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97 La voce nella camera segreta. Interno ed esterno ne Il Tempio del Padiglione d’Oro di Mishima Yukio. Andrea Fioretti 1. La rivelazione dell’interno. Su una scena di “allattamento” a confronto con l’episodio della “Carità Romana”. Quella cosa incredibile accadde proprio allora. La donna, senza scomporsi nella postura, si allentò improvvisamente la veste all’altezza del petto. Le mie orecchie riuscivano quasi a percepire il fru- scio della seta liberarsi dalla parte interna della fascia che le avvolgeva la vita. Apparve un bianco petto. Trattenni il respiro. Con una mano la donna si denudò una delle bianche e floride mammel- le. Offrendo devotamente una tazza da tè di colore scuro e torvo, l’ufficiale strisciò in ginocchio di fronte alla donna. Quella con entrambe le mani prese come a massaggiarsi la mammella. Io non potrei dire d’averlo visto in chiaro, ma quello zampillo e poi quel gocciolio di latte candido e tiepido sulla schiuma verdastra del tè nella tazza scura, quella superficie calma del tè intorbidirsi e poi spumeggiare al contatto del bianco latte: queste cose io ebbi l’impressione di vederle con evi- denza davanti ai miei occhi. (da, Il Tempio del Padiglione d’Oro 1 , II capitolo) 2 Questa scena conclude il secondo capitolo de “Il Tempio del Padiglione d’Oro” di Mishima Yukio, romanzo del 1956 basato su un fatto di cronaca risalente al 2 luglio 1950 e noto come “Incidente dell’Incendio del Padiglione d’Oro” (Kinkaku Houka Jiken). A questo punto della vi- cenda, il protagnosita, che assiste alla scena in compagnia dell’amico Tsurukawa, non ha ancora maturato il progetto di dare alle fiamme il Padiglione d’Oro; siamo solo all’inizio del lungo per- corso che lo porterà a rendersi colpevole di quel sensazionale gesto. Nel passo citato non vengono forniti ulteriori dettagli a proposito di questo singolare rito 1 Il titolo con cui il romanzo è tutt’ora noto in Italia, grazie alla traduzione di Mario Teti inserita anche nel recente Meridiano dedicato a Mishima (Mishima Yukio, Romanzi e racconti, I Meridiani Mondadori, Milano 2004) è “Il Padiglione d’Oro”. Abbia- mo scelto di adottare qui la versione già proposta nella traduzione inglese del romanzo (“e Temple of the Golden Pavillion”) in quanto ci sembra più fedele all’originale. Il titolo in giapponese della famosa opera di Mishima è Kinkakuji. Questo termine è il nome con cui si fa normalmente riferimente al tempio Rokuon (Rokuon-ji), il cui edificio principale, lo Shariden (un reliquia- rio), è appunto il Padiglione d’Oro. Kinkakuji non è dunque il nome ufficiale di questo complesso templare, ma un appellativo attribuito ad esso per via della sua attrazione principale, ovvero il Padiglione d’Oro (Kinkaku). Il titolo del romanzo riprende ap- punto tale appellativo, facendo dunque riferimento all’intero complesso e non solo al suo “cuore”, ovvero la struttura del Padi- glione. 2 Le traduzioni dei brani che compaiono nel presente articolo sono, salvo diversa indicazione, di chi scrive. Trattando l’articolo, fra l’altro, questioni di stilistica, abbiamo ritenuto di privelgiare la fedeltà al testo originale. Per una versione più elegante dal punto di vista dell’italiano rimandiamo senz’altro al valido lavoro sopra citato del Teti (in “Mishima. Romanzi e racconti”, ibid.).

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La voce nella camera segreta. Interno ed esterno ne Il Tempio del Padiglione d’Oro di Mishima Yukio.

La voce nella camera segreta. Interno ed esterno ne Il Tempio del Padiglione d’Oro di Mishima Yukio.

Andrea Fioretti

1. Larivelazionedell’interno.Suunascenadi“allattamento”aconfrontoconl’episodiodella“CaritàRomana”.

Quella cosa incredibile accadde proprio allora. La donna, senza scomporsi nella postura, si allentò improvvisamente la veste all’altezza del petto. Le mie orecchie riuscivano quasi a percepire il fru-scio della seta liberarsi dalla parte interna della fascia che le avvolgeva la vita. Apparve un bianco petto. Trattenni il respiro. Con una mano la donna si denudò una delle bianche e floride mammel-le. Offrendo devotamente una tazza da tè di colore scuro e torvo, l’ufficiale strisciò in ginocchio di fronte alla donna. Quella con entrambe le mani prese come a massaggiarsi la mammella.Io non potrei dire d’averlo visto in chiaro, ma quello zampillo e poi quel gocciolio di latte candido e tiepido sulla schiuma verdastra del tè nella tazza scura, quella superficie calma del tè intorbidirsi e poi spumeggiare al contatto del bianco latte: queste cose io ebbi l’impressione di vederle con evi-denza davanti ai miei occhi.

(da, Il Tempio del Padiglione d’Oro1, II capitolo)2

Questa scena conclude il secondo capitolo de “Il Tempio del Padiglione d’Oro” di Mishima Yukio, romanzo del 1956 basato su un fatto di cronaca risalente al 2 luglio 1950 e noto come “Incidente dell’Incendio del Padiglione d’Oro” (Kinkaku Houka Jiken). A questo punto della vi-cenda, il protagnosita, che assiste alla scena in compagnia dell’amico Tsurukawa, non ha ancora maturato il progetto di dare alle fiamme il Padiglione d’Oro; siamo solo all’inizio del lungo per-corso che lo porterà a rendersi colpevole di quel sensazionale gesto.

Nel passo citato non vengono forniti ulteriori dettagli a proposito di questo singolare rito

1 Il titolo con cui il romanzo è tutt’ora noto in Italia, grazie alla traduzione di Mario Teti inserita anche nel recente Meridiano dedicato a Mishima (Mishima Yukio, Romanzi e racconti, I Meridiani Mondadori, Milano 2004) è “Il Padiglione d’Oro”. Abbia-mo scelto di adottare qui la versione già proposta nella traduzione inglese del romanzo (“The Temple of the Golden Pavillion”) in quanto ci sembra più fedele all’originale. Il titolo in giapponese della famosa opera di Mishima è Kinkakuji. Questo termine è il nome con cui si fa normalmente riferimente al tempio Rokuon (Rokuon-ji), il cui edificio principale, lo Shariden (un reliquia-rio), è appunto il Padiglione d’Oro. Kinkakuji non è dunque il nome ufficiale di questo complesso templare, ma un appellativo attribuito ad esso per via della sua attrazione principale, ovvero il Padiglione d’Oro (Kinkaku). Il titolo del romanzo riprende ap-punto tale appellativo, facendo dunque riferimento all’intero complesso e non solo al suo “cuore”, ovvero la struttura del Padi-glione. 2 Le traduzioni dei brani che compaiono nel presente articolo sono, salvo diversa indicazione, di chi scrive. Trattando l’articolo, fra l’altro, questioni di stilistica, abbiamo ritenuto di privelgiare la fedeltà al testo originale. Per una versione più elegante dal punto di vista dell’italiano rimandiamo senz’altro al valido lavoro sopra citato del Teti (in “Mishima. Romanzi e racconti”, ibid.).

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d’addio. Ma più avanti veniamo a sapere (insieme al protagonista) che la donna, una maestra di ikebana, aveva partorito un bambino morto e che l’uffi ciale, successivamente deceduto in guer-ra, aveva chiesto alla donna di off rigli il suo latte prima di partire per il fronte. Infi ne, nel sesto capitolo, Mizoguchi incontra personalmente la maestra di ikebana, che in quel momento ha una relazione con Kashiwagi – il misterioso personaggio con cui nella seconda parte del libro Mizo-guchi stringe fatalmente amicizia – e le chiede di ripetere per lui quella scena che tanto lo aveva impressionato. Ormai però la donna non ha più latte, il suo seno è vuoto, una semplice “sfera di carne”, “neppure attraente, neppure seducente”3.

Proveremo nel presente articolo, ad inquadrare la scena in una tematica che, come vedremo più avanti, ricorre numerose volte nel romanzo: quella dell’opposizione “interno – esterno”.

Quello che avviene in questa cerimonia di addio consiste sostanzialmente in un episodio di allattamento. Un allattamento, per così dire, contro natura, in quanto il fi glio dei due personag-gi, naturale destinatario del latte, è nato morto, mentre chi eff ettivamente riceve il latte è un adulto, che di quel nutrimento non ha un reale bisogno.

Prima di analizzare in modo più approfondito il passo citato vorremmo proporre un parallelo con un soggetto pittorico che presenta alcune signifi cative analogie con la scena descritta nel ro-manzo: la Carità Romana4. L’esempio che mostriamo qui è di Rubens, il quale ne dipinse nu-merose versioni, ma si potrebbero citare opere di numerosi altri artisti.

Peter Paul Rubens, Carità Romana, 1625

3 Le espressioni sono tratte dalla traduzione di Mario Teti (cit.).4 Cfr. Pietas e allattamento fi liale: la vicenda, l’exemplum, l’iconografi a: colloquio di Urbino, 2-3 maggio 1996, Quattro venti, Ur-bino 1997.

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Il soggetto è tratto dalla mitologia romana, e precisamente dal mito di Pero e Micone. Vi si narra la storia di una figlia devota che si reca segretamente dall’anziano padre, condannato a morire di inedia in carcere, e gli offre il latte del proprio seno per alleviargli le pene. Come sug-gerisce il titolo, si tratta di un chiaro esempio di pietà filiale ed è questa l’interpretazione da at-tribuire all’episodio.

La storia viene narrata da Valerio Massimo (I sec. a.C.) nei Factorum ac dictorum memorabi-lium libri IX5. Ne esiste anche una versione cinese molto simile risalente all’epoca Tang (618 – 907). La troviamo narrata nel decimo episodio dei “Ventiquattro esempi di pietà filiale” (Ershisi xiao), opera di epoca Yuan (1260 – 1368), dove appunto si narra la vicenda della cosiddetta “Si-gnora Tang” (Tang furen). La pietà filiale di questa donna consiste nell’essersi presa cura dell’an-ziana suocera, in particolare offrendole ogni giorno il latte del proprio seno, unico alimento con cui l’anziana, rimasta priva di denti, poteva sfamarsi.

Come si vede anche in questo episodio l’insegnamento didascalico e la virtù della pietà filiale rappresentano le caratteristiche dominanti6. Tuttavia vorremmo ora mostrare come in Occiden-te, in epoca moderna il significato dell’episodio vada drasticamente trasformandosi.

In particolare tra il XVII e il XVIII secolo, ne troviamo numerosi esempi nelle arti figurative. Come nell’esempio sopra mostrato, in tali rappresentazioni il significato originario e centrale del mito, cioè quello dell’atto di pietà filiale, passa decisamente in secondo piano rispetto all’ele-mento erotico, tanto che l’attenzione dell’osservatore finisce per essere attirata dalle caratteristi-che sensuali dell’immagine, piuttosto che dal suo implicito valore morale.

Quello che vediamo non è una figlia che tenta di alleviare le pene del padre, ma piuttosto un vecchio uomo che succhia il latte dal seno di una giovane e prosperosa fanciulla. L’atto dell’allat-tamento appare interamente svuotato della sua funzionalità primaria e del suo senso; traspare la volontà di ritrarre una natura contorta e dall’ordine sovvertito.

Se come abbiamo appena ricordato, questo racconto ha ottenuto notevole successo nelle arti figurative, non altrettanto si può sostenere per l’ambito letterario. Due esempi si possono trovare in un sonetto del poeta dialettale romano Giuseppe Gioacchino Belli (1791 – 1863)7 e nel ro-

5 Nell’opera di Valerio Massimo vengono narrate in realtà due versioni dell’episodio. La prima (libro V, cap. 4.7) è relativa ad una donna, rinchiusa in carcere e condannata a morte, che viene allattata e mantenuta in vita dalla figlia. Questo episodio viene raccontato in modo dettagliato, mentre il secondo (V, 4.ext.1) si presenta quasi in forma di appendice al primo e ricorda in po-che righe la vicenda di Pero e Micone. È significativo che il primo episodio sia stato sostanzialmente dimenticato, mentre il se-condo, appena accennato nel testo di Valerio Massimo, sia divenuto un fortunato soggetto pittorico. Il fatto che i protagonisti siano due individui di sesso opposto lascia infatti maggiore spazio ad un’interpretazione della storia in chiave sensuale.6 Ad avvalorare tale interpretazione notiamo anche il fatto che in questa versione, come nel primo dei due episodi narrati da Valerio Massimo e ricordati nella nota precedente, chi riceve il latte è una donna, particolare che allontana ancor più possibili implicazioni di stampo erotico; implicazioni che come vedremo abbondano nelle versioni occidentali moderne dell’episodio.7 “Un cuadro bbuffo”, Giuseppe Gioacchino Belli. (in Tutti i sonetti romaneshi, I Mammut, Grandi Tascabili Economici, New-ton & Compton, Roma 1998, vol.I, p.998). Nel componimento del poeta romano, un popolano osserva e descrive a suo modo, una rappresentazione del soggetto. Dalle comiche espressioni del parlante traspare tutto il suo stupore di fronte all’insolita scena, di cui vengono messi in risalto esclusivamente gli elementi erotici. (Per una lettura del sonetto in relazione all’episodio della Ca-rità Romana vedi in particolare: G. Cerboni Baiardi, La carità romana in un sonetto del Belli, in Pietas e allattamento filiale, op.cit.).

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manzo Furore dello scrittore americano John Steinbeck (1902 – 1968)8.Abbiamo affrontato questa digressione non tanto per ipotizzare un precedente letterario della

scena ideata da Mishima, quanto per notare che, come nelle raffigurazioni barocche della “Carità Romana”, anche nel romanzo dello scrittore giapponese il significato di rigenerazione legato all’allattamento – nella sua versione naturale (nutrire un neonato), come nella sua variante di exemplum (dare sollievo ad un anziano) – viene ribaltato, per privilegiare esclusivamente l’aspet-to erotico, feticistico se vogliamo, dell’atto. L’ordine naturale viene sovvertito e il lettore è colpi-to quasi esclusivamente dai particolari sensuali di cui la scena è connotata.

In un autore come Mishima, grande conoscitore e studioso di autori come George Bataille o del Marchese De Sade, è tutt’altro che raro incontrare l’elemento dell’erotismo. Tuttavia, quello su cui vogliamo portare l’attenzione – ed è questo il motivo che ci ha spinto a proporre un pa-rallelo con l’episodio della “Carità Romana” – è proprio la peculiarità del rito spiato dal prota-gonista de “Il Tempio del Padiglione d’Oro”, rispetto all’episodio dell’allattamento nella “Carità Romana”.

Tralasciamo il fatto evidente che nel romanzo di Mishima il personaggio maschile – pur es-sendo anch’egli in qualche modo un “condannato a morte” – non è affatto un vecchio, per con-centrarci sulle diverse modalità in cui avviene l’allattamento nei due episodi. Come abbiamo vi-sto, e come si nota dall’immagine che abbiamo voluto proporre, l’anziano personaggio della “Carità Romana”, succhia il latte come un neonato, direttamente dal seno della fanciulla. È pro-prio questo il particolare che stupisce l’ossevatore e conferisce all’immagine il tono erotico e sen-suale di cui abbiamo parlato.

Nella scena del nostro romanzo avviene invece un fatto molto diverso. L’ufficiale infatti si fa prima versare il latte nel tè dell’addio, per poi berlo subito dopo. I particolari erotici in questa scena si concentrano piuttosto sul personaggio femminile: lo svestirsi facendo strusciare le vesti, l’esporre alla luce il petto bianco, il massaggiare con le mani il seno per provocare la fuoriuscita del latte “candido e tiepido”. Aggiungiamo inoltre che questi particolari, come viene per altro ri-cordato dal narratore stesso, appaiono eccezionalmente ingigantiti dalla fantasia di Mizoguchi, che dalla distanza a cui si trova non potrebbe logicamente percepire in modo tanto netto quei dettagli9.

Alla luce di queste osservazioni ci accorgiamo che l’“allattamento” dell’ufficiale assume sfuma-

8 Nella scena, che conclude il romanzo di Steinbeck, la protagonista Rosa Tea offre il latte del suo seno ad un non meglio iden-tificato “uomo” morente. Trattandosi di poche righe riportiamo il testo nella traduzione italiana di Carlo Coardi. “[...]si alzò fa-ticosamente in piedi aggiustandosi la coperta attorno al corpo, si diresse a passi lenti verso l’angolo e stette qualche secondo a contemplare la faccia smunta e gli occhi fissi, allucinati. Poi lentamente si sdraiò accanto a lui. Rosa Tea sollevò un lembo della coperta e si denudò il petto. «Su, prendete» disse. Gli si fece più vicino e gli passò una mano sotto la testa. «Qui, qui, così.» Con la mano gli sosteneva la testa e le sue dita lo carezzavano delicatamente tra i capelli. Ella si guardava attorno, e le sue labbra sor-ridevano, misteriosamente”. (Jhon Steinbeck, Furore, Bombiani, 1940). In questo romanzo del 1939, che tratta gli scottanti temi della Depressione e del New Deal, la scena è sostanzialmente priva delle connotazioni sensuali osservate sopra e l’episodio della Carità sembra riacquistare parte del suo senso originario.9 I due personaggi si trovano sulla cima di un edificio del tempio Nanzen, dove si sono recati per una visita, e guardano in basso verso la donna.

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ture ben diverse da quelle della Carità Romana nella sua versione barocca. L’effetto erotico appa-re meno immediato e soprattutto la funzione “veicolare” del tè dell’addio sembra suggerirci qualcosa in più di una pratica di allattamento snaturata e lasciva.

Vediamo dove si concentrano i punti di tensione narrativa nel racconto di questo episodio. Come abbiamo detto Mizoguchi e Tsurukawa osservano la scena da lontano. La loro attenzione viene attirata dalla bellezza irreale della donna, più simile a una bambola che ad un essere uma-no. Li colpisce inoltre il suo abito sgargiante, inusuale, forse persino inopportuno, per quei tem-pi di guerra. Inizia poi la svestizione. Il particolare del fruscio degli indumenti, forse impossibile da udire, lo ripetiamo, dalla posizione in cui si trovano gli osservatori, accentua la tensione dell’istante che precede l’apparizione del petto nudo della donna. Poi la frase breve e lapidaria: “Apparve un bianco petto”. Qui abbiamo una prima risoluzione dello stato di suspence creato dalla lunga descrizione dell’avvicinamento dei protagonisti al luogo da cui osserveranno il fatto. A confronto con la descrizione dell’episodio in sé, la sua preparazione occupa infatti uno spazio assai maggiore.

Prima del completamento della cerimonia d’addio, nuovi particolari generano un secondo climax narrativo: l’ufficiale che si avvicina in ginocchio, le mani della donna che dopo aver estratto il seno iniziano a massaggiarlo. Finalmente si arriva al culmine della scena con il versa-mento del latte nel tè dell’addio. Il particolare è nuovamente ingigantito, tanto che lo sguardo del protagonista sembra cogliere chiaramente l’incresparsi e introbidirsi della superfice “calma” e schiumosa del tè, distinguere le tonalità dei colori bianco e verde mischiarsi nella tazza, intuire persino il tepore del latte appena fuoriuscito.

Nell’istante successivo l’ufficiale trangugia d’un fiato l’“inconsueto tè”, ma a questo non viene dato particolare risalto; mentre lo scioglimento dell’episodio è affidato al richiudersi delle vesti sul seno della donna.

Il culmine della scena, in conclusione, coincide con la “rivelazione” del seno e soprattutto di ciò che esso contiene, del suo interno, ovvero il latte offerto all’ufficiale. Se l’episodio si fosse svolto nelle stesse modalità di quello descritto nella Carità Romana, non sarebbe stato possibile per Mizoguchi mettere a fuoco con tanta ricchezza di dettagli l’elemento del latte, ovvero il con-tenuto di quel seno, il suo interno.

In seguito, quando Mizoguchi incontrerà personalmente la maestra di ikebana chiedendole di ripetere per lui i gesti dell’allattamento, nella sua mente all’immagine del seno si sovrapporrà quella del Padiglione d’Oro10. Ma, come abbiamo già ricordato, questa volta il seno della donna è privo di latte. Nella prima occasione il latte mancava di assolvere alla sua funzione principale

10 Nella pellicola statunitense Mishima a life in four chapters, di Paul Schrader (Warner Bros., 1985), il primo episodio (“Bellezza”) è appunto ispirato a Kinkakuji. L’episodio è interamente girato in un interno ricostruito artificialmente che riproduce in modo essenziale la struttura (completamente dorata) del Padiglione e i suoi immediati dintorni. In una delle scene, attraverso uno zoom, il seno della donna con cui Mizoguchi si è appartato viene avvicinato alla riproduzione del Padiglione che prima si trova-va in secondo piano sullo sfondo dell’inquadratura. La scena e la donna in questione non corrispondono esattamente a quelle del libro. Tuttavia la tecnica dello zoom riesce a rendere con successo il trauma dell’intrusione del Padiglione nella vita di Mizo-guchi e la paralisi che tale intrusione provoca nella sua interiorità.

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di nutrire un neonato e veniva invece destinato ad un uomo adulto e per di più prossimo a mo-rire. Tuttavia, nonostante la sua inutilità, il seno della donna affascinava Mizoguchi; e questo proprio in virtù della sua capacità di contenere la sostanza vivificatrice del latte. Perduta questa funzione essenziale, il seno diviene semplice materia priva di qualsiasi attrattiva.

È significativo che proprio in questo frangente avvenga l’associazione con il Padiglione d’Oro. Come il seno della donna infatti anche l’interno del Padiglione è vuoto, o meglio, svuotato del suo nutrimento naturale. Ma se il latte costituisce il nutrimento di cui il seno materno è pieno, a questo punto dovremmo domandarci quale sia il “nutrimento” contenuto nel Padiglione. Qual’era il contenuto del Padiglione prima che l’oscurità e il silenzio ne occupassero l’interno?

Per rispondere a questa domanda proveremo ad esaminare alcune significative immagini rela-tive alla tematica dell’interno e dell’esterno.

2. Un“lieveritardo”.Lacomunicazioneinterrottafrainternoedesterno.

L’autentico autore dell’incendio del Padiglione d’Oro si chiamava Hayashi Shōken. Ventu-nenne all’epoca, era bonzo del Rokuon-ji e studente della prestigiosa Università Otani. L’inci-dente avvenne il 2 luglio del 1950 e il romanzo di Mishima ripercorre fedelmente le tappe che precedettero l’attuazione del piano criminale di Hayashi. Uno dei numerosi elementi mantenuti nel romanzo è quello della balbuzie del ragazzo. I caratteri stessi del nome che Mishima attribui-sce al protagonista, Mizoguchi11, sono associabili al suo handicap vocale e fanno di esso una ca-ratteristica fondamentale di questo personaggio.

Vediamo in che termini Mishima, o tecnicamente parlando il narratore in prima prima per-sona (Mizoguchi stesso) descrive questa balbuzie.

La balbuzie aveva stabilito un ostacolo tra me e il mondo esterno. Il primo suono non usciva fuori bene. Era quel suono la chiave della porta fra il mio mondo interiore e quello esterno; ma quella chiave non girava. Le persone normali riuscivano a giostrare benone le loro parole: loro la porta fra i mondi interno ed esterno la tenevano spalancata, con una bell’aria che ci passava attraverso. Io invece non ci riuscivo affatto. La chiave si era arrugginita.Mentre smania di profferire quel primo suono, il balbuziente somiglia ad un uccellino che si divin-cola per tirarsi fuori dalla densa pania in cui è intrappolato. Quando finalmente ci riesce è già troppo tardi. E infatti c’erano situazioni in cui la realtà del mondo esterno sembrava quasi fermarsi un istante ed aspettarmi, mentre mi dimenavo. Ma un realtà che si ferma per aspettarti non è più la viva realtà. Anche se finalmente la raggiungevo, avendoci magari impiegato un po’, immancabil-mente in quel medesimo istante era già scolorita, sfalsata; ...così, perduta quella freschezza che sola io reputavo degna, la realtà se ne restava stesa a terra, come esalante di fetore12.

11 Il primo carattere (溝,mizo) indica un “solco”, o anche un’ “incrinatura”; il secondo (口,kuchi, nigorizzato in guchi per l’ac-costamento al carattere precedente) significa invece “bocca”. Il nome potrebbe dunque rendersi con un’espressione del tipo “bocca solcata, incrinata”. 12 Da Kinkakuji (“Il Tempio del Padiglione d’Oro”), Capitolo I.

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La balbuzie viene quindi presentata come un ritardo, un istante di ritardo che costringe Mi-zoguchi a cogliere la realtà in modo sempre sfalsato. Quando dopo immensi sforzi riesce final-mente a girare la chiave arrugginita della porta che lo separa dal mondo esterno, al di fuori non trova che il pallido simulacro di quella realtà che aveva inseguito.

Nel passo successivo emerge in modo ancor più evidente il legame fra la balbuzie ed il ritardo.

La balbuzie era anche nelle mie emozioni. Le mie emozioni non facevano mai in tempo. [...] Un piccolo sfasamento temporale, un piccolo ritardo riportava ogni volta le mie emozioni e le mie esperienze ad una condizione di dissociamento, un dissociamento forse radicale13.

Del resto, se consideriamo la menomazione fisica che stigmatizza il personaggio Kashiwagi, figura che rappresenta per molti aspetti un doppio del protagonista, ci accorgiamo che quel suo vistoso claudicare viene anch’esso descritto nei termini di un’andatura ritardata.

Ogni volta era come se stesse camminando in mezzo ad un pantano: quando finalmente era riusci-to a tirar fuori un piede dal fango, l’altro era ancora invischiato nella melma14.

L’associazione degli handicap dei due personaggi sotto l’aspetto del ritardo risulta ancora più evidente se pensiamo alla metafora, sopra citata, dell’uccellino invischiato nella trappola. In quell’occasione la metafora visualizzava l’angoscia del protagonista incapace di pronunciare “il primo suono”.

Eviteremo in questa sede di approfondire ulteriormente questo tema del ritardo, che comun-que ci appare una chiave interpretativa non trascurabile di questo romanzo. Non dimentichia-mo infatti che lo stesso incendio del Padiglione avviene in fondo solo dopo un lungo ritardo. Per ben due volte il Padiglione viene minacciato dalla distruzione: la prima volta durante la Guerra, quando era cominciata a circolare la notizia di un bombardamento su Kyoto; la secon-da, in occasione del tifone che si avvicina minacciando pericolosamente la costruzione ma la-sciandola infine del tutto intatta.

Considerando il fatto che la liberazione del protagonista dovrà necessariamente attuarsi come un processo che dall’interno porta verso l’esterno, è naturale che anche la distruzione del Padi-glione non potrà verificarsi in conseguenza di cause venute dall’esterno. Si dovrà perciò attende-re qualcosa che lo colpisca dal di dentro.

Prima di analizzare, nella terza sezione di questo articolo, in che modo la tecnica narrativa di Mishima enfatizzi questa impossibilità comunicativa fra il mondo interiore e quello esterno, porteremo altri esempi in cui il binomio “dentro – fuori” sembra assumere significativo rilievo.

Inviato ad Osaka durante la guerra per una commissione, Mizoguchi assiste alla macabra sce-na di un uomo sventrato. In quell’occasione si interroga sul motivo per cui gli uomini aborrisco-no la vista del sangue, delle viscere: perché l’interno del corpo umano è considerato brutto?

13 Ibid. Capitolo II.14 Ibid. Capitolo IV.

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Interno ed esterno. Osservare gli uomini come le rose, che non hanno un fuori e un dentro: per-ché mai questo modo di pensare dovrebbe apparire disumano? Se gli uomini, l’interno della loro mente e del loro corpo si potessero voltare e rivoltare come i petali di una rosa, esporli alla luce del sole e alla brezza di maggio...15

Alle dicotomie interno – esterno, oscurità – luce viene già qui a sovrapporsi la riflessione sul bene e il male; e comincia a farsi strada nel protagonista il rifiuto di considerare oggettivamente malvagio ciò che le leggi e il comune sentire degli uomini giudicano criminale ed immorale.

Il riferimento al mondo della natura è costante nel romanzo, spesso proprio in riferimento alla dicotomia interno – esterno. Durante una gita ad Arashiyama, Mizoguchi dal finestrino del treno guarda scorrergli accanto il paesaggio circostante.

Scuotendo le cime degli alberi, il vento faceva piovere le foglie morte fra i cespugli ammassati. In-tanto le radici, come indifferenti a tutto ciò, sprofondavano calme, giù e più giù, aggrovigliando caoticamente i loro grossi nodi16.

Mentre gli occhi del protagonista osservano una natura incostante e in preda alle intemperie, la sua mente si insinua nelle viscere della terra, dove scorre una vita pervicace, indifferente agli sconvolgimenti della superficie. Di lì a breve, appartatosi con una ragazza, scoprirà la sua impo-tenza sessuale, e quasi in un’allucinazione vedrà l’imponente struttura del Padiglione d’Oro im-prigionarlo nel suo interno.

Questa visione del Padiglione d’Oro che paralizza Mizoguchi, ogni qualvolta tenti di uscire da se stesso per avvicinarsi alla vita, rimarrà una costante, fino a quando, ormai alla vigilia dell’incendio, egli riuscirà ad avere un rapporto con la prostituta Mariko. Una delle visioni si ve-rifica mentre il protagonista osserva un’ape penetrare fra i petali di un crisantemo; una scena che nella descrizione assume modalità analoghe a quelle di un amplesso. Il fiore e l’insetto arrivano quasi a trasfigurarsi ed assumere l’uno le sembianze dell’altro.

La forma è stampo della vita, che senza forma, scorre. Al tempo stesso la vita, che senza forma prende il volo, è stampo di ogni forma di questo mondo17.

Il crisantemo viene descritto come una forma perfetta, creata per ingenerare nell’ape il deside-rio. Di qui il parallelo con il Padiglione d’Oro, appunto una struttura perfetta, una porzione di spazio, sottratta al tempo, che genera desiderio.

Tale concetto viene ripreso in un altro passo del romanzo in cui si cita un racconto di periodo Muromachi (1336 – 1573), lo Tsukumogamiki (Resoconto sugli spiriti di oggetti). Secondo un’antica credenza i vecchi utensili, trascorsi cento anni, si trasformano in spiriti. Qualora inol-

15 Ibid. Capitolo III.16 Ibid. Capitolo V.17 Ibid. Capitolo VII.

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tre tali oggetti siano stati trattati senza particolare cura e gettati via senza il dovuto rispetto, as-sumono carattere maligno. Si tratta di una credenza di tipo animista e tutt’oggi in alcuni templi si svolgono cerimonie in cui i vecchi oggetti vengono “smaltiti” in modo adeguato, appunto per evitare che da essi si sprigionino entità nefaste.

Tuttavia nell’interpretazione dell’aneddoto che troviamo nel romanzo viene lasciato da parte l’aspetto animistico, per fornire una lettura filosofica che nella mente di Mizoguchi servirà a giu-stificare la sua azione distruttiva.

Per esempio, anche nel caso di un semplice cassettino fabbricato da un falegname, col passare degli anni, il tempo soggiogherà la sua forma, e dopo dieci o cent’anni sarà a sua volta il tempo che, so-lidificatosi, arriverà ad assumere la forma stessa dell’oggetto. Inizialmente abbiamo una piccola porzione di spazio occupata dalla materia, che poi a sua volta verrà occupata dal tempo solidifica-to18.

Nell’aneddoto originale gli oggetti di cui si parla sono i più vari, ogni tipo di oggetto è sog-getto alla trasformazione in spirito. Non è un caso, riteniamo, che l’oggetto scelto nel romanzo sia proprio un cassetto. Il cassetto infatti è un oggetto che contiene, ha un interno, e come tale può essere associato ad una struttura architettonica, come appunto il Padiglione d’Oro. Il tempo si solidifica attorno alla materia, che a sua volta racchiude uno spazio interno.

Per visualizzare meglio tale concetto osserviamo questo schema che riassume semplicemente la teoria esposta nel brano.

TEMPO

MATERIA

SPAZIO

Come emerge da questa figura, la materia si frappone fra il tempo al suo esterno e lo spazio al suo interno. La comunicazione fra interno ed esterno, deduciamo, viene impedita; viene pertan-to a generarsi una forma di stasi. La soluzione auspicata dal protagonista per superare questa im-passe è appunto quella di eliminare l’elemento materia, la struttura del Padiglione appunto, e ri-pristinare così il naturale rapporto spazio – tempo.

Nel caso del Padiglione, infatti, la materia è sottratta al suo naturale divenire, in quanto pro-tetta dalle leggi degli uomini. Nel capitolo sesto Mizoguchi si sofferma a leggere i cartelli che ri-

18 Ibid. Capitolo VIII.

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portano gli avvertimenti e i divieti ministeriali riguardanti l’area circoscritta del tempio e minac-ciano sanzioni per chiunque attenti alla sicurezza del luogo.

Il protagonista giudica assurde quelle regole e prova disprezzo per chi le ha emanate. Nei tem-pi antichi era normale che le architetture templari fossero minacciate dalla distruzione e da un fuoco rigeneratore.

Il fuoco aveva origine dalla natura, rovina e negazione erano la normalità. I templi costruiti finiva-no immancabilmente divorati dalle fiamme e i principi e le norme buddiste regnavano incrollabili sulla terra. Quegli incendi erano talmente parte delle forze del fuoco, che per quanto dolosi, nes-suno storico li avrebbe mai ritenuti tali19.

Oggi i templi sono ormai divenuti estranei a queste leggi naturali ed universali. Il Padiglione diviene progressivamente per Mizoguchi una figura di staticità e di morte e come tale va abbat-tuto. L’ambiziosa e calcolatrice madre di Mizoguchi sembra aver perfettamente compreso le lo-giche che governano la contemporaneità e ci sembra significativo questo scambio di battute con il figlio.

“Il Padiglione d’Oro finirà incendiato per i bombardamenti, vero?”“[…] A Kyoto i bombardamenti non ci saranno mai. Vedrai che i nostri americani avranno un oc-chio di riguardo.”20

Nelle guerre moderne gli obbiettivi bellici vengono accortamente calcolati e tale caratteristica appare in netta contraddizione con quel fuoco purificatore che nell’antichità distruggeva ogni cosa casualmente, imparzialmente, affidando le cose umane alle leggi del divenire. Il Padiglione viene risparmiato dai bombardamenti e una volta finita la guerra:

In breve tempo il numero dei visitatori al tempio era aumentato. L’abate era riuscito ad ottenere dal municipio un aumento del prezzo del biglietto in risposta all’inflazione21.

Più volte nel corso del romanzo si fa riferimento alle visite turistiche al tempio. Il Padiglione d’Oro, capolavoro di architettura religiosa che rispecchia nella sua struttura lo spirito pragmati-co dei tempi di guerra in cui era stato concepito, è ormai divenuto un mezzo finalizzato esclusi-vamente all’interesse economico e all’accumulo di denaro. Lo stesso abate viene presentato come una figura corrotta, più dedita agli affari e alle donne che alle questioni religiose e spirituali.

Come abbiamo accennato in precedenza, anche il titolo scelto per il romanzo acquista rilievo in questo senso. Il tempio che fa da sfondo alle vicende narrate non viene infatti chiamato con il suo nome originale, ma con quello con cui è conosciuto al secolo e derivato dalla sua maggiore attrazione turistica: non Tempio Rokuon, ma Tempio del Padiglione d’Oro.

19 Ibid.20 Ibid. Capitolo III.21 Ibid.

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Ci riallacciamo così al quesito lasciato in sospeso nella precedente sezione; ovvero quello del “nutrimento” di cui il Padiglione è rimasto svuotato. Quel nutrimento non è altro che la spiri-tualità, i valori religiosi ed etici che il tempio, struttura ormai vuota e sterile, non rappresenta più e che non è più in grado di trasmettere agli uomini. Sterile come il seno della maestra di ikebana, privo del suo latte e dunque delle sue qualità vivificanti e rigeneratrici. Allo stesso modo anche il Padiglione, descritto come oscuro al suo interno, non ha più doti vitali ed è or-mai incapace di nutrire lo spirito degli uomini. Solamente attraverso un atto che sprigioni nuo-vamente la luce dal suo interno potrà recuperare il suo originario valore spirituale.

Al termine del romanzo, Mizoguchi, portato ormai a compimento il suo clamoroso progetto, si rifugia su un’altura e osserva da lontano il risultato della sua azione. Dalla posizione in cui si trova non vede direttamente le fiamme che divorano l’edificio, ma solo le emanazioni di luce provocate dall’incendio. E come in quella visione, quasi miracolosa, in cui il seno della donna aveva mostrato ai suoi occhi stupefatti un’interno puro e fecondo, anche il Padiglione, incendia-to dal di dentro, gli rivelerà, in uno spettacolo di bagliori e faville, il suo interno22: una visione catartica attraverso cui Mizoguchi sentirà finalmente liberarsi anche la propria interiorità.

Nell’ultima sezione vedremo come la dialettica interno – esterno non sia risolta esclusivamen-te attraverso immagini come quelle mostrate fin’ora, ma si traduca anche sul piano narrativo at-traverso un uso particolare del monologo interiore.

3. Prigioninarrative.Lafunzionedella“doppiacornicedidialogo”ne“IlTempiodelPadiglioned’Oro”.

Tentai di balbettare qualcosa fra i denti. Come al solito ogni singola parola, esattamente come quando si infila la mano in un sacco per cercare una cosa, ma restando impigliati in un’altra non riusciamo a tirarla fuori in alcun modo, si affacciava alle mie labbra facendomi saltare completa-mente i nervi. La pesantezza, la densità del mio mondo interiore era del tutto identica a quella notte: le parole venivano su stridendo come un pesante secchio dal profondo pozzo della notte.«È il momento. Ancora un po’ di pazienza», pensai «e la serratura arrugginita tra il mio mondo in-teriore e l’esterno scatterà a meraviglia. Interno ed esterno saranno in corrente e il vento prenderà a soffiare a volontà. Il secchio verrà su leggero leggero come in un battito d’ali e ogni cosa si dispie-gherà di fronte a me in pianure sconfinate. La camera segreta rovinerà... Ho già tutto davanti agli occhi. È ad un palmo di mano, sento già di toccarlo...»Ero pieno di gioia. Ero rimasto seduto al buio per un’ora. Sentivo che da quando ero al mondo non avevo mai provato una gioia simile... Ad un tratto mi levai dall’oscurità23.

22 Ricordiamo al proposito una scena del film Enjō (“Conflagrazione”) di Kon Ichikawa (Daiei, 1958), trasposizione cinemato-grafica del romanzo di Mishima. Non si tratta dell’ultima scena del film in quanto il regista, con una scelta se vogliamo discuti-bile, propone un suicidio finale del protagonista che si getta da un treno in corsa. Bellissima invece la scena in questione, che, nonostante il bianco e nero della pellicola, mantenendosi fedele al testo letterario, riesce a rendere in modo assai efficace la scon-volgente visione di luce che investe il protagonista. 23 Ibid. Capitolo X.

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Abbiamo citato un brano piuttosto lungo dalle ultime pagine del romanzo allo scopo di met-tere in evidenza il passaggio dalla voce narrante, in prima persona, al monologo interiore. In en-trambi i casi chi parla, ovviamente, è la stessa persona, con la differenza che la voce narrrante corrisponde all’io che racconta i fatti quando questi sono ormai interamente compiuti – e non dimentichiamo che, trattandosi di un incidente storico e noto a tutti, il lettore è già a conoscen-za di come la storia andrà a finire – mentre il monologo interiore è la voce del passato, l’io che si trova ancora in medias res.

Intenzionalmente abbiamo utilizzato un diverso segno grafico (i caporali « ») per distinguere questo monologo dal sopra citato dialogo con la madre (virgolette o doppi apici “ ”). Nel testo originale infatti i segni impiegati per il discorso diretto e il monologo interiore sono nettamente contraddistinti. Mishima è molto attento a distinguere le varie forme di discorso narrativo: non solo il discorso diretto dall’indiretto, ma anche il soliloquio dal monologo interiore, e questi ul-timi dalle forme “ibride” dell’indiretto e diretto liberi.

In particolare, l’uso di un preciso segno tipografico per isolare il pensiero del protagonista, ovvero il monologo interiore – distinto dal soliloquio per il fatto che quest’ultimo, come indica il termine stesso, viene effettivamente pronunciato dal personaggio, e dunque non è più sempli-ce pensiero – si nota in tutta la produzione dello scrittore, fin dagli esordi. I segni di cui parlia-mo sono le “doppie cornici di dialogo”24; l’uso di questo espediente grafico per evidenziare il monologo interiore è tutt’altro che frequente, ed è pertanto considerabile una peculiarità dello stile di Mishima.

In ambito narrativo la “doppia cornice” si limita di norma al caso in cui un personaggio cita parole pronunciate da un altro personaggio. Questa funzione di discorso diretto all’interno del discorso diretto, si riscontra in alcuni casi nello stesso “Tempio del Padiglione d’Oro”. Tuttavia ben più numerose sono le occorrenze della funzione di isolamento del monologo interiore sopra accennata.

Prima di analizzare alcuni esempi a nostro avviso significativi alla luce delle considerazioni sul tema “interno ed esterno”, vorremmo aggiungere qualche considerazione a proposito della parti-colare posizione che il monolgo interiore diretto occupa all’interno di un romanzo in prima per-sona.

La produzione narrativa di Mishima comprende per la maggior parte romanzi in terza perso-na. Due importanti eccezioni sono rappresentate da “Confessioni di una maschera” (Kamen no kokuhaku, 1949), e appunto “Il Tempio del Padiglione d’Oro”. Nel caso di un romanzo in terza persona il narratore racconta le vicende di un personaggio diverso da lui stesso, di conseguenza, almeno in via teorica, anche i pensieri e le riflessioni più intime del personaggio riguardano

24 La definizione è di chi scrive. I segni in questione sono le cosiddette nijū-kagikakko (『』,二十鉤括弧),termine tecnico che letteralmente significa “doppie parentesi a gancio” (ma qui abbiamo preferito una diversa soluzione). Si distinguono dalle “cor-nici di dialogo” semplici, o kagikakko (「」,鉤括弧),che sono i segni tipografici comunemente utilizzati nella narrativa giappo-nese per distinguere il discorso diretto dalle altre parti narrative (descrizioni, discorso indiretto e sue forme alterate, ecc...).

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esclusivamente quest’ultimo. Per questo è naturale che l’autore isoli nettamente il monologo in-teriore del personaggio dalla parola del narratore, oppure scelga di mantenere più ambigua tale distanza scegliendo forme narrative complesse come il discorso indiretto libero.

Il fatto che questo fenomeno avvenga anche in romanzi in prima persona non è raro, né, se vogliamo, particolarmente degno di nota. Tuttavia va ricordato che in questo caso la distanza tra narratore e personaggio non è semplicemente ridotta, ma persino azzerata: narratore e protago-nista coincidono, anche se esiste un determinato lasso di tempo che li separa. In tale contesto il monologo interiore diretto assume un significato particolare, in quanto il narratore sente la ne-cessità di porre in qualche modo una distanza tra l’attuale se stesso e il se stesso del passato, met-tendo in evidenza il pensiero di quest’ultimo così come è stato formulato in un dato momento del passato.

Per ritornare all’esempio citato all’inizio di questa terza sezione, al narratore non basta descri-vere lo stato di gioia ed euforia provati quella notte poco prima di compiere l’atto criminale; sente il bisogno di dare una voce a quei pensieri impossibilitati ad emergere per via del difetto fisico del protagonista. Dalle parole che leggiamo all’inizio del brano citato, “tentai di balbettare qualcosa fra i denti”, deduciamo che l’intenzione di Mizoguchi è quella di pronunciare ad alta voce i suoi pensieri, ma ostacolato dall’inesorabile insorgere della balbuzie, si vede costretto a trattenere dentro di sé quelle sue intime sensazioni.

Si apre così lo spazio del monologo interiore, e il lettore viene introdotto in quella “camera segreta” da cui l’io del protagonista tenta tormentatamente di liberarsi.

Dobbiamo ricordare a questo punto che il monolgo interiore diretto, ovvero quello separato dal resto della narrazione per mezzo di doppia cornice, non è l’unico modo con cui viene comu-nicato il pensiero del protagonista25. Come abbiamo accennato in precedenza, Mishima è molto attento all’uso delle tecniche narrative e si serve di numerosi strumenti per esprimere il pensiero intimo.

In alcune occasioni il pensiero riesce effettivamente ad emergere nella forma di un soliloquio pronunciato dal personaggio. Il segno grafico scelto in questo caso è quello della cornice sempli-ce e la forma narrativa è pertanto assimilabile al discorso diretto semplice.

“Un giorno di certo ti dominerò. Non verrai mai più ad ostacolarmi; un giorno di sicuro io ti farò mio”.La mia voce riecheggiò a vuoto nella notte dello stagno Kyoko26.

In altri casi è la voce narrante a farsi carico del monologo interiore del protagonista e nel testo non compare alcun segno a separare il pensiero intimo dal resto della narrazione, come nel caso

25 In rari casi, inoltre, quanto viene affermato nel monologo interiore in doppia cornice corrisponde ad un pensiero del tutto elementare che non aiuta a comprendere meglio la psicologia del personaggio. Si veda ad esempio la seguente frase nel capitolo VII: «Pescano muggini? Se si tratta di muggini, allora la foce del fiume non dovrebbe essere lontana.»).26 Ibid. Capitolo X.

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della famosa domanda:

Perché la neve non balbetta?27 pensai io28.

Fatte tali precisazioni, torniamo a considerare gli esempi di monologo interiore diretto in doppia cornice di dialogo. Nella maggior parte dei casi infatti le riflessioni intime del protagoni-sta falliscono nel tentativo di divenire parola, restando piuttosto imprigionate in quello che a nostro avviso rappresenta uno spazio chiuso, isolato dal resto della narrazione.

L’idea che all’improvviso mi venne alla mente, dovrei forse chiamarla – come diceva Kashiwagi – un’idea atroce? In ogni modo quest’idea nacque d’un tratto nel mio intimo, rivelando il senso che da prima aveva balenato in me, e accese di splendore la mia interiorità. Non ci avevo ancora riflet-tuto in modo profondo, ero stato semplicemente colpito da quell’idea, come si viene colpiti da un bagliore. Tuttavia, non appena si generò, questo pensiero che prima d’allora non mi aveva mai nemmeno sfiorato la mente, in quello stesso istante acquistò rapidamente intensità, divenne gigan-tesco. Ne venni addirittura avvolto. Quell’idea diceva così: «Incendiare il Padiglione d’Oro»29

La frase che abbiamo messo fra caporali appare, nel testo originale, inserita appunto all’inter-no della doppia cornice di dialogo. Ciò che colpisce di questo brano è però la descrizione del processo mentale inconscio che porta alla nascita dell’idea criminosa. Essa infatti sembra schiu-dersi nella mente del protagonista in maniera quasi indipendente dalla volontà di quest’ultimo. Mizoguchi ne rimane come abbagliato, la vede crescere a dismisura dentro di sé e circondarlo fino a farlo quasi prigioniero.

La doppia cornice impiegata per citare le brevi e perentorie parole che esprimono l’idea, ap-pare dunque funzionale allo scopo di far parlare una voce interna, separata dalla volontà del protagonista, quasi un imperativo categorico che non ammette alcun altra via d’uscita.

Abbiamo già ricordato che nella tecnica narrativa di Mishima l’uso della doppia cornice di dialogo è un fenomeno osservabile con significativa ricorrenza. Abbiamo inoltre messo in evi-

27 Nel testo originale in questa frase la particella finale interrogativa (ka) renderebbe vano l’uso del punto interrogativo che è in-vece presente nel testo, quasi ad enfatizzare il singolare quesito che si pone il protagonista. In ogni caso, soprattutto quando si incontrano frasi brevi e perentorie come questa, capita di incontrare figure narrative anomale che in qualche modo sfuggono all’interpretazione che qui stiamo offrendo.28 Ibid. Capitolo III.29 Ibid. Capitolo VII. Nella traduzione che qui proponiamo abbiamo volutamente evitato l’uso della prima persona singolare (ad esempio, «Devo incendiare il Padiglione»), cosa che invece il testo giapponese potrebbe anche consentire (『金閣を焼かなければならぬ』).Seguendo la nostra interpretazione abbiamo preferito mantenere un tono impersonale, come se si trattasse appunto di un ordine interno, la cui origine profonda è sconosciuta allo stesso protagonista. La chiusura del capitolo successivo (VIII) appare assai simile a questa. Una breve frase che utilizza l’identica desinenza ausiliaria della precedente (急がなければならぬ,Bisogna affrettarsi, o Bisogna far presto). In questo caso non viene utilizzato alcun segno particolare per mettere in evidenza la forma del monologo interiore. Va detto tuttavia che in questo frangente è diverso anche il contesto. A capitolo ormai concluso vengono aggiunte due brevi righe di testo introdotte da una data; particolare questo che conferisce alla frase quasi il carattere di una riflessione estrapolata da un diario. Non riscontriamo insomma l’intenzione di dare a questa frase, come nel caso preceden-te, il tono di un pensiero, dirompente e irrefrenabile, emerso dall’intimo del protagonista.

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denza il fatto che all’interno dei romanzi in prima persona questo espediente assume un senso particolare, andando ad imprimere un tono quasi sinistro alla narrazione, in quanto si riceve spesso l’impressione di un dialogo tra le diverse temporalità a cui appartengono la voce narrante e quella “narrata”, risalente al tempo degli eventi descritti.

Nel romanzo di cui ci stiamo occupando si contano circa venticinque ricorrenze di brani in-seriti nella doppia cornice. Come si è detto, in alcuni casi si tratta semplicemente del pensiero del protagonista espresso in modo diretto anziché riportato e riassunto dalla voce narrante. Nel-la maggior parte dei casi tuttavia sembra di leggere un’intenzione più profonda da parte dello scrittore. Spesso ci troviamo infatti di fronte ad un autentico colloquio con il proprio “io”, inte-ramente identificato con la struttura del Padiglione.

Citiamo a tal proposito un passo in cui compare uno dei motivi principali del romanzo, quel-lo della bellezza. La significatività del brano viene messa in evidenza, dal punto di vista narrati-vo, dalla doppia cornice di dialogo, che in questo caso racchiude al suo interno un’autentica in-vocazione al Padiglione.

«O Padiglione d’Oro. Finalmente sono venuto a vivere accanto a te», bisbigliai in cuor mio, smet-tendo per un attimo di spazzare. «Non importa se subito o poi, ma mostrami un giorno la tua amicizia, svelami il tuo segreto. La tua bellezza, mi sembra di essere a un passo dal vederla, eppure mi è ancora invisibile. Fa che io veda in chiaro non la mia rappresentazione mentale del Padiglio-ne, ma la bellezza dell’originale. E dimmi, se è vero che la tua bellezza supera quella di ogni altra cosa a questo mondo, perché sei tanto bello, perché non puoi non esser bello?»30

È interessante notare come i verbi citazionali (pensai, bisbigliai, dissi fra me, ecc…), che in-troducono o seguono i monologhi di Mizoguchi, appaiano spesso in una posizione liminare tra il pensiero e la vocalità, rispecchiando così il costante stato di incertezza di un’espressione inca-pace di scegliere se restare prigioniera dell’io o farsi finalmente parola. Inoltre, anche quando il verbo citazionale sembrerebbe voler dare effettivamente voce al protagonista, la scrittura utiliz-zata non evidenzia affatto la balbuzie di Mizoguchi. Nessun espediente grafico, come puntini di sospensione o simili, sembra interrompere il flusso delle parole; il pensiero del protagonista ap-pare al contrario chiaro e lineare, tanto da far quasi dimenticare al lettore il suo difetto vocale, o persino dubitare se quelle parole vengano effettivamente pronunciate.

Proponiamo un’ultima citazione per chiarire meglio la particolare funzione della doppia cor-nice di dialogo all’interno della narrazione in prima persona. Includiamo volutamente nella cita-zione anche le parti che precedono e seguono il monologo diretto, o voce interiore del protago-nista.

Mentre l’idea si faceva strada in me, mi assalì una sensazione persino beffarda. «Se incendiassi il Padiglione...», dissi dentro me. «L’effetto educativo di un’azione simile sarebbe straordinario. Per-

30 Ibid. Capitolo II.

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ché grazie ad essa gli uomini impareranno che ragionare d’immortalità per analogie non ha alcun senso. E che il semplice fatto di aver continuato per cinquecento cinquant’anni ad ergersi al centro dello stagno Kyoko, non costituisce di per sé alcuna garanzia. Impareranno l’angoscia di vedere di-strutta da un giorno all’altro la scontata certezza delle nostre esistenze comodamente piazzate lì so-pra». Proprio così. Era chiaro che le nostre esistenze erano incamerate e mantenute in vita dalla so-lidificazione di un tempo durato solo per un determinato periodo31.

Questo monologo precede immediatamente il passo sopra citato sullo Tsukumogamiki, attra-verso il quale Mizoguchi giustifica la propria azione rivestendola di un importante valore mora-le. Vogliamo portare l’attenzione sulla parte finale di questo brano. Al termine del monologo il narratore riprende la parola confermando con un deciso “proprio così” quanto espresso fino a questo punto. Nella frase successiva i tempi verbali tornano al passato. La voce ora è quella del narratore, ma quanto viene espresso è ancora il pensiero intimo di Mizoguchi: siamo insomma di fronte ad un genere di discorso (o monologo) indiretto libero.

La parole “proprio così” svolgono la funzione di un’espressione “perno” tra due diverse forme narrative: il monologo interiore e il discorso indiretto libero. In entrambi i casi il pensiero ap-partiene ad un’identico personaggio. Ma presentato in questa maniera il conflitto interiore del protagonista emerge in modo molto più vivido. Viene quasi a crearsi un colloquio in cui la voce del narratore risponde a quella del protagonista (lui stesso prima dell’azione), confermando quanto essa aveva enunciato. Allo stesso tempo, attraverso l’indiretto libero, la voce narrante mantiene uno stato di latenza con il pensiero espresso nel precedente monologo interiore, quasi nel tentativo di ristabilire una qualche unità con esso.

Dalle caratteristiche che abbiamo evidenziato emerge infatti una tecnica narrativa che cerca di riprodurre i vari livelli dell’interiorità del protagonista. Considerato poi che il reale autore dell’incendio venne giudicato affetto da schizofrenia, non è da escludere che il ricorso dello scrittore a tali espedienti narrativi tenti prorpio di riprodurre i meccanismi reconditi della sua lacerazione interiore.

Abbiamo osservato come le occorrenze di monologhi in doppia cornice divengano sempre più numerose man mano che si procede verso il finale, come se l’ansia della liberazione esercitas-se una pressione sempre maggiore dall’interno. L’ultimo esempio si osserva nelle pagine finali, ed è rappresentato dalla voce interna che ripete meccanicamente le parole del Rinzairoku («Se incontri il Buddha, uccidilo; se incontri i genitori, uccidili; se incontri i parenti, uccidili…»): quasi un’eco interna che lo guida alla risoluzione finale.

Dopo l’incendio del Padiglione il romanzo si avvia rapidamente alla conclusione e non si os-servano altri esempi di monologo interiore. Eppure anche le parole conclusive rappresentano proprio un pensiero intimo del protagonista, espresso dalla voce narrante senza il ricorso alle cornici narrative. Volevo vivere32. Anche nel modo di presentare questo pensiero finale, libero da

31 Ibid. Capitolo VIII.

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segni grafici che lo isolino dalla voce narrante, quasi in una ritrovata unità con essa, sembra di cogliere la liberazione del protagonista e la sua riemersione dal buio della camera segreta.

Opere citate

Ketteiban Mishima Yukio Zenshū, (Opere complete di Mishima Yukio – edizione definitiva), 42 voll., Shinchōsha, 2000 – 2005.

Mishima Yukio, Romanzi e Racconti, a cura di Maria Teresa Orsi. I Meridiani Mondadori, 2 voll., Milano 2004.

Yukio Mishima, Il Padiglione d’Oro, trad. di Mario Teti, Feltrinelli, Milano 1962.

Pietas e allattamento filiale: la vicenda, l’exemplum, l’iconografia: colloquio di Urbino, 2-3 maggio 1996, Quattro venti, Urbino 1997.

Giuseppe Gioacchino Belli, Tutti i sonetti romaneschi, I Mammut, Grandi Tascabili Economici, Newton & Compton, Roma 1998.

Jhon Steinbeck, Furore, Bombiani, 1940.

Paul Schrader, Mishima a life in four chapters, Warner Bros., 1985.

Kon Ichikawa, Enjō (“Conflagrazione”), Daiei, 1958.

32 Citiamo qui la frase conclusiva del romanzo nella efficace traduzione di Mario Teti, che utilizza qui una forma di indiretto li-bero. Nell’originale la frase offre in realtà diverse alternative. Ikiyou to watashi wa omotta (生きようと私は思った).Ottenendo un risultato ben più deludente, potremmo anche tradurre letteralmente: voglio vivere, io pensai. In ogni modo quello che vo-gliamo notare è piuttosto l’immediatezza e la genuinità di questo pensiero finale fluito all’esterno senza intralci dalla mente di Mizoguchi. Nessuna delle tormentate argomentazioni che prima affollavano i suoi monolghi interiori prigionieri nelle doppie cornici di dialogo, deve più sforzarsi di emergere per aggiungere qualcosa al suo pensiero.