la vita dei cinesi d'africa
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articolo: Xan Rice, the Guardian foto: Giulia MarchiTRANSCRIPT
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Africa
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Nel dicembre del 1999 un cinese di 24 anni di nome Zhang Hao si è lasciato alle spalle il gelido inverno della sua città natale, Shenyang, per
volare in Uganda. Era nervoso. Non parlava inglese. L’idea non era stata nemmeno sua, ma di suo padre, che aveva lavorato in Uganda qualche anno prima a un progetto di pesca al quale partecipava il governo cinese. “Se vuoi avviare un’attività e non dipendere da nessuno, l’Africa è il posto giusto”, gli aveva detto il padre quando lui gli aveva chiesto un consiglio. Zhang aveva lasciato l’università per andare in Africa orientale, ma appena messo piede a Kampala non aveva avuto bisogno della laurea per capire quanto sarebbe stato facile fare soldi: certi prodotti che in ogni città della Cina si trovavano a basso prezzo lì erano costosi o introvabili.
Ha cominciato importando scarpe. Poi zaini. Poi reti da pesca, chiodi e biciclette. “Importavo tutto. A quel tempo avevano
La vitadei cinesid’AfricaXan Rice, The Guardian, Gran BretagnaDieci anni fa gli imprenditori cinesi sono partiti alla conquista dell’Africa. Erano meno di centomila in tutto il continente, oggi sono un milione. Ecco come sono cambiate le loro vite
line di Kampala, agli eleganti dirigenti delle società petrolifere che frequentano il ristorante di Zhang. Lo stesso succede in tutto il continente. Le cifre esatte sono difficili da trovare, ma una decina di anni fa probabilmente non c’erano più di centomila cinesi in Africa. Oggi sono quasi un milione.
Il primo cinese arrivò nel continente circa seicento anni fa, all’epoca della dinastia Ming, quando la flotta dell’ammiraglio Zheng He sbarcò sulla costa del Kenya. L’ondata successiva fu agli inizi del 1900, quando sessantamila minatori cinesi andarono a lavorare nelle miniere d’oro del Sudafrica. Mezzo secolo dopo il presidente Mao Zedong inviò in Africa decine di migliaia di braccianti e lavoratori edili per rafforzare i legami con i paesi che stavano uscendo dal colonialismo. Ma le migrazioni del dopo guerra fredda sono legate all’economia piuttosto che alla politica. Gli scambi commerciali tra la Cina e l’Africa sono passati dai sei miliardi di dollari del 1999 a più di 90 nel 2009, divisi più o meno
bisogno di tutto!”, ricorda Zhang, un uomo gentile con gli occhiali senza montatura. La sua azienda è cresciuta in fretta, lui ha guadagnato molto e ha stretto amicizie sul posto. Ma dopo qualche anno si è stancato dei lunghi viaggi per andare a comprare la merce in Cina. Così lui e sua moglie hanno comprato un grande appezzamento di terreno a Kampala, sul quale hanno costruito uno spettacolare ristorante sinocoreano, con sale private, stanze per il karaoke e una sala da pranzo gigantesca da 500 posti. A fianco del ristorante hanno costruito una stanza da letto, che è diventata la loro casa. Gli affari andavano a gonfie vele e ben presto Zhang ha avviato altre imprese, tra cui un panificio, un’azienda per la vendita di televisori a schermo piatto e una società di sicurezza. “I cinesi non pensano troppo, ci provano senza studiare a fondo il mercato. Altrimenti rischiano di perdere l’occasione”, dice.
Accanto alla sede di ogni nuova impresa, Zhang ha costruito una stanza per la sua famiglia, nel 2007 ha avuto anche un figlio.
equamente tra importazioni ed esportazioni: le risorse naturali dell’Africa – petrolio, ferro, platino, rame e legno – vanno verso est ad alimentare le fabbriche cinesi, e i prodotti finiti, dalle infradito ai camion, viaggiano in senso opposto. Si calcola che nel 2010 gli scambi abbiano superato i cento miliardi di dollari. Il coinvolgimento del governo cinese nel settore del commercio è fondamentale. Ogni anno Pechino offre miliardi in prestiti e finanziamenti ai governi africani per ammorbidirli e assicurarsi le materie prime o per finanziare la costruzione di infrastrutture di cui potrebbero beneficiare le sue imprese.
È stato proprio questo a portare in Kenya Liu Hui, un ingegnere civile di 41 anni che lavorava per la China Wuyi, un’azienda statale di costruzioni della provincia del Fujian. Nel 2006 lo chiamò il suo capo dicendogli di avere bisogno di lui per un progetto di ristrutturazione del principale aeroporto di Nairobi. Liu non aveva mai messo piede fuori della Cina ed era riluttante a lasciare la moglie e il figlio di sette anni. Del Kenya ne sapeva quanto i marinai di Zheng He. “Sapevo solo che era un paese molto povero, arido e caldo”, dice Liu. “Ma se la mia azienda voleva mandarmici, cosa potevo fare? Devi sempre dimostrare la tua disponibilità al lavoro”.
Al suo arrivo Liu si è accorto che Nairobi non era né arida né troppo calda. Finito il contratto per l’aeroporto è stato incaricato di supervisionare la costruzione di una strada tra Nairobi e Thika, una zona a nordest destinata alla coltivazione di ananas. Liu vive nella sede principale della Wuyi, un edificio di quattro piani al bordo dell’autostrada. Anche se per andare al lavoro deve fare solo una rampa di scale, la giornata è lunga, dalle sette e un quarto del mattino alle sei di pomeriggio. Il ritmo di lavoro è spesso frustrante e può essere complicato dalle difficoltà di comunicazione. Liu parla un inglese stentato e ha imparato qualche frase in swahili. “I cinesi lavorano sodo e molto velocemente,” dice. “Ma qui stiamo insegnando il mestiere alla popolazione locale, e se qualcuno non capisce, lavora lentamente. Bisogna sempre controllare”. Quasi tutte le sere Liu e i suoi colleghi cinesi, circa un centinaio, guardano dvd sui loro computer portatili o chattano con amici e parenti. Ma ogni tanto escono per andare a prendere un caffè o a cenare nei centri commerciali delle vicinanze. Liu spiega che intende tornare definitivamente in Cina – se i suoi capi glielo permetteranno – appena la strada sarà terminata, per passare più tempo con la sua famiglia.
Vivono letteralmente sul posto di lavoro. E il sistema ha funzionato. Zhang dice che oggi è il più grande datore di lavoro cinese del paese, con 1.200 agenti locali. Gli è stato perfino offerto un passaporto ugandese, ma l’ha rifiutato, come ha rifiutato di prendere un nome inglese. “Io sono cinese e qui dobbiamo costruirci un nome, per far sapere che il nostro paese non è più come prima. Siamo diventati più ricchi, ci stiamo mettendo al passo con il resto del mondo”.
Sono pochi gli ugandesi che non lo sanno. Quando Zhang è arrivato, nel 1999, c’erano solo poche centinaia di cinesi nel paese. Oggi la stima più prudente è di settemila persone, dai piccoli commercianti che hanno occupato interi isolati del quartiere commerciale del centro agli ingegneri delle costruzioni che stanno cambiando lo sky
Wang Lina, invece, è seduta nel suo negozio al centro di Nairobi, proprio a causa della famiglia. Figlia di “normali lavoratori”, Wang è cresciuta senza mai pensare di lasciare Benxi, una città industriale a un migliaio di chilometri a nordest di Pechino. Ma nel 2003, quando aveva 21 anni ed era sposata da poco, lo zio del marito fece una proposta a entrambi. Pochi anni prima era stato in Kenya per aprire una fabbrica di mobili. Adesso la sua attività era in forte espansione e stava cercando membri della famiglia che lo aiutassero. Wang e suo marito avevano accettato. Lei, però, sentiva la mancanza dei suoi amici. In Kenya non riusciva a trovare vestiti adatti a lei. Era troppo timida per parlare con la gente del posto. Così, dopo un anno, lei e suo marito avevano rinunciato ed erano tornati a Benxi. Poco dopo lo zio era tornato a trovarli, pregandoli di riprovarci.
Lavorare con lentezzaQuesta volta Wang ha avuto modo di apprezzare il lato positivo della vita a Nairobi. A Benxi abitava in un appartamento, mentre adesso divide una grande casa con il giardino con altre due coppie della stessa famiglia. Invece di essere semplicemente la cassiera del negozio, è passata alla progettazione e alle vendite. Lavora sodo, spesso sette giorni su sette, ma ha anche trovato il tempo per godere di alcune delle principali attrazioni turistiche dell’Africa orientale: un safari nei pressi del monte Kenya e una vacanza al mare a Zanzibar. Lei e il marito hanno risparmiato abbastanza per comprare un appartamento in Cina, l’obiettivo principale di molti giovani cinesi che vanno a lavorare all’estero, anche se per il momento non ha alcuna intenzione di tornare. “I miei amici che lavorano a Pechino o a Shanghai sono così stanchi”, racconta. “Non hanno tempo per rilassarsi, il ritmo di lavoro è sempre più veloce! Le cose qui sono più lente, e questo mi piace. Nessuno ha fretta in Africa, dicono”.
Ma i cinesi che si trasferiscono in Africa non vanno tutti a est. Anche paesi come l’Uganda hanno cominciato a corteggiare le aziende cinesi, e con buoni risultati: nel 2010 la Cina ha sostituito il Regno Unito come principale fonte di investimenti diretti. Una delle più grandi imprese statali ad aver aperto una sede in Uganda è la Zte, la seconda azienda di telecomunicazioni cinese. Zhu Zhenxing, 32 anni, è il suo direttore generale in Uganda. Cresciuto nel Jiangsu, sulla costa orientale della Cina, Zhu era sicuro di due cose: che voleva imparare l’inglese e che voleva diventare un
Cotonou, Benin. Abdon Adjalla e Shi Ya Juan con i loro figli Syndia e Owen. Abdon e Ya Juan si sono sposati nel 2001 e hanno un negozio di prodotti importati nel centro della città
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Africauomo d’affari a livello internazionale. È stato reclutato dalla Zte a una fiera del lavoro, con la promessa di essere mandato all’estero. “Non volevo restare nella mia zona di origine, e neanche in Cina”, spiega. “Volevo sperimentare cose diverse, crescere. Più lontano andavo e meglio era”. Così, quando gli hanno chiesto di andare ad Abuja, la capitale della Nigeria, Zhu non ha esitato. “Altri dicevano: l’Africa è così e così, ma io ho pensato che se ci vivevano altri esseri umani potevo farlo anch’io”.
Ha imparato molto. La corruzione l’ha scioccato ma gli è piaciuto l’ottimismo dei nigeriani, che “sorridono sempre e non si preoccupano del domani”. Aveva una voglia così disperata di dimostrare chi era che quasi scoppiava. A un certo punto gli è venuta la vitiligine, una malattia che provoca la perdita di pigmentazione della pelle. La sua faccia è diventata bianca “come quella di Michael Jackson” ed è stato costretto a tornare in Cina per curarsi. Più tardi è tornato in Africa passando per il Vietnam. In Uganda ha già fatto aumentare in modo esponenziale il volume d’affari della Zte: quest’anno la società ha venduto più di 500mila telefonini.
Zhu ha l’aria di un uomo d’affari moderno: scarpe e cintura eleganti, occhiali neri alla moda. Nei fine settimana gioca a golf con i clienti e con il personale dell’ambasciata cinese. Ma, al di là di questo, il suo stile di vita è molto più modesto di quello della maggior parte degli espatriati. Lui e il suo staff vivono tutti nello stesso condominio. Ogni giorno il pulmino della società li porta al lavoro e li riporta a casa. Il suo stipendio è buono per gli standard cinesi, ma non paragonabile a quello dei suoi concorrenti occidentali. Eppure non si lamenta. “Stiamo ancora lavorando per diventare un’azienda di livello internazionale”, dice. “I prezzi bassi sono il nostro forte, quindi dobbiamo contenere le spese”.
Se c’è una cosa della quale gli immigrati cinesi in Africa non possono fare a meno è la loro cucina. La maggior parte delle aziende, tra cui la Zte, si porta il proprio chef. Xu Jianwen, 34 anni, è uno di loro. Cresciuto a Sanhe, nella Cina settentrionale, stava lavorando in un ristorante di Pechino quando ha sentito che la China road and bridge corporation, un gigante statale delle costruzioni, assumeva cuochi. Quando gli hanno offerto un lavoro in Uganda, sua moglie, con la quale ha una figlia, ha protestato molto. Ma quando le ha detto quanto lo avrebbero pagato, due volte e mezzo quello che guadagnava in Cina, l’ha
subito convinta. “Gli stipendi in Cina sono troppo bassi”, dice. “Dovevo venire per i soldi”.
Il suo primo lavoro è stato quello di cucinare per una ventina di operai cinesi a Soroti, una piccola città dell’Uganda orientale. Aveva due assistenti del posto ma, non parlando inglese, non aveva modo di comunicare con loro. Almeno la cucina era semplice. Al mercato locale si trovavano solo cinque tipi di verdura: melanzane, cavoli, patate, peperoni e pomodori. “E non c’era nessuna salsa piccante”, dice. “Lavoro tutti i giorni, mi sveglio alle sei del matti
no e finisco alle sette. Ogni giorno è così. Mi riposo solo nelle festività cinesi”. Attualmente lavora nella sede centrale di Kampala e ha in progetto di rimanere altri due o tre anni all’estero, rispar
miando per “la casa, l’istruzione e il cibo” per la sua famiglia. Non gli mancheranno certo le zanzare, dice, ma le persone sì. “Sono molto gentili e amichevoli con i cinesi”.
In realtà non è sempre così. In alcune zone dell’Africa meridionale c’è un forte risentimento nei confronti dei commercianti cinesi, molti dei quali arrivano con visti turistici e rimangono illegalmente. Qualche tempo fa i manager cinesi di una miniera di carbone dello Zambia hanno sparato a due dipendenti che protestavano per i salari, scatenando la rabbia in tutto il paese. In Sudan e in Etiopia gruppi di ribelli hanno ucciso dei lavoratori cinesi perché li considerano conniventi con il governo locale. In Kenya, che ospita circa 15mila cinesi, il problema principale per alcuni dei primi immigrati è stata la diffidenza nei confronti della loro merce. A metà degli anni novanta Xu Hui aveva rinunciato a dirigere l’agenzia di stampa statale Xinhua per avviare un’attività di importazione di giocattoli. Ma quando è passato ai computer, le persone non si fidavano della qualità.
Ha dovuto mostrare ai potenziali clienti le etichette sui computer che già avevano e sulle quali c’era scritto “made in China”.
Oggi Xu gestisce un’impresa di successo che importa televisori e rotoli di carta igienica giganti imballati sul posto. Considera il Kenya casa sua. Gli piace “lo stile di vita semplice e sano”, gioca a badminton al circolo sportivo ogni settimana, e solo a malincuore ha lasciato tornare la sua famiglia in Cina per mandare a scuola i figli. Anche se l’atteggiamento nei confronti dei suoi prodotti è cambiato, Xu sa che, invece, il giudizio degli occidentali sull’invasione cinese dell’Africa rimane in gran parte negativo, e non riesce a capire perché. “Anche i paesi occidentali comprano il petrolio e hanno miniere in tutto il mondo. Ma non si parla di ‘avidità’, o di ‘neocolonialismo’. Allora perché è diverso per i cinesi? Noi non mandiamo i nostri eserciti nei posti dicendo: ‘Adesso vendeteci questo!’”, dice Xu. “Quando non possono competere con noi, trovano una scusa. È come quando due bambini litigano e quello che perde va a piangere dalla mamma dicendo che l’altro imbroglia”.
Per la famigliaIn realtà, ormai c’è concorrenza a tutti i livelli. Ogni mese migliaia di commercianti africani vanno in città come Guangzhou e Yiwu per comprare prodotti all’ingrosso. E le aziende cinesi, comprese quelle statali, si contendono gli appalti. Questo può essere molto stressante per i manager delle aziende. Basta chiederlo a Dong Junxia, una signora seria ed elegante. Dal 2008 è responsabile della piccola sede ugandese della China railway seventh group corporation, consociata della Crec, una delle aziende edili più grandi del mondo. Ha lavorato a progetti di costruzione stradale in zone difficili della Tanzania e della Liberia, con un certo successo. Ma in Uganda la sua azienda non ha ancora vinto un appalto importante. Dong sembrava vergognarsene, e aveva chiesto che il suo nome e quello della sua società non fossero pubblicati. “Ho fatto carriera in Africa, ma stare lontano dalla mia famiglia è pesante. Nella cultura occidentale è diverso. Stare con la famiglia è una priorità. I cinesi si sacrificano per la famiglia. È difficile decidere quale delle due cose sia più importante”.
Una settimana più tardi mi ha chiamato per dire che potevo usare il suo nome. Era elettrizzata: la sua azienda aveva ottenuto un grosso contratto per costruire una strada. “Dopo due anni di duro lavoro! Può immaginare come mi sento”. u bt
1995 2000 2005 2010
Da sapere
Fonte: The Economist
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Commercio della Cina con l’Africa, miliardi di dollari