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NOTA DELL’AUTORE Nel libro si parla di zia Ninnì come ancora viva e la si nomina come matriarca delle famiglia. In effetti la domenica delle Palme del 1999 zia Ninnì ci ha lasciati, alla bella età di 90 anni compiuti, ma, non ostante ciò, non ho voluto cambiare né l’impostazione né i giudizi in segno di affetto per lei, pari, se non maggiore, a quello che le riservavo in vita.
IL VASINO Una screpolatura nella vernice della porta, a non più di venti centimetri dal pavimento
era il mio mostro personale.
La porta era quella che dava nello studio, che veniva utilizzato, come quel giorno, dalle
donne di famiglia, le poche volte che erano a casa, anche come stanza da cucito. Lo
studio aveva una forma trapezoidale, o, come sarebbe piaciuto a papà chiamarla una
volta che fosse diventata la mia camera da letto, a cassa da morto. Era una fortuna che io
dormissi con la testa nella parte più stretta, forse per scaramanzia, anche se non me ne
sono mai fatto un problema.
La stanza era utilizzata come stanza da lavoro perché era una delle tre che affacciava
direttamente su strada, ma era l’unica non ancora utilizzata come camera da letto; era per
la prima ragione molto luminosa e per la seconda utilizzabile senza dover chiedere
permesso.
La casa, anche se immensa, era gremita: la abitavano papà e mamma, ancora freschi
sposi, zia Giannetta e zia Fernanda, le due sorelle nubili di mamma, dette zia Nenne e zia
Dadda; zia Renata sorella di secondo letto di mamma e delle zie con il marito Ugo, la mia
balia Venerina detta Baba, due donne di servizio Antonietta detta Tetta con compiti di
bambinaia e la sorella Maria Grazia con compiti di cuoca, mia sorella Paola, di pochi
mesi, la prima figlia di zia Renata, Anna di poco più grande ed io che avevo appena due
anni.
Mamma e le zie, normalmente non lavoravano in casa, ma passavano tutto il loro tempo
a negozio per cui questo mio ricordo di tutte queste donne radunate in quella camera
deve essere relativo ad un giorno di festa.
Non ostante la mia giovane età avevo nell’arco della giornata dei precisi compiti da
svolgere: dovevo ormai mangiare da solo, senza essere imboccato, neanche da Tetta;
giocare da solo perché nessuno poteva darmi retta essendo tutta la famiglia sempre al
lavoro e le donne di servizio affaccendate; fare i miei bisogni da solo in un vasino di
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porcellana e senza sporcare per terra. L’unica incombenza che ancora non mi competeva
era quella di pulirmi il sederino dopo il bisognone. Dovevo chiamare qualcuno dicendo
‘ho fatto!’ ed attendere la pulizia, fatta prima con l’ovatta e quindi con acqua e sapone.
Da sinistra: zio Arduino, zia Ninnì, il sig. F, zia Renata, zia Dadda, zio Alberto, zia Nenne, il Prof. Arrigo C.,
un’amica, mamma, il Comm. M., zia Nanda Favero, papà
Quel giorno appunto avevo provveduto a prendere il vasino, in bagno, a calarmi da solo
calzoncini e mutandine ed a procedere a tutta la faccenda, e già da qualche minuto avevo
ripetuto il fatidico ‘ho fatto’ più volte, senza però che qualcuno si interessasse a me.
Debbo dire che pur nell’abbandono, non mi persi d’animo, perché tirate su mutandine e
calzoncini sopra il ginocchio, e, chissà perché, preso in mano il vasino, andai girando per
il lungo corridoio di casa in cerca di qualcuno che capisse le mie esigenze.
Giunto davanti alla screpolatura della vernice, fui preso dal solito terrore, ed interruppi a
metà l’annuncio: ‘ho fa....’ . La porta, che non si è mai chiusa bene perché leggermente
svirgolata verso il basso, si aprì trascinando come di consueto il battente chiuso per
quanto lo consentisse il fermo che funzionava solo in alto, essendo a terra, a causa dello
svirgolamento, non in corrispondenza il catenaccio del fermo con il foro, e con il consueto
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rumore di vetri che sbattevano nella loro sede troppo larga, dando la consueta voce al
mio mostro personale.
Prima che il terrore mi invadesse, una donna della famiglia, non ricordo più chi, venne
in mio soccorso, e, preso il vasino con un braccio, e me con un altro, mi sollevò di nuovo
fino in bagno per le pulizie di rito.
Per quanto possa andare indietro nel tempo questo è il mio primo ricordo.
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GUERRA D’AFRICA
Palazzo Marignoli . Piazza San Silvestro, 92 . Piano quinto Interno 20
La casa dove abitavamo, in Piazza San Silvestro, 92 era molto grande essendo
un appartamento al quinto piano, con vista all’esterno verso nord, in posizione
dominante sulla maggior parte dei tetti che dal centro di Roma arrivano fino a
Porta Flaminia. Risaltavano la cupola di San Carlo da un lato ed il bianco
campanile della Chiesa Anglicana di Via del Babuino dall’altro; più a destra la
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gloria del Pincio con la Casina Valadier e l’Accademia di Francia in Villa
Medici. Guardando a tutta sinistra si poteva vedere parte della facciata
posteriore di Montecitorio, mentre guardando a tutta destra si coglieva il
campanile borrominiano di Sant’Andrea delle Fratte e la Villa dell’Ordine di
Malta a porta Pinciana. La sagoma di Monte Mario, ancora non occupata da
immensi alberghi ed antenne televisive, si stagliava a sinistra, e fra di essa ed il
Pincio, in giornate di vento, era visibile in lontananza il Soratte.
Si entrava nell’appartamento da un ingresso molto ampio con due finestre su
due diversi cortili, cui seguiva un corridoio lungo circa 7 metri con due
finestre sulla sinistra, con vista sul più piccolo dei cortili. In fondo al corridoio
una porta in legno, dava accesso ad un locale di servizio, inizialmente una
lavanderia, ma quasi subito trasformata in un bagnetto, detto ‘il bagnetto
laggiù’, anch’esso con finestra sul più piccolo dei cortili.
Di fronte alla seconda finestra del corridoio, voltando a destra si entrava in un
secondo corridoio, molto più lungo del primo, quasi 22 metri, con porte da
ambo i lati e praticamente senza luce naturale se non per la parte finale.
Le prime due porte, in legno, alla destra del corridoio davano su una grande
sala doppia che era la sala da pranzo con due finestre, poste di fronte alle
porte, con vista sul primo dei due cortili, quello più grande, visibili
dall’ingresso. Il tavolo, allungabile su due lati, era in noce massiccio con
intarsio in legno giallo, dello stesso stile del buffet con specchio e piano in
marmo rosso, uno sportello centrale a due ante e due sportelli laterali; e contro
buffet sempre dello stesso stile, con l’aggiunta di un pensile superiore con
sportelli a vetri nel quale veniva riposto il servizio di bicchieri di nonno Pietro,
mentre negli sportelli inferiori veniva riposto il servizio di piatti di nonno
Pietro come il primo, e maniglie in ottone lavorato che completavano con sei
sedie e qualche poltrona l’arredamento della sala; il lampadario, centrale, era
in vetro di Murano di colore rosa, a sei fiamme; nel lato delle poltrone, un
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basso tavolino in legno ed un lume a piantana con paralume in pergamena;
all’angolo vicino la finestra un mobile basso a due ante, nascondeva all’interno
un ricevitore radio. Alle pareti, qualche natura morta di cui due firmate
Kingborn che era il nome d’arte che si era scelto zia Renata al suo corso di
pittura.
Le due porte, in legno, a sinistra, poste di fronte alle porte della sala da
pranzo, davano accesso a due sale separate da un arco molto ampio tanto da
poter considerare l’ambiente come una sola sala, e questo era il salotto; in esso
le finestre, sempre in corrispondenza delle porte sulla parete di fronte, davano
su un altro cortile molto grande, sugli altri tre lati del quale gli ambienti
avevano accesso da Corso Umberto e non dalla Piazza. La luce era data da un
lampadario di Murano a gocce a 10 braccia posto al centro di una delle due
sale, integrato da quattro applique dello stesso stile a due braccia poste
simmetricamente sulle due pareti di fondo. Dopo la guerra un altro
lampadario in vetro di Murano a gocce sarebbe stato montato al centro della
seconda sala. L’arredamento era tutto coordinato in stile impero con sedie,
poltrone e divano con intelaiatura in legno di ciliegio ed imbottitura di
broccato. Con lo stesso tessuto erano fatte le due tende. L’arredamento era
completato da un tavolo ovale nello stesso stile con piano in marmo chiaro, da
una specchiera con piano nello stesso marmo e da una bacheca con vetro sui
quattro lati nello stesso stile, con sportello a chiave anteriore. Qualche anno
dopo si sarebbe aggiunto un pianoforte verticale, sostituito, una volta finito il
liceo, da un pianoforte a quarto di coda.
Seguivano, lungo il corridoio, due porte affacciate, in legno con mostra in
vetro operato in modo che potesse passare la luce dalle camere nel corridoio
ma non si potesse vedere all’interno. La camera sulla destra, seguente la sala
da pranzo, era la camera da letto di zia Giannetta, con finestra sullo stesso
primo cortile; non aveva un arredamento particolare almeno in quegli anni.
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Quella di fronte era la cucina con finestra sul cortile del salotto. L’arredamento
era rappresentato da vecchi armadi per il contenimento delle pentole, un
tavolo con piano in marmo, una cucina che oltre i fuochi a gas aveva due
fornelli a carbone con il cassetto di raccolta inferiore per la brace.
Immediatamente a lato della cucina c’era una porta in legno che dava accesso
al bagno principale, il quale aveva una finestra su un quarto cortile, anche
questo piccolo.
La casa era fornita da due acquedotti, almeno finché l’acquedotto del
Peschiera, postbellico, non avrebbe unificato tutto. Infatti nel bagnetto laggiù
c’era l’acqua di Trevi, mentre in cucina e nel bagno c’era l’acqua Marcia.
Questo fatto ci consentì di avere quasi sempre l’acqua in casa anche nei
periodi più disastrosi della guerra. Zia Fernanda che lavava normalmente
l’insalata due o tre volte, preferiva sempre farlo con l’acqua di Trevi, mentre
normalmente si adoperava l’acqua Marcia della cucina, anche se, stranamente
non utilizzando mai il rubinetto della presa diretta, da cui, le poche volte che
veniva azionato, usciva, spruzzando, acqua ferruginosa; ma quello dell’acqua
proveniente dai cassoni, che secondo le idee della famiglia, era più pura.
Dopo il bagno, il corridoio continuava, finalmente illuminato sul lato sinistro
da due finestre sul quarto cortile; invece sul lato destro c’era una finestra in
alto, che però non guardava verso l’esterno ma dava aria e luce ( poca ) ad una
stanza interna.
Dalla fine del secondo corridoio proprio di fronte all’ultima finestra, ne
partiva un terzo, verso destra, lungo circa 9 metri, con porte da ambo i lati.
La prima porta a destra, in legno con specchiatura in vetro, dava accesso alla
camera interna che era la stanza dove dormivano prima Baba, Tetta e Maria
Grazia, poi solo le ultime due.
La prima porta a sinistra, anch’essa con specchiatura in vetro, dava sulla
camera a cassa da morto che sarebbe diventata la mia; questa camera, come
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detto prima, era una delle tre che avevano vista all’esterno e dava su un
terrazzo posto su Via delle Convertite. Nella parete più piccola del trapezio
una porta in legno, dava accesso ad uno stanzino che avrebbe avuto una
rilevante importanza durante l’occupazione, e sarebbe in seguito diventato il
mio spogliatoio e la sede del mio tecnigrafo. L’arredamento era rappresentato
dai mobili del vecchio ufficio di mio nonno: in stile tardo ottocento, con
libreria a tre sportelli con lesene a triglifo, sportelli con specchi in vetro
veneziano color oro, e piedi a zampa di leone; tavolo, sedia con braccioli e due
sedie in stile. Una volta che fosse diventata la mia camera da letto,
l’arredamento sarebbe stato integrato da un divano letto e da due librerie
aperte, costruite dal Sor Umberto, che era il falegname di famiglia anche se
papà lo diceva pecione, nello stesso stile, con lesene a triglifo, ma senza le
zampe di leone, troppo complicate per le capacità dell’artigiano.
Le seguenti due porte, in legno, conducevano, quella a destra in una vasta
camera che inizialmente è stata la camera degli sposi Ugo e Renata, poi,
quando quella famiglia, abbastanza presto debbo dire, si trasferì, di noi pupi,
cioè di Paola e mia, per restare infine solo di Paola dopo la guerra; la finestra,
posta anche in questo caso di fronte alla porta si affacciava sul primo cortile e
risultava in esatta corrispondenza della finestra dell’ingresso. L’arredamento
iniziale non lo ricordo.
La stanza di sinistra, anche questa trapezoidale ma con effetto più mascherato
date le maggiori dimensioni, era la camera di zia Dadda, con finestra sul
terrazzo. C’era uno specchio meraviglioso girevole su un asse orizzontale e
sorretto da due colonnine: lo specchio era da ambedue i lati ed era largo circa
un metro ed alto un metro e mezzo, con asse a circa un metro da terra. Un letto
ed un comò nello stesso stile severo completavano l’arredamento.
In ultimo, alla fine del corridoio, una porta in legno a sinistra, successiva a
quella di zia Fernanda, dava accesso alla stanza di papà e mamma che si
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sviluppava oltre la fine del corridoio. Anche la finestra della loro stanza dava
sul terrazzo. Il mobilio, letti, armadio, toeletta, comodini e comò con
specchiera era in noce massiccio. I letti erano due ma uniti, anche se non a
formare letto unico. Sulla toeletta che aveva uno specchio più piccolo di quello
del comò, era un servizio completo in argento, con spazzole, specchio a mano,
pettine, scatola per cipria e tiralacci. Due seggiole ed una poltroncina con
braccioli con imbottitura in raso, completavano la stanza.
Il terrazzo non aveva vista su strada se si fa eccezione di un piccolo tratto di
Via del Gambero che si poteva vedere arrampicandosi sul gradino posto verso
l’esterno del terrazzo, sporgendosi sul parapetto e lanciando lo sguardo oltre
l’ampio cornicione che aggettava per circa un metro e mezzo. Il cornicione
impediva così la vista dell’immediato sottostante, ma in compenso, essendo
nella parte inferiore a volta, rifletteva verso il basso la maggior parte dei
rumori della città, che nel tempo sarebbero incrementati, consentendoci un
isolamento invidiabile al centro di Roma, esaltato da un ben curato giardino in
vasi, posti tutto intorno il terrazzo.
Nel corridoio in quel periodo, sempre prima dei miei tre anni avveniva un
altro fatto per me memorabile e che coinvolge in qualche modo zio Mario, uno
dei fratelli di papà. Egli era un tipo molto particolare ed avvolto da un’aura di
mistero e di avventura. Il vero nome era Giuseppe Maria, cui fra l’altro, teneva
molto, ma era detto Mario in famiglia; fin da ragazzo (era nato nel 1901)
aveva avuto la passione dei motori e per le corse e, forse dopo aver partecipato
a qualche corsa per il premio lotteria a Tripoli, un amore profondo per
l’Africa. Nei miei primi ricordi di lui aveva da poco superato la trentina, era
un uomo che si poteva definire bello, almeno secondo i canoni dell’epoca;
capelli castani lisci con scriminatura, occhi azzurri ridenti, baffi sottili, volto
sempre atteggiato al sorriso.
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Vivendo in un ambiente dove il possesso di un’automobile era privilegio di
pochi, e nobili, si era, forse per ischerzo, inventato un titolo nobiliare e si
faceva chiamare Conte; col tempo si sarebbe quasi convinto di essere
effettivamente nobile e, dopo la sua morte, vidi un attestato, chissà quanto
reale, in cui lo si riconosceva Conte di Gallarate e Marchese di Borgomagno e
Fottù.
In gioventù era scanzonato e, dagli aneddoti che in seguito raccontava, anche
portato a scherzi un po’ pesanti. Come quando durante una gara
automobilistica in cui si gareggiava in coppia, essendosi fermato con il suo
compagno per prendere un caffè in un bar di campagna, vide un signore che
sorbiva un cappuccino al banco, in piedi, a gambe leggermente divaricate, con
il cappotto sulle spalle; e lui, dato di gomito al suo navigatore, gli misurò un
calcio proprio fra le gambe. Lo sconosciuto tossì, sputando il cappuccino, e la
tazza cadde in terra, rompendosi, e si voltò subito, indignato, domandandosi
chi avesse osato tanto, e trovandosi la faccia compunta di zio Mario, il
monocolo sull’occhio destro, che diceva ‘Mi scusi tanto, signore, ma l’avevo
scambiata per il principe C.; mi permetta di presentarmi, sono il Conte
Giuseppe Maria Favero; se avessi supposto che Ella non era il Principe, non
avrei mai osato’. Il signore, perché doveva in effetti essere tale, rimase un
momento interdetto, ma si convinse di essere incappato in uno scherzo fra
nobili, e fece buon viso a cattivo gioco.
Forse nel suo spirito di avventura già pensava di seguire le truppe Italiane in
Etiopia, come in effetti fece, stabilendosi nella Colonia, prima ad Addis Abeba
e quindi a Mogadiscio dove aveva un’azienda di trasporti; perché in una delle
poche volte che lo vidi prima della guerra, e l’unica volta di quel periodo che
io ricordi, mi regalò una specie di manifesto di cartone rigido con intelaiatura
in legno e manico in modo da poterlo sostenere, che rappresentava il negus in
abito coloniale color cachi, con casco, ritagliato secondo i contorni del corpo.
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E ricordo che saltellavo per il corridoio con il mio negus ripetendo, come mi
aveva insegnato Tetta la quale forse ricordava le canzoni sfottò della Guerra
d’Abissinia di 40 anni prima, ‘La regina Taitù che dalla fame non ne può più’.
La guerra, che nel frattempo si svolgeva, anche se in Africa, nella mia totale
incoscienza, più dolorosa di quanto potessero immaginarla anche i grandi
della famiglia, mi appariva allora solo come una canzonetta: ‘Faccetta nera /
bell’abissina / aspetta e spera che già l’ora s’avvicina: / quando saremo / vicino a te /
noi canteremo Viva il Duce e Viva il Re.’.
In questa casa, fino al periodo scolare, si svolgeva la maggior parte del mio
tempo, e poi del tempo anche di Paola; almeno in inverno o nelle giornate di
tempo brutto; perché in estate si andava al mare, ad Ostia, per un lungo
periodo, mentre con la bella stagione con zia Fernanda e Tetta andavamo al
Pincio, fermandoci talvolta anche a mangiare ai giardinetti un pasto al cestino
sempre buono e mantenuto caldo nei thermos.
La via per andare al Pincio era sempre stancante per le mie piccole gambe,
perché bisognava raggiungere prima Piazza di Spagna passando generalmente
per Via del Gambero e Via Frattina, poi traversare tutta la Piazza per
imboccare la salita di San Sebastianello, ed era un sollievo fermarsi a pregare
all’Immagine della Madonna posta a circa tre quarti della salita. Qualche volta
il sollievo era quello di Tetta, che aveva ceduto al mio frignare per essere preso
in braccio, ma la maggior parte delle volte era mio. I giardinetti dove
normalmente ci si dirigeva erano quelli intorno alla Casina Valadier, ma io, e,
col crescere di Paola, noi preferivamo il Viale dei Bambini, a lato dell’orologio
ad acqua, dove girava un carretto addobbato a carrozza trainato da somarelli,
con al rimorchio altri due o tre somarelli sellati sui quali si poteva cavalcare, al
passo.
In fondo al viale c’era, quasi tutti i giorni, un teatrino di burattini con il
burattinaio che quando doveva imitare la voce di Pulcinella, si metteva un
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fischietto in bocca. Nel viale vicino, parallelo al primo, c’era il noleggio delle
automobiline a pedali, ma era, per me, un gioco troppo da grande.
Era raro che andassimo sul piazzale Napoleone III, perché era aperto al
traffico, ma, la domenica mattina, quando tutta la famiglia, anche papà, stava
insieme era probabile che ci si ritrovasse colà anche con la famiglia di Anco,
ma di ciò parlerò dopo.
Il ritorno a casa dal Pincio, qualche volta e se l’ora e la nostra stanchezza lo
permettevano, non avveniva per la stessa strada dell’andata, ma dal piazzale
Napoleone III si scendeva lungo i giardini a lato di Via Gabriele d’Annunzio
fino a Piazza del Popolo; di lì si proseguiva per il Corso fino al numero 90
dove c’era il negozio di famiglia e dove lavoravano mamma e le zie.
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SCUOLA IRLANDESE
A ottobre del 1939 venne per me il tempo della scuola.
Non ero mai stato all’asilo né alla scuola materna prima della mia età scolare, e
la mia vita fino allora era stata una perenne vacanza, coccolato non tanto da
mamma, che era una delle animatrici irrinunciabili ed insostituibili del
negozio, ma piuttosto da zia Fernanda e, principalmente da Tetta.
Ormai sua sorella, Maria Grazia, era andata via da casa, ma Tetta era sempre
più investita del ruolo di bambinaia, e un’altra donna di servizio, nel tempo,
veniva a sopperire agli altri bisogni della casa.
Anche Venerina era tornata al paese, zia Renata e zio Ugo, aumentata la
famiglia, si erano trasferiti, per cui in casa, almeno fuori del periodo natalizio,
eravamo rimasti i sei della famiglia, Tetta e la cuoca.
Nel periodo natalizio, invece, si trasferiva da noi l’altro ramo dei Benedettini.
Il fratello maggiore di mamma, Arduino, terzo dei sedici figli di primo letto
mentre mamma era l’ultima, con la moglie Ia Marziale. La loro figlia Giannina,
detta Ninnì, con il marito Alberto Crescenzi ed il figlio Gianfranco. Con loro
veniva anche la donna di servizio che in quegli anni si chiamava Natalia.
Zio Arduino, dopo la morte di nonno Pietro, era diventato il capo della
famiglia, anche se ne era mamma l’anima, il suo nume tutelare ed il punto di
riferimento. Ogni anno passava qualche mese all'estero: Vienna, Berlino,
Parigi, Londra; ed era un’abitudine che mantenne anche in età avanzata
quando l’esotismo o l’avventura non facevano più presa su di lui. Egli si
compiaceva di sedersi ad un caffè all’aperto, o in una sala da tè in Inghilterra,
e respirare la città come amava dire. Da giovane non riuscivo a capire come
potesse rinunciare a musei, teatri, avvenimenti sportivi e restarsene seduto per
ore all’angolo fra l’Opéra e Rue de la Paix, ma ora lo capisco e, quando posso,
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lo imito. Aveva sposato zia Ia, di origini tiburtine, o, come lui diceva, tivolesi,
la quale, contrariamente a tutte le donne della famiglia Benedettini, sapeva
cucinare bene.
Giannina aveva quasi la stessa età di zia Renata, ed avendo abitato a lungo
nella stessa famiglia Benedettini, era considerata da mamma e dalle zie più
una sorella minore che una nipote. Era sposata con Alberto Crescenzi che era
fratello di zio Ugo, lo sposo di Renata. Alberto, di due anni più piccolo di
papà, andava molto d’accordo con lui, e, contrariamente a papà, era
affettuosissimo con le zie, specialmente con Giannetta.
Gianfranco, il loro figlio, è nato quattro giorni prima di me ed il nostro
rapporto è sempre stato, ed è tuttora più un rapporto di fratelli che quello che
intercorre fra zio e nipote.
Già prima della scuola ci incontravamo nei nostri giochi al Pincio, dove egli
veniva accompagnato da Natalia, che era la sua bambinaia, poi, dalle
elementari al liceo, siamo stati sempre insieme.
Durante le feste natalizie, dunque, la famiglia Benedettini-Crescenzi si
trasferiva in San Silvestro per passare le feste fino all’Epifania.
Ma il tutto era preceduto da un’adeguata preparazione culinaria. A
sovrintendere era ovviamente delegata zia Ia. Nelle due case, venivano
preparate decine di sfoglie di pasta perché la tradizione imponeva, a seconda
dei giorni, ravioli, tortellini e cappelletti.
Si iniziava la sera della vigilia, sempre molto tardi perché la chiusura del
negozio avveniva tardi, con gli spaghetti al tonno, il capitone, i broccoli bolliti
con il limone; i tortellini in brodo il giorno di Natale, la gallina bollita, i dolci
di Natale; i cappelletti al sugo il giorno di Santo Stefano, anniversario delle
nozze dei miei genitori, con l’arrosto misto con le patate, i fritti di carciofi,
zucchine e cavolfiori; i ravioli con ricotta il giorno di Capodanno, con la
galantina di pollo e la spicca con un mare di piselli al prosciutto, ed il favoloso
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cotechino con le lenticchie. Forse per il fatto che si mangiavano solo in questa
occasione i tortellini erano allora più buoni di adesso.
Nei giorni festivi tutto il pomeriggio era dedicato ai giochi di famiglia: il
mercante in fiera, il sette e mezzo e, principalmente, la tombola nella quale, se
era papà a tenere il cartellone ed annunciare i numeri, l’1 era Ninetto bello del
corso, cioè zio Arduino; 2 i bacetti; 4 la barella; 6 quante volte ( ed il numero
successivo indicava quante volte uno era stupido); 7 i dolori; 9 che puzza
(nella smorfia sta ad indicare le deiezioni solide); 11 li zeppetti; 13 fortunello;
17 disgrazia; 18 sangue (chiedesti ed era sugo di pomodoro); 19 ‘mbriachella
(forse un leggero sfottò per Giannina che è nata il 19 ottobre); 21 la maggiore
età; 22 le carrozzelle; 23 fischia e puzza; 27 membro del senato; 33 l’anni de
Cristo; 44 tavola apparecchiata; 47 morto che parla; 58 Papa; 60 Madonnina; 66
(se santa sei) in cielo andrai; 77 le gambe delle donne; 88 l’occhiali de nonno;
90 la paura.
Dopo cena, le zie Giannetta e Fernanda dormivano nella stessa stanza,
lasciando la camera di Giannetta agli sposi Crescenzi, per Gianfranco si
trattava di dormire con me nel mio letto, mentre gli sposi Benedettini, almeno
finché noi ragazzi non siamo cresciuti, dormivano nello studio.
Con Gianfranco ci eravamo anche involontariamente inventati il nomignolo,
essendo per tutti e due difficile la pronuncia di due nomi così lunghi e doppi,
per cui lui riuscì a chiamarmi Pepo ed io Anco.
Fu quindi naturale che andassimo a scuola insieme.
Non avendo avuto l’esperienza della scuola materna o dell’asilo, c’era pericolo
che facessimo storie il primo giorno di scuola, ma non ricordo nulla di strano.
La scuola che era stata scelta era l’Istituto Mater Dei a Via San Sebastianello,
istituto eminentemente femminile ma con le elementari anche maschili.
L’Istituto era retto da un ordine di Suore Irlandesi, e nella cappella le scritte
che correvano sopra gli architravi e le colonne erano tutte in inglese. Il saluto
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che dovevamo alle suore era in inglese, anche se la suora che curava la mia
classe era italiana. La mia maestra si chiamava Signora Renata d’A. e mi
avrebbe seguito fino alla quinta elementare; la suora dei primi due anni di
corso era Sister Maria Immacolata, mentre nei successivi saremmo stati
soggetti a Sister Mary Margareth che a noi piccoli, che ancora non ne
conoscevamo la dolcezza, appariva tremenda.
Dopo il primo periodo di assuefazione, cominciammo a mangiare a scuola, e
qui cominciarono i miei problemi, perché, ogni giorno, dopo mangiato, e
qualsiasi cosa avessi mangiato, restituivo tutto. Mi si cambiarono tutti i tipi di
dieta, ma inutilmente, finché il mio pediatra, dott. Arrigo C. , non ne trovò la
causa: scoprì che la prima volta che avevo restituito, per cause naturali, lo
avevo fatto in concomitanza con il suono della campanella che richiamava gli
alunni in classe; per cui ogni volta che sentivo la campanella dopo mangiato
mi comportavo analogamente. La causa: i riflessi condizionati del Pavlov
relativi ad un essere umano, sembrava incredibile, ma doveva essere vero
perché la pubblicazione che fece sul mio caso contribuì alla sua nomina a
professore.
Avendo pregato le suore di sospendere il suono del campanello dopo
mangiato, risolse i miei problemi, e la nuova assuefazione mi tolse anche il
primo disturbo.
La vita della scuola non ebbe sussulti particolari se si eccettua il fatto della
ginnastica del sabato.
Il sabato mattina, era il sabato fascista, giorno in cui si svolgevano tutte le
attività del Partito; in cui i gerarchi, anche zio Alberto, si vestivano di orbace
con gli stivali e la camicia nera; i giovani si vestivano da avanguardista, con il
pugnale ed il moschetto, e noi bambini ci vestivamo da Balilla con la doppia
bandoliera bianca.
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Meglio, gli altri bambini si vestivano da Balilla, ma né io né Anco ne avevamo
la divisa.
Solo molto più tardi sapemmo che era stata scelta per noi una scuola straniera,
oltre che per imparare la lingua, anche e soprattutto perché in essa non era
obbligatorio andare in divisa.
I rapporti dei nostri familiari con il Fascismo erano vari.
Zio Alberto che aveva fatto l’ufficiale nella Compagnia in cui il Principe
Umberto era Capitano, aveva cominciato a lavorare a tredici anni come
fattorino, divenne ragioniere continuando a lavorare e, sempre lavorando si
laureò in Scienze economiche, era capo servizio alla Società Telefonica Tirrena
Te.Ti, ed aveva raggiunto il grado di Centurione della Milizia. Mentre a papà
interessava di più il calcio, zio Alberto aveva una non nascosta passione per la
boxe, ovvero, per il pugilato come occorreva dire allora, e, in occasione delle
riunioni, assieme a quello per Anco, prendeva il biglietto anche per me, e
generalmente nelle prime file. Agivano in quel periodo a Roma per lo più pesi
medi che, a detta di zio, erano più spettacolari perché abbastanza veloci anche
se non delle mitragliette come i mosca ed i gallo, ma anche abbastanza forti da
poter risolvere con il fuori combattimento l’incontro. Noi piccoli avevamo
un’infarinatura di regole fra le quali la più nominata, perché era in relazione
alla correttezza sportiva, era la proibizione dei colpi bassi, cioè di colpire al di
sotto della cintura. Eravamo così vincolati a questo concetto di correttezza che
in occasione di una riunione in quello che sarebbe poi diventato il teatro
Olimpico fui convinto di aver visto portare un colpo basso, e fu così che fra il
brusio, gli applausi, le grida di incitamento degli astanti si sentì distintamente
la mia voce ancora infantile strillare: ‘delinquente !…’ cui seguì un innaturale
silenzio. Zio Alberto si piegò verso di me abbastanza alterato a sussurrare:
‘Giampietro c’è il Segretario del Partito !….’ al che mi accorsi di arrossire fino alla
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cima dei capelli per il timore che la mia infelice uscita potesse in qualche modo
inficiare la posizione di zio.
Papà aveva fatto il soldato in cavalleria ed aveva raggiunto il grado di caporal
maggiore per meriti sportivi, essendo abile nel salto ad ostacoli; aveva una
certa frequentazione per ragioni sportive con i figli del Duce, Bruno e Vittorio,
e profittando di ciò non si era iscritto al Partito, finché avendo incontrato, per
il suo lavoro di elettrotecnico, il Duce che ne sapeva la conoscenza dei figli,
questi gli fece riferire da loro che era meglio che si iscrivesse. Ma l’unica sua
esibizione esterna che ricordo era il distintivo del PNF all’occhiello della
giacca.
Questo fatto gli consentì anche di acquisire dei lavori pubblici, e quelli a
servizio propagandistico del Partito; come gli impianti delle strutture
provvisorie del Circo Massimo dove un anno si svolsero le finali dei Littoriali.
Erano, questi, giochi come gli attuali giochi della gioventù, che prevedevano
manifestazioni a carattere regionale che sfociavano poi nelle finali nazionali.
L’impronta dei giochi privilegiava i giochi di squadra, e, ricordo la mia
meraviglia per la mancanza del portiere, quando assistetti, durante le finali dei
Littoriali, ad un incontro di palla canestro. Avevo trasferito nella mia
ignoranza, le regole del calcio ad un altro sport con la palla.
Le zie, per quel che le riguardava, se potevano di politica o di fascismo non
parlavano, ma non riuscivano a dare il Voi, come era la prassi dell’epoca, per
cui normalmente davano il Lei, e qualche volta il Tu.
Mamma invece portava con orgoglio la sua fede di ferro che aveva sostituito
quella di papà quando aveva dato l’oro alla patria e solo al cinquantesimo di
nozze accettò di sostituirla con una fede nuova.
A noi ragazzi, il fatto di non vestirsi da Balilla come tutti gli altri, che, anche
nella scuola straniera dove non era obbligatorio, il sabato venivano in divisa,
un po’ meravigliava ma non fummo mai tanto incuriositi da richiederlo ai
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genitori, e la vera ragione della scelta della scuola la sapemmo solo molto
tempo dopo la guerra.
Non ostante l’extraterritorialità della scuola, comunque, quando scrivevamo la
data dovevamo aggiungere all’anno, il numerale romano XVII E.F. fino al 28
ottobre, e XVIII E.F. dal 28 ottobre in poi, ad indicare l’Era Fascista.
Da sinistra: Il Comm. M. ; zio Arduino; papà; zio Alberto; il Prof. Arrigo C.; il Sig. F.
Sedute: Mamma; zia Renata; zia Ninnì
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LA RADIO
Scendendo da Piazza della Croce Rossa lungo Via del Policlinico, si incontra a
sinistra, un palazzo di scarso interesse artistico, con una lapide non troppo
grande con lettere incise e con la pittura nera interna ormai sbiadita che
celebra i XL anni dall’inaugurazione del primo trasporto di energia al mondo,
nel punto dove era la stazione ricevitrice.
Nonno Giovanni, che era stato capo montatore della Società Anglo Romana di
elettricità, aveva personalmente partecipato all’evento, nel senso che aveva
materialmente contribuito a costruire la linea.
Nonno Giovanni
Di origine veneta ma torinese di nascita e di eloquio, era un operaio stimato ed
esperto, che non si limitava alla materiale esecuzione del compito, ma
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conosceva la materia che trattava, l’elettricità, tanto che in tutti i nuovi lavori
era richiesta la sua presenza.
La maggior parte delle prime centrali di produzione dell’energia, molte delle
quali ancora esistenti pur se adeguate nelle apparecchiature, lo hanno visto
all’opera, con nonna Elvira che lo seguiva nelle sue peregrinazioni per i
paesini del centro Italia, ogni tanto allietando la famiglia con la nascita di un
figlio non necessariamente nato a Roma.
I nonni avevano avuto 11 figli che però, dopo la decimazione a causa della
spagnola degli anni ’19-20 erano rimasti solo 6: Giuseppe Maria detto Mario di
cui abbiamo già parlato, Fernanda che per distinguerla dalla omonima sorella
di mamma era da me chiamata zia Fernanda Favero, Felice, mio padre, che ne
aveva ereditato l’amore per l’elettricità, Antonio detto zio Tonino, Alessandro
detto zio Sandro e Giorgio (zio Giorgio).
La passione di nonno per il suo lavoro lo aveva portato ad inventare due
apparecchi che sarebbero diventati di impiego comune: il commutatore ed il
deviatore.
Per capirne il funzionamento occorre ricordare che a quel tempo l’interruttore
era costituito da una cassetta rotonda con un apparecchio interno in ceramica,
nel quale girava un dispositivo azionato da una chiavetta esterna.
Ad ogni quarto di giro l’interruttore si apriva o si chiudeva, spegnendo ed
accendendo la luce.
Con quell’apparecchio non era possibile, ad esempio, accendere un
lampadario prima a metà luce, poi a tutta luce, quindi alla seconda metà luce,
ed infine spegnerlo: questo compito sarebbe stato risolto dal commutatore.
Inoltre con l’interruttore non era possibile accendere la luce di un corridoio
entrando da un lato, e spegnerla uscendo dall’altro lato: questo compito
sarebbe stato risolto dal deviatore.
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L’idea avuta da nonno, e che tento di riprodurre in un disegno esplicativo, non
era tanto banale se la Società Anglo Romana lo premiò con 2 lire d’argento.
Naturalmente né lui né la Società richiesero brevetto.
Tornando ai tempi del racconto, nonno non veniva spesso a casa, abitando
abbastanza distante dal centro, a Via Tunisi, presso Piazzale delle Medaglie
d’oro; ma lo ricordo, io ancora molto piccolo, con il suo odore di sigaro
toscano che gli aveva ingiallito i baffi nel centro, quando mi spiegava perché i
treni non deragliavano in curva.
Nonna Elvira, faceva visite ancora più rare, ma la ricordo chiaramente quando
venne a trovarmi in occasione di una di quelle malattie esantematiche proprie
della fanciullezza.
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Mi sembrava imponente, camminava infatti molto eretta, con i capelli bianchi,
il cappello con la veletta ed il solino al collo. Non ne ricordo la voce pur se
talvolta ne risento il profumo.
Quando io, o Paola, eravamo malati, in specie se in stato febbrile, in casa c’era
molta agitazione. La maggiore era determinata dalla preparazione del
cataplasma, (da tutti chiamato impiastro) che consisteva nel riscaldare
portandola quasi a torrefazione una miscela di semi di lino ed acqua, che
emanava un tremendo odore che si spandeva per tutta la casa, e veniva
spalmata su un piano di garze e ricoperta di altre garze. Il tutto veniva poi
posato sul petto, dove, con il suo caldo umido, scioglieva la tosse.
Né a me né a Paola piaceva questo trattamento, e ci voleva sempre un grande
che ci consolasse; e ricordo appunto nonna, seduta sul mio letto che mi teneva
la mano, sotto le coperte per non raffreddarla.
Ero molto piccolo, perché nonna è morta prima che avessi cinque anni.
Dicevo che nonno, come anche gli zii Favero, non venivano frequentemente a
casa, ma quel giorno di giugno doveva esserci una ragione particolare, perché
a parte zio Mario che era in Africa, erano tutti da noi, in camera da pranzo,
insieme a papà, mamma e le zie, sulle seggiole poste in cerchio attorno
all’apparecchio radio, che eravamo fra le poche famiglie a possedere.
Per me, ormai già smaliziato dopo il primo anno di scuola, la guerra era come
una partita di pallone, nella quale l’Italia, naturalmente doveva vincere
essendo campione del mondo; e non riuscii a capire perché zia Fernanda
Favero piangesse, e nonno la seguisse da presso. Mamma e le zie si
raccomandavano invece di ‘non far capire al pupo, che già va a scuola’.
Io saltavo per casa la mia gioia, urlando i miei evviva all’Italia, al Re, al Duce,
a tutti.
Non avrei saltato altrettanto la notte, quando avemmo il primo allarme
antiaereo.
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Abitavamo al quinto piano, cui però si accedeva tramite sei rampe di scale,
poiché Palazzo Marignoli aveva un ammezzato senza la fermata
dell’ascensore, e il piano primo, il piano nobile, di altezza doppia. Non che gli
altri fossero di altezza limitata poiché ogni rampa di scale contava trenta tre
gradini, cioè una volta e mezzo le normali rampe attuali.
Nel Palazzo, alla scala di Piazza San Silvestro, abitavamo solo due famiglie,
oltre il portiere; gli altri locali erano tutti uffici, vuoti di notte, salvo la sala
stampa del primo piano che di notte era più frequentata che di giorno.
L’altra famiglia, di Claudio S., di origine spagnola, che possedeva un negozio
di articoli da regalo al Corso, abitava al nostro stesso pianerottolo.
Al suono dell’allarme, uscimmo tutti titubanti di casa, e, prese le scale ci
avviammo al sotterraneo.
All’altezza della sala stampa, papà si informò delle ultime notizie: ‘sembra che
stiano bombardando Bari’. Poi tutti in cantina.
A bombardamento finito, senza usare l’ascensore, per evitare ogni pericolo,
tutti ci incamminammo a piedi lungo i 198 gradini.
Come erano facili quelli tra l’ammezzato ed il primo piano, e come erano alti
quelli fra il piano primo ed il secondo. Percorrerli poi con la vestaglia, lunga
fino ai piedi, occorreva far attenzione per non cadere.
Papà portava in braccio Paoletta, che si era addormentata, ed io ero ben
stanco, anche se non volevo darlo a vedere.
Fu così, che quando mancavano ormai pochi gradini al pianerottolo del quinto
piano, inciampai nella vestaglia, con le mani in tasca, e caddi, faccia avanti,
lungo le scale, battendo il viso e rimediando una ferita vistosa sullo zigomo.
Mamma mi consolò rendendomi orgoglioso perché, a suo dire, ero il primo
ferito di guerra, ed io realizzai che in guerra ci si faceva male.
Comunque per tutta l’estate, tanto durò la cicatrice, andai fiero della mia
ferita.
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LA SPIAGGIA DI OSTIA
Un bambino conosce i propri genitori e gli altri parenti da grandi, e cresce man
mano mentre loro diventano anziani e poi vecchi, per cui se li ricorda più
facilmente con gli occhiali, gli acciacchi, i capelli bianchi, a meno che non
intervenga qualche evento straordinario a fissare il ricordo, indelebile, ad un
preciso momento della loro storia comune.
L’evento straordinario poi è tale soltanto per loro due, è sempre solo qualcosa
che accade nel loro rapporto, nel loro convivere, e può darsi che sia avvertito
solo da uno dei due.
Avere i capelli di mamma fra le mani, raccolti in tre ciocche, ad aiutarla a fare
la treccia presso la parte più alta del capo dove lei non arrivava facilmente;
sentire la loro consistenza di seta, tenere fra il pollice e l’indice delle due mani
i due settori esterni e giocare con i medi e gli anulari per intrecciare la ciocca
mediana ora con quella destra ora con quella sinistra; sono atti così presenti
ancora in me che posso ricordare la massa di capelli rossi di mamma, lunghi
fin oltre il punto di vita.
E questa loro lunghezza mi consentiva di passarle la treccia ormai quasi finita,
sul davanti della persona, perché ella provvedesse a fissarla con un nastro in
punta.
Era poi lei ad arrotolare la treccia sulla parte superiore del capo, per disporla
quasi sul retro, raccolta a spirale, con delle grosse forcine a due punte di color
biondo.
Questo ricordo così vivo dei capelli di mamma forse non l’avrei mantenuto se
un giorno mamma non se li fosse tagliati; questo fu l’evento straordinario che
mi permette di ricordare mamma ancora giovane; il dolore che ne provai, ben
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oltre le lacrime, me la facevano detestare, quasi mi avesse fatto un dispetto
personale.
Capivo, pur se piccolo, che a mamma i capelli non sarebbero mai più
ricresciuti così, come piacevano a me; che non avrei più potuto affondarvi le
piccole dita, né vantarmi con gli altri di aver fatto la treccia a mamma.
Debbo dire che per tutta la sua vita, mamma non sarebbe più stata pettinata
eccettuate le poche ore dopo il parrucchiere, sollevando ogni volta il
risentimento di papà, con rimproveri che divenivano sempre più affettuosi
con l’andare degli anni.
In effetti mamma che era stata sempre una donna energica, aveva dovuto
rinunciare ai capelli lunghi per il troppo tempo che richiedeva la loro cura, e
l’occasione furono le prossime vacanze al mare.
Per molti anni, dopo la fine della guerra, sia noi che la famiglia di Anco,
saremmo andati ad Ostia per l’estate; per i primi anni di guerra si prendeva in
affitto una casa, diversa per le due famiglie, e vi si risiedeva circa tre mesi.
Io e Paoletta affettuosi
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Al mare però, andavamo alla stessa cabina, ed il sabato sera, ci trovavamo tutti
alla stazione dove arrivavano i genitori e zia Giannetta. Con noi al mare
restavano Tetta e zia Fernanda, e con Anco Natalia e zia Giannina.
Giannina, data la differenza di età, l’ho sempre chiamata zia non ostante fosse
mia cugina, e solo ora quando lei è rimasta la matriarca della famiglia ed io ho
i capelli bianchi, mi rivolgo a lei senza il titolo di parentela.
Ad Ostia andavamo allo Stabilimento Lido, una bella struttura in stile Liberty
con un’ampia cupola, posta proprio di fronte alla chiesa parrocchiale Regina
Pacis, cupola che sarebbe stata distrutta, assieme allo stabilimento ed al
pontile durante l’occupazione; per impedire lo sbarco si disse.
Ai lati, strutture in cemento armato, lunghe e strette dalla strada al mare, con
copertura piana foggiata a tolda di nave, ospitavano, sui due lati, le cabine;
tutt’intorno girava un marciapiede, sempre in cemento, che si estendeva per
quanto si protendeva l’aggetto della terrazza superiore; questa era accessibile
da scale poste sui due lati brevi, ed era scarsamente utilizzata come solarium,
perché il pavimento in cemento non invitava a sdraiarvisi; mentre era il
trampolino di lancio di ragazzi più grandi di me che si cimentavano nel salto
sulla rena da quei tre metri di altezza, suscitando da un lato la mia invidia e
dall’altro le rimostranze del guarda spiaggia.
Verso il mare le strutture distavano da quello oltre venti metri, che si
sarebbero ridotti a niente negli anni successivi, mentre dal lato della strada lo
stabilimento era recintato con un muretto sormontato da una rete metallica
intelaiata, al centro della quale un fascio di rami di pungitopo appeso, era
impregnato di insetticida.
La battaglia contro le mosche impegnava veramente tutti, e, nelle case, appesa
ai lampadari centrali faceva bella mostra di sé la carta moschicida
rappresentata da un lungo rotolo di carta gialla che si srotolava a spirale,
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impregnato di sostanze collose e sempre più annerito di mosche che non
riuscivano, una volta toccatolo, a liberarsi.
Alle finestre, la rete anti zanzare era perennemente abbassata, mentre i vetri
erano dai due lati incrociati da nastro adesivo di carta che aveva lo scopo di
evitarne la rottura incontrollata in caso di spostamenti d’aria per il
bombardamento.
In casa non restavamo a lungo, solo qualche ora al primo mattino mentre le
donne la rassettavano ed io ero impegnato nei compiti delle vacanze; fra cui
un quaderno di Calligrafia regalatomi da nonno, che, per quanto lo
riguardava, sapeva scrivere come la calligrafia dettava, e che non immaginava
che già nella mia scuola non la si insegnasse più, il che mi obbliga attualmente
a scrivere solo al computer.
I nostri giochi sulla spiaggia non differivano dagli attuali, pallone, bocce,
tamburello; ma il principale era lo scambio delle figurine. Non erano figurine
di calciatori ma figurine di guerra.
Erano dei cartoncini rettangolari lunghi circa sette centimetri e larghi quattro,
con la figura messa prevalentemente in verticale, con un triangolo
rappresentante la bandiera del paese belligerante e la dicitura in basso. Una
bandiera bianca con croce azzurra sotto ad un paesaggio di neve e dei soldati
con gli sci ‘soldati finlandesi all’assalto dei russi’; una bandiera rossa con cerchio
bianco e croce uncinata sotto ad uno stormo di aerei in picchiata ‘gli Stukas in
picchiata su Londra’, un tricolore con al centro lo stemma sabaudo e dei
motoscafi nel mare in tempesta ‘M.A.S. in azione’; una bandiera blu con croci
bianco rosse di san Giorgio e di Sant’Andrea e soldati laceri con le mani alzate
‘Il presidio inglese si arrende ai soldati italiani’ .
Le figurine più comuni erano quelle di imprese italiane o tedesche, le più rare
le francesi perché la loro guerra era finita presto, le più ricercate quelle delle
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nazioni amiche quali Finlandia, Romania, Cecoslovacchia, Austria.
Ovviamente vincevamo sempre.
Baionette, fucili, cannoni, navi, aerei, bombe, tutto era fatto in prevalenza di
acciaio, e di ferro ce ne era poco, per cui lo si ricavava da tutto. Si cominciò
dalle cancellate degli stabilimenti balneari che vennero sostituite da tralicci di
legno per finire da tutto quanto potesse essere utile.
Anche la sabbia dell’arenile di Ostia dovette contribuire: Questo arenile,
infatti, invece che avana o bianco come tutti gli altri d’Italia, è di colore nero; è
caldissimo durante le giornate di sole, e non ci si può stare in piedi senza
bruciarsi le piante; ciò è dovuto ad un’alta percentuale di ematite nella sua
costituzione, e noi ragazzi ben lo sapevamo quando mettendo la sabbia su un
foglio di carta, muovevamo al di sotto, ma a contatto con il foglio, una
calamita e vedevamo la sabbia addensarsi in granuli filamentosi che si
disponevano verticalmente in corrispondenza del centro della calamita e la
seguivano nel suo movimento. Inclinando il foglio cadevano i granelli di
sabbia privi di ferro e restava man mano una sabbia sempre più nera e sempre
al seguito della calamita. Con il movimento i granelli non di ferro che
rimanevano intrappolati fra gli altri, si venivano man mano liberando, finché
rimaneva solo l’ematite.
Sfruttando lo stesso principio, anche l’Italia portò le sue grandi elettrocalamite
montate su camion sulla spiaggia di Ostia usandola come una cava di ferro,
ma questa non dovette assicurare una grande resa se le elettrocalamite
restarono sempre in numero limitato, ed in definitiva vennero abbandonate
ben prima che la guerra finisse.
Il fatto di stare da soli con Tetta e zia Fernanda, specialmente in casa, rendeva
me e Paola assolutamente soggetti a loro due, senza che il telefono potesse
soccorrerci in qualche modo con l’intervento dei genitori.
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In mancanza di telefono in casa, le notizie con la famiglia o non venivano
scambiate o si doveva fare ricorso al telefono di qualche negoziante vicino che
poi avrebbe riferito.
Così una domenica in cui a tavola c’era la trippa, che a me non piaceva e che
mi faceva senso, papà voleva obbligarmi a mangiarla, minacciando: ‘se non ti
va oggi ti andrà stasera, se non ti va stasera ti andrà domani’
Non so se fosse il fatto che io, ormai allo stremo, il giovedì mi convincessi a
mangiarla non riuscendovi per l’effetto emetico che immediatamente ne
conseguì, ovvero il fatto che il caldo di cinque giorni l’avesse ormai putrefatta;
ovvero una telefonata di zia Fernanda a Roma; certo che io non la mangiai, né
da allora l’ho mai mangiata.
Non ricordo però con che cosa ho interrotto il digiuno.
C’era, davanti alla stazione, quella vecchia che sarà distrutta durante
l’occupazione, una strada che portava direttamente al mare, con il primo
palazzo a sinistra che aveva dei portici al piano terra.
Giusto a metà del palazzo una pasticceria protendeva la vetrina fino al limite
esterno del portico. Sul muro del palazzo un foro permetteva il passaggio di
un modello di dirigibile dall’interno della pasticceria fino a sopra la vetrina,
con una fune di sostegno ed una fune traente.
Annunciato da una campanella il viaggio del dirigibile iniziava, dapprima era
solo rumore, poi lo si vedeva spuntare dal foro nel muro, viaggiare fin sopra la
vetrina, giungere al fine corsa proprio in corrispondenza di un prisma
verticale in vetro.
La punta del dirigibile andava ad urtare contro un contrasto e ciò determinava
la apertura della pancia del dirigibile, da cui cadeva un krapfen alla
marmellata ancora bollente di cottura.
La bomba, così è ancora chiamata a Roma, cadeva lungo il prisma verticale
entro il quale la corsa veniva attenuata per effetto di lamine a molla poste su
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due lati a fare contrasto, e terminava la sua caduta su una montagnola di
zucchero.
La commessa lo serviva subito al primo della fila che si era prenotato.
Perché la ressa davanti era tanta, noi bambini eravamo affascinati dal volo del
dirigibile e dalla voglia del dolce, e come noi tanti che restavano per diverso
tempo imbambolati dallo spettacolo.
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LA PARTITA
Papà era probabilmente il figlio maschio preferito di nonno Giovanni, che lo
chiamava Felicino e che rivedeva in lui se stesso, come amore e dedizione al
lavoro, serietà negli impegni, onestà nei rapporti. Ed, in effetti, aveva seguito le
scuole, da piccolo in seminario nel quale, secondo il costume dell’epoca
portava l’abito talare non ostante i suoi otto anni di età, quindi quelle tecniche
che avevano rivestito di un necessario abito culturale la sua indubbia capacità
imprenditoriale. Questa lo avrebbe portato ad essere eletto per ben due volte
Presidente dell’Associazione Internazionale delle Imprese di Installatori
Elettrici. L’elettrotecnica, al tempo non aveva assunto quell’aspetto di banalità
che attualmente la rende tanto pericolosa, e fonte di tanti incidenti domestici.
Allora era un mistero per pochi iniziati: e chi la praticava era considerato un
mago.
Papà era chiamato il mago della luce, e ciò gli conferiva un alone di fascino.
Cui peraltro era abituato, dapprima come cavallerizzo, in divisa, con il
colbacco di pelo come quello delle guardie della Regina, quindi come
fiumarolo uso a prendere il sole con un doppio triangolino di tela allacciato sui
fianchi.
Riccio di capelli, che però portava lisciati all’indietro anche se ondulati,
secondo la moda del tempo, alto un metro e settanta, era molto proporzionato
e decisamente un bell’uomo.
Nessuno avrebbe pensato che si sarebbe innamorato di Valentina, più grande
di lui di quattro anni, che frequentava in ragione di una lontana parentela che
univa le famiglie Benedettini e Ponti (il cognome di nonna Elvira), tanto che
rivolgendosi a nonno Pietro lo chiamava zio.
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Fu questa confidenza che gli permise di chiederla in moglie, perché nonno, con
il suo atteggiamento che incuteva timore ai possibili pretendenti, aveva già in
precedenza scoraggiato le nozze di zia Giannetta e di zia Fernanda. La
memoria familiare rappresenta nonno Pietro, che morì prima che io nascessi,
con la testa leggermente abbassata, a guardar di sopra gli occhiali
l’interlocutore senza profferir parola.
Papà, data la sua confidenza e la conclamata parentela, non ebbe difficoltà ad
essere accettato come genero, se non l’impegno di applicare anche il cognome
materno ai figli nati quando nonno era in vita, cosa che non avvenne per la
prematura morte di nonno Pietro.
In quel periodo papà aveva per le mani un lavoro importante, e, nelle attese,
remunerativo che voleva portare a termine prima del matrimonio.
L’elettrificazione della ferrovia Roma Nord, che univa Roma a Viterbo, in
partenza da Piazzale Flaminio e con il primo tratto in galleria, fino all’Acqua
Acetosa. Ma il lavoro non gli venne pagato secondo le attese, e, credo, secondo
gli accordi. Tante volte ho sentito il racconto, quando si avvicinavano le feste di
Natale, di papà e mamma che, la vigilia di Natale del 1932, insieme andarono a
richiedere il pagamento all’Ingegnere, dato che si dovevano sposare due giorni
dopo; e se lo sentirono negare.
Vuoi per avventura, vuoi per incoscienza, vuoi per fiducia in Dio e in se stessi,
si fecero il segno di croce e si sposarono ugualmente, trasferendo nel motto
della loro partecipazione questa fiducia nella vita : Soli, sub sole, ad solem.
Papà seppe, dopo la guerra, che chi gli aveva negato il dovuto, in occasione
della guerra partigiana, era stato prelevato a Milano dai partigiani assieme a
sua figlia, e con lei ucciso, anche in modo barbaro; e dichiarava che anche se a
suo tempo aveva invocato la giustizia divina, non riusciva a sentirsi ripagato,
ma solo impietosito. Quell’episodio di dolore della vigilia di Natale era ora
riguardato con occhio senza più livore.
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Con il suo lavoro, papà si era fatto tanti amici fra i suoi clienti, passati ed
attuali, e si frequentavano. Ricordo Renato F. detto l’avvocato Cipolletta che
aveva un immenso negozio di mobili in Via Nazionale con magazzino che
arrivava in via Genova, assieme al Conte Teodoro M.; i fratelli N. proprietari di
un negozio di ottica in via del Tritone e del cinema Moderno; l’architetto
Virgilio C. con una stupenda mano per il disegno; Ugo P. proprietario di alcuni
bar in Roma, di cui ricordo quelli a Via Nazionale ed a Piazza dell’Esquilino.
Allora no, ma ora mi sembra strano perché non succederebbe più, che tutti
questi amici trattassero mamma con il lei chiamandola signora Valentina,
mentre mamma, di rimando, usasse il lei chiamandoli per nome. A ben
ricordare l’unico fra gli amici di famiglia a chiamare mamma semplicemente
Valentina ed a darle il tu, sarebbe stato il Prof. Arrigo C. una volta tornato da
Modena per aver vinto la cattedra a Roma.
Molti di questi amici di papà avevano anche un’altra ragione di frequentazione,
oltre quella del lavoro, ed era la comune passione sportiva per la Roma.
Papà proveniva dagli ambienti di Piazza Adriana dove era ed è la sede della
Fortitudo, società polisportiva con annessa sezione calcio. Anzi zio Tonino era
giocatore della squadra, non so se della prima o di qualche formazione minore,
per cui fu naturale alla fusione tra Fortitudo, Alba, Roman e Pro Roma,
confluire nella Roma.
Papà aveva la tessera di socio vitalizio numero 47, e giusto in quel secondo
anno di guerra mi recò con sé ad una delle ultime partite del campionato.
Questo si effettuava allo Stadio Nazionale del Partito dove sette anni prima si
era svolta la finale dei campionati del mondo. Era uno stadio fatto ad U con
uno dei lati maggiori coperti da una struttura sostenuta da pilastri posti
pressoché al centro della scalinata che impedivano la completa vista a chi
sedeva dietro. Al centro della tribuna c’era il settore d’onore che ospitava un
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discreto numero di gerarchi in uniforme, ma quasi mai il Duce che sembra
avesse una maggiore propensione per la Lazio.
Sul lato non chiuso dello stadio c’era una piscina sopraelevata con trampolino
da 10 metri ed una tribuna di 4 o 5 gradini sul lato opposto al campo di calcio.
Come tutti gli stadi inglesi di società, che sono adibiti soltanto al calcio, anche
questo stadio era immediatamente a ridosso del campo, ma il pubblico era
molto più composto di quanto lo sia ora, con una notevole rappresentanza
femminile.
Alla partita si andava come alle corse, per cui in giacca e cravatta e cappello,
che d’estate era il panama; e questo non soltanto nella tribuna coperta. Non si
sentivano parolacce perché il turpiloquio era proibito e passibile di multa.
Dal centro della città, dove abitavamo, si andava allo stadio in autobus, e se ne
dovevano prendere due, uno fino al piazzale Flaminio, l’altro, il tram, che
percorreva la via Flaminia. Dopo la partita, generalmente si tornava a piedi,
almeno per il primo tratto fino a piazza del Popolo.
Via Flaminia, nel tratto compreso fra lo stadio e Piazzale delle Belle Arti, ha,
sulla destra un solo palazzo ed una chiesetta rotonda, poi tutti giardinetti, che
durante questo periodo di guerra, ospitavano degli orti di guerra. E ricordo la
canzone che cominciava: Caro Papà, ti scrivo e la mia mano / quasi mi trema, lo
comprendi tu? / Son tanti giorni che mi sei lontano / ma dove vivi, non lo dici tu!! .. e
terminava, commossa: Anch’io combatto, anch’io fo la mia guerra, / con fede con
amore e disciplina, / desidero che vinca la mia terra, / e annaffio l’orticello ogni
mattina. / L’orticello di guerra / e prego Iddio / che vegli su di te babbino mio.
E fu proprio in piazza del Popolo che colsi di sfuggita una considerazione fatta
da papà e dai suoi amici sul possibile andamento della guerra, con
pessimistiche previsioni che cozzavano con il mio personale entusiasmo, e con
l’effettivo andamento delle operazioni.
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Papà si accorse che avevo ascoltato, ma non mi disse niente; ma io ero abituato
a non riferire mai quello che si diceva in casa, anche se mi sentivo imbarazzato
passando davanti ai manifesti propagandistici in cui un uomo vestito da
soldato portava il dito indice teso in verticale davanti la bocca a toccare la
punta del naso, con la dicitura: ‘Zitto : il nemico ti ascolta’
Molti uomini, durante la guerra, portavano all’occhiello, oltre il distintivo del
P.N.F. anche qualche altro distintivo propagandistico per il periodo di guerra.
Quello che ricordo più vivamente era in lettere maiuscole dorate su fondo
azzurro e diceva: ‘Dio stramaledica gli inglesi’ in più righe con parole senza
soluzione di continuità fra loro, e segno di andata a capo; per cui era di difficile
interpretazione a prima vista. Ma una volta capito, sapevi che avevi Dio dalla
tua parte, e non ti potevi far ragione dello scetticismo di papà e dei suoi amici.
Ma avrebbero avuto ragione loro.
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I BOTTONI BIANCHI
Piazza San Silvestro era a quel tempo divisa da piazza San Claudio da Via San
Silvestro, animatissima di negozi e sfavillante di luci fino all’oscuramento.
Davanti l’Ufficio centrale delle poste, l’altro lato della piazza era in esatta
corrispondenza con lo stipite destro del portone del civico 92, quello di
Palazzo Marignoli.
In Via San Silvestro, e nelle vie circostanti c’erano negozi di vario genere ma
non alimentari; per trovare questi occorreva andare verso Piazzale Flaminio, e
si trovavano a via del Gambero il lattaio Ferretti con il bancone e tutti i tavoli
in marmo, le bottiglie in vetro con il tappo di stagnola e la data incisa, nel
tratto della via compreso fra via della Vite e via Frattina; la farmacia all’angolo
di via della Vite con tre gradini di accesso ed una porta in legno con vetro
centrale da cui si vedeva l’arredamento interno tutto in legno scuro; il negozio
di confetti Vagnozzi davanti al lattaio dal quale, quasi ogni volta che
passavamo davanti, ci veniva, a noi bambini, offerto un dolcetto; il bar Eleuteri
vicino via delle Convertite da cui usciva sempre odore di caffé. A via Frattina
c’era il fornaio Carlucci in un negozio presso l’angolo di Via Mario de’ Fiori; a
Via Belsiana non c’erano negozi fino a via delle Carrozze, poi prima di
arrivare a Via della Croce c’era il carbonaio dai capelli rossi sempre sporchi di
nero, per l’abitudine di caricare i sacchi di carbone aiutandosi con la testa, e
proprio all’angolo con Via della Croce il salumiere Scialanga. Su Via della
Croce, presso il salumiere c’era un altro fornaio, sempre Carlucci, e fratello di
quello di Via Frattina con due porte laterali ed una vetrina centrale, e di fronte
il macellaio con gli stipiti della porta e della vetrina in marmo verdognolo
sormontati da due teste di toro in bronzo, un bancone alto oltre un metro e
mezzo, cui arrivavano a stento gli occhi delle massaie, e, dietro, il macellaio, su
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una pedana altissima che gli consentiva di sporgersi dal bancone per
consegnare ai clienti il pacco della carne, con il grembiule sempre sporco di
sangue, e sempre in atto di affilare i coltelli. Lungo via della Croce andando in
su, cioè verso Piazza di Spagna, il fruttivendolo Delucchi che vendeva anche
coloniali, e poco oltre, presso l’incrocio con via Bocca di Leone, lo spaccio di
vini ed oli, nel quale il vino era conservato in botti, e ne veniva spillato con un
tubo in gomma che terminava con un tratto di canna tagliato ad ancia; per
spillarlo, occorreva succhiare dal tubo di gomma in modo da eliminarne
all’interno la pressione atmosferica; l’abilità nel succhiare era farlo senza bere,
e senza che il flusso si interrompesse. Fra via Bocca di Leone e Via Mario de’
Fiori c’era poi il negozio di abbacchi e polli che vendeva anche le uova.
In tutti questi negozi passava ogni mattina zia Giannetta che era deputata agli
approvvigionamenti, ma non ostante la bontà del materiale in casa si
mangiava male.
La pasta asciutta non era frequente a tavola, si preferiva il brodo, sempre di
gallina, sempre molto grasso, ovvero un qualsiasi tipo di zuppa, con fagioli,
ceci, lenticchie, broccoli, piselli e patate. Ancora odio nel ricordo il minestrone
che, chissà perché, aveva come principale ingrediente il sedano, che ancora
non riesco a mangiare. Il secondo era eminentemente di carne, salvo il venerdì
in cui mangiavamo pesce, generalmente merluzzo bollito, che piaceva soltanto
a papà; ma la mamma e le zie erano troppo buone cristiane per non fare
vigilia. Purtroppo la carne che girava per casa era del tipo che piaceva a zia
Giannetta, sempre piena di grasso e tenerume, e le poche volte in cui era una
bistecca, nessuno sapeva cuocerla e ne riusciva una suola dura e bruciacchiata.
Noi ragazzi eravamo felici quando c’erano le polpette od il polpettone, fatti
con gli avanzi macinati dei giorni prima con l’aggiunta di uovo, pan grattato e
noce moscata, perché era morbido, masticabile e saporito. Molto raramente, e
solo in ricorrenze, abbiamo avuto pollo, ma abbastanza spesso le uova cotte
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comunque, al piatto, in frittata, a la coque, sode. Le cose buone erano i
contorni, insalata cruda o verdure cotte, o bollite, come la bieta, o ripassate in
padella come spinaci e cicoria; una festa erano i piselli al prosciutto e una gioia
le patate.
Il frutto finale era di prammatica ma di nessuno sollevava l’entusiasmo.
Il pane era per lo più rappresentato da sfilatini, il vino riservato ai grandi,
l’acqua presa dal rubinetto della cucina e, per zia Fernanda, dal bagnetto
laggiù.
Il latte doveva venire bollito per almeno dieci minuti, e lo si faceva in un
pentolino dotato di coperchio ad imbuto rovesciato, con grande foro centrale
ed una serie di fori più piccoli laterali, il coperchio veniva fissato al bollitore
facendo corrispondere due incavi diametralmente opposti a due rilievi interni
alla pentola, e poi girandolo per togliere la corrispondenza, in modo che il
latte bollendo, non lo sollevasse.
Il latte, durante il riscaldamento, non dà segni di variazione, come fa l’acqua
che comincia a creare bollicine, ma all’improvviso si gonfia avendo formato
una pellicola superficiale che impedisce al vapore di fuoriuscire e, se non ci
fosse il particolare coperchio, non si farebbe mai in tempo a spegnere il fuoco o
ad abbassare la fiamma, che tutto il latte fuoriuscirebbe dalla pentola. Il
coperchio, disegnato nel modo descritto, rompendo la pellicola superficiale,
consente la fuoriuscita del vapore, ed allora il latte, che ha cominciato ad
uscire dal foro centrale, ricade per i fori laterali. A questo punto è bene
abbassare la fiamma e consentire al latte di bollire per dieci minuti senza
troppi sommovimenti. I dieci minuti, secondo la famiglia, dovevano essere il
tempo sufficiente ad uccidere non so quale sorta di pericolosi batteri, e
l’abitudine si è conservata in casa anche dopo l’introduzione del latte
pastorizzato.
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Un’altra bevanda peculiare era il cosiddetto caffè d’orzo, cui l’appellativo di
caffè derivava solo dal colore scuro. La preparazione dell’orzo procedeva in
casa fin dalla fase di torrefazione, infatti l’orzo veniva comprato in chicchi che
somigliano in tutto ai chicchi del grano. Questi venivano posti in una padella
larga munita di copertura fissa nella quale si apriva un vano, ed al centro della
quale era inserita una manovella che azionava una pala di miscelazione. Il
tutto veniva posto sul fuoco e si cominciava a girare mentre l’odore della
torrefazione invadeva la casa. Quando l’orzo era nero al punto giusto, lo si
tirava fuori dalla padella e lo si faceva raffreddare. Si macinava a mano con un
macinino munito di cassetto inferiore, destinato solo al caffè ed all’orzo. La
procedura per ricavarne l’infuso, prevedeva in casa nostra, l’impiego di un
bricco in alluminio tronco conico riempito d’acqua con entro qualche cucchiaio
d’orzo, ed una cottura a fuoco lento che poteva durare ore.
Questo orzo, unito al latte, era la colazione di tutti.
Procedendo la guerra, il cibo venne assoggettato a sempre maggiore
razionamento, sia come tipologia sia come quantità; e la nostra abitazione era
troppo centrale perché fosse meta di chi faceva borsa nera, per cui
scarseggiava veramente.
Non una volta sola le zie ed i genitori si trovarono in lacrime davanti ad una
zuppa di acqua e pane; ma noi bambini, non abbiamo mai sofferto la vera
fame, anche per nonno Giovanni.
Dopo la cucina ed il bagno era, a metà del corridoio, installato il telefono. Non
erano molti i telefoni privati in quegli anni; il nostro numero era 62.651 ed era
divertente, per me che avevo iniziato a leggere, ritrovarlo sui tre dei quattro
elenchi del telefono che la Te.Ti. dava agli abbonati.
Un elenco, stampato in carta bianca, era quello nominativo, identico al tipo
attuale; un elenco, stampato in carta gialla, antesignano delle pagine gialle, era
l’elenco categorico in cui, ovviamente compariva la ditta Benedettini ma non
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la famiglia Favero; un terzo elenco stampato in carta azzurra, era lo stradale in
cui la suddivisione veniva fatte per strade elencate in ordine alfabetico, per
numeri civici elencati in ordine crescente, e, all’interno del numero civico, per
abbonati elencati in ordine alfabetico; un quarto elenco, stampato in carta
bianca, con caratteri più piccoli del primo elenco, era il numerico in cui
l’ordine era rappresentato dal numero telefonico che veniva accoppiato al solo
nome dell’abbonato, senza l’indirizzo.
Quel giorno risposi io al telefono, e riconobbi la voce di nonno Giovanni che
mi diceva: ‘Di’ a Valentina che ho trovato 12 bottoni bianchi..... hai capito bene?
....12 bottoni bianchi’ Io naturalmente riferii, senza meravigliarmi perché, con
un negozio di abbigliamento maschile era normale che a mamma servissero i
bottoni bianchi, anche se 12 non mi sembravano granché, tanto da giustificare
una telefonata che nonno non aveva potuto fare da casa.
Solo molto dopo ho saputo che i dodici bottoni bianchi erano il codice per
significare una dozzina di uova, che nonno aveva acquistato a borsa nera per
noi bambini.
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I FAZZOLETTI
Il giorno dell’Epifania era restato un giorno di festa e di regali anche durante
la guerra, almeno nei primi anni. Per noi, il Natale non aveva il contorno di
doni e strenne che ha attualmente; ma più un carattere intimo e religioso; per i
doni c’era la Befana. In quel giorno era vietato svegliarsi prima, o, almeno,
andare in cucina. La sera si era preparata la colazione per la Befana, a base di
arance, e si erano lasciati dei calzini appesi alla cappa, sperando di ritrovarli
pieni di dolci, assieme a qualche regalo, accanto, una letterina di desideri.
Io avevo compiuto otto anni da meno di un mese, e nelle mie letterine avevo
chiesto la divisa da corazziere ed un fortino. Al mattino del 6 gennaio in
cucina, sul tavolo c’erano dei pacchi così grandi che le calze piene di dolci, e di
carbone, appese alla cappa scomparivano.
Il fortino, in cartapesta, una volta scartato, rivelava una struttura centrale con
ponte levatoio per l’accesso con ai lati due torri per l’alloggiamento dei
cecchini, ed un esercito di soldatini, nelle più varie posizioni: l’ufficiale, in
piedi, con la pistola puntata; il soldato che prende la mira in piedi, accosciato o
sdraiato in terra; l’incursore che taglia il filo spinato; il cavaliere con la lancia e
la bandierina in fondo; il ferito trasportato da due barellieri che recano al
braccio un bracciale bianco con la Croce Rossa.
Il regalo era così avvincente che mi accorsi appena della corazza da corazziere;
della mia disattenzione si accorse invece Paola, che, abbandonata per il
momento l’immensa bambola con gli occhi mobili, aveva indossato l’armatura,
inalberava l’elmo e minacciava con la sciabola.
Paola, che aveva orma sei anni e mezzo, era una bambina bellissima con il
naso all’insù, una cascata di boccoli castani che portava pettinati come Shirley
Temple, cui peraltro in qualche modo assomigliava, ed era capricciosa per
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quanto bella. Papà, un giorno, avrebbe punito i suoi capricci quando prima
aveva voluto l’uovo battuto con lo zucchero, poi non lo aveva più voluto
mangiare, versandole il contenuto della tazza proprio sui capelli ed
assicurando che lo shampoo all’uovo rendeva i capelli splendenti.
Quando mamma e le zie si accorsero che si era impadronita del mio regalo, mi
dissero: ‘guarda tua sorella che ti ha preso l’armatura’ ; ed io di rimando, nella
mia beata incoscienza ‘lasciala fare che è femmina’.
Comunque per fargliela rendere dovetti fingere di mettermi a giocare con la
sua bambola.
Quell’anno avrebbero cancellato Via San Silvestro, demolendo il palazzo
compreso fra Piazza San Silvestro e Piazza San Claudio, unendo in tal modo le
due piazze in una piazza sola. Poterono così trasferire in questa nuova piazza
tanti capolinea di filobus che prima erano in Piazza del Parlamento.
A Roma, in quel periodo, c’erano diversi tipi di mezzi di trasporto pubblico,
gli autobus, i filobus ed i tram.
Questi ultimi erano riservati alle due circolari: la circolare nera CD o CS
(destra o sinistra) che seguiva all’incirca il percorso delle mura Aureliane, la
circolare rossa ES o ED (esterna sinistra o destra) che seguiva un percorso più
esterno di circa 500 metri; ed ai trasporti radiali in partenza dal limite del
centro fino all’estrema periferia. Ricordo la linea 1 che in partenza dal piazzale
Flaminio percorreva, in doppio senso, tutta via Flaminia, fino al ponte Milvio,
dove la linea diventava unica, per poi avere, oltre il fiume, un anello per
l’inversione di marcia. Sullo stesso anello faceva capo la linea tranviaria 2 che
percorreva via Flaminia fino ai due Ponti. Ricordo la linea 23 che partendo da
Monte Savello arrivava fino alla Basilica di San Paolo, dove un anello fra le
siepi di mortella ne consentiva l’inversione di marcia; ed ancora la linea 35 che
univa piazza Cavour con l’Ospedale di Santa Maria della Pietà, sul cui
piazzale il consueto anello fra le siepi ne permetteva il ritorno. La particolare
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destinazione dell’ospedale che era un ospedale psichiatrico consentiva ai
romani, ( i veri romani sono maestri sia in quello che gli inglesi chiamano
understatement , sia nel suo contrario che si dovrebbe chiamare
overstatement) di significare a qualcuno le sue stranezze dicendogli di
prendere il 35; nello stesso modo auguravano di andare in carrozza per via
della Croce andando in su, sapendo che in quel senso, dal Corso a Piazza di
Spagna, potevano viaggiare solo le carrozze funebri.
Sempre a trazione elettrica erano i filobus, muniti di due trolleys a pattino
strisciante, che però, come d’altronde gli autobus, erano identificati da lettere
che erano funzione dei capolinea terminali. Così ST era la linea fra il salario e
trastevere, NT fra il nomentano e trastevere, M1P ed M2P, chiamati
rispettivamente emmepiuno ed emmepidue, quest’ultimo con le lettere
azzurre su fondo bianco, fra macao e prati, NB fra nomentano e borgo, EF fra
flaminio ed esquilino.
I filobus coprivano tutte le zone centrali fra i due capolinea, e non
disdegnavano di addentrarsi nelle viuzze del centro, come faceva l’M1P per
Via Condotti nei due sensi, l’EF per via del Babuino, l’NB per via dei
Portoghesi e via dei Pianellari, libere per l’assenza di traffico privato.
Traffico peraltro ce ne era, ed era traffico pedonale. Ricordo che al Corso, tra
via delle Convertite e Via Condotti c’erano dei cartelli azzurri rettangolari che
imponevano ai pedoni di tenere la mano sinistra, quella che risultava cioè
contraria al senso di marcia dei veicoli, e ciò per impedire che il flusso
pedonale e veicolare risultasse in qualche modo impedito. A non osservare il
divieto la multa era sicura e non un pericolo.
Gli autobus coprivano i percorsi che traversavano Piazza Venezia nella quale
non era possibile allestire la linea aerea, senza il ricorso a pali centrali di
sostegno, ed erano MB fra macao e borgo, cioè fra la stazione e San Pietro, FR
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fra piazzale Flaminio e Monte Savello (rione Regola) che in estate diventava
FL con scritte di colore azzurro ed era esteso fino alla stazione Roma-Lido.
Piazza Venezia, per suo conto, essendo il punto di ritrovo per le
manifestazioni, era priva di semafori, ed in essa il traffico era, come ancora è,
affidato ai pizzardoni. I semafori invece trionfavano in tutti gli altri incroci più
importanti: a via Nazionale c’erano quelli di nuovo tipo con tre luci, dall’alto:
rosso, giallo e verde, posti al centro dell’incrocio sospesi ad un cavo teso, ma
non erano diversi da quelli attuali; molto più comodi erano quelli di vecchio
tipo che avevano due riquadri formati da 15 lampade ciascuno, un riquadro
superiore rosso ed uno inferiore verde.
Le lampade dello stesso colore per lato, in occasione di traffico normale erano
tutte accese, ma per avvisare che il semaforo stava per cambiare indicazione,
cominciavano a spegnersi ad intervalli regolari le cinque lampade centrali del
riquadro illuminato, rosso in un senso e verde nell’altro, dando così a
chiunque non solo l’avviso della variazione di traffico, ma anche permettendo
di calcolarne il tempo. Questi semafori, montati al Corso, presso Palazzo
Marignoli, furono dapprima sostituiti da semafori analoghi che prevedevano
fra i riquadri rosso e verde, un riquadro giallo di una sola riga di lampade, e
qualche anno dopo la guerra da quelli di tipo moderno. I semafori, che erano
però limitati ai soli incroci del centro, erano in funzione nelle ore del giorno
tutti i giorni fuorché il giorno della Befana, nel quale lasciavano il posto ai
vigili urbani che tornavano a quegli incroci a regolare il traffico ed erano fatti
oggetto di regali da parte degli automobilisti per una tradizione gentile che
venne poi perduta.
Piazza San Silvestro con la nuova conformazione, permetteva di considerare
sulla stessa piazza ben tre chiese: San Silvestro stessa che, come anche ora, è
affidata a sacerdoti di lingua inglese; Santa Maria in Via con il santuario della
Madonna del Pozzo che era la nostra parrocchia affidata ai Servi di Maria, e
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San Claudio posta fra le due. Con l’allargamento avevano dovuto aggiornare
anche i numeri civici, e così il nostro portone assunse il numero 13.
San Claudio era ed è affidata ai sacerdoti Sacramentini seguaci del Beato
Pietro Giuliano Eymard, che in seguito sarebbe stato proclamato santo, ed era,
durante la guerra, una chiesa particolare perché all’altare centrale c’era sempre
esposto il Sacramento.
L’altare stesso, anzi, è costituito da un masso d’oro scolpito, a sostegno
dell’ostensorio, con dietro un immenso manto di ermellino partente dall’alto,
dall’interno di una corona reale. Sulla parete dietro l’ostensorio si apre uno
sportello per il quale è possibile accedere all’ostensorio stesso da una cappella
posteriore. Ogni pomeriggio, al vespro, si effettuava la benedizione
eucaristica, per cui, dopo il rosario, l’officiante si recava nella cappella
posteriore, toglieva l’ostensorio dalla sua posizione e lo portava in chiesa,
posandolo sull’altare. In ginocchio, intonava il Tantum ergo, e, giunto alla
seconda strofa, Genitori Genitoque, alzatosi per la breve bisogna, riempiva
d’incenso il turibolo rendendolo al turiferario. Al termine del canto, dopo la
giaculatoria ‘Panem de coelo..’ , incensava, sempre in ginocchio, l’ostensorio,
quindi, alzatosi in piedi, si avvicinava all’altare, prendeva in mano
l’ostensorio, coprendo le mani stesse con la stola che gli era stata posta sulle
spalle sopra il piviale, poi si volgeva coram populo e elargiva la benedizione
lentamente e ieraticamente ai quattro lati del cielo. ‘Dio sia benedetto,
benedetto il Suo santo nome, ..’ poneva termine al rito, dopo di che il
celebrante riconduceva l’ostensorio al suo posto, ripercorrendo a ritroso la
strada dell’andata.
In quei giorni, la chiesa era sempre piena per la benedizione, uomini e donne,
d’estate o d’inverno, con il caldo od il freddo, la pioggia od il bel tempo,
nessuno rinunciava alla preghiera, e la religione era un rifugio sicuro anche
per tanti miscredenti.
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Io avevo cominciato la mia carriera di chierichetto, ero stato accompagnato da
mamma da padre B. proprio a San Claudio, ed egli mi aveva dato un libricino
dove venivano riportate tutte le formule della messa in latino.
La parte del sacerdote era scritta in corsivo e si limitava alle prime ed alle
ultime parole nelle formule più lunghe, quella del ministrante era scritta in
grassetto, e riportava le parole con gli accenti tonici.
‘Introibo ad altare Dei’
‘Ad Dèum qui laetìficat iuventùtem mèam’
Il sacerdote stava in piedi in mezzo all’altare, mentre il chierichetto stava in
ginocchio in cornu Evangeli, perché doveva stare dalla parte opposta del libro,
e questo al principio della messa fino al Vangelo, stava in cornu Epistolae, cioè
alla destra dell’altare.
La messa si svolgeva a San Claudio ogni mezz’ora alternandosi ai due altari
laterali, poiché anche durante la messa non si interrompeva l’Adorazione
all’altare maggiore. Alle ore intere all’altare del Beato, alle mezze ore a quello
di fronte.
Gli altari non avevano una balaustra fissa, ma ognuno era separato dal popolo
solo da una transenna in ferro lavorato, posta a non più di mezzo metro dal
gradino, e solo dalla parte posteriore.
A parte i riti di introduzione, nei quali c’era una specie di tenzone fra
celebrante e ministrante, recitato a voce alta, almeno da parte del chierichetto,
cui generalmente si accompagnava la voce di qualche fedele presente che
conosceva il rito, il resto della funzione si svolgeva a voce bassa da parte del
sacerdote, sempre rivolto verso l’altare con le spalle al popolo.
Poiché in molte situazioni era previsto l’intervento in risposta del chierichetto,
il sacerdote a volte doveva alzare la voce per far intendere la fine della
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preghiera. Questo non era possibile con l’Epistola la cui lettura non terminava
come ora con le parole Parola di Dio , per cui il celebrante ricorreva ad un
segno particolare consistente o nell’alzare la mano sinistra, o nel volgere il
capo verso il chierichetto. Al che mi alzavo dopo aver detto ‘Deo gratias’ e mi
accingevo al cambio del libro portandomi alla destra dell’altare.
Quando il sacerdote si inchinava al centro dell’altare per il ‘Munda cor meum
...’ avevo il tempo di prendere il leggio con il messale, scendere dall’altare e
portarlo dall’altro lato, in cornu Evangeli.
‘Dominus vobiscum ‘
‘Et cum spìritu tuo’
‘Sequentia Sancti Evangeli secundum Lucam’
‘Gloria tibi Domine’
Il sacerdote continuava a bassa voce ed al termine baciava il libro, quello era il
segnale per proclamare ‘Laus tibi Christe’.
Non c’era mai l’omelia e, talvolta, non si diceva il credo.
A questo punto il sacerdote scopriva il calice, che fino ad allora era stato
coperto da un velo, a forma di piramide tronca, ed era in mezzo all’altare.
Questo era il segnale per la validità della messa, a questo si faceva riferimento
nei giorni festivi quando chi entrava in ritardo domandava ‘ E’ buona la
messa? Ha scoperto il calice?’.
Qui cominciava la mia attività perché per l’offerta del pane il sacerdote aveva
l’ostia pronta sulla patena sotto il velo, ma ero io che dovevo porgergli le
ampolle del vino e dell’acqua, per l’offerta del vino. Queste stazionavano alla
destra dell’altare e normalmente restavano colà per tutte le messe del giorno.
Dopo l’offertorio il sacerdote tornava verso il lato destro dell’altare, mentre io
tenevo il telo di lino per l’asciugatura sorreggendolo fra l’anulare ed il
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mignolo della mano sinistra, e con la stessa mano reggevo il porta ampolle;
nella destra avevo l’ampolla dell’acqua che versavo sulle mani del sacerdote
che recitava il salmo ‘Lavabo inter innocentes manus meas ...’
Normalmente il sacerdote recitava a memoria, comunque sull’altare c’erano
tre cartigli incorniciati, più grande quello centrale nel quale veniva riportato
tutto l’ordinario della messa, più piccoli i laterali, a destra quello del lavabo, a
sinistra quello dell’ultimo vangelo.
Lavate le mani al sacerdote, piegavo l’asciugatoio di lino seguendone le
pieghe, e rovesciavo in una bacinella posta vicino l’altare, l’acqua rimasta nel
porta ampolle.
Qualche volta facevo in tempo a tornare al mio posto, stavolta in cornu
Epistolae, prima che il celebrante si rivoltasse, per intonare l’orate fratres .
Questa era l’unica volta in cui il sacerdote si volgeva al popolo stando al
centro dell’altare fino alla benedizione, le altre volte che si rivoltava, dovendo
farlo con il Sacramento sull’altare, lo faceva senza voltare le spalle al centro,
per cui si volgeva da un lato e non completamente.
La breve preghiera della Secreta, recitata naturalmente in segreto, preludeva
alla seconda tenzone fra celebrante e ministrante.
‘Per omnia saecula saeculorum’
‘Amen’
‘Dominus vobiscum’
‘Et cum spiritu tuo’
‘Sursum corda’
‘Habemus ad Dominum’
‘Gratias agamus Domino Deo nostro’
‘Dignum et iustum est’
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‘Vere dignum et iustum est ....’ il celebrante continuava il prefazio a voce alta
fino al Sanctus.
Dopo continuava a voce bassa, e toccava a me, avvisare il popolo con il
campanello, delle varie fasi della messa.
Dicendo ‘Hanc igitur oblationem ..’ il sacerdote tendeva le mani aperte con il
palmo in basso sulle offerte, e qui dovevo suonare la prima volta, dopo di che
mi avvicinavo al sacerdote, inginocchiato sul gradino dove lui stava in piedi. Il
celebrante si era inchinato per la consacrazione del pane, quando si ergeva,
dovevo tenergli il bordo inferiore della pianeta per sollevarlo quando si
inginocchiava, quando elevava il pane e quando si inginocchiava di nuovo,
ogni volta accompagnando il gesto della sinistra con l’agitare il campanello
con la mano destra, in uno squillo discreto. Tre squilli erano anche il segnale
dovuto per l’elevazione del calice. L’ultimo di questi, però era uno squillo più
lungo per avvisare il popolo che l’elevazione era finita.
Il sacerdote continuava in segreto, fino al Pater noster, salvo un innalzamento
della voce in occasione del ‘Nobis quoque peccatoribus’ che era la preghiera
per i presenti.
Il pater era recitato solo dal sacerdote fino al ‘... et ne nos inducas in
temptationem’ ed io rispondevo ‘sed libera nos a malo’
Agli altari laterali che erano privi di tabernacolo, non veniva distribuita la
comunione, salvo che al chierichetto. La distribuzione al popolo avveniva per
mano di un altro sacerdote all’altare centrale in concomitanza con la
comunione all’altare laterale.
Dopo la comunione dovevo espletare molte attività, dapprima dovevo porgere
l’ampolla del vino al sacerdote per la purificazione del calice, poi, mentre il
sacerdote sorreggeva il calice con le ultime tre dita di ciascuna mano, tenendo
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unite sopra al calice il pollice e l’indice, dovevo versare dapprima il vino e poi
l’acqua per consentire al sacerdote di sciacquarsi i polpastrelli.
Egli li aveva tenuti uniti fra loro dalla consacrazione fino adesso, ed il messale
era fatto con delle appendici in stoffa laterali che consentivano di voltare le
pagine, prendendo le appendici fra l’anulare ed il medio.
Dopo il secondo lavaggio delle mani, riportavo il messale nella posizione
iniziale, alla destra dell’altare, ed il sacerdote recitava Communio e
Postcommunio, quindi portatosi al centro dell’altare, impartiva la benedizione
e intimava ‘Ite missa est’
Ma non era vero, perché mancava di leggere l’ultimo Vangelo, che era il
principio del Vangelo di Giovanni, preceduto dallo stesso rito introduttivo per
il Vangelo della messa; al termine, invece, dopo ‘plenum gratiae et veritatis’
rispondevo ‘Deo gratias’
A messa finita, il sacerdote si inginocchiava in mezzo all’altare e recitava tre
ave Maria ed una Salve Regina con una preghiera che non facevano
strettamente parte della messa, ma che allora ne erano la conclusione.
Nei periodi di vacanza, servivo messa tutti i giorni, talvolta anche per due
messe consecutive, e c’era, fra il popolo, sempre qualcuno della famiglia; e la
chiesa era sempre piena di gente, e non avevo ancora fatto la Prima
Comunione.
All’uscita, se non avevo qualche compito delle vacanze, non mi dispiaceva
andare fino al negozio di mamma.
Il negozio Benedettini, fondato da nonno Pietro, camiciaio, era in Corso
Umberto ai numeri 89 e 90, con una mostra esterna che li raccoglieva
ambedue, ed una insegna in lettere oro su fondo nero BENEDETTINI. La
finestra nella parte fra i due vani, non era più profonda di 10 centimetri, ma
era abbastanza per mettere in mostra le camicie ripiegate in verticale.
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Il negozio era un budello, largo quanto la vetrina del numero 90, che
terminava con 5 gradini, che davano accesso alla parte posteriore dello stesso,
dove era il laboratorio. Dal laboratorio si poteva uscire su di un cortile, da cui
si accedeva ad uno stretto corridoio che da un lato tornava su strada in
corrispondenza del numero civico 92, e dall’altro portava alle scale della
Pensione Suquet.
Nonno Pietro
Nonno aveva fondato la sua attività sulla bontà della merce e sulla serietà
commerciale; nonché sulla profonda collaborazione dei propri figli
nell’azienda, non in mansioni direttive, ma nello svolgimento della pratica
quotidiana che anche egli perseguiva. In gioventù era stato aitante ed anche
sportivo, praticante in quello sport pionieristico molto più faticoso di quello
attuale. Come membro della Società Velocipedistica partecipò alla corsa, se si
può chiamare così, tra Roma e Milano, terminando la gara in una posizione
che ignoro. Doveva anche essere molto forte se, per scommessa, riuscì a
spaccare il marmo di un tavolo di osteria picchiandoci sopra con le nocche
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della mano destra, ed ottenendo quindi il pugno proibito definizione che deriva
da una disposizione della questura volta ad impedire a chi è esperto di usare il
pugno nelle liti, equiparando il pugno ad un’arma.
Di natura era un risparmiatore, e lesinava su quanto non era indispensabile; e,
al suo tempo, di cose indispensabili non ce ne erano molte.
Però aveva investito e costruito un palazzo in Via Appia Nuova, al numero
226 che ancora porta in incuso il suo nome Pietro Benedettini; e si era costruita
una cappella al Verano, per il tempo futuro, anche essa con la scritta: Pietro
Benedettini e Suoi.
Non ostante la condizione di sottomissione che avevano nei confronti del
padre, i figli, alla sua morte avvenuta nel 1931, ne avevano ereditato l’amore
per il lavoro e l’onestà commerciale, tanto che in quel secondo anno di guerra,
nel quale l’inflazione già galoppava, i fazzoletti in vetrina avevano tre diversi
prezzi anche se della stessa qualità.
Ciò dipendeva dal fatto che facevano parte di tre assortimenti successivi,
ciascuno dei quali aveva mantenuto inalterato il prezzo di vendita
commisurato al prezzo di acquisto, che era nel frattempo aumentato.
Lo strano era che la clientela, non si accaparrava nel corso di un solo giorno i
fazzoletti a più basso costo, ma continuava a comprarli secondo il bisogno.
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PIO PEPE
Quell’estate del 1942 non sarebbe stato prudente andare al mare, almeno
secondo le idee della famiglia, e si preferì la campagna nei dintorni di Roma,
sulla Via Casilina, anzi sul raccordo che dalla Casilina porta a Zagarolo.
Lontano dal paese, ma all’interno del comune, nei pressi della stazione
ferroviaria della rete statale, trovammo alloggio in un casolare di proprietà del
Signor Pio Pepe.
Fatto strano che si verificò soltanto in questa occasione, andammo in vacanza
anche con i cugini Franco e Carlo, i figli di zio Tonino, il primo di un anno e
mezzo più grande di me, il secondo più piccolo di un mese e mezzo.
Il casolare era a due piani, e si ergeva su un poggio nei pressi della strada
provinciale, accessibile con una salita sterrata; oltre la stazione ferroviaria, che
distava circa 500 metri di un viale ombroso di castagni, c’era nei pressi la
fermata delle ferrovie vicinali laziali della linea Roma Fiuggi, che era quella
utilizzata per il collegamento con Roma.
Era un vero e proprio casolare di campagna, destinato ad abitazione per gli
agricoltori; al margine di campi coltivati a vigna.
Non ho molte memorie di questa villeggiatura di guerra, poiché noi bambini,
non avevamo varietà di giochi: il divertimento era fermarsi presso il viadotto
sovrastante la ferrovia laziale per vedere passare il treno, o spingersi fino alla
stazione delle FF.SS per vedere i treni merci.
Due cose però ricordo vivamente: l’aglio e la paletta, e nessuna delle due in
occasioni dignitose.
La casa, anzi il casolare, aveva una struttura spartana, senza acqua corrente e
senza locali di servizio, per cui si doveva tirare su con il secchio l’acqua del
pozzo che veniva bevuta con un mestolo di rame, o conservata per lavarsi e
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cucinare in apposite brocche. Era estate, per cui non era fastidioso lavarsi al
mattino con l’acqua fredda nel catino di ferro smaltato, sorretto da un
treppiede in ferro battuto, acqua versata dalla brocca facente parte dello stesso
servizio da bagno, che alloggiava sotto il catino.
Ovviamente l’igiene di tutta la bisogna non era al massimo grado, e ciascuno
di noi ne risentì allevando nel proprio intestino colonie di vermetti bianchi,
riscontrabili nelle feci. La cura che ci accomunava tutti, al mattino, al
mezzogiorno ed alla sera, era costituita da ostie medicinali inumidite riempite
di aglio sminuzzato, e avvolte a formare pillole da ingoiare con acqua bollita.
Quello infatti che doveva essere fatto preventivamente, bollire l’acqua per
renderla potabile, si fece a posteriori; ma, se non altro, con efficacia, dato che
con qualche giorno di trattamento i vermi scomparvero.
Ricordo vivamente zia Nenne intenta a porre l’aglio dentro uno straccio e
sbatterlo con il martello, poi porre l’ostia inumidita sul palmo della mano
sinistra, metterci dentro l’aglio, e piegare i lembi dell’ostia all’interno per
diminuirne il volume. Era un’operazione che zia avrebbe poi sempre fatto,
anche per ingoiare delle pillole di analgesico, perché deglutiva a fatica
qualsiasi cosa solida, per cui doveva sminuzzarla ed avvolgerla nell’ostia che
la faceva più facilmente scivolare in gola.
Ad accorgerci dei vermi, peraltro, non eravamo stati noi bambini, poiché la
mancanza di locali da bagno ci costringeva, quando avevamo bisogno, ad
armarci di zappetta, ed andare a concimare la vigna, ricoprendo poi la buca
con la terra rimossa; ed a ciò provvedevamo da soli senza andare di certo ad
investigare; ma qualcuno dei grandi che ci faceva compagnia: zia Fernanda,
Tetta o zia Maria, la moglie di zio Tonino, erano soggetti allo stesso
inconveniente, non solo ma anche i genitori e gli zii che erano i pendolari
settimanali.
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La cura dell’aglio era stata così efficace, che anche dopo la sparizione dei
vermi, continuò in modo preventivo, e fu ripetuta anche nelle altre occasioni
che ci portarono a Zagarolo.
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L’OPERA
In famiglia era sempre piaciuto il bel canto, ed era sempre piaciuto il teatro.
Anzi un cugino di mamma e delle zie era stato nei primi anni del secolo capo
comico di una compagnia di operette e calcava le scene dei maggiori teatri sia
d’Europa che del sud America. Ricordo di avere visto tante vecchie fotografie
di zio Alfredo in elegantissimi abiti bianchi, condurre due levrieri al
guinzaglio sul transatlantico che lo portava a Buenos Aires. Come era normale
a quei tempi sarebbe morto in miseria, dopo la guerra, in un ricovero per
anziani dove mamma e le zie gli avevano trovato posto, e mi faceva sempre
impressione che, piangendo, baciasse loro le mani ogni volta che andavamo a
trovarlo.
Papà, in gioventù, aveva seguito quasi ogni sera le recite di Ettore Petrolini, e
doveva essere stato un appassionato di operette perché, benché non cantasse
spesso, quando gli capitava, intonava qualche motivo di operetta, in specie
quelli con innocenti doppi sensi.
Mamma era decisamente stonata e non riusciva neanche a cantare in chiesa,
ma non se ne faceva una malattia, diceva che lei voleva lodare il Signore e se
non riusciva a cantare meglio, il Signore sapeva bene il perché avendole dato
Lui la voce che aveva.
Le zie, invece, avevano l’abbonamento alle prime dell’Opera, quando per
andarci occorreva avere sempre l’abito da sera. Quello di zia Nenne era molto
bello, in broccato bianco, tanto che lo volle immortalato in un ritratto a tutta
figura eseguito nel 1941 dal pittore Bruno Croatto, ritratto che in famiglia
piaceva solo a me, e forse qualche difetto nell’incarnato ce lo ha, per cui alla
sua morte l’ho preso io.
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Sull’abito, poi, indossava una pelliccia di ermellino per cui, con i suoi capelli,
che erano chiarissimi, sembrava camminare in una nuvola.
Per contrasto, ovviamente, zia Dadda aveva sempre un abito scuro; ma ciò era
dovuto forse al fatto che era la più bassa della famiglia e ne soffriva, tanto che
il suo carattere timido la portava sempre a vergognarsi e quasi a nascondersi,
per cui rifuggiva da ogni abbigliamento vistoso. Era così ritrosa che parlando
al telefono teneva costantemente una mano avanti al microfono, quasi a voler
nascondere quanto andava dicendo, sempre a bassa voce.
Al contrario zia Nenne era alquanto testarda, e difendeva le sue idee, giuste o
sbagliate che fossero, a spada tratta.
Mamma, diversamente dalle sorelle, non aveva bisogno di evidenziarsi o di
nascondersi, la sua sicurezza nei propri convincimenti la poneva su un piano
superiore, ed era, per la famiglia, effettivamente un punto di riferimento in
ogni questione.
Generalmente la prima assoluta dell’Opera aveva luogo il 26 dicembre e
questo coincideva con l’anniversario di nozze dei miei genitori, sempre
ricordato con la funzione al mattino, il pranzo in casa di tutta la famiglia
allargata e la riunione familiare al pomeriggio per i giochi di Natale.
In quel tempo però, non c’erano automobili in famiglia, per cui era naturale
che quando le zie, pronte ed agghindate, uscivano per l’Opera, prendessero il
taxi, non disturbando le attività altrui per essere accompagnate.
A quei tempi, infatti, non c’era alcun pericolo, per due signorine, anche
anziane, di uscire la sera da sole.
Io, Paola ed anche Gianfranco, eravamo abbastanza piccoli per avere desideri
di teatro, pure la famiglia decise che saremmo dovuti andare all’Opera per
allenare il gusto.
In quei primi anni di guerra, recitavano all’Opera di Roma, molti rinomati
artisti: ricordo che direttori erano Victor de Sabata ed Oliviero de Fabritiis,
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tenore Beniamino Gigli, soprano Maria Caniglia e prima ballerina Attilia
Radice.
E proprio Gigli, la Caniglia e la Radice (non ricordo chi fosse il direttore )
erano gli interpreti della mia prima Opera: l’Aida.
Ricordo ancora bene che eravamo nel palco di primo ordine n. 9 a sinistra, per
cui alquanto laterali rispetto al palcoscenico; noi bambini seduti avanti, con il
mento sulla balaustra in velluto rosso, con le zie che ci bisbigliavano
all’orecchio l’evolversi dei fatti.
Non ostante l’effettiva lunghezza dell’opera non ci addormentammo.
L’intervallo, poi, era uno spettacolo nello spettacolo; anche se non si trattava
di una prima. Tutti vestiti in abito da sera, e molti militari in alta uniforme, e
molti dell’esercito tedesco.
Ricordo, qualche anno dopo, durante l’occupazione, zia Nenne domandarsi
come facessero i tedeschi ad amare tanto la musica ed essere tanto cattivi.
Anche se attualmente ho una preferenza per la musica sinfonica, pure ho un
abbonamento per due posti all’Opera, dove sono accompagnato da mia figlia
Caterina che ha per la musica la mia stessa passione.
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ZAGAROLO
La guerra andava sempre peggio, fuorché sulle figurine, che ospitavano da
tempo anche le bandiere giapponese ed americana, dove i nostri vincevano
sempre, erano sempre magnanimi con i vinti e se morivano, lo facevano da
eroi.
Non avevamo più notizie di zio Mario, dopo la resa in A.O.I. e zia Fernanda
Favero se ne faceva un cruccio, mentre nonno Giovanni si era ormai convinto
che sarebbe morto prima del suo ritorno.
La nostra istruzione a scuola procedeva regolarmente, e, debbo riconoscerlo, io
ero alquanto bravo.
Dopo le vacanze di Natale cominciammo i preparativi per la Prima
comunione, istruiti da Sister Maria Immacolata che ci insegnava come andare
in fila alla balaustra, inginocchiarci e come ingoiare la particola senza toccarla
con i denti. Quest’ultimo allenamento era fatto sui banchi di scuola, e proprio
la settimana prima del 2 maggio 1943; e doveva essere fatto con scrupolo
perché, masticando l’ostia qualche briciola poteva rimanere fra i denti.
A casa i preparativi comprendevano l’abito della prima comunione, che per
Paola era un vaporosissimo abito bianco con velo di tulle, per me e
Gianfranco, invece era il primo abito con pantaloni lunghi, di flanella grigia,
con giacca alla vita e bavero di velluto azzurro scuro.
Poiché sia noi che Gianfranco volevamo fare la festicciola a casa, fu stabilito
che facessimo la Comunione il 2 maggio e la Cresima il successivo 9.
Il giorno della Prima Comunione c’erano, vestiti a festa nella chiesa
dell’Istituto tutti i parenti, anche gli zii, e nonno Giovanni che, ricordo, non
ostante la clemenza del tempo, indossava un cappotto marrone.
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Il ricordo della Comunione
Dopo la cerimonia, le suore offrirono la colazione a tutti, perché allora per fare
la Comunione bisognava essere digiuni dalla mezzanotte e l’acqua rompeva il
digiuno. Fu la prima volta che mangiai il cioccolato in tazza.
Il pomeriggio, tutti i compagni, sia miei che di Paola, si ritrovarono da noi,
dove, in terrazza era stato allestito il teatrino di Pulcinella, quello del Pincio.
Il giorno della Cresima, fecero la Cresima con noi ed anche la loro prima
comunione, i figli di zio Tonino, Franco e Carlo. Quella fu l’ultima volta che
vidi nonno Giovanni.
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Il pomeriggio, in terrazza da Anco, che abitava in Via Flaminia, 21, nei pressi
di Piazzale Flaminio, fu ripetuta la festa, nello stesso stile, con gli stessi
burattini, ma non proprio gli stessi bambini, che furono sempre felicissimi e
vocianti per il teatrino.
Zagarolo era un paese che si sviluppava lungo il crinale di una collina, con
una strada che lo traversava in lunghezza, e case ai due lati che limitavano le
due vallate laterali.
Era unito alla strada provinciale da due strade che arrivavano ai due lati della
Chiesa Parrocchiale, la strada proveniente dalla sinistra, guardando la chiesa,
transitava per il piazzale della stazione delle Ferrovie laziali, sotto il viadotto
della stessa ferrovia che faceva un ampio arco prima di giungere in stazione,
davanti all’ingresso di Villa Pierina, e dopo circa due chilometri giungeva al
paese, alla cui periferia c’era un costruttore di botti sempre indaffarato.
Dalla piazza della Chiesa, che era accessibile tramite una scalinata laterale, si
dipartiva la strada principale che terminava con un arco, lasciando a destra il
giardino di Palazzo Rospigliosi, dalla balaustra del quale si vedeva a volte
spuntare il sedile di un’altalena che giungeva al suo punto morto superiore,
spinta da un ragazzo spericolato, e, dopo impercettibile sosta, cominciava la
discesa .
Il Palazzo principesco, era disassato rispetto alla prima strada, ed aveva dalla
parte opposta un piazzale abbastanza ampio, a vederlo senza un’automobile.
Da questo piazzale partiva un’altra strada, che divideva in due la parte più
antica del paese, dove era anche la casa di nonna Filotea, posta a sinistra,
accessibile per una scalinata che mi sembrava lunghissima, tutta con gradini
sbocconcellati ed altissimi, che continuavano anche all’interno
dell’appartamento per arrivare ad una finestrella che dava accesso al tetto sul
quale stavano a seccare vassoi di fichi e di altra frutta.
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Nonna Filotea, era stata la balia di mamma, che era rimasta con lei ben oltre il
periodo del baliatico, oltre i sette otto anni di età, tanto che ormai, come tutti i
grandi di casa, faceva colazione al mattino con pane casereccio e vino rosso.
Nonna Filotea era vedova di Remigio Fallani che era rimasto vittima, anni
prima, di uno degli scarsissimi incidenti stradali che pur avvenivano.
Mamma era rimasta molto affezionata sia alla balia sia alla sorella di latte
Maria Grazia sia, ancor di più, ai suoi fratelli di latte, Alessandro che faceva il
muratore, Antonio che faceva il contadino e coltivava due vigne di persona,
secondo il proverbio che piaceva tanto a nonno Pietro ‘Alla vigna vacce, a
negozio stacce’.
Il vino che ne traeva era indubbiamente genuino, ma, non essendo trattato, era
buono solo se bevuto in grotta, spillato dalla botte; una volta travasato in
damigiana o in fiaschi, assumeva una colorazione più intensa e cominciava a
sapere di spunto; che era un eufemismo per dire che si inacidiva.
Una cosa che restava invece gustosa, era l’acetato, sempre bevuto in grotta,
che consisteva in vino leggermente acidulo, allungato con l’acqua.
Le poche volte che si beveva l’acqua acetosa, o perché si comprava l’acqua San
Paolo imbottigliata, o perché la si andava ad attingere alla sorgente sotto i
Parioli, era un gioco per noi bambini versarla lentamente nel vino, e vedere
come questo cambiava colore, diventando da giallo, sempre più grigio.
Mamma, data la sua lunga frequentazione, sapeva anche parlare il dialetto del
posto, che, non ostante la estrema vicinanza a Roma, meno di 40 chilometri, è
completamente diverso dal romano. Non so se ci sia ancora qualcuno che a
Zagarolo lo parli, dato l’appiattimento culturale indotto dalla televisione,
comunque ricordo che per dire ‘Vieni su’ si diceva ‘Tocca poh’.
Zagarolo, che era stata marginalmente sede delle vacanze l’anno prima, la sarà
più da vicino quest’anno.
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Questa volta, soltanto noi e Gianfranco, senza Franco e Carlo, cominciammo
ad abitare da Mariettina, che aveva una casa vicino la Stazione delle laziali,
all’interno della lunga curva che faceva la ferrovia, in posizione elevata
rispetto alla strada con lo spiazzo anteriore accessibile dalla strada tramite una
scaletta laterale di una quindicina di gradini tagliata nel muro di sostegno.
Davanti la casa si stendeva il terreno di proprietà, per circa 60 metri, e quasi in
fondo c’era un grande albero di castagne.
La casa, a due piani, uno che ospitava noi ed era accessibile da una scala
esterna, l’altro, al piano terreno che ospitava sia Mariettina che sua figlia di un
tredici anni, era in vista della stazione, e stando all’esterno, ci si poteva
chiamare alla voce con il figlio del capo stazione che aveva qualche anno più
di me, ed una più consolidata amicizia con la figlia di Mariettina.
Le attività maggiori di quel periodo erano le lunghe passeggiate nei boschi per
la raccolta delle castagne, o ai margini dei rovi per la raccolta delle more.
C’erano compagni, talvolta, i figli di un avvocato che abitavano una villetta
posta lungo la seconda strada che conduceva a Zagarolo.
Era frequentissimo che cominciassimo la giornata con una passeggiata di 2
chilometri fino al paese per la messa delle sette, digiuni per poter fare la
comunione, ma con la colazione appresso.
Molte volte andavamo a giocare a Villa Pierina, talvolta restavamo con il figlio
del capo stazione, tal altra andavamo a cogliere l’uva in una delle due vigne di
Antonio, quella più vicino alla stazione, a Colle Palombara.
In questa estate talvolta i genitori non riuscivano a venire per il fine settimana,
perché il treno delle ferrovie laziali passava a Grotte Celoni dove c’era lo
spolettificio della Breda, che era un obiettivo militare, e, se c’era l’allarme il
treno si fermava a debita distanza.
Lo spolettificio sarebbe diventato, dopo la guerra un deposito degli autobus, e
sarebbe rimasto inalterato per qualche anno, fino alla fatiscenza, con il suo
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impianto elettrico eseguito con un solo conduttore, essendo il conduttore di
ritorno affidato alla struttura metallica dell’edificio; come l’impianto a bordo
macchina.
Altra zona di interesse militare, nei pressi, era l’aeroporto di Centocelle; per
cui le possibilità di arresto del treno erano molteplici.
In una di queste occasioni, i genitori e zia Giannetta dovettero tornare a Roma
a piedi. Era da poco passata la metà di luglio e Roma venne bombardata.
Le bombe che dovevano colpire lo scalo San Lorenzo, colpirono invece le case
circostanti, causando un elevato numero di vittime, ed anche il vicino cimitero
del Verano, danneggiando il quadriportico e la statua del Salvatore; né la
cappella Benedettini, né quella vicina dedicata ai Martiri Fascisti, (che dopo la
guerra sarebbe divenuta il sacrario delle vittime dell’incendio della Minerva
Film), riportarono danni, come invece avvenne per quella dietro le prime due.
Non so con quale mezzo, ma i miei e zio Alberto, quando anche il mito di
Roma città aperta e quindi immune dai bombardamenti si era dissolto, si
trasferirono tutti a Zagarolo. Tutti da Mariettina trasformandoci da
villeggianti in sfollati.
Appena qualche giorno dopo, una sera, tardi, sentimmo gridare di gioia il
capo stazione e suo figlio, che correva verso la casa di Mariettina per portarci
la notizia.
Era il 25 luglio e tramite l’unico collegamento con il mondo che avevamo, il
telegrafo della stazione, era venuto a sapere della caduta del fascismo;
dovemmo fidarci di quanto diceva il capostazione che era il solo in grado di
leggere l’alfabeto Morse che il tasto ricevitore del telegrafo continuava a
incidere sul nastro di carta giallastra.
Tutti noi, genitori e figli a gridare di gioia ‘La guerra è finita! La guerra è
finita!’ ma saremmo stati in breve disillusi.
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Qualche giorno dopo, passando per il piazzale della stazione si poteva vedere
il grande busto in bronzo di Mussolini, che campeggiava una volta nell’atrio
della stazione, rovesciato in terra, nel fango.
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LA CAPPELLINA
ÜAgiow ı yeÒw ÜAgiow fisxurÒw ÜAgiow éyãnato˚ ÉEl°hson ±mçw
Dover fare sempre due chilometri per andare a messa, oltre a stancare noi
ragazzi, non era neanche comodo per tanti grandi che orbitavano intorno alla
stazione, e che mascheravano con la distanza la loro pigrizia.
Molti altri, però, erano in effetti in difficoltà, e, da ultimo, mancava la
possibilità di partecipare a tutte quelle funzioni, in modo speciale quelle
impetrative che si succedevano in quei giorni di guerra.
Mamma aveva individuato, lungo una strada sterrata che saliva presso la casa
di Mariettina parallelamente alla strada della stazione, una cappellina in
disuso, ma che non aveva bisogno di molte opere per essere restaurata; e non
ci volle molto a convincere il fratello di latte Alessandro, che era capomastro a
prestare la sua opera ed i materiali occorrenti. Papà intervenne con qualche
lampadina, zia Dadda cucendo una bella tovaglia, e qualcuno fornì i cartigli di
prammatica, i candelabri e le candele.
Però non c’era il sacerdote, per cui la cappellina veniva buona per il rosario
del pomeriggio, per le preghiere per la pace, ma non per la messa.
Ma mamma non era tipo da darsi per vinta, se voleva che vi si celebrasse la
messa, la vi si doveva celebrare.
Mi ricordo di averla accompagnata, dal Vescovo di Palestrina, che sulla linea
Roma Fiuggi era la stazione successiva a Zagarolo; a metterlo in imbarazzo
con la richiesta di un prete la domenica, in una situazione in cui i preti non
c’erano.
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Sua Eccellenza, peraltro, si diede veramente da fare per risolvere il problema,
ed infatti, non molte domeniche dopo, vedemmo giungere due sacerdoti sulla
strada della cappellina, la barba lunga, il cappello a tubo senza visiera, un
valigia in mano.
La trentina di persone che era in attesa della messa, fuori della cappella, li
guardò un po’ interdetta, in specie quando vide che tutti e due, toltili dalla
valigia, indossavano i paramenti che non assomigliavano per niente a quelli
abituali.
Il celebrante, prima della messa, spiegò che erano di rito greco e che avrebbero
celebrato in quel rito, che il secondo sacerdote era il diacono, che la messa non
differiva sostanzialmente da quella in rito romano, salvo che per la lingua, per
la comunione che veniva fatta con il pane e con il vino e per il segno della
croce che era sostituito dal trisaghio, che poi è la formula riportata in capo a
questo capitolo che vuol dire ‘Santo Dio, Santo forte, Santo immortale, abbi
pietà di noi’ e che veniva accompagnata da una specie di segno della croce
fatto con la mano destra che tiene raccolti il pollice l’indice ed il medio, portata
alla fronte, sul petto, alla spalla destra per finire sul cuore, a sinistra del petto.
I presenti, che erano abituati a non capire il latino, si abituarono a non capire il
greco, salvo noi chierichetti, che non operavamo peraltro in rito greco, cui
furono date maggiori spiegazioni
Avrei imparato che la chiesetta mancava di iconostasi e del velo che la
chiudeva durante la consacrazione, e che a ciò il diacono sopperiva chiudendo
il cancello anteriore alla cappella.
Il celebrante dovette spiegare, in quella prima messa, che in rito greco si sta in
piedi o seduti e mai in ginocchio, ma credo che tutti, dopo la comunione, fatta
con un pezzo di pane intinto nel vino, facessero comunque la genuflessione. Il
pane che non era stato consacrato, veniva, dopo la comunione, distribuito a
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tutti, anche a chi non si era comunicato, ed alcuni lo assumevano con la stessa
devozione con cui avevano assunto la comunione.
Debbo dire che, vuoi per la fede, vuoi per la curiosità del nuovo rito, le messe
alla cappellina furono sempre molto frequentate, e riportarono alla chiesa
alcuni che se ne erano allontanati.
Ricordo che Via dei Greci a Roma, ebbe la targa stradale variata all’inizio della
guerra: doveva sembrare sconveniente avere nella capitale una via intitolata
ad un popolo con cui si era in guerra; per cui tutte le targhe vennero sostituite
da altre che portavano la dicitura inferiore che spiegava come il nome
derivasse dal collegio greco ivi presente. Ed in effetti all’angolo di Via dei
Greci con il Babuino c’è la chiesa di rito greco cattolico di Sant’Atanasio.
Alla sua sinistra c’è la statua del Babuino, sormontata da una grandissima
vetrata che era una volta la vetrata dello studio degli scultori romani Tadolini,
che avevo incontrato a negozio, di cui erano clienti e ne avevano firmato il
libretto dedicatorio.
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Su questo libretto anche Trilussa si era compiaciuto di eseguire un disegno
colorato accompagnato da una dedica in poesia:
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VILLA PIERINA
Raffaele Crescenzi, che Anco chiamava nonno Raffaele, abitava a Montebello
di Bertona non troppo distante dal mare di Pescara, ed era in mezzo ai monti,
o, meglio, come diceva zio Alberto ‘Da una parte vedi il mare e dall’altra il
monte appare’.
Nonno Raffaele
I due figli della prima moglie, Alberto ed Ubaldo, avevano preceduto Ugo,
Enrico e Cristina detta Tina.
La famiglia era imparentata due volte con la famiglia Benedettini: infatti
Alberto aveva sposato Giannina figlia di Arduino, mentre Ugo aveva sposato
Renata, sorella di secondo letto di Arduino.
Come abbiamo visto prima, avevamo molti contatti con la famiglia di Alberto,
dovuti al fatto che mamma e le zie lavoravano al negozio assieme ad Arduino
e Giannina; molte domeniche le passavamo insieme; insieme si stava a Natale
e Capo d’anno; insieme si andava in vacanza.
I contatti non erano più frequenti con Renata ed Ugo, dopo che erano andati
ad abitare in un’altra casa, lasciando San Silvestro. Oltre tutto zio Ugo soffriva
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essere baciato in pubblico, e noi bambini, sapendolo, eravamo abbastanza
cattivi, da abbracciarlo e baciarlo incontrandolo in strada buttandogli le
braccia al collo, in modo che non potesse difendersi, e forse divertendoci al
vederlo diventare rosso.
Ubaldo ed Ugo avevano un laboratorio di oreficeria che lavorava
esclusivamente per Bulgari, ed era situato all’ultimo piano del numero 9 di Via
Condotti, praticamente fra casa e scuola, e non era difficile incontrarli.
Nominalmente non c’era per noi Favero, nessun grado di parentela con
Ubaldo e famiglia, ciò non toglie che Paola ed io li chiamassimo zio Ubaldo e
zia Pierina, mente i loro figli chiamassero zio Felicetto, zia Valentina i nostri
genitori, e zia Giannetta e zia Fernanda le zie.
Zio Ugo e zia Renata, dopo la figlia Anna che era già nata quando lasciarono
Palazzo Marignoli, ebbero altre due figlie: Sandra e Franca.
Zio Ubaldo e zia Pierina avevano un figlio maschio Raffaele, che sarebbe
morto in giovane età, Annunziata, Marina (ed in seguito Enrica), tutte più
piccole di Paola.
Zio Enrico era in quel periodo in Abruzzo, e sarebbe morto durante
l’occupazione per un’occlusione intestinale mal curata, insorta durante una
retata dei tedeschi.
Villa Pierina, come era scritto sui due pilastri del cancello di ingresso, era la
casa di villeggiatura che Ubaldo aveva costruito sulla strada per Zagarolo; non
distante dalla stazione delle laziali.
Alla casa, sopra la collina, si accedeva per un viale in salita, lasciando alla
destra una dependance, e più dietro le stalle ed il porcile; sulla sinistra della
casa, sulla collina leggermente digradante, si estendeva una vigna. Il numero
delle camere era adeguato alla numerosità della famiglia, e, posteriormente un
grande salone con camino, consentiva popolose riunioni.
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Dopo i fatti di fine luglio, a tutti i grandi sembrò che Villa Pierina fosse un
posto più sicuro della casa di Mariettina, e fu reso costante il trasferimento che
noi bambini effettuavamo ormai quasi ogni giorno per continuare le partite di
Monopoli con le cuginette.
Noi Favero, con le zie, ci installammo nella dependance, mentre i tre Crescenzi
trovarono posto in villa, dove, oltre la famiglia di Ubaldo, viveva anche quella
della sorella Cristina con la figlia Anna Maria (il marito, Felice, era prigioniero
in America). Per noi bambini la vita non era monotona, ed abbastanza
spensierata.
Nel tardo pomeriggio, nella sala del camino, tutti in ginocchio a recitare il
rosario, con noi piccoli che, a volte, non smettevamo di scherzare.
‘... Dominus tecum, .. piantala Gianfra’ .. , et benedictus fructus ventris tui,
Jesus. ... regazzini volete lascià perde ? ... mortis nostrae. Amen’
Il rimprovero da parte di Ninnì ci veniva in mezzo alla preghiera, mentre gli
altri continuavano la recita del rosario; solo zia Dadda ripeteva ogni tanto ‘
pupi ... essite boni ‘ dove essite è l’imperativo plurale del verbo essere.
La coabitazione durò circa un mese, perché zio Ubaldo, a fine Agosto tornò a
Roma e la Villa fu chiusa, mentre noi saremmo rimasti qualche altro giorno,
tornati da Mariettina.
Non deve meravigliare il ritorno nella casa che non era apparsa sicura perché
si conviveva, ormai sempre di più, con il pericolo, e si era diventati più
fatalisti.
Roma, in agosto, era stata bombardata la seconda volta; e, nei discorsi, si
affacciava sempre più probabile la possibilità della resa.
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IL CASTAGNO
Era una mattina di sole e sembrava che il mondo ti volesse bene e ti faceva
venir voglia di voler bene al mondo.
Il rumore sordo si faceva sempre più intenso e più preoccupante. Uscendo da
casa si vedevano in lontananza, fra le fronde dei platani, le sagome delle
fortezze volanti su cui si specchiava il sole. Non ne avevamo mai viste tante
insieme. Volavano in formazione, non ad una quota elevata, tre, quattro mila
metri era quanto consentito agli aerei ad elica, e non andavano veloce, o
sembrava che non andassero veloce.
Eravamo rimasti soli con zia Dadda, che ci raccolse tutti e tre, Paola, Anco e
me, e ci guidò lontano dalla casa, sotto il castagno che ne distava circa sessanta
metri, e che, con il suo fogliame più folto ci impediva la vista diretta degli
aerei, come fosse una difesa.
E cominciammo a sentire i colpi, boati sordi, ma intensi e continui. Non subito
capimmo che si trattava di bombe.
Zia Dadda estrasse dalla borsa un santino di San Francesco, che era fatto come
i libri delle favole quando, aprendo le pagine, si crea, con la carta attaccata alle
due pagine contrapposte, una specie di quadretto in rilievo.
Sotto l’immagine, la didascalia era rappresentata dalla benedizione di San
Francesco: ‘Il Signore ti benedica e ti custodisca, volga verso di te il suo volto e
ti dia pace, Il Signore ti benedica’ , zia Dadda la poggiò per terra, e noi tre,
stesi a terra, con la pancia, per evitare di essere colpiti da eventuali spezzoni.
La terra ci tremava sotto la pancia, e forse uno di noi cominciò a piangere,
mentre zia Dadda, che non sarebbe mai più stata altrettanto coraggiosa, ci
diceva di stare buoni, di avere fiducia, di pregare Dio e la Madonna, per noi e
per i nostri genitori che ‘non si sa dove stanno’ .
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‘Zia ! perché non siamo rimasti in casa?’, chiese uno di noi, ‘Perché se cade una
bomba vicino la casa quella può crollarci in testa, mentre qui, per farci male, ci
deve cadere addosso. Ma stenditi di nuovo a terra,..... e prega.’
Il bombardamento di Frascati, che distava in linea d’aria una decina di
chilometri, durò quasi due ore, quell’otto settembre del 1943, e per due ore
vedemmo le fortezze volanti passare e ripassare, con il loro volo lento,
sganciare le bombe, che si vedevano cadere a grappoli, e, dopo qualche tempo,
sentire tremare la terra sotto di sé, temendo e pregando per tutti quelli che
venivano colpiti, e temendo per noi che ci sentivamo così vicino al pericolo.
Qualche giorno dopo, i nostri genitori, profittando della confusione
dell’armistizio, vennero a riprenderci e riportarci a Roma; ringraziando
Mariettina per l’ospitalità.
Nei mesi successivi, a causa dell’occupazione, i tedeschi si installarono a Villa
Pierina, eleggendola a comando della zona; probabilmente il fatto venne
riportato dalla Resistenza ed infatti un aereo, uno solo, venne a bombardarla.
Lanciò qualche spezzone, termine con cui venivano indicate le bombe di
minore peso, ma non colpì la villa.
Colpì invece la casa di Mariettina, in cui noi avevamo soggiornato,
demolendola. La figlia di Mariettina stava in quel momento sulle scale che
univano l’aia della casa alla strada sottostante, e fu investita dalle macerie, su
quelle scale, della sua casa abbattuta.
Morì, qualche giorno dopo, all’ospedale.
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SAN MARTINO
Sul diario di scuola c’era scritto Genetliaco di S.M. il Re Imperatore - Vacanza ; ma
il Re e Imperatore era scappato da Roma e si doveva andare a scuola, anche
quel giorno di San Martino del 1943.
Non mi ricordo perché, ma Paola che frequentava la stessa scuola non venne,
per cui ci avviammo verso la scuola io e zia Nenne.
Poiché fra Piazza San Silvestro e Piazza di Spagna ci sono molte strade fra loro
perpendicolari: Via della Mercede, Via della Vite, Via Frattina, Via
Borgognona e Via Condotti, in un senso e Via del Gambero, Via del Moretto,
Via Bocca di Leone, Via Mario de’ Fiori e Via de’ Propaganda Fide nell’altro,
noi cambiavamo quasi ogni mattina, sembrandoci, con la variazione, di
rendere più corta la strada.
Il percorso da casa a scuola, con qualunque itinerario era di circa un
chilometro, per cui in una decina di minuti lo si percorreva tutto. Però, poiché
zia Nenne aveva l’incombenza della spesa da fare prima di andare a negozio,
uscivamo sempre qualche minuto prima; e così facemmo anche quella mattina.
Il percorso scelto quel giorno era il più tortuoso possibile: traversare Piazza
San Silvestro, percorrere un isolato di Via della Mercede, girare a sinistra per
via del Moretto, a destra per via della Vite, a sinistra per via Mario de’ Fiori ...
Girato l’angolo di Mario de’ Fiori ci accorgemmo che un camion militare era
fermo accostato verso destra, fra via della Vite e via Frattina.
Nei pressi del camion una pattuglia di tedeschi in armi, presto raggiunti da
loro compagni che uscendo da un portoncino a lato del camion, spingevano in
malo modo degli uomini e dei ragazzi all’interno del camion; alcuni di loro
erano ancora in maniche di camicia.
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La retata era iniziata proprio allora, perché due coppie di soldati si andavano
allora disponendo agli angoli di via Mario de’ Fiori con via della Vite e via
Frattina, pronti a caricare sul camion gli uomini che fossero transitati.
Zia Giannetta, cui io ero sotto braccio, mi strinse con il suo braccio la mia
mano, bisbigliandomi ‘Stammi vicino’ ed invece di voltare per Mario de’ Fiori,
rimanemmo su via della Vite, all’angolo, avvisando i giovani che transitavano,
a bassa voce: ‘ Ci sono i tedeschi che fanno una retata’.
Zia Nenne dopo che la voce si fu sparsa in quella strada mi disse: ‘Adesso
andiamo da Carlucci’ il fornaio all’angolo con Via Frattina, e poiché il camion
era alla nostra destra, mi fece cambiare braccio, portandomi alla sua sinistra,
dalla parte opposta del camion.
Non ci fermammo a vedere cosa succedeva, ma, in fretta, senza correre,
andammo dal negozio d’angolo, entrando dalla porta secondaria che dava su
via Mario de’ Fiori e che era utilizzata solo dai fornitori e dai fattorini. Zia
Nenne, entrando da Carlucci che non si era ancora accorto di quanto avveniva
proprio fuori il suo negozio, gli diede solo uno sguardo d’intesa, e,
immediatamente uscì dalla porta anteriore, sempre con me al braccio. Ed
anche per via Frattina cominciammo ad avvisare della retata chi passava, e la
voce corse presto, perché in breve non rimase nessuno.
Rientrata nel negozio, zia Nenne comprò il pane, e spiegò al fornaio quello che
avveniva.
Quando uscimmo dal negozio, il camion era ancora fermo dove era prima; e ci
impiegammo un secolo per fare l’ultimo tratto di via Frattina ed arrivare a
Piazza di Spagna, sperando di vedere il camion passare, dato che stavamo
lungo il suo senso di marcia.
Ed intanto continuavamo ad avvisare tutti quelli che passavano di cosa stava
avvenendo, fin ben entro Piazza di Spagna.
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Interrompemmo passando davanti all’Ambasciata di Spagna presso la Santa
Sede che era presidiata da militari, anche se zia Giannetta disse in seguito, che
forse di quelli ci potevamo fidare perché erano italiani, della P.A.I. ossia della
polizia dell’Africa Italiana.
Quel giorno arrivai tardi a scuola, ma, secondo il consiglio di zia Nenne, non
dissi a nessuno dell’avventura che ci era capitata.
Lo dicemmo invece a casa, la sera, a tavola, a mamma e zia Dadda, che ci
rimproverarono l’incoscienza, ma sotto sotto ci elogiarono per il coraggio.
Papà quella sera tornò molto tardi, con gli occhi rossi e la barba non fatta, e
non rispose quasi al saluto mio e di Paoletta.
Mamma ci disse che quel giorno era morto nonno Giovanni.
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VIA DEI MARONITI
Negli inverni precedenti non avevamo mai avuto freddo in casa, l’impianto di
riscaldamento centralizzato, infatti, non ce ne dava motivo.
Quell’inverno tra il 1943 ed il 1944 fu diverso perché molti servizi pubblici non
funzionavano più.
Talvolta mancava la luce, tal altra l’acqua, anche se questa mai del tutto
avendo noi il vantaggio della doppia fornitura di acqua Marcia ed acqua di
Trevi, e sempre mancava il riscaldamento.
Feci conoscenza, quell’inverno con diversi sistemi per scaldarsi che non avrei
altrimenti conosciuto, e con i succedanei della luce elettrica.
Dapprima era normale radunarci tutta la famiglia in cucina, dove si eseguiva
la cottura dei cibi con il carbone, e ciò contribuiva a riscaldare l’ambiente. La
cucina era normalmente illuminata da un lume a petrolio che noi bambini
avevamo la proibizione di toccare ma che eravamo molto più abili dei grandi
ad accendere, mentre alcune candele, spente, ma pronte alla bisogna, erano
disponibili se si doveva andare nelle altre stanze.
Sotto la finestra della cucina stazionava una bella stufa in ceramica che aveva
la forma dell’asso di coppe. In questa stufa tutta la parte inferiore fungeva da
braciere mentre la parte superiore aveva delle aperture che seguivano un
determinato disegno ma che servivano sia per l’ossigenazione del fuoco che
per l’uscita del flusso caldo. Un foro centrale al colmo del coperchio doveva
servire per riscaldare un qualche contenitore di cibi posto al di sopra.
Sia ai fornelli che nella stufa il fuoco bruciava senza fiamma, questa la si
attivava solo quando serviva mediante un ventaglio fatto di piume nerastre
con manico in legno, ed aggiungendo carbone alla brace.
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La mancanza di elettricità ci impediva anche di sentire la radio che ormai era
normalmente sintonizzata su Radio Londra, della quale eravamo abituati a
sentire i quattro colpi all’inizio di ogni trasmissione e come intervallo. Solo
successivamente avrei capito che quei quattro colpi erano in alfabeto Morse la
lettera V a significare la Vittoria, e che avevano anche assonanza con le prime
quattro note della quinta di Beethoven che molti chiamano sinfonia del
destino.
Anche quella sera di incipiente primavera, non ostante il calendario, faceva
freddo e stavamo tutti in cucina nell’attesa dell’ora di pranzo. Noi bambini
avremmo come al solito mangiato prima, poi saremmo restati in attesa del
pasto dei genitori prima di andare a letto fra le fredde lenzuola.
Mamma e le zie erano già tornate dal negozio ma papà tardava, mamma era
probabilmente preoccupata ma, come suo solito, non lo avrebbe dato a vedere.
Ed a noi bambini che chiedevamo dove fosse rispose ‘Avrà avuto da fare in
officina’.
L’officina era un locale di due stanze in Via dei Maroniti 15, nei pressi del
Largo Tritone, all’interno di un portone e di un cortile.
La prima stanza, destinata ad ufficio, aveva una scrivania in legno lucido e
diverse sedie, e prendeva luce dalla porta e da un lucernario superiore; la
seconda stanza più buia poiché prendeva luce soltanto da una porta, era il
vero e proprio laboratorio.
Qui c’era un pannello molto razionale con diversi tipi di allaccio, per avere a
disposizione diversi valore di tensione e di potenza, per la misura delle
grandezze elettriche e per la prova dei circuiti elettrici. Credo che sia ancora
parzialmente funzionante ed utilizzato dove poi la Ditta si è trasferita a guerra
finita.
In questo locale ricordo di aver visto montare dei quadri elettrici, nello stile
dell’epoca, e cioè con pannelli di marmo a sostegno delle apparecchiature.
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Ricordo di aver visto la lastra di marmo tenuta verticale in sito in un apposito
telaio, alla quale venivano praticati dei fori di estrema precisione. Tutte le
apparecchiature elettriche, fino gli strumenti, avevano forma rotonda, o
almeno, la parte che doveva essere accoppiata al quadro era rotonda, e ciò per
evitare inutili complicazioni con il fissaggio su marmo. La parte anteriore del
marmo era lucida, e, per così dire, impreziosita da borchie rotonde in ottone
fissate equidistanti dagli angoli, che erano arrotondati.
La parte posteriore del marmo era generalmente grezza o almeno non lucida,
ma anche qui l’apparato nel suo insieme manteneva una sua nobiltà. Era qui
infatti che veniva eseguito il cablaggio, in barra di rame per i maggiori valori
di corrente, e le barre erano successivamente verniciate nei colori nazionali
(bianco, rosso e verde); o in conduttore isolato per i valori di corrente minori.
Quest’ultimo tipo di cablaggio, chiamato pettine, era eseguito in conduttore
rigido con isolamento di colore nero, ad andamento rigorosamente verticale
od orizzontale, a conduttori rigorosamente accostati e tenuti assieme da
barrette deformabili aderenti.
Un esame per il passaggio di categoria per gli operai era la loro abilità a
confezionare il pettine.
Papà, peraltro, andava famoso non solo per questa precisione meccanica nel
lavoro, ma, e sopra tutto, per le innovazioni tecniche che introduceva negli
impianti.
Proprio in quegli anni aveva concepito il sistema di comando che avrebbe poi
applicato, a guerra finita ad almeno due grandi lavori ed ad altri lavori minori.
I due grandi lavori si svolsero tutti e due nello stesso edificio: il palazzo
I.N.P.S. sito in Corso Umberto angolo via della Frezza e Via dei Pontefici: la
pellicceria Balzani ed il nuovo negozio Benedettini.
In questi negozi esisteva un quadro elettrico di comando in cui erano
concentrati tutti i relè di comando di tutti i circuiti luce, sia del tipo ad
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interruttore (accensione - spegnimento) che del tipo a commutatore
(accensione1- accensione2 - spegnimento1 - spegnimento2 ), ed i comandi
eseguiti tramite pulsanti erano distribuiti ovunque: nei diversi accessi dei
saloni, nelle sale, ovunque servisse, e principalmente in quadri sinottici
generali e locali.
Questi sinottici erano la vera opera d’arte: erano realizzati da un pannello in
vetro nero su cui era incisa la planimetria dei locali; nei quadri locali era incisa
la sola planimetria del locale interessato; nel sinottico generale, era incisa la
planimetria completa di tutti i locali. Su questa planimetria erano riportate le
posizioni di tutti i punti luce ed in corrispondenza di ogni punto luce era
montata una piccolissima lampada spia ( non più di 8 mm di diametro) . Per
ogni circuito, e quindi per ogni relè di comando, una delle lampade spia era
sostituita da un pulsante luminoso anch’esso delle stesse ridottissime
dimensioni. In tal modo su ogni quadro sinottico si poteva riscontrare se un
circuito fosse acceso o spento e si poteva inoltre comandarne l’accensione. Il
sistema ha funzionato per i due negozi fin quasi gli anni ottanta, ( e gli unici
inconvenienti sono stati rappresentati dai relè, i quali essendo meccanici, con
contatti a strisciamento, si consumarono nel punto di contatto )
rappresentando per i clienti una costante curiosità unita ad ammirazione.
In quella fine marzo, peraltro, i lavori in officina non dovevano essere tanti, e
l’officina era più che altro un posto di ritrovo per tanti colleghi in attesa di
tempi migliori.
La presenza dell’officina in quel luogo comunque aveva portato papà ad
assumere la manutenzione del vicino palazzo dell’AGIP per cui la sua
presenza in zona era quasi costante.
Dal portone di ingresso su via dei Maroniti, seguiva un passaggio coperto che
dava accesso al cortile. Qui sul lato sinistro c’era l’officina, mentre sul lato
destro una scala consentiva la salita ai piani superiori del retro. In uno di
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questi abitava la Sora Gina che aveva un banco di frutta e verdura al mercato
di Via del Lavatore cui talvolta papà si rivolgeva per sopperire alle nostre
necessità alimentari. Seppi, durante questa guerra che la Sora Gina era
sposata ad un eroe di guerra, credo insignito della medaglia d’oro in vita,
comandante di una squadra di maiali di assalto della Regia Marina; ma non
ricordo bene i particolari perché non ho mai conosciuto il marito ed ella è stata
sempre restia a raccontarli.
Immediatamente accosto al portone del numero 15 c’era un laboratorio di
oreficeria di proprietà di Ugo L. che stava sempre seduto al suo banchetto a
lavorare illuminato da una lampada con un paralume in vetro esternamente
verde.
La porta successiva ospitava un barbiere cui seguiva una trattoria e la grande
cartoleria De Magistris; ma qui via dei Maroniti era già sfociata in Largo
Tritone; dall’altro lato del portone c’era un portoncino per l’accesso ai piani
superiori ed anteriori, poi la parete di una chiesa sconsacrata con ingresso da
uno slargo della strada, utilizzata dall’AGIP come ricovero automezzi, e sullo
slargo, a sinistra della porta della chiesa, un locale con l’insegna luminosa
‘Nirvanetta’ che all’epoca era per me misterioso non potendo capire cosa fosse
un locale notturno.
Sull’altro lato della via dei Maroniti insistevano le uscite posteriori dell’UPIM
ed il portone dell’AGIP.
In quei giorni di guerra, di scarso lavoro e di attesa, papà era visitato da alcuni
amici che restavano a chiacchierare in officina talvolta allontanandosene per
un caffè, come quel giorno, di primo pomeriggio e non doveva essere caldo
non ostante la fine di marzo, perché papà indossò il cappotto per andare al bar
in via del Traforo all’angolo di via Rasella.
Lo scoppio fu seguito da un subitaneo silenzio, poi urla, spari, rumori di vetri
infranti, tanti morti e tanto sangue. La curiosità ebbe la meglio sulla prudenza
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per papà ed i suoi occasionali visitatori, ma ebbero poco tempo per rendersi
conto della situazione, una strage di giovani corpi maciullati dallo scoppio e
dispersi per buona parte della strada, poi, guardando in alto, una donna,
colpita, sembra, da una raffica di mitra sparata per il terrore da qualche
soldato superstite riversa sul davanzale di una finestra; chissà perché l’ho
sempre immaginata anziana, grassa e vestita di nero, ma non ricordo che papà
me l’abbia mai descritta; ed un ragazzo, poco più grande di me vittima
innocente di una guerra assurda sono gli unici particolari che ricordava.
Poi l’essere tutti fermati e schierati con le mani dietro la testa a ridosso della
cancellata di Palazzo Barberini, per tanto tempo. E le braccia dolevano a
restare in quella scomoda posizione; ma ogni volta che facevano le viste di
abbassarle, un giovane avanguardista (avrà avuto 16 anni, ricordava papà)
sventagliava con il mitra proprio sopra le loro teste obbligandoli a rialzarle.
Dopo qualche ora, quando già l’imbrunire incominciava a nascondere le
fattezze, venne l’ordine di incamminarsi verso Via Tasso, lungo Via Quattro
Fontane.
Il gruppo notevole di persone che, come papà, era stato fermato, non marciava
schierato, ma ognuno avanzava secondo le proprie possibilità, età ed acciacchi.
Papà avrebbe compiuto di lì a tre giorni 41 anni ed era nel pieno della sua
maturità.
Sfruttando questa irregolarità della marcia, egli si andava man mano portando
sulla destra del gruppo e ed a metà circa fra il capo e la coda del corteo.
Superato l’incrocio con Via Nazionale nel tratto di strada fra questa ed il
Viminale tentò il tutto per tutto e si infilò in uno stretto portone. Nessuno dei
suoi compagni, che pure lo videro, fiatò. Un abitante del palazzo, però, forse il
portiere, preso dalla paura voleva cacciarlo via, e papà facendo le finte di
essere armato gli disse a voce bassa: ‘Zitto se no ti ammazzo...’ mettendogli
una mano sulla bocca e trascinandolo all’interno, fuori della vista dalla strada.
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Restarono in quella posizione ben oltre il passaggio di tutto il corteo, ma non
so quando papà sia tornato a casa; io andai a letto ignaro e senza incontrarlo.
A casa non se ne parlò per i giorni a seguire, e seppi solo per caso che papà
con il nostro vicino Claudio S. , dopo qualche giorno andarono in bicicletta
lungo la strada che porta al Divino Amore a constatare di persona la tragica
fine della sanguinosa rappresaglia.
Fra le vittime anche gli occasionali compagni di papà, quel giorno al caffè.
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LO STANZINO
Per il suo lavoro, papà doveva tenersi aggiornato, e la maniera migliore per
farlo era andare ogni anno alla Fiera di Milano, da solo, senza mamma che
doveva mandare avanti il negozio.
Contro la necessità di ferie che avrebbe distinto gli anni successivi alla guerra,
debbo dire che i miei familiari avevano piuttosto la necessità di lavorare:
mentre il negozio infatti chiudeva per quindici giorni ( e successivamente per
tre settimane) solo dopo ferragosto, e ciò principalmente perché Roma era
vuota; papà aveva l’officina sempre aperta, anzi in agosto aveva un aumento
di lavoro dipendente anche dal fatto che interventi di manutenzione
programmata potevano effettuarsi solo allora.
Solo noi bambini andavamo effettivamente in vacanza, e zio Arduino che non
rinunciava al suo viaggio all’estero, ovviamente in Germania durante i primi
anni di guerra, gli altri no, lavoravano.
Per cui per papà, la visita alla Fiera, era un occasione di vacanza. Da questi
viaggi milanesi, riportava sempre qualcosa per noi, o per sé, essendo la Fiera
non limitata ad un solo settore come avviene adesso, ma coprendo quasi ogni
attività produttiva. E data l’alleanza con la Germania era facile che fossero
esposti e commercializzati prodotti tedeschi.
Tre li ricordo ancora, anzi due ne ho ancora.
Quello che non ho più era una specie di cote per affilare le lamette: a quel
tempo non c’erano né rasoi elettrici né rasoi monouso, ma si utilizzavano
lamette in acciaio che non erano inossidabili e con le quali era possibile fare
una decina di volte la barba dopo di che perdevano il filo. Per mantenere
questo il più a lungo possibile, la lametta, singola, veniva conservata in una
bustina di carta oleata inserita in una bustina di carta lucida, e, dopo ogni
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utilizzo, doveva essere accuratamente asciugata e quindi riposta nella sua
custodia. Ma una volta perduto il filo la lametta era da buttare. I barbieri, che
usavano il rasoio a lama libera lo affilavano con la coramella che era una
striscia di cuoio appesa ad un sostegno che si impugnava dalla parte opposta
tenendola tesa, e passandoci sopra più volte la lama del rasoio inclinandola a
circa un ottavo di giro nel senso contrario alla lama. Il barbiere, passando il
rasoio verso di sé, con la mano destra mentre con la sinistra tendeva la
coramella, lo teneva con la parte più spessa nel verso del moto, e leggermente
inclinato in modo che solo la lama fosse a contatto con il cuoio, e così affilava
un lato del rasoio; nel passaggio successivo, allontanandolo cioè dal proprio
corpo, la parte più spessa del rasoio era sempre nel verso del moto, per cui il
rasoio veniva affilato anche sul secondo lato. Il numero dei passaggi era
sempre una decina, che risultavano sufficienti per affilare il rasoio. L’attrezzo
che papà aveva comprato in Fiera, traduceva questa operazioni per le lamette.
Questa si inseriva in un porta lamette chiudibile a cerniera che teneva fissa la
lama e veniva montato su una slitta dell’apparecchio. L’attrezzo aveva nella
parte fissa un congegno a sezione triangolare montato a 45° rispetto all’asse,
su ogni faccia di questo congegno c’era uno strato di cuoio di concia diversa
(tenero di colore verde, medio di colore nero e duro di colore rosso). La slitta,
che portava la lametta, avanzando lungo una direzione, aveva la parte
anteriore sollevata e la parte posteriore spingeva la lametta verso il cuoio, il
quale, essendo inclinato di 45 gradi, aggrediva la lametta dal lato destro al
sinistro durante il moto della slitta. Al termine della corsa, un dispositivo
determinava l’inversione della inclinazione della slitta per cui, nel moto
contrario, questa aveva sempre la parte anteriore sollevata e la parte posteriore
che spingeva il secondo lato della lametta verso il cuoio. La slitta terminava in
un lato con una appiglio per la mano che agevolava l’operazione.
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Questa consisteva nel far passare per una decina di cicli, che dovevano essere
abbastanza veloci, la lama per ogni lato del cuoio, cominciando dal più tenero
per finire con il più duro. Ed il compito divenne il mio, ogni mattina salvo
quando si inaugurava una lametta nuova, mentre papà scaldava l’acqua nel
pentolino, (lo scaldabagno sarebbe venuto dopo la guerra e avrebbe
funzionato solo per scaldare l’acqua del bagno o della doccia). Papà voleva
continuare ad utilizzare l’attrezzo anche quando vennero in commercio le
lamette in acciaio inossidabile finché io, che avrei cominciato a farmi la barba a
13 anni, non lo convinsi a seguire le istruzioni che imponevano di sciacquare
la lametta ma vietavano di asciugarla pena la perdita del filo.
Dei prodotti della Fiera che ho ancora il primo è una macchina fotografica
Leica 1/3,5 che aveva diverse caratteristiche all’avanguardia per il periodo,
quali la messa a fuoco visiva tramite parallasse a distanza oculare incorporato,
e la velocità di scatto di 1/1000 di secondo; e questa papà l’aveva comperata
per sé; il secondo è una scatola di Meccano che aveva comperato per me.
Il Meccano è una scatola di costruzioni basata su elementi metallici dotati di
fori equidistanti ed aventi la forma più varia, rettilineo di diversa lunghezza,
curvo, a piastra, ad angolo; e poi ruote, ingranaggi, snodi, aste, raccordi, perni,
assi, manovelle, viti senza fine, tutto in acciaio e bronzo. Gli elementi si
potevano riunire tramite bullone e dado a formare strutture come indicava un
esauriente libro di esempi, sia statici che dinamici, ed il limite era dato soltanto
dalla quantità di pezzi da impiegare.
Questo dipendeva dal numero della scatola del Meccano, che iniziava dai
pochi elementi del numero zero in scatola di cartone per finire ai molti
elementi del numero 6 in cassetta di legno. Credo che la mia, in legno, fosse
del numero 5, per cui fornitissima di pezzi. Se non ricordo male la scatola
superiore aveva il motore, mancante nella mia.
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Io ci giocavo spesso, ed ero abbastanza bravo a costruire qualcosa di nuovo
anche esulando dagli esempi del libro; ma poiché a casa c’era l’abitudine di
non lasciare cose tra i piedi, le mie costruzioni potevano durare un giorno,
giusto per farle vedere a papà e mamma, poi dovevo smontarle, riponendo il
tutto nei propri scomparti della cassetta.
Un giorno di primavera inoltrata, tornando a casa da scuola, vedo zio Giorgio
e zio Sandro che avevano preso la cassetta e stavano costruendo un camion.
Si erano messi nel corridoio più lungo della casa, alla fine di questo vicino
dell’ultima finestra, dove il corridoio fa angolo, nei pressi dello studio.
Lì c’era un salottino di vimini con 2 poltrone, un divanetto ed un tavolino
tondo, e loro due, seduti in poltrona, avevano messo la scatola sul tavolino ed
avevano quasi finito di costruire il camion.
Non avevano molta esperienza con la grande varietà di pezzi del Meccano, per
cui quando sono arrivato da scuola mi sono messo ad aiutarli a completarlo
meglio.
Non molto tempo dopo, senza suonare il campanello ma aprendo la porta con
le sue chiavi, arriva papà che ci coglie a costruzione quasi finita.
‘Vedi papà che bel camion stiamo facendo !’
Non ho mai più visto papà tanto arrabbiato, e sì che negli anni successivi ne
avrebbe avuto occasione.
Incominciò, senza urlare, a maltrattare i fratelli chiamandoli incoscienti,
accusandoli di volergli rovinare la famiglia, che non si sarebbero salvati
neanche i figli .....
Era successo che gli zii, entrambi a cavallo dei trent’anni, dopo l’otto settembre
si erano dati alla macchia, e, dopo varie peripezie erano stati accolti in casa.
Nello stanzino, cui si accedeva solo dallo studio che ancora non era diventato
la mia camera da letto, era stato ricavato il loro nascondiglio: si era spostata la
libreria di nonno, quella con i piedi di leone e la vetrata dorata, dalla parete
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dove era alla parete opposta, a coprire la porta dello stanzino. La parete
superiormente e lateralmente alla porta era stata tamponata con un pannello
in legno compensato in modo che non si potessero vedere gli stipiti, e tutta la
camera era stata riverniciata, anche il pannello, con vernice a bugni. Il
pannello si estendeva anche a pavimento in modo che anche traguardando
sotto il mobile si avesse l’impressione della parete.
Per entrare nello stanzino si doveva spostare la libreria, piena di volumi,
penetrare nel foro lasciato nel pannello ed avere altre due persone all’esterno
che spingessero la libreria, una volta che fossero entrati, a contatto con il
pannello.
Le uscite degli zii erano rigorosamente regolate come orario, ed erano
esclusivamente limitate all’espletamento di bisogni personali, perché anche
per mangiare essi dovevano restare nello stanzino.
In ogni caso, al suono di campanello della porta di casa, essi dovevano
rientrare nel nascondiglio in modo che non fosse almeno immediato il loro
ritrovamento.
Per i tempi che correvano era sicuramente un rischio cui tutta la famiglia si era
esposta per solidarietà familiare, anche se avevamo il vantaggio di essere in un
palazzo destinato eminentemente ad uffici con solo due famiglie residenti, e
l’ulteriore vantaggio che il mascheramento dello stanzino era fatto proprio
bene.
Papà però non perdonò allora il loro comportamento, che aveva messo a
repentaglio tutta la famiglia, e credo che abbia trovato loro un altro
nascondiglio perché qualche giorno dopo il fatto, lasciarono casa.
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LA SIGARETTA
Era già caldo, la scuola stava per finire e sarebbe finita con gli esami, i miei
primi esami, per la licenza elementare.
Era qualche giorno che si sentivano più vicini dei colpi di artiglieria; uno era
passato sopra Palazzo Marignoli, già fischiando in discesa, per andare a finire
la sua corsa sulla parete del palazzo che fa da sfondo a via del Gambero, su via
Frattina, all’angolo con via Belsiana; e dal terrazzo si vedeva il pur piccolo
cratere che aveva lasciato sul muro e che sarebbe rimasto, ben oltre dopo la
fine della guerra, quasi a ricordarla. Il danno venne poi riparato quando il
palazzo ospitò la sede del Partito Liberale.
Per tutta la giornata continuò da basso il rumore, anche se attutito dal grande
cornicione, delle colonne militari.
C’era quasi la speranza che non fosse vero quanto il Comando Tedesco aveva
dichiarato: ‘Difenderemo Roma strada per strada!’ ma nessuno osava
esternarlo.
Verso sera giunse una telefonata da casa Crescenzi, in Via Flaminia, 21 proprio
oltre Porta del Popolo, annunciando titubante che i tedeschi probabilmente
stavano andando via. ‘ Son passati molti camion diretti verso Nord, ed alcuni,
scoperti, con sopra feriti tutto coperti di sangue, diretti al contrario verso il
centro della città forse all’Ospedale di San Giacomo.’
Il giorno era già più lungo della notte, ma, senza l’ora legale, verso le sette si
fece buio non interrotto dal coprifuoco.
Solo la Piazza San Silvestro era ancora animata, aperta la farmacia notturna
Garinei, aperta l’edicola di giornali di Pietro Censi, aperto il portoncino
ricavato sul portone principale del palazzo per consentire l’accesso anche
notturno alla Sala Stampa.
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In farmacia papà qualche volta si fermava la sera a parlare con il Dottor De A.
, con il dottor Paolo, titolare della farmacia e con Eugenio D. poi fondatore di
Tifone settimanale satirico sportivo. Passava poi davanti l’edicola per comprare
i giornali della sera particolarmente l’Osservatore Romano sulle cui pagine
qualche giorno prima erano state mostrate le foto delle am-lire, le lire
dell’esercito di occupazione che avevano corso nel Sud d’Italia; e veniva a casa
salendo, a piedi, i 198 gradini.
Data la stagione si mangiava in terrazza, e, nel silenzio della sera, le nostre
voci dovevano arrivare in istrada perché, a pranzo finito, cominciò ad urlare
una voce dal basso che dapprima non riuscivamo a capire: ‘ Felicettooooo !
Felicettoooooo! ‘ .
Papà riconobbe la voce di Pietro Censi che urlava da Via delle Convertite, e,
imponendo a noi il silenzio per capire cosa volesse, glielo domandò.
‘ Gli americani .... gli americani .... stanno a San Giovanni’
Mamma e le zie cominciarono a piangere silenziosamente, papà scese in
istrada per avere maggiori particolari, io e Paola, dopo un po’ andammo a
letto.
Quello che ricordo di più è l’odore del latte.
Ormai era tempo che le nostre abluzioni venivano fatte o con la sola acqua o
con un surrogato di sapone, e la cosa riguardava anche l’esercito sia fascista
che tedesco, tutti e due ancora in divisa invernale, e mi ero abituato all’odore
comune del sudore invecchiato sui vestiti, sudore dovuto piuttosto alla paura
che non al caldo.
Gli americani no: venivano, tutti motorizzati, in quattro per ogni jeep, in
divisa estiva, con la camicia pulita aperta al collo e odoravano di latte come se
se ne fossero fatti un bagno. Ed era quasi vero perché, in guerra, facevano la
doccia tutti i giorni con il sapone al latte; ed io che non sentivo da tempo
l’odore del latte ne rimasi esterrefatto.
97
Una folla ridente e piangente, ma di gioia, magra, anche emaciata, si accalcava
sui marciapiedi ai lati del Corso ed applaudiva, e si sbracciava, e qualcuno
osava avvicinarsi alle jeep, ai camion, ai carri armati ad urlare la propria gioia,
la propria soddisfazione; ad offrire fiori; a lanciare baci.
E loro, i soldati, sorridenti, mostravano l’indice ed il medio a formare una V ,
portando ogni tanto la mano alla bocca a togliere un immenso sigaro che
andavano fumando.
Ed al lancio di fiori rispondevano con il lancio di tutto; un tipo di pane
quadrato di un colore così bianco che non vedevamo da tempo, e cioccolato, e
sigarette.
Non pacchetti di sigarette interi, ma prendendone alcune dal pacchetto aperto
con le prime tre dita della mano, le lanciavano, così a gruppi, verso la folla.
Io ero da solo, della famiglia, ad assistere al loro arrivo, ed anche se più alto di
quanto non lo facessero pensare i miei dieci anni, pure non arrivavo a
competere con i giovanotti e con gli uomini che le sigarette le prendevano al
volo; ma, sapendo che a papà mancava ormai da tempo il fumo, seguii con lo
sguardo la traiettoria di un gruppo di sigarette che erano state lanciate con più
forza delle altre fino a colpire il portone chiuso di una banca al Corso vicino
palazzo Chigi.
Una di queste si infilò sotto il portone in uno spazio fra la base dello stesso e la
strada, la raccolsi e la portai a papà.
Papà infatti era rimasto in casa, non partecipava alla festa, ed appena vide la
sigaretta mi domandò :’L’hai raccolta per terra ?’ ‘No ‘ mentii accorgendomi
che non mi credeva. Non mi disse niente ma non la fumò.
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GLI ZOCCOLI
Si chiamava Mariella K. ed assomigliava in qualcosa a mamma: come lei aveva
capelli rossi e la pelle piena di efelidi, e come mamma era piena di energia ed
instancabile. Abitava in una casa di Via Mario de’ Fiori con i genitori ed il
fratello Franz.
Tutta la famiglia aveva il culto della musica, ed il padre era anche un bravo
suonatore al piano: il suo era un pianoforte verticale dotato di pianola e
consentiva il montaggio di un rullo nella parte anteriore. Il rullo si presentava
come una scheda perforata, e portato avanti da un motore eseguiva il pezzo di
musica predisposto. Agendo su di una leva posta sotto la tastiera, il
meccanismo oltre a trasmettere il moto ai martelletti lo trasmetteva anche ai
tasti in modo da poter seguire, sulla tastiera del pianoforte quale sarebbe stato
il movimento delle mani.
Era uno spettacolo sconvolgente.
Ora il padre di Mariella era stato così abile che aveva chiuso con carta adesiva
i fori sul rullo, relativi alla partitura o della mano destra o della mano sinistra,
e riusciva a suonare con l’altra mano, a tempo, e con buona interpretazione
assieme al meccanismo. Per la mia scarsa abilità con la tastiera ciò era
incredibile.
Mariella, come tutte le persone piene di iniziativa, aveva l’intenzione di
aiutare in qualche modo gli sfollati che a Roma erano tanti e bisognosi di tutto,
e si era resa conto che mentre era possibile riadattare vestiti in sovrannumero,
cucire degli abiti senza pretese di moda con qualsiasi pezzo di stoffa, non era
così facile fornirli di scarpe.
Ma di scarpe c’era bisogno, ed ella trovò il sistema di coinvolgere un grande
numero di persone nella costruzione di zoccoli.
99
Si compravano, o si facevano fare delle forme di zoccolo in legno, poi, con
pezzi di stoffa e chiodi si costruivano gli zoccoli, e si distribuivano, o
direttamente, o tramite qualche opera parrocchiale.
Casa nostra era tutto un fervore di opere, in quel periodo il lavoro a negozio
andava molto a rilento anche per mancanza di materia prima, ed allora le
donne della famiglia, noi ragazzi, Mirella ed il fratello, qualche amico
volenteroso riuscivamo a produrre decine di zoccoli al giorno.
Ricordo che partecipava alla fabbricazione degli zoccoli anche la famiglia P.
che abitava sul nostro pianerottolo alla porta accanto alla nostra.
L’appartamento, se così si poteva chiamare, consisteva in una sola stanza con
servizio, e lo abitavano padre madre e due figli, quivi sfollati da un paese
bombardato.
Ero troppo piccolo, e l’educazione del tempo mi avrebbe comunque impedito
di accorgermi della realtà, per rendermi conto se la famiglia P. fosse o no
indigente, ma certo, avendo dovuto subire uno sfollamento e probabilmente la
perdita della casa non erano benestanti; ebbene pur nella loro condizione
impiegavano la loro giornata nell’aiuto degli altri, forse più bisognosi di loro.
Prima che al Nord finisse l’occupazione tedesca, la ragazza P. morì e la ricordo
ancora vivamente, disposta sul letto matrimoniale, a lei riservato in quella
occasione, nel suo vestito bianco della Prima Comunione, sembrarmi ad un
tempo così vicina e così distante; a me che la guardavo sbirciando nella fessura
fra la porta semiaperta e lo stipite, senza il coraggio di entrare.
100
LE CAMIONETTE La guerra non aveva consentito di completare, dopo la demolizione dei
palazzi di Via San Silvestro, l’allestimento completo della piazza, in specie in
corrispondenza di Via del Pozzetto.
Infatti il palazzo, originariamente AGEA (Azienda governatoriale di elettricità
ed acque, poi divenuta ACEA), posto di fronte a Palazzo Marignoli era stato
costruito per la sola metà sinistra, ed il motto latino che lo percorreva si
interrompeva a metà di una lettera, in attesa di continuare sulla seconda metà
del palazzo ancora da costruire.
Al posto del cantiere, gli Alleati avevano allestito un deposito di materiale
vario, e fruivano di un gruppo elettrogeno per le loro esigenze non essendosi
allacciati alla rete urbana.
In effetti la fornitura di energia elettrica non era esemplare, e l’energia
mancava senza preavviso, frequentemente ed abbastanza a lungo.
Il fatto preoccupava i sacerdoti di San Claudio, che non era più così
frequentata come pochi mesi prima, che non gode di molta luce naturale. Per
loro conto, ed accompagnato da uno di loro, dovetti dar fondo al mio scarso
inglese per domandare al vicino deposito alleato la possibilità di usufruire di
un allaccio provvisorio al loro gruppo elettrogeno. Ma, poiché la burocrazia
non è una prerogativa italiana, il mio tentativo non sfociò in niente di positivo.
Andavo ancora a servire la messa in quella chiesa, anche se non con la stessa
frequenza dati i maggiori impegni scolastici, e ricordo che una volta venni
appositamente chiamato per servire messa ad un prete americano che aveva
ottenuto di celebrare colà.
Andai pertanto quel mattino presto, prima della scuola, ed aiutai ad
abbigliarsi in sacrestia un sacerdote negro, che parlava solo inglese ed un po’
101
di latino. Fu la prima volta per me che avessi contatto con un negro, prima di
allora infatti in Italia non ce ne erano molti, salvo gli Ascari che militavano
sotto le nostre bandiere ma non erano molto avvicinabili, da un bambino come
me.
Servii la messa, ed il prete dovette essere abbastanza soddisfatto se, dopo, mi
regalò un messalino anglo latino, che debbo avere ancora.
A Palazzo Marignoli, avevano installato, all’interno dell’ascensore, una
gettoniera ed il gettone costava due lire che, al momento valevano poco ma
che quaranta anni prima (d’argento) rappresentarono il premio per mio nonno
per avere inventato deviatore e commutatore.
Il costo della corsa fece sì ché, salvo zia Dadda che era la più anziana, si
utilizzasse l’ascensore solo in salita, e, possibilmente viaggiando in comune.
Noi ragazzi generalmente facevamo i 198 gradini a piedi a meno che non
fossimo accompagnati da qualche grande.
Il fatto è che né io né Paola girassimo con monete in tasca, perché i nostri
percorsi erano casa-scuola-negozio, ed in genere accompagnati, per cui non
avevamo bisogno di soldi.
centesimi 5, 10, 20, 50 - lire 1 e 2 del 1943 XXI
Non esistevano più i decimali, che erano stati emessi dalla Zecca solo fino al
1943 XXI poiché il 28 ottobre l’istituto di emissione, rimasto a Roma, non
poteva avere più l’incarico dal Re, che invece era oltre le linee a Salerno, di
battere moneta con la dicitura XXII E.F..
102
La moneta circolante era quella emessa dalla amministrazione alleata e l’unità
di conto si chiamava am-lira, e le monete di occupazione avevano forma quasi
quadrata, tutte delle stesse dimensioni ed i valori di 1, 2, 5 e 10 lire.
Papà aveva ricominciato il lavoro, e, nell’officina di Via dei Maroniti, era,
quasi ogni pomeriggio, visitato da un italo americano, figlio di un senatore in
America che peraltro aveva combattuto dalla parte Italiana come aviatore: il
dottor Franco P.
Fra lui e papà era nata molta simpatia, e la promessa dell’affidamento dei
lavori quando egli avesse ricevuto dagli Stati Uniti i finanziamenti per la
costruzione di uno stabilimento per la produzione di antibiotici.
Papà era inizialmente scettico sull’effettivo realizzarsi di tale promessa, ma di
lì a qualche anno tutto si sarebbe verificato; e la collaborazione fra i due andò
avanti per molti anni, con un rapporto che era una specie di amicizia senza che
smettessero mai di darsi del lei.
Benché le famiglie non si frequentassero, pure papà sapeva tutto dei suoi figli
e il dottor P. tutto di noi, e, debbo dire, per me aveva un particolare affetto.
Papà non perse mai l’abitudine presa durante la guerra di passare, sia al
mattino andando a lavoro, sia alla sera tornandone per la Chiesa di San
Claudio.
Solo le rare volte in cui veniva a casa anche a pranzo trovava la chiesa chiusa
per le ore meridiane.
Dovette avvenire uno di questi rari giorni il suo risolutivo intervento per
l’incendio domestico.
Fino all’arrivo degli Alleati la nostra fornitura di energia elettrica domestica
era limitata alla utenza luce a 127 V.: avevamo un contatore in ingresso e,
subito a valle il relativo interruttore.
Quando si passò dai ferri da stiro a carbonella a quelli elettrici, occorse
richiedere anche una utenza industriale a 220 V.
103
La presa per il ferro da stiro era stata disposta in fondo al corridoio centrale
proprio in corrispondenza dell’inizio del terzo corridoio, presso la finestra che
forniva luce naturale.
Il collegamento era stato eseguito in cavo esterno che, partendo dal contatore
posto nello stesso vano del contatore luce, saliva fin quasi a soffitto e
percorreva tutto il corridoio mascherato oltre la modanatura che rifiniva in
alto la carta da parati. Al termine del corridoio più lungo il cavo scendeva
presso la finestra ad alimentare una presa esterna.
Non so per quale ragione un giorno il ferro da stiro andò in corto circuito e,
non essendoci un interruttore di protezione, il cavo che lo alimentava
incominciò a prendere fuoco.
Non ci volle molto che le fiamme avvolgessero tutta la tratta verticale del cavo
presso la finestra, e cominciassero a propagarsi lungo la parte orizzontale,
non con la stessa velocità, ma con continuità.
Papà avvertito dalle urla di chi stava utilizzando il ferro da stiro, alzò una
scala circa dieci metri prima della testa dell’incendio, e, con un paio di forbici
da cucina, interruppe il cavo e con esso anche l’incendio.
Io e Paola, che avevamo assistito al veloce intervento restammo impauriti ed
ammirati, mentre papà fra sé e sé si incolpava per non aver pensato a montare
un interruttore.
Papà aveva assunto dei lavori anche fuori dell’ambito di Via del Tritone, e ciò
comportava la necessità di spostamenti, per i quali aveva acquistato una
bicicletta, tutta cromata e con il cambio della quale era gelosissimo e che
parcheggiava in officina, dalla quale continuava a venire a casa a piedi.
A Roma i mezzi pubblici, dopo l’occupazione Alleata, scarseggiavano. Eppure
ricordo che il giorno dopo la morte di nonno, ed era il dodici novembre del
’43, ci ritrovassimo sia la nostra famiglia, sia quella di zio Tonino, a piazza
Cavour, per prendere il tram n. 35 verso Via Tunisi dove era la casa di nonno
104
per l’ultimo saluto. Ricordo che fra noi ragazzi sorse la questione se ci avrebbe
fatto impressione baciare nonno morto il giorno prima, e non so chi di noi
quattro sdrammatizzò il fatto dicendo che avremmo solo provato una
sensazione di freddo come a baciare il mancorrente metallico del tram, cosa
che fece per esemplificare.
La mancanza di mezzi pubblici, che per me resta ancora un mistero, fu
sopperita dalle iniziative personali ed imprenditoriali di molti proprietari di
piccoli camion. Si trattava dei mezzi generalmente utilizzati per la
movimentazione di frutta e verdura ai mercati generali e che risultavano
molto maneggevoli.
Erano stati attrezzati con un tendone di copertura, due panche lungo i lati
maggiori, come avviene tuttora per i camion trasporto truppe, ed una
balaustra posteriore che terminava, al centro, con una scaletta di quattro o
cinque gradini con due corrimano laterali, che consentiva agli utenti anche se
con scarsa mobilità, di salire all’interno del mezzo. Uno pseudo bigliettaio
riscoteva l’importo della corsa all’interno, senza però dare il biglietto. Le
camionette avrebbero dovuto viaggiare con il carico umano solo all’interno,
ma, ricordo, che in occasione di alcune manifestazioni sportive allo stadio
Nazionale (ormai lo stadio Nazionale del Partito aveva assunto quel nome;
qualche anno dopo, in seguito alla tragedia del Torino si sarebbe chiamato
stadio Torino, finché, ristrutturato per le Olimpiadi, si sarebbe chiamato stadio
Flaminio) le camionette erano gremite oltre che all’interno anche lungo la
scaletta tanto che non mantenevano l’assetto e risultavano pericolosamente
piegate all’indietro.
Nel tempo, perché il fenomeno camionette durò abbastanza a lungo, vennero
utilizzati anche camion più grandi e con sedile centrale che consentivano la
salita ad un maggior numero di persone.
106
IL VATICANO
In salotto, sotto una delle applique, quando ancora la tappezzeria era quella
verde con disegno a broccato, c’era, incorniciata una fotografia
dell’incoronazione di Papa Pio XII.
Il Papa appariva in trono, con il triregno, circondato da uno stuolo di prelati e
di altri personaggi vestiti in paludamenti vari e, sullo sfondo, si notavano,
sorretti da due di tali personaggi, anche essi in costume, due immensi ventagli
di piume di struzzo posti su dei bastoni che li facevano emergere ben al di
sopra delle teste dei presenti: erano i flabelli che, secondo quanto mi
raccontava papà, servivano per la ventilazione nelle giornate calde, e
risalivano ai tempi dell’antico Egitto come appare nei geroglifici e nel secondo
atto dell'Aida. La loro funzione ormai era solo decorativa, ma con tutto
l’insieme essi conferivano al Papa un senso di regalità superiore che tanto
compiaceva i Romani.
Il Papa, allora, era fuori del contatto con il mondo, non usciva dal Vaticano se
non per recarsi a Castello durante l’estate, manteneva una corte laica di
gentiluomini pontifici divisi in categorie ognuna con il proprio ordinamento, il
proprio cerimoniale, i propri abiti sia ordinari che di gala, alcune con voti
religiosi altre con armi di difesa ed anche di offesa, ciascuna derivante da
origini sia medievali che rinascimentali quando il cardinalato era solo un titolo
onorifico che veniva conferito anche a bambini.
Il Papa normalmente, nelle cerimonie pubbliche, che si svolgevano sempre
all’interno e poche volte all’esterno di San Pietro, non camminava mai a piedi
per traversare la chiesa o il sagrato e raggiungere l’altare , ma veniva sempre
portato in sedia gestatoria dai sediari che erano gentiluomini in abito rosso
con il copri maniche secondo il costume rinascimentale.
107
Il Papa non indossava scarpe ma sempre pantofole, in tessuto ricamato a
fondo rosso.
Quando parlava all’omelia della messa, lo faceva in latino; al pontificale il
vangelo era sempre letto nelle due lingue canoniche: prima in latino e poi in
greco; quando assumeva la comunione non lo faceva come siamo abituati a
vederlo fare attualmente in diretta televisiva, bensì, giunto il momento,
lasciava l’altare, andava a sedere in trono, e la comunione gli veniva portata
sub utraque specie dal diacono: l’ostia non dissimile da quella attuale, mentre
il calice aveva un coperchio d’oro da cui usciva una cannuccia anche essa
d’oro ed il Papa beveva tramite questa cannuccia senza dover ripiegare la testa
all’indietro per sorbire tutto il liquido.
Il fatto di parlare latino conferiva, se possibile, ancora maggiore dignità a tutte
le cerimonie ed è un peccato che tale tradizione si sia perduta con il Concilio
Vaticano II. E pensare che fui presente il 25 gennaio del 1959 a San Paolo
durante l’omelia quando Giovanni XXIII annunciò l’indizione del Concilio
iniziando il discorso con un incipit latino di rara poesia: Veluti flos inexpectati
veris (quale fior d’inattesa primavera)
Il cerimoniale dei riti era così complesso che oltre al diacono e suddiacono
canonici occorreva che vicino al Papa ci fosse un cerimoniere che gli ricordasse
tutti gli adempimenti. Lo strano era che con tale dovizia di fasto che si
riscontrava anche nei vestiti, il cerimoniere non aveva un abito apposito per la
funzione ma si limitava ad indossare una veste violacea da monsignore con
sopra una semplice cotta bianca, come un qualsiasi corista.
L’odore penetrante dell’incenso contribuiva poi a rendere ogni cerimonia
sfarzosa, fastosa e regale e tale caratteristica era molto gradita ai romani degli
anni quaranta come lo era a quelli dei tempi del Belli.
Mio padre se ne compiaceva veramente e, anni dopo, non avrebbe perdonato i
successori per l’abolizione di tanta regalità.
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Io non ebbi molte occasioni di vedere il Papa, ma ricordo l’impressione che
fece a tutti i romani il fatto di trovarselo fra le macerie dopo il bombardamento
di Roma. Da una parte c’era lo straniero che opprimeva, dall’altra l’altro
straniero uccideva con i bombardamenti e sembrava che l’unico scampo si
potesse avere ricorrendo al Papa e così era.
Fu verso la fine dell’occupazione quando mancava ancora poco alla
liberazione di Roma, che ricordo di essere stato presente ad una delle rare
uscite del Papa presso la chiesa di sant’Ignazio dove era stata traslata, per la
guerra, l’immagine della Madonna del Divino Amore; qui il Papa consacrò
Roma alla Madonna promettendo, e con lui romani, la costruzione di un
tempio a Castel di Leva dove era il santuario.
Il santuario del Divino Amore, posto sulla via Ardeatina, in partenza da Roma
dalle Terme di Caracalla, dista da Porta San Sebastiano circa 14 chilometri
lungo una strada che segue l’andamento collinare del suolo; fino a buona parte
degli anni cinquanta è stato meta di pellegrinaggi da parte di molti, sia dei
paesi limitrofi che di quelli distanti che, durante l’estate in occasione della
festa, vestiti da madonnari andavano al Santuario a bordo di carri addobbati
con decori eseguiti in carta crespa colorata, trainati da buoi anche loro
addobbati con lo stesso materiale, salvo il campanaccio che doveva scandire
con il suo suono i canti religiosi mariani.
Trattandosi della Madonna del Divino Amore, indicando con questo termine
lo Spirito Santo, la festa ricorre a Pentecoste, per cui nella prima metà di
giugno, e, la notte della vigilia, tuttora, un pellegrinaggio a piedi, parte alla
mezzanotte dall’obelisco di Axum per andare ad ascoltare la prima messa alle
sei.
Ma quel 1944 la ricorrenza fu celebrata a Roma e quella fu l’occasione che mi
consentì di vedere il Papa di persona.
109
Ma non più di due mesi dopo lo rividi ancora, e questa volta assieme a tutta la
famiglia patriarcale in occasione di una udienza privata.
Il viaggio fino al Vaticano lo facemmo in taxi, gli uomini, zio Arduino, Papà e
zio Alberto in frac, le donne in abito lungo nero con velo di pizzo, noi tre
ragazzi con l’abito della prima Comunione, adattato in negozio perché erano
passati già due anni da che l’avevamo fatta.
Zio Arduino, che era abbastanza mangia preti e che rappresentava per noi
ragazzi un esempio di miscredente, aveva in quella occasione assunto le vesti
del pater familias, come d’altronde gli competeva nel matriarcato di cui
eravamo parte; e, non ostante la sua abitudine a viaggiare per il mondo, era
decisamente emozionato.
Noi ragazzi, come facciamo tutti a quell’età, ci davamo le arie facendo le finte
di non essere emozionati e ci ripetevamo l’un l’altro le parole che avevamo
preparato da dire al Papa quando si fosse avvicinato a noi.
Tutto il precorso dal portone di bronzo fino alle logge di Raffaello lo facemmo
a piedi ma anche i più anziani non trovarono occasione di lamentarsi della
lunga strada.
Da lì fummo introdotti in una stanza molto grande che il Papa avrebbe
attraversato uscendo dai suoi appartamenti privati.
Lì ci disponemmo, tutti in ginocchio, schierati in fila per uno, noi tre ragazzi,
al centro del gruppo, i grandi, nei quali montava l’emozione, ai nostri lati.
Il Papa entrò dalla nostra destra e parlottò con uno dei suoi accompagnatori
che dovette presentarci perché si rivolse a noi dicendo: Una bella famiglia
romana.
Noi ragazzi, non ostante i nostri buoni propositi, non riuscimmo a spiccicare
parola, e, ricordo che anche i grandi biascicarono qualcosa senza molto
significato; le zie Giannetta e Fernanda piangevano.
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Il Papa, dopo averci dato la mano a tutti e con ognuno avendo scambiato
qualche parola, si dispose proprio di fronte a noi che eravamo al centro del
gruppo, ed allargò le braccia nel suo gesto di benedizione che era soltanto suo,
e ci benedisse tutti, per uscire subito dopo, dalla porta alla nostra sinistra.
Eravamo stati tutti in ginocchio per tutto il tempo ma nessuno se ne lamentò.
Ciascuna delle tre famiglie che effettivamente formavano il nostro gruppo
ricevette qualche giorno dopo la foto del Papa con la benedizione scritta ed il
suo autografo; ricordo che su quella in cui Felice Favero chiedeva alla Santità
Vostra per sé e per la propria famiglia la benedizione apostolica, il Papa di sua
mano, prima della firma aggiunse una frase che solo qualche anno dopo, alla
scuola media, riuscii a comprendere; Peramanter in Domino; Pius p.p.XII
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IL SALONE MARGHERITA
Li avevamo tutti e due proprio vicino casa: la Sala Umberto a Via della
Mercede, il Salone Margherita a via due Macelli.
Erano, e, sotto certi aspetti, sono tuttora, due sale gemelle, con lo stesso
arredamento belle époque da café chantant, la platea, una volta destinata a
tavolini ed una balconata più verosimilmente destinata a spettatori, ed
affiancata da palchi con balconcino aggettante sulla sala ma privi di una vera e
propria porta.
Le scale di accesso alla balconata erano accessibili solo una volta entrati nella
sala, da una specie di foyer, arredato con un gran numero di grandi specchi,
che alla sala Umberto precede la sala di spettacolo, mentre al salone
Margherita la circonda tutta.
Immediatamente dopo la guerra la sala Umberto era stata dedicata al cinema,
il salone Margherita era stato utilizzato come teatro, sempre gremito, in quella
stagione, perché sul suo palcoscenico si esibivano Anna Magnani ed Aldo
Fabrizi in una specie di rivista castigata che aveva molti spunti satirici sul
momento allora attuale.
La famiglia aveva prenotato i posti per tutti i componenti, anche noi bambini,
la domenica in fine di Aprile. Così quel pomeriggio andammo tutti a ridere in
vernacolo romanesco.
Noi ragazzi eravamo entusiasti, era per noi la prima volta che andavamo a
teatro, ed andarci in un’occasione allegra sarebbe stato memorabile per tutta la
vita.
Probabilmente per la guerra vissuta coscientemente che mi aveva in qualche
senso svezzato, riuscii a capire tutto quello che si svolgeva sulla scena senza
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dover ricorrere alle spiegazioni dei genitori, i quali, per quanto li riguardava,
se la ridevano della grossa.
La rivista comprendeva due tempi, e nell’intervallo fra il primo ed il secondo
tempo si poteva uscire dal teatro per rientrarvi qualche minuto dopo.
Ed uscimmo anche noi.
All’esterno era una giornata nuvolosa, e doveva essere in qualche modo
piovuto perché ricordo il marciapiede bagnato.
Fuori del teatro alcuni strilloni offrivano le edizioni straordinarie dei giornali
della sera.
‘ Mussolini ucciso ‘
‘ Il Duce appeso a Piazzale Loreto’
Era quasi un anno che la guerra ci aveva lasciato, ed ormai sembrava quasi
non riguardarci più. Eravamo qui, fra il primo ed il secondo tempo di
un’opera carica di risate e ci trovavamo rituffati nella tragedia.
Non ricordo segnali di particolare entusiasmo, né fra gli spettatori usciti dal
teatro fra un atto e l’altro che erano stati colti di sorpresa dalla notizia, né fra
gli altri passanti.
Zio Alberto, che era stato gerarca anche se non aveva poi aderito alla
Repubblica di Salò, non rise più durante il secondo tempo.
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IL CIMENTO INVERNALE
Si scende alla banchina del Tevere tramite tre rampe di scale, interrotte da
brevi pianerottoli che non ne cambiano la direzione e che figurano in
corrispondenza dei ponti, nel percorso cittadino del fiume.
I gradini sono circa 20 per rampa e risultano in aggetto rispetto al muraglione
in travertino, e fanno capo, in basso ad un marciapiede largo circa 150
centimetri ed alto sul fiume, verso il quale non c’è parapetto, circa un metro,
almeno nei periodi di regime normale.
La corrente del fiume è abbastanza forte, per cui se il marciapiede risulta dalla
parte esterna della curva del fiume, non si verifica alcun deposito di limo o
fango che normalmente sono trasportati dal fiume, e perciò, subito sotto il
marciapiede c’è l’acqua.
Quando però la corrente del fiume fa cavitare l’acqua in prossimità del
marciapiede, qui si accumula man mano un sempre maggiore quantitativo di
limo sul quale sorgono piante spontanee ed inquinanti che talvolta
impediscono il passaggio sul vicino marciapiede.
Il regime del fiume peraltro, in quell’epoca era molto variabile, poiché non era
stata ancora realizzata la diga a Castel Giubileo, per cui era facile trovare in
inverno il fiume in piena, ed allora il marciapiede veniva completamente
coperto, però non si impediva ai veri fiumaroli l’accesso ai galleggianti,
perché, proprio in corrispondenza di Ponte Margherita , a metà della terza
rampa di scale, quella più vicina al fiume, si dipartiva una scaletta di legno
che, scavalcando il parapetto e scesi pochi gradini, si trovava in
corrispondenza con una passerella unita al galleggiante delle barche della
Tevere Remo, da cui si poteva accedere al galleggiante sociale della stessa
società, e da questa si veniva trasbordati su una barca attaccata ad una fune
114
lungo la quale era possibile scorrere tramite due anelli, fino al galleggiante
della Rari Nantes Roma.
La barca per il trasbordo, per effetto della corrente, era sempre in vicinanza
del galleggiante Rari Nantes, e per questa ragione era dotata di una corda di
richiamo ammarrata al galleggiante Tevere Remo.
Ricordo che tutti i fiumaroli pronunciavano Remo con la e aperta e solo da
grandicello mi resi conto che non si voleva indicare il fratello di Romolo, ma
l’attrezzo per remare, però se dicevo Tevere rémo ero guardato male.
Di galleggianti sul Tevere, fra il ponte Margherita ed il Ponte Cavour, ce ne
erano diversi, dei quali il più bello era quello della Società Aniene, che era
molto grande, a più piani e con il solarium costruito sul terrazzo in mezzo al
tetto, alle due estremità del quale erano installati, puntati verso l’alto, due
remi, colorati, come il galleggiante, dei colori sociali, il giallo e l’azzurro
chiaro.
Questo galleggiante ne aveva vicino un altro, meno imponente per il ricovero
delle barche.
L’accesso all’Aniene non avveniva generalmente dalla scaletta presso Ponte
Margherita, ma da quella presso Ponte Cavour , anche se, con il tempo e la
sempre minore manutenzione delle rive del fiume, l’accesso si rivelava
talvolta complesso per la presenza di vegetazione invadente.
I colori sociali del Tevere Remo erano invece bianco, rosso e azzurro scuro, e si
ripetevano sia sui remi che sui galleggianti della società, che, avendo anche
una sede a terra, aveva il galleggiante sociale bene attrezzato ma non così
imponente come quello dell’Aniene.
Il galleggiante più piccolo era quello della Rari Nantes, e consisteva di una
casina di circa dodici metri per otto e di un vicino galleggiante più piccolo
utilizzato come solarium.
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La casina, in puro stile liberty occupava quasi tutto lo spazio del galleggiante:
verso riva e verso fiume c’era un piccolo corridoio di neanche 80 centimetri di
larghezza, munito, verso fiume di parapetto in acciaio, con all’inizio e alla fine
una scaletta per la discesa in acqua, ed un piccolissimo pontile in legno
marino. Il lato Nord della casina presentava un dente che consentiva un
piccolo spazio all’esterno con tavolo e panche coperti da un pergolato
realizzato con piante su vasi; il dente era invece occupato da un cucinino. Il
lato sud aveva un altro dente, aperto verso fiume in un piccolo solarium che
accedeva tramite passerella al secondo galleggiante, e chiuso verso la riva che
conteneva la doccia accessibile sia dall’interno della casina che dall’esterno e i
servizi.
Rari Nantes 1932 papà Felice è l’ultimo a destra
La casina, all’interno, era un gioiellino, tutta realizzata in mogano marino:
lungo tutte le pareti correva una panca con coperchio superiore chiudibile
eventualmente con lucchetto, ogni coperchio era largo circa 40 centimetri e
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veniva utilizzato dai soci per il deposito di effetti personali; sopra la panca ed
in corrispondenza dei vani di questa, erano realizzati degli armadietti con
sportello anteriore, aggettanti per circa 30 centimetri ed alti 60, per il deposito
di effetti personali di maggior pregio. In effetti all’interno della panca
trovavano posto scarpe e zoccoli, nell’armadietto i costumi, le posate
personali, il bicchiere, il rasoio il pennello ed il sapone da barba, la scatola
porta sapone, il dentifricio e lo spazzolino.
All’interno dell’armadietto di papà c’era anche la copia del Giornale d’Italia
con la mia fotografia a 6 mesi e con il titolo: Ecco la foto del vincitore del concorso
per il più bel bambino di Roma, nella quale campeggiavo seduto, poggiato ad un
cuscino, ma già bene eretto, con lo sguardo diretto verso l’apparecchio
fotografico ed i capelli che formavano una specie di guglia sul sommo del
capo, realizzata acconciando i capelli ed utilizzando per tenerli in piega una
misteriosa miscela di acqua e zucchero.
La foto e l’articolo occupavano la quarta parte superiore sinistra della pagina e
tutto era stato ritagliato ed incollato alla parte interna dell’anta
dell’armadietto.
Un socio r.n. ( i soci della Rari Nantes, aggiungono dopo il nome e cognome,
queste due lettere minuscole a significare l’appartenenza che non si perde mai,
come fanno gli inglesi per i titoli accademici ) aveva aggiunto a grandi lettere
ed a matita rossa: Son più bello di papà!! Il premio per la vittoria era stato di
1.000 lire in Buoni del Tesoro ventennali, per cui quella che nel 1934 era una
bella sommetta, nel 1954 non avrebbe avuto più valore.
Al centro della casina c’erano due file di panche doppie con spalliera ed
appendiabiti centrale, e superiormente c’erano dei dispositivi per sospendere
le barche sociali fra le quali c’era la iole personale di papà.
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Il tetto era a spiovente a quattro falde e, nella parte centrale era sollevato per
fare posto ad una finestra che correva sui quattro lati, con vetri colorati fissi ed
alcune intelaiature per l’areazione mobili tramite un complesso rinvio di
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cordame.
Papà, dopo la guerra, aveva ricominciato ad andare all’ora di pranzo a fiume,
facendo venire a casa un operaio dalla Ditta a prendere il cestino del pranzo,
che era costantemente bistecca e verdura, salvo il venerdì nel quale la bistecca
era sostituita dal merluzzo.
I soci non erano molti, ma fra loro veramente amici, e tutti legati con gli affari
alla zona. Si trattava generalmente di commercianti con una buona
rappresentanza di antiquari di via del Babuino, impiegati con la passione del
nuoto, artigiani ed anche un farmacista, Franco J. detto Lucertola per la sua
abitudine di stare sempre al sole ad aumentare la tintarella.
L’industria dei marmi presso Tivoli, che è la maggiore causa di inquinamento
dell’Aniene e quindi del Tevere ancora non funzionava a pieno, per cui
l’inquinamento era ridotto, il fiume pescosissimo in specie di ciriole ( così si
chiamano a Roma le anguille ) ed il bagno piacevole.
La corrente nel tratto, però era molto forte, e bastava lasciarsi andare dalla
scaletta a monte per ritrovarsi immediatamente a livello della scaletta a valle
da afferrare al volo, altrimenti c’era il rischio di dover superare anche il
galleggiante solarium, la cui presenza provocava un vortice contrario e
consentiva di nuotare un breve tratto contro corrente per risalire a bordo.
L’uscita in barca avveniva dal galleggiante scoperto e bisognava, causa la
corrente, essere sempre aiutati sia nel montare che nel discendere dalla barca, i
remi infilati negli scalmi e tenuti fermi a terra da consoci volenterosi.
Papà mi insegnò a remare sulla sua iole secondo un sistema in voga fra i
canottieri e che solo studiando idraulica avrei compreso: entrata in acqua
senza urto ed uscita senza velocità. Il tutto era ottenuto con un gioco di polso
che portava il remo ad accompagnare la corrente dell’acqua, a non affondarlo
per dare alla leva un maggiore braccio, a sollevarlo senza strappo dall’acqua,
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ed a portarlo indietro con la pala rivolta verso l’alto per limitare la resistenza
dell’aria e sfiorando l’acqua senza toccarla.
Il movimento è molto elegante ma anche tanto stancante però risulta ancora
quello più efficace.
Fra i soci era ricorrente la commenda che era riservata ai nuovi arrivi o a
coloro che, dopo pranzato, si erano addormentati su una sdraio al sole.
L’operazione che prende questo nome consiste nel riempire un secchio
d’acqua di fiume poi, dalla distanza di tre quattro metri, lanciare l’acqua sul
malcapitato, il quale, per legge, non deve risentirsi.
Per esperienza fatta posso assicurare che, anche nelle giornate più calde
l’acqua del Tevere è freddina.
Immagino quanto dovesse essere fredda il giorno di Natale ed in seguito
anche il Primo dell’Anno quando si svolgeva il cimento invernale cui
partecipavano in effetti tanti nuotatori. Io ebbi sempre la proibizione di
mamma, e forse non mi ha mai attratto molto l’idea, per cui mi limitavo ad
assistere. Ricordo che, quando riprese la tradizione dopo la guerra, il Tevere
era in piena per cui l’accesso al fiume doveva avvenire tramite la scaletta in
legno che portava al galleggiante barche della Tevere Remo, per la quale
ragione per il trasbordo di tutti, partecipanti e pubblico ci si dovette muovere
per tempo.
I partecipanti si spogliarono nel galleggiante Rari e, non potendo raggiungere
il ponte Margherita da cui si sarebbero dovuti tuffare, si limitarono a tuffarsi
dal galleggiante barche della Tevere Remo, cantando ed urlando per
mascherare il freddo, e raggiungendo il galleggiante solarium della Rari,
tremanti e felici per l’impresa.
Lo scaldabagno a legna consentì loro una doccia calda e tornarono asciutti ed
in costume al sole dicembrino a rifocillarsi con panettone e spumante che la
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tradizione voleva offerto dal presidente della Rari, e papà l’avrebbe offerto
tante volte negli anni.
Questa tradizione che era relativa al giorno di Natale, si estese nel tempo
anche a capo d’anno, principalmente per responsabilità di un fotografo belga
Rijk de S. meglio conosciuto come Mr. Okay, romano d’adozione e di
residenza ma che non avrebbe mai parlato bene l’italiano, che a mezzo giorno
di ogni inizio d’anno si lanciava con un bel volo d’angelo dall’alto di Ponte
Cavour, ed era perciò accompagnato da tanti bagnanti e da tante barche.
La presenza di tanti soci r.n. legati all’ambiente locale impedì in seguito, nel
1959, di sfruttare le possibilità che le Olimpiadi Romane fornivano alle società
di nuoto: il trasferimento in altra area demaniale e la possibilità di ottenere
finanziamenti per la costruzione di una piscina che sarebbe servita per gli
allenamenti delle squadre olimpiche, possibilità che invece venne colta al volo
dall’Aniene.
L’essere rimasti ancorati a quel posto, impedì la venuta di soci nuovi e giovani
che trovavano altrove la rispondenza alle proprie necessità di sport e di
divago; per cui la Rari Nantes si esaurì con la morte degli ultimi soci di quella
generazione, ed il galleggiante è stato trasferito a monte del Ponte della
metropolitana a complemento del circolo ferrovieri.
Mancando la Rari Nantes non si esegue più il cimento invernale in quello
spirito ed in quella tradizione, anche se a Roma rimangono tanti gli
innamorati del fiume e qualcuno celebra ancora l’anno nuovo tuffandosi nelle
sue acque limacciose ma bionde.
Un fiumarolo che merita di essere citato con nome e cognome, anche perché a
memoria della sua impresa fu murata una lapide sul muraglione dell’argine,
proprio davanti l’ingresso del galleggiante Rari Nantes, era Aldo Fioravanti.
Era un uomo che si rapava a zero, cosa inconsueta a quei tempi, ma possedeva
due baffi imponenti; il corpo muscoloso con un leggero strato di grasso come
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hanno i nuotatori, ed una struttura atletica più alta del normale, ed una
estrema capacità di galleggiamento in acqua.
Si era allenato alla sopportazione del freddo, facendo il bagno in casa in
compagnia di blocchi di ghiaccio; ma riuscì a stabilire il record mondiale di
percorrenza sul Tevere, scendendo da Orte a Roma per la bellezza di 130 km.
circa ed impiegando ben 33 ore. Ricordo che l’impresa fu ripresa anche dalla
rubrica sportiva del giornale radio quella domenica sera, ed il servizio si
apriva con la romanza della Madama Butterfly: un bel dì vedremo….
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L’ARTISTICO OPERAIA
Paoletta, a 6 anni, aveva cominciato a suonare il piano sotto la guida della
signorina Emma B.
Il piano era stato comprato dalla famiglia ( mi sembra dietro una spesa di
2.000 lire ) e disposto nel salotto, e le lezioni di piano ed i relativi esercizi
avevano reso di nuovo abitato il locale che altrimenti sarebbe restato
inutilizzato. Comunque su tutte le sedie e le poltrone restava una copertura di
protezione ritagliata e cucita ad hoc.
In famiglia Favero nessuno suonava uno strumento, mentre Ninnì era
diplomata in pianoforte e suonava benissimo ed il marito Alberto era un
abilissimo suonatore ad orecchio.
Nelle leggende familiari avevo tante volte sentito parlare del piano a coda che
i Benedettini avevano quando abitavano in Via Vittoria, e della triste fine che
aveva fatto rotto a colpi d’accetta da parte di Renata.
Dopo qualche mese che Paola aveva cominciato con il piano, Anco ed io
iniziammo a studiare la fisarmonica; si acquistarono due fisarmoniche uguali
che differivano soltanto per il colore, di marca Scandalli a 32 bassi, con
copertura esterna in madreperla, bianca la mia e rossa per Gianfranco.
Possiedo ancora un volume di musiche per fisarmonica intitolato il piccolo
montanaro ma né io né Anco fummo mai dei mostri musicali, tanto che dopo
un anno interrompemmo le lezioni; per dedicarci ambedue al piano forte, con
risultati molto migliori, sempre sotto la guida della signorina Emma B.
Gianfranco aveva la migliore disposizione perché riusciva, come il padre,
anche a suonare ad orecchio, ma nel complesso tutti e tre facemmo dei buoni
progressi.
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Prima che la guerra finisse un’altra attività artistica avrebbe fatto parte della
nostra cultura: la danza, istruttrice la signorina Luisa B. . Dovevamo costituire
almeno due coppie ed inizialmente, mentre Anco faceva coppia con Paola, io
la facevo con Giannetta M. che era di un anno maggiore di me, che
frequentava la scuola del Sacro Cuore a Trinità dei Monti, ed era nostra
compagna di giochi da diversi anni al Pincio.
Giannetta, per la quale io sentivo un certo trasporto che data la mia
giovanissima età non saprei come definire ma che fu sempre nascosto dalla
mia eccessiva timidezza, abitava a metà strada fra noi ed Anco, in Corso
Umberto 509 ed era figlia di uno scrittore che essendo stato anche aviatore
aveva pubblicato uno immenso numero di libri di aviazione.
Le lezioni di ballo comunque avvenivano sempre a casa nostra, anche per la
presenza di un largo salone a disposizione e del giradischi.
Le lezioni iniziavano sempre con esercizi che comprendevano i movimenti dei
piedi (le posizioni) alcune delle quali continuo a ritenere assurde, mentre la
parte finale era dedicata ai balli veri e propri ( valzer, tango, one step, fox trot,
cui in seguito si sarebbero aggiunti il samba e la rumba ) ed a balli di gruppo,
tratti da operette o da creazioni della signorina Luisa B.
Per queste occasioni il numero di quattro era troppo limitato, per cui facevamo
gruppo con altri allievi della nostra maestra, che peraltro erano anche nostri
amici Enrico M. con la sorella Alessandra detta Nana, il cugino Fabio Massimo
Testa (che avrebbe in seguito sposato mia sorella Paola) e la cugina Maria
Luisa detta Lulla.
Con loro facevamo delle coreografie che hanno visto anche le assi del
palcoscenico come la Tirolese; la Javanese tratta dal Paese dei Campanelli ( balla
la Java boccuccia di baci/ gira e rigira sorridimi e taci/ balla la Java boccuccia di rose/ o
quante cose sapevi tu dir ....) come anche la scena dei gatti dalla stessa operetta (
Salomè, Salomè, tutti i gatti sono bigi e lo sai ... ) ; i Lancieri notissima cadrille
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anglaise; e la danza Pirrica accompagnata dalla musica della polacca op. 40 n. 1
di Chopin, quest’ultima peraltro non fu mai perfezionata e quindi il pubblico
non ebbe mai occasione di vedere come ballavano, secondo noi, gli Epiroti di
Pirro.
Finite le elementari, io ed Anco fummo iscritti alle medie al Collegio San
Giuseppe - Istituto de Merode, sito in Piazza di Spagna all’inizio di Via di San
Sebastianello pochi metri prima del Mater Dei dove avevamo frequentato le
elementari, e dove Paola continuava ad andare essendo per le superiori
quell’istituto solo femminile.
Il San Giuseppe, che oltre le medie, aveva, come Istituto de Merode, anche il
liceo sia classico che scientifico e l’istituto commerciale, fu la mia scuola per gli
otto anni avvenire, fino al terzo liceo classico e fonte per me ed anche per la
mia famiglia di molte soddisfazioni.
Contrariamente a quello che avveniva alle elementari, per sviluppare la
competizione fra gli alunni, ad ogni trimestre in base ai risultati ottenuti, gli
alunni erano divisi per merito che si rifletteva anche nella disposizione dei
posti in classe, che vedevano avvicendarsi nei posti più prossimi alla cattedra,
quelli che erano agli ultimi posti nella classifica di merito, mentre i primi nel
profitto erano dislocati agli ultimi posti.
Io sono sempre stato nell’ultima fila per tutta la mia vita scolastica.
Perge puer mi scrisse sul foglio fratel Valfrido in prima media dandomi 10 al
mio primo compito di latino .
Come nella scuola irlandese la lingua ufficiale era l’inglese, al Collegio era il
francese, ed i fratelli delle scuole cristiane che erano la maggioranza dei nostri
professori avrebbero dovuto essere chiamati Frères alla francese, ma erano
normalmente chiamati alla romana frè.
Sempre per sviluppare la competizione, durante le lezioni avveniva che il
professore si rivolgesse impersonalmente alla classe domandando una qualche
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particolarità, e per rispondere occorreva essere interpellati, e ciò si otteneva
alzando il dito e, per richiamare l’attenzione, ripetendo: frè... frè...frè...!
Presi una nota di merito per aver saputo che era stato l’Abate Francesco Maria
Taja che chiedendo: egli non vi pare l’aver noi oggi rinnovellato l’Arcadia? aveva
trovato il nome per quella Accademia.
Fratel, o meglio Frère Valfrido non era molto largo nei voti ma ricordo che
avendo dato come compito a casa da fare il disegno dello scudo di Achille
secondo la descrizione dell’Odissea, assegnò 11/10 al disegno portatogli da
Ugo P. che aveva realizzato un’opera d’arte tutta in inchiostro di china, mentre
noi poveri mortali, ci eravamo arrabattati con matite e pastelli colorati senza
riuscire a fare opere degne di essere mostrate.
Fra le altre attività del Collegio, ed il mondo avrebbe conosciuto molto bene
quella sportiva per opera della Stella Azzurra che sotto la guida del Prof.
Ferrero e la passione di frère Mario raggiunse la serie A di basket e fornì
diversi uomini alla Nazionale azzurra, c’era anche quella filodrammatica
guidata dall’Ing. Franco L.
Era un’attività conforme alla linea tutta maschile del collegio, perché nella
compagnia, almeno in quegli anni, non c’erano donne; e quando capitava di
dover mettere in scena un dramma con presenze femminili occorreva
trascriverlo per soli uomini. Compito che toccava a Franco L. ma che dava
risultati notevoli data la bravura dei partecipanti. Ricordo Arsenico e vecchi
merletti che ebbe un notevole successo e molte repliche.
Ora in questa attività rientrò anche la nostra scuola di ballo e fu un ingresso
importante perché per la prima volta delle donne, anche se giovinette,
calcarono le scene del San Giuseppe.
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Da sinistra: Giannetta;( dietro: Sandro P. detto Gallina); io; Paola; Anco; Nana; Enrico; Lulla; Fabio
Questo nostro debutto in scena non passò inosservato, e quel primo inverno
dopo la fine della guerra ricevemmo molti inviti fra cui anche quello del
Comitato Civico che ci chiamò ad esibirci in un palazzo nobile di Via della
Scrofa.
Ma il nostro successo maggiore si ebbe in un teatro in via dell’Umiltà che era
la Sede della filodrammatica artistico operaia dove la nostra esibizione ebbe
diverse repliche a pagamento con incasso devoluto in beneficenza.
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MADRE MARIA Una volta che l’esercito alleato era sbarcato a Salerno si credeva che avrebbe
fatto un solo boccone della resistenza tedesca dilagando verso il Nord d’Italia.
Invece i tedeschi avevano ben compreso che era molto meglio difendere la
propria patria in Italia, lontano dai propri confini, in un paese dove non tutti
erano convinti di dover abbandonare l’antico alleato, piuttosto che portarsi il
fronte in casa.
Oltretutto ancora non si era aggregata un’efficiente resistenza interna, che
avrebbe avuto rilevanza solo al Nord d’Italia e negli ultimi mesi di guerra, e la
popolazione delle campagne, specialmente al Sud, dove la presenza tedesca
era stata vista fraternizzare con le truppe Italiane, reputava ancora che i
tedeschi fossero alleati che tutto sommato difendevano l’Italia. Solo
successivamente gli abusi, in specie del braccio politico dell’esercito, le SS,
fecero preferire gli antichi nemici, che pure avevano bombardato tutto quanto
c’era da bombardare ed anche di più (104 volte era stata bombardata Napoli)
ma che tramite la propaganda parlavano di libertà, che non gli antichi alleati
che si stavano rivelando sempre più oppressori.
Anche lo sbarco ad Anzio, pur essenziale per l’accorciamento dei tempi della
guerra, non ebbe quell’effetto immediato che gli alleati si attendevano, ed una
snervante guerra essenzialmente di posizione, si protrasse per diversi mesi.
In questa situazione, aumentava sempre di più il numero degli sbandati, di
coloro che, per lo stato di guerra, erano costretti ad abbandonare le proprie
case o perché diroccate o perché attestate sul teatro della guerra.
Maria Carnevale Novi, una signora vedova meridionale, abbandonò anche lei
la sua casa spingendosi sempre più a Nord, e, nella via, raccogliendo bambini
e bambine sbandati in maggioranza femminucce, senza più genitori, casa,
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affetti, assistenza, guidandoli fra mille pericoli, al di qua ed al di là della linea
del fronte, man mano che questo si spostava.
Negli ultimi tempi, quando le truppe alleate avevano sfondato le linee
tedesche, la velocità del fronte fu molto maggiore di quella del corteo di
orfanelli e Madre Maria giunse a Roma tra la fine del ‘44 e il principio del ‘45.
Mariella K. , come sempre entusiasta, l’aveva conosciuta e l’aveva fatta
conoscere a mamma, quando già il Comune le aveva assegnato la parte
sinistra di un appartamento sulla salita del Pincio, uno di quegli insediamenti
lungo le mura che normalmente il Comune affida ad artisti ( architetti, pittori,
scultori ) ad un affitto di affezione ma con l’intesa che ne curino la
manutenzione; ed infatti la parte destra dell’appartamento era affidata ad un
pittore.
Madre Maria vi si era ristretta con le sole orfanelle, mentre i maschietti
avevano trovato sistemazione in altri istituti della città; le orfanelle peraltro
aumentavano di numero perché oltre quelle raccolte da Madre Maria, se ne
erano aggiunte altre portate da persone residenti nei territori liberati, ed
infine altre ancora inviate dal Comune di Roma.
Il miracolo di Madre Maria era il sostentamento di questa quarantina di
persone, per le quali al mattino non ci sarebbe stato più di che mangiare,
mentre all’ora di pranzo avevano sempre qualcosa da mettere nel piatto.
Può bastare l’atto di fede a trascinare uno sconosciuto alle porte
dell’Orfanotrofio Santa Rita per offrire quanto di quel giorno si ha bisogno?
Sembra di sì.
Non c’era sempre bisogno di questi interventi straordinari, perché mamma (ed
il negozio Benedettini) come tanti altri che erano stati coinvolti da Mariella K.
normalmente provvedevano ai bisogni più urgenti, ed anche il Comune faceva
la sua parte. Ma Madre Maria non sapeva negare l’accoglienza a chiunque
bussasse alla sua porta e con la stessa bonarietà si attendeva che ad un suono
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di campanello restasse sulla porta un cestino con le derrate per il giorno, e
questo talvolta accadeva.
Io ormai avevo oltre 12 anni ed ero piuttosto alto per la mia età, ero oltre un
metro e settanta, non avevo ancora cominciato a farmi la barba e mi dava un
fastidio estetico la peluria che mi cresceva sulle labbra, di scarpe portavo già il
43 ed avevo cominciato ad andare in giro senza essere accompagnato, sempre
peraltro con i pantaloni corti, o al massimo, alla zuava (con mio grande scorno
e fra i risolini dei compagni).
Non era raro che uscendo da scuola si andasse al Pincio, sul piazzale, con i
pattini o per giocare a palletta che era una versione del gioco del calcio fatto
con la palla da tennis. Poi, al termine, si scendeva per i giardini, montando
talvolta a cavalcioni sul leone di marmo che chiamavamo Autari ( il nome era
stato trovato da Giannetta M. qualche anno prima, quando studiava la storia
dell’Italia medievale.)
Proprio di fronte ad Autari c’era l’ingresso dell’orfanotrofio ed in quel periodo
c’erano trattative con il Comune perché fosse assegnata anche la parte destra
dell’appartamento che era stato abbandonato dal pittore.
Quando ciò avvenne, la stanza maggiore della nuova parte fu adibita a
cappella, ed io dovetti dimostrare di che schiatta fossi, aiutando ad attrezzarne
l’impianto elettrico.
In officina da papà mi diedero isolatori in porcellana, tasselli in legno,
interruttori a chiavetta e scatole a tabacchiera, nonché un conduttore elettrico
costituito da due cordoncini isolati in colore bianco, fra loro attorcigliati.
Si dovevano fissare prima i tasselli al muro, e su questi avvitare gli isolatori, in
modo che formassero una linea retta.
Sugli isolatori il cordoncino veniva posto in opera allargando i due conduttori
attorcigliati e facendoli passare oltre la testa dell’isolatore fino dentro la gola,
quindi tirando il cordoncino per richiudere, sulla gola dell’isolatore,
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l’allargamento prima provocato. L’importante nella posa era scegliere bene il
punto dove occorreva allargare i due conduttori, perché alla fine della posa il
cordoncino doveva risultare teso lungo tutto il percorso, senza presentare anse
o lentezze, e trovare la posizione giusta era essenziale al primo tentativo per
evitare deformazioni al cavo che era poi difficilissimo da mascherare.
Dovevo essere stato abbastanza bravo le prime volte perché chi doveva
effettivamente costruire l’impianto e che io avrei dovuto aiutare, si limitò a
predisporre i tasselli per isolatori e cassette lasciando poi a me l’incombenza
del lavoro totale, che, debbo dire, soddisfece papà quando lo vide.
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QUIRINALE
Dalla terrazza di Palazzo Marignoli avevamo la vista di tutto il Nord di Roma,
ma solo dei tetti mentre non riuscivamo a vedere le persone: Villa Borghese
era troppo distante per distinguere qualcuno, e della strada ne vedevamo un
pezzo troppo piccolo e distante per essere apprezzabile; essendo poi più
elevati rispetto al circondario, non potevamo neanche vedere i dirimpettai alle
finestre che erano tutte più basse di livello.
Riuscivamo a vedere solo la famiglia N. che abitava in Via del Gambero ed
aveva un terrazzo a livello più basso del nostro di circa due piani, in questa
famiglia c’erano due figli maschi: Umberto più grande di me di circa tre anni
ed Arnaldo che aveva su per giù la mia età.
Mentre Umberto era nero di capelli e scuro di carnagione, Arnaldo era rosso e
di carnagione sensibile tanto che, a differenza del fratello, non prendeva
volentieri il sole in terrazza.
In qualche maniera ci eravamo conosciuti, credo perché il loro padre aveva
avuto qualche contatto con la mia famiglia, perché se fosse dipeso dalla mia
timidezza non mi sarei mai azzardato a chiamarli da un terrazzo all’altro; ma
una volta rotto il ghiaccio della conoscenza familiare, ci parlavamo
guardandoci negli occhi, anche se a distanza, quasi sempre per nostra
iniziativa perché mentre noi potevamo accorgerci se loro erano a portata di
voce, loro, abitando a livello inferiore, non potevano.
Fuori di queste occasioni rappresentate dalla terrazza non avevamo mai
occasione di incontrarci, se non per caso, uscendo di casa.
Fui perciò particolarmente colpito quella mattina di maggio quando
incontrando per caso Arnaldo in strada, mi accorsi che aveva il distintivo
dell’edera: orrore, era repubblicano.
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In famiglia, per affetto e devozione forse più che per convinzione, eravamo
invece tutti monarchici ed all’occhiello della mia giacca, che però indossavo
solo nei giorni di festa, portavo il nodo Savoia.
Quei giorni, precedenti il referendum istituzionale, erano giorni di grande
passione politica che si svolgeva tutta nei comizi e, principalmente, nelle
discussioni che avvenivano in Galleria, nella quale, capannelli sede di animate
discussioni fra le diverse tendenze richiamavano sempre più numerose folle di
curiosi incrementando il numero degli appassionati partecipanti.
Il referendum non si prestava peraltro a molte opzioni, non c’erano vie di
mezzo, o era monarchia o repubblica ed era impossibile convincere
l’interlocutore, ma ciascuno tentava di farlo.
Anche io tentai di convincere Arnaldo, e lui me, ma restammo ciascuno delle
proprie idee.
Una domenica mattina di metà maggio, per opera non so di quale signora,
probabile cliente del negozio, Paola, Anco ed io fummo condotti al Quirinale
per giocare assieme ai principini.
Da qualche parte ci dovrebbe essere ancora la fotografia, cui zia Nenne teneva
molto (tanto da portarla seco a Cascais per farla firmare dal Re in occasione di
un pellegrinaggio a Fatima), di noi tre assieme a tutti i figli del Re; io ed Anco
vestiti del nostro migliore vestito estivo, blu Savoia con tanto di distintivo
all’occhiello e gli immancabili calzoni corti.
Ci era stato detto che avremmo dovuto rivolgerci ai principi chiamandoli
Altezza e che avremmo dovuto rispondere solo se interrogati.
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Noi con i principini
Le loro Altezze erano decisamente annoiate, probabilmente era stato loro detto
che occorreva tenersi in contatto con il popolo ed accattivarsene le simpatie,
ma in specie Vittorio ( si presentò così, tacendo l’Emanuele) era molto
intimidito; forse non tanto da noi tre, quanto da un gruppo di ragazzini fra cui
anche qualche mutilatino che come noi era in visita a Palazzo. Da loro infatti
sortì l’idea di fare una partita di pallone, io ed Anco, abbastanza abituati a
giocarlo accettammo di far parte delle squadre, ed anche Vittorio fu coinvolto,
non ricordo se dalla nostra parte o in quella avversa.
Come sempre succede fra ragazzini, la cosa andò avanti fra urla e schiamazzi
non ostante l’ambiente, e credo che non ci siano state molte partite di pallone
giocate sulla ghiaia dei viali del Quirinale.
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I nostri compagni di partita non erano stati istruiti come noi sul modo di
chiamare le loro Altezze, per cui non si peritavano di dire a Vittorio: Principe
passa !!
Il principe per quello che lo riguardava non curava molto la partita e smise
presto, forse anche prima di sudare, sotto la camicia e la giacchetta a maniche
lunghe. Anco ed io ce ne accorgemmo con qualche ritardo, anche richiamati
dalle nostri accompagnatrici che ci sussurravano, credendo di non essere
notate, che il principe aveva smesso di giocare e che dovevamo fargli
compagnia, e smettemmo anche noi, pur se molto più accaldati del principe
che evidentemente aveva limitato il suo impegno non ostante le sollecitazioni.
E così ancora accaldati fummo presentati, o meglio assistemmo alla
presentazione delle nostre accompagnatrici alla Regina che era scesa per
interessarsi, per poi allontanarsi subito.
Né noi né Paola dovevamo aver fatto molta impressione sulle Loro Altezze,
perché tornati di nuovo la domenica successiva, e questa volta con una
compagnia meno caciarona, non fummo riconosciuti.
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NAPOLI Non possedevamo in famiglia un automobile.
Anzi dopo la fine della guerra papà aveva comprato una bicicletta da turismo
con il cambio, tutta cromata, ed andava in giro per Roma non curante dei sette
colli ( e delle altre salite fuori mano).
D’altronde aveva meno di 45 anni e si sentiva un giovanotto.
La mamma e le zie, distando casa meno di 500 metri dal negozio, non ne
avevano in effetti bisogno; andando sia Paola che io a scuola a piazza di
Spagna eravamo nella stessa situazione.
La domenica d’estate si andava, anche con la famiglia Crescenzi, al mare in
camionetta la quale avrebbe in breve lasciato il posto ad un torpedone
malandato. Questo torpedone fermava a Largo Chigi, per cui vicinissimo a
casa, ed era sempre probabile trovare posto a sedere; fuorché una domenica in
cui eravamo letteralmente stipati, gli uni sugli altri, e nella quale ebbi un
infortunio perché una chiusura anticipata della portiera mi prese la mano in
mezzo, e fortuna che il soffietto anti spifferi di corredo nella cerniera mi aiutò
ad evitare un’amputazione. Gli altri passeggeri dovettero sorbirsi i miei
lamenti fino al mare mentre un fazzoletto di zio Alberto mi tamponava la
ferita, ma nessuno, ricordo, ebbe pietà e mi cedette il posto.
Talora, a tavola, noi ragazzi, ma specialmente io, domandavamo se avremmo
mai avuto un’automobile, e di massima ci si rispondeva che essendo 6 in
famiglia, non esisteva una macchina adatta.
Papà leggeva 5 giornali al giorno: Tempo, Messaggero, Corriere dello sport al
mattino; Il Giornale d’Italia e Momento Sera alla sera; il martedì aggiungeva
anche il Tifone. Come avrei appreso qualche anno più tardi non sempre i
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giornali li comprava ma se li faceva prestare da Pietro C. l’edicolante di Piazza
San Silvestro cui li rendeva al mattino successivo.
Papà stava a casa a pranzo e a cena, per cui durante il giorno i giornali erano a
mia disposizione.
Ed io li guardavo e li leggevo prestando attenzione alle occasioni relative alla
vendita di automobili. E così trovai, non una sola volta, annunci riguardanti
una specie di camionetta che aveva una cabina anteriore chiusa con due posti,
ed il posteriore furgonato nel quale potevano montarsi 4 sedili. Anche il vano
posteriore aveva peraltro finestrini.
Quante volte ne parlai a papà e sempre mi sentivo rispondere: io non giro su
un residuato bellico.
In estate, comunque, non so come, papà ci fece un’improvvisata: aveva preso
una FIAT 1100, non so se comprata, a noleggio, in prestito o quant’altro e ci
disse che avrebbe portato noi figli e mamma assieme a zio Tonino a Napoli. I
due uomini davanti a dividersi la guida, mamma e noi ragazzi dietro.
La strada da percorrere, ovviamente era la consolare Appia per un buon tratto
e ci mettemmo in viaggio con poco bagaglio e molte gomme di ricambio.
Già ad Albano, appena fatta la salita delle Frattocchie, una gomma ci
abbandonò, ma lo zio e papà non si limitarono a sostituirla ma dovemmo
portarla da un gommista che la riparasse perché lo stato delle altre non era
migliore.
Il fatto si ripeté due o tre volte ogni tappa, e ce ne vollero quattro per giungere
a Napoli, ma le soste sarebbero state di più se il guidatore non avesse fatto di
volta in volta attenzione a tutto quanto potesse danneggiare una gomma, non
ultime le rotaie del tram o del treno che occorreva evitare di prendere
parallele.
Man mano che ci avvicinavamo a Napoli, mamma era sempre più in ansia che
non ci derubassero delle nostre, veramente povere, cose, e mi diede un
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incarico che lì per lì mi inorgoglì molto; stare nei pressi di papà e zio che
cambiavano la gomma, tenendo in mano l’asta del martinetto per colpirci
eventualmente qualche male intenzionato. Povera mamma, è vero che per i
miei 12 anni, quasi 13 ero abbastanza robusto, ma non credo che l’eventuale
male intenzionato si sarebbe fatto intimidire da me.
Quello che più ricordo di quel viaggio, oltre le fermate per il cambio gomme, è
l’odore della canapa in macero in tutta la piana tra Capua e Caserta, odore
aspro, pungente, a prima sensazione fastidioso ma di poi quasi buono a far
venire la voglia di aprire i polmoni e respirarlo appieno, una volta che se ne
era fatta l’abitudine.
Odore che avremmo ritrovato ogni viaggio successivo fatto alla fine dell’estate
verso Napoli, magari in compagnia di qualcuno ignaro che ne avrebbe
domandato la provenienza e che avremmo edotto al riguardo.
Napoli presentava ancora evidenti i segni della guerra e dei 104
bombardamenti cui era stata sottoposta, eppure per strada si sentiva
dovunque cantare, in una lingua il cui suono ci era familiare ma che noi
ragazzi non comprendevamo a pieno.
Per la prima volta ascoltammo Munasterio ‘e Santa Chiara, e non capimmo
perché zio Tonino ed i nostri genitori si asciugassero delle lacrime nascoste.
Sul Vomero ancora c’era il pino da cartolina con sullo sfondo il Vesuvio dal
quale usciva un filo di fumo, forse ricordo dell’eruzione di due anni prima.
Questo è per me un anno importante, il giorno che compii 13 anni, con l‘aiuto
di papà che mi guidava la mano mi feci la mia prima barba, dopo
un’insaponata con il pennello che papà mi aveva insegnato a fare.
Qualche tempo dopo, papà, alla guida sempre di quella 1100, mi condusse
all’inizio della Via Salaria, presso l’Aeroporto dell’Urbe, in completa assenza
di traffico, e lì, fermata l’auto, mi fece sedere al posto di guida e mi fece per la
prima volta condurre un’auto. Quella prima volta partii senza scossoni.
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(E’ strano quanto capita la prima volta che fai una cosa: tanti anni dopo, oltre
venti, sono stato forzato a seguire un istruttore di golf e compagno di giochi di
mia moglie sul campo di Bergamo. Io ero febbricitante per una alterazione che
avrei successivamente scoperto dovuta ad una intossicazione, e, non ostante il
caldo d’agosto, la maglia di lana ed il sudore copioso, tremavo dal freddo, e
solo la condiscendenza per l’ amico di mia moglie e per sua moglie mi
consentiva di seguirli lungo le prime nove buche. Il primo scopo di quella gita,
per la quale sia io che mia moglie avevamo comprato nello spaccio del club le
adatte scarpe chiodate, mai più usate peraltro, doveva essere quello che il
maestro, fatto qualche tiro, avrebbe dovuto insegnare a noi tre, le due mogli e
me. Invece lui continuava a tirare sempre solo, neanche indicandoci i corretti
movimenti, e la cosa andò avanti per diverse buche, per diverse salite e
diverse discese. Ad una buca, verso la fine del percorso, si fermò ed indicò la
meta: risultava molto più in basso della nostra posizione, con una distanza in
pianta di circa 100 metri, ed una in altezza di altrettanti. Qui, con la scusa che
la buca era in vista, ci fece provare: non vi preoccupate se al primo colpo non
prendete la palla, prendete la mazza in questa maniera, il pollice sinistro entro
il pugno destro, lungo la direttrice superiore dell’impugnatura, gambe
leggermente divaricate con la palla in corrispondenza del baricentro del corpo,
continuate a guardare la palla sollevando la mazza tenuta a due mani verso
destra, ruotate velocemente la mazza colpendo la palla e finendo il colpo
ruotando sul piede sinistro come faccio io….. Ecco prova tu Giampietro …..
Feci un ace. Non mi volle più insegnare niente.)
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IL DIKTAT
Visto da fuori non sembra che dentro sia tanto grande.
Si inizia infatti con un portoncino dietro tre gradini su Via San Sebastianello
proprio all’incrocio con Piazza di Spagna, e si segue un corridoietto che dà
luogo ad un androne abbastanza ampio, lasciando a destra una rampa di scale.
L’androne ha una pianta quasi quadrata ed è tutto rivestito di boiseries alle
pareti con scranno continuo per sedersi, ed in fondo, una porta a vetri, più
larga del primo corridoio, dà adito ad un secondo corridoio di minore
lunghezza.
A destra la sala rossa, a sinistra una larga scala porta al piano superiore.
Il corridoio termina in un cortile con quadriportico, ma non in asse rispetto a
questo perché sfocia presso un angolo dello stesso.
Girando a destra, sotto il portico, si trovano le finestre, molto grandi, della sala
rossa; al termine del tratto, si gira a sinistra e si percorre il secondo lato del
portico che presenta, nel lato destro, chiuso, una ininterrotta serie di porte che
chiudono i gabinetti alla turca.
Girando invece a sinistra il portico presenta per un tratto una parete chiusa
che si apre in due archi di accesso ad una scala che porta ad un cortiletto più
piccolo e più basso dove c’è una fontana con la statua della Madonna di
Lourdes, e di fronte l’ingresso del Teatro con a lato e sopra, su un ballatoio,
altre porte di gabinetti. Continuando per questo lato del portico, all’angolo,
dietro una porta a vetri parte la scala che conduce alla Cappella, ed ai piani
superiori.
Il quarto lato del portico, quello di fronte alla porta di ingresso presenta, in
corrispondenza proprio della porta una galleria di passaggio ad un altro
cortile, e lungo la parete la serie di finestre del refettorio. Al centro la statua di
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San Giovanni Battista de le Salle. All’estremo angolo a destra una seconda
scala, opposta a quella che porta alla cappella, reca ai piani superiori.
Al piano ammezzato, ad ogni lato del portico, si affacciano delle finestrelle in
corrispondenza di salette per musica e delle celle dei frati.
Al piano primo ciascuna delle due scale, ed anche quella posta di fronte alla
sala rossa, danno acceso ad un ballatoio, largo circa un metro e venti, che corre
lungo tutto il perimetro del cortile, in aggetto e dotato di una bella balaustra in
ferro lavorato stile liberty.
Dal ballatoio, in corrispondenza dei due lati più lunghi, si entra nelle aule che
si sviluppano radialmente rispetto al portico, alte e dotate di grandi finestre
per l’illuminazione. Sui lati più corti ci sono gli uffici della direzione, le sale
professori ed il grande orologio.
E’ il Collegio San Giuseppe.
La galleria di passaggio all’altro cortile conduce all’unito Istituto De Merode,
dove sarei andato una volta finite le medie.
Come tutti gli Istituti retti da religiosi dell’epoca anche il nostro era alieno da
manifestazioni di protesta e si opponeva a che gli studenti vi partecipassero
all’esterno dell’Istituto, come già accadeva per ragioni politiche e, in quel
periodo, istituzionali.
Ma già dopo il ritorno a scuola dalle vacanze di Natale era montato il senso di
delusione e di sconfitta nella Nazione, la consapevolezza della guerra perduta
ed il duro prezzo che l’Italia era costretta a pagare proprio a quegli alleati che
si erano presentati come liberatori. Briga e Tenda alla Francia, il Dodecanneso
alla Grecia, L’Africa orientale all’Etiopia anche con abbandono a quella
nazione dell’Eritrea che non era stata una conquista militare recente, ma la
conseguenza di accordi commerciali del secolo prima, per la Libia fu creato
addirittura un regno che non esisteva al tempo della guerra italo turca dal
1912, la Dalmazia alla Yugoslavia la quale aveva pretese anche sull’Istria e
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Trieste il cui territorio fu dichiarato libero e diviso in due zone ad
amministrazione separata sotto il controllo dell’ONU, e poi la proibizione di
avere portaerei e corazzate, l’obbligo di limitare l’esercito a 300.000 uomini
deputandolo esclusivamente alla difesa. L’unico contentino fu l’affidamento
della amministrazione fiduciaria della Somalia per 10 anni.
Nell’Assemblea Costituente che in quel periodo aveva le funzioni del
parlamento, c’era anche chi voleva penalizzare ancora di più l’Italia a
vantaggio di Tito, il dittatore iugoslavo che veniva considerato, dai comunisti,
compagno di partito almeno fino allo strappo che costui fece da Mosca.
La firma di questo accordo penalizzante e vergognoso, che veniva con
disprezzo denominato Diktat, doveva avvenire il 10 febbraio del 1947.
Quella mattina, fuori della scuola ci sarebbe stata qualche manifestazione di
protesta.
Noi alunni quel giorno non facemmo lezione: fummo radunati sotto il
quadriportico nel lato che dava accesso al teatro, il Direttore ci lesse,
lentamente, scandendo le parole perché ne divenissimo compiutamente
consapevoli, il testo del Diktat. Aveva al lato la bandiera tricolore del Collegio
abbrunata ed a mezz’asta e noi riempimmo il dolore con il nostro silenzio.
Questo è l’ultimo ricordo vivo della mia infanzia ed adolescenza.
L’ultimo lampo di memoria.