l'albero dei microchip

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L'albero dei microchip, di Francesco Abate , Massimo Carlotto.

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verdenero

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noir di ecomafia

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Massimo Carlotto, Francesco Abate L’albero dei microchip

© 2009, Edizioni Ambiente S.r.l., via Natale Battaglia 10, 20127 Milanowww.edizioniambiente.it; tel. 02 45487277

© 2009, Massimo Carlotto, Francesco Abate

Tutte le edizioni e ristampe di questo libro sono su carta riciclata 100%

Finito di stampare nel mese di febbraio 2009 presso Genesi Gruppo Editoriale – Città di Castello (Pg)

Gli autori devolvono una parte delle proprie royalties al progetto SalvaItaliadi Legambiente. VerdeNero è una campagna di mobilitazione contro l’ecomafia e il silenzio che l’avvolge, un’occasione concreta per affermare nel paese una nuova cultura della legalità a difesa dell’ambiente.

Per saperne di più: www.verdenero.it; blog.verdenero.it

Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti accaduti o personerealmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.

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francesco abate massimo carlotto

l’albero

dei microchip

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Monrovia, Liberia, Africa occidentaleQuella mattina l’odore era insopportabile. Il fetoredella sporcizia e del marciume ammorbava l’aria.Forse l’unica cosa immacolata era lo stemma bian-co su campo azzurro delle Nazioni Unite sulle jeepblindate.

L’arrivo del colonnello era stato annunciato dalrombo del motore del fuoristrada della scorta. Quat-tro nigeriani, alti, ben nutriti e ben armati.

Kimmie si pulì le labbra unte di burro di palma.“Ecco i signori delle auto di lusso”, pensò prima diafferrare il bicchiere e concedersi una lunga sorsatadi birra allo zenzero.

I liberiani chiamavano così i funzionari Onu, gli

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unici a potersi permettere auto fiammanti e di gros-sa cilindrata, che venivano lavate ogni giorno. I can-didi rami d’ulivo del simbolo dovevano brillaresempre, anche se tutt’intorno le persone morivanodi sete.

E anche se il tenente Kimmie Dou era un effet-tivo dei caschi blu, senza andare troppo in fondo alsuo cuore si sentiva molto diverso dai suoi colleghi.

In testa quelli che stavano per mettere gli scarpo-ni sui legni della locanda Blue Port.

Anche se facevano parte dello stesso branco, loroe il tenente erano di razza diversa.

Appena i passi dei soldati fecero cigolare le assisbilenche, l’umanità variopinta e miserabile delBlue Port smise di chiacchierare e calò il silenzio.

Kimmie li guardò avanzare fra i tavoli del risto-rante. Sfiorò il braccio a un ragazzino che chiedeval’elemosina appoggiandosi sbilenco a un bastone.Aveva una gamba scema e un occhio bianco, gene-rosi regali di una mina. Nonostante fosse mezzocieco e zoppo, in un attimo infilò la porta come segli fosse stato dato un chiaro ordine, sgusciando trale gambe dei soldati nigeriani e del loro colonnello.

I mastini in divisa arrivarono al tavolo dove stava

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il tenente Kimmie Dou e scattarono sull’attenti,rivolgendogli un saluto militare impeccabile ed esa-gerato, visto il luogo.

Solo l’alto ufficiale evitò di far sbattere gli scar-poni sul pavimento in legno. Si levò gli occhiali dasole e allungò la mano. Al gesto seguì la presenta-zione, secca come il suo volto: «Colonnello John-son Yakobù».

La stretta di mano fra i due fu rapida. «Tenente Kimmie Dou.»«Sono qui per dirigere un’operazione mirata» si

affrettò a spiegare il nigeriano, «avvalendomi dellasua unità per il supporto necessario. Pertanto, comepenso le sia già stato comunicato, da questo mo -mento e fino a conclusione della missione lei è sottoi miei ordini diretti».

Il suo inglese dilatato nelle vocali tradiva l’accen-to Yoruba, tipico della Nigeria del sud. La croced’oro che portava al collo testimoniava la fede cat-tolica, comune alla maggior parte della gente dellasua etnia.

«Sì, so già tutto, signore» confermò il tenenteindicando una sedia. «Si accomodi. È un piacereconoscerla, e per due motivi.»

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«E sarebbero?» domandò Yakobù, sedendosi etogliendosi il basco azzurro, subito seguito nelmovimento dagli uomini di scorta.

Kimmie puntò platealmente l’indice verso il sof-fitto. «La sua presenza qui significa che finalmentequalcuno in alto alle Nazioni Unite si è ricordatodi me.» Poi allargò le braccia. «E soprattutto per-ché non avevo mai conosciuto prima un colonnel-lo che accettasse di incontrarmi qui al Blue Port.»

Il colonnello Yakobù sorrise per la prima volta esi guardò intorno. Ai tavoli, sparsi nella sala fumosa,c’erano persone di ogni tipo. Neri cenciosi, orientaliguardinghi, bianchi alticci e uomini eleganti che par-lavano di calcio, donne e affari. Dal brusio affioraval’intreccio caotico di lingue e dialetti.

«In effetti sono solito tenere le riunioni al coman-do Onu e non in un ristorante» ammise. «Ma dicerto ci sono meno orecchie indiscrete qui dentroche tra le mura dei nostri uffici.»

Kimmie si lasciò sfuggire un mezzo sorriso. «Allo-ra sono autorizzato a pensare che si fida di me.»

«Mi è stato detto che posso concedermi questolusso» ribatté il nigeriano. «Ma certo non sono arri-vato ai galloni credendo alle chiacchiere.»

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«Non avevo il minimo dubbio.»I loro sguardi si incrociarono e sembrarono scam-

biarsi un cenno d’intesa. Si erano capiti alla perfe-zione.

«È tanto che frequenta questo ristorante?» chieseil colonnello.

«Solo da quindici anni» rispose Dou con amaraironia. «Più precisamente dalla risoluzione 788.» Edisse setteottotto con la stessa velocità di una raffi-ca di mitra, quasi gli desse fastidio pronunciare quelnumero. «Mi hanno messo qui a sorvegliare il portoe far rispettare l’embargo: come ben sa il mio com-pito è tenere informato il Comitato delle Sanzionisu eventuali infrazioni.»

«Con scarsi risultati, immagino...» sospirò Ya -kobù.

Il tenente alzò le spalle. «Dal momento che diri-go un’unità di sette uomini per presidiare il piùgrande porto dell’Africa occidentale, farsi notare ègià un’impresa. Di certo non facciamo paura a nes-suno.»

Bevve un’altra sorsata di birra per dare tempo alsuo superiore di assimilare il messaggio. «Quandomi lamento, mi dicono che devo collaborare di più

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con la polizia locale, ma i poliziotti liberiani sonomal pagati e completamente disarmati.»

«Non proprio affidabili, quindi...»«Sappiamo tutti che molti sono corrotti, ma altri

sono semplicemente demoralizzati» continuò il libe-riano, «per cui conviene non coinvolgerli. Almenoper ora. Da giugno hanno alleggerito l’embargo,cominciando a dare loro qualche pistola, ma lamaggior parte delle armi sono in mano ai crimina-li. Se voglio sapere davvero cosa succede al porto»spiegò abbassando la voce, «è qui che bisogna ten-dere le orecchie. E tutti sanno che se si vuol parla-re con Kimmie Dou lo si può trovare a questo tavo-lo». Tacque e si mise a seguire con l’indice una lungaincisione sulle vecchie assi di legno.

Yakobù ghignò, mostrando un premolare d’oro.«Dal punto di vista strategico la scelta del suo quar-tier generale mi sembra ottima, tenente. Birra ecaffè a portata di mano...»

«E anche il miglior panorama sul porto» puntua-lizzò Dou, indicando l’enorme vetrata che permet-teva di osservare chilometri di banchine gremite dinavi, marinai, gru e camion.

Una donna alta e nera come l’ebano si avvicinò

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al loro tavolo. Poi piazzò le mani sui fianchi e presea squadrare i militari uno per uno. Era abituata avedere gente armata nel suo locale e da un pezzoaveva smesso di avere paura.

«Benvenuti al Blue Port, signori. Un altro san dwicho ti porto il caffè, Kimmie?»

Senza attendere la risposta passò con energia unostraccio di pelle sul tavolaccio e ritirò i piatti impi-landoli sull’avambraccio sinistro.

«Caffè, grazie Florence.»La donna annuì e si rivolse ai soldati: «E per voi?

Qualcosa da mangiare?». Il suo tono era gentile, maaveva uno sguardo duro al quale probabilmente nonsfuggiva niente.

«Solo caffè, grazie» rispose per tutti il colonnelloin tono cortese. «Ho sentito dire che da queste partiè formidabile.»

«Il migliore di tutta l’Africa. L’unica cattiva abi-tudine che non abbiamo ereditato dagli americaniè il loro pessimo caffè...» Fece una smorfia, e le lab-bra carnose sembrarono riassumere un senso dischifo per il caffè, gli americani o chissà cos’altro.Poi girò le spalle.

Yakobù la fissò affascinato. Il resto della scorta si

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limitò a guardarle il culo fino a che fu dentro lacucina.

«Genere donna con i coglioni, si direbbe», si la -sciò sfuggire il colonnello.

«Lo può dire, signore» confermò Kimmie. «Inquesta città ci sono due soli edifici che non hannomai chiuso i battenti anche nei momenti più cruen-ti della guerra civile. Uno è il Blue Port, l’altro è ilpalazzo del Registro Navale.» Si alzò per indicareun palazzo che svettava in mezzo alle macerie dellacittà. «È il cuore di questo porto e di questo paese.Sei piani di cemento armato difesi amorevolmentedai signori di turno con la benedizione degli StatiUniti.»

Il nigeriano lo interruppe con un gesto dellamano. Di quel palazzo sapeva tutto quello che c’erada sapere. Che nei suoi uffici ogni anno si incassa-vano venti milioni di dollari solo di diritti di regi-stro e che almeno millecinquecento navi, britanni-che, greche, cinesi o norvegesi, pagavano per batte-re bandiera liberiana e per ottenere la massima riser-vatezza sull’identità degli armatori e nessun con-trollo sui carichi e sulle rotte. Era di Florence chevoleva parlare.

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«Una donna sola in mezzo alla guerra?» chiesesinceramente stupito Yakobù, lasciando vagabon-dare lo sguardo sulla città. Era punteggiata da mon-coni carbonizzati e macerie che un tempo – primadello scoppio della guerra – erano stati edifici. Tuttoaveva un’aria squallida e provvisoria. Sembrava unaccampamento di profughi in attesa di decidere serimanere o cercare un altro posto dove ricomincia-re da capo.

«Sì. Con il marito morto e le visite delle milizie,la sua vita è stata molto dura negli ultimi anni»spiegò il tenente. «Ma Florence ha ancora la suacookhouse e noi le nostre birre e i nostri caffè. Ognimattina pulisce le vetrate e poi va fuori a stuccare ifori dei proiettili sulla facciata. Quando avrà can-cellato l’ultimo, potremo dire che la guerra è dav-vero finita.»

«Qualcuno deve averle dato una mano» com-mentò il colonnello con un sorriso strano. «Certonon si sopravvive senza le amicizie e le coperture giu-ste. Quanto “ci” costa questo scherzetto, tenente?»

«Nulla. All’Onu nulla» rispose Dou portandosila mano destra al cuore.

«E a lei personalmente?»

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«Il giusto necessario. Il giusto necessario, colon-nello.»

Florence tornò con sei tazze di caffè fumante.Yakobù rigirò la sua a lungo tra le mani prima diparlare: «Starò qui circa un mese, tenente Dou. Larimozione degli embarghi sulla Liberia ci imponeil dovere di rassicurare l’opinione pubblica mondia-le sull’affidabilità dei nostri controlli e mi piacereb-be mettere le mani sul carico giusto, capisce quelloche voglio dire?».

Kimmie non rispose, limitandosi a guardarlo inmaniera beffarda. Il colonnello voleva fare bellafigura con un sequestro importante, uno di quelliche finiscono sui giornali di mezzo mondo e aiuta-no ad affrettare la promozione a generale.

Non era affatto stupito. Si trattava solo di farcoincidere i loro interessi. Quelli del tenente eranola dignità e il benessere del suo paese. E il proprio.Si era sempre considerato un patriota onesto maconcreto. E per raggiungere anche il più piccolo deirisultati era disposto a venire a patti con chiunque.Da quelle parti non c’era da andare troppo per ilsottile. La rimozione dell’embargo riguardava soloalcune merci come diamanti, legname e materiale

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informatico, le cose di cui i liberiani avevano menobisogno. Ma si trattava comunque di un importan-te passo in avanti, perché proprio il traffico illegaledi pietre preziose e legname erano stati il vero affa-re che aveva reso potente l’ex presidente Taylor e laghenga di criminali che gli ruotava attorno. Oradovevano dimostrare di saper trattare quelle risorsealla luce del sole, di essere capaci di ripulire, con-trollare e legalizzare ogni commercio. Risanare ilmercato, levarlo dalle mani sbagliate e cercare dicostruire un futuro senza guerra, senza troppi mortiper fame e malattie. Niente più affari sporchi, erastato l’ordine dell’Onu, che aveva dato un benesta-re temporaneo per la ripresa delle esportazioni, maavrebbe riesaminato la propria decisione dopo no -vanta giorni. Nel frattempo dovevano dare prova disaper controllare i porti di Monrovia, Buchanan eHarper: solo così il paese sarebbe stato inserito nelKimberley Process, l’organismo che certifica la pro-venienza lecita dei diamanti. Ecco perché anche unostronzo come Yakobù diventava importante.

«Ora le spiego come funzionano le cose qui alporto» disse Dou dopo essersi concesso un lungosospiro. «Le armi arrivano ogni giorno nascoste

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sotto le patate, la legna, i piselli, il pesce persico, gliaiuti umanitari e perfino le medicine. Lo sannotutti. Me le vedo passare sotto il naso ma non possofarci nulla. Sa quanto tempo è trascorso dall’ulti-mo carico di armi che mi hanno permesso di bec-care i nostri vertici? Sei anni. A quei tempi c’era uncontinuo via vai di navi provenienti dalla Serbia, equando mi lasciarono finalmente intervenire seque-strammo in un colpo solo cinque milioni di muni-zioni, cinquemila pezzi tra fucili d’assalto e mitra-gliatori, bombe a mano e lanciamissili. Soltanto iproiettili erano sufficienti a uccidere l’intera popo-lazione liberiana...»

«Ho letto il rapporto» lo interruppe il nigeriano.Kimmie Dou lo ignorò, sembrava in trance, o

più semplicemente era arrivato il momento di par-lare dopo tante frustrazioni. «Colonnello, invecetutte quelle armi sarebbero bastate appena qualchemese, per il ritmo con cui il conflitto inghiottiva laLiberia in quegli anni. Sembrava sempre che stesseper finire e non finiva mai. Nel ’95, dopo cinqueanni di sangue, ci eravamo illusi che fosse ritornatala pace. Invece, neppure quattro anni dopo è ripre-so il macello. E altri carichi di armi erano già pron-

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ti ad arrivare. La mia operazione assomigliava a unapozzanghera in mezzo al lago. E sa perché mi per-misero di infilarci i piedi? Era appena arrivato unnuovo comandante che aveva bisogno di farsi unpo’ di pubblicità e dovevamo dimostrare che l’enor-me arsenale accumulato durante la guerra nei Bal-cani non sarebbe finito impunemente in giro perl’Africa...»

Yakobù alzò di un tono la voce, giusto per esserepiù chiaro. «Tenente Dou, mi avevano avvisato delcarattere spigoloso, che probabilmente non ha gio-vato alla sua carriera.»

«Ah, è per via del mio carattere che sono ancoratenente, secondo lei?» commentò ironico Kimmie.

«Alla sua età dovrebbe già indossare i gradi dicapitano... se non di maggiore.»

«Sa meglio di me colonnello perché non ho anco-ra quei gradi», ribatté Dou mantenendo la calma.

«Diciamo... scarsa propensione alle gerarchie?»«Scarsa propensione a leccare il culo» sussurrò

quasi parlando con se stesso. «Sul suo stato di servizio c’è scritto: Insubordi-

nazione.»«Avrebbero dovuto scrivere altro. Ad esempio: si

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è rifiutato di coprire alcuni superiori coinvolti incerti traffici...»

«Basta così tenente. La faccenda non mi riguar-da» sibilò il nigeriano. «Mi sembra di essere statochiaro e lei deve solo dire se intende obbedire aimiei ordini o se devo cercare un sostituto.»

«Conti pure su di me.»Il colonnello si alzò, imitato dalla scorta. «Sono

contento che alla fine ci siamo capiti» disse in tonoconciliante. «Entrambi abbiamo da guadagnarci.»

Kimmie Dou annuì e portò la mano alla frontein un saluto stanco e per nulla marziale. Guardò inigeriani che uscivano dal locale e incrociò lo sguar-do interrogativo di Florence. Respirò a fondo primadi girarsi di nuovo verso il porto.

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