenere l’unica cosa chestarebbe a cuore agli elettori: politiche pubbliche che migliorino il lorobenessere. Ma votare potrebbe anche essere come andare allo stadio atifare per la squadra del cuore: allora si spiegherebbe perché la parte-cipazione elettorale è tanto alta, nonostante i costi che l’elettore deveaffrontare. In questo caso, il voto sarebbe un bene di consumo, nonun investimento, e una persona trarrebbe la sua soddisfazione dal fattodi esserci, di stare insieme ad altri, o, nei casi più nobili, di contribuireal rafforzamento della democrazia, dimostrando di tenere ai suoi dirittipolitici [Riker e Ordeshook 1973].

4.1.4. Gli organizzatori di interessi

Come abbiamo visto nel paragrafo 3, all’interno della public choiceil maggior contributo all’analisi dei gruppi d’interesse deriva dall’operadi Mancur Olson [1965], che per primo ha evidenziato un problema:le organizzazioni che si battono per obiettivi generali sono le più vul-nerabili al fenomeno del free rider, che tende a minare la compattezzae l’incisività della loro azione.

Questa prima conclusione ha una grande rilevanza per lo studiodel policy making, perché insegna a non dare per scontata una relazio-ne positiva tra l’ampiezza teorica del consenso raccolto da un gruppo,e la sua effettiva capacità di pressione. In contrasto con quel che so-stengono le teorie pluraliste, nel mondo degli interessi organizzati ilnumero non è una risorsa.

La teoria del free rider ha un po’ la stessa funzione euristica delteorema dell’impossibilità di Arrow, o del paradosso del votante diDowns: è vero, la verifica empirica a prima vista non conferma la de-duzione, perché le azioni collettive esistono, ma il ragionamento forni-sce comunque al ricercatore una traccia importantissima, perché loporta a chiedersi quali dei requisiti richiesti dal modello puro sonoviolati nei casi concreti.

Lo stesso Olson fornisce una risposta capace di spiegare le eviden-ti smentite della sua tesi: le grandi organizzazioni riescono a sopravvi-vere e a prosperare perché hanno operato una graduale sostituzionedei loro obiettivi generali, assimilabili alla categoria dei beni pubblici,con benefici selettivi, cioè con beni che di fatto avvantaggiano soltanto

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gruppi ben delimitati di aderenti. Questi piccoli o grandi privilegipermettono di tenere sotto controllo il fenomeno del free rider, assicu-rando ai leader la collaborazione e l’appoggio dei beneficiati. Se un’or-ganizzazione di donatori di sangue riesce a prosperare, lo studioso discelte pubbliche si chiede maliziosamente quali vantaggi privati netraggano gli aderenti, e conclude che il costante monitoraggio medicogratuito o le gite sociali potrebbero spiegare il fenomeno [Tullock1971]. Questi, in fondo, sono incentivi innocenti: ma possiamo consi-derare lo stesso clientelismo come un sistema che eroga beni privati(assunzioni, favori, avanzamenti di carriera) in cambio della militanzaa favore dei beni pubblici identificati dagli ideali di un partito.

Dunque, se l’opera di pressione da parte di un’organizzazione èefficace, i casi sono due: o si tratta di un cartello di pochi, selezionatipromotori, che riescono a controllarsi a vicenda e a imporre l’un l’al-tro il pagamento dei costi dell’azione collettiva; oppure si tratta di as-sociazioni sorte per fini generali, ma di fatto sostenute da un mosaico dimotivazioni particolaristiche.

Se questo è il quadro generale, qualche dato in più è fornito dal-l’analisi dell’interazione tra le organizzazioni degli interessi e gli altridue poli dei triangoli di ferro: i parlamentari delle commissioni com-petenti e i responsabili delle agenzie amministrative.

Il classico rapporto tra interessi organizzati e parlamentari assumela forma del lobbying, un’attività costosa e impegnativa, in grado diselezionare i vari gruppi in base alla loro disponibilità di risorse attra-enti per il politico, quali i finanziamenti in campagna elettorale.

Eppure, nonostante la riconosciuta importanza di questo tipo discambio, le ricerche di seconda generazione non considerano più es-senziale, per guadagnare l’attenzione del politico, la capacità di ripaga-re in questi termini il suo interessamento [Austen-Smith e Wright1994; Lohmann 1998]. Come abbiamo visto nelle pagine precedenti, iparlamentari, che hanno un elevatissimo bisogno di informazioni, sonoattratti anche da tutti i contatti che possono funzionare come test dellereazioni dell’opinione pubblica a un dato provvedimento. Dunque, an-che chi riesce a convincerli di parlare a nome di ampie fasce dell’elet-torato può ottenere decisioni più vicine alle sue preferenze, pur senzadisporre di una ricca e potente macchina organizzativa.

Anche l’analisi del rapporto con le agenzie incaricate di implemen-tare le politiche dimostra che sulla base delle teorie razionali può esserecolta e spiegata una gamma abbastanza diversificata di strategie di pres-sione. Certo, tutte le organizzazioni cercano di investire risorse per ga-rantirsi un occhio di riguardo nell’attuazione dei provvedimenti che toc-cano da vicino gli interessi dei loro iscritti. Ma il fatto di godere o no diuna stabile collocazione nei triangoli di ferro può portare a logiche diintervento molto diverse [Moe 1990]. I gruppi svantaggiati tendono in-fatti a politicizzare le decisioni, e cercano di ritagliarsi qualche marginedi intervento invocando procedure più partecipative: chiedono, insom-

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ma, di aggiungere un posto a tavola. Invece, i gruppi avvantaggiati pos-sono permettersi una strategia di lungo periodo, per proteggere le posi-zioni acquisite da eventuali avvicendamenti politici. Quindi, in modoapparentemente paradossale, i più forti tendono a instaurare la certezzadel diritto e a rafforzare le difese dell’agenzia rispetto alle pressioniesterne. Ma di questo torneremo a parlare a proposito delle politicheregolative.

4.1.5. I burocrati

Le teorie sulle funzioni d’utilità dei politici, dei cittadini e deigruppi organizzati finora hanno ampiamente sfruttato la metafora delmercato politico e la logica dello scambio tra voti e politiche. Dallafine degli anni ’60, alcuni studiosi [Downs 1967; Tullock 1965; Niska-nen 1971] cominciano a porsi una domanda: come mai, nonostantequeste analogie, le amministrazioni non funzionano come le imprese, ei politici incontrano tante difficoltà nell’implementazione delle politi-che che approvano?

Questi interrogativi segnano una svolta importante nelle ricerchedi public choice. In fondo, finora abbiamo sempre dato per scontatoun modello di policy making rigidamente top-down, dove la decisionelegislativa è la vera leva del cambiamento. Le scelte che i gruppi dipressione chiedono e che i parlamentari approvano sono consideratecome progetti «chiavi in mano», dotati del potere di autorealizzarsi.Tra gli anni ’60 e gli anni ’70, questa impostazione rivela i suoi limiti.Da un lato, le ricerche empiriche sull’implementazione dimostranol’ampiezza della forbice che può esistere tra le intenzioni espresse daidocumenti ufficiali e le effettive realizzazioni. Dall’altro, i primi segnidi rivolta fiscale rafforzano il dubbio che il livello della spesa pubblicasia piuttosto lontano dal punto che massimizzerebbe l’utilità del votan-te mediano. Queste due conclusioni spostano l’attenzione dei ricerca-tori sul terzo vertice dei triangoli di ferro, la burocrazia.

Alla base delle teorie economiche della burocrazia sta l’assunzioneche i funzionari pubblici siano, come tutti gli altri attori, autointeres-sati [Downs 1967, 83]. Ma quello che fa la differenza, rispetto ai ma-nager che operano nelle imprese private, è il fatto di non avere unmeccanismo di remunerazione direttamente dipendente dai risultatidell’organizzazione in cui operano. Se pensiamo all’impresa, possiamodare per scontato che il profitto sia un obiettivo condiviso tanto da chiinveste il capitale, quanto da chi appartiene al management: infatti iprimi hanno tutto l’interesse a legare il benessere dei secondi alla com-petitività dell’azienda, attraverso l’uso di incentivi quali le partecipazio-ni azionarie e le opportunità di carriera.

Nel settore pubblico, l’efficienza di un’amministrazione non puòessere misurata in base al suo successo nel mercato [Dunleavy 1991].

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In molti casi, le organizzazioni pubbliche operano in situazioni di to-tale monopolio, come avviene per la magistratura e l’esercito; in altri,devono istituzionalmente farsi carico di prodotti assolutamente diseco-nomici, quali l’ufficio postale nel paesino di montagna o l’assistenza ailungodegenti.

Dunque, le amministrazioni pubbliche non dispongono di un pa-rametro chiaro per valutare le prestazioni dei dirigenti. Pertanto, sipossono dare situazioni in cui gli interessi del burocrate non coincido-no con il perseguimento dell’efficienza della sua struttura. Arrivati aquesto punto, il problema è capire quali sono i valori che un attorerazionale inserisce nella sua funzione di utilità per il fatto di operare inun’amministrazione pubblica.

La prima analisi, dovuta ad Anthony Downs [1967], fornisce aquesta domanda una risposta quasi psico-sociologica: il suo studio in-fatti individua diversi tipi di burocrate, ciascuno con un suo profiloper quanto riguarda le motivazioni, il senso di appartenenza, lo spiritodi servizio.

Il contributo di William Niskanen segna un passaggio fondamen-tale, perché riesce a sintetizzare tutte le disparate rappresentazionidella mentalità burocratica entro un modello unico, valido qualunquesia lo specifico elemento che può stare a cuore al funzionario pubbli-co, «lo stipendio, le condizioni di lavoro, la reputazione pubblica, ilpotere, l’influenza, la tranquillità nella conduzione dell’ufficio» [Niska-nen 1973, 22]. Infatti le probabilità di godere di tutti questi vantaggisono direttamente correlate a un fattore cruciale: la capacità dimostra-ta dal burocrate nell’attirare risorse pubbliche verso il suo comparto.A parità di condizioni, conta di più il dirigente che torna da Romacon la quota più elevata di finanziamenti per la sua regione, o per lasua azienda sanitaria locale. Dunque, l’elemento dominante nella fun-zione di utilità di qualunque burocrate, indipendentemente dai gusti edalle inclinazioni personali, è la massimizzazione del budget per il pro-prio settore. Più soldi, più risorse umane e organizzative da ammini-strare e più reputazione di intraprendenza, più soddisfazioni e piùpossibilità di carriera.

Per capire come il burocrate può affermare la sua funzione di uti-lità, occorre ricostruire le modalità dell’interazione con chi ha il poteredi raccogliere ed erogare il denaro pubblico, cioè con i politici elettinelle istituzioni rappresentative, cui spetta in ultima istanza la determi-nazione dei livelli del prelievo fiscale e la destinazione del gettito aivari settori dell’intervento pubblico. Secondo Niskanen [1971], le de-cisioni di bilancio sono caratterizzate da questi elementi:

• il politico è interessato al prodotto55, all’implementazione dellepolitiche pubbliche che ha deliberato, perché dall’effettivo recapito dei

55 Genericamente definito output, senza le distinzioni presentate nel terzo capi-tolo tra output e outcome.

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benefici ai destinatari finali dipende la loro ricompensa in termini divoti. Suo obiettivo è ottenere dall’amministrazione la messa in operadelle decisioni ai costi più bassi, in modo che il prelievo fiscale nonlieviti, facendo sorgere nei cittadini-elettori-contribuenti il dubbio chele scelte degli eletti comportino più costi che benefici;

• il burocrate ha le preferenze inverse e complementari: l’imple-mentazione costituisce un costo, un’attività faticosa e complicata, men-tre l’assegnazione di risorse costituisce un beneficio, un segno del suopotere e delle sue capacità;

• lo scambio budget contro output avviene in una situazione dimonopolio bilaterale. Da un lato, il politico non può cercare sul mer-cato i fornitori dell’implementazione delle politiche per l’ordine pub-blico, la giustizia, o la previdenza obbligatoria, ma deve ricorrere alleforze di polizia, alla magistratura, all’agenzia per la sicurezza sociale.Dall’altro lato, queste amministrazioni non possono cercare acquirentisul mercato, ma sono obbligate a vendere i loro prodotti soltanto alleistituzioni rappresentative;

• come insegna la teoria economica, le transazioni che avvengono inuna situazione di monopolio bilaterale tendono a produrre esiti ineffi-cienti: «Anche questo, come gli altri rapporti dello stesso genere (com-preso il matrimonio convenzionale), è un rapporto imbarazzante e per-sonale – caratterizzato da un misto di minacce e di rispetto, di elementialeatori e di chiari obbiettivi comuni. Nessun altro tipo di relazionemescola in modo così uguale la minaccia, lo scambio ed i rapporti dicomplementarietà. [...] Questi rapporti difficilmente potrebbero esserepiù lontani da quelli impersonali, legali-razionali, che Max Weber con-sidera caratteristici della burocrazia» [Niskanen 1973, 10];

• per capire chi trae i maggiori benefici dallo scambio inefficiente,occorre considerare il vantaggio informativo di cui gode il burocraterispetto al parlamentare. Il primo infatti conosce i costi effettivi diproduzione delle politiche: sa quanto denaro occorre per un letto inun reparto di cardiochirurgia, e quanti letti possono bastare per leesigenze di 100.000 abitanti. E sa quanto il politico sia interessato ainaugurare il reparto prima delle elezioni;

• il burocrate può mettere il politico davanti a offerte del tipo«tutto o niente»: o ci sono le risorse per fare nel modo proposto, otanto vale non sprecare i soldi dei contribuenti con mezze misure.

Quando si danno queste condizioni, lo scambio non è paretiana-mente efficiente, perché i dirigenti amministrativi sono in grado di farcoincidere il prezzo delle loro prestazioni con il limite massimo di ri-sorse che i politici sono disposti a stanziare, pur di vedere realizzate leloro deliberazioni. In altre parole, i burocrati sono in grado di «estor-cere» ai politici fino all’ultima lira a loro disposizione.

Se a questo quadro aggiungiamo il fatto che nelle questioni di bi-lancio esiste un forte potere di agenda da parte delle commissionicompetenti, tendenzialmente composte da parlamentari con preferenze

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abnormi, sensibili, ad esempio, alle richieste dei primari ospedalieri edelle associazioni dei cardiopatici, possiamo concludere che in molticasi il ricatto dei burocrati suona come una dolce violenza alle orec-chie dei politici.

Dunque, le amministrazioni tendono a produrre un output piùampio e più costoso, rispetto a quello che massimizzerebbe l’utilità delvotante mediano, se questi potesse ricorrere al mercato per acquisirel’implementazione delle politiche pubbliche.

Si noti che il burocrate di Niskanen non è uno sprecone. Men chemeno è un corrotto o un ladro, così come il politico di Downs non èaffamato di tangenti, ma di voti. I modelli che stiamo esaminandovogliono spiegare la fisiologia, non la patologia del policy making. Ilfunzionario non mette sul suo conto corrente il surplus ottenuto, malo trasforma effettivamente in beni e servizi. Solo che, di una quota diquesti, la collettività poteva anche fare a meno. Si pensi alla differenzatra il tassista disonesto, che usa un tassametro truccato, e il tassista chemassimizza l’output non imbrogliando sugli scatti, ma trascurando dimettere tutto l’impegno che potrebbe per far fare al cliente la stradapiù corta.

Come molte delle teorie basate sulle specifiche funzioni di utilitàdelle varie categorie di policy makers, anche il modello di Niskanen hauna grande rilevanza più per le critiche e le integrazioni che ha susci-tato, che per il suo contenuto letterale. Così, ad esempio, molti autorihanno cercato di dare contorni più precisi alle radici del vantaggiodella burocrazia nel processo di bilancio, anche per verificare l’incisi-vità di eventuali contromisure [Wood e Waterman 1994; Bendor,Taylor e Van Gaalen 1985]. Teoricamente, le istituzioni rappresentati-ve possono tentare di ridurre il gap informativo finanziando loro pro-pri centri di valutazione. Ma questa strategia può portare a effettivirisparmi solo a due condizioni: che la forza degli apparati dipendasolo dalle competenze tecniche, e che queste siano acquisibili anchetramite esperti esterni alle amministrazioni [Miller e Moe 1983]. Seinvece le burocrazie sono in grado di avanzare proposte «prendere olasciare» [Romer e Rosenthal 1978], allora i rapporti di forza sono piùcomplicati, come vedremo tra poco, discutendo i modelli basati sulrapporto tra principale e agente.

Un’importante integrazione dello schema di Niskanen è avanzatada Bendor e Moe [1985], che spostano l’attenzione dalle politiche al-locative a quelle regolative, e inseriscono nel gioco anche le organizza-zioni degli interessi, da quelli intensi e concentrati dei produttori, aquelli dispersi e generali dei consumatori. I burocrati dell’agenzia re-golativa sono comunque interessati a massimizzare il budget, e offronoin cambio una scrupolosa implementazione delle norme. Ma la loroproposta deve tenere conto di un fatto: un eccesso di zelo regolatorefinirebbe con l’urtare gli interessi dei produttori, e di conseguenzaanche dei politici più sensibili alle richieste di queste lobbies. Dunque,

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capire qual è il prezzo massimo che il parlamento è disposto a pagareper vedere attuate le sue leggi non è un’operazione semplice, perchérichiede da parte del burocrate una certa sensibilità per le dinamichedella politica pluralista.

4.2. La dinamica

Le teorie razionali hanno difficoltà a formalizzare l’idea del policymaking come continua, incessante trasformazione. Si pensi al proble-ma di riprendere un’auto in corsa con una macchina fotografica, anzi-ché con una cinepresa. In un certo senso, gli approcci induttivi ricor-rono alla strategia di scattare un’unica foto, con tempi lunghi di espo-sizione. L’immagine che ne risulta ritrae dei corpi dai contorni indefi-niti, che si lasciano alle spalle una scia evanescente. L’idea del movi-mento è prodotta da questo effetto, che rende irriconoscibile l’esattoprofilo dell’autista e della vettura. Gli approcci deduttivi ricorronoinvece alla strategia di scattare tante foto con tempi di esposizionebrevissimi. Ogni immagine ritrae l’auto e il guidatore perfettamentedefiniti, come se fossero fermi. Ma la successione dei fotogrammi, consfondi sempre diversi, ci suggerisce l’idea del movimento.

Come una fotografia, anche il concetto di scelta è uno strumentostatico, perché annulla la distanza tra l’atto del decidere, le sue pre-messe e le sue conseguenze: questi modelli danno infatti per scontatoche le valutazioni dei policy maker siano «date» e abbiano un’effettivaincidenza sul corso degli eventi. Per correggere l’astrattezza di questopresupposto, la public choice ricorre al metodo di scattare tante foto,cioè di scomporre anche quello che precede e segue la decisione for-male – in genere identificata con l’approvazione parlamentaredella legge – in una serie di decisioni. La fase della formazionedell’agenda può quindi essere studiata come il decidere di decidere, ela fase del- l’implementazione come il decidere di far decidere agliesecutori [Ben- dor, Taylor e Van Gaalen 1985].

4.2.1. La formazione dell’agenda

Negli approcci deduttivi, il termine «agenda» non fa riferimento aquel processo confuso e per certi versi casuale, da cui emergono i pro-blemi con la forza di imporsi all’opinione pubblica e ai politici, com’èinvece negli approcci induttivi. Piuttosto, al concetto di agenda è asso-ciato quello di potere. Il potere di agenda sta infatti a indicare l’esi-stenza di una qualche violazione dei requisiti stabiliti dal teorema del-l’impossibilità di Arrow, a favore di un gruppo di decisori, cui è con-cesso il privilegio di stabilire quali alternative sono ammissibili, e inquale ordine devono essere votate. Come abbiamo visto nel paragrafo

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precedente, l’attribuzione di un qualche potere di agenda è il principa-le sistema cui ricorrono le istituzioni democratiche per evitare i risul-tati caotici ai quali le esporrebbe una incondizionata applicazione delvoto a maggioranza. Nell’istituzione deliberativa per eccellenza, il par-lamento, sono in genere le commissioni a godere di un incisivo poteredi agenda:

Le alternative allo status quo non scendono dal cielo. Il Congresso hauna complessa e dettagliata divisione e specializzazione del lavoro, per cuiogni Camera assegna uno sproporzionato potere di agenda a specifici sotto-gruppi di parlamentari, di norma membri della commissione competente[...]. Per il fatto di essere formalmente votato alla fine del processo, T [iltesto licenziato dalla Commissione] ha il vantaggio di rimanere su una cor-sia laterale, per così dire, mentre sono risolte le dispute tra i vari conten-denti. Alcune alternative che potrebbero batterlo sono mandate allo sbara-glio ai primi stadi del processo e non raggiungono mai la «finale»56. Maforse, e più significativamente, per il fatto di comparire ai primi stadi delprocesso, la semplice presenza di T ha l’effetto di scoraggiare altre mozioni.Insomma, la caratteristica di essere «avanzato per primo/considerato perultimo» conferisce al testo della commissione alcuni vantaggi decisivi, equindi conferisce a chi fissa l’agenda un’influenza sproporzionata sul risul-tato legislativo finale [Shepsle 1992, 245].

All’interno di questo modello, l’unico elemento dinamico ècostituito dallo spostamento dei confini tra le materie di competenzadelle varie commissioni, in genere causato dall’emergere di nuove is-sues, sulle quali ancora non esistono precisi «diritti di proprietà»: sipensi ai temi della sperimentazione genetica, su cui possono plausibil-mente rivendicare un controllo le commissioni che si occupano di sa-nità, di ricerca e di agricoltura.

Le ricerche condotte negli Stati Uniti hanno dimostrato che le at-tività paralegislative, quali le audizioni, le indagini conoscitive, le inter-pellanze, sono gli strumenti con cui i parlamentari-imprenditori di po-licy cercano di vincere la competizione, aggiudicandosi la giurisdizionesui nuovi problemi [Baumgartner e Jones 1993; Talbert et al. 1995]. Ilrisultato è una situazione di «equilibrio interpuntato», in cui periodi direlativa calma e stabilità si alternano a fasi di rimescolamento dellecarte, per l’irrompere sulla scena di temi inediti. Ma come e perchéavviene l’irruzione, è un problema in larga parte ignorato dalle teorierazionali.

Eppure, nel lontano 1972, quando le ricerche di March e Olsensul fluire delle soluzioni e dei problemi (capitolo quarto) erano ancoraallo stadio embrionale, proprio uno dei massimi esponenti della public

56 Occorre ricordare che le proposte messe ai voti per ultime godono di un no-tevole privilegio, perché entrano in campo quando tutte le altre alternative, meno una,si sono già massacrate tra loro (v. tabella 6.6).

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choice, Anthony Downs, aveva formulato un’intuizione purtroppo ri-masta isolata. In un breve articolo dal titolo Su e giù con l’ecologia: ilciclo dell’attenzione ai problemi, Downs scrive:

Ciascuno di questi problemi improvvisamente acquista preminenza, rima-ne in questo stato per un breve periodo, dopo il quale si ritira dal centrodell’attenzione pubblica, nonostante sia ancora in larga misura irrisolto. Unostudio del modo in cui opera questo ciclo ci dice quanto a lungo l’attenzionepubblica può rimanere sufficientemente focalizzata su un dato tema, in mododa generare una pressione politica capace di provocare un effettivo cambia-mento [Downs 1972, 8].

Ma il proposito di studiare il ciclo di attenzione per le varie issuesin modo non diverso dall’analisi dei cicli economici rimane confinatoa questo tentativo.

4.2.2. L’implementazione

Se le teorie economiche della burocrazia presuppongono una nettadifferenza tra la funzione d’utilità dei funzionari amministrativi e quel-la dei politici, le analisi sviluppate negli anni successivi aggiungononuovi attori e nuovi problemi ai processi dai quali dovrebbe derivarela realizzazione delle politiche preferite dai cittadini.

Innanzi tutto, il conflitto d’interessi non ruota più intorno al livelloe alla destinazione della spesa pubblica, ma è ben più vario e diffuso.Ogni fase dell’implementazione risulta permeata dalla tensione tra chifissa le regole e chi deve farle rispettare, e persino le strutture più ligiealla gerarchia ne sono contagiate: non solo i burocrati, ma anche imagistrati [Shipan 1997]; non solo i dirigenti al vertice delle ammini-strazioni, ma anche i loro rami più bassi.

In secondo luogo, l’asimmetria informativa tra chi decide e chiesegue è più complessa di quella ipotizzata da Niskanen, perchénon riguarda solo i costi, ma tutto il ciclo di vita di una politica,dal suo disegno al processo di conversione dell’input in output, dalmonitoraggio alla valutazione degli effetti [Bendor, Taylor e VanGaalen 1985].

In queste condizioni, ogni tentativo di esercitare un efficace con-trollo rischia di avvitarsi su se stesso, perché apre un nuovo fronte dapresidiare, quello del controllo dei controllori. Le guardie forestali cheincendiano i boschi non sono che la manifestazione più plateale delladifficoltà che le istituzioni pubbliche incontrano nell’ottenere il rispet-to degli impegni contratti. Secondo un rapporto del SISDE, «permaneirrisolto il problema degli operai forestali, assunti con contratto stagio-nale o grazie ai lavori socialmente utili, che ogni anno, in coincidenzacon l’approssimarsi della stagione estiva, vengono indicati come re-sponsabili degli incendi boschivi, provocati per esercitare pressioni

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sulle autorità regionali al fine di anticipare i tempi di assunzione eaumentare il numero delle ore lavorative»57.

La teoria dei giochi ci insegna che nel gioco dell’ispezione non cisono coppie di alternative «pure» in grado di configurare un equili-brio di Nash. Se il controllore-datore di lavoro investe risorse per eser-citare la sorveglianza, il sorvegliato lavora, e quindi rende diseconomi-co il controllo. Ma se la sorveglianza cessa, il controllato cessa di lavo-rare, infliggendo un danno al controllore58.

La teoria principale-agente. Tra gli anni ’70 e ’80, su questi temiconverge l’attenzione di diversi approcci teorici, dalla teoria dell’im-presa [Jensen e Meckling 1976] alla scienza delle finanze [Stein1990], dalla nuova economia istituzionale [Williamson 1975] allateoria dei giochi [Kreps 1990]. Il risultato di questa riflessione con-giunta viene identificato con il termine di teoria principale-agente[Laffont e Tirole 1993; McMillan 1992]. Le sue assunzioni di basesono le seguenti.

La complessità dei processi produttivi, tanto nel settore privatoquanto in quello pubblico, fa sì che quanti hanno un interesse allarealizzazione di un obiettivo, siano essi imprenditori o politici, nonpossano attuarlo se non attraverso un’organizzazione che richiede, perfunzionare, l’impegno di molte persone. Attraverso varie forme di con-tratto, i primi diventano quindi i principali dei secondi, gli agenti.L’impresa e l’amministrazione pubblica sono i due contesti in cui ècalata la maggior parte degli studi di questo tipo di relazioni. Ma an-che il rapporto paziente-medico, studente-docente, automobilista-mec-canico può essere analizzato con lo stesso schema.

Sia il principale, sia l’agente, sono attori razionali, orientati a mas-simizzare le rispettive utilità. Due dati caratterizzano la loro relazione:

• il non allineamento dei loro interessi: il principale vuole raggiun-gere i suoi obiettivi, mentre l’agente vede questo fine solo come unostrumento per acquisire benefici quali una retribuzione, un posto dilavoro, una pensione;

• l’asimmetria informativa: il principale ha un’idea vaga di «comefare» e di «quanto costa», mentre l’agente conosce tutti i trucchi pertrarre il massimo vantaggio dall’ingaggio.

Più precisamente, le asimmetrie informative possono generare due pa-radossi, quello dell’azzardo morale e quello della selezione avversa. Azzar-do morale significa che l’occasione fa l’uomo ladro. Selezione avversa si-

57 In «Corriere della Sera», 14 agosto 2001.58 Più precisamente, l’equilibrio può essere raggiunto solo con una strategia mi-

sta che prevede, da parte del controllore, un’alternanza imprevedibile di ispezioni e difiducia e, da parte del controllato, l’alternanza imprevedibile di impegno e disimpe-gno. Che è poi la strategia scelta dalla stragrande maggioranza di automobilisti e vigiliurbani, capireparto e dipendenti, guardie e ladri.

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LA SCELTA PUBBLICA 485

gnifica mettere la faina a guardia del pollaio. Torniamo per un attimo alrapporto del SISDE sugli incendi boschivi. È chiaro che, se il numero degliassunti l’anno successivo è definito ricavando il bisogno di sorveglianzadal numero di incendi dell’anno precedente, gli stagionali hanno un forteincentivo a trasformarsi in piromani (azzardo morale). Ma è anche chiaroche chi accetta di lavorare per 800.000 lire al mese comprensibilmente hauna scala di priorità che pone la continuità dell’occupazione molto al disopra dell’equilibrio ambientale (selezione avversa).

Principale e agente sono entrambi consapevoli della sfasatura deirispettivi interessi e delle informazioni, e sanno che l’altro contraentecercherà di rafforzare la sua posizione. Teoricamente, il principale puòottenere la conformità dell’agente alle sue aspettative inserendo nelcontratto tre tipi di clausole:

• può specificare i compiti con precisione;• può adottare un sistema di remunerazione basato sui risultati;• può prevedere incisive forme di monitoraggio e valutazione.I problemi sorgono per il fatto che la stipula dei contratti e l’attua-

zione delle loro clausole non sono a costo zero [Williamson 1985]. Ècostoso sia far disegnare a terzi i processi di produzione più efficienti,sia adottare metodi di monitoraggio e valutazione, sia far accettarequesti vincoli agli agenti.

Dunque, per confezionare il suo pacchetto contrattuale ottimale, ilprincipale deve bilanciare le «perdite da agente» con i costi di contrat-tazione e di implementazione dei controlli: un’operazione non facile, ecomunque dai risultati incerti.

Parlando della funzione d’utilità dei burocrati, abbiamo fattoun’analogia tra il funzionario di Niskanen e il tassista che allunga ilpercorso. Questo esempio si presta ad altre considerazioni. Ammettia-mo che io sappia dell’interesse dei tassisti a scegliere i percorsi piùlunghi. Come posso contrastare questa propensione? Quale sistema diincentivi posso usare? Posso offrirgli una mancia se mi porta a desti-nazione in fretta. Ma se arrivo in una città che non conosco, comefaccio a sapere quanto in fretta mi deve portare per meritare la man-cia? In alcune città, esiste una regolazione pubblica delle tariffe capacedi contenere questo problema, con l’assegnazione di un guadagno piùalto sul primo scatto della corsa. Questo fa sì che, a parità di tempopassato con un cliente a bordo, guadagni di più il tassista che fa piùcorse e «processa» più clienti.

Nell’università italiana degli anni ’90, tutte le risorse degli ate-nei (posti in organico per docenti e non docenti, fondi per l’edili-zia, ecc.) erano distribuite in base al numero degli studenti iscritti,non importa se in corso o fuori corso. Grazie a questo sistema, chiaveva qualche potere decisionale nella catena dell’esecuzione avevaforti incentivi a utilizzare i suoi margini di discrezionalità per trat-tenere il più a lungo possibile gli studenti, aumentando il peso deiprogrammi, o ponendo ostacoli al loro curriculum. Un sistema di

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incentivi come quello dei tassisti, basato non sul numero degli stu-denti complessivi, ma sul numero delle sole matricole, o dei solilaureati, potrebbe contrastare questa tendenza. Ma come evitareche professori razionali «processino» sì un gran numero di studen-ti, ma a scapito della qualità, attirando e laureando anche chi nonha una sufficiente preparazione, pur di avanzare nella graduatoriadel ministero? Dunque, un coerente ed efficace pacchetto di incen-tivi è costoso da disegnare, da far accettare e da implementare[Moe 1984].

I dilemmi manageriali. Questo tipo di ragionamento ha permessoun’ampia rivisitazione delle teorie economiche sul management: a ca-ratterizzarla è una più precisa comprensione della differenza che passatra una macchina e un’organizzazione , anche quando quest’ultimaopera in un contesto di mercato [G. Miller 1992]. Nel settore pubbli-co, questa conclusione è in ampia sintonia con le «storie dell’orrore»descritte dagli studi sull’implementazione. La teoria principale-agentepermette infatti di cogliere e di spiegare le difficoltà ovunque riscon-trabili quando si tratta di far avanzare gli obiettivi originari lungo lacatena del comando. Le conclusioni in genere tendono a ridimensiona-re il potere dei manager e i livelli di efficienza che il loro interventopuò far conseguire [Holmstrom 1982; Brehm e Gates 1997]. È vero:grazie a una più minuziosa impostazione dei contratti e a una più in-cisiva azione di monitoraggio, l’opportunismo e la tendenza a bararepossono essere contenuti. Ma questi interventi non sono esenti dacosti e controindicazioni, al punto da generare veri e propri dilemmimanageriali [G. Miller 1992]. E, come nei dilemmi dell’azione sociale,così anche in queste relazioni la fiducia, la cultura comune, la buonareputazione possono fare molto per togliere sia i manager, sia i dipen-denti da situazioni in cui tutti sono condannati a perdere [Lupia eMcCubbins 1998].

Come è evidente, queste analisi hanno un marcato risvolto pre-scrittivo. In particolare, da questa prospettiva risultano meno credibilile promesse del new public management: se lo studio di solidi sistemidi incentivi, l’applicazione di nuovi indicatori di produttività e l’esten-sione dei controlli possono innalzare la conformità dei subordinati ri-spetto alle priorità dei dirigenti, queste strategie rischiano di produrreun’esplosione dei costi di contrattazione e di monitoraggio, con unaperdita di efficienza complessiva [Lane 1995].

Ma la teoria principale-agente può avere anche importanti valenzepredittive ed esplicative: conoscendo la struttura del contratto, le pre-ferenze delle parti, le asimmetrie informative, si possono capire qualisaranno i punti di frizione nella fase di attuazione delle decisioni. Nonstupisce quindi che questo schema di ragionamento sia la principalerisorsa messa in campo dalle teorie razionali per analizzare la fase diimplementazione delle politiche pubbliche.

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Le applicazioni al «policy making». Da questa impostazione, il poli-cy making può essere concepito come una lunga catena di relazioni traprincipali e agenti, che ha alla radice il principale per definizione, ilcittadino-elettore-contribuente, che delega il potere di legiferare aglieletti in parlamento e all’esecutivo, che a loro volta delegano l’attuazio-ne delle politiche all’amministrazione centrale, locale e alle agenzieindipendenti, e delegano alla magistratura il potere di sorvegliare sulloro operato. Alla fine della catena sta il burocrate a livello di strada,o il fornitore dei servizi privatizzati. Ogni anello della catena gode diuna qualche discrezionalità, sia per effetto della divisione dei potericostituzionali, sia come conseguenza delle competenze guadagnate sulcampo, semplicemente facendo. I conflitti sugli obiettivi e le asimme-trie informative caratterizzano dunque ogni fase del policy making[Mitnick e Backoff 1984; Thompson e Jones 1986; Wood e Waterman1994]. D’altra parte, senza deleghe e senza apparati è del tutto impos-sibile l’esercizio del governo [Lupia e McCubbins 1998].

Ma se guardiamo più da vicino ai vari intrecci della catena, notia-mo che alcune caratteristiche tipiche del policy making complicanoulteriormente il quadro, fino a suscitare dubbi sull’utilità del modello.

Innanzi tutto, in alcuni casi i principali possono schivare il rischiodi pagare i costi della loro incapacità o non volontà di controllare iloro agenti. In molte politiche regolative, le carenze dell’implementa-zione ricadono sui cittadini, e non sui legislatori che hanno confezio-nato norme inefficaci [Mitnick 1980].

Ma soprattutto, a ogni stadio del processo di produzione di unapolitica, gli agenti si trovano ad avere sopra di sé dei principali concaratteristiche perverse, perché sono numerosi, hanno interessi diver-genti, e cambiano nel corso del tempo: tutti elementi che depongonoa sfavore della forza del controllo [Wilson 1989; Mashaw 1997].

Il rapporto tra superiori e subordinati solo raramente è davverouna diade: nella maggior parte dei casi, è una partita con un gran nu-mero di giocatori [Moe 1987; Mitnick e Backoff 1984]. I parlamentarisono pressati da un elettorato che non parla con una sola voce, ma èframmentato in una molteplicità di gruppi d’interesse. L’esecutivodeve vedersela con una maggioranza parlamentare spesso divisa e ris-sosa. I dirigenti amministrativi devono barcamenarsi tra direttive con-traddittorie, del genere «botte piena e moglie ubriaca», e devono met-tersi al riparo dalle alterne fortune delle coalizioni politiche. Gli impie-gati sanno che a volte si va incontro ai guai non solo per trascuratezza,ma anche per zelo. Questo groviglio di principali e agenti fornisce ilcontesto ideale per strategie opportuniste, in cui i vincoli sono rinsal-dati o allentati a seconda delle convenienze, vere o presunte [Epsteine O’Halloran 1999].

Dunque, l’impostazione rigorosamente top-down adottata dalle teo-rie principale-agente sottostima nettamente l’iniziativa degli esecutori,spesso capaci di trovarsi il principale preferito, e magari di cambiarlo

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a seconda delle situazioni, ora riconoscendogli autorevolezza, ora fa-cendogliela mancare [Krause 1999]. Insomma, per quanto possa suo-nare sgradevole alle orecchie di un costituzionalista, delegare è un po’abdicare [Lupia e McCubbins 2000].

Queste conclusioni suonano familiari a chi conosce i risultati dellericerche condotte con metodi induttivi. E tuttavia la convergenza ren-de più difficile riconoscere il valore aggiunto generato dai metodi de-duttivi: se quel che resta della teoria principale-agente è un genericorichiamo alle divergenze degli obiettivi e alle asimmetrie informative,com’è possibile far avanzare l’analisi razionale dell’implementazione?

L’interrogativo spiega il successo di alcuni modelli che, superandodubbi ed evidenze opposte, affermano invece l’effettiva tenuta dellegerarchie fissate dalle carte costituzionali. Secondo la dimostrazione diMcCubbins, Noll e Weingast [1987; 1989], il parlamento disponedelle risorse e degli incentivi per anticipare le tensioni con i suoi agen-ti – agenzie indipendenti e burocrazie tradizionali –, dato che può in-serire nella legislazione clausole capaci di garantire la letterale esecu-zione delle decisioni approvate. In fondo, il colossale impianto delleprocedure amministrative, con l’obbligatorietà degli atti d’ufficio e laloro pubblicità, può essere considerato come una gabbia abbastanzaforte da ridurre al minimo eventuali inadempienze. Se poi pensiamo aldilagare degli istituti preposti alla valutazione e al controllo degli appa-rati amministrativi (capitolo terzo, paragrafo 2), la relazione principale-agente appare più di una semplice metafora.

Questa tesi, che ristabilisce la solidità delle prerogative costituzio-nali del potere legislativo, ha indotto i ricercatori a individuare conmaggior cura le variabili in grado di incrinare la tenuta del modello.Più precisamente, è la catena del comando e del controllo delle politi-che regolative a fornire gli esempi più difformi. Se le politiche distri-butive e redistributive tendono ad avanzare per moto proprio, perchéla pressione dei beneficiari è forte e continua, le politiche regolativehanno spesso un’implementazione tormentata. Inoltre, nel contestoamericano, il braccio esecutivo delle leggi di regolazione è, di norma,un’agenzia indipendente: e, come si ricorderà, molti studiosi hannoattirato l’attenzione sui rischi di questo sistema, che assegna un’enor-me discrezionalità ai responsabili delle agenzie, al punto da minarel’idea stessa di certezza del diritto [Lowi 1969]. Né la situazione mi-gliora quando nel gioco tra regolati e regolatori si inserisce la magistra-tura, composta a sua volta da attori razionali, portati a riempire conpropri contenuti l’evanescente concetto di «intenzione del legislatore»[Shepsle 1992; Shipan 1997].

In questo quadro, le interpretazioni avanzate dalle agenzie regolativeo da sentenze della magistratura fissano di fatto il nuovo status quo,qualunque sia la loro distanza dalle deliberazioni adottate dai legislatori.E, come sappiamo, lo status quo gode di un enorme vantaggio nei siste-mi politici democratici, basati sul consenso e sulla divisione dei poteri.

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q i2 P l1 l S i1 C

PROGRESSISTA CONSERVATORE

FIGURA 6.4. La legge e le sue interpretazioni.

Legenda:q = status quoP = opzione preferita dal presidente (o dal governo);S = opzione preferita dalla maggioranza del Senato;C = opzione preferita dalla maggioranza della Camera.

William Eskridge e John Ferejohn [1992] hanno formalizzato que-ste dinamiche in un semplice gioco, chiamato «articolo 1, comma 7».Ammettiamo che la scelta in questione sia unidimensionale, e che levarie posizioni trovino collocazione lungo l’asse progressista-conserva-tore, secondo l’ordine riportato nella figura 6.4.

In un sistema quale quello americano, basato sulla ricerca di uncompromesso accettabile tra tutte le istituzioni legittimate a intervenirenel processo legislativo, lo status quo può essere superato solo indivi-duando un qualche punto intermedio, tale da risultare preferibile pertutti rispetto alla legislazione in vigore59. Il punto l ha questa caratteri-stica perché, rispetto allo status quo, è più vicino alle preferenze nonsolo di S e C, ma anche di P 60. Dunque, l può essere il testo della leg-ge approvata con il consenso delle due Camere e del presidente. Ma,una volta emanata, una legge è soggetta ad almeno due serie di inter-pretazioni: quella degli apparati tenuti ad attuarla e quella della magi-stratura, chiamata a decidere se le norme sono state implementate inmodo corretto.

Il ragionamento di Eskridge e Ferejohn parte da questa constatazio-ne: una volta che le interpretazioni fornite dagli implementatori o dallamagistratura sono state emesse, è il loro significato, non quello della leg-ge originaria, a costituire il nuovo status quo. Dunque, se «i legislatori»non sono soddisfatti della situazione, è su di loro che ricade l’onere diidentificare un nuovo punto di equilibrio, con una nuova legge di inter-pretazione autentica della precedente. Ma la costruzione del consensointorno a un nuovo testo può risultare anche molto complicata. Tuttodipende da dove si colloca la lettura data con l’implementazione rispet-to alle preferenze dei legislatori. Se, ad esempio, l’interpretazione dellalegge si colloca in i2, allora Camera e Senato possono proporre al presi-dente un nuovo testo, l1, più vicino alle sue preferenze rispetto a i2, e

59 Parliamo di istituzioni per brevità: ma naturalmente il riferimento è ai singoliche al loro interno compongono le coalizioni vincenti.

60 La distanza di P da q è infatti maggiore di quella di P da l.

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nel contempo più conveniente per i parlamentari. Ma se l’interpretazio-ne della legge si colloca in i1, le possibilità di un accordo capace di mo-dificare la situazione sono nulle, perché Camera e Senato trovano con-veniente non cambiare le cose. Dunque, quando gli interpreti delle nor-me conoscono le diverse preferenze dei legislatori, possono inserirsi nelgioco, con molte probabilità di determinare un nuovo e solido punto diequilibrio.

Questi modelli possono apparire lontani dal contesto politico-am-ministrativo italiano. E tuttavia, anche nel nostro paese il ruolo dellamagistratura e la diffusione delle autorità indipendenti in molti casicostringono i legislatori a una rincorsa densa di incognite, come appa-re dal brano seguente:

Con la decisione di ieri, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni hareso effettiva la normativa contro le posizioni dominanti contenuta nella legge249/1997 [...]. Che Rete4 e Telepiù dovessero abbandonare le frequenze ter-restri era dunque già stato deciso quattro anni fa. Solo che non era stato fis-sato un termine preciso. Il passaggio, diceva la legge, sarebbe avvenuto quan-do si fosse realizzato un «effettivo e congruo sviluppo dei programmi radio-televisivi via satellite o via cavo». Era stata proprio l’indefinitezza del termine«congruo» a far raggiungere in parlamento il consenso necessario per appro-vare la legge. Ieri l’Authority per le comunicazioni ha deciso61 [...]. Una de-cisione «incontestabile» ha commentato il ministro delle Comunicazioni Mau-rizio Gasparri, per il quale però «è necessario che il Parlamento prenda attodelle novità tecnologiche e decida se aggiornare la normativa»62.

4.3. Gli stili

In genere, gli approcci razionali concedono poco spazio all’analisidegli stili di policy. Così, ad esempio, la teoria dei giochi, la risorsa piùutile per indagare la politics del policy making, individua nella tavoladelle vincite la prima variabile capace di ammettere o escludere la ra-zionalità della cooperazione. Quando i payoffs sono in un rapporto asomma diversa da zero, cioè quando esiste una qualche sovrapposizio-ne tra gli interessi degli attori, allora a fare la differenza è l’esistenza divincoli capaci di far assumere impegni credibili. Quindi, competizioneo cooperazione non sono atteggiamenti degli attori, ma sono il risulta-to oggettivo di una ricognizione sulla distribuzione dei payoffs e sullecaratteristiche del contesto istituzionale della scelta, quali la possibilitàdi comunicare e l’esistenza di apparati deputati a far rispettare gli ac-cordi. Una volta imboccata questa definizione della scelta, molti pas-saggi diventano obbligati. Ma se è lo spartito a fare la musica, come in

61 Fissando al 1o gennaio 2004 la data per il passaggio delle due emittenti alla TV

satellitare o via cavo.62 «Corriere della Sera», 8 agosto 2001.

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una pianola meccanica, non ha molto senso interrogarsi sugli stili in-terpretativi.

Naturalmente questa conclusione riguarda solo la rigorosa applica-zione del metodo deduttivo, che è la prospettiva analitica privilegiatain questo capitolo. Sia le verifiche in laboratorio, con simulazioni tragiocatori in carne ed ossa, sia innumerevoli esempi citati in ricercheempiriche dimostrano che in molti casi regole del gioco e payoffs nonbastano a definire le strategie adottate. Il modo in cui l’interazioneviene presentata da chi organizza la simulazione, le precedenti espe-rienze dei giocatori, la loro sensibilità, e persino particolari di contestoteoricamente irrilevanti, quali il colore delle carte da gioco, di fattosvolgono un ruolo molto importante nel ridefinire le condizioni e glieffetti della scelta [Tversky e Kahneman 1986].

Questi risultati e, più in generale, l’economia sperimentale, sonocampi affascinanti, ma deliberatamente esclusi dall’ambito della nostraschematica rassegna. Per alcuni studiosi, i loro dati sono una prova delfatto che le assunzioni alla base dell’individualismo metodologico nonsono solo empiricamente incomplete, ma anche sbagliate e fuorvianti.In base alla lettura delle teorie razionali che abbiamo adottato nel ter-zo paragrafo con la metafora del manichino nei crash tests, questa con-clusione appare del tutto sproporzionata. Negli incidenti stradali reali,sono moltissime le circostanze che determinano le conseguenze per ilguidatore: un giubbotto imbottito può salvarlo, o una lattina sul cru-scotto può ucciderlo. Gli esperimenti con i manichini, pur nella loroestrema semplificazione, permettono di restringere la rosa delle ipotesi,per capire la causa immediata della morte o della sopravvivenza: unrisultato incompleto, ma comunque importante, in termini descrittivi(si pensi ai rimborsi delle assicurazioni) e in termini prescrittivi (per lapossibilità di migliorare i dispositivi di sicurezza).

Per tornare agli stili del policy making, la più sottile delle nostrecategorie analitiche, possiamo affermare che molte ricerche riconosco-no l’importanza dei fattori culturali, storici, estetici, etici che definisco-no il contesto della scelta, ma poche trovano uno spazio teorico ade-guato per collocarle tra gli ingombranti concetti di regola e di payoff.

Eppure, alcuni autori sostengono che le teorie razionali di per sénon pregiudicano lo studio di quell’impercettibile ridefinizione deicontorni dell’interazione, che inevitabilmente si ha quando si passa dalconsiderare le decisioni in astratto, al vederle calate in una dimensionetemporale.

Tra questi rari tentativi, due meritano di essere segnalati. Il primoè dovuto a Thomas Schelling, e riguarda i giochi di coordinamento,quando i giocatori raggiungono i migliori payoffs trovando un accordoin situazioni che prevedono vari modi di andarcene fuori, tutti sostan-zialmente equivalenti, e quindi tutti definibili come equilibri di Nash,purché siano scelti simultaneamente da tutti gli attori. Rientrano inquesto tipo di giochi la definizione di convenzioni quali guidare tenen-

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do la destra o la sinistra, o la precedenza nelle date tra il numero delgiorno e quello del mese, che l’Europa risolve in modo opposto agliStati Uniti. In questi casi, l’importante è mettersi d’accordo, perchénon c’è un sistema migliore di un altro. I guai arrivano se uno si rego-la in un modo, e il suo interlocutore nell’altro. Quando l’interazioneha queste caratteristiche, la comunicazione gioca un ruolo fondamen-tale. Questo può spiegare lo straordinario successo dei telefonini, cherisolvono brillantemente i giochi degli appuntamenti, quando è impor-tante trovarsi tutti nello stesso luogo e nello stesso tempo.

E tuttavia, non sempre la comunicazione è possibile. Si pensi alcaso di madre e figlia che si cercano durante un allarme incendio inun grande magazzino, senza cellulari. L’idea di Schelling è che, se lepersone riescono a individuare un punto focale che dia uno spuntoper capire che cosa fare, in base a quello che si pensa stia facendo l’al-tro, riescono a coordinare le rispettive aspettative e a risolvere brillan-temente la situazione, anche senza comunicare. In questi casi,

trovare lo spunto, o meglio trovare uno spunto – perché ogni spunto ricono-sciuto reciprocamente come lo spunto diventa tale – può dipendere più dall’im-maginazione che dalla logica. Può dipendere da analogie, da precedenti accordicasuali, da simmetrie, da configurazioni estetiche o geometriche, da ragiona-menti cavillosi, da chi sono i giocatori e da che cosa sanno l’uno dell’altro [...].Una caratteristica fondamentale di molte di queste «soluzioni» ai problemi, cioèdi questi spunti, di queste coordinate, di questi punti focali, è un qualche tipodi prominenza o di visibilità. Ma è una prominenza che dipende dal tempo, dalluogo, e da chi sono le persone [Schelling 1960, 57-58].

Da questa prospettiva, gli stili di policy possono essere consideraticome un insieme di suggestioni in larga misura derivanti da precedentiesperienze e capaci di facilitare il coordinamento in situazioni inedite.

Il ragionamento di Scharpf parte invece da un’altra constatazione.In molti giochi, il concetto di soluzione ci racconta solo uno dei tantimodi di intendere l’obiettivo di vincere. L’equilibrio di Nash presup-pone attori che si fanno i fatti propri, nel senso che sono appagati dairisultati conseguiti. Non sono né invidiosi se la loro personale afferma-zione porta vantaggi anche all’altro, né addolorati se questo non avvie-ne63. Prendono atto del fatto che il gioco è a somma zero o a sommadiversa da zero, e si comportano di conseguenza.

Ma questo è giusto uno dei modi per valutare l’esito di un’intera-zione: badando al proprio guadagno in termini assoluti. In molti casi,questo criterio viene di fatto integrato da una valutazione in terminirelativi, che considera la distanza tra i risultati personalmente conse-guibili e quelli ottenibili dall’avversario nelle varie combinazioni stra-tegiche. Un corridore può mirare a vincere, senza preoccuparsi di al-

63 L’assenza di invidia è alla base anche del criterio dell’ottimo paretiano.

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LA SCELTA PUBBLICA 493

tro. O può mirare a vincere dopo una bella gara dove anche il suoinseguitore fa una bella figura. O può voler infliggere all’avversario undistacco bruciante.

Ora si pensi a una contrattazione tra organizzazioni imprenditorialie sindacati. In questo caso, le parti difficilmente giudicano gli esitidella negoziazione in termini assoluti, perché a loro importa anche inquale stato lasciano i loro partner. Se vogliono un clima sociale diste-so, possono preferire vincere un po’ meno, pur di concedere qualchemotivo di soddisfazione anche a loro. Se vogliono usare il negoziatoper dare una lezione a interlocutori arroganti, possono privilegiare lastrategia che più li umilia, che ristabilisce le distanze, anziché quellache comporta in astratto il miglior risultato.

Queste tre diverse letture di che cosa significa vincere

possono aprire la strada allo sviluppo di un numero più ampio di «teorieparziali» di notevole rilevanza per la spiegazione delle scelte di policy nelmondo reale. Le costellazioni definite dall’intersezione delle tre dimensioni divariabili – tipo di gioco, regole decisionali e stili decisionali – sono abbastanzaspecifiche da comportare una considerevole riduzione della contingenza dellesituazioni di scelta [Scharpf 1989, 171].

Se la gratificazione ricavabile dall’interazione strategica può averemolte facce, lo stile decisionale viene a coincidere con la regola di tra-sformazione adottata dagli attori per collocare i payoffs dei singoli gio-chi in una prospettiva più ampia. Questa caratteristica fa sì che le de-cisioni di oggi proiettino i loro effetti su quelle di domani, perché nelpolicy making, le interazioni non sono isolate, puntiformi, ma si snoda-no nel tempo in flussi ininterrotti [Scharpf 1993; G. Miller 1992].

Questa impostazione ha molte affinità con le teorie economichesulla dipendenza dal percorso [North 1990; Denzau e North 1994].Ma in quest’ultima prospettiva l’accento non è sui margini di libertà dicui gli attori razionali dispongono quando sollevano la testa dalla sin-gola partita, per collocarsi in un orizzonte temporale più ampio. Percerti versi, il modo di ragionare è complementare, perché qui il temponon ha la funzione di allargare il ventaglio delle strategie a disposizio-ne dei giocatori ma, al contrario, di restringerlo [Pierson 2000a;2000b]64.

Qui lo sguardo è all’indietro, sul peso dell’eredità di una politicapubblica, sul modo in cui la sequenza delle scelte passate interviene aipotecare le scelte disponibili nel presente:

Il fattore cruciale è la presenza di un ritorno crescente [degli investimen-ti], ovvero di un feedback positivo, che incoraggia gli attori a focalizzarsi suuna singola alternativa e a continuare il cammino lungo un particolare percor-

64 V. anche F.W. Scharpf, Institutions in Comparative Policy Research, MPIFG

Working Paper.

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so, una volta compiuto il primo passo [...]. In queste condizioni, le aspettativedegli individui circa la prassi in uso si possono autoconfermare» [Pierson2000b, 492].

Come abbiamo visto nel quarto capitolo, le teorie sulla dipendenzadal percorso sono spesso utilizzate come un’arma contro l’individuali-smo metodologico [Liebowitz e Margolis 1995]. Infatti gli equilibri cuipervengono le decisioni sensibili al percorso possono essere anchemolto distanti da quelli prevedibili in base a un astratto concetto diefficienza. Soprattutto quando è richiesto un elevato investimento perimparare a usare una soluzione, i costi del suo eventuale abbandonoportano a passare sopra ai suoi limiti oggettivi, pur di non ricomincia-re la sperimentazione daccapo.

E tuttavia, vedere in questi esiti una smentita alla logica della ra-zionalità economica è una conclusione non necessaria, come scrivePaul David, uno dei principali teorici della dipendenza dal percorso:

Sul piano analitico, è un totale non sequitur asserire che l’essenza delladipendenza dal percorso – che è una proprietà definita per l’analisi di proces-si dinamici e stocastici – consiste in conclusioni circa la possibilità di fallimen-ti del mercato, che richiedono invece di essere provati all’interno di modellistatici e deterministici [...]. Se si capiscono bene il concetto e le idee relativealla dipendenza dal percorso, non ci sono ragioni per elaborarle come senecessariamente inficiassero l’economia come disciplina [David 2001, 8 e 16].

Dunque, il fatto che in due situazioni di scelta uguali per contenu-ti, ma collocate in diversi percorsi, gli attori privilegino equilibri diver-si, di per sé non smentisce i modelli razionali. Ma se razionalità è unnome plurale, il concetto di policy style può rivelarsi utile anche nelleanalisi deduttive, proprio per cogliere il vantaggio di cui godono lesoluzioni con cui gli attori hanno già avuto modo di familiarizzare.

4.4. Le regole

Benché alcuni autori continuino a imputare alle teorie razionali l’er-rore di dipingere una società priva di istituzioni, tutti gli approcci con-siderati in questo capitolo pongono al centro dell’analisi le istituzioni ele norme da esse emanate. Così è per le teorie sulla ricerca delle rendite,in cui sono i meccanismi della democrazia, dalle elezioni alla divisionedei poteri, a creare l’habitat ideale per policy maker opportunisti.

Ma sono soprattutto le teorie della scelta sociale a fissare l’atten-zione sulla netta distinzione che esiste tra decidere per sé e deciderecon altri e per altri: da un lato, le regole di aggregazione delle prefe-renze sono lo strumento indispensabile per pervenire a scelte colletti-ve; ma dall’altro la loro imperfezione innalza una barriera che segna ladiscontinuità rispetto alle scelte individuali.

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LA SCELTA PUBBLICA 495

La teoria dei giochi fa delle regole uno degli elementi costitutividel suo impianto deduttivo.

Con lo studio degli equilibri indotti dalla struttura, le teorie spa-ziali del voto analizzano l’organizzazione degli organi decisionali, finoai più minuti dettagli procedurali, per dimostrare la loro essenzialefunzione nel garantire ai processi di scelta un esito stabile.

Dunque, nelle teorie razionali ogni aspetto del policy making èstrutturato dalle regole. Questa diffusa sensibilità per gli aspetti nor-mativi ci permette di mantenere esattamente lo stesso schema del cor-rispondente paragrafo del quinto capitolo, per sottolineare i moltipunti di convergenza tra approcci induttivi e approcci deduttivi.

Purtroppo, la sintonia tra i due metodi riguarda anche la tremendaapprossimazione con cui viene identificato l’oggetto di studio: regole,norme, istituzioni, procedure, ma anche convenzioni, tradizioni, con-tratti, accordi, ideologie, riti, culture: insomma, tutti quei prodottidell’attività umana che dimostrano una qualche solidità nel condizio-nare per qualche tempo le interazioni sociali.

4.4.1. La nuova economia istituzionale

All’inizio degli anni ’80, mentre nella scienza politica e nella socio-logia si affermava la svolta neoistituzionalista, anche nelle scienze eco-nomiche si assisteva a un analogo riorientamento. La nuova economiaistituzionale65 è incentrata sull’analisi dei diritti di proprietà e dei costidi transazione. La proprietà privata riceve trattamenti diversi dallediverse società: anche dove il suo possesso è pienamente legittimato,variano le condizioni e i limiti del suo esercizio, variano i codici che latutelano, varia l’efficacia degli apparati di polizia e giudiziari prepostialla sua tutela. Da questi elementi dipendono gli incentivi che possonorendere più o meno attraenti gli scambi di mercato.

I costi di transazione consistono nell’insieme di risorse assorbitedalla definizione delle clausole di un contratto e, soprattutto, dallavigilanza sulla sua corretta esecuzione da parte di tutti i contraenti[Williamson 1975]. Dalla configurazione dei costi di transazione di-pende la scelta del contesto organizzativo entro cui gli attori razionalitenderanno a collocare i loro scambi. Il mercato, attraverso il meccani-smo dei prezzi, fornisce un sistema efficiente per controllare i costi dimolte transazioni, come abbiamo visto nel terzo capitolo. E tuttavia, ilcarattere puntiforme di queste interazioni in molti casi si rivela insuf-ficiente. Ne è una prova l’emergere della grande impresa, un’organiz-zazione economica basata sulla gerarchia e su particolari modalità di

65 L’aggettivo «nuovo» intende staccare questa corrente di ricerca dalla «vec-chia» economia istituzionale di Thorstein Veblen e John Commons, che rigettava ifondamenti dell’economia classica e dell’individualismo metodologico.

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acquisizione del bene lavoro, con le retribuzioni, gli avanzamenti dicarriera, la delega delle prerogative imprenditoriali al management[Coase 1937]. L’economia dei costi di transazione

adotta un approccio basato sul confronto dei contratti nello studio delle organiz-zazioni economiche. Sono distinte tre modalità generali di contrattazione com-merciale – il mercato, le forme ibride, la gerarchia –, e cruciale è comparare ipoteri e i limiti di ciascuna [...]. Rispetto a questa formulazione, i mercati sonocaratterizzati da incentivi molto potenti, che aiutano a tenere sotto controllo icosti burocratici e a sostenere un forte adattamento autonomo. All’opposto, lagerarchia ha incentivi molto più deboli e costi burocratici più alti, ma ha unacapacità superiore all’adattamento cooperativo [Williamson 1993, 44 e 49].

Dunque, le specifiche forme con cui le istituzioni pubbliche tute-lano i diritti di proprietà e presidiano i contratti possono fare la diffe-renza, incidendo sul funzionamento dell’economia, come dimostranole difficoltà incontrate dalle privatizzazioni nei paesi ex socialisti [Ol-son 2000]. Da questo schema deriva anche una parte prescrittiva, cheruota intorno a questi interrogativi: quali sono le istituzioni più appro-priate per lo sviluppo dell’economia di mercato? e come bilanciare ivincoli, in modo da avere un’arena politica abbastanza autorevole dareprimere gli abusi, ma non così autoritaria da commetterne?

Più precisamente, le istituzioni pubbliche possono avere un ruolodeterminante nel facilitare l’assunzione di impegni credibili [North 1993]:sapendo che esistono sistemi di sanzioni e di sorveglianza che rendononon conveniente imbrogliare o defezionare, le parti possono contare sulfatto che attori razionali rispetteranno gli impegni assunti. Dunque, studia-re l’evoluzione dei sistemi economici, significa scoprire come la loro storiasi intreccia a quella delle istituzioni che talvolta garantiscono e accresconol’efficienza dei mercati, talaltra la minacciano alla radice.

Per procedere in questa ricostruzione, la nuova economia istituzio-nale attinge a piene mani ai risultati delle ricerche induttive, dalla scien-za politica alla psicologia, dalla sociologia alle scienze cognitive, adottan-do presupposti che per certi versi segnano un notevole distacco dall’in-dividualismo metodologico, avvicinandosi all’idea di razionalità limitata,con le sue inevitabili conseguenze: imperfezione dei contratti complessi,incompletezza e asimmetria delle informazioni, rilevanza dei costi d’im-plementazione, condizionamento da parte dei frames cognitivi.

Come è facile intuire, questi assunti portano l’economista a toccareaspetti che interessano molto da vicino lo studioso di politiche pubbli-che, e che qui citiamo solo per titoli:

• la dipendenza dal percorso degli equilibri istituzionali;• i networks, quali forme di coordinamento alternative tanto al

mercato quanto alle gerarchie;• l’importanza dell’orizzonte temporale degli attori;• le complicazioni che intervengono quando nelle scelte le orga-

nizzazioni si sostituiscono agli individui;

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• gli aspetti cognitivi, prima che strumentali, dell’innovazione tec-nologica [Williamson 1993].

Il risultato [dell’analisi] è uno schema, dipendente dal percorso, in cui lamatrice istituzionale e i modelli mentali dei giocatori interagiscono, modellan-do il cambiamento in modo incrementale. Negli oltre 2.500 anni da Solone aStalin, la struttura degli incentivi fornita dall’impianto istituzionale e i modellimentali degli attori hanno guidato scelte da cui sono derivati modelli di cam-biamento economico enormemente diversi [North 1993, 18].

Arrivati a questo punto, qualcuno si può chiedere perché, davantial miracolo di economisti disposti ad accettare molti dei postulati deipolicy studies di tipo induttivo, riserviamo loro solo questo breve para-grafo, per giunta alla fine del volume. Questo è dunque il momentoper chiarire la scelta di campo anticipata all’inizio del capitolo.

Il motivo per cui dedichiamo solo un cenno a queste teorie è per-ché il loro sviluppo ruota intorno a un interrogativo che tocca solotangenzialmente la politics del policy making: come spiegare i diversitracciati seguiti dall’evoluzione dei sistemi economici? Invece, le teorieeconomiche che abbiamo privilegiato non si pongono direttamente ilproblema del funzionamento dell’economia, ma di quello della demo-crazia, perché si interrogano sulla relazione tra le scelte pubbliche e lepreferenze dei cittadini che compongono una comunità politica.

La differenza è più nell’impostazione che nelle conclusioni, perchéla public choice dà per scontato che i cittadini vogliano, oltre a una co-munità politica che riflette le loro preferenze, anche un’economia effi-ciente. E d’altra parte, se il primo interrogativo della new institutionaleconomics riguarda l’evoluzione dell’economia, le risposte che seguonorimettono immediatamente al centro dell’analisi le attività dei governi,responsabili ultimi della struttura dei diritti di proprietà e dei costi ditransazione. Ma in questo approccio le istituzioni politiche entrano ingioco di rimessa, per la funzione che svolgono rispetto al mercato,perché il problema fondamentale è spiegare le diverse performance deisistemi economici.

Dunque, nonostante il ricorrere degli stessi termini (razionalità, istitu-zioni, efficienza, ecc.), le due logiche di ricerca sono distinte per metodo-logia e per oggetto di studio. Sullo sfondo, stanno due idee molto diversedi istituzione. Per la nuova economia istituzionale il problema è spiegarecome e perché i contratti vengono rispettati, e lo scambio di beni vienemesso al riparo da strategie di tipo predatorio, del genere «prendi i soldie scappa»: la domanda di istituzioni è il termine di riferimento. Per leteorie politiche positive, invece, le istituzioni in genere non hanno unapresa diretta sul mercato: anche l’esistenza della regolazione economicanon fa eccezione, perché a promuovere la normativa non sono solo leparti sociali che ne traggono giovamento, ma anche parlamentari ansiosidi acquistare visibilità, burocrati affamati di incarichi, magistrati che ve-

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dono aumentare le loro competenze. Una volta entrati in questo circo, iproblemi di coordinamento delle parti sociali risentono di tutte le aporiee i paradossi di quel particolare tipo di scelte pubbliche che sono le sceltepolitiche. Né potrebbe essere diversamente, perché le regole non sonosolo testi, ma costosi apparati per la loro implementazione.

Insomma, che le istituzioni politiche debbano essere in qualche modofunzionali al benessere economico di una società, e che questo legametorni utile per capire la loro evoluzione, è un’ipotesi che lascia molto fred-di i teorici della public choice, quanto meno perché la domanda di istitu-zioni non può prescindere dall’offerta, cioè dagli interessi di partiti, buro-crazie, corti di giustizia [G. Miller 2000]. Così, le analisi che si richiamanoalla nuova economia istituzionale tendono a sottolineare gli aspetti positiviprodotti dai vincoli innalzati contro la libertà di defezionare. Le analisi piùvicine alla public choice tendono invece a sottolineare i rischi di distorsionie le occasioni per la nascita di rendite. Il parametro dell’efficienza ricorrein entrambi gli approcci: ma nel primo caso il riferimento è all’efficienzacomplessiva dei sistemi economici, mentre nel secondo il richiamo è all’ef-ficienza paretiana o agli equilibri della teoria dei giochi66.

La diversità dei punti di partenza non ha comunque impedito lacollaborazione e l’integrazione dei risultati [North e Weingast 1989;Moe 1990; Olson 2000]. Le stesse teorie principale-agente, di cui cisiamo appena occupati, devono molto al primo tipo di analisi [Holm-strom e Milgrom 1991]. Un debito analogo è stato contratto dalle teo-rie che sottolineano come l’organizzazione «industriale» del parlamen-to, con le sue articolazioni e le sue procedure, produca il benefico ef-fetto di ridurre gli enormi costi di informazione che incombono suilegislatori [Krehbiel 1991].

Ma è soprattutto con il lavoro di Elinor Ostrom e del suo gruppo diricerca che i due approcci arrivano a intrecciarsi, nel tentativo di dareuna risposta a questo problema: come mai in alcune comunità si affer-mano assetti istituzionali capaci di risolvere i dilemmi sociali e di garan-tire la conservazione dei beni pubblici, mentre in altre la logica perversadel free rider appare incontenibile [E. Ostrom 1990; 1998; 1999]? Datoche questo può essere considerato come il problema di base per l’avviodi qualunque politica istituzionale, affronteremo il tema tra poche pagi-ne, nel paragrafo dedicato a questo particolare tipo di politiche.

4.4.2. Le istituzioni viste dalle politiche

Per molti, il contributo della public choice all’analisi delle regoleche plasmano le diverse arene di policy si esaurisce con la loro identi-ficazione in vincoli formali, cogenti ed esogeni, cioè imposti agli attori

66 Per una discussione dei due approcci, vedi il dibattito tra Miller e Pierson[2000b].

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dall’esterno. Eppure, i nuclei teorici presentati nel paragrafo 3 dischiu-dono anche un’altra strada, che porta a considerare le regole «dal bas-so in alto», per i loro aspetti informali, non cogenti ed endogeni.

Formali/informali. Con la distinzione tra l’equilibrio indotto dallastruttura e quello indotto dalle preferenze (v. paragrafo 3.4), le teoriespaziali del voto offrono uno schema analitico molto potente per defini-re la differenza tra regole formali e informali. Le prime vengono a coin-cidere con i condizionamenti che dipendono dall’impianto delle istitu-zioni politiche. Le seconde devono essere in qualche modo interiorizzatedalle scale di valore degli individui. Nello studio del law making, gliequilibri indotti dalla struttura rinviano a un’organizzazione del parla-mento basata sul decentramento, la specializzazione e la reciprocità, conil conferimento del potere di agenda alle commissioni parlamentari[Shepsle e Weingast 1987]. Nello studio delle scelte elettorali, gli equi-libri indotti dalle preferenze rinviano in primo luogo all’unidimensiona-lità delle questioni su cui si gioca lo schieramento dei votanti [Black1958; Downs 1957]. Come abbiamo visto, l’unidimensionalità presuppo-ne una cultura politica condivisa, capace di portare i cittadini a conver-gere sull’interpretazione delle loro divergenze: in altre parole, a contarenon è l’uniformità delle vedute sui vari problemi, ma la capacità di de-finire negli stessi termini i punti di disaccordo tra le varie proposte.

Questo contributo delle teorie spaziali del voto è in forte sintoniacon quella parte della teoria dei giochi che sottolinea l’importanzadelle conoscenze condivise come elemento chiave per utilizzare il con-cetto di strategia. Se i giocatori non fossero in grado di attribuire ailoro avversari gli stessi criteri di valutazione che hanno loro, non po-trebbero fare alcun calcolo sugli esiti delle loro mosse. Se un giocato-re, davanti alle carte che ha in mano, «vede» gli equivalenti punti del-lo scopone, e un altro quelli di briscola, non c’è partita. Dunque, piùcresce l’area delle conoscenze comuni, più cresce l’ambito di applica-zione della teoria dei giochi, e più cresce la prevedibilità degli esitidell’interazione, un bene fondamentale non solo nei mercati, ma anchenelle decisioni pubbliche [Kreps 1990; Goodin 2000].

È importante notare come i policy networks siano organizzazioniche, sommando molte delle qualità dei contesti che favoriscono l’equili-brio, possono aspirare al rango di istituzioni, sia pure di tipo informale.Essendo coagulati dall’interesse e dalla competenza per un solo ambitodi policy, queste conformazioni assumono nel dibattito politico generaleun rilevante potere di agenda, svolgendo un ruolo analogo a quello dellecommissioni parlamentari rispetto all’aula. E nei processi decisionali alloro interno, l’esistenza di una comune cultura da issue agevola quell’ac-cordo su ciò che divide, che costituisce l’elemento fondamentale degliequilibri indotti dalle preferenze. A loro volta, le frequenti interazionirendono evidenti i vantaggi del possedere conoscenze comuni, perchéaumentano la prevedibilità delle strategie e la stabilità dei risultati.

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Cogenti/indeterminate. Le analisi economiche delle istituzioni con-dotte negli ultimi anni convergono nel dimostrare che le regole nonsono poi quelle morse ferree capaci di inchiodare gli individui raziona-li a uno e un solo risultato. Per la nuova economia istituzionale, que-sto dato si basa su due fonti di indeterminatezza. La prima risiedenelle caratteristiche degli individui, che sono cognitivamente limitati; laseconda risiede nelle caratteristiche dei processi storici, segnati dalladipendenza dal percorso [Tversky e Kahneman 1986; North 1990;Pierson 2000a].

Invece, per le teorie qui privilegiate, questi innegabili aspetti di persé non sono tali da sconvolgere l’analisi deduttiva. Piuttosto, a renderenon del tutto prevedibili gli effetti delle regole, è un altro dato: nonsempre le istituzioni sono setacci capaci di selezionare dalle interazionitra gli attori uno e un solo risultato razionale.

Come abbiamo visto, c’è poco determinismo nelle teorie della scel-ta sociale, che predicono esiti caotici quando le dimensioni della deci-sione sono più di una [McKelvey 1976]. L’imperfezione delle regole, esoprattutto della regola di maggioranza, rende i risultati delle sceltepubbliche estremamente contingenti rispetto alle procedure e alla con-figurazione delle preferenze. Riker trae da questi postulati la conclu-sione che, in politica, difficilmente le decisioni rappresentano punti diequilibrio stabili, sicché in quest’ambito dell’attività umana può vera-mente succedere di tutto [Riker 1980].

La teoria dei giochi dimostra che in molte situazioni si possonoavere numerosi equilibri di Nash, perché esistono diverse combinazio-ni di strategie in grado di soddisfare le condizioni di questo criterio dirazionalità. Si pensi ai giochi di coordinamento cui abbiamo accennatonel precedente paragrafo.

Nel campo delle politiche pubbliche, le convenzioni sociali, la cul-tura organizzativa, le tradizioni politiche sono alcuni dei repertori cuigli attori possono fare ricorso per fronteggiare lo smarrimento prodot-to dalla varietà delle strategie teoricamente capaci di produrre unequilibrio [Calvert 1995]. Come è evidente, queste sceneggiature han-no molte analogie con il concetto di policy style, ad esse in parte so-vrapponibile.

Esogene/endogene. Come le analisi induttive, anche le analisi de-duttive considerano le regole da due punti di vista diversi: come vin-coli esogeni, o come risultati endogeni. Ma forse il loro apparato con-cettuale permette di distinguere meglio le ragioni e le conseguenze deidue approcci.

Tutti i ragionamenti finora esposti hanno dato per scontata unavisione delle regole come vincoli esogeni. Questo modo di procede-re ha nella teoria dei giochi la sua espressione più precisa [Tsebelis1990]. Lì le regole sono fissate prima e indipendentemente dallescelte degli attori. Prima di iniziare una partita a monopoli, si leg-

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gono le istruzioni che qualcuno ha messo a punto, e che stabilisco-no il formato del gioco: quanti giocatori possono partecipare, qualioperazioni devono compiere per distribuire le carte, a chi toccabuttare per primo i dadi, e così via, fino a come ci si aggiudica lavittoria finale. Accettando di giocare, i partecipanti si adattano alleregole e rinunciano a mutarle in modo unilaterale. In altre parole,ne fanno il contesto dell’interazione strategica con gli altri giocato-ri. Da quel momento, i pezzettini di legno rossi e verdi diventanocase e alberghi con un grande valore. Con le loro scelte razionali, igiocatori cercheranno di utilizzare le risorse e i vincoli posti dalleregole per ricavare dal gioco le vincite più alte [Alt e Shepsle1998].

La lettura esogena della regole ha molti vantaggi, ma anche al-cuni difetti. In primo luogo, tende a sorvolare sul fatto che, fattisalvi i dieci comandamenti, le regole non piovono dal cielo, masono a loro volta il risultato di scelte umane. Non solo: qualunqueregola di una qualche rilevanza richiede una costante e costosamanutenzione. Dunque, se il risultato finale diventa stabile e incon-testabile grazie alle regole del gioco, come fanno le regole a esserestabili e incontestabili?

Un primo modo di rispondere a questa domanda è di impostare lascelta delle regole come un gioco di secondo livello, avente appuntoper posta la selezione delle norme [Tsebelis 1990]. Tra poche pagine,quando affronteremo l’analisi di quel particolare tipo di politiche pub-bliche che sono le politiche istituzionali, esamineremo da vicino questotipo di impostazione.

E tuttavia anche questo approccio ha limiti precisi. Innanzi tutto,le istituzioni non sono decise una volta per tutte, ma subiscono costan-ti cambiamenti e richiedono impegni continui. Inoltre, questa conce-zione sottovaluta nettamente le capacità riflessive degli attori, che han-no sì il potere di vincolarsi, ma anche quello di svincolarsi. Dunque,perché i perdenti non buttano per aria il tavolo, e tirano di nuovo inballo i giochi di secondo livello, ogni volta che quelli del primo pren-dono una brutta piega?

Queste domande hanno indotto William Riker [1980] a interro-garsi su una questione: è davvero sostenibile questa drastica divisionetra preferenze e istituzioni, con il conseguente confinamento della scel-ta delle regole in un’arena separata rispetto alle decisioni di tutti igiorni? O non occorre invece pensare al rapporto tra istituzioni e pre-ferenze come a un rapporto di continuità, in cui le regole sono sempli-cemente preferenze congelate, solidificate?

L’esigenza di legare meglio l’incastro tra scelta delle regole e giochisostantivi ha trovato nella teoria dei giochi una soluzione molto pene-trante. Infatti, se ora ripensiamo al concetto di equilibrio di Nash, cirendiamo conto che esiste un legame inscindibile tra gli insiemi distrategie che si autosostengono, legittimandosi a vicenda, e i dettagli

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descritti dalle regole del gioco: chi muove per primo, con quali infor-mazioni e, soprattutto, con quali conseguenze per i payoffs. Dunque, leregole sono l’altra faccia della soluzione del gioco e, come questa,sono un equilibrio. Chi vuol provare l’emozione di possedere ventialberghi o di fallire rovinosamente, trova nelle regole di Monopoli larisorsa di cui ha bisogno:

Le istituzioni non impongono vincoli: l’ordine che producono emerge inmodo endogeno. Le istituzioni si basano su promesse credibili, siano questepremi o punizioni. Pertanto possono, e debbono, essere analizzate come equi-libri [...]. Entro un equilibrio, nessun attore sceglie unilateralmente di alterareil suo comportamento, se restano fisse le sue opzioni, i payoffs e le aspettativeriguardanti le scelte degli altri: ma in questo stato l’attore non ha motivi perrivedere o modificare le sue aspettative. Se i fattori esogeni rimangono glistessi, dobbiamo attenderci che i comportamenti rimangano inalterati. Il com-portamento diventa stabile e regolare, cioè istituzionalizzato, non perché èimposto, ma perché è fondato [Bates et al. 1998, 5 e 8].

Ricordiamo che le strategie che concorrono a formare un equili-brio di Nash non necessariamente comportano vincite. Possono anchecomportare perdite, ma dell’ammontare più contenuto possibile. An-che in questi casi, i risultati e le regole che li hanno permessi si sosten-gono a vicenda, perché meglio di così non era possibile uscirne, nono-stante le recriminazioni di chi deve pagare dei costi.

Dunque, non è necessario pensare alla creazione del consenso perle regole come a un problema diverso e separato dalla loro applicazio-ne: è il loro effettivo impiego nelle decisioni sostantive a fornire la loropiù forte legittimazione, quando dimostrano di saper indirizzare versoun esito le tensioni create dai problemi di policy.

Se le squadre accettano il risultato del campionato, e a inizio sta-gione tornano a giocare, i regolamenti sono un equilibrio, anche se cisono lamenti e mugugni. Se, nonostante le proteste, gli insegnanti tor-nano in classe a insegnare, il loro contratto di lavoro è un equilibrio.Questo non vuol dire che quelle regole siano le uniche possibili, néche siano le più vantaggiose in assoluto, perché i costi di transazionepesano. Ma sono legate a filo doppio alle strategie degli attori: finchéqueste resistono, anche loro resistono.

In fondo, anche i fallimenti dell’implementazione sono equilibri,come ci ricordano Eskridge e Ferejohn [1992] con il loro gioco del-l’articolo 1, comma 7. Se per diversi anni ogni estate scoppiano gliincendi, e non ci sono cambiamenti nelle strategie degli attori, gli in-cendi segnalano un equilibrio istituzionale, fatto di mancate indagini,di lacunosi contratti per l’impiego degli aerei, di sovvenzioni alle zonecolpite, di indignazioni rituali. Questo non vuol dire che non c’è chiperde. Certo, alcuni comuni subiscono danni enormi: ma forse stareb-bero ancora peggio se fosse implementata sul serio la legge che impe-disce di costruire sulle aree incendiate.

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LA SCELTA PUBBLICA 503

4.5. I contenuti

Le teorie razionali permettono di spiegare perché i contenuti dellepolitiche condizionano i processi decisionali, selezionando le sedi dellescelte e le categorie di attori influenti.

In primo luogo, le teorie sulla ricerca di rendite, che più sfruttanol’analogia tra la produzione di beni di mercato e la produzione dipolitiche pubbliche, possono facilmente leggere le arene di policy intermini di rete di produzione, commercializzazione e consumo di queiparticolari beni che sono le politiche agricole, o ambientali, o scolasti-che, ciascuna con il suo lato della domanda e il suo lato dell’offerta.La natura del bene in produzione, le relazioni tra produttori e consu-matori, le modalità dello scambio costituiscono dunque un’unità ana-litica con una sua logica di funzionamento interno:

Ciascuno di questi elementi può variare. Un cambiamento nelle caratteri-stiche di un elemento può modificare le conclusioni. In un certo senso, lateoria della scelta pubblica può essere considerata come una teoria della con-tingenza dove ogni affermazione, ad esempio sulle istituzioni, è contingenterispetto alle condizioni costituite dalla natura del bene o del servizio in gioco[V. Ostrom 1977, 1511].

In secondo luogo, le teorie economiche dispongono di una potentecategoria su cui basare le tipologie delle politiche: si tratta della distin-zione tra beni pubblici e beni privati. Questi due concetti possonoessere considerati come gli estremi di un continuum che coglie la mag-giore o minore disaggregabilità delle decisioni di policy. Così, ad esem-pio, le politiche distributive possono essere considerate come gli inter-venti pubblici più vicini alla categoria dei beni privati, in quanto ibenefici da esse erogati vanno ad avvantaggiare gruppi socialmente oterritorialmente molto circoscritti. All’estremo opposto stanno le poli-tiche costituzionali, dalla cui efficienza tutti gli appartenenti ad unacomunità politica traggono vantaggio.

In un certo senso, per ironia della ricerca, le teorie razionali si ri-conoscono pienamente nel determinismo implicito nel modello diLowi, loro tenace avversario [Regonini 1985; Kellow 1988]. Questospiega come i primi e più popolari modelli di applicazione della publicchoice al policy making siano basati proprio sui tipi di politiche scolpiticon tanta forza da Lowi: le politiche distributive, quelle regolative equelle istituzionali67. E chi ha trovato un po’ troppo astratto il paragra-fo sulle regole, può ora compensare con lo spietato realismo di questeanalisi.

67 Le politiche redistributive sono in genere analizzate con gli stessi strumenti diquelle distributive o di quelle costituzionali.

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504 CAPITOLO 6

4.5.1. Le politiche distributive

Lo studio delle decisioni distributive ha svolto un ruolo molto im-portante nel dimostrare i vantaggi analitici delle teorie razionali nellostudio del policy making [Weingast, Shepsle e Johnsen 1981; Collie1988]. Le prime applicazioni delle teorie spaziali del voto da parte distudiosi di scienza politica riguardano infatti proprio le arene distribu-tive. Gli elementi del modello sono ormai noti.

Alla base, sta un’organizzazione parlamentare decentrata, che asse-gna il potere di agenda a commissioni composte da parlamentari conpreferenze abnormi. La conseguenza è un processo decisionale basatosull’universalismo e la reciprocità, due forme di scambio del voto, o dilog-rolling, il primo volto a inglobare la quasi totalità dei membri dellacommissione competente, e il secondo volto a ottenere il largo consen-so dell’aula, in base al criterio: «Tu fai passare una cosa a me, io fac-cio passare una cosa a te» [Fiorina 1981].

L’esito di questi processi sono leggi omnibus, che hanno qualcosada dare a tutti, a costo di comportare una spesa pubblica molto di-stante per eccesso da quella che massimizzerebbe l’utilità del cittadinovotante mediano [Shepsle e Weingast 1981].

Come qualunque lettore italiano capisce facilmente, questi mo-delli colgono un dato cruciale: quando sono in gioco decisioni distri-butive, la logica della minima coalizione vincente, a prima vista lapiù razionale, non funziona. Teoricamente, si potrebbe pensare chei decisori si facciano guidare dal criterio: «In meno siamo, e più lar-ga è la fetta di torta che otteniamo». Ma decine di studi nei più di-versi sistemi politici dimostrano che le cose non vanno così. Nel1968, Schulze notava:

I programmi federali per investimenti, disegnati per gli specifici problemidelle metropoli, sono allargati a colpi di emendamenti parlamentari fino aincludere aree rurali. E viceversa, programmi adatti alle specifiche esigenzerurali, sono spesso estesi fino a includere i centri delle città [...] Il processolegislativo attuale, e l’impacchettamento delle proposte dell’amministrazione,incoraggiano il log-rolling tra progetti lungo linee rigidamente funzionali[Schulze 1968, 134].

David Stockman, direttore dell’Office of Management and Budgetdel governo americano dal 1980 al 1985, sotto la presidenza Reagan,così racconta la sua esperienza:

Thomas era [...] uno dei più abili tattici del partito repubblicano al Con-gresso. «Non ce la facciamo» disse «A meno che non apra la mensa dei pove-ri». Nel Congresso, la «mensa dei poveri» è quella che si apre nelle ultimeore prima di una votazione per attirare nuovi congressisti. A questo punto, lademocrazia non è questione degli ideali di Jefferson né delle opinioni diMadison. Diviene uno studio di praticabilità per un progetto idrico da

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200.000 dollari piuttosto che la nomina di un direttore regionale dell’Entenazionale agricoltori nel Montana occidentale [...]. Ogni categoria di elettoredel ceto medio ebbe qualcosa: le piccole imprese ebbero esenzioni dalle tasse;vennero elevate le detrazioni per i figli a carico; gli agricoltori ebbero nuovesovvenzioni. Quando i democratici completarono il decreto, il liberal DavidObey del Wisconsin osservò giustamente: «Probabilmente sarebbe stato piùeconomico se avessimo dato a ciascuno la possibilità di esprimere tre deside-ri» [Stockman 1986, 215 e 248].

Alla fine degli anni ’70, la teoria dei giochi fornisce un’acutaspiegazione di comportamenti precedentemente attribuiti a un gene-rico autointeresse di politici famelici. Le politiche distributive posso-no essere modellate come giochi cooperativi in cui ai giocatori vienechiesto di trovare l’accordo sulla divisione di una somma: se trovanol’accordo, possono tenersi le cifre assegnate; se non riescono a trova-re un’allocazione accettata da tutti, nessuno prende una lira. Come èfacile capire, la tavola dei payoffs rende assolutamente razionale lacooperazione. Il problema è che, in determinate condizioni, questotipo di gioco può non avere alcun equilibrio sostenibile, perchéqualunque soluzione può essere sfidata con successo da un’altra. Èquesto il caso del gioco della divisione di un dollaro tra tre persone,in grado di comunicare e di stringere alleanze [Hamburger 1979]: ilsuo sviluppo è indefinito, secondo cicli sempre riapribili, come di-mostra la tabella 6.8.

Ammettiamo che la prima divisione veda una minima coalizionevincente composta da A e B, con l’esclusione di C. Questa soluzionepuò essere sfidata da C, con la controproposta presentata nella secon-da riga: B viene penalizzato, ma A ha un forte incentivo a «scaricarlo»a favore di C. Anche la nuova coalizione tuttavia è sfidabile dall’offer-ta di B della terza riga. E così via, indefinitamente.

Se a un certo punto una coalizione prova a essere magnanima, ead adottare il criterio delle parti uguali, come avviene nella quintariga, tecnicamente anche questa soluzione è sfidabile da una qualun-que minima coalizione vincente. Ma se i giocatori possono prendereimpegni credibili, e assicurare l’un l’altro che la posta «1/3 ciascuno»si combinerà con i vantaggi del troncare il gioco, rinunciando a ulte-riori sfide, per passare a intascare il premio, una soluzione di per sénon in equilibrio può comunque affermarsi come la più conveniente[Baron e Ferejohn 1989]. In fondo in politica, come nella vita, ilmeglio è nemico del bene: continuare la contrattazione espone al ri-schio di presentarsi a mani vuote davanti agli elettori, il peggiore deirisultati per tutti i parlamentari, a qualunque partito appartengano.Questo spiega la straordinaria forza di attrazione dell’universalismo edella reciprocità.

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506 CAPITOLO 6

TAB. 6.8. Il gioco della divisione di un dollaro

A B C Coalizione

1a divisione 0,50 0,50 0 A e B2a divisione 0,75 0 0,25 A e C3a divisione 0 0,50 0,50 B e C4a divisione 0,25 0 0,75 A e C5a divisione 0,33 0,33 0,33 A e B6a divisione 0,50 0,50 0 A e B

4.5.2. Le politiche regolative

Fino alla fine degli anni ’50, le teorie economiche della regolazionedavano assolutamente per scontato che l’intervento dei governi avessecome obiettivo il contenimento dei fallimenti del mercato, e pertantogenerasse esiti vantaggiosi per i consumatori. Eventuali problemi eranoconsiderati come incidenti di percorso. George Stigler, autorevoleesponente della Scuola di Chicago, capovolge questa impostazione,opponendosi a una visione delle politiche pubbliche come «un curiosomiscuglio di benevolo interesse pubblico e di errori non voluti» [Sti-gler 1982, 9].

Applicando l’impostazione di Downs, che vede le politiche comemerce di scambio tra eletti ed elettori, Stigler considera i politici comebanditori che mettono all’asta la legislazione, cedendola al miglior of-ferente, in cambio di voti, o di tutte quelle risorse che tornano utiliper acquisirli: finanziamenti nelle campagne elettorali, buona stampa,opportunità di impiego per i collaboratori... Stigler passa a chiedersichi può avere interesse a sollecitare la regolazione. Non certo i cittadi-ni consumatori, razionalmente disinformati. Dunque, «di norma, laregolazione è acquistata dall’industria: è disegnata e implementataprincipalmente per portarle benefici» [Stigler 1971, 3].

Ma com’è possibile che chi viene gravato da vincoli, in nome, adesempio, della libertà di concorrenza o della salute dei consumatori,invochi queste catene? La risposta è trovata nei vantaggi di cui godo-no i settori economici più regolati, quali il trasporto aereo, l’industriafarmaceutica, l’industria alimentare:

• l’ingresso nel mercato di nuovi sfidanti diventa molto improba-bile, per il maggior controllo esercitato dalle autorità sull’adeguatezzadegli impianti e dei prodotti, che finisce col rendere gli investimentida per niente a poco remunerativi;

• i prezzi possono così lievitare, scaricando sui consumatori i costidell’adeguamento del ciclo produttivo alla regolazione;

• spesso, le aziende regolate godono anche di sovvenzioni pubbli-che, a indennizzo dei costi sopportati per rispettare le norme.

Dunque, se la regolazione non può essere considerata una iatturaper i potenziali regolati, chi tra loro riesce effettivamente ad aggiudi-

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LA SCELTA PUBBLICA 507

carsi le norme più convenienti? Stigler, anche sulla base dell’analisi diOlson, non ha dubbi: a prevalere sono le esigenze degli interessi fortie concentrati, cioè della grande impresa che, a differenza della piccola,non deve affrontare il problema del free rider nel «tassarsi» per com-pensare i politici per le loro iniziative. Pertanto, il reale obiettivo dellaregolazione è esattamente l’opposto dei buoni propositi che in genereaccompagnano la sua approvazione da parte dei parlamenti [Peltzman1976; Becker 1983]. La controprova sta nel fatto che, una volta rego-late, le grandi imprese difficilmente esercitano pressioni per ritornarealla situazione precedente. Piuttosto, investono energie per condiziona-re l’agenzia regolativa incaricata dell’implementazione delle norme. Ein genere ci riescono, ottenendo tempi più veloci per le autorizzazionie protocolli più benevoli nei controlli.

Questa teoria, definita della cattura (del regolatore da parte delregolato), è la principale responsabile dello stigma che grava sulla pub-lic choice, per la fortissima influenza esercitata sia sul dibattito scienti-fico, sia su quello politico. Nella prima arena, è spesso consideratacome una cinica negazione del ruolo che l’interesse pubblico può ave-re nel policy making. Nella seconda, è vista come l’ispiratrice di politi-che liberiste di deregolazione e di privatizzazione.

Alcuni dei limiti di questa impostazione sono già stati sottolineatipresentando gli altri approcci rational, più disposti ad ammettere chei politici basino le loro scelte di policy sulle loro personali convinzioni,e più attenti alle complicazioni che sorgono nella fase dell’implemen-tazione, quando la catena principale-agente si allunga e si aggroviglia[McCubbins, Noll e Weingast 1987]. Ma soprattutto queste teorie,focalizzate sulla regolazione economica, risultano almeno parzialmenteinadeguate rispetto al vasto e crescente settore della regolazione sociale[La Spina e Majone 2000], a protezione dell’ambiente, della salute, odi particolari categorie di cittadini, quali i bambini o i disabili.

4.5.3. Le politiche istituzionali

Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, è possibile afferma-re che qualunque contributo di public choice è anche un contributoallo studio delle politiche istituzionali, dalla divisione dei poteri al fe-deralismo, dalla catena delle deleghe al ruolo del parlamento. Certo,esistono anche ricostruzioni di specifiche vicende di riforma istituzio-nale68. Ma le ricerche più citate come esempi di analisi razionale delleistituzioni non fanno riferimento all’approvazione o alla modifica diuna costituzione, un fatto che avviene poche volte nella storia di unanazione, e che certo non è dato per imminente dagli studiosi del siste-

68 Due esempi per tutti: Knott e Miller [1987] e Weingast [1992].

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ma americano. Il problema è capire come possa mantenersi vivo ilconsenso verso le regole di base della convivenza civile nella gestionedei conflitti quotidiani, quando le architetture sono sottoposte allaprova di carico di una serie infinita di problemi di policy.

Questo uso del concetto di istituzione, e la continua confusionecon quelli di regola e di norma, possono risultare insopportabili a unostudioso europeo di diritto pubblico. Alla loro base sta l’esigenza divedere le istituzioni all’opera: un po’ come stanare il vigile dall’ufficio,per vedere che cosa davvero riesce a fare nel caos del traffico. Riemer-ge in questa tendenza la mai del tutto sopita influenza del pragmati-smo. Come scrive Elinor Ostrom, «è la gente comune, sono i cittadiniche plasmano e sostengono il funzionamento delle istituzioni nella vitadi tutti i giorni» [1998, 18].

Dunque, studiare le politiche istituzionali significa fare i conti conun apparente paradosso: da un lato, le regole non piovono dall’alto,ma sono un prodotto che in una democrazia richiede il concorso dimolte figure pubbliche: politici, studiosi, magistrati delle corti costitu-zionali, associazioni di cittadini. Dall’altro, per funzionare, devonogodere di uno statuto speciale, che le metta al riparo da una continuarinegoziazione tra i milioni di persone che le usano. Il problema ècome tenere vivo il consenso e come garantire la loro manutenzione,senza rimetterle ogni volta in discussione.

Il calcolo del consenso. Come abbiamo visto nelle pagine preceden-ti, un primo modo per sciogliere questo paradosso è di pensare allascelta delle regole come un a un gioco separato e più elevato rispettoalla loro quotidiana applicazione nel policy making, un gioco di secon-do livello, caratterizzato da una struttura assolutamente unica.

Nel loro volume Il calcolo del consenso [1962], James Buchanan eGordon Tullock danno una prova esemplare delle scoperte dischiuseda questa prospettiva. Infatti quest’opera segna la nascita di un nuovocampo di ricerca, tra il diritto, la scienza politica e la public choice,spesso denominato economia politica costituzionale [Tollison e Van-berg 1989].

Il problema che si pongono i due autori è eminentemente nor-mativo: e tuttavia alcune conclusioni hanno segnato anche la ricercapositiva. La prima questione riguarda l’esigenza di conciliare l’impar-zialità delle regole con la loro accettazione da parte di individui ra-zionali, animati dall’autointeresse. Come è noto, nelle partite le rego-le si stabiliscono prima di aver guardato le carte che si hanno inmano. Ma nelle scelte istituzionali reali, gli attori non sono all’oscurodelle risorse di cui dispongono: questa consapevolezza potrebbe por-tare, ad esempio, i più poveri a sostenere una definizione molto de-bole dei diritti di proprietà, mentre i ricchi avrebbero esattamentel’interesse opposto. Dunque, come evitare che le scelte di secondolivello siano contaminate dai conflitti e dalle tensioni che caratteriz-

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zano le scelte di primo livello, cioè le concrete politiche pubbliche?La risposta di Buchanan e Tullock rinvia alla capacità umana di uti-lizzare il velo di incertezza che avvolge il futuro di ciascuno di noi,per raggiungere una capacità di giudizio non condizionata dalle carteche abbiamo in mano nel presente. La leva che consente questo in-nalzamento dalla quotidianità non è solo la paura della sfortuna, maè una disposizione d’animo che ha molti punti in comune con la ri-flessività cui abbiamo fatto cenno nel quarto capitolo. Su questa ca-pacità richiameranno del resto l’attenzione altri studiosi, quali Rawls[1971] e Harsanyi [1977b], che assegnano alla metafora del velodell’ignoranza un ruolo centrale anche in termini normativi. Dunque,i cittadini possono prescindere dai loro immediati interessi quandodiscutono di regole generali.

La seconda questione può essere riassunta in questi termini.Chiunque abbia una visione liberale della democrazia, non può noncondividere il timore di una dittatura della maggioranza, espresso daipadri fondatori della costituzione americana, e declinato in terminieconomici da Pareto e da Wicksell: come aveva già notato Buchanan[1960], per la minoranza che deve subire le conseguenze di decisioniprese da altri, fa poca differenza che gli altri siano uno o tanti. D’altraparte, è impossibile non vedere le conseguenze paralizzanti che avreb-be l’adozione della regola dell’unanimità, con l’effetto di mettere arepentaglio la difesa dei diritti più elementari.

Per uscire da questa strettoia, Buchanan e Tullock introducono ilriferimento a due grandezze, i costi interni e i costi esterni. I primisono i costi in termini di tempo e di energie che gli individui devonoinvestire per approdare a una decisione vincolante per tutti: partecipa-re alle riunioni, informarsi sulle alternative, esporre le proprie posizio-ni, contrattare con gli altri. I secondi sono i costi che gli individui ri-schiano di dover sopportare se le loro preferenze non sono tenute inconto nelle decisioni vincolanti per tutti, quando chi governa discrimi-na chi non appartiene alla coalizione vincente.

Se ora immaginiamo di disporre le regole decisionali lungo un con-tinuum, che ha ad un estremo il dittatore monocratico, e all’estremoopposto la regola dell’unanimità, osserviamo che i costi interni sonominimi nel caso del decisore unico, e massimi nel caso dell’unanimità.Un andamento opposto e speculare hanno i costi esterni: il rischio chequalcuno sia costretto a sopportare decisioni che non condivide èmassimo nel caso del dittatore, e minimo con il requisito dell’unanimi-tà (v. fig. 6.5). Dunque, una regola che voglia minimizzare la sommadei costi interni ed esterni deve corrispondere al punto di intersezionetra le due curve, collocato da una qualche parte tra i due estremi.Questa è una decisione razionale, tendenzialmente unanime, perché sudi essa possono facilmente convenire tutte le persone interessate a sal-vaguardare sia il valore della partecipazione, sia quello della tempesti-vità delle decisioni.

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510 CAPITOLO 6

COSTI ESTERNI COSTI INTERNI

Dittatura 50% Unanimità

FIGURA 6.5. Costi interni e costi esterni nelle decisioni.

Tale ampio accordo non elimina il problema di quale concreta-mente debba essere la regola più conveniente nelle varie situazioni discelta, perché le curve dei costi esterni o interni possono assumere unandamento più o meno brusco, pur all’interno dell’orientamento de-scritto, a seconda delle questioni in discussione. Questo fatto rendemolto improbabile l’identificazione di un principio ideale, valido pertutte le decisioni pubbliche. Nemmeno la regola della maggioranzapossiede questa virtù, perché la sua adozione è conveniente solo quan-do le curve dei costi esterni e di quelli interni s’intersecano esattamen-te a metà strada, come nella figura 6.5. È chiaro ad esempio che ledecisioni più gravi, quali dichiarare una guerra, gonfiano, per cosìdire, la curva dei costi esterni, spostando il punto di intersezione versomaggioranze più ampie del 50%.

Ma il risultato di questo modo di ragionare è di salvaguardare,insieme, il principio dell’unanimità nelle scelte istituzionali e il princi-pio della razionalità dei suoi scostamenti nelle concrete decisioni susingole politiche. Una volta declassato a soluzione tecnica, il criteriodel voto a maggioranza diviene più accettabile, perché accompagnatodalla consapevolezza dei suoi limiti: «Al massimo, la regola di maggio-ranza va considerata come uno tra i tanti espedienti pratici resi neces-sari dai costi del raggiungimento di un generale accordo sui temi po-litici, quando gli interessi degli individui e dei gruppi divergono» [Bu-chanan e Tullock 1962, 96].

Il governo delle risorse comuni. Come abbiamo già sottolineato, imodelli che definiscono la selezione delle regole come giochi di secon-do livello postulano una rigida separazione tra questo tipo di scelte equelle aventi per oggetto le politiche pubbliche, relegate a un gradoinferiore, perché contaminate dal carico delle angustie e dei conflittidella quotidianità.

Proprio questa distinzione viene contestata da chi considera le re-gole come equilibri endogeni, radicati in quegli stessi giochi da esse

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LA SCELTA PUBBLICA 511

strutturati. Dunque non due livelli analitici, quello costituzionale equello delle scelte di policy, ma un solo livello, quello alle prese con ledifficoltà e le tensioni della vita associata. È solo dimostrando sul cam-po la loro capacità di sostenere gli equilibri basati sulle scelte sostan-tive degli attori, che le regole si guadagnano il loro rispetto.

Questa impostazione ha portato i ricercatori a cercare gli effettidelle scelte istituzionali non tanto nelle decisioni che, per così dire,espongono questa etichetta, ma invece nelle concrete situazioni in cuile persone ricorrono ad esse per superare i problemi di rilevanza col-lettiva.

Entro questa prospettiva teorica, il più importante contributo èsicuramente quello prodotto dal gruppo di ricerca diretto da Vincente da Elinor Ostrom all’Università dell’Indiana, avente per tema il go-verno di quel particolare tipo di beni che sono le risorse naturali co-muni: pascoli, bacini di pesca, riserve idriche, foreste. Per la loro sem-plicità quasi primitiva, queste situazioni rappresentano un terrenoideale per capire la logica delle scelte collettive, perché è abbastanzafacile classificare gli esiti delle interazioni in base alla loro desiderabi-lità sociale, data l’ovvia equivalenza «più risorse = più benessere».

Già nel 1968, Garret Hardin, in un saggio dal titolo The Tragedyof the Commons, aveva concentrato l’attenzione sul fenomeno dell’ina-ridimento dei pascoli non recintati, sottoposti a uno sfruttamento in-controllato da parte degli allevatori nell’Inghilterra del 1600, con unesito catastrofico per tutti. Ma sulle difficoltà incontrate nella tuteladei beni collettivi i lettori dovrebbero ricordare altri due fondamentalicontributi: la teoria dei free rider formulata da Mancur Olson e il ri-sultato subottimo cui pervengono i giocatori nel dilemma del prigio-niero, il più noto dei dilemmi sociali.

Tutte queste prospettive di ricerca convergono verso una previsio-ne: in questi casi, è estremamente improbabile l’affermazione di strate-gie lungimiranti, basate sulla diffusa accettazione dei costi, con la con-seguente salvaguardia del bene collettivo. La ricerca di Elinor OstromGoverning the Commons [1990] intende verificare se davvero questaconclusione ha la cogenza di una legge universale. Con un impegnostraordinario, il campo della verifica empirica è allargato fino a com-prendere esempi da ogni parte del mondo, dagli alpeggi svizzeri alloSri Lanka, dalla Spagna alle Filippine, in modo da tenere sotto con-trollo una variabile molto ingombrante: l’impatto della cultura politicaoccidentale.

Riassumere in poche righe il risultato di una fitta sequenza di de-finizioni, tipologie, risultati, teorie, non avrebbe senso. In ogni caso,l’evidenza empirica dimostra che, se molte comunità sono effettiva-mente dilapidate dalla logica del free rider, e altre riescono a salvaguar-dare le risorse, ma solo trasformandole in beni privati, alcune sonocapaci di imporsi forme di autocontrollo che permettono di tutelare lefonti del benessere, senza sacrificare la loro natura collettiva.

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Questo dato fa sorgere una domanda: perché alcuni gruppi riesco-no ad accettare i costi della manutenzione delle risorse, dei controlli edelle sanzioni necessari per punire chi le saccheggia, mentre altri nonsono in grado di avviare e conservare quello che può essere considera-to il livello zero del patto istituzionale? Perché solo alcune comunitàsono capaci di instaurare quel circolo virtuoso tra fiducia, reciprocitàe buona reputazione, che consente la migliore uscita dal dilemma delprigioniero [E. Ostrom 1998]?

La risposta a queste domande si frantuma in una serie di motiva-zioni, che comprendono, a seconda dei casi, variabili culturali, politi-che, costituzionali, ma anche fisiche, geografiche, biologiche. Ma èproprio l’impossibilità di ragionare in termini di variabili indipendentia fornire un primo, fondamentale risultato:

A ogni livello di analisi, le combinazioni delle regole, delle caratteristichedel mondo e delle comunità degli individui coinvolti si combinano in modoconfigurativo anziché additivo [...]. Nell’analisi istituzionale, occorre conosce-re il valore delle altre variabili anziché asserire semplicemente che questesono tenute costanti. Questa natura configurativa delle regole rende l’analisiistituzionale un’impresa più difficile e complessa rispetto allo studio di feno-meni che sono strettamente additivi [E. Ostrom 1999, 37 e 39].

Se i fattori che condizionano l’adeguatezza delle regole rispetto allatutela dei beni collettivi si combinano in modo configurativo e non addi-tivo, cambiare un tassello può voler dire in un caso far crollare la costru-zione, e magari nell’altro renderla indistruttibile. In base a questa consta-tazione, diventa molto rischioso formulare predizioni sulle concrete con-seguenze per gli equilibri di policy di un disegno di riforma delle regole.

Questa conclusione può suonare sconfortante, perché sembra pre-cludere la possibilità che gli individui intervengano consapevolmente acondizionare la variabile da cui dipende la qualità della loro conviven-za. Ma il suo significato è un altro: se le predizioni a orologeria nonfunzionano, funziona però l’adeguamento per prova-errore, basatosulla capacità di apprendere dai fallimenti: «Gli apprendisti non in-fallibili possono fare errori, e spesso li fanno. A fare la differenza èl’esistenza di incentivi istituzionali che incoraggino la gente a impararedai propri errori. La fallibilità e la capacità di apprendimento possonoquindi essere considerate come assunzioni di una più generale teoriadell’individuo» [E. Ostrom 1999, 45].

A questo punto qualcuno può chiedersi se questi apprendisti noninfallibili hanno ancora qualcosa a che fare con l’individualismo meto-dologico e con le teorie razionali. In effetti, Elinor Ostrom è consape-vole del fatto che il suo individualismo accetta come normale unagamma di comportamenti molto più vasta di quelli contemplati dalleteorie razionali ortodosse. Eppure, la sua non è la rivendicazione di unsuperamento, ma piuttosto l’esigenza di un’integrazione:

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LA SCELTA PUBBLICA 513

Benché io stia proponendo un ulteriore sviluppo anche rispetto alle teoriedella scelta razionale di seconda generazione, le teorie basate su una razionalitàcompleta, ma esile69 continuano a giocare un importante ruolo per la nostracomprensione del comportamento umano [...]. Una domanda di ricerca chiavecontinua ad essere: qual è la differenza tra l’equilibrio predetto dalla teoriadella razionalità completa e i comportamenti osservati? [...]. Dunque, nel pros-simo decennio razionalità limitata e razionalità completa possono diventare piùcomplementari di quanto non appaiano oggi [E. Ostrom 1998, 16].

5. Questioni aperte

Dati gli obiettivi di questa presentazione, non ha alcun senso pas-sare in rassegna le critiche mosse alle fondamentali opzioni analitichedell’approccio razionale. Del resto, alcune obiezioni sono già statepresentate nel corso del paragrafo 3.

Esiste poi una serie di contestazioni ancora più generali, che ri-guardano non gli assunti delle teorie razionali, ma il loro modo di farescienza, per lo spazio concesso alla deduzione e per la presunta inac-curatezza delle evidenze empiriche prodotte. Questo dibattito, avviatocon il volume di Donald Green e Ian Shapiro, Pathologies of RationalChoice Theory [1994], e continuato in decine di sedi70, ruota intornoall’accusa di indimostrabilità empirica, a causa di una formulazionedelle ipotesi che omette di fare riferimento a rigorose modalità di ve-rifica di tipo quantitativo. Le risposte fornite dai protagonisti dellascuola di public choice sottolineano tutte uno stesso aspetto: «Il verdet-to negativo emesso da Green e Shapiro riflette una nozione eccessiva-mente restrittiva di ciò che costituisce un contributo empirico, e unavisione irrealistica della ricerca scientifica» [Fiorina 1996, 86]. Se que-sto fosse lo standard da applicare agli studi di scienza politica, ancheinduttivi, non si salverebbe nessuno: men che meno si salverebberoquelle che Green e Shapiro considerano le alternative alla rationalchoice, e cioè i paradigmi normativo, culturale, psicologico e istituzio-nale, che certo non se la passano meglio per il rigore delle evidenzeempiriche.

5.1. Critiche di prima generazione

Tornando alle critiche più circoscritte, possiamo distinguere unaserie di obiezioni per così dire di prima generazione, per le quali ildibattito è ormai sufficientemente assestato, sia per quanto riguarda i

69 Perché incapace di spiegare in modo convincente l’uscita dai dilemmi sociali.70 Tra le tante, segnaliamo Friedman [1996] e il numero monografico del «Jour-

nal of Theoretical Politics» (1999, n. 2).

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capi di imputazione, sia per quanto riguarda la difesa. Insomma, ri-spetto alla batteria di contestazioni tipiche degli anni ’80, molti studio-si di public choice oggi potrebbero dire: «nessun problema: queste os-servazioni sono già state recepite e hanno già dimostrato di essere in-tegrabili nel modello», e continuare citando almeno dieci articoli che,muovendo da un qualche emendamento del concetto di razionalità,riescono a inglobare i più disparati aspetti delle relazioni sociali.

5.1.1. Un’antropologia riduttiva

La prima e più scontata serie di obiezioni contrappone più omeno esplicitamente il modello di Simon sulla razionalità limitata allarazionalità economica, adottata dalle teorie della scelta pubblica, perconcludere che la prima è più convincente della seconda, come dimo-strano eventi quali il crollo delle borse o gli incidenti stradali.

A un grado superiore di incisività sta l’obiezione di quanti ritengo-no che la distinzione analitica tra interessi e scelte, necessaria per spie-gare le seconde sulla base dei primi, non ha fondamento. Come spiegaJames March,

le scelte sono fatte spesso senza riferimento ai gusti. I decisori umani, nel pren-dere decisioni, di solito ignorano le loro preferenze pienamente consapevoli.Seguono regole, tradizioni, impressioni, suggerimenti e azioni di altri. I gusticambiano nel tempo in modo tale che è spesso difficile predire i gusti futuri. Igusti sono incoerenti. Gli individui e le organizzazioni sono consapevoli dellamisura in cui alcune loro preferenze entrano in conflitto con altre loro prefe-renze; e tuttavia non fanno nulla per risolvere queste incoerenze. Molte prefe-renze sono formulate in termini che mancano di precisione. È difficile farneaffidabili indicatori per valutare eventuali risultati. Se da un lato i gusti sonousati per scegliere tra azioni, spesso è anche vero che le azioni e l’esperienzacon le loro conseguenze influenzano i gusti. I gusti sono determinati parzial-mente in modo endogeno [March 1978; rist. 1986, 153-154].

Dopo tutto, la teoria economica del valore non è più realisticadella IV legge di Steinbeck: «Ciò che si desidera perde valore quandolo si ha». Dunque, gli interessi non hanno una priorità causale rispettoalle pratiche [Bowles e Gintis 1993].

Oggi queste citazioni difficilmente potrebbero scatenare una qual-che rissa teorica. La public choice71 è passata da un’impostazione stret-ta a una larga [Opp 1999], che non ha alcuna difficoltà ad ammetteremotivazioni non egoistiche, azioni non strumentali, e relazioni più con-torte tra interessi e scelte:

71 Torniamo ora a usare questo termine in modo non tecnico, ma per riferirci al-l’insieme delle teorie razionali presentate nel paragrafo 3.

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Noi assumiamo un modello di uomo come massimizzatore di benesserenon perché questo modello sia necessariamente la descrizione più valida sulpiano empirico, ma perché cerchiamo un insieme di regole che funzioninobene indipendentemente dai postulati comportamentali adottati [Brennan eBuchanan 1988, 188].

Noi non abbiamo difficoltà ad ammettere che la vita delle emozioni haun grande potere e incide sui comportamenti. E non abbiamo difficoltà nean-che a concedere che le ricostruzioni delle scelte razionali fondate solo su in-teressi materiali possano essere tanto irrealistiche quanto limitate analitica-mente [...]. Noi usiamo questi modelli per spiegare, non per descrivere; dun-que i nostri modelli non hanno bisogno di catturare ogni aspetto della vitaumana. La misura del rapporto tra la varianza con cui si confrontano e lavarianza che davvero spiegano fornisce la misura del loro successo [Bates etal. 2000, 698].

Ma la public choice di oggi non è solo più modesta circa il poteredescrittivo dei suoi modelli: è anche più attenta a distribuire sul mani-chino sensori capaci di cogliere gli spostamenti più lievi: dunque è piùconsapevole dei limiti cognitivi degli attori, dei contesti comunicativiin cui sono calate le interazioni, della opacità delle funzioni di utilità,persino agli occhi dei loro possessori [Frey 1997].

Che poi questa evoluzione comporti la nascita di un nuovo e piùcompleto paradigma [Bates et al. 1998, 16; E. Ostrom 1998, 3], o sol-tanto l’eutanasia del vecchio, è una questione aperta. Secondo JonElster, che certo non è un nostalgico della razionalità dura e pura, «unavolta separate dall’individualismo metodologico, le spiegazioni in terminidi scelta razionale hanno un dubbio valore» [Elster 2000, 693].

5.1.2. Una teoria che confonde prescrizione e descrizione

Le critiche che esplicitamente fanno riferimento all’applicazionedelle teorie razionali allo studio del policy making ruotano intorno aun’accusa: questi modelli, pur spacciandosi per descrittivi, in realtàtrasmettono in modo subdolo una precisa concezione dei valori chedovrebbero stare alla base della convivenza civile: «I tre giudizi divalore che possono o devono essere espressi dall’interno della publicchoice sono: è desiderabile lasciare che la gente abbia quel che vuole;non è desiderabile imporre alla gente ciò che non vuole; è legittimotrascurare tutto il resto, salvo ciò che la gente vuole o non vuole»[Golembiewsky 1977, 1494].

Il risultato è una teoria marcata in modo indelebile da questi limiti:• è conservatrice, come in molte teorie derivate dall’economia [Sti-

gler 1959], gli equilibri generati non dal mercato, ma in contesti istitu-zionali sono considerati come deformazioni della volontà dei cittadini.La categoria guida diventa quella dei fallimenti della politica, prodotti

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da policy makers affamati di rendite, o da regole di scelta imperfette emaliziose. La conseguenza è una preconcetta fiducia nelle politiche diprivatizzazione e di liberalizzazione;

• è asociale, le teorie razionali coltivano un’idea di scelta sociale incui ad essere assente è proprio la società: «L’interesse individuale nonpuò spiegare i valori e le credenze condivisi che legittimano i patternsdi relazioni sociali, che a loro volta sostengono le rappresentazioni delmondo. Solo le culture possono fare questo» [Wildavsky 1994, 152].L’idea che le deliberazioni collettive siano solo aggregazioni di prefe-renze rimuove la loro capacità di evolvere verso processi di riflessioneinterpersonale in cui gli individui, confrontandosi con le idee dei lorosimili, scoprono i limiti delle loro precedenti posizioni ed escono dallaciclicità non scegliendo né x, né y o z, ma k [Mashaw 1997, 41];

• è anticivica, le teorie razionali tendono a sottostimare sistemati-camente la capacità dei cittadini di giudicare le scelte pubbliche dalpunto di vista dell’interesse collettivo [Krueger 1974]. Il loro sempli-cismo a senso unico rimuove l’influenza di qualunque altro principiodiverso dall’autointeresse, quali l’altruismo, l’educazione, il rispetto perle regole. Che la partecipazione possa essere considerata come un be-neficio, e non un costo, era invece già chiaro a Tocqueville: «Il fatto èche il più gran piacere per un americano è di occuparsi della cosapubblica e di parlarne [...]. Costringere l’americano a occuparsi solodei suoi affari, significherebbe carpirgli metà della sua esistenza» [Toc-queville 1835, 107];

• è diseducativa, il messaggio delle teorie razionali ha un effettocorrosivo sulle «virtù repubblicane», che non possono sopravviveresenza il senso della solidarietà e lo spirito di servizio verso la propriacomunità [Kelman 1988]. Dunque, chi applica e diffonde questi ap-procci si assume una grave responsabilità: «Se noi insegniamo ai nostristudenti che questa è la premessa che ci permette di spiegare meglio ilcomportamento dei politici, i nostri studenti più sensibili possono es-sere negativamente colpiti e respinti da questa visione della politicacome impresa essenzialmente egoista» [Steiner 1990, 47].

5.1.3. Argomenti a difesa

La prima replica a queste critiche fa appello a una concezionedella ricerca di stampo pragmatista: a garantire il valore dei risultatiscientifici non è la loro completezza e il loro carattere definitivo ma, alcontrario, la loro parzialità. Per fortuna, la vita non è fatta solo di in-cidenti d’auto: ma ciò non toglie agli ingegneri che strutturano i crashtests il diritto-dovere di lavorare intorno ai loro manichini. A impedireche l’unilateralità dei punti di vista diventi un limite negativo, non puòessere la singola teoria, che non può saltare oltre la sua ombra, ma uncontesto scientifico libero da pregiudizi e aperto al confronto tra molte

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teorie, anche distanti tra loro: «Finché si comunica in buona fede, lacompetizione amichevole rende tutti noi studiosi migliori, e rende lascienza politica più degna del suo nome» [Fiorina 1996, 93]. Di nuo-vo, l’eco della visione di Dewey riemerge prepotente.

In questo quadro, l’economia e le sue applicazioni ai fenomenipolitici possono riscattarsi dall’accusa di essere scienze misere [Riker1980]. Anche scoprire che Babbo Natale non esiste è un colpo ai buo-ni sentimenti: ma misera è l’educazione che vede crollare i suoi princi-pi per effetto di questa rivelazione72.

La seconda linea di difesa si appella a un altro dato: non esisteun’unica lettura dei risultati della public choice. Negli studi di secondagenerazione, la gamma delle conseguenze evidenziate e delle prescri-zioni suggerite copre tutto lo spettro delle possibilità: più privatizza-zioni, ma anche rafforzamento della regolazione centrale; più mercato,ma anche più cultura e valori condivisi...

E anche i «fallimenti della politica» previsti dalla prima generazio-ne, se letti correttamente, non hanno nulla di deterministico. Il teore-ma dell’impossibilità di Arrow afferma che non c’è modo di escluderela possibilità di un conflitto tra democrazia e stabilità: ma non sostieneuna loro inesorabile e astorica incompatibilità [G. Miller 2000, 541].La teoria dei giochi, portando alla luce la combinazione di aspettativespeculari del genere «io pensavo che lei pensasse che io pensavo...»,rende giustificabili in termini razionali diverse strategie: «È questonetwork di aspettative che si rinforzano a vicenda a far sì che un esitodel tutto sostenibile (ad esempio, la cooperazione) prevalga rispetto aun altro esito altrettanto sostenibile (ad esempio, la non cooperazio-ne)» [G. Miller 1992, 207].

Alcuni autori [Oliver 1980; E. Ostrom 1990; Farber e Frickey1991] vanno oltre, sostenendo che la lezione fondamentale della publicchoice sta, in fondo, nella necessità di tenere aperta la riflessione suilimiti e sui pregi delle istituzioni democratiche, perché non c’è «il»modo giusto di modellare le regole dell’azione collettiva, ma solo uncostante procedere per prova-errore. Queste oscillanti valutazioni sonoironicamente espresse in uno dei testi più citati degli ultimi anni,Greed, Chaos, & Governance: Using Public Choice to Improve PublicLaw, di Jerry Mashaw:

Quando sono di buon umore, l’inadeguatezza di tutte le semplicistichericostruzioni sull’origine e l’evoluzione delle procedure amministrative midanno l’idea che il moderno stato amministrativo sia una costruzione di cui

72 Che l’influenza del modo di ragionare economico possa essere molto profon-da, emerge anche da questa nota autobiografica di Lindblom: «L’impatto dei miei pri-mi anni come studente graduate [in economia] ha prodotto, per me come per moltialtri colleghi, un’influenza seduttiva dalla quale non posso più riprendermi per intero»[Lindblom 1990, 199]. E d’altra parte, proprio il contributo intellettuale di Lindblomdimostra come questo influsso possa manifestarsi nelle forme più inattese.

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Madison, Hamilton e Jefferson potrebbero giustamente andare orgogliosi. Ècontrollato e bilanciato, motivato e vincolato, in modi così complessi e conti-nui che nella competizione politica non ci sono vittorie tanto decisive da ipo-tecare l’esercizio del potere amministrativo. Quando sono più pessimista,però, mi preoccupa la possibilità che l’inadeguatezza delle nostre prospettiveteoriche possa invece significare che siamo incapaci di riconoscere fino a chepunto la speranza dei padri fondatori di combinare la libertà individuale conl’efficacia del governo sia stata smentita dalla crescita della moderna ammini-strazione burocratica. I cultori della public choice sembrano essere spessopessimisti. Anche se rimaniamo scettici sulla generalizzabilità della loro visio-ne, tuttavia questa ci può aiutare a fare una tara adeguata quando gli idealistilegalisti cominciano a tessere le lodi della correttezza delle procedure e dellostato di diritto [Mashaw 1997, 130].