la vita dei cinesi d'africa

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46 Internazionale 896 | 6 maggio 2011 Africa Internazionale 896 | 6 maggio 2011 47 N el dicembre del 1999 un cinese di 24 anni di no- me Zhang Hao si è la- sciato alle spalle il geli- do inverno della sua cit- tà natale, Shenyang, per volare in Uganda. Era nervoso. Non parlava inglese. L’idea non era stata nemmeno sua, ma di suo padre, che aveva lavorato in Uganda qualche anno prima a un progetto di pesca al quale partecipava il governo ci- nese. “Se vuoi avviare un’attività e non di- pendere da nessuno, l’Africa è il posto giu- sto”, gli aveva detto il padre quando lui gli aveva chiesto un consiglio. Zhang aveva lasciato l’università per andare in Africa orientale, ma appena messo piede a Kam- pala non aveva avuto bisogno della laurea per capire quanto sarebbe stato facile fare soldi: certi prodotti che in ogni città della Cina si trovavano a basso prezzo lì erano costosi o introvabili. Ha cominciato importando scarpe. Poi zaini. Poi reti da pesca, chiodi e biciclette. “Importavo tutto. A quel tempo avevano La vita dei cinesi d’Africa Xan Rice, The Guardian, Gran Bretagna Dieci anni fa gli imprenditori cinesi sono partiti alla conquista dell’Africa. Erano meno di centomila in tutto il continente, oggi sono un milione. Ecco come sono cambiate le loro vite line di Kampala, agli eleganti dirigenti del- le società petrolifere che frequentano il ri- storante di Zhang. Lo stesso succede in tutto il continente. Le cifre esatte sono dif- ficili da trovare, ma una decina di anni fa probabilmente non c’erano più di centomi- la cinesi in Africa. Oggi sono quasi un mi- lione. Il primo cinese arrivò nel continente circa seicento anni fa, all’epoca della dina- stia Ming, quando la flotta dell’ammiraglio Zheng He sbarcò sulla costa del Kenya. L’ondata successiva fu agli inizi del 1900, quando sessantamila minatori cinesi anda- rono a lavorare nelle miniere d’oro del Su- dafrica. Mezzo secolo dopo il presidente Mao Zedong inviò in Africa decine di mi- gliaia di braccianti e lavoratori edili per raf- forzare i legami con i paesi che stavano uscendo dal colonialismo. Ma le migrazio- ni del dopo guerra fredda sono legate all’economia piuttosto che alla politica. Gli scambi commerciali tra la Cina e l’Africa sono passati dai sei miliardi di dollari del 1999 a più di 90 nel 2009, divisi più o meno bisogno di tutto!”, ricorda Zhang, un uomo gentile con gli occhiali senza montatura. La sua azienda è cresciuta in fretta, lui ha gua- dagnato molto e ha stretto amicizie sul po- sto. Ma dopo qualche anno si è stancato dei lunghi viaggi per andare a comprare la merce in Cina. Così lui e sua moglie hanno comprato un grande appezzamento di ter- reno a Kampala, sul quale hanno costruito uno spettacolare ristorante sinocoreano, con sale private, stanze per il karaoke e una sala da pranzo gigantesca da 500 posti. A fianco del ristorante hanno costruito una stanza da letto, che è diventata la loro casa. Gli affari andavano a gonfie vele e ben pre- sto Zhang ha avviato altre imprese, tra cui un panificio, un’azienda per la vendita di televisori a schermo piatto e una società di sicurezza. “I cinesi non pensano troppo, ci provano senza studiare a fondo il mercato. Altrimenti rischiano di perdere l’occasio- ne”, dice. Accanto alla sede di ogni nuova impre- sa, Zhang ha costruito una stanza per la sua famiglia, nel 2007 ha avuto anche un figlio. equamente tra importazioni ed esportazio- ni: le risorse naturali dell’Africa – petrolio, ferro, platino, rame e legno – vanno verso est ad alimentare le fabbriche cinesi, e i prodotti finiti, dalle infradito ai camion, viaggiano in senso opposto. Si calcola che nel 2010 gli scambi abbiano superato i cen- to miliardi di dollari. Il coinvolgimento del governo cinese nel settore del commercio è fondamentale. Ogni anno Pechino offre miliardi in prestiti e finanziamenti ai gover- ni africani per ammorbidirli e assicurarsi le materie prime o per finanziare la costruzio- ne di infrastrutture di cui potrebbero bene- ficiare le sue imprese. È stato proprio questo a portare in Ke- nya Liu Hui, un ingegnere civile di 41 anni che lavorava per la China Wuyi, un’azienda statale di costruzioni della provincia del Fujian. Nel 2006 lo chiamò il suo capo di- cendogli di avere bisogno di lui per un pro- getto di ristrutturazione del principale ae- roporto di Nairobi. Liu non aveva mai mes- so piede fuori della Cina ed era riluttante a lasciare la moglie e il figlio di sette anni. Del Kenya ne sapeva quanto i marinai di Zheng He. “Sapevo solo che era un paese molto povero, arido e caldo”, dice Liu. “Ma se la mia azienda voleva mandarmici, cosa po- tevo fare? Devi sempre dimostrare la tua disponibilità al lavoro”. Al suo arrivo Liu si è accorto che Nairo- bi non era né arida né troppo calda. Finito il contratto per l’aeroporto è stato incaricato di supervisionare la costruzione di una strada tra Nairobi e Thika, una zona a nor- dest destinata alla coltivazione di ananas. Liu vive nella sede principale della Wuyi, un edificio di quattro piani al bordo dell’au- tostrada. Anche se per andare al lavoro de- ve fare solo una rampa di scale, la giornata è lunga, dalle sette e un quarto del mattino alle sei di pomeriggio. Il ritmo di lavoro è spesso frustrante e può essere complicato dalle difficoltà di comunicazione. Liu parla un inglese stentato e ha imparato qualche frase in swahili. “I cinesi lavorano sodo e molto velocemente,” dice. “Ma qui stiamo insegnando il mestiere alla popolazione locale, e se qualcuno non capisce, lavora lentamente. Bisogna sempre controllare”. Quasi tutte le sere Liu e i suoi colleghi cine- si, circa un centinaio, guardano dvd sui loro computer portatili o chattano con amici e parenti. Ma ogni tanto escono per andare a prendere un caffè o a cenare nei centri commerciali delle vicinanze. Liu spiega che intende tornare definitivamente in Ci- na – se i suoi capi glielo permetteranno – ap- pena la strada sarà terminata, per passare più tempo con la sua famiglia. Vivono letteralmente sul posto di lavoro. E il sistema ha funzionato. Zhang dice che oggi è il più grande datore di lavoro cinese del paese, con 1.200 agenti locali. Gli è sta- to perfino offerto un passaporto ugandese, ma l’ha rifiutato, come ha rifiutato di pren- dere un nome inglese. “Io sono cinese e qui dobbiamo costruirci un nome, per far sape- re che il nostro paese non è più come prima. Siamo diventati più ricchi, ci stiamo met- tendo al passo con il resto del mondo”. Sono pochi gli ugandesi che non lo san- no. Quando Zhang è arrivato, nel 1999, c’erano solo poche centinaia di cinesi nel paese. Oggi la stima più prudente è di sette- mila persone, dai piccoli commercianti che hanno occupato interi isolati del quartiere commerciale del centro agli ingegneri delle costruzioni che stanno cambiando lo sky- Wang Lina, invece, è seduta nel suo ne- gozio al centro di Nairobi, proprio a causa della famiglia. Figlia di “normali lavorato- ri”, Wang è cresciuta senza mai pensare di lasciare Benxi, una città industriale a un migliaio di chilometri a nordest di Pechino. Ma nel 2003, quando aveva 21 anni ed era sposata da poco, lo zio del marito fece una proposta a entrambi. Pochi anni prima era stato in Kenya per aprire una fabbrica di mobili. Adesso la sua attività era in forte espansione e stava cercando membri della famiglia che lo aiutassero. Wang e suo ma- rito avevano accettato. Lei, però, sentiva la mancanza dei suoi amici. In Kenya non ri- usciva a trovare vestiti adatti a lei. Era trop- po timida per parlare con la gente del posto. Così, dopo un anno, lei e suo marito aveva- no rinunciato ed erano tornati a Benxi. Po- co dopo lo zio era tornato a trovarli, pregan- doli di riprovarci. Lavorare con lentezza Questa volta Wang ha avuto modo di ap- prezzare il lato positivo della vita a Nairobi. A Benxi abitava in un appartamento, men- tre adesso divide una grande casa con il giardino con altre due coppie della stessa famiglia. Invece di essere semplicemente la cassiera del negozio, è passata alla pro- gettazione e alle vendite. Lavora sodo, spesso sette giorni su sette, ma ha anche trovato il tempo per godere di alcune delle principali attrazioni turistiche dell’Africa orientale: un safari nei pressi del monte Kenya e una vacanza al mare a Zanzibar. Lei e il marito hanno risparmiato abbastan- za per comprare un appartamento in Cina, l’obiettivo principale di molti giovani cinesi che vanno a lavorare all’estero, anche se per il momento non ha alcuna intenzione di tornare. “I miei amici che lavorano a Pe- chino o a Shanghai sono così stanchi”, rac- conta. “Non hanno tempo per rilassarsi, il ritmo di lavoro è sempre più veloce! Le cose qui sono più lente, e questo mi piace. Nes- suno ha fretta in Africa, dicono”. Ma i cinesi che si trasferiscono in Africa non vanno tutti a est. Anche paesi come l’Uganda hanno cominciato a corteggiare le aziende cinesi, e con buoni risultati: nel 2010 la Cina ha sostituito il Regno Unito come principale fonte di investimenti di- retti. Una delle più grandi imprese statali ad aver aperto una sede in Uganda è la Zte, la seconda azienda di telecomunicazioni cinese. Zhu Zhenxing, 32 anni, è il suo di- rettore generale in Uganda. Cresciuto nel Jiangsu, sulla costa orientale della Cina, Zhu era sicuro di due cose: che voleva im- parare l’inglese e che voleva diventare un Cotonou, Benin. Abdon Adjalla e Shi Ya Juan con i loro figli Syndia e Owen. Abdon e Ya Juan si sono sposati nel 2001 e hanno un negozio di prodotti importati nel centro della città GIULIA MARCHI

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articolo: Xan Rice, the Guardian foto: Giulia Marchi

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Page 1: La vita dei cinesi d'Africa

46 Internazionale 896 | 6 maggio 2011

Africa

Internazionale 896 | 6 maggio 2011 47

Africa

Nel dicembre del 1999 un cinese di 24 anni di no­me Zhang Hao si è la­sciato alle spalle il geli­do inverno della sua cit­tà natale, Shenyang, per

volare in Uganda. Era nervoso. Non parlava inglese. L’idea non era stata nemmeno sua, ma di suo padre, che aveva lavorato in Uganda qualche anno prima a un progetto di pesca al quale partecipava il governo ci­nese. “Se vuoi avviare un’attività e non di­pendere da nessuno, l’Africa è il posto giu­sto”, gli aveva detto il padre quando lui gli aveva chiesto un consiglio. Zhang aveva lasciato l’università per andare in Africa orientale, ma appena messo piede a Kam­pala non aveva avuto bisogno della laurea per capire quanto sarebbe stato facile fare soldi: certi prodotti che in ogni città della Cina si trovavano a basso prezzo lì erano costosi o introvabili.

Ha cominciato importando scarpe. Poi zaini. Poi reti da pesca, chiodi e biciclette. “Importavo tutto. A quel tempo avevano

La vitadei cinesid’AfricaXan Rice, The Guardian, Gran BretagnaDieci anni fa gli imprenditori cinesi sono partiti alla conquista dell’Africa. Erano meno di centomila in tutto il continente, oggi sono un milione. Ecco come sono cambiate le loro vite

line di Kampala, agli eleganti dirigenti del­le società petrolifere che frequentano il ri­storante di Zhang. Lo stesso succede in tutto il continente. Le cifre esatte sono dif­ficili da trovare, ma una decina di anni fa probabilmente non c’erano più di centomi­la cinesi in Africa. Oggi sono quasi un mi­lione.

Il primo cinese arrivò nel continente circa seicento anni fa, all’epoca della dina­stia Ming, quando la flotta dell’ammiraglio Zheng He sbarcò sulla costa del Kenya. L’ondata successiva fu agli inizi del 1900, quando sessantamila minatori cinesi anda­rono a lavorare nelle miniere d’oro del Su­dafrica. Mezzo secolo dopo il presidente Mao Zedong inviò in Africa decine di mi­gliaia di braccianti e lavoratori edili per raf­forzare i legami con i paesi che stavano uscendo dal colonialismo. Ma le migrazio­ni del dopo guerra fredda sono legate all’economia piuttosto che alla politica. Gli scambi commerciali tra la Cina e l’Africa sono passati dai sei miliardi di dollari del 1999 a più di 90 nel 2009, divisi più o meno

bisogno di tutto!”, ricorda Zhang, un uomo gentile con gli occhiali senza montatura. La sua azienda è cresciuta in fretta, lui ha gua­dagnato molto e ha stretto amicizie sul po­sto. Ma dopo qualche anno si è stancato dei lunghi viaggi per andare a comprare la merce in Cina. Così lui e sua moglie hanno comprato un grande appezzamento di ter­reno a Kampala, sul quale hanno costruito uno spettacolare ristorante sinocoreano, con sale private, stanze per il karaoke e una sala da pranzo gigantesca da 500 posti. A fianco del ristorante hanno costruito una stanza da letto, che è diventata la loro casa. Gli affari andavano a gonfie vele e ben pre­sto Zhang ha avviato altre imprese, tra cui un panificio, un’azienda per la vendita di televisori a schermo piatto e una società di sicurezza. “I cinesi non pensano troppo, ci provano senza studiare a fondo il mercato. Altrimenti rischiano di perdere l’occasio­ne”, dice.

Accanto alla sede di ogni nuova impre­sa, Zhang ha costruito una stanza per la sua famiglia, nel 2007 ha avuto anche un figlio.

equamente tra importazioni ed esportazio­ni: le risorse naturali dell’Africa – petrolio, ferro, platino, rame e legno – vanno verso est ad alimentare le fabbriche cinesi, e i prodotti finiti, dalle infradito ai camion, viaggiano in senso opposto. Si calcola che nel 2010 gli scambi abbiano superato i cen­to miliardi di dollari. Il coinvolgimento del governo cinese nel settore del commercio è fondamentale. Ogni anno Pechino offre miliardi in prestiti e finanziamenti ai gover­ni africani per ammorbidirli e assicurarsi le materie prime o per finanziare la costruzio­ne di infrastrutture di cui potrebbero bene­ficiare le sue imprese.

È stato proprio questo a portare in Ke­nya Liu Hui, un ingegnere civile di 41 anni che lavorava per la China Wuyi, un’azienda statale di costruzioni della provincia del Fujian. Nel 2006 lo chiamò il suo capo di­cendogli di avere bisogno di lui per un pro­getto di ristrutturazione del principale ae­roporto di Nairobi. Liu non aveva mai mes­so piede fuori della Cina ed era riluttante a lasciare la moglie e il figlio di sette anni. Del Kenya ne sapeva quanto i marinai di Zheng He. “Sapevo solo che era un paese molto povero, arido e caldo”, dice Liu. “Ma se la mia azienda voleva mandarmici, cosa po­tevo fare? Devi sempre dimostrare la tua disponibilità al lavoro”.

Al suo arrivo Liu si è accorto che Nairo­bi non era né arida né troppo calda. Finito il contratto per l’aeroporto è stato incaricato di supervisionare la costruzione di una strada tra Nairobi e Thika, una zona a nor­dest destinata alla coltivazione di ananas. Liu vive nella sede principale della Wuyi, un edificio di quattro piani al bordo dell’au­tostrada. Anche se per andare al lavoro de­ve fare solo una rampa di scale, la giornata è lunga, dalle sette e un quarto del mattino alle sei di pomeriggio. Il ritmo di lavoro è spesso frustrante e può essere complicato dalle difficoltà di comunicazione. Liu parla un inglese stentato e ha imparato qualche frase in swahili. “I cinesi lavorano sodo e molto velocemente,” dice. “Ma qui stiamo insegnando il mestiere alla popolazione locale, e se qualcuno non capisce, lavora lentamente. Bisogna sempre controllare”. Quasi tutte le sere Liu e i suoi colleghi cine­si, circa un centinaio, guardano dvd sui loro computer portatili o chattano con amici e parenti. Ma ogni tanto escono per andare a prendere un caffè o a cenare nei centri commerciali delle vicinanze. Liu spiega che intende tornare definitivamente in Ci­na – se i suoi capi glielo permetteranno – ap­pena la strada sarà terminata, per passare più tempo con la sua famiglia.

Vivono letteralmente sul posto di lavoro. E il sistema ha funzionato. Zhang dice che oggi è il più grande datore di lavoro cinese del paese, con 1.200 agenti locali. Gli è sta­to perfino offerto un passaporto ugandese, ma l’ha rifiutato, come ha rifiutato di pren­dere un nome inglese. “Io sono cinese e qui dobbiamo costruirci un nome, per far sape­re che il nostro paese non è più come prima. Siamo diventati più ricchi, ci stiamo met­tendo al passo con il resto del mondo”.

Sono pochi gli ugandesi che non lo san­no. Quando Zhang è arrivato, nel 1999, c’erano solo poche centinaia di cinesi nel paese. Oggi la stima più prudente è di sette­mila persone, dai piccoli commercianti che hanno occupato interi isolati del quartiere commerciale del centro agli ingegneri delle costruzioni che stanno cambiando lo sky­

Wang Lina, invece, è seduta nel suo ne­gozio al centro di Nairobi, proprio a causa della famiglia. Figlia di “normali lavorato­ri”, Wang è cresciuta senza mai pensare di lasciare Benxi, una città industriale a un migliaio di chilometri a nordest di Pechino. Ma nel 2003, quando aveva 21 anni ed era sposata da poco, lo zio del marito fece una proposta a entrambi. Pochi anni prima era stato in Kenya per aprire una fabbrica di mobili. Adesso la sua attività era in forte espansione e stava cercando membri della famiglia che lo aiutassero. Wang e suo ma­rito avevano accettato. Lei, però, sentiva la mancanza dei suoi amici. In Kenya non ri­usciva a trovare vestiti adatti a lei. Era trop­po timida per parlare con la gente del posto. Così, dopo un anno, lei e suo marito aveva­no rinunciato ed erano tornati a Benxi. Po­co dopo lo zio era tornato a trovarli, pregan­doli di riprovarci.

Lavorare con lentezzaQuesta volta Wang ha avuto modo di ap­prezzare il lato positivo della vita a Nairobi. A Benxi abitava in un appartamento, men­tre adesso divide una grande casa con il giardino con altre due coppie della stessa famiglia. Invece di essere semplicemente la cassiera del negozio, è passata alla pro­gettazione e alle vendite. Lavora sodo, spesso sette giorni su sette, ma ha anche trovato il tempo per godere di alcune delle principali attrazioni turistiche dell’Africa orientale: un safari nei pressi del monte Kenya e una vacanza al mare a Zanzibar. Lei e il marito hanno risparmiato abbastan­za per comprare un appartamento in Cina, l’obiettivo principale di molti giovani cinesi che vanno a lavorare all’estero, anche se per il momento non ha alcuna intenzione di tornare. “I miei amici che lavorano a Pe­chino o a Shanghai sono così stanchi”, rac­conta. “Non hanno tempo per rilassarsi, il ritmo di lavoro è sempre più veloce! Le cose qui sono più lente, e questo mi piace. Nes­suno ha fretta in Africa, dicono”.

Ma i cinesi che si trasferiscono in Africa non vanno tutti a est. Anche paesi come l’Uganda hanno cominciato a corteggiare le aziende cinesi, e con buoni risultati: nel 2010 la Cina ha sostituito il Regno Unito come principale fonte di investimenti di­retti. Una delle più grandi imprese statali ad aver aperto una sede in Uganda è la Zte, la seconda azienda di telecomunicazioni cinese. Zhu Zhenxing, 32 anni, è il suo di­rettore generale in Uganda. Cresciuto nel Jiangsu, sulla costa orientale della Cina, Zhu era sicuro di due cose: che voleva im­parare l’inglese e che voleva diventare un

Cotonou, Benin. Abdon Adjalla e Shi Ya Juan con i loro figli Syndia e Owen. Abdon e Ya Juan si sono sposati nel 2001 e hanno un negozio di prodotti importati nel centro della città

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Africauomo d’affari a livello internazionale. È stato reclutato dalla Zte a una fiera del lavo­ro, con la promessa di essere mandato all’estero. “Non volevo restare nella mia zona di origine, e neanche in Cina”, spiega. “Volevo sperimentare cose diverse, cresce­re. Più lontano andavo e meglio era”. Così, quando gli hanno chiesto di andare ad Abu­ja, la capitale della Nigeria, Zhu non ha esi­tato. “Altri dicevano: l’Africa è così e così, ma io ho pensato che se ci vivevano altri esseri umani potevo farlo anch’io”.

Ha imparato molto. La corruzione l’ha scioccato ma gli è piaciuto l’ottimismo dei nigeriani, che “sorridono sempre e non si preoccupano del doma­ni”. Aveva una voglia così dispe­rata di dimostrare chi era che quasi scoppiava. A un certo pun­to gli è venuta la vitiligine, una malattia che provoca la perdita di pigmen­tazione della pelle. La sua faccia è diventa­ta bianca “come quella di Michael Jackson” ed è stato costretto a tornare in Cina per curarsi. Più tardi è tornato in Africa passan­do per il Vietnam. In Uganda ha già fatto aumentare in modo esponenziale il volume d’affari della Zte: quest’anno la società ha venduto più di 500mila telefonini.

Zhu ha l’aria di un uomo d’affari moder­no: scarpe e cintura eleganti, occhiali neri alla moda. Nei fine settimana gioca a golf con i clienti e con il personale dell’amba­sciata cinese. Ma, al di là di questo, il suo stile di vita è molto più modesto di quello della maggior parte degli espatriati. Lui e il suo staff vivono tutti nello stesso condomi­nio. Ogni giorno il pulmino della società li porta al lavoro e li riporta a casa. Il suo sti­pendio è buono per gli standard cinesi, ma non paragonabile a quello dei suoi concor­renti occidentali. Eppure non si lamenta. “Stiamo ancora lavorando per diventare un’azienda di livello internazionale”, dice. “I prezzi bassi sono il nostro forte, quindi dobbiamo contenere le spese”.

Se c’è una cosa della quale gli immigra­ti cinesi in Africa non possono fare a meno è la loro cucina. La maggior parte delle aziende, tra cui la Zte, si porta il proprio chef. Xu Jianwen, 34 anni, è uno di loro. Cresciuto a Sanhe, nella Cina settentriona­le, stava lavorando in un ristorante di Pe­chino quando ha sentito che la China road and bridge corporation, un gigante statale delle costruzioni, assumeva cuochi. Quan­do gli hanno offerto un lavoro in Uganda, sua moglie, con la quale ha una figlia, ha protestato molto. Ma quando le ha detto quanto lo avrebbero pagato, due volte e mezzo quello che guadagnava in Cina, l’ha

subito convinta. “Gli stipendi in Cina sono troppo bassi”, dice. “Dovevo venire per i soldi”.

Il suo primo lavoro è stato quello di cu­cinare per una ventina di operai cinesi a Soroti, una piccola città dell’Uganda orien­tale. Aveva due assistenti del posto ma, non parlando inglese, non aveva modo di co­municare con loro. Almeno la cucina era semplice. Al mercato locale si trovavano solo cinque tipi di verdura: melanzane, ca­voli, patate, peperoni e pomodori. “E non c’era nessuna salsa piccante”, dice. “Lavo­ro tutti i giorni, mi sveglio alle sei del matti­

no e finisco alle sette. Ogni gior­no è così. Mi riposo solo nelle fe­stività cinesi”. Attualmente lavo­ra nella sede centrale di Kampala e ha in progetto di rimanere altri due o tre anni all’estero, rispar­

miando per “la casa, l’istruzione e il cibo” per la sua famiglia. Non gli mancheranno certo le zanzare, dice, ma le persone sì. “Sono molto gentili e amichevoli con i ci­nesi”.

In realtà non è sempre così. In alcune zone dell’Africa meridionale c’è un forte risentimento nei confronti dei commer­cianti cinesi, molti dei quali arrivano con visti turistici e rimangono illegalmente. Qualche tempo fa i manager cinesi di una miniera di carbone dello Zambia hanno sparato a due dipendenti che protestavano per i salari, scatenando la rabbia in tutto il paese. In Sudan e in Etiopia gruppi di ribel­li hanno ucciso dei lavoratori cinesi perché li considerano conniventi con il governo locale. In Kenya, che ospita circa 15mila ci­nesi, il problema principale per alcuni dei primi immigrati è stata la diffidenza nei confronti della loro merce. A metà degli anni novanta Xu Hui aveva rinunciato a di­rigere l’agenzia di stampa statale Xinhua per avviare un’attività di importazione di giocattoli. Ma quando è passato ai compu­ter, le persone non si fidavano della qualità.

Ha dovuto mostrare ai potenziali clienti le etichette sui computer che già avevano e sulle quali c’era scritto “made in China”.

Oggi Xu gestisce un’impresa di succes­so che importa televisori e rotoli di carta igienica giganti imballati sul posto. Consi­dera il Kenya casa sua. Gli piace “lo stile di vita semplice e sano”, gioca a badminton al circolo sportivo ogni settimana, e solo a malincuore ha lasciato tornare la sua fami­glia in Cina per mandare a scuola i figli. Anche se l’atteggiamento nei confronti dei suoi prodotti è cambiato, Xu sa che, invece, il giudizio degli occidentali sull’invasione cinese dell’Africa rimane in gran parte ne­gativo, e non riesce a capire perché. “Anche i paesi occidentali comprano il petrolio e hanno miniere in tutto il mondo. Ma non si parla di ‘avidità’, o di ‘neocolonialismo’. Allora perché è diverso per i cinesi? Noi non mandiamo i nostri eserciti nei posti dicen­do: ‘Adesso vendeteci questo!’”, dice Xu. “Quando non possono competere con noi, trovano una scusa. È come quando due bambini litigano e quello che perde va a piangere dalla mamma dicendo che l’altro imbroglia”.

Per la famigliaIn realtà, ormai c’è concorrenza a tutti i li­velli. Ogni mese migliaia di commercianti africani vanno in città come Guangzhou e Yiwu per comprare prodotti all’ingrosso. E le aziende cinesi, comprese quelle statali, si contendono gli appalti. Questo può esse­re molto stressante per i manager delle aziende. Basta chiederlo a Dong Junxia, una signora seria ed elegante. Dal 2008 è responsabile della piccola sede ugandese della China railway seventh group corpora­tion, consociata della Crec, una delle azien­de edili più grandi del mondo. Ha lavorato a progetti di costruzione stradale in zone difficili della Tanzania e della Liberia, con un certo successo. Ma in Uganda la sua azienda non ha ancora vinto un appalto im­portante. Dong sembrava vergognarsene, e aveva chiesto che il suo nome e quello della sua società non fossero pubblicati. “Ho fatto carriera in Africa, ma stare lonta­no dalla mia famiglia è pesante. Nella cul­tura occidentale è diverso. Stare con la fa­miglia è una priorità. I cinesi si sacrificano per la famiglia. È difficile decidere quale delle due cose sia più importante”.

Una settimana più tardi mi ha chiamato per dire che potevo usare il suo nome. Era elettrizzata: la sua azienda aveva ottenuto un grosso contratto per costruire una stra­da. “Dopo due anni di duro lavoro! Può im­maginare come mi sento”. u bt

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Da sapere

Fonte: The Economist

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Commercio della Cina con l’Africa, miliardi di dollari