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INDICE
1. LE TEORIE DELLA DOMANDA DI MONETA 1
1.1. LA TEORIA QUANTITATIVA DELLA MONETA 1
1.1.1. Equazione “degli scambi” di Irving Fisher 2
1.1.2. La metodologia di Cambridge 4
1.1.3. La teoria quantitativa moderna 5
1.2. LA TEORIA KEYNESIANA 8
1.2.1. La preferenza per la liquidità. 8
1.2.2. I limiti della teoria keynesiana 14
2. LA TEORIA DELLE SCELTE DI PORTAFOGLIO 17
2.1. LA PROPOSTA DI TOBIN 17
2.1.1. Amanti del rischio 21
2.1.2. Avversi al rischio 22
2.2. SCELTE DI PORTAFOGLIO CONSIDERANDO MOLTEPLICI ALTERNATIVE ALLA MONETA 25
2.2.1. La frontiera rendimento rischio considerando due soli titoli rischiosi 27
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1. Le teorie della domanda di moneta
La domanda di moneta costituisce oggetto di studio di numerosi modelli aventi in comune
due caratteristiche generali: l’ottimizzazione avviene in un singolo periodo; ogni modello
è solamente parziale in quanto viene generalmente considerato un solo motivo per
detenere il bene. Questo però non comporta la non applicabilità dei modelli nelle
circostanze del mondo reale. Ogni modello può essere utilmente applicato a operatori
economici particolari, ad esempio imprese o a persone, ma non può essere applicabile a
tutti gli operatori e in ogni circostanza.
Due motivi speciali per la detenzione di moneta che rappresentano anche il punto di
partenza per un certo numero di teorie sono l’utilizzo come mezzo di scambio
universalmente accettabile (almeno nell’economia interna) e il ruolo come scorta di
valore.
Il seguente capitolo tratterà le principali teorie tradizionali elaborate per spiegare la
domanda di moneta, in particolare la teoria quantitativa di moneta e la teoria della
preferenza per la liquidità. Per la prima ci sarà la spiegazione della versione classica e di
quella della “ scuola di Cambridge. In entrambe le formulazioni la moneta è vista
essenzialmente come mezzo di pagamento e pertanto, la principale determinante della sua
domanda è costituita dal livello delle transazioni. Verrà inoltre esposta anche la
riformulazione della teoria quantitativa in chiave più moderna elaborata successivamente
da Milton Friedman nel (1956). Per la seconda verrà esposta la sua formulazione da parte
di Keynes. Lui accettava l’opinione della scuola di Cambridge circa il movente della
transazione, ma allo stesso tempo introduce due ulteriori ragioni per detenere moneta: per
precauzione e per speculazione. Saranno inoltre riportati, per concludere la spiegazione
di tale teoria, i limiti che essa presenta.
1.1. La teoria quantitativa della moneta La teoria quantitativa della moneta afferma che gli agenti economici domandano moneta
per far fronte alla mancata sincronia nel mondo reale di incassi e pagamenti. Di fatto,
considerando che la moneta in veste di circolante non rende alcun interesse, se le entrate
e le uscite monetarie coincidessero nessuno avrebbe motivo di detenere disponibilità
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liquide infruttifere quando, invece, può acquistare attività sicure con rendimento positivo
(nel mondo classico si assumeva un contesto deterministico poiché i fenomeni di
incertezza non erano modellati in modo esplicito). Nel caso di asincronia tra incassi e
pagamenti, la detenzione di moneta consente di far fronte alle uscite monetarie anche se
contemporaneamente non è prevista nessuna entrata.
Secondo questa impostazione la domanda di moneta dipende da:
- Fattori istituzionali – comportamentali, cui esempi sono la distanza temporale tra due
incassi successivi e le abitudini di spesa degli agenti in tale periodo.
- Fattori di tipo economico, come l’importo ottenuto al momento degli incassi, o la
quantità di acquisti che si desidera effettuare in un certo periodo.
Nel periodo tra due incassi successivi, dati i diversi saldi monetari rilevabili giorno per
giorno a causa dei diversi pagamenti giornalieri previsti, si identificherà come domanda
di moneta di un agente economico la “media” dei saldi monetari detenuti nel periodo
considerato.
La teoria quantitativa della moneta può essere spiegata sia attraverso la versione di Fisher,
rappresentante degli economisti classici, che con quella della scuola di Cambridge. In
entrambi i casi è stata studiata la moneta considerando il suo ruolo di mezzo di pagamento
e quindi, sono stati forniti modelli di domanda della stessa per transazioni.
1.1.1. Equazione “degli scambi” di Irving Fisher
Fisher analizza la domanda di moneta per transazioni partendo dalla seguente identità
contabile:
𝑀𝑉 = 𝑃𝑌
dove M sta per la quantità di moneta in circolazione; V per la velocità di circolazione,
ovvero il numero di volte che la moneta cambia di mano poiché le transazioni comportano
uno scambio di moneta; P rappresenta il livello medio dei prezzi; Y corrisponde al numero
delle transazioni. Stabilito il significato di ogni variabile, l’identità esprime l’uguaglianza
tra il valore delle transazioni intraprese (PY) e l’importo di moneta che “cambia di mano”
(MV) (tale espressione è ovvia quando gli scambi effettuati in un’economia hanno come
contropartita prestazioni monetarie).
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L’identità contabile analizzata esprime la teoria di determinazione del livello dei prezzi.
Infatti, attraverso l’assunzione delle seguenti caratteristiche del comportamento degli
agenti e dell’economia, quali:
a) V è costante perché dipende da fattori che, almeno nel breve – medio periodo, non
variano, come le abitudini di spesa degli agenti, i loro schemi di incasso e di
pagamento;
b) Y rappresenta la quantità di transazioni che corrisponde alla produzione “naturale”
dell’economia, ovvero quando le risorse sono pienamente impiegate. Per cui qualsiasi
cambiamento percentuale nell’offerta di moneta determinerà un uguale cambiamento
percentuale nel livello dei prezzi;
l’uguaglianza ci indica come il livello dei prezzi sia proporzionale alla quantità di moneta
in circolazione, con un fattore di proporzionalità pari al rapporto tra V e T:
da 𝑀𝑉 = 𝑃𝑌 segue infatti 𝑃 = (𝑉/𝑇) ∗ 𝑀
Dati quindi V e T costanti, un aumento di M comporta necessariamente un proporzionale
aumento dei prezzi. L’inflazione risulta così un fenomeno esclusivamente monetario.
Con tale impostazione è possibile ricavare una teoria della domanda di moneta solo
indirettamente. Infatti, dati V e T, per ogni livello di P esiste una sola quantità di moneta
compatibile con il desiderio degli agenti di effettuare gli scambi. La domanda reale di
moneta è pari al rapporto T/V, e risulta quindi rigida rispetto al livello dei prezzi:
da 𝑀𝑉 = 𝑃𝑌 segue infatti 𝑀/𝑃 = 𝑇/𝑉
La domanda nominale di moneta, dipende invece dal livello dei prezzi:
da 𝑀𝑉 = 𝑃𝑌 segue 𝑀 = 𝑃 ∗ (𝑇/𝑉)
Una volta ottenuta la domanda di moneta, bisogna comunque tener conto che le due
assunzioni alla base della formulazione “Fisheriana” non hanno trovato riscontro
dall’evidenza empirica poiché, né la velocità di circolazione della moneta è costante,
tantomeno il sistema economico è caratterizzato sempre da condizioni di pieno impiego.
Nonostante ciò, tale teoria propone una relazione tra moneta e prezzi che rientra tra le
poche regolarità empiriche forti dell’economia. Infatti, è stato osservato statisticamente
che il tasso di crescita medio della moneta in circolazione e il tasso di inflazione sono
correlati con valore pari a 1 se si considera un campione sufficientemente ampio di paesi,
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in un periodo sufficientemente lungo. In realtà, la Teoria Quantitativa della Moneta va
oltre la semplice correlazione tra le due variabili poiché esprime anche la direzione di
casualità dalla moneta ai prezzi. Infatti, la correlazione sarebbe osservabile anche nel caso
contrario in cui è il livello dei prezzi che incide sulla moneta.
1.1.2. La metodologia di Cambridge
La formulazione della scuola di Cambridge differisce da quella “Fisheriana” perché
esprime direttamente una teoria della domanda di moneta. Essi derivano la cosiddetta
“equazione delle scorte” dalla massimizzazione di una funzione di utilità. Tale funzione,
che esprime le preferenze degli agenti economici, si caratterizza per la considerazione
della moneta tra gli argomenti. Infatti, la scuola di Cambridge riconosce che gli individui
possono desiderare di detenere moneta per le stesse ragioni generiche per cui possiedono
beni, ovvero perché produce utilità o soddisfazione: l’utilità deriva dall’utilizzo della
moneta come mezzo di scambio nelle transazioni.
L’equazione ottenuta dal processo di ottimizzazione vincolata (gli agenti devono
rispettare un vincolo di bilancio) è la seguente:
𝑀+ = 𝑘𝑃𝑌
da cui si evince che la domanda di moneta dipenderà dal reddito monetario PY, il quale
è definito dal prodotto del livello dei prezzi P per il reddito reale Y, secondo un certo
coefficiente di proporzionalità k. Quest’ultimo esprime la frazione del reddito monetario
che gli agenti desiderano detenere sotto forma di scorte monetarie e si caratterizza per
essere:
- inversamente proporzionale alla velocità di circolazione della moneta: più moneta
viene detenuta, meno velocemente la moneta circola, dati determinati scambi da
effettuare.
- non costante cosi come assunto da Fisher: k dipende esplicitamente dalla quantità di
moneta complessivamente a disposizione. Se questa aumenta, diminuisce l’utilità
marginale del detenere saldi monetari aggiuntivi e quindi k scende.
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Con l’equazione delle scorte rispetto a quella degli scambi, si passa inoltre da un concetto
di “flussi” monetari”, necessari per effettuare gli scambi in un certo periodo, ad uno stock
di domanda di una determinata attività.
1.1.3. La teoria quantitativa moderna
Nel 1956, Milton Friedman ha rielaborato in chiave più moderna la teoria quantitativa.
Mentre gli economisti classici si chiedevano le ragioni che spingono a detenere moneta,
lui si concentrò su quali siano i fattori che ne determinano la quantità richiesta.
Friedman discute la funzione dell’utilità e il vincolo di bilancio in termini molto generali.
Per la funzione di utilità non propone nessuna funzione esplicita, ma si limita a notare che
vi sarà un’utilità marginale decrescente della moneta e che tutte le altre attività e passività
finanziarie, compresi i beni reali, possono costituire un’alternativa al possesso di moneta
e apparire pertanto come argomento nella funzione di utilità. Per quanto riguarda il
vincolo di bilancio, Friedman indica che l’importo massimo che un individuo può
convertire in moneta è dato dalla sua ricchezza finanziaria netta e da quella fisica. La
prima corrisponde alla ricchezza finanziaria lorda meno le passività finanziarie (es. le
anticipazioni bancarie), la seconda comprende i beni durevoli di consumo e per la casa.
In linea di principio, nella ricchezza finanziaria netta rientrerebbe la ricchezza umana
considerata sotto forma di valore attuale scontato del reddito futuro da lavoro. Di fatto,
nella definizione del vincolo di bilancio, Friedman tiene conto di tale ricchezza poiché la
considera tra le determinanti della domanda di moneta attraverso il rapporto fra la
ricchezza umana e quella non umana. In tal modo però, si discosta dalle convenzioni
sociali che al contrario non considerano la ricchezza umana data l’esistenza
dell’incertezza circa il futuro che limita l’ambito entro cui l’individuo può cambiare il
reddito futuro da lavoro per aumentare il possesso di moneta.
Nella Teoria Quantitativa della Moneta non esiste alcuna procedura formale di
massimizzazione.
Friedman, per capire da cosa dipenda la richiesta di moneta, presenta un elenco di
variabili che possano entrare nella funzione di domanda. Attraverso i dati a livello
macroeconomico stima i coefficienti delle determinanti introdotte e verifica quali
risultino più importanti. Le variabili sono:
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a) Il prezzo dei beni che la moneta può acquistare, indicato dal livello generale dei prezzi
(P), il cui reciproco misura il potere di acquisto della moneta stessa, e quindi il suo
valore come mezzo di pagamento;
b) La variazione attesa del livello generale dei prezzi, dato che la moneta può essere
domandata oggi per essere utilizzata come intermediario degli scambi in una data
futura, -./01 .+0
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+314
c) Il rendimento della moneta (rm) e delle attività ad essa alternativa, come obbligazioni
(rb) ed azioni (re);
d) La ricchezza di un agente (W) e la sua composizione tra ricchezza patrimoniale e non
patrimoniale (ricchezza umana ottenuta con la capitalizzazione di redditi da lavoro),
dato che agenti con ugual ricchezza, ma di diversa fonte possono razionalmente
compiere scelte distinte: Friedman indica con la lettera w la quota della ricchezza
patrimoniale sul totale;
e) Le preferenze dell’agente (u), come il grado di avversione al rischio espresso dalla
curvatura della funzione di utilità.
È possibile allora scrivere la domanda di moneta così come segue:
𝑚+ = 𝑓[𝑃,1𝑃𝑑𝑃;
𝑑𝑡 ,𝑊,𝑤, 𝑢, 𝑟A, 𝑟B, 𝑟;]
Per poter stimare una domanda di moneta macroeconomica sono necessarie alcune ipotesi
tecniche semplificatrici come:
- l’assunzione di una dispersione costante nel tempo dei valori delle variabili intorno
alla media,
- l’assunzione del tasso di rendimento della moneta pari a zero,
- l’approssimazione del valore della ricchezza attualizzando, con la media dei
rendimenti, il reddito permanente in termini nominali (Y).
Si avrà allora:
𝑀+ = 𝐹[𝑃,1𝑃𝑑𝑃;
𝑑𝑡 , 𝑌, 𝑤, 𝑢, 𝑟B, 𝑟;]
Considerando il postulato di razionalità degli agenti, la funzione di domanda di moneta
deve risultare lineare nel reddito nominale e nei prezzi affinché gli agenti non soffrano di
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“illusione monetaria”: la domanda di moneta deve variare in modo proporzionale al
variare di prezzi e reddito. Analiticamente, questo richiede che per ogni λ si dovrà avere:
𝐹[𝜆𝑃,1𝑃𝑑𝑃;
𝑑𝑡 , 𝜆𝑌, 𝑤, 𝑢, 𝑟B, 𝑟;] = 𝜆𝐹[𝑃,1𝑃𝑑𝑃;
𝑑𝑡 , 𝑌, 𝑤, 𝑢, 𝑟B, 𝑟;] = 𝜆𝑀+
Ponendo λ = 1/P, si può ottenere la domanda di moneta in termini reali che risulta essere
una funzione del reddito reale Y/P. Infatti:
𝑀+
𝑃 = 𝐹[1𝑃𝑑𝑃;
𝑑𝑡 ,𝑌𝑃 ,𝑤, 𝑢, 𝑟B, 𝑟;]
In tal modo Friedman ha stimato una domanda di moneta dalla quale si evince la scarsa
sostituibilità con altre attività finanziarie. Infatti, i coefficienti associati ai rendimenti di
attività alternative erano spesso bassi e poco significativi. Le variabili principali per
spiegare la domanda di moneta risultavano quindi reddito e prezzi, in accordo con la teoria
classica che enfatizzava il ruolo di mezzo di pagamento. La funzione stimata appariva
inoltre piuttosto stabile, consentendo l’utilizzo della politica monetaria ai fini della
stabilizzazione ciclica.
Si noti che la riproposizione anche formale della teoria quantitativa si può ottenere dalla
funzione
𝜆𝑀+ = 𝐹[𝜆𝑃, /0+02
+3, 𝜆𝑌, 𝑤, 𝑢, 𝑟B, 𝑟;]
Ora ponendo λ = 1/Y. Si ottiene
𝑀+
𝑌 = 𝐹 G𝑃𝑌 ,1𝑃𝑑𝑃;
𝑑𝑡 , 𝑤, 𝑢, 𝑟B, 𝑟;H
Poiché Y indica il reddito “nominale”, se si definisce con V(.) = 1 / F (.) la velocità di
circolazione della moneta come una funzione di un numero limitato di variabili, in modo
formalmente equivalente alla teoria quantitativa si ottiene:
𝑀+𝑉(. ) = 𝑌
Questa equazione, che esprime la condizione di equilibrio sul mercato della moneta,
consente di spiegare la famosa affermazione monetarista che “la moneta è l’unica cosa
che conta” nell’economia. Infatti, da MV(.) = Y segue che il reddito nominale è
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determinato dallo stock di moneta in circolazione per la velocità di circolazione. Se varia
la quantità di moneta ci sarà di conseguenza una variazione del reddito pari alla velocità
di circolazione. Ipotizzando che la funzione in oggetto sia sufficientemente stabile, è noto
il valore del moltiplicatore della moneta:
𝑑𝑌/𝑑𝑀 = 𝑉(. )
In conclusione, dalla funzione ricavata si osserva che, nel breve periodo e fintanto che la
capacità produttiva è sottoutilizzata, la politica monetaria ha effetti reali: variazioni
dell’offerta di moneta inducono variazioni del reddito nominale che dipendono sia da
cambiamenti nel valore reale della produzione e del reddito che dalla variazione dei
prezzi. Tuttavia, una volta raggiunta un livello di equilibrio caratterizzato dal pieno
impiego delle risorse, è valida la proposizione di neutralità della moneta, poiché
variazioni della quantità di moneta indurranno solo equi proporzionali variazioni nei
prezzi.
1.2. La teoria keynesiana
La teoria di Keynes nasce dalla considerazione che vi è una per preferenza per la liquidità
da parte degli agenti economici per due motivi diversi rispetto alla Teoria Quantitativa
della Moneta: per precauzione e per speculazione. La moneta è detenuta per motivi
precauzionali in quanto gli incassi e i pagamenti possono variare in modo aleatorio. La
moneta è invece detenuta per motivi speculativi, poiché viene considerata come una
scorta di valore alternativa al possesso di obbligazioni il cui prezzo è incerto, e di
conseguenza posso verificarsi plusvalenze e minusvalenze. Nella scelta fra moneta e
“obbligazioni”, gli individui cercano di massimizzare la ricchezza finale attesa.
1.2.1. La preferenza per la liquidità.
La teoria keynesiana si caratterizza nel considerare che la moneta svolga la funzione di
riserva di valore oltre alle funzioni di mezzo di pagamento e misura del valore, già
evidenziate dalla teoria quantitativa. In tal senso, la moneta rappresenta una tra le tante
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attività finanziarie che, insieme alle varie attività reali, costituiscono strumenti di
allocazione delle disponibilità a disposizione degli agenti. Quindi, la moneta compete allo
stesso modo con tutte queste altre attività, da cui si distingue però per il possesso di alcune
proprietà in modo “caratterizzante”. In particolare, la moneta è l’attività più “liquida” in
quanto immediatamente spendibile per effettuare transizioni di ogni genere. Per liquidità
infatti, si intende la capacità di un’attività finanziaria di convertirsi rapidamente a basso
costo in moneta circolante e di essere immediatamente spendibile. La moneta possiede
tale proprietà in modo caratterizzante, ma non in modo esclusivo. In misura diversa è
posseduta infatti, anche da molte altre attività, tanto che è possibile ordinare tutte le
attività finanziarie in funzione del loro grado di liquidità, in una scala con al vertice la
moneta circolante. Gli agenti economici considerano preziosa la caratteristica di liquidità
della moneta tanto da essere disposti a detenere quest’ultima anche se in assenza di un
rendimento, o comunque a fronte di tassi di rendimento meno elevati rispetto ad attività
concorrenti: il differenziale di rendimento rappresenta un costo che gli agenti economici
sono disposti a pagare per detenere disponibilità in forma di saldi monetari e quindi,
godere dei benefici in termini di servizi di liquidità offerti dalla moneta stessa.
Quando gli agenti economici devo decidere se allocare le proprie disponibilità in forma
monetaria o in forma alternativa, tengono in considerazione una serie di elementi
rilevanti. In particolare, la moneta può risultare più attraente poiché è facilmente e
rapidamente trasferibile, a costo zero, e garantisce il valore nominale delle somme
investite. Da non sottovalutare è anche il fatto che la moneta si configura come un
investimento non particolarmente rischioso, se non per la possibilità di furto o
smarrimento durante un viaggio; tuttavia presenta anch’essa elementi non positivi, ovvero
che non garantisce il valore reale dell’investimento a causa della possibile erosione di
potere d’acquisto dovuta all’inflazione ed ha una redditività bassa, o addirittura nulla. In
alternativa, ogni individuo può decidere di tenere i propri risparmi ricorrendo ad attività
finanziarie di diversa tipologia offerte dai moderni sistemi finanziari.
L’analisi in dettaglio della scelta di un agente economico razionale relativa alla forma in
cui investire la propria ricchezza parte dall’ammettere, in primo luogo, solo due
strumenti: la moneta circolante e una obbligazione a reddito fisso. La moneta è definita
un bene a “capitale certo”, il cui valore nominale è noto con certezza alla fine del periodo
fissato per il possesso. L’obbligazione rappresenta per l’individuo il bene alternativo
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disponibile che garantisce un rendimento superiore a quello della moneta, ma anche
rischioso poiché le variazioni dei tassi di interesse di mercato incidono sul suo prezzo. Di
conseguenza, le obbligazioni non offrono, se non vincolandosi ad attenderne la scadenza
contrattuale, certezza del valore nominale dell’investimento effettuato. Infatti, nel caso in
cui un individuo debba liquidare prima della scadenza il proprio investimento, non
avrebbe garanzia di ottenere una somma uguale o superiore di quella corrisposta al
momento dell’acquisto del titolo stesso. In questo senso, se da un lato il titolo
obbligazionario offre un maggior rendimento rispetto alla moneta, dall’altro esso presenta
anche una maggiore rischiosità, relativa alla possibile eventualità di perdite (o guadagni)
in conto capitale associati alla variazione nel tempo del corso del titolo stesso. La moneta
assicura contro tali rischi, pur a fronte di rendimenti minori (o nulli). È ovvio allora che
un’agente economico sceglierà tra titoli o moneta, o una loro combinazione, in base alle
preferenze nei confronti di rischio e rendimento atteso. Naturalmente, un aumento del
tasso d’interesse spinge l’investimento nei titoli remunerativi riducendo la domanda di
moneta e viceversa, una maggiore rischiosità percepita sui mercati spinge più individui a
detenere le proprie disponibilità in forma liquida. Le principali previsioni della teoria di
Keynes sono, in primo luogo, che gli individui non detengono un portafoglio diversificato
di beni, ma possiedono o solo obbligazioni o solo moneta. In secondo luogo, solamente
nel caso della domanda aggregata, la funzione di moneta risulta tendente al basso rispetto
al tasso d’interesse. Infine, la teoria prevede anche la nota trappola della liquidità, ovvero
quando, in certe circostanze, l’elasticità della domanda di moneta rispetto al tasso
d’interesse risulta infinita.
La teoria keynesiana della preferenza per la liquidità è stata sintetizzata con efficacia da
James Tobin (1958). Egli analizza il problema di scelta di un singolo individuo con a
disposizione una certa somma (W) che può decidere di allocare tra due attività alternative,
la moneta (M) e un titolo obbligazionario (B). Quest’ultimo è caratterizzato da un certo
valore nominale indicato con P e paga, al termine di ogni periodo, una cedola
proporzionale al valore nominale e indicata con c. Inoltre, alla scadenza pattuita, il titolo
rimborsa l’intero valore nominale.
Per un titolo con scadenza ad n anni, il valore di mercato (V) all’inizio del periodo può
calcolarsi attualizzando la serie dei futuri flussi di pagamento che il titolo stesso genera.
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Assumendo per semplicità un tasso di interesse di mercato costante nel tempo, il valore
sarà:
𝑉 =𝑐𝑃
(1 + 𝑅) +𝑐𝑃
(1 + 𝑟)M +. . . +𝑐𝑃
(1 + 𝑟)(NO/)+
𝑐𝑃(1 + 𝑟)N
Per semplicità di calcolo, Tobin assume che il titolo in questione eroga una rendita
perpetua, cioè paga una somma costante per un periodo infinito di tempo. Assumendo cP
= 1 euro, è facile verificare che il valore di mercato di tale titolo, per n che tende ad
infinito, diviene 1/r:
𝑉 =1
(1 + 𝑟)+
1(1 + 𝑟)M
+. . . +1
(1 + 𝑟)(NO/)+. . . = P
11 + 𝑟Q
1
1 − 11 + 𝑟
= P1
1 + 𝑟Q1 + 𝑟𝑟
= 1/𝑟
Il valore di mercato di un titolo analogo, ma che paga una cedola costante esattamente
pari al tasso di interesso corrente (cP=r), sarà 1. Il valore dello stesso titolo, calcolato in
un periodo futuro, dipenderà invece dal tasso di interesse che sarà in vigore in quel
momento. In particolare, definendo con re le attese sul tasso di interesse futuro, il prezzo
futuro del titolo in questione può scriversi così:
𝑉 = 𝑐𝑃𝑟; =
𝑟𝑟;
Per il soggetto in esame scegliere di investire in moneta significa ottenere un rendimento
nullo e conservare il valore nominale delle proprie disponibilità. Viceversa, investire nel
titolo obbligazionario consente di ricevere (r) come rendimento in conto interesse
esponendosi però, se l’orizzonte temporale di riferimento è di un periodo, al rischio di
perdite o guadagni in conto capitale. Quindi, considerando il titolo con valore di mercato
pari a 1, e definendo con (g) la differenza percentuale tra prezzo futuro atteso e prezzo
corrente del titolo, avremo g = r/ re – 1. Il guadagno complessivo derivante
dall’investimento in titoli (G), sarà allora definibile come la somma del guadagno in conto
interessi (r) e del guadagno o perdita in conto capitale (g):
𝐺 = 𝑟 + 𝑔 = 𝑟 + 𝑟/𝑟; − 1
A questo punto, per capire in modo banale la scelta di investimento dell’agente
economico, che avviene sotto il vincolo M + B = W, si assume una “certezza”,
chiaramente “eroica”, nelle aspettative relative al valore futuro del tasso di interesse. Si
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tratta di una ipotesi semplificatrice, anche criticata dalla teoria delle scelte di portafoglio,
che permette appunto banalmente di risolvere il problema di scelta poiché, conoscendo il
valore di tutte le variabili, il soggetto avrà convenienza ad investire in titoli se G > 0, in
moneta se G < 0, e sarà indifferente se G = 0.
La condizione G = 0 definisce un certo valore del tasso di interesse corrente che Tobin
chiama “tasso critico”. In tal caso, vi è indifferenza nell’investire in moneta e titoli, poiché
entrambe le scelte danno un rendimento complessivo nullo in termini nominali. Tale
tasso critico dipende dalle attese circa il tasso futuro di interesse, risultando pari al suo
valore attuale:
infatti, se G = 0 segue che rcrit = re / (1 + re)
Bisogna comunque sottolineare che il valore del tasso critico è soggettivo, e per questo
diverso per ogni agente, poiché gli individui non hanno necessariamente le stesse
aspettative circa il valore futuro del tasso di mercato. Questo comporta che l’assunzione
“eroica” di certezza delle aspettative deve essere considerata a livello del singolo agente,
e la domanda di moneta keynesiana a scopo “speculativo” va vista come una domanda
microeconomica. Per ogni individuo la domanda di moneta sarà nulla se il tasso di
interesse corrente è superiore al “suo” tasso critico (infatti in questo caso G > 0), sarà pari
all’intera disponibilità di ricchezza se il tasso corrente di interesse sarà minore del tasso
critico (G < 0), è sarà indeterminata per r = rcrit = re / (1 + re).
Poiché all’aumentare del tasso corrente sempre meno agenti si aspettano un tasso di
interesse superiore a quello corrente, con conseguente preferenza ad un acquisto
posticipato dei titoli, si evince una relazione inversa tra domanda di moneta e tasso di
interesse di mercato che si può ottenere solo aggregando a livello dell’intera economia le
scelte individuali. A livello macroeconomico, si può allora disegnare la domanda di
moneta “speculativa”, risultante dalla teoria keynesiana della preferenza per la liquidità,
come nella figura che segue:
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Osservando il grafico è possibile notare due casi caratteristici di tasso d’interesse
corrente:
- Il tasso è così elevato che nessun agente dell’economia sarà disposto a detenere
moneta, ma tutti sceglieranno di investire solo in titoli.
- Il tasso è così basso che tutti gli agenti decidono di detenere moneta, perché si
attendono un aumento del tasso di interesse in futuro e quindi una riduzione del prezzo
a cui acquistare titoli.
Quest’ultimo caso corrisponde al fenomeno della “trappola della liquidità”, ovvero
quando la domanda di moneta risulta infinitamente elastica rispetto al tasso di interesse e
quindi, considerando solo il canale “tasso di interesse” come meccanismo di trasmissione
degli impulsi all’economia reale, qualsiasi politica monetaria perde efficacia come
strumento di stabilizzazione delle fluttuazioni del reddito. Nel caso della trappola infatti,
una variazione dell’offerta di moneta, assunta esogena, non è in grado di far ridurre il
tasso di interesse che ha già raggiunto il suo valore minimo. Non si può quindi avere
nessuno stimolo agli investimenti ed alla spesa per consumi durevoli.
Infine, confrontando la teoria keynesiana con quella classica è possibile constatare la
presenza di un distacco netto: mentre la prima teoria considera il tasso d’interesse come
una grandezza essenzialmente di carattere monetario, dato che il suo valore di equilibrio
può pensarsi ottenuto dall’intersezione tra una offerta esogena di moneta e una domanda
decrescente rispetto al tasso, la seconda ritiene che il tasso di interesse sia determinato in
equilibrio sui mercati reali dall’uguaglianza tra risparmi e investimenti.
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1.2.2. I limiti della teoria keynesiana
La teoria keynesiana è stata oggetto di diverse critiche per alcuni limiti che presenta e che
verranno di seguito esposti:
1. La “rigida separazione” tra moneta transattiva e speculativa: Keynes scrive una
domanda di moneta che risulta ottenuta dalla somma algebrica delle due componenti,
rispettivamente dipendenti dal reddito e dal tasso di interesse. Poiché nella realtà la
moneta svolge contemporaneamente più funzioni, questa caratteristica viene a
mancare se nella formulazione della domanda di moneta si utilizza la somma
algebrica (che crea quindi distinzione tra la componente transattiva e speculativa) e
lo si fa non per semplificare l’esposizione. Questo limite può essere superato se si
deriva una domanda di moneta a scopo transattivo in cui “conti” anche il tasso di
interesse, come nel modello cash in advance o nel modello delle scorte di Baumol.
Il modello delle scorte di Baumol: si tratta di un modello molto semplice usato per
evidenziare alcuni aspetti molto realistici della scelta di detenere moneta da parte di
un singolo individuo. Infatti, si assume che un agente debba effettuare, in un certo
periodo, un certo ammontare di transazioni (T) con l’utilizzo esclusivo di contanti. La
copertura di questi pagamenti avviene con l’accredito, all’inizio di ogni periodo, del
proprio stipendio in un conto corrente bancario che rende un tasso di interesse pari a
r sulle somme ivi detenute. Tuttavia, dato che i pagamenti vengono effettuato in
contanti, questo agente dovrà disinvestire periodicamente alcune somme per
provvedere alle transazioni. Si assume che ogni operazione di disinvestimento abbia
un costo fisso, rappresentativo per esempio del tempo perduto per recarsi al luogo di
prelievo e dell’eventuale commissione praticata dalla banca stessa. Il nostro agente si
trova così di fronte ad un chiaro trade-off. Se disinveste l’intera somma necessaria ad
effettuare i pagamenti (T), sopporterà bassi costi di disinvestimento, ma rinuncerà
all’interesse corrisposto sulle somme detenute in banca. Se invece detiene gran parte
dei saldi in banca, dovrà pagare i costi delle varie operazioni di disinvestimento. Il
modello assume anche che i pagamenti siano distribuiti in modo uniforme nel periodo
considerato, il che implica che la somma disinvestita (C) di volta in volta sia costante.
A questo punto, il nostro agente sceglierà l’ammontare ottimo da disinvestire (o il
15
numero ottimale di operazioni di disinvestimento) tenendo presente il trade off
descritto sopra.
Il problema, in termini formali, risulta così:
𝑀𝑖𝑛𝐶𝑇 = 𝑡𝑐 ∙ (𝑇/𝐶) + 𝑖(𝐶/2) C
Dove CT indica la funzione di costo totale data dalla somma dei costi associati alle
operazioni di disinvestimento pari a tc(T/D), mentre (tc) è il costo per ogni operazione
di disinvestimento e T/C il numero di disinvestimenti se l’intero ammontare di
transazioni va effettuato nel periodo in esame) e del costo opportunità associato al
mancato guadagno in conto interesse sulla giacenza media relativa alle somme
disinvestite: data l’assunzione, per semplicità, di pagamenti uniformi, tale costo è pari
a i(C/2).
La condizione del primo ordine per un minimo è:
𝑑𝐶𝑇/𝑑𝐶 = 0 −𝑡𝑐 ∙ 𝑇/𝐶M + 𝑖/2 = 0
Da cui, 𝐶∗ = (2𝑡𝑐 ∙ 𝑇/𝑖)//M
L’ammontare ottimo1 da disinvestire per effettuare le transazioni (C*) risulta una
funzione decrescente del tasso di interesse (i), mentre aumenta al crescere
dell’ammontare di transazioni, sia pure in modo meno che proporzionale dato
l’esponente minore di 1.
Una volta ottenuto (C*), la funzione di domanda di moneta, definita come giacenza
media, è semplicemente Md= C*/2
𝐶∗2[ = (𝑡𝑐 ∙ 𝑇/2𝑖)//M,
mentre il numero delle operazioni di disinvestimento sarà (T/C)*.
Bisogna però precisare che l’impostazione del modello ha trattato (C) come una
variabile continua, quindi è teoricamente possibile che il rapporto (T/C) non risulti
essere un numero intero, cosa ovviamente poco realistica. Di conseguenza, è
necessario interpretare la formula teorica ricavata solo come una approssimazione del
1 Poiché la derivata seconda è strettamente positiva, D* è propriamente un minimo della funzione di costo
totale.
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comportamento effettivo di un agente razionale che, nella realtà, dovrà scegliere (C)
vincolando il rapporto (T/C) ad essere un numero intero.
2. L’assenza, a livello macroeconomico, di qualsiasi possibilità di “diversificazione” di
portafoglio: secondo la teoria keynesiana, un agente economico sceglierà di detenere
o solo moneta o solo titoli tranne quando il tasso corrente è esattamente pari a quello
critico, per cui la scelta è totalmente irrilevante. Nella realtà, ogni agente detiene
simultaneamente sia moneta che altre attività. Un modello in cui questo fenomeno
non venga spiegato risulta insoddisfacente.
3. La rilevanza di un solo tasso di interesse dovuta dalla assunzione di perfetta
sostituibilità tra tutte le attività finanziarie distinte dalla moneta: nella realtà, esistono
più tassi di interesse, e l’effetto di una data variazione di tasso sulla domanda di
moneta è diverso a seconda del tasso di interesse che si considera. L’equilibrio sul
mercato delle attività finanziare non può limitarsi a determinare un solo tasso di
interesse, ma deve spiegare l’intera struttura esistente dei tassi di rendimento associati
a diversi strumenti e prodotti finanziari. Vi sono due strade per raggiungere tale scopo:
a. Specificare un modello “strutturale” di domanda ed offerta di diverse attività
considerate come imperfettamente sostituibili tra loro, e risolverlo.
b. Utilizzare semplici modelli in forma ridotta che partono dalla considerazione
di relazioni di equilibrio, o assenza di possibilità di arbitraggio, tra i vari tassi
di interesse.
4. La non considerazione della ricchezza come variabile determinante delle scelte
finanziarie dei singoli individui, cosa che diviene invece essenziale in un contesto
aleatorio, in cui si considera esplicitamente il rischio associato ai diversi investimenti.
A questo proposito, vale anche osservare come l’assunzione di aspettative “certe” dei
singoli agenti sul valore futuro del tasso di interesse sia molto insoddisfacente, e non
consenta una trattazione adeguata dell’incertezza associata alle scelte di investimento.
Questi limiti vengono superati dalla teoria delle scelte di portafoglio.
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2. La teoria delle scelte di portafoglio
La teoria delle scelte di portafoglio consiste in uno sviluppo della teoria keynesiana
nell’ambito della domanda di moneta, privilegiando la sua funzione di riserva di valore.
In particolare, tale teoria mira a superare uno dei limiti della teoria per la preferenza alla
liquidità: la scelta d’angolo (tutto moneta – tutto titoli) effettuata a livello
microeconomico da ogni agente razionale. Infatti, applicando la teoria ad un agente
razionale avverso al rischio si ottiene generalmente il risultato della diversificazione di
portafoglio, e cioè della razionalità nel decidere di investire il proprio portafoglio
individuale parte in moneta e parte in titoli fruttiferi. La moneta viene domandata da
agenti razionali per la protezione che offre contro il rischio associato ad investimenti in
titoli fruttiferi. D’altronde a livello macroeconomico, si conferma il risultato keynesiano
di una domanda di moneta a scopo finanziario inversamente correlata con le variazioni
del tasso di interesse.
2.1. La proposta di Tobin
La teoria delle scelte di portafoglio consiste in uno sviluppo della teoria keynesiana
nell’ambito della domanda di moneta, privilegiando la sua funzione di riserva di valore.
In particolare, tale teoria mira a superare uno dei limiti della teoria per la preferenza alla
liquidità: la scelta d’angolo (tutto moneta – tutto titoli) effettuata a livello
microeconomico da ogni agente razionale. Infatti, applicando la teoria ad un agente
razionale avverso al rischio si ottiene generalmente il risultato della diversificazione di
portafoglio, e cioè della razionalità nel decidere di investire il proprio portafoglio
individuale parte in moneta e parte in titoli fruttiferi. La moneta viene domandata da
agenti razionali per la protezione che offre contro il rischio associato ad investimenti in
titoli fruttiferi. D’altronde a livello macroeconomico, si conferma il risultato keynesiano
di una domanda di moneta a scopo finanziario inversamente correlata con le variazioni
del tasso di interesse.
Tobin ci propone un modello in cui un individuo si trova a decidere se investire la propria
ricchezza in titoli o in moneta. Un portafoglio, rappresentativo della ricchezza posseduta
18
dall’individuo, è costituito da una quota di moneta (x) e una di titoli (y) che sommate
risultano pari a 1. Ovviamente se x + y = 1, sarà allora x = (1 – y).
Inoltre, Tobin suppone che le due quote non dipendano dall’entità assoluta in dollari della
somma inizialmente a disposizione per fini speculativi. Valori negativi di x e y sono
esclusi per definizione; solo lo stato e il sistema bancario possono emettere moneta e titoli
consolidati.
Nello sviluppo della teoria sulle scelte di portafoglio, Tobin (1958) assume che gli
individui decidano come investire le proprie disponibilità sulla base del rischio e del
rendimento atteso ad una data futura prestabilita associati all’investimento. Risulta così
necessario calcolare il rendimento atteso ed il rischio di un generico portafoglio unitario
(x, y). Mentre la moneta è caratterizzata dal fornire un rendimento nullo, ma anche
dall’assenza di rischio, questione diversa presentano i titoli. Di conseguenza, il rischio ed
il rendimento generico del portafoglio dipendono dall’investimento in titoli rischiosi.
Tobin suppone che un individuo non sia certo del tasso futuro d’interesse sui titoli
consolidati; allora l’investimento in tali titoli implica un rischio di perdita o di guadagno
in conto capitale. Il titolo in particolare avrà un rendimento complessivo pari alla somma
della cedola in conto interesse e del guadagno o perdita in conto capitale associati alle
variazioni del suo corso. Queste variazioni evidenziano il rischio che un investimento in
titoli comporta. Quanto più elevata sarà la quota di ricchezza detenuta in titoli, tanto
maggiore sarà il rischio che l’investitore si assume. Nello stesso tempo l’aumento della
quantità di titoli detenuti aumenta il rendimento atteso dallo stesso investitore.
Assumendo che questi titoli offrano una cedola in conto interessi costante e pari a (r), il
rendimento complessivo di un portafoglio R sarà quindi dato dal rendimento associato ad
un titolo per la quota di titoli detenuta nel portafoglio stesso. In formule:
1) R = y (r + g) 0 ≤ y ≤ 1
Tuttavia, questo rendimento è noto all’investitore solo ex post. Al momento di prendere
la decisione di investire, l’agente non sa quale sarà il prezzo futuro del titolo (o il valore
futuro del tasso di interesse). Dovrà formulare una aspettativa, e basare le proprie
decisioni sul rendimento “atteso” (ex ante) e non su quello effettivo. Tobin qui si discosta
dalla analisi keynesiana in cui le aspettative sul tasso futuro di interesse erano
determinate, da ogni agente, sulla base della conoscenza di un certo livello “normale” del
tasso di interesse, da cui discendeva un certo guadagno o una certa perdita in conto
19
capitale. Tobin, invece, suppone che l’investitore sia incerto circa l’entità di (g), ma basi
le sue azioni su una stima della distribuzione di probabilità del guadagno in conto capitale.
Questa distribuzione di probabilità si ipotizza normale, centrata sullo zero ed
indipendente dal livello di (r), il tasso corrente sui titoli. Questo è coerente con due
assunzioni:
1. Ogni agente riterrà ugualmente probabili sia un guadagno che una perdita in conto
capitale indipendentemente dal valore assunto dal tasso.
2. All’evento che il prezzo dei titoli rimanga costante (il che implica un tasso di interesse
futuro uguale a quello corrente) viene assegnata la probabilità massima (ma diversa
da 1).
Nell’analisi di Keynes invece, si assume la certezza nella previsione sul valore futuro del
tasso di interesse assegnando così, per ogni individuo, probabilità 1 alla realizzazione del
tasso ritenuto “normale” a cui corrispondeva un certo guadagno o perdita in conto
capitale. Graficamente le due ipotesi si presentano come segue:
Nella teoria delle scelte di portafoglio, l’assunzione che la distribuzione di probabilità sul
guadagno o perdita in conto capitale sia normale implica che il suo valore atteso sia nullo.
Gli agenti non avranno dunque aspettative di guadagni o perdite in conto capitale, ed il
rendimento “atteso” di portafoglio sarà allora semplicemente:
2) E(R) = yr
Il rischio inerente ad un portafoglio, secondo Tobin, deve essere misurato dalla
deviazione standard di R, σR. La deviazione standard è una misura della dispersione dei
20
rendimenti possibili attorno al valore medio µR. Un’alta deviazione standard significa, in
parole povere, un’alta probabilità di ampie deviazioni da µR, sia positive che negative.
Una deviazione standard bassa significa bassa probabilità di ampie deviazioni da µR fino
a raggiungere il caso estremo di una deviazione standard pari a zero, che indicherebbe la
certezza di ricevere il rendimento µR. Così, un portafoglio ad alto σR offre all’investitore
la prospettiva di ampi guadagni in conto capitale al prezzo di equivalenti prospettive di
ampie perdite in conto capitale. Un portafoglio a basso σR protegge l’investitore dalle
perdite in conto capitale, e parimenti gli fornisce scarse prospettive di guadagni
insolitamente elevati.
La deviazione standard di R dipende dalla deviazione standard di g, σg, e dalla quantità
investita in titoli:
3) σR = yσg
Una volta ricavate le espressioni del rendimento atteso e del rischio di portafoglio, la loro
combinazione permette di ottenere la cosiddetta frontiera rendimento rischio, il luogo di
tutte le combinazioni di rischio e rendimento atteso ottenibili da parte dell’agente. Infatti,
ottenendo dall’equazione 3) y = σR / σg e successivamente sostituendo y nell’espressione
2) otteniamo:
4) E(R) = (σR / σg)r = (r/ σg) σR
Il rendimento atteso di portafoglio può vedersi come una funzione lineare del rischio
totale di portafoglio. Il suo coefficiente angolare è definito dal rapporto tra tasso di
interesse e rischio associati alla detenzione dell’attività rischiosa. Graficamente risulta
come segue:
Un agente che desideri un rendimento atteso elevato dovrà necessariamente accettare un
adeguato rischio di portafoglio. Ovviamente, la decisione ottimale per ogni singolo agente
21
dipenderà dalle sue preferenze verso rendimento e rischio. Queste preferenze possono
essere di diverso tipo e sono rappresentabili attraverso opportune funzioni di utilità i cui
argomenti sono il rendimento ed il rischio. Graficamente, la rappresentazione avviene
tramite curve di indifferenza.
U = U (E(R), σR)
L’investitore è indifferente di fronte a tutte le coppie (µR, σR) che giacciono su di una
stessa curva.
È naturale assumere che per un dato rischio gli agenti siano sempre più soddisfatti al
crescere del rendimento atteso del portafoglio. In termini formali, questa ipotesi può
esprimersi affermando che l’utilità marginale del rendimento è positiva.
Per l’atteggiamento verso il rischio bisogna invece tener conto di qualche considerazione
in più. Gli agenti possono infatti dividersi in due grandi categorie:
- Gli avversi al rischio, per i quali un aumento del rischio di portafoglio (a parità di
rendimento atteso) implica una riduzione dell’utilità totale.
- Gli amanti del rischio, per i quali un aumento del rischio di portafoglio (a parità di
rendimento atteso) implica un aumento dell’utilità totale.
I diversi livelli dell’utilità totale possono essere rappresentati da posizioni diverse nel
piano delle rispettive curve di indifferenza, essendo tali curve il luogo delle combinazioni
di rendimento atteso e rischio che induco il medesimo livello di utilità. Naturalmente, tali
curve avranno forma diversa a seconda dell’atteggiamento verso il rischio assunto dagli
agenti.
2.1.1. Amanti del rischio
Un amante del rischio si distingue per una utilità marginale del rischio positiva,
comportando così un andamento crescente delle curve di indifferenza nel piano rischio –
rendimento. Infatti, per ottenere lo stesso livello di utilità se aumenta il rendimento atteso,
necessariamente diminuirà il rischio. Ovviamente curve di indifferenza associate a livelli
di rendimento atteso maggiori a fronte dello stesso rischio (o in questo caso, a livelli di
rischio maggiori a fronte dello stesso rendimento atteso) esprimono livelli maggiori di
utilità.
22
Analiticamente, la pendenza negativa delle curve di indifferenza di un amante del rischio
si ottiene differenziando totalmente la funzione di utilità totale ed assumendo un valore
costante di U. Sarà:
5) 𝑑𝑈 = 0 = ^_^`(a)
𝑑𝐸(𝑅) + ^_^cd
𝑑𝜎a
da cui è facile ricavare:
6) +`(a)+cd
= − ^_ ^cd⁄^_ ^`(a)⁄
una espressione che ha segno negativo essendo, per un amante del rischio, positive
entrambe le utilità marginali. Nella scelta di portafoglio così descritta un amante del
rischio non investirà mai in moneta essendo questa attività priva di rischio, e dunque
sceglierà sempre di investire tutto in titoli (y=1).
2.1.2. Avversi al rischio
Un agente a cui il rischio non piace, avendo una utilità marginale del rischio negativa,
sarà caratterizzato da curve di indifferenza con andamento crescente nel piano rischio –
rendimento atteso. Alle curve di indifferenza più in alto nel piano si associano situazioni
in cui l’utilità è maggiore. Nella categoria degli agenti a cui il rischio non piace occorre
distinguere tra:
- Diversificatori: sono coloro che lungo la stessa curva di indifferenza accettano
aumenti del rischio di portafoglio solo se compensati da più che proporzionali aumenti
del rendimento atteso: le curve di indifferenza saranno quindi convesse.
23
Il diversificatore è l’unico soggetto che, attraverso un processo di ottimizzazione, può
attuare la diversificazione del portafoglio, vale a dire l’investimento della ricchezza
in parte sotto forma monetaria ed in parte sotto forma di titoli. Infatti, tale agente
selezionerà quella combinazione rendimento atteso – rischio tra tutte quelle possibili
(sulla frontiera) tale da consentirgli di raggiungere il massimo livello di utilità.
Graficamente, la combinazione ottimale rendimento rischio darà definita dal punto di
tangenza tra la frontiera rendimento atteso – rischio e la curva di indifferenza più
elevata (punto A nella figura sottostante). Analiticamente, ciò implica che nel punto
di ottimo deve valere l’uguaglianza tra le pendenze della curva di indifferenza e della
frontiera rendimento rischio:
− ^_ ^cd⁄^_ ^`(a)⁄ = g
cd.
Nel diagramma inferiore è possibile riportare la relazione tra rischio totale di
portafoglio e quota del portafoglio investiti in titoli. Dato il rischio ottimale di
portafoglio σR*, questa relazione determina la quota ottima da investire in titoli (y*)
e, per complemento, quella da investire in moneta (x* = 1 – y*).
24
La domanda complessiva di moneta del nostro agente diversificatore, pari alla quota
ottimale x* moltiplicata per il valore della ricchezza W, risulterà allora essere una
funzione del tasso di interesse ® corrisposto dai titoli, oltre che della loro rischiosità.
Infatti, se a parità di σg aumenta il tasso di interesse, nel diagramma superiore della
figura appena rappresentata si osserverà una rotazione verso l’alto della frontiera
rendimento atteso – rischio (visto che la sua pendenza è pari a r/ σg). Il nuovo punto
di tangenza con la curva di indifferenza più alta sarà ora raggiunto nel punto A^, a cui
corrisponde una nuova combinazione ottimale rendimento atteso – rischio di
portafoglio coerente con una maggiore quota del portafoglio investita in titoli (y^ >
y*), e quindi con una minore quota investita in moneta. La domanda di moneta risulta
dunque inversamente collegata, anche a livello macroeconomico, con il tasso di
interesse. È da precisare che tale risultato non è valido sempre, ma si basa
sull’assunzione che l’effetto sostituzione indotto dall’aumento del tasso di interesse,
che incoraggia gli agenti a spostarsi verso i titoli, risulti superiore al suo effetto
reddito: in base a questo infatti, con l’aumento del tasso di interesse aumenta la
remunerazione dei titoli che consentirebbe di ridurre il rischio di portafoglio
aumentando la quota del portafoglio detenuta in moneta, dato che comunque la
percentuale investita in titoli rende di più.
Analiticamente, la scelta ottima di un agente diversificatore può derivarsi risolvendo
un facile esercizio di massimizzazione dell’utilità sotto il vincolo delle possibili
combinazioni rischio – rendimento atteso ottenibili. Formalmente,
Max U (E(R), σR)
Sub E(R) = (r/ σg) σR (frontiera rendimento atteso – rischio)
Una volta sostituito il rendimento atteso dalla frontiera nella funzione obiettivo,
rimane solo da risolvere un banale problema di massimizzazione libera nella variabile
rischio. La condizione di massimo richiede che la derivata prima si annulli e che la
derivata seconda sia negativa.
- Tuffatori (sono compresi anche gli agenti con preferenze lineari): sono quei soggetti
che, lungo la stessa curva di indifferenza, accettano aumenti del rischio di portafoglio
purché compensati da aumenti del rendimento atteso meno che proporzionali
(esattamente proporzionali). Le curve di indifferenza saranno concave.
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Consideriamo per semplicità un tuffatore con preferenze lineari, restando inteso che
quanto sarà detto rimane valido anche per tuffatori con preferenze non lineari. I
tuffatori sono sempre caratterizzati da scelte di angolo, o tutto titoli (come avviene
sempre per gli amanti del rischio) o tutta moneta, a seconda rispettivamente che la
pendenza all’origine delle curve (linee) di indifferenza sia minore o maggiore di
quella della frontiera rendimento rischio.
2.2. Scelte di portafoglio considerando molteplici alternative alla moneta La derivazione della domanda di moneta, all’interno della teoria delle scelte di
portafoglio, è stata effettuata ipotizzando il caso particolare in cui un agente potesse
scegliere solo tra moneta ed un titolo rischioso. Nella realtà, tuttavia, ogni agente ha la
possibilità di gestire le proprie disponibilità con un numero molto elevato di attività
finanziarie le cui caratteristiche di rendimento atteso e rischio sono quanto mai varie. La
teoria della domanda di moneta elaborata risulterebbe dunque insoddisfacente qualora
non tenesse conto di queste osservazioni realistiche. In realtà, la proposta di Tobin
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nell’ambito delle teorie di portafoglio ha confermato la validità dei risultati ottenuti anche
in presenza di una moltitudine di titoli rischiosi con caratteristiche tecniche differenti. In
tal caso, infatti, è possibile interpretare la quota del portafoglio investita in titoli (y) come
la somma delle singole quote investite nelle diverse attività (y1, y2, ...), ed il rischio ed il
rendimento atteso come le “medie” dei rischi e rendimenti dei vari titoli.
Consideriamo l’esempio in cui, per semplicità, un portafoglio possa essere costituito dalla
moneta x e da due attività rischiose, y1 e y2, caratterizzate rispettivamente da rendimenti
attesi r1 e r2 e rischi σ1 e σ2. Per ognuno dei titoli rischiosi vale quindi la ipotesi che la
distribuzione di probabilità dei guadagni (perdite) in conto capitale sia normale e centrata
sullo zero. Il portafoglio dovrà essere:
𝑥 +𝑦/ +𝑦M = 1
Il rendimento atteso del portafoglio è:
7) E(R) = ∑i yi ri = yr (i = 1,2), avendo definito con y la somma delle quote di portafoglio investite in titoli rischiosi e con
r la media ponderata dei due rendimenti attesi con pesi pari alle quote investite nei due
titoli.
In modo analogo può calcolarsi il rischio di portafoglio, ma bisogna tener conto oltre che
dei rischi associati ai titoli individuali, anche dalla possibile correlazione tra tali rischi.
Indicando con σR il rischio totale di portafoglio, esso sarà pari a:
8) 𝜎a = j𝑦/M𝜎/M + 𝑦MM𝜎MM + 2𝑦/𝑦M𝜌𝜎/𝜎M
dove con ρ si indica il rapporto di correlazione tra i due titoli dato dal rapporto tra la
covarianza dei rischi e il prodotto dei rispettivi scarti quadratici medi. Inoltre, -1 ≤ ρ ≤ 1.
Nel caso di un numero n di attività rischiose presenti al fianco della moneta, avremo che
il rendimento atteso del portafoglio ed il rischio di portafoglio sono dati rispettivamente
da:
9) E(R) = ∑i yi ri con (i = 1, 2…n),
10) 𝜎a = ∑ ∑ 𝑦mno/,Nmo/,N 𝑦n𝜌𝜎m𝜎n
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In questo caso vale il seguente teorema: “Quando un portafoglio è costituito da un titolo
non rischioso (ad esempio la moneta) e da n titoli rischiosi, l’insieme delle attività
rischiose si comporta come se fosse una sola attività, nel senso che al variare della
proporzione selezionata tra moneta e titoli non muta la composizione percentuale
prescelta tra i titoli rischiosi”. In questo modo. è possibile ottenere una frontiera
rendimento rischio lineare collegando le due espressioni del rendimento atteso e del
rischio di portafoglio di sopra esattamente come nel caso in cui la scelta era solo tra
moneta e un titolo. È importante osservare che il teorema non perde efficacia se si
considera la moneta bancaria (cioè dotata di un rendimento) o una qualsiasi altra attività
remunerativa, ma non rischiosa, al posto della moneta circolante. Ovviamente, in questo
caso, la frontiera lineare rendimento rischio avrà una intercetta positiva, anziché nulla, in
corrispondenza del tasso di rendimento offerto dall’attività non rischiosa.
2.2.1. La frontiera rendimento rischio considerando due soli titoli rischiosi
Per analizzare la forma che assume la frontiera rendimento rischio nel caso di un
portafoglio costituito da due soli titoli rischiosi (y1 e y2), al variare del loro rapporto di
correlazione tra -1 ed 1, bisogna partire dalle espressioni di rendimento atteso e del rischio
del portafoglio. Il rendimento atteso ora può scriversi nel modo seguente:
11) 𝐸(𝑅) = (1 − 𝑦M)𝑟/ + 𝑦M𝑟M = 𝑟/ + 𝑦M(𝑟M − 𝑟/)
Mentre il rischio di portafoglio è espresso dalla equazione già riportata precedentemente
8), da cui risulta evidente che esso dipende criticamente dal rapporto di correlazione tra
la rischiosità dei due titoli. Infatti, quando:
- p = 1, esiste massima correlazione positiva. La funzione di rischio di portafoglio si
semplifica come segue:
12) 𝜎a = j𝑦/M𝜎/M + 𝑦MM𝜎MM + 2𝑦/𝑦M𝜎/𝜎M = 𝑦/𝜎/ + 𝑦M𝜎M
da cui, ricordando che 𝑦/ = 1 − 𝑦M, si ha:
13) 𝜎a = 𝜎/ + (𝜎M − 𝜎/)𝑦M,
28
dunque, risulta una funzione lineare della quota investita nel titolo più rischioso. Le
funzioni del rendimento atteso e del rischio possono allora combinarsi per ottenere la
frontiera del rendimento rischio. A tale scopo si ricava y2 dalla funzione di rischio di
portafoglio (𝑦M =cdOcpcqOcp
) e si sostituisce nella funzione del rendimento atteso.
Risulterà quindi:
14)𝐸(𝑅) = 𝑟/ +𝜎a − 𝜎/𝜎M − 𝜎/
(𝑟M − 𝑟/)
Tale funzione esprime il rendimento atteso ottenibile per ogni possibile valore assunto
dal rischio di portafoglio. Se il portafoglio è investito interamente nel primo titolo, è
ovvio che solo da quest’ultimo dipenderanno il suo rendimento ed il suo rischio. La
stessa cosa vale nel caso in cui il portafoglio sia interamente composto dalla seconda
attività. Nel caso di un portafoglio “misto”, il rendimento atteso ed il rischio di
portafoglio saranno una media di quelli relativi alle singole attività con pesi pari alle
quote prescelte dei due titoli. Graficamente, la frontiera in caso di p =1 risulta come
segue:
- p = -1, la correlazione tra i corsi dei titoli è perfetta, ma negativa. Il rischio di
portafoglio può riscriversi come segue:
15)𝜎a = j𝑦/M𝜎/M + 𝑦MM𝜎MM − 2𝑦/𝑦M𝜎/𝜎M = ±(𝑦/𝜎/ − 𝑦M𝜎M) = ±(𝜎/(1 − 𝑦M) − 𝑦M𝜎M
In questo caso, il rischio di portafoglio è ovviamente minore rispetto al caso con p =1,
perché guadagni e perdite in conto capitale si compensano. È anche possibile ridurre
a 0 il rischio totale selezionando una opportuna combinazione di portafoglio.
𝜎a = 0à𝑦M = 𝜎//(𝜎/ +𝜎M) ovviamente 𝜎a = 𝜎/𝑠𝑒𝑦/ = 1(𝑦M = 0), 𝑒𝜎a = 𝜎M𝑠𝑒𝑦M = 1
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Se da σR ricaviamo y2, e lo sostituiamo, prima con radice positiva e poi negativa, nella
funzione di rendimento atteso, otteniamo due tratti della frontiera rendimento rischio
così come segue:
Il tratto inferiore risulta però “dominato”, nel senso che per uno stesso livello di
rischio di portafoglio sono accessibili combinazioni dei due titoli che danno un
rendimento atteso maggiore e che saranno quindi preferiti dagli agenti.
- Se -1 < p < 1, la frontiera rendimento rischio assumerà un andamento compreso tra i
due casi estremi appena analizzati. Quando il rapporto di correlazione è negativo,
esisterà sempre un tratto della frontiera in cui la diversificazione di portafoglio è
particolarmente “efficiente”, permettendo combinazioni dei due titoli tali da ottenere
un rischio di portafoglio inferiore a quello corrispondente all’investire tutto il
portafoglio nel titolo meno rischioso. Ciò è tecnicamente possibile anche nel caso di
un rapporto di correlazione positivo, ma sufficientemente basso. In particolare, la
condizione tecnica perché ciò si verifichi è che ρ sia inferiore al rapporto tra σ1 e σ2.
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