la selva e il colle. la ermeneutica dei generi nel primo ... · occulta, così familiare ai lettori...

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Abstract L’articolo legge il primo canto dell’Inferno secondo la prospettiva della ermeneutica dei generi sessuali. La iniziale contrapposizione, che criminalizza il femminile come genere basso e negativo nella linea della misoginia antica e medievale, si trasforma, nella seconda parte del canto, in una visione modernamente complementare dei generi, nella quale il femminile viene anzi ridefinito come categoria culturalmente alta e positiva. Parole chiave: Dante, Inferno I, studi di genere, maschile e femminile. Abstract This article reads the first canto of Inferno from the perspective of gender hermenutics. The initial opposition, which blames the female as the inferior and negative gender, in the line of ancient and medieval misogyny, transforms itself, in the second part of the canto, into a modern and complementary vision of genders, in that the female is indeed rede- fined as a high and positive cultural category. Key words: Dante, Inferno I, gender studies, male and female. Nella critica femminista la nozione di genere sessuale designa normalmente procedimenti espressivi e forme ideologiche legati alla rappresentazione della identità. 1 Femminile e maschile, però, sono anche, nelle civiltà antiche, i poli idea- li di un sistema di produzione simbolica su cui gravitano da una parte il pensiero mitico-religioso, con i suoi binarismi, 2 dall’altra la struttura economico-socia- le, con le sue gerarchie. Il simbolismo dei generi, nella storia delle mentalità, Quaderns d’Italià 6, 2001 53-81 La selva e il colle. La ermeneutica dei generi nel primo canto dell’Inferno Raffaele Pinto Universitat de Barcelona 1. Intendo «identità» come segno della differenza sessuale (sono però cosciente del fatto che il dibattito interno al femminismo su questo concetto è molto aspro –cfr., per un riepilogo, Rosi BRAIDOTTI, Soggetto nomade. Femminismo e crisi della modernità, Roma: Donzelli Edi- tore, 1995 [1994], p. 65-79). 2. Sul tema nella antichità giudeo-cristiana, cfr. Gian Luigi PRATO (a cura di), Ricerche stori- co bibliche, 1994, 1-2, Miti di origine, miti di caduta e presenza del femminino nella loro evo- luzione interpretativa, XXXII settimana biblica nazionale.

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Page 1: La selva e il colle. La ermeneutica dei generi nel primo ... · occulta, così familiare ai lettori della Commedia, soprattutto in questo canto. 54 Quaderns d’Italià 6, 2001 Raffaele

Quaderns d’Italià 6, 2001 53-81

Abstract

L’articolo legge il primo canto dell’Inferno secondo la prospettiva della ermeneutica deigeneri sessuali. La iniziale contrapposizione, che criminalizza il femminile come generebasso e negativo nella linea della misoginia antica e medievale, si trasforma, nella secondaparte del canto, in una visione modernamente complementare dei generi, nella quale ilfemminile viene anzi ridefinito come categoria culturalmente alta e positiva.

Parole chiave: Dante, Inferno I, studi di genere, maschile e femminile.

Abstract

This article reads the first canto of Inferno from the perspective of gender hermenutics.The initial opposition, which blames the female as the inferior and negative gender, in theline of ancient and medieval misogyny, transforms itself, in the second part of the canto,into a modern and complementary vision of genders, in that the female is indeed rede-fined as a high and positive cultural category.

Key words: Dante, Inferno I, gender studies, male and female.

Nella critica femminista la nozione di genere sessuale designa normalmenteprocedimenti espressivi e forme ideologiche legati alla rappresentazione dellaidentità.1 Femminile e maschile, però, sono anche, nelle civiltà antiche, i poli idea-li di un sistema di produzione simbolica su cui gravitano da una parte il pensieromitico-religioso, con i suoi binarismi,2 dall’altra la struttura economico-socia-le, con le sue gerarchie. Il simbolismo dei generi, nella storia delle mentalità,

La selva e il colle. La ermeneutica dei generi nel primo canto dell’Inferno

Raffaele PintoUniversitat de Barcelona

1. Intendo «identità» come segno della differenza sessuale (sono però cosciente del fatto che ildibattito interno al femminismo su questo concetto è molto aspro –cfr., per un riepilogo,Rosi BRAIDOTTI, Soggetto nomade. Femminismo e crisi della modernità, Roma: Donzelli Edi-tore, 1995 [1994], p. 65-79).

2. Sul tema nella antichità giudeo-cristiana, cfr. Gian Luigi PRATO (a cura di), Ricerche stori-co bibliche, 1994, 1-2, Miti di origine, miti di caduta e presenza del femminino nella loro evo-luzione interpretativa, XXXII settimana biblica nazionale.

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mostra in effetti uno slittamento dal significato politico dominante nelle societàantiche a quello personale prevalente nelle società moderne. Indipendentementedalle modalità e le fasi di tale slittamento, la cui ricostruzione storiografica èforse compito della nuova critica letteraria, si può verosimilmente affermareche esso è parallelo all’affioramento, nei testi, di forme autografiche di scrittu-ra: il «maschile» rilevabile nell’epica dell’Iliade o della Chançon de Roland affe-risce ad un simbolismo politico-religioso i cui valori (la giustizia, la forza, ilcoraggio etc.) configurano l’identità di tutta una classe sociale, l’ordine dei nobi-li o dei guerrieri; mentre il «maschile» rilevabile nella lirica di Petrarca o di Bau-delaire rientra in un simbolismo morale e soggettivo, il cui valore egemonico èil desiderio. A prescindere dalle eccezioni che attenuerebbero tale divaricazio-ne (scritture dell’io nell’antichità, ideologie sessuali collettive nella modernità;stratificazioni sincroniche dei due simbolismi, attivi su livelli differenti dellostesso testo), è chiaro che la distinzione «antico-moderno» è non solo pertinentealla opposizione «femminile-maschile», ma anche logicamente prioritaria, poi-ché è all’interno di tali modelli globali di civiltà (antichità — modernità) chegli astratti concetti generici si incarnano in simboli letterariamente produttivi.3

Da uno scrittore di frontiera fra antico e moderno come è Dante, e in man-canza di anteriori sondaggi sistematici sul simbolismo sessuale presente nella suaopera, è prudente attendersi indizi di genere afferenti ai due sistemi: valoriarchetipici «antichi» da una parte, contenuti personali «moderni» dall’altra.L’esperimento che qui si propone, cioè la lettura della Commedia (metonimi-camente rappresentata dal canto proemiale)4 secondo i concetti di genere, partequindi senz’altro dal preliminare e metodologico ancoraggio alle categorie chestrutturano i campi concettuali del femminile e del maschile sul piano antro-pologico generale; e l’analisi consisterà nel reperimento, ove possibile, di talicategorie nella lettera del testo, o, più esattamente, nelle sue figure. Ma si segui-ranno anche percorsi di lettura autografici, alla ricerca della singolarità dante-sca dell’idea di genere, ovviamente connessa alla fattuale circostanza che l’ioche scrive si enuncia come un io maschile. È inevitabile che un tale approcciotrascuri, in qualche misura, il piano del figurato, il vero che il velo delle figureocculta, così familiare ai lettori della Commedia, soprattutto in questo canto.

3. L’idea di «patriarcato» come categoria storica trasversale che neutralizza la distinzione anti-co-moderno, efficace forse sul piano politico-rivendicativo, è inutilizzabile sul piano teori-co, perché impedisce di cogliere l’essenziale: l’affiorare, storicamente, di un soggettogenericamente (auto)determinato secondo la differenza sessuale (che è ovviamente incom-patibile con una mascolinità imposta come universalistica legge del padre). L’errore di pro-spettiva dipende dal fatto che gli studi relativi al genere sessuale (femministi, soprattutto)hanno privilegiato, come universo concettuale di riferimento, la tradizione del pensierofilosofico, che conserva le categorie ideali antiche molto più di quanto non conservi le cate-gorie espressive antiche la letteratura di tipo poetico: mentre il soggetto che conosce, inCartesio e Platone, è identico, il soggetto che si esprime in Shakespeare è indeducibile da quel-lo che si esprime in Sofocle.

4. Sulla funzione proemiale del primo canto, cfr. Antonino PAGLIARO, Ulisse. Ricerche seman-tiche sulla Divina Commedia, Messina-Firenze: D’Anna, 1967, p. 2-3.

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Ma il radicale mutamento di prospettiva critica dovrebbe compensare il sacri-ficio con un incremento di informazione forse non trascurabile.

Predicati del femminile sono, sul piano simbolico, la luna, il basso, la sini-stra, la notte, il buio, lo scuro, il pesante, il rovescio, il freddo, l’umido, l’inferiore;predicati del maschile sono invece il sole, l’alto, la destra, il giorno, la luce, ilchiaro, il leggero, il diritto, il caldo, il secco, il superiore.5

Le figure iniziali, «selva oscura» / «diritta via», oppongono subito i genericon i due aggettivi: oscura = femminile / diritta = maschile.6 Un simbolismopiù allusivo traspare dai significanti cammin, via, per l’idea maschile di movi-mento ordinato in uno spazio aperto, e selva, per l’idea femminile di reclusio-ne (o movimento disordinato) in uno spazio chiuso. Ovvî infine, cioè allineaticon il simbolismo convenzionale, sono i valori negativo del femminile e posi-tivo del maschile:7

Nel mezzo del cammin di nostra vitami ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita.8

5. Cfr. Françoise HÉRITIERE, Maschile/femminile, in Enciclopedia, Torino: Einaudi, vol. 8, p. 797-812 (cfr. in particolare le p. 802-803). La studiosa rileva la presenza di queste dicotomieanche nel pensiero greco: qui «le categorie principali sono quelle del caldo e del freddo, delsecco e dell’umido, che sono direttamente associate alla mascolinità (il caldo e il secco) ealla femminilità (il freddo e l’umido)… Nell’ordine del corpo, il caldo e l’umido sono dallaparte della vita, della gioia, del benessere…, il secco e il freddo sono dalla parte della morte…Il maschio è caldo e secco, associato al fuoco e al valore positivo, la femmina è fredda,umida, associata all’acqua e al valore negativo» (l’autrice ritorna più diffusamente sul temain Maschile e femminile. Il pensiero della differenza, Roma-Bari: Laterza, 1997 [1996]).

6. Sulla selva, cfr. Eugenio RAGNI, v. selva, in Enciclopedia Dantesca, Roma: 1970-1978, vol. V,p. 137-142. Raccolgo qui due indicazioni: la lettura di Benvenuto da Imola, che interpre-ta la selva come allusione a «aliis mulieribus» (in riferimento a Purg., XXX, 126: «questi sitolse a me e diessi altrui»); e il significato di materia corporea e caos che il termine silva hanella cosmologia neoplatonica (la hyle greca). All’interno di tale tradizione, indipendente-mente dalla conoscenza che poteva averne Dante, vale la pena di ricordare che nella cosmo-gonia manichea la hyle, principio del male associato alla concupiscentia (epitymia, o edoné),veniva rappresentata come una divinità arimanica femminile: Az (cfr. Antonio PANAINO,Figure femminili divine e demoniache nell’Iran antico, in «Ricerche storico bibliche…», p.64-65).

7. Esiste, naturalmente, anche una femminilità positiva, nella cultura antica, vincolata all’i-dea della maternità, la cui simbologia è ben presente nel pensiero mitico-religioso- cfr., alriguardo, Erich NEUMANN, La Grande Madre. Fenomenologia delle configurazioni femmini-li dell’inconscio, Roma, 1981 [1956]. Una eco di tale complesso mitico, e delle relativemediazioni letterarie, è stata osservata nel personaggio dantesco di Matelda –cfr. RosettaMIGLIORINI FISSI, Da Matelda a Beatrice (cenni sull’archetipo del femminile), in Maria PIC-CHIO SIMONELLI (a cura di), Beatrice nell’opera di Dante e nella memoria europea, 1290-1990, «Atti del Convegno Internazionale. 10-14 dicembre 1990», Firenze-Napoli: IstitutoUniversitario Orientale, 1994, p. 183-206.

8. L’età di 35 anni come la metà di una vita umana che si sviluppi in modo naturale vienediscussa in Convivio, IV, xxiii, 9: se si compara l’esistenza con un arco, «lo punto sommo…io credo che ne li perfettamente naturati sia nel trentacinquesimo anno». Tale «puntosommo» rappresenta la migliore combinazione delle quattro qualità umorali (caldo, freddo,

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Bisogna tener conto del fatto che il simbolismo femminile della selva e dellosmarrimento era perfettamente codificato nella tradizione prossima a Dante,che ne trovava esempi nel Tesoretto di Brunetto Latini (il narratore, intristitodal pensiero delle guerre di fazione, a Firenze, si smarrisce in una «selva diver-sa» nella quale trova una donna che gli si rivela essere la Natura) e nel Detto delGatto Lupesco (il narratore racconta di smarrire il cammino, «d’un amor … pen-sando», e di ritrovarsi in un «diserto aspro e duro» in cui gli appaiono un grannumero di animali). I due testi hanno poi in comune un elemento che ci facapire meglio la disposizione morale che Dante descrive con l’immagine ini-ziale del Poema. In entrambi il protagonista-narratore cammina «a capo chino»:«e io, in tal corrotto / pensando a capo chino, / perdei il gran cammino, / e tennila traversa / d’una selva diversa» (Tesoretto, 186-190); «così m’andava l’altra dia/ per un cammino trastullando / e d’un amor gia pensando / e andava a capochino» (Detto, 4-7). Nel sonetto Cavalcando l’altr’ier per un cammino, com-mentato nel capitolo IX della Vita Nuova, Dante utilizza la stessa immagineper descrivere l’atteggiamento del personaggio di Amore (alter ego del poeta),che gli comunica la fine della sua relazione con la prima donna-schermo:

Cavalcando l’altr’ier per un cammino, pensoso de l’andar che mi sgradia, trovai Amore in mezzo de la viain abito leggier di peregrino.Ne la sembianza mi parea meschino, come avesse perduto segnoria;e sospirando pensoso venia, per non veder la gente a capo chino…

In tutti e tre i testi causa dello smarrimento è una sospensione del rappor-to con il reale prodotta da una passione dell’anima che attrae violentemente asé l’attenzione della mente. L’io viene pervertito (cioè sviato) dall’oggetto inter-no che assorbe i suoi pensieri. Tale oggetto è simbolicamente (oltre che lette-

secco, umido), giacché «la Gioventute», seconda delle quattro età dell’uomo (fra i 25 e i 45anni), «s’appropria al caldo e al secco [cioè al maschile]» (ibid., 13)-sulle fonti medico-filo-sofiche di Dante e sulla discussione relativa, Cfr. C. Vasoli (a cura di), Convivio, Ricciardi,Milano-Napoli, 1988, p. 798 e sgg. Si consideri poi che nel capitolo seguente (XXIV, 12),a proposito della necessità che hanno gli adolescenti della guida dei loro maggiori, l’autoreparagona la vita ad una città ignota: «sì come quello che mai non fosse stato in una cittade,non saprebbe tenere le vie, senza insegnamento di colui che l’hae usata; così l’adolescente,che entra ne la selva erronea di questa vita, non saprebbe tenere lo buono camino, se da lisuoi maggiori non li fosse mostrato». Qui il simbolo della selva è già inserito in una tramaconcettuale che collega la vita alle vie e al cammino da una parte, e all’insegnamento di guidedall’altra: «li soi maggiori». Le risonanze scritturali (Isaia, 38, 10: «in dimidio dierum meo-rum vadam ad portas Inferi») della prima terzina della Commedia si sovrappongono ad unnucleo concettuale già acquisito, simbolico da una parte e scientifico dall’altra; più in gene-rale, il profetismo della Commedia è molto più un registro di stile, accanto a tutti gli altri,che l’a priori dell’espressione poetica.

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ralmente) femminile, in quanto descrive, all’interno di un io maschile, lo spa-zio mentale occupato dal principio del piacere. Il procedere a capo chino (peril peso angoscioso dei pensieri) è il segnale di una soggettività che ha perso,oltre che il contatto con il reale, anche il controllo sulla propria identità, cheil desiderio espone al rischio della alienazione: il femminile, infatti, invade lamente con i suoi fantasmi, che si proiettano sul reale, allegorizzandolo. Pos-siamo allora immaginare che il protagonista della Commedia proceda «a capochino», nel momento di smarrirsi. La selva oscura è la prima allegoria, inten-samente femminile, che il suo desiderio genera.9

Il femminile viene messo in forte rilievo dalla seconda terzina, in cui lacaoticità espressiva della selva, per il poeta che la descrive, si manifesta nellacontorsione della sintassi («quanto … dura») e nell’accumulazione degli agget-tivi (4 in un solo verso):

Ahi quanto a dir qual era è cosa duraesta selva selvaggia e aspra e forteche nel pensier rinova la paura!

Qui però al simbolismo generico (che anche i significanti sembrano decli-nare al femminile come «fonosimbolismo in atto del disordine in cui si troval’uomo caduto nello stato di peccato»),10 si aggiunge un altro più personalepiano di significazione, messo in luce dai rinvii intertestuali. Avvertiamo innan-zitutto echi delle petrose:

Così nel mio parlar voglio essere asprocom’è ne li atti questa bella petra,la quale ognora impetramaggior durezza…,

che investono la figura della selva dei valori di una femminilità non semplice-mente archetipica, ma densamente, angosciosamente autobiografica: la donnacome ossessivo oggetto di desiderio e costante principio di scrittura, inflessibilenella sua esigenza di adeguamento della parola al sentimento («Così nel mioparlar voglio esser aspro» = «Ahi quanto a dir qual era è cosa dura»), che orasoltanto, nel quadro di una conclusiva sperimentazione metafisica, trova, nella«selva oscura», il simbolo definitivo. E si avverta poi l’allusione a un testo cano-nico per la rappresentazione del femminile del medioevo, le parole della sposanel Cantico dei Cantici (8, 6):

9. Curiosamente, l’immagine del poeta a «capo chino» riappare, ma con diversa intenzione,in Inf., XV, 44, nell’episodio di Brunetto Latini: «Io non osava scender de la strada / perandar par di lui; ma ‘l capo chino / tenea com’uom che reverente vada».

10. Cfr. Gianfranco CONTINI, La forma di Dante: il primo canto della «Commedia», in Postremiesercizi ed elzeviri, Torino: Einaudi, 1998, p. 67. Con la consueta acutezza, lo studioso osser-va nel canto, attraverso il computo delle allitterazioni, una progressione della scrittura dalcaos all’ordine.

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Pone me ut signaculum super cor tuum, Ut signaculum super brachium tuum, Quia fortis est ut mors dilectio, Dura sicut infernus aemulatio…

La percezione della donna come soggetto-oggetto di un desiderio il cuieccesso seduce e travia, come spazio di alterità interno alla coscienza, frontie-ra morale dell’io maschile, votato alla dipendenza e al culto una parte, maesposto all’alienazione e alla morte dall’altra, pur nell’ideologia arcaica di uninno nuziale, ha nel Cantico vibrazioni di tale intensità, che non sorprende ilfascino che esso esercitò sulla spregiudicata metafisica del desiderio degli stil-novisti.11 I versi che precedono quelli ora citati ispirano, infatti, l’incipit di unsonetto cavalcantiano (Chi è questa che vèn ch’ogn’om la mira) non estraneo allaideazione del Proemio: «Quae est ista quae ascendit de deserto, deliciis affluens,innixa super dilectum suum?».12

Ma è sul piano autoermeneutico, cioè nella personalissima rete interte-stuale attivata dal suo significante, che la selva denuncia il simbolismo fem-minile che l’ha generata. Si consideri il verso 7: «Tant’è amara che poco è piùmorte». La distinzione amaro/dolce è equiparata a quella, presente fin dal v. 2,oscuro/chiaro. Si veda, al riguardo, Conv., IV, ii, 3-4:

Dico adunque che a me conviene lasciare le dolci rime d’amore le quali solie-no cercare li miei pensieri; e la cagione assegno, perché dico che ciò non è perintendimento di più non rimare d’amore, ma però che ne la donna mia nuovisembianti sono appariti li quali m’hanno tolto materia di dire al presente d’a-more. Ov’è da sapere che non si dice qui li atti di questa donna essere «disde-gnosi e fieri» se non secondo l’apparenza; sì come, nel decimo capitolo delprecedente trattato, si può vedere come altra volta dico che l’apparenza de laveritade si discordava. E come ciò può essere, che una medesima cosa sia dolcee paia amara, o vero sia chiara e paia oscura, qui[vi] sufficientemente vedere sipuò.

Amarezza e oscurità sono qui predicati non del femminile in generale, madi quel particolare femminile (la «donna gentile» come è descritta nella can-zone Le dolci rime d’amor ch’io solia e nella ballata Voi che savete ragionar d’amore,cui fa riferimento il brano appena citato) che si presenta al poeta con l’apparenzadella negatività (il disdegno, la irrazionalità).13 Mentre la seconda terzina evo-

11. Sul Cantico e i suoi commenti nella Commedia cfr. Lino PERTILE, La puttana e il gigante.Dal cantico dei cantici al paradiso terrestre, Ravenna: Longo, 1998.

12. Il frammento è citato in Conv., II, 5: «… la sua sposa e secretaria Santa Ecclesia de la qualedice Salomone: “Chi è questa che ascende del diserto, piena di quelle cose che dilettano,appoggiata sopra l’amico suo?”».

13. Bisogna però segnalare (con Anna Maria CHIAVACCI LEONARDI-Inferno, Milano: Mondadori,1998 [1991], p. 11) anche il paragone biblico «Inveni amariorem morte mulierem» (Eccl.7, 27), in cui la donna occupa il luogo logico che, nella Commedia, ha la selva.

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cava, attraverso la durezza e l’asprezza, l’immagine della donna-pietra che negaal poeta la propria sessualità, il verso 7 evoca, attraverso l’amarezza che è sino-nimo di oscurità, la donna-filosofia che nega al poeta le sue verità. La selva(oscura, dura, aspra, amara) riassume quella negatività del femminile con cuiDante si è scontrato nelle varie fasi della sua ricerca, e che ha rappresentatoper lui ogni volta l’ostacolo espressivo da superare, la barriera intellettuale dainfrangere. Il suo significante accumula tali valori, fissandoli in una immaginedi materializzata malvagità.

A tale malvagità si oppone, con ulteriore dicotomia, il ben che il poeta dicedi avervi trovato (Virgilio, principio maschile di salvezza che positivamenteagisce dall’interno della selva), ma che potrà essere descritto (trattato) solo dopoche siano state narrate le altre cose14 che Dante ha visto nella selva (cioè le trefiere):

ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai, dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.

La perplessità dei critici sulla imprecisione dei dettagli spaziali (tanto Vir-gilio quanto le fiere si trovano in realtà fuori della selva, sull’erta che conducealla cima del colle) non tiene conto della natura simbolica di queste immagini,che si concatenano secondo una logica più onirica che romanzesca. Fantasmadi angosce antiche che claustrofobicamente avviluppano il poeta, la selva con-tiene anche il suo opposto: essa è il male, ma al suo interno si occulta il bene.15

Perché ciò sia narrabile, l’immagine si scompone in dicotomie simboliche chevisualizzano (in una manichea psicomachia onirica) la lotta fra le due istanzegeneriche che scindono l’io e se ne contendono il controllo. La materialitàvegetale della selva dà luogo ai tre elementi narrativi delle scene seguenti: ecioè il paesaggio (che si apre come scenario drammatico di una serie di azioni),le fiere (nella cui animalità si trasfigura e pluralizza l’astratta femminilità dellaselva) e Virgilio (la cui umanità si connota come maschile, poiché si opponealla animalità delle fiere).

Io non so ben ridir com’i’ v’intrai, tant’era pien di sonno a quel puntoche la verace via abbandonai.

14. Come ha ben visto Gianfranco CONTINI, l’espressione, lungi dall’essere generica e impre-cisa, significa, proprio attraverso l’ellissi, il tabù che grava su oggetti innominabili (La formadi Dante…, p. 75).

15. Il De Vulgari, che utilizza il simbolo della silva per definire la materialità idiomatica deivolgari municipali in opposizione all’ideale volgare illustre che dovrà sublimarli poetica-mente in un superiore registro di lingua, presenta un’analoga struttura simbolica: da unaparte la silva, cioè i «saltus et pascua Ytaliae», dall’altra (ma anche al suo interno) la «panthe-ram… redolentem ubique et necubi apparentem» (I, xvi, 1).

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Nella lucida prospettiva a posteriori del poeta che narra, la selva è percepi-ta ormai come esperienza onirica, cioè inesplicabile nelle sue cause.16 Il signi-ficante della via viene ripreso, ma con una chiara coscienza della responsabilitàindividuale del traviamento (al principio era smarrita, qui è l’io che l’ha abban-donata),17 e con una importante variante: verace, invece di diritta. Verace fagruppo con gli altri predicati del maschile, mentre la selva viene implicita-mente ridefinita come falsa (ma la dicotomia apparenza / veritade era già pre-sente, come s’è visto, fra i predicati della «donna gentile», e quindi implicitanella alternativa dolce / amara). Il sonno che è causa del traviamento è, certo, ilmetaforico sonno della ragione,18 ma anche il letterale stato di sonnolenza cheespone la mente ai fantasmi dell’immaginazione, che agiscono secondo la logi-ca del sogno, ignara del principio di causalità. In effetti, la comprensione dellagenesi onirica della selva è necessaria perché siano intese nella loro densità sim-bolica e nei loro rapporti associativi le apparizioni seguenti.

Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto, là dove terminava quella valleche m’avea di paura il cor compunto, guardai in alto e vidi le sue spallevestite già de’ raggi del pianetache mena dritto altrui per ogne calle.

Con procedimento di spostamento proprio del sogno, la selva è diventataun paesaggio dal rilievo disuguale (una valle dominata da un colle).19 Vienecosì neutralizzata l’opposizione «chiuso — aperto», ed attivata quella «basso— alto». La selva, che ora è una valle, acquista un’altra determinazione delfemminile (quella del basso, appunto) rispetto ad un elemento alto, il colle, sucui si trasferiscono i valori maschili veicolati prima dal simbolo della via dirit-ta e verace. La luce del sole, che spunta dall’alto del colle, esplicita l’elementogenerico maschile che il lettore aveva intuito già nel terzo verso, opponendo-si, come luminosa razionalità, alla buia irrazionalità del femminile. Si osservianche che mentre la «diritta via» si opponeva alla «selva oscura» nella dimen-

16. Analoga genesi onirica ha la selva di Purg., XXXII («disegnerei com’io m’addormentai…»,68), scenario di simbolismi affini a quelli del Proemio.

17. Rispetto alla iniziale «dispersione del soggetto» (cfr. Gianfranco CONTINI, La forma diDante…, p. 68), l’io del protagonista va poco a poco conquistando il controllo sull’azione.

18. Molto pertinenti sono, al riguardo, le osservazioni di Anna Maria CHIAVACCI LEONARDI

(op. cit., p. 12): «Sul piano filosofico, l’etica aristotelica, ripresa da Tommaso e da Dante,non ammette che l’intelletto possa scegliere deliberatamente il male; esso lo sceglie appun-to “per errore”, in quanto offuscato, credendolo cioè un bene».

19. Al verso 77 il colle sarà ridefinito «il dilettoso monte», eco del biblico «Quis ascendet inmontem Domini», Ps., 23, che ispirerà, in Purg., XXX, 74, il rimprovero di Beatrice aDante: «Come degnasti d’accedere al monte?». In Inf., XV, 50 la selva viene senz’altro defi-nita «una valle» (e lo spostamento lessicale è certamente mediato dalla espressione biblica «invalle lacrimarum», di Ps., 83, 7). In entrambi i casi le mediazioni scritturali interagiscono conil simbolismo dei generi, potenziandone la forza espressiva.

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sione del tempo (prima si smarrisce la via e poi ci si ritrova nella selva), il collesi oppone alla valle sul piano spaziale (si cerca di andare dal fondo della vallealla sommità del colle, attraverso un «dritto… calle»). L’immagine onirica sisviluppa, così, in un’azione già tendenzialmente romanzesca.20

Allor fu la paura un poco queta, che nel lago del cor m’era duratala notte ch’i’ passai con tanta pieta.

Notevole è qui la contrazione delle durate: il passaggio dalla oscurità not-turna della selva alla luce diurna che viene dal colle si produce come transito daun luogo ad un altro, come se, nello stesso istante, nella selva fosse notte e sul collegiorno.21 Si tratterebbe, sull’asse del tempo, di una incongruenza analoga aquella osservata ora sull’asse dello spazio. Ma anche in questo caso è in un sensosimbolico, e secondo una logica di tipo onirico, che le immagini hanno senso:la notte, come la paura e la pieta, è attributo femminile della selva, che il prota-gonista può ora descrivere dall’esterno, e il poeta oggettivare narrativamente,perché la loro prospettiva generica si è spostata, situandosi dalla parte dellarazionalità ordinatrice maschile. Significativa è poi l’insistenza sulla paura (cheappare cinque volte nella scena iniziale: vv. 6, 15, 19, 44, 53), tema cavalcantianoche esprime l’angoscia del desiderio e gli effetti distruttivi che l’amata producesulla persona e nella mente dell’amante. Dante, che aveva già assimilato il temanelle Rime e nella Vita Nuova, lo riutilizza qui senza annullare il senso sessualeche aveva in Guido, poiché è simbolicamente legato al femminile l’elementoumido presente nell’espressione il «lago del cor»,22 che anticipa, come in unacatena di associazioni generate dai significanti, la grande similitudine marinadei versi seguenti, straordinario compendio di valori archetipici:

E come quei che con lena affannata, uscito fuor del pelago a la riva, si volge a l’acqua perigliosa e guata, così l’animo mio, ch’ancor fuggiva, si volse a retro a rimirar lo passoche non lasciò già mai persona viva.

20. Il gesto con cui il protagonista solleva lo sguardo verso l’alto aprendo il suo orizzonte, seda una parte evoca un paesaggio morale di tipo religioso (cfr. Ps., 120, 1: «Levavi oculosmeos in montes, unde veniet auxilium mihi»), dall’altra richiama esperimenti narrativi piùpersonali (cfr. Un dì si venne a me, 8: «guardai e vidi Amore, che venia», per il nesso «guar-dai … vidi», e poi Vita Nuova, XIV, 4 e XXXV, 2, in cui il sintagma «levai li occhi … vidi»drammatizza la messa a fuoco visiva, da parte del poeta, di Beatrice e della «donna gentile»,rispettivamente).

21. Edoardo SANGUINETI, che mette in rilievo «il sistema compatto di archetipi, di immemo-rabile spessore simbolico» presente nel canto, parla, a proposito di questi versi, di «rito di pas-saggio» (Lectura Dantis tenuta nella «Casa di Dante» in Roma il 17 novembre 1996).

22. Nel sonetto dubbio, ma ben dantesco, Nulla mi parve mai, la differenza di temperatura frail desiderio dell’amata e quello dell’amante viene descritta così: «…’l suo desio nel conge-lato lago, / ed in foco d’amore il mio si posa».

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Ma di nuovo ai simboli antropologicamente convenzionali Dante aggiun-ge valori poeticamente autografici. Nel terrore del naufrago che affannosa-mente sfugge all’«acqua perigliosa» che vorrebbe risucchiarlo, si avverte l’eco degliagghiaccianti paesaggi onirici delle petrose, nei quali la freddezza femminileviene rappresentata come combinazione di durezza e umidità (Amor, tu vediben, 25-30):

Segnor, tu sai che per algente freddol’acqua diventa cristallina petralà sotto tramontana ov’è il gran freddo, e l’aere sempre in elemento freddovi si converte, sì che l’acqua è donnain quella parte per cagion del freddo…

Alle petrose bisogna in effetti riandare per osservare la genesi simbolica edespressiva della selva proemiale, nella quale il poeta ha raffigurato la propriaesperienza del femminile, nel suo estremo polo negativo. Percepiamo meglio,in quest’ottica, l’ineluttabilità della sconfitta morale che essa (la donna-selva)produce nell’io che ne resta irretito. Il verso «che non lasciò giammai personaviva» (in cui il relativo va inteso come soggetto, l’aggettivo come predicato eil sostantivo come indefinito) allude molto più alla malattia mortale del desi-derio, secondo medici e poeti,23 che non al vizio e al peccato (dai quali l’ani-ma, con il pentimento, può sempre evadere). L’inammissibilità teologica, perun cristiano, del concetto che il verso enuncia (il male come condanna irre-versibile), scompare se si tiene conto del suo significato sessuale, che allude aldualismo dei generi così come esso viene descritto nella letteratura del desi-derio, che lo radicalizza fino a concepirlo come sconfitta mortale dell’io.24

Ancora al simbolismo dei generi bisogna ricorrere per chiarire un altro deipunti dubbi del I canto. Posta una relazione maschile fra l’animo e il movi-mento («l’animo mio ch’ancor fuggiva»), ed una relazione femminile fra ilcorpo e l’immobilità («èi posato un poco il corpo lasso»), il verso che conclu-de la terzina successiva,

Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso, ripresi via per la piaggia diserta, sì che ‘l piè fermo sempre era ‘l più basso,

23. Si pensi a definizioni come queste: «Amore quanto a morte vale a dire… Ahi come, com’èmorto bene / qual’ha, sì come me, in podestate (Guittone, Ahi Deo che dolorosa, 28-32)»;«Di sua potenza (di Amore) segue spesso morte, / se forte — la vertù fosse impedita, / laquale aita — la contraria via… non pò dire om ch’aggia vita, ché stabilita — non ha segno-ria (Guido Cavalcanti, Donna me prega, 35-41)». Proprio questi ultimi versi risuonano nelProemio: la lonza «impediva.. il mio cammino» e la lupa «non lascia altrui passar per la suavia / ma tanto lo ‘mpedisce che l’uccide».

24. Si tratta, cioè, del «doloroso passo» di Inf., V, 114: il desiderio, privo del «fedele consigliode la ragione», conduce ineluttabilmente alla morte.

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esprime la tensione del soggetto verso i valori del maschile, che si manifestanella doppia associazione fra movimento ed altezza, da una parte, e fra staticitàe bassezza dall’altro. Sul piano letterale, l’immagine dei piedi alternativamen-te fermi ed in moto significa il movimento ascensionale ininterrotto, per cui ilpiede d’appoggio è sempre il più basso e quello in movimento il più alto (seil poeta tornasse indietro, e scendesse invece di salire, sarebbe il contrario).25 Mala connessione simbolica fra ciò che è fermo e ciò che è in basso, entrambisubordinati a ciò che è in moto e a ciò che è in alto, è plausibile solo sul pianogenerico del femminile, pulsione negativa dell’io qui contrarrestata dalla oppo-sta pulsione positiva maschile. La dicotomia ideale e archetipica fra principioattivo-maschile (l’animo) e principio passivo-femminile (il corpo) si concretanella distinzione fra piede in movimento e piede fermo.26

Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta, una lonza leggera e presta molto, che di pel macolato era coverta;e non mi si partia dinanzi al volto, anzi ‘mpediva tanto il mio cammino, ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto.

Il femminile riappare con forza nelle tre fiere che affrontano il protagoni-sta. La prima rappresenta il desiderio perverso e la seduzione. Leggerezza, agi-lità, screziatura della pelle27 sono i segni della lussuria, descritta con i caratteridell’oggetto che la suscita in una sensibilità maschile, cioè un corpo femmini-le che attrae l’attenzione del poeta e ne perverte la volontà. L’apparizione della

25. È questa la lettura più ovvia (per Boccaccio, il poeta «mostra l’usato costume di coloro chesalgono, che sempre si ferman più in su quel piè che più basso rimane»).

26. L’immagine del piede dell’anima, con cui la teologia rappresentava la dialettica interiorefra ragione e appetito (per esempio in Agostino: «Il piede dell’anima va inteso rettamente comeamore; il quale, quando è vile o indegno, è chiamato cupidigia o lussuria; e quando inveceè giustamente orientato, è diletto o carità», Enar. In Psalm. XCIV, I), ha fatto pensare cheDante alluda alla difficoltà di liberarsi dalla concupiscenza, per cui la sua sarebbe un’anda-tura claudicante: il piede in movimento è il destro, che trascina il sinistro (cfr. John FREC-CERO, Dante. La poetica della conversione, Bologna: Il Mulino, 1989, p. 53-90). Sembraperò più plausibile che Dante sottolinei qui proprio il contrario, e cioè che sale speditoverso la luce. In effetti si coglie un’allusione (per antitesi) alla meretrix di Proverbia, 1-9:«Ne attendas fallaciae mulieris; favus enim distillans labia meretricis, et nitidius oleo guttureius… Pedes eius descendunt in mortem et ad inferos gressus illius penetrant. Per semitamvitae non ambulant, vagi sunt gressus eius et investigables»(5). Il simbolo dei piedi dellameretrice si figuralizza poi nella «mulier stulta et clamosa» che «sedit in foribus domus suae,super sellam in excelso urbis loco, ut vocaret transeuntes per viam, et pergentes itineresuo»(9), immagine a sua volta adombrata dalla lonza che, in Dante, apparirà subito dopo.

27. Francesca e Paolo colpiscono l’attenzione di Dante perché «paion sì al vento esser leggeri»(V, 75), mentre in Aen., I, 323, la compagna di Venere è «succinctam … maculosae tegmi-ne lyncis» (cfr. Anna Maria CHIAVACCI LEONARDI, op. cit., p. 17). La rapidità con la qualela seduzione femminile colpisce la mente maschile è tema tipicamente cavalcantiano: (Voiche per li occhi, 9-11) «Questa virtù d’amor che m’ha disfatto / da’ vostr’occhi gentil’ presta

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lonza interrompe il percorso ascensionale dell’io, e lo fa indietreggiare. Ele-menti fantastici molto simili li troviamo in un sogno narrato al principio delcanto XIX del Purgatorio, in cui Dante confessa come esperienza propria ilturbamento della immaginazione prodotto dalla accidia. Il canto precedentesi conclude con il poeta che si abbandona alla sonnolenza che l’ha invaso(XVIII, 141-145):

novo pensiero dentro a me si mise, del qual più altri nacquero e diversi;e tanto d’uno in altro vaneggiai, che li occhi per vaghezza ricopersi, e ’l pensamento in sogno trasmutai.

La evagatio mentis e la somnolentia fanno parte del quadro morale dellaaccidia.28 Il sogno del poeta (una femmina balba che lo sguardo concupiscen-te trasforma in seducente sirena) esemplifica il traviamento morale che la donnaproduce quando è oggetto di desiderio per una immaginazione maschile nonorientata dalla ragione (quindi sonnolenta e delirante «per vaghezza»). Si osser-vi il traviamento di Ulisse, «del suo cammin vago», che la sirena orgogliosa-mente vanta (analogo a quello di Dante, finché Virgilio non lo sveglia e loobbliga a riprendere il cammino):

mi venne in sogno una femmina balba, negli occhi guercia, e sovra i piè distorta, con le man monche, e di colore scialba.Io la mirava; e come ‘l sol confortale fredde membra che la notte aggrava, così lo sguardo mio le facea scortala lingua, e poscia tutta la drizzavain poco d’ora, e lo smarrito volto, com’amor vuol, così le colorava.Poi ch’ella avea ‘l parlar così disciolto, cominciava a cantar sì, che con penada lei avrei mio intento disciolto.«Io son» cantava «io son dolce serena, che’ marinari in mezzo mar dismago;tanto son di piacere a sentir piena!

si mosse: / un dardo mi gittò dentro dal fianco»; (Era in penser d’amor, 31-36) «i’ dissi: ‘E’mi ricorda che ‘n Tolosa / donna m’apparve accordellata istretta, / amor la qual chiamava laMandetta; / giunse sì presta e forte, / che fin dentro, a la morte, / mi colpîr gli occhi suoi’».

28. Sull’accidia e sulla complessità della disposizione morale che il termine indica, è necessa-rio ricorrere a Tommaso D’AQUINO (S. T., 2ª-2ª, 35, 4), che, sintetizzando la riflessioneteologica sul tema, distingue nel complesso tristitia-acedia tali componenti: «desperatio,pusillanimitas, torpor circa praecepta, otiositas, somnolentia, rancor, amaritudo, malitia,evagatio mentis circa illicita, importunitas mentis, curiositas, verbositas, inquietudo cor-poris, instabilitas».

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Io volsi Ulisse del suo cammin vagoal canto mio; e qual meco si ausa, rado sen parte; sì tutto l’appago…

Le coincidenze fra la femmina balba e la lonza sono notevoli. Entrambehanno su Dante un effetto ipnotico, che l’episodio del Purgatorio presentacome conseguenza della accidiosa somnolentia alla quale il poeta cede, e quel-lo del Proemio come il potere di seduzione che un corpo animalescamente fem-minile esercita su un io «pien di sonno». Lo sguardo obnubilato dell’accidiosoè comparato con i raggi del sole, mentre l’anatomia della femmina balba è para-gonata alle «fredde membra che la notte aggrava»; il che mostra che qui è ope-rante la stessa simbologia generica del Prologo, poiché il maschile è associatoal caldo, alla luce, al giorno, allo spirito, mentre il femminile è associato alfreddo, al buio, alla notte, al corpo. Ma soprattutto è significativa la funzionedi traviamento che hanno le due figure femminili: come la lonza fa indietreg-giare Dante («fui per ritornar più volte volto»), così la sirena «volse Ulisse».29

Il movimento orientato e rettilineo di entrambi è impedito da figure femminilidi seduzione che la ragione smaschera come prodotti della immaginazionemaschile pervertita dal desiderio.

L’analogia fra la lonza e la «femmina balba» aggiunge un elemento alla iden-tificazione ideale di Dante con Ulisse (come si sa, uno dei grandi motivi dellaCommedia), simili non solo per la concezione eroica dell’esistenza come viag-gio di conoscenza al di là dei limiti imposti alla condizione umana, ma ancheper la comune esperienza del femminile come impedimento e interruzione delcammino: entrambi devono evitare, con stratagemmi umani o con l’aiuto divi-no, le trappole che la seduzione femminile tende loro durante il viaggio.

Temp’era dal principio del mattino, e ‘l sol montava ‘n sú con quelle stellech’eran con lui quando l’amor divinomosse di prima quelle cose belle;sì ch’a bene sperar m’era cagionedi quella fiera a la gaetta pellel’ora del tempo e la dolce stagione;

29. Funzione analoga ha la Circe che «ritenne più d’un anno» Ulisse (Inf., XXVI), e fra gliammonimenti di Beatrice a Dante (Purg., XXXI), c’è anche quello che «altra volta, uden-do le serene, sie più forte» (44-45). Non mi sembra pertinente, riguardo all’espressione«volsi Ulisse», l’osservazione che in Omero l’eroe sfugge alle sirene. Ciò che Dante sotto-linea, delle sirene, è il loro potere di distrazione, cioè il fascino perverso che esse esercita-rono perfino su Ulisse, così vago del suo cammino. Il verbo che Dante usa, sia qui che nelProemio, volgere, significa letteralmente «girarsi», cioè distrarre l’attenzione e la volontà dallameta del cammino (e in un senso analogo è usato, ancora nel Proemio, v. 88: «Vedi la bestiaper cu’ io mi volsi», poi in Inf., II, 62-63: «ne la diserta piaggia è impedito / sì nel cammin,che volt’è per paura», in Purg., XXX, 130: «e volse i passi suoi per via non vera» e in Purg.,XXXI, 35-36: «Le presenti cose / col falso lor piacer volser miei passi»).

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Trasparenti sono i simboli del maschile che neutralizzano il potere di sedu-zione della lonza: la luce diurna del mattino; il sole che comincia il suo movi-mento ascensionale; la costellazione dell’ariete, che segna l’inizio della primaveraed è quindi associata all’azione fecondante del sole; l’atto creatore dell’«amordivino» che imprime il movimento all’universo. Il sintagma «quelle cose belle»è poi in significativa antitesi con le «altre cose» del v. 9: se queste alludonoalla oscenità del caos, quelle indicano, invece, la bellezza del cosmo, il che ciriporta alla dicotomia originaria delle cosmologie platonica e manichea. Ilprincipio maschile dell’ordine sembra imporsi, quindi, su quello femminiledel disordine.

Il femminile riprende il sopravvento con la seconda fiera:

ma non sì che paura non mi dessela vista che m’apparve d’un leone.Questi parea che contra me venissecon la test’alta e con rabbiosa fame, sì che parea che l’aere ne tremesse.

Accusata è la presenza di stilemi cavalcantiani, in particolare di un sonet-to per più motivi legato al Proemio. Si tratta di Chi è questa che vèn, il cui secon-do verso recita: «che fa tremar di chiaritate l’âre».30 Sono genericamentecavalcantiani anche l’ostilità belligerante che il fantasma manifesta nei con-fronti dell’io, e la conseguente paura del poeta. Nella prima quartina di unaltro sonetto, Io temo che la mia disaventura, troviamo alcuni degli elementiespressivi e tematici del I canto dell’Inferno (sostanzialmente, quelli generatidalla paura):

Io temo che la mia disaventuranon faccia sì ch’io dica: «I’ mi dispero», però ch’i’sento nel cor un penseroche fa tremar la mente di paura.31

Lo stesso vale per il congedo di Io non pensava (47-53):

e prego umilemente a lei tu guidili spiriti fuggiti del mio core, che per soverchio de lo su’ valoreeran distrutti, se non fosser vòlti,

30. Sulle fonti scientifiche dell’immagine, e sul fenomeno della «scintillazione», cfr. Domeni-co DE ROBERTIS (a cura di), G. C., Rime, Torino: Einaudi, 1986, p. 17.

31. Questo sonetto rinvia a sua volta a quello di Guittone S’el si lamenta (la cui prima quarti-na è citata dai versi 55 e sgg. del Proemio): «S’el si lamenta null’om di ventura, / a granragion mi movo a lamentanza, / sì come om, che si credia in altura, / ed è caduto e torna-to in bassanza. / E vo piangendo e moro di paura, / poi che mi vidi in tanta sicuranza / diquella, ch’è più bella criatura / che Deo formasse senza dubitanza».

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e vanno soli, senza compagnia, e son pien’ di paura.Però li mena per fidata via…32

È chiaro, però, che l’immagine che ha guidato Dante nella rappresenta-zione del leone è quella della donna descritta da Guido in Chi è questa che vèn,la quale a sua volta era stata modellata, come si è visto, sulla sposa del Canti-co («terribilis ut castrorum acies ordinata», 6, 3). Nel suo approfondimentoparallelo delle componenti visionarie e distruttive del desiderio, Guido avevatrovato nel testo biblico lo straordinario esempio di un femminile che seduceed atterrisce nello stesso tempo. La sua parodia del testo sacro fa del desideriol’unica dimensione tragica dell’esistenza, subordinando paradossalmente allasua logica sessuale ogni contenuto culturale (religione, filosofia, letteratura…).Soprattutto dipende dal desiderio (cioè dalla conoscenza del femminile) la sal-vezza esistenziale e metafisica del soggetto maschile: «non fu sì alta già la mentenostra / e non si pose ‘n noi tanta salute, / che propiamente n’aviàn canoscenza»(Chi è questa che vèn, 12-14). Dal canto suo Dante, dopo aver esposto nellalonza l’aspetto sirenico del femminile, riprende pari pari da Guido ed attri-buisce ad un superbo e famelico leone quegli effetti di metafisico tremore chenell’amico suscitava l’amata. Mentre la lonza rappresenta il lato seduttivo dellafemminilità, il leone ne rappresenta il lato biblicamente punitivo. Il vizio dellasuperbia, cui il leone sembra alludere, non solo non contraddice il suo sim-bolismo generico, ma anzi ribadisce una connessione concettuale del tuttonormale in Dante.33

Con ulteriore associazione onirica (che l’anacoluto «una lupa … questa»sembra voler riflettere nella struttura grammaticale), la «rabbiosa fame» delleone genera la magrezza della lupa:

Ed una lupa, che di tutte bramesembiava carca ne la sua magrezza, e molte genti fé già viver grame, questa mi porse tanto di gravezzacon la paura ch’uscia di sua vista, ch’io perdei la speranza de l’altezza.

Figura riassuntiva delle due fiere precedenti, la lupa ne incrementa i valo-ri negativi, declinando al femminile un vizio, la avarizia, che solo in quantovincolata ad attività mercantili normalmente maschili può essere consideratacome la suprema perversione della società civile (gli esempi di avari, sia nel-

32. Il verso «e vanno soli senza compagnia» appare quasi intatto all’inizio di Inf., XXIII: «Taci-ti, soli, sanza compagnia».

33. Superba è la «donna gentile» in Conv., III, ix, 1: «parendo a me questa donna fatta contrame fiera e superba alquanto», e Beatrice in Purg., XXX, 79-80: «Così la madre al figlio parsuperba, / com’ella parve a me…».

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l’Inferno che nel Purgatorio, sono di ecclesiastici).34 In Convivio, IV, 3, l’ava-rizia è antitetica al diritto appetito e alla vera conoscenza che inducono l’uomoa sfuggire le ricchezze, quando non sono «ordinate… ad alcuno necessario ser-vizio». E i due elementi che in prima istanza caratterizzano la lupa sono lafamelicità (le brame di cui è segno la magrezza) e il potere economicamentedistruttivo (per lei molte genti vivono grame). L’idea di avarizia associabile ad essiè molto ampia, poiché include da una parte la febbrile accumulazione di ric-chezza, dall’altra gli effetti depauperanti (sugli altri) che essa genera. Si tratte-rebbe insomma di un capitalismo selvaggio basato sullo sfruttamento e l’usura(criticato con durezza dai movimenti pauperisti dell’epoca).

Ma l’idea concomitante che fa dell’avarizia un vizio simbolicamente fem-minile (quindi lupa e non lupo) è la prostituzione. Il principale nesso interte-stuale è il sonetto 167 del Fiore, nel quale la seduzione femminile a scopo dilucro è associata esplicitamente al comportamento della lupa:

La lupa intendo che, per non fallirea prender ella pecora o montone, quand’e’ le par di mangiar [i]stagione, ne va, per una, un cento e più asalire.Così si dé la femina civiresed ella avesse in sé nulla ragione:contra ciascuno riz[z]ar dé il pennoneper fargli nella sua rete fedire…

La connessione lupa-prostituta è certo un luogo comune della cultura popo-lare, che spiega perfettamente l’uso ampio che Dante ne fa nel Proemio. NellaCronica di Compagni troviamo però due luoghi che potrebbero aver suggeri-to al poeta l’idea di una lupa che impedisce o no il passaggio («non lascia altruipassar per la sua via», spiegherà poco dopo Virgilio):

2, 28: I Ghibellini e Bianchi, che erano rifuggiti in Siena, non si fidavano star-vi, per una profezia che dicea: «La lupa puttaneggia», ciò è Siena, che è postaper la lupa; la quale quando dava il passo, e quando il toglieva…

2, 36: I Bianchi e i Ghibellini di Firenze… cavalcarono ad Arezo con soldatiPisani. I Sanesi dierono loro il passo: perché i cittadini di Siena marcavanobene con anbo le parti; e quando sentivano i Bianchi forti, li sbandiano, ma ilbando era viziato, che non agravava: davano aiuto a’ Neri nelle cavalcare, emostravansi fratelli: e però parlò di loro una profezia, la quale fra l’altre paro-le della guerra di Toscana dicea: «La lupa puttaneggia»; che per la lupa s’in-tende Siena…

34. La comparazione con il passo scritturale normalmente addotto come fonte per le tre fiere(Geremia, 5, 6: «percussit eos leo de silva, lupus ad vesperam vastavit eos; pardus vigilanssuper civitates eorum»), mette semmai in rilievo la variante, e cioè quel femminile lupa che,in sé, non ha nulla a che vedere con l’avidità.

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Ma il nesso intertestuale più pertinente, ed anzi decisivo, come si vedràsubito, nella configurazione dell’intero canto, è quello di Convivio, I, 9, in cuil’equivalenza di avarizia e prostituzione tocca il centro della ideologia lettera-ria di Dante:

Non avrebbe lo latino servito a molti: ché se noi reducemo a memoria quelloche di sovra è ragionato, li litterati fuori di lingua italica non averebbono potu-to avere questo servigio, e quelli di questa lingua, se noi volemo bene vedere chisono, troveremo che de’ mille l’uno ragionevolmente non sarebbe stato servi-to; però che non l’averebbero ricevuto, tanto sono pronti ad avarizia che daogni nobilitade d’animo li rimuove, la quale massimamente desidera questocibo. E a vituperio di loro dico che non si deono chiamare litterati, però che nonacquistano la lettera per lo suo uso, ma in quanto per quella guadagnano dena-ri o dignitate… ma lo volgare servirà veramente a molti. Ché la bontà de l’a-nimo, la quale questo servigio attende, è in coloro che per malvagia disusanzadel mondo hanno lasciata la letteratura a coloro che l’hanno fatta di donnameretrice; e questi nobili sono principi, baroni, cavalieri, e molt’altra nobilegente, non solamente maschi ma femmine, che sono molti e molte in questalingua, volgari e non litterati.

Il primato negativo della avarizia-lupa, così estraneo ad una impostazioneteologica convenzionale, che vorrebbe la superbia o l’invidia come vizi prin-cipali (e Dante stesso ammette qui, v. 111, che «invidia prima dipartilla»), sideve alla polemica anticlericale che accompagna la riflessione del poeta inogni fase del suo svolgimento: la prostituzione della letteratura praticata daichierici è la causa sociale della perversione della cultura, che trasforma ilmondo in una selva in cui chiunque è destinato a perdersi, poiché è venutomeno il fondamento della civiltà (la lettera, appunto).35 La redenzione civiledel mondo dipende dalla creazione di forme alternative di produzione lette-raria (nella lingua, nei contenuti, nella identità di produttori e consumatori)che rispondano al bisogno di cultura che una nobiltà nuova, nella mentalitàe nei valori, attende. Si osservi la «malvagia disusanza del mondo»: la respon-sabilità della barbarie non è esclusiva dei chierici; essa è anche di quegli ari-stocratici di tipo tradizionale che hanno confuso la nobiltà con la nascita edil patrimonio. Altra e ben diversa è la nuova nobiltà «la quale questo servigioattende».

Proprio la «bontà de l’animo» del pubblico a cui Dante pensa richiama incausa il simbolismo legato ai generi sessuali. Tanto la chiesa quanto l’aristo-crazia, infatti, cioè tanto gli oratores quanto i bellatores, sono, per definizione,maschi, essendo inibite alle donne le pratiche relative ai due ordini, quella del

35. Il progressismo illuminato della difesa dantesca del volgare appare ancora più chiaramente selo si compara con i pregiudizi antivolgari del Novellino, ben più rappresentativo della cul-tura contemporanea al poeta (cfr., in particolare, LXXVIII, in cui al filosofo che volgarizzala scienza «venne in visione che le dee della scienzia, a guisa di belle donne, stavano al bor-dello»; e ne danno la colpa a lui perché «volgarizzar la scienzia si era menomar la deitade»).

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sacro e quella della guerra. L’«altra nobile gente», invece, è formata da esseriumani «non solamente maschi ma femmine». Il simbolismo femminile con-venzionale ed antico della lupa-prostituta lascia intravedere già un diverso sim-bolismo, originale e moderno, in cui al femminile dovrà essere almenoparzialmente ascritta quella nuova nobiltà che potrà prosperare quando la lupasarà ricacciata nell’inferno.

E qual è quei che volontieri acquista, e giugne ‘l tempo che perder lo face, che ‘n tutti suoi pensier piange e s’attrista;tal mi fece la bestia sanza pace, che, venendomi ‘ncontro, a poco a pocomi ripigneva là dove ‘l sol tace.

La seconda comparazione del Poema, suggerita come la prima dalle asso-ciazioni simboliche (lì il lago del cor che generava l’acqua perigliosa; qui lebrame di ricchezza che generano l’acquisto e la perdita), presenta un per-corso morale inverso, dal positivo al negativo. La lupa determina, infatti,l’indietreggiamento del poeta verso il basso, cioè verso la selva, e verso glistilemi petrosi ad essa collegati (Io son venuto, 22: «onde l’aere s’attrista tuttoe piagne»). La sua oscurità viene però indicata, ora, con un nuovo signifi-cante. Il sole che tace, cioè non risplende, implica infatti la doppia analogialuce = parola / buio = silenzio, per la quale l’oscurità della selva si carica di unsenso metaforico inedito nella simbologia sessuale antica, e che allude pale-semente al potere illuminante del Verbo.36 Di questa connessione fra luce eparola Dante si era già appropriato in un altro contesto, ridefinendola in unsenso radicalmente moderno. Si è appena visto che la lupa-prostituta alludead una perversione che nel suo significato più profondo è letteraria. Proprioper questo la selva oscura verso la quale la bestia ripigneva il poeta deve esse-re pensata, ora, come un luogo letterariamente muto, in cui ciò che nonrisplende è il sole della letteratura. Il nesso analogico sole-letteratura (vol-gare) è profeticamente fissato nel paragrafo finale dell’ultimo capitolo del Itrattato del Convivio:

… puotesi vedere questo pane, col quale si deono mangiare le infrascrit-te canzoni, essere sufficientemente purgato da le macule e da l’essere dibiado; per che tempo è d’intendere a ministrare le vivande. Questo saràluce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove l’usato tramonterà, e daràlume a coloro che sono in tenebre e in oscuritade per lo usato sole che aloro non luce.

La selva nella quale il poeta sta per essere ricacciato dalla lupa, senza per-dere il suo simbolismo femminile originario (il basso loco), acquista un nuovo

36. Il senso illuminativo dell’espressione è colto da John FRECCERO, nel quadro della sua let-tura agostiniana del Proemio, in Dante. La poetica…, p. 30.

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senso, molto più problematico nella prospettiva dei generi sessuali: quello delletenebre prodotte dal silenzio della poesia per la avidità dei litterati.

Mentre ch’i’ rovinava in basso loco, dinanzi a li occhi mi si fu offertochi per lungo silenzio parea fioco.

Virgilio è portatore di un simbolismo maschile innanzitutto perché si oppo-ne alle fiere ed impedisce il rovinare di Dante in basso loco, ma anche perché rap-presenta una razionalità di tipo poetico la cui funzione è quella di illuminareculturalmente gli esseri umani. Razionalità che certamente non è in contrad-dizione con i valori cristiani, ma che altrettanto certamente ne ha preso il posto,sussumendoli poeticamente. Ad una letteratura rinnovata dalla poesia in vol-gare Dante infatti attribuisce, nel Convivio, nel De Vulgari e soprattutto nellaCommedia, quel potere illuminativo che la religione attribuisce al messaggiodi Cristo. Si tratta di una poesia che, per assolvere questo compito, deve anda-re ben al di là del suo ambito estrinsecamente retorico, ed illuminare le coscien-ze con un messaggio di verità umana e divina. Tale funzione la poesia l’ha giàavuta in età classica, secondo Dante, con Virgilio, appunto (in base alla visio-ne medievale del Virgilio cristiano). L’immagine che usa Stazio, in Purg. XXII,67-69, per indicare la consonanza fra la poesia virgiliana e la predicazione evan-gelica è appunto quella del lampadoforo, cioè di colui che illumina (pur restan-do soggettivamente escluso dal messaggio di verità che diffonde):

Facesti come quei che va di notte, che porta il lume dietro e sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte…

La decadenza della letteratura si produce successivamente (a partire dalladonazione di Costantino), quando l’avidità dei chierici ne perverte i conte-nuti e la funzione. Il lungo silenzio di Virgilio è dunque il silenzio della poe-sia, le cui ragioni si sono da tempo offuscate poiché la letteratura è statatrasformata dai litterati, da donna che era, in meretrice.37 Inascoltata, la suaparola si è affievolita, ha perso il suo potere illuminante (fioca può solo averevalore visivo, data la simbologia sottesa al brano), che Dante riscopre ora inextremis, un attimo prima di ripiombare definitivamente nel buio irrazionaledel silenzio poetico.

L’identificazione della luce con la parola poetica e di questa con la razio-nalità (filosofica e religiosa) è forse la struttura simbolica più generale e pro-duttiva della Commedia, quella che ne giustifica globalmente l’ideazione, ed èquindi quella più intimamente legata alla autobiografia intellettuale del poeta.

37. Per un riepilogo della discussione sul significato del «lungo silenzio» di Virgilio, cfr. GinoCASAGRANDE, Parole di Dante. Il «lungo silenzio» di «Inferno», I, 63, in «Giornale storicodella letteratura italiana», CLXXIV, 1997, p. 243-254.

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Ed è poi anche il messaggio del Poema che più chiaramente si apre verso i valo-ri della modernità, poiché subordina al linguaggio inteso come poesia, e quin-di umanizza, ogni forma di civiltà ed ogni esperienza di cultura (prima fratutte la religione, che solo attraverso la mediazione trascendentale della poe-sia conserva modernamente un senso). Il diserto che ora è diventato la selva incui Dante rischia di perdersi di nuovo, è la barbarie di un mondo privo di cul-tura, perché privo di poesia.38 Per la logica onirica che governa il canto, il per-sonaggio e l’apparizione di Virgilio sembrano generati dal nuovo significatoletterario secondo cui la selva è stata simbolicamente ridefinita. Il disperatogrido di Dante è la richiesta d’aiuto di un poeta che angosciosamente percepiscelo svuotamento poetico del mondo. Essa è formulata in latino, che è ancorala lingua della cultura, ed afferisce a una dimensione morale in cui poesia evita, cioè civiltà ed esistenza, sono la stessa cosa. Virgilio è la voce poetica piùautorevele, nella tradizione prossima a Dante, e quindi l’unica che può even-tualmente ristabilire le ragioni della poesia, salvando Dante e tutti quelli che,come Dante, avvertono l’esigenza di un nuovo sistema di valori che li redimadal diserto a cui la lupa, cioè i litterati, li hanno condannati:

Quando vidi costui nel gran diserto, «Miserere di me», gridai a lui, «qual che tu sii, od ombra od omo certo!».

La seconda frase di Dante, e l’alternativa con cui interroga la nuova appa-rizione, è figura del bivio in cui il poeta si trova, poiché dalla risposta dipenderàil percorso di redenzione che gli si apre. «Od ombra od omo certo» significainfatti: «il nuovo cammino di salvezza, quindi la nuova poesia, che stanno peressere indicati a Dante, implicano un itinerario fisico (omo certo) o metafisico(ombra)?» L’ambiguità ontologica del personaggio appena apparso prepara ilprotagonista (ed il lettore) alla zona d’ombra nella quale la poesia dovrà pene-trare per compiere la sua funzione redentiva. Virgilio scioglie subito il dub-bio, dichiarando umbratile la sua sostanza, e, definendosi poeta, delimita ilterreno, poetico appunto, in cui la sua presenza ha senso nel Poema:39

Rispuosemi: «Non omo, omo già fui, e li parenti miei furon lombardi,

38. Sulla identificazione di selva e deserto (intesi entrambi come barbarie), cfr. Jacques LE GOFF,Il deserto-foresta nell’Occidente medievale, in Il meraviglioso e il quotidiano nell’occidente medie-vale, Roma-Bari: Laterza, 1988, p. 25-50.

39. Che Virgilio rappresenti innanzitutto la poesia, è ribadito in Inf., II, 67, quando Beatrice loprega di soccorrere Dante «con la sua parola ornata», e poi in Inf., II, 113-114, quandoBeatrice spiega di averlo scelto come aiutante «fidandomi del tuo parlare onesto / che onorate e quei che udito l‘hanno». La funzione razionalizzatrice di cui Virgilio è portatore (che latradizione esegetica ha indebitamente assolutizzato) è senz’altro subordinata alla sua fun-zione poetica: è in quanto poeta (non corrotto dall’avarizia) che egli salverà Dante e quan-ti credono nella necessità di una riforma morale e politica dell’umanità.

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mantoani per patria ambedui.Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi, e vissi a Roma sotto ‘l buono Augustonel tempo de li dèi falsi e bugiardi.Poeta fui, e cantai di quel giustofigliuol d’Anchise che venne di Troia, poi che ‘l superbo Ilïón fu combusto.Ma tu perché ritorni a tanta noia?perché non sali il dilettoso montech’è principio e cagion di tutta gioia?».«Or se’ tu quel Virgilio e quella fonteche spandi di parlar sì largo fiume?», rispuos’io lui con vergognosa fronte.«O de li altri poeti onore e lume, vagliami ‘l lungo studio e ‘l grande amoreche m’ha fatto cercar lo tuo volume.Tu se’ lo mio maestro e ‘l mio autore, tu se’ solo colui da cu’ io tolsilo bello stilo che m’ha fatto onore.Vedi la bestia per cu’ io mi volsi:aiutami da lei, famoso saggio, ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi».

Il primo dialogo fra Dante e Virgilio è il reciproco riconoscimento di duepoeti. Tutti i nessi culturali che vengono evocati, innanzitutto quello fra antichitàe modernità, poi quello fra letteratura e società, e infine quello fra vita e morte,cioè fra realtà fisica (Dante) e realtà metafisica (Virgilio), sono filtrati dalla iden-tità poetica che accomuna i due personaggi, da maestro ad alunno, da model-lo ad imitatore. Se la scena del Proemio ha un significato iniziatico, si tratta dellainiziazione di un poeta moderno, ad opera del più prestigioso dei poeti anti-chi. La strana osservazione «(nacqui sub Iulio, ) ancor che fosse tardi», significacon ogni probabilità: «nacqui troppo tardi per illuminare Cesare con la miapoesia (ed impedirgli di distruggere con la guerra civile la libertà dei Romani edi imporre loro la sua signoria- secondo l’accusa che in varie occasioni Danteinsinua contro Cesare).»40 L’osservazione seguente, «vissi sotto il buono Augu-sto», significa al contrario: «nonostante “gli dei falsi e bugiardi” potetti ispirareAugusto con “la divina fiamma” della mia poesia, “onde sono allumati più dimille” (Purg., XXI, 95-96)». Virgilio si presenta non semplicemente come poeta,ma come poeta capace di educare la società romana (attraverso l’imperatore)con il messaggio della sua opera, il cui contenuto epico, il viaggio del «giusto /figliuol d’Anchise», è elemento del piano provvidenziale di redenzione dell’u-manità. Egli incarna, quindi, esemplarmente quella funzione che Dante ha rico-nosciuto nella poesia attraverso tutta la sua riflessione anteriore, funzionecivilizzatrice di orientamento culturale e politico della società.

40. Cfr. soprattutto Mon., II, v, 15-17 e Purg., I, 71-75.

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È in tale dimensione politico-trascendentale della poesia che vengono ripre-si, e confermati nei loro valori, i simboli precedenti. Virgilio addita il luogomaschile al quale Dante dovrebbe tendere (il «dilettoso monte»), invece di tor-nare a «tanta noia»; Dante indica l’elemento femminile (la bestia) che lo hafatto indietreggiare, e gli chiede aiuto per affrontarla, poiché è sul piano dellapoesia che può essere risolto il conflitto che la lupa ha scatenato nella sua mente.La conclusione di Virgilio è che Dante dovrà tenere un itinerario differente(«altro viaggio»), poiché l’ostacolo rappresentato dalla lupa è insormontabilesul piano della realtà fisica convenzionale.41

Ciò che subito sorprende, del discorso di Virgilio sulla lupa, è l’intensifi-cazione dei simboli sessuali con cui la descrive. Il veltro, invece, rappresental’inversione di segno e di genere (cioè dal negativo al positivo, e dal femmini-le al maschile) della lupa.

«A te convien tenere altro viaggio», rispuose poi che lagrimar mi vide, «se vuo’ campar d’esto loco selvaggio:ché questa bestia, per la qual tu gride, non lascia altrui passar per la sua via, ma tanto lo ‘mpedisce che l’uccide;

Posta una connessione sostanziale fra i due simboli, la selva («esto loco sel-vaggio») e la lupa («questa bestia»), questa è ineluttabile principio di morte,come già in precedenza la selva («non lasciò giammai persona viva»).42 È dinuovo sul piano simbolico del femminile che viene svolto il tema degli effet-ti letali del male, un femminile esplicitamente accusato nei suoi caratteri gene-rici (cioè la prostituzione: «Molti son li animali a cui s’ammoglia»):

e ha natura sì malvagia e ria, che mai non empie la bramosa voglia, e dopo ‘l pasto ha più fame che pria.Molti son li animali a cui s’ammoglia, e più saranno ancora, infin che ‘l veltroverrà, che la farà morir con doglia.

41. Si osservi poi che il verso «mi fa tremar le vene e i polsi» deriva direttamente dal repertoriodella sintomatologia erotica ben familiare a Dante: in Vita Nuova, II, 4, all’apparizione diBeatrice, «lo spirito de la vita, lo quale dimora ne la secretissima camera de lo cuore, comin-ciò a tremare sì fortemente, che apparia ne li minimi polsi orribilmente…». La lupa è dun-que, come la selva, compendio di tutte le immagini dolorose di femminilità che hannocostellato la biografia letteraria dell’autore.

42. Come si è già osservato (n. 23), l’effetto distruttivo della lupa è analogo a quello del desi-derio secondo Cavalcanti in Donna me prega, 35-37: «Di sua potenza segue spesso morte,/ se forte — la vertù fosse impedita / la quale aita — la contraria via» (e il «loco selvaggio»in cui la bestia imprigiona il poeta echeggia le «non già selvagge … bieltà» che «son dardo»,del verso 60 della canzone): l’elemento che Dante raccoglie dall’amico è l’idea del biviomorale, cioè l’alternativa fra vita e morte, che il desiderio impone all’io.

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Questi non ciberà terra né peltro, ma sapïenza, amore e virtute, e sua nazïon sarà tra feltro e feltro.Di quella umile Italia fia saluteper cui morì la vergine Cammilla, Eurialo e Turno e Niso di ferute.Questi la caccerà per ogne villa, fin che l’avrà rimessa ne lo ‘nferno, là onde ‘nvidia prima dipartilla.

Il veltro, simbolo riassuntivo dei valori maschili come la lupa lo è di quel-li femminili, è descritto con caratteri opposti a quelli della sua antagonista:43

mentre questa uccide gli uomini, egli ucciderà lei; mentre la lupa è famelica(di beni e ricchezze), egli si ciberà di cultura (dobbiamo quindi immaginareun tipo di intellettuale che incarni valori opposti a quelli dei chierici), e men-tre lei genera nella cupidigia,44 egli nascerà nella povertà (il contesto sembraindicare che il feltro è il panno ruvido di case modeste, evocato in antitesi al lussodei ricchi).45

Si osservi ora con attenzione il verso «ma sapienza, amore e virtute», poi-ché ci permetterà di definire meglio il profilo intellettuale del veltro. La riso-nanza teologico-trinitaria (analoga a quella che si avverte in Inf., III, 5-6: «fecemila divina podestate, / la somma sapïenza e ‘l primo amore») disturba la percezionedi un nesso intertestuale molto più pertinente, ed interno, alla riflessione let-teraria di Dante. I «tria magnalia» che in De Vulgari, II, ii, 7 vengono indicaticome temi supremi della poesia in volgare, sono la cosiddetta Rota Virgilii: salus(cioè «armorum probitas»), venus (cioè «amoris accensio»), virtus (cioè «directiovoluntatis»). Poiché il veltro ciberà il secondo e il terzo dei contenuti della poe-sia illustre, la sua fisionomia intellettuale si avvicina molto a quella di un poeta.L’elemento mancante, per giunta, la «armorum probitas», è appunto quello cheil De Vulgari indica come assente nella poesia italiana («Arma vero nullumlatium adhuc invenio poetasse»), ed è sostituito da un altro, la sapienza, cheallude inequivocabilmente alla filosofia (Conv., III, xi, 5):

43. La natura «dialettica» del veltro, cioè la sua caratterizzazione per antitesi rispetto alla lupa,indipendente quindi da simbolismi o allegorie predeterminati, fu evidenziata da Antoni-no PAGLIARO (Ulisse. Ricerche semantiche…, p. 494). Già Boccaccio, però, aveva osservatoche il poeta «metaphorice chiama “veltro”, per ciò che i suoi effetti saranno del tutto con-trari all’avarizia come il veltro di sua natura è contrario al lupo» (si noti, però, la neutraliz-zazione della opposizione di genere).

44. Cfr. Ep., XI, 14: «Cupiditatem unusquisque sibi duxit in uxorem» (Anna Maria CHIAVAC-CI LEONARDI, op. cit., p. 29).

45. Molto suggestiva è però l’ipotesi avanzata da Paolo BALDAN (Per un veltro dal substrato mate-rico-Inferno, I, in «Italianistica», XXI, 2-3, 1992, p. 297-314), che l’espressione «tra feltroe feltro» alluda alla feltratura della carta, il nuovo materiale scrittorio che, per il suo bassocosto di produzione, sostituisce la pergamena a partire dalla seconda metà del XIII secolo. L’u-miltà laica della carta (il veltro) si contrapporrebbe alla arroganza clericale della pergame-na (la lupa), come supporto materiale della rivoluzione culturale auspicata dal poeta.

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Pitagora, domandato se egli si riputava sapiente, negò a sé questo vocabulo edisse sé essere non sapiente, ma amatore di sapienza. E quinci nacque poi, cia-scuno studioso in sapienza che fosse «amatore di sapienza» chiamato, cioè «filo-sofo»; che tanto vale in greco «philos» com’è a dire «amore» in latino, e quindidicemo noi: «philos» quasi amore, e «soph[os]» quasi sapien[te]. Per che vede-re si può che questi due vocaboli fanno questo nome di «filosofo», che tanto valea dire quanto «amatore di sapienza».46

Ma proprio nell’ambito della filosofia si è prodotta la rivoluzionaria svol-ta culturale con la quale Dante e i suoi amici hanno trasformato il linguaggiodella poesia (si ricordino, in particolare, il senno bolognese che Bonagiunta daLucca rimprovera a Guinizzelli in Vo’ ch’avete mutata la mainera, e l’«uso moder-no» di cui il primo Guido è antesignano secondo Purg., XXVI, 113). Sonoindizi sufficienti per concludere che nel veltro Virgilio sta descrivendo un poetaitaliano non ricco né aristocratico, non pervertito dall’avarizia, come i «litteratidi questa lingua (italiana)», che quindi «acquisterà la lettera per lo suo uso» enon «per guadagnare denari o dignitate» (Conv., I, ix, 2-3). Ciò spiega che il suoraggio d’azione sia non la cristianità nel suo complesso (né l’umanità in gene-rale), ma l’Italia, della quale egli sarà salute, cioè salvezza, in un senso che nonha nulla a che vedere con la «armorum probitas» della Rota Virgilii, e che impli-ca invece quella redenzione etica, estetica e metafisica che è tema caratteristi-co della poesia dantesca. D’accordo con il programma politico-linguistico del1º trattato del Convivio, e del De Vulgari, il veltro sarà salvezza per gli Italia-ni, intesi come una collettività culturale omogenea e distinta dalle altre, poichéfornirà loro la nuova lingua di cultura nella quale potrà esprimersi la loro iden-tità etnica, ossia l’italiano.47 Come Dante ha dimostrato nelle due opere, ilconflitto linguistico volgare-latino riflette direttamente il conflitto politico frauna concezione laica dello stato e una concezione ecclesiastica, e l’Italia puòavere identità politico-culturale (all’interno dell’Impero, ma comunque distin-ta dagli altri regni nazionali della cristianità), solo se i suoi intellettuali adot-teranno il volgare italiano e i valori laici che esso esprime poeticamente.L’avanguardia intellettuale che dovrà fare l’Italia dando forma alla sua lingua èrappresentata da poeti, dei quali il veltro è figura allegorica nella quale Danteha proiettato la propria coscienza poetica, proponendosi così come modellodella nuova classe di intellettuali di cui l’Italia ha bisogno per esistere comenazione.48 Certo, Virgilio definisce l’Italia a partire dalla fondazione mitica di

46. Si consideri che Dante è abbastanza severo nei confronti dell’uso venale della filosofia: «Nési dee chiamare vero filosofo colui che è amico di sapienza per utilitade, sì come sono lilegisti, [li] medici e quasi tutti li religiosi, che non per sapere studiano ma per acquistaremoneta o dignitade; e chi desse loro quello che acquistare intendono, non sovrasterebberoa lo studio» (Conv., III, xi, 10).

47. Sul valore etnico che ha qui l’Italia, d’accordo con tutta la restante opera dantesca, cfr. Anto-nino PAGLIARO, Il proemio, in Ulisse…, p. 43-53.

48. Non può coincidere, quindi, con il veltro il «cinquecento diece e cinque» di Purg., XXXIII,43, che, in quanto «reda della aguglia», allude necessariamente ad un politico (con simbo-

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Roma, così come viene celebrata nell’Eneide. Ma confondendo ed alternandovincitori troiani e vinti italici, egli allude molto più alla Italia moderna poten-zialmente unificata attorno ad una corte e ad una lingua (così come la pensaDante), che non al territorio a partire dal quale Roma avrebbe creato il suoimpero. E definendosi mantovano (come nel VI del Purgatorio), mette in risal-to, più che la sua latinità, la sua italianità, indipendente dalla lingua che usa(che comunque, per il fatto di essere latino dell’età classica, è esente dalla pro-stituzione letteraria dei chierici).

In questa evocazione dell’Italia come ambito della azione redentiva del vel-tro, sono del resto presenti simboli generici troppo evidenti e troppo legati allaesperienza poetica dantesca per non pensare che nel veltro il poeta abbia inte-so rappresentare se stesso. Innanzitutto l’umiltà dell’Italia, lontanissima dalsenso che l’aggettivo ha nell’Eneide («pianeggiante») ed invece vicinissima allaimmagine positiva di donna che Dante e Cavalcanti avevano descritto nellaloro lirica. In Guido (Chi è questa che vèn, 7) «donna d’umiltà» è l’espressio-ne con cui viene indicata l’amata, ed a lei sono connesse, in rima, come qui, lavertute e la salute dell’amante. In Dante umiltà e salute sono le prerogative tipi-che di Beatrice, «benignamente d’umiltà vestuta», in Tanto gentile, e «donnadella salute», nella Vita Nuova. L’immagine dell’Italia (qui, come poi nel VIdel Purgatorio) è chiaramente costruita secondo la simbologia femminile ela-borata dal poeta liricamente, cioè come supremo oggetto di desiderio da partedi un io poetico maschile.

In effetti, l’allusione all’Italia determina drasticamente, nella geografia enella storia, un paesaggio finora solo simbolico ed onirico, ed indica con pre-cisione autobiografica i termini, fisici e ideali, del territorio in cui il Poemaaspira ad essere letto: si tratta «delle parti quasi tutte a le quali questa linguasi stende», per le quali il poeta è andato «peregrino, quasi mendicando», sfer-zato «dal vento secco che vapora la dolorosa povertade» (Convivio, I, iii, 4-5).Ma questa brusca caduta del simbolico nel reale ha anche l’effetto di capovol-gere i valori assegnati ai simboli sessuali. Il femminile è ora, nella prospettivaoriginalissima della propria poesia, il valore assolutamente positivo che intro-duce un generale cambiamento di direzione della storia, aprendo le porte dellamodernità a un nuovo sistema di valori, coincidenti con quelli che Dante èandato elaborando nelle opere anteriori, e che hanno nella donna e nel fem-minile (cioè Beatrice) il loro simbolo più elevato.

Tale femminilità redentiva si precisa subito in una immagine di strordina-ria efficacia evocativa, per la densità delle allusioni poetiche e culturali checontiene: la «umile Italia» di cui il veltro sarà salute ha già avuto dei martiri,ma il primo di loro ad essere nominato è «la vergine Camilla». Fra gli eroiricordati da Virgilio, quella più significativa (l’unica del gruppo che apparirà poinel Limbo, a stretto contatto con Cesare) è dunque una donna, la cui vergi-

logia numerologica di tipo apocalittico). Ma intercorre, fra i due passaggi, la riflessionesullo stato che sfocia nella composizione della Monarchia.

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nità indica la purezza dei costumi, in antitesi con la lupa che si ammoglia conmolti, ed in consonanza solo parziale con la madre di Cristo, alla quale la acco-muna la verginità, ma dalla quale la distingue il fatto di essere una guerriera, edi contribuire alla salute degli Italiani morendo. È probabile che qui Dantestia di nuovo pensando a Beatrice, che solo da morta potrà salvarlo, come Cri-sto, che salva l’umanità morendo. La Camilla dantesca potrebbe essere defi-nita come la controfigura epica di Beatrice; essa rappresenta, nell’universopoetico virgiliano, la prefigurazione della donna che, morendo, salva Dante,aprendo alla sua immaginazione e al suo desiderio lo spazio metafisico dellatrascendenza.

Ond’io per lo tuo me’ penso e discernoche tu mi segui, e io sarò tua guida, e trarrotti di qui per loco etterno, ove udirai le disperate strida, vedrai li antichi spiriti dolenti, ch’a la seconda morte ciascun grida;e vederai color che son contentinel foco, perché speran di venirequando che sia a le beate genti.A le quai poi se tu vorrai salire, anima fia a ciò più di me degna:con lei ti lascerò nel mio partire;ché quello imperador che là sú regna, perch’i’ fu’ ribellante a la sua legge, non vuol che ‘n sua città per me si vegna.In tutte parti impera e quivi regge;quivi è la sua città e l’alto seggio:oh felice colui cu’ ivi elegge!».

La descrizione di tale itinerario alternativo (un «loco etterno», cioè la zonad’ombra del reale, la geografia della morte che i due poeti dovranno attraver-sare per ricostruire quel rapporto con la trascendenza che i litterati hanno spez-zato per la loro avidità) ha senso, nell’ottica del simbolismo dei generi, nelladistinzione delle due guide. Alla seconda si allude con una espressione gene-ricamente vaga, «un’alma», che crea, però, intorno a lei un’attesa che rendeancora più clamoroso il trionfo del femminile del canto seguente. Le tre donneche dal Paradiso si preoccupano, in Inf. II, della ventura di Dante corrispondono,infatti, sullo stesso piano generico ma con inversione di segno, alle tre fiereche gli impediscono il cammino. E se Virgilio è il razionalismo della poesia(«Tratto t’ho qui con ingegno e con arte», Purg., XXVII, 130), Beatrice è, sullostesso piano simbolico ma con inversione di genere, il teologismo della poe-sia, cioè, come si è cercato di mostrare in altra occasione,49 il compito moder-namente assegnato al linguaggio di umanizzare il trascendente, trasformandolo

49. Cfr. il mio Dante e le origini della cultura letteraria moderna, Paris: Champion, 1994.

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in esperienza personalmente vissuta, compito che lei porta a termine in quan-to fu ed è ancora, dopo morta, fonte di piacere e oggetto di desiderio per ilpoeta, («lo tuo piacere omai prendi per duce», ibid., 131). La sua femminilitàè intrinseca al suo ruolo di guida e maestra, ed anzi ne è aspetto sostanziale,poiché è grazie ad essa che la conoscenza, nel suo rango dottrinale più elevato,si traduce finalmente nella parola poetica che la umanizza. Con Beatrice ilfemminile irrompe nel discorso culturale italiano ed europeo, non come astrat-ta personificazione ma come a priori espressivo, smentendo il teologismo tra-dizionale nel suo fondamento generico-antropologico, cioè nella pregiudizialeantidottrinale che grava sulla donna, secondo la dura ingiunzione paolina (ITim., 2, 11-15):

Mulier in silentio discat cum omni subiectione. Docere autem mulierem nonpermitto, neque dominari in virum: sed esse in silentio. Adam enim primusformatus est: deinde Eva: et Adam non est seductus: mulier autem seducta inpraevaricatione fuit. Salvabitur autem per filiorum generationem, si perman-serit in fide, et dilectione, et santificatione cum sobrietate.

Se si tiene conto della cultura teologica antica (che questo frammento per-fettamente riassume nel suo rigore misogino),50 ancor più improbabile delviaggio di un vivo nell’al di là, è il fatto che a guidarlo, insegnando, sia un esse-re umano di sesso femminile.51

«Poeta antico» (Inf., X, 121), Virgilio fu ribellante alla legge di Dio (ben-ché ne intuisse oscuramente la presenza) e quindi gli è precluso l’accesso alladimensione spirituale dell’al di là (la cristiana Civitas Dei), nella quale Dantesarà guidato dalla donna che ha ispirato una parte fondamentale della propriapoesia. Il salto cronologico dall’antico al moderno implica un radicale cam-biamento di prospettiva ermeneutica: antichità e modernità non si oppongo-no più solo sul piano religioso (paganesimo vs. cristianesimo); fra di essi si èaperta una divaricazione linguistica (latino vs. volgare) e generica (maschilevs. femminile) che in certo modo neutralizza quella opposizione (l’unica per-tinente, in una prospettiva clericale). Mentre nella cultura antica il sistemasimbolico dei generi prevede la supremazia del maschile sul femminile (ciò chela letteratura latina manifesta attraverso il primato dell’epica), nella culturamoderna esso adombra la supremazia del femminile sul maschile (ciò che la

50. Il culto mariano temperò in parte, come è noto, tale misoginia. Si osservi però che nellaVergine viene esaltata, con paradosso dogmatico, proprio la maternità, cioè l’unica funzio-ne positiva che la teologia tradizionale attribuisce alla donna (che, in Paolo, «salvabitur perfiliorum generationem»).

51. Confondere Beatrice con le antiche allegorie femminili della sapienza (come nelle letturemistico-esoteriche di Dante) significa trascurare la sua principale novità storica, e cioè l’istanzaespressiva femminile e moderna di cui lei è veicolo (sull’idea di lingua materna in Dante enel dibattito umanistico-rinascimentale, cfr. il mio La donna come alterità linguistica, inSergio ZATTI (a cura di), La rappresentazione dell’altro nei testi del Rinascimento, Lucca: Paci-ni Fazzi, 1998, p. 13-32).

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letteratura italiana delle origini manifesta attraverso il primato della lirica e l’e-marginazione dell’epica). Indicando in Beatrice una guida di rango più eleva-to («anima più di me degna»), Virgilio sancisce sul piano ideologico taletrasformazione. Le dicotomie generiche fin qui evidenziate scambiano infattii loro valori, innanzitutto quella «basso / alto», poiché è Beatrice che, in quan-to donna desiderante e desiderata, permetterà a Dante di salire, cioè di accederepoeticamente alle «beate genti»;52 e poi quella «ombra / luce», che prima, nellapolarità «valle - colle», subordinava il femminile al maschile, mentre ora, nellapolarità «terra - cielo», subordina il maschile al femminile. E lo stesso vale,implicitamente, per tutte le altre.

Il nuovo sistema simbolico generato dalla inversione dei valori non è peròdualistico, poiché il femminile supera il maschile senza contrapporsi ad esso.53

Fra i due generi sessuali e le rispettive simbologie esiste un rapporto di com-plementarietà: bisogna attraversare la regione fisica e maschile (sublunare) dellatrascendenza («l’erte vie e l’arte» di Purg., XXVII, 132) per accedere alla regio-ne, spirituale e femminile, della luce. Un nuovo dualismo si profila, invece,come s’è visto, sul piano della coscienza storica, nella opposizione di antico(assiologicamente maschile) e moderno (assiologicamente femminile). Ma quisono implicate le componenti più personali della riflessione dantesca sulla let-teratura, e cioè la novità e la modernità della propria poesia: lo scatto trascen-dentale che permette a Dante di superare poeticamente i limiti dell’universofisico e di secolarizzare lo spazio metafisico, è possibile solo in virtù di quelculto del femminile con cui egli ha spiritualizzato l’eros e che è stato il temadominante di tutta la sua ricerca anteriore alla Commedia. Fulminea ricapito-lazione di tale ricerca, citata praticamente in ogni suo versante, il I canto del-l’Inferno presenta il Poema come l’approdo di una esplorazione che, partendodalla lirica, ha interrogato la cultura letteraria investigandone tutti gli aspetti,

52. Lo stesso schema si ripete nell’ultima parte del viaggio, in cui S. Bernardo preannuncia aDante la successiva e superiore mediazione di Maria (Par., XXXI, 100-102: «E la reginadel cielo, ond’ïo ardo / tutto d’amor, ne farà ogne grazia, / però ch’i’ sono il suo fedel Ber-nardo»).

53. Tale inversione di valori si avverte nelle parole con cui viene celebrata la prima apparizionedi Beatrice a Dante in Vita Nuova, II, 4: «lo spirito della vita… disse queste parole: «Eccedeus fortior me, qui veniens dominabitur michi». La frase allude, in prima istanza, al domi-nio che il desiderio esercita, attraverso Beatrice, sulla vita del poeta (dominio che è internoalla mente, ed implica quindi l’adesione dell’io). Il testo però è infarcito di risonanze scrit-turali (su cui cfr. Domenico DE ROBERTIS, D.A., Opere Minori…, t. I, p. I, p. 31), fra lequali segnalerei la condanna di Eva in Genesi, 3, 166: «sub viri potestate eris et ipse domi-nabitur tui», che mostra bene come l’adesione dell’io maschile al principio del desiderioimplichi il capovolgimento del rapporto di potere e dominio fra i generi sancito dalla cul-tura patriarcale antica. Tale capovolgimento ha quindi un’origine storica precisa: esso siproduce nel momento in cui l’amore di un sesso verso l’altro diviene il fondamento della let-teratura, naturalizzando la cultura attraverso il linguaggio. D’altra parte la reversibilità deldesiderio (in quanto soggetto desiderante la donna si espone al dominio di una immaginemaschile) neutralizza il fondamento generico del dualismo antico, che sopravvive moder-namente solo come astratto paradigma filosofico (razionale vs. irrazionale).

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ma senza mai abbandonare l’oggetto che fin dal principio l’ha ispirata, il culto,appunto, ossessivo ma anche redentivo, del femminile. Ecco allora che il desi-derio, che la poesia moderna adotta come unico ed assoluto principio ispira-tore (a norma di Vita Nuova, XXV e Purg., XXIV e XXVI), può divenire ilfattore storicamente originale che capovolge il rapporto fra i generi sessuali edil loro stesso significato simbolico, permettendo per la prima volta ad un esse-re umano, in quanto poeta, di varcare la soglia della trascendenza:

E io a lui: «Poeta, io ti richeggioper quello Dio che tu non conoscesti, acciò ch’io fugga questo male e peggio, che tu mi meni là dov’or dicesti, sì ch’io veggia la porta di san Pietroe color cui tu fai cotanto mesti».Allor si mosse, e io li tenni dietro.