lanfredini - la filosofia della mente e il problema della coscienza

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ROBERTA LANFREDINI LA FILOSOFIA DELLA MENTE E IL ‘PROBLEMA’ DELLA COSCIENZA. 1. Perché la coscienza è un problema Fra le molte questioni di cui si occupa la filosofia della mente, le più significative sono le seguenti: • Quali sono i tratti distintivi della mente? Esiste una distinzione fra mente e coscienza? • Che rapporti sussistono fra corpo e mente? Come può la materia di cui è costituito il cervello generare un io? • In che modo la mente è capace di conoscere il mondo fisico? E gli stati mentali hanno, al pari degli stati fisici, potere causale? • Qual è il posto della mente nell’ordine della natura? È filosoficamente legittimo cercare nella scienza risposte al problema di che cos’è la mente; ad esempio chiarire nei termini della neurofisiologia che cosa significa essere coscienti o autocoscienti? È possibile studiare con strumenti sperimentali il concetto di mente e di coscienza al punto da operare, mediante la progressiva e sempre più approfondita acquisizione di tali strumenti, una riduzione della nozione di coscienza a qualcosa che non è più, di per sé, cosciente? • Possiamo concepire creature fisicamente identiche a noi ma mentalmente differenti, oppure creature fisicamente identiche a noi ma del tutto prive di stati mentali? Formulando in questi termini le proprie domande fondamentali, i filosofi della mente manifestano automaticamente la natura interdisciplinare della loro attività: sembra infatti impossibile rispondere anche a una sola domanda fra quelle prima elencate senza fare esplicito e continuo riferimento ai metodi e ai risultati di particolari ambiti scientifici (le neuroscienze, la cibernetica o, più genericamente, il progetto funzionalista, il comportamentismo, e così via). Questo carattere esplicitamente interdisciplinare può essere ricondotto, per usare una espressione cara a Sellars, alla relazione fra immagine scientifica e immagine manifesta, fra costruzione scientifica del mondo e esperienza comune 1 . Una celebre formulazione della problematicità di tale relazione è stata fornita dalla descrizione, data da Eddington nel 1929, del doppio tavolo 2 : da un lato il tavolo che mi è familiare dall’infanzia e al quale mi trovo ora seduto, il tavolo colorato, esteso, solido; dall’altro il tavolo descritto dalla fisica, un vuoto in cui cariche elettriche (la cui massa complessiva è un miliardesimo della massa del tavolo medesimo) viaggiano a enormi velocità. Nell’ambito più specifico della filosofia della mente la problematicità della discrepanza che si è venuta a creare fra immagine manifesta e immagine scientifica, fra esperienza quotidiana e risultati sperimentali, si concentra intorno alla nozione di coscienza. Tale nozione, densa di significato sia per la tradizione filosofica sia per il senso comune, rimanda da un lato alla individuazione di contenuti interiori qualitativamente e soggettivamente connotati e, dall’altro, all’idea di un accesso privilegiato e immediato a tali contenuti: la sensazione di quella specifica qualità di verde è la mia sensazione, la percezione della armoniosità di questa melodia è la mia percezione, la gioia per la limpidezza di questa giornata primaverile è la mia gioia. La nozione di coscienza, tuttavia, lungi dall’essere un dato naturale o ovvio, è un concetto che ha alle spalle una lunga evoluzione storica, evoluzione che nel mondo occidentale ha origine con la concezione omerica (nella quale l’anima è sinonimo di vita, quindi strettamente vincolata al corpo vivente), prosegue con la concezione platonica e aristotelica (stando alla quale l’anima è forma del corpo, essendo gli esseri umani, al pari di tutti gli altri esseri animati e inanimati, composto 1 W. Sellars, Empiricism and the Philosophy of Mind, Cambridge, Harvard University Press 1997. 2 A. S. Eddington, The Nature of the Physical World, New York, Cambridge University Press 1929, pp. 9-12. 1

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ROBERTA LANFREDINI

LA FILOSOFIA DELLA MENTE E IL ‘PROBLEMA’ DELLA COSCIENZA. 1. Perché la coscienza è un problema Fra le molte questioni di cui si occupa la filosofia della mente, le più significative sono le seguenti: • Quali sono i tratti distintivi della mente? Esiste una distinzione fra mente e coscienza? • Che rapporti sussistono fra corpo e mente? Come può la materia di cui è costituito il cervello generare un io? • In che modo la mente è capace di conoscere il mondo fisico? E gli stati mentali hanno, al pari degli stati fisici, potere causale? • Qual è il posto della mente nell’ordine della natura? È filosoficamente legittimo cercare nella scienza risposte al problema di che cos’è la mente; ad esempio chiarire nei termini della neurofisiologia che cosa significa essere coscienti o autocoscienti? È possibile studiare con strumenti sperimentali il concetto di mente e di coscienza al punto da operare, mediante la progressiva e sempre più approfondita acquisizione di tali strumenti, una riduzione della nozione di coscienza a qualcosa che non è più, di per sé, cosciente? • Possiamo concepire creature fisicamente identiche a noi ma mentalmente differenti, oppure creature fisicamente identiche a noi ma del tutto prive di stati mentali? Formulando in questi termini le proprie domande fondamentali, i filosofi della mente manifestano automaticamente la natura interdisciplinare della loro attività: sembra infatti impossibile rispondere anche a una sola domanda fra quelle prima elencate senza fare esplicito e continuo riferimento ai metodi e ai risultati di particolari ambiti scientifici (le neuroscienze, la cibernetica o, più genericamente, il progetto funzionalista, il comportamentismo, e così via). Questo carattere esplicitamente interdisciplinare può essere ricondotto, per usare una espressione cara a Sellars, alla relazione fra immagine scientifica e immagine manifesta, fra costruzione scientifica del mondo e esperienza comune1. Una celebre formulazione della problematicità di tale relazione è stata fornita dalla descrizione, data da Eddington nel 1929, del doppio tavolo2: da un lato il tavolo che mi è familiare dall’infanzia e al quale mi trovo ora seduto, il tavolo colorato, esteso, solido; dall’altro il tavolo descritto dalla fisica, un vuoto in cui cariche elettriche (la cui massa complessiva è un miliardesimo della massa del tavolo medesimo) viaggiano a enormi velocità. Nell’ambito più specifico della filosofia della mente la problematicità della discrepanza che si è venuta a creare fra immagine manifesta e immagine scientifica, fra esperienza quotidiana e risultati sperimentali, si concentra intorno alla nozione di coscienza. Tale nozione, densa di significato sia per la tradizione filosofica sia per il senso comune, rimanda da un lato alla individuazione di contenuti interiori qualitativamente e soggettivamente connotati e, dall’altro, all’idea di un accesso privilegiato e immediato a tali contenuti: la sensazione di quella specifica qualità di verde è la mia sensazione, la percezione della armoniosità di questa melodia è la mia percezione, la gioia per la limpidezza di questa giornata primaverile è la mia gioia. La nozione di coscienza, tuttavia, lungi dall’essere un dato naturale o ovvio, è un concetto che ha alle spalle una lunga evoluzione storica, evoluzione che nel mondo occidentale ha origine con la concezione omerica (nella quale l’anima è sinonimo di vita, quindi strettamente vincolata al corpo vivente), prosegue con la concezione platonica e aristotelica (stando alla quale l’anima è forma del corpo, essendo gli esseri umani, al pari di tutti gli altri esseri animati e inanimati, composto

1 W. Sellars, Empiricism and the Philosophy of Mind, Cambridge, Harvard University Press 1997. 2 A. S. Eddington, The Nature of the Physical World, New York, Cambridge University Press 1929, pp. 9-12.

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indissolubile di materia e forma), per sfociare poi nella concezione agostiniana, in cui la vita soggettiva viene esplicitamente concepita come ‘interiore’3. L’attuale impostazione del problema mente-corpo risente d’altro canto profondamente, com’è noto, della filosofia di Descartes. È infatti con questo autore che si impone l’identificazione fra anima (termine che sta a indicare ciò che nell’uomo è, o si suppone sia, distinto dal corpo) e pensiero. Risultato di tale identificazione è esattamente ciò che a partire da questo momento storico decisivo viene chiamata mente: entità trasparente a sé stessa, la cui collocazione ontologica è esterna all’ordine materiale del mondo. Il dualismo sostenuto da Descartes, così come il paradigma meccanicistico che ne costituisce la condizione essenziale4, è a tutt’oggi il termine di riferimento essenziale del dibattito contemporaneo sulla natura del mentale. È solo dopo aver sancito il carattere essenzialmente e non contingentemente privato dei contenuti mentali che si pone a) il problema della relazione fra ciò che è soggettivo e ciò che soggettivo non è; b) il problema della conoscibilità di ciò che è soggettivo e degli eventuali strumenti che permettono il realizzarsi di tale conoscibilità. Il fatto è che le nozioni di mente e di coscienza sembrano inevitabilmente compromesse con elementi (privatezza, immediatezza, soggettività) refrattari a essere inseriti in un modello scientifico, e più in generale conoscitivo, adeguato, e ciò sembra minare alla radice la possibilità stessa della loro conoscibilità. Il primo problema è di tipo ontologico: si tratta, in questo caso, di individuare le proprietà caratterizzanti, sempre che ve ne siano, degli stati mentali o coscienziali e dichiarare la loro riducibilità a proprietà che non siano, a loro volta, proprietà mentali. Il secondo problema è di tipo conoscitivo: si tratta, in questo caso, di affermare non tanto la specificità delle proprietà caratterizzanti la fera del mentale e della coscienza, quanto di sancirne, mediante strumenti appropriati come l’introspezione o la riflessione, la effettiva conoscibilità, oppure di decretarne l’inconoscibilità. Entrambi i problemi, quello ontologico e quello conoscitivo, si fondano su un concetto comune che è necessario a questo punto introdurre: il concetto di riduzione. 2. È possibile ridurre gli stati mentali a qualcosa di non mentale? «La coscienza è forse il più grande dei misteri. È forse il maggior ostacolo nella nostra ricerca di una comprensione scientifica dell’universo»5. Come ha potuto la coscienza divenire un problema? Vi sono importantissime tradizioni filosofiche, come la fenomenologia di Husserl, l’empirismo pragmatico di James, l’intuizionismo di Bergson, per le quali la coscienza non costituisce affatto un problema. Il fatto che così spesso, nella filosofia della mente contemporanea, si parli di problema della coscienza scaturisce da una massiccia utilizzazione, nella analisi concettuale qui operante, della 3 Si veda, per una storia del concetto di mente e di coscienza M. Salucci, Mente-corpo, Firenze, La Nuova Italia 1997 e S. Nannini, L’anima e il corpo. Una introduzione storica alla filosofia della mente, Roma-Bari, Laterza 2002. 4 La concezione che Descartes ha del pensiero può essere letta come diretta conseguenza della sua totale adesione a una concezione meccanicistica dell’universo. L’idea è questa: il mondo fisico è un grande meccanismo il cui funzionamento viene descritto matematicamente dalla fisica ‘quantitativa’ di Galileo Galilei. Unica eccezione: il pensiero, il quale, non lasciandosi ridurre a tale meccanismo, risulta sostanzialmente estraneo al mondo naturale e materiale. Le spiegazioni quantitativo- matematiche possono quindi essere applicate a tutto con una sola eccezione: la mente umana. È così che si viene a determinare una sorta di vuoto esplicativo, che è allorigine della tensione fra il concetto, non meccanicistico, di mente e il concetto, meccanicistico, di corpo. La traduzione filosofica di tale vuoto esplicativo è, com’è noto, la demarcazione ontologica fra due sostanze: la res cogitans e la res estensa. Tale demarcazione sembra essere quindi il frutto di un doppio movimento fondato a sua volta in una determinata concezione della scientificità: se il mondo è un puro meccanismo il cui funzionamento può essere descritto dalla fisica quantitativa, esso perderà qualsiasi caratterizzazione qualitativa; d’altro canto (e, si badi bene, questo secondo movimento è conseguenza e non origine del primo) il soggetto, per potersi garantire libertà d’azione e creatività di pensiero, finisce per spogliarsi di qualsiasi attributo materiale, ritirandosi così dal mondo naturale. Nasce in tal modo da un lato l’idea del soggetto come puro pensiero, mente disincarnata collocata fuori dalla materialità, sostanza spirituale autonoma e irriducibile; dall’altro la concezione quantitativa e meccanicistica del corpo e della realtà materiale. 5 D. Chalmers, The Conscious Mind, Oxford, Oxford University Press 1996; trad it. La mente cosciente, Milano, Dynamie 1999.

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nozione di riduzione. La coscienza costituisce un problema, quindi, perché con difficoltà sembra possa essere ridotta a qualcosa che non è più, a sua volta, coscienza6. L’elemento che ‘oppone resistenza’ al processo riduttivo, e che così facendo fa scaturire il problema, è più specificamente il tratto soggettivo e qualitativo degli stati mentali, quel tratto che in gergo tecnico prende il nome di qualia. Parlare della sensazione del verde non è equivalente al semplice parlare di uno stato che è “causato dall’erba, dagli alberi e così via”. Stiamo parlando della qualità fenomenica che generalmente occorre quando uno stato è causato dall’erba e dagli alberi. […] L’elemento fenomenico del concetto impedisce un’analisi in termini puramente funzionali7. Rientrerebbero quindi fra gli stati mentali soggettivi di tipo qualitativo e fenomenico tutte le esperienze (semplici come caldo, freddo, gioia, dolore, percezione di colori, sapori, odori; o più complessi come sentimenti e emozioni). Una volta individuato nella coscienza fenomenica o qualitativa e nelle sue componenti (i qualia) l’elemento recalcitrante, il problema può essere così formulato: gli stati mentali (qualitativi) possono essere ridotti a qualcosa che non è più essenzialmente mentale? Le soluzioni che sono state date a questa domanda sono sostanzialmente di quattro tipi: a) la coscienza (e gli stati qualitativi di cui essa è composta) è interamente riducibile. Rientra in questo tipo di prospettiva sia la teoria materialista dell’identità fra stati mentali e stati cerebrali proposta da autori come Place, Armstrong e Fine, sia il cosiddetto eliminativismo degli stati mentali a favore di stati neuronali proposto, fra gli altri, da Churchland. b) Ciò che costituisce la specificità della coscienza è logicamente irriducibile alla visione del mondo offerta dalle scienze naturali. È, questa, la soluzione esemplificata dal cosiddetto dualismo delle sostanze. c) Stando alla terza soluzione, quella dei cosiddetti ‘misteriani’, la riducibilità della coscienza è logicamente possibile, e tuttavia la natura del legame fra coscienza e la sua base di riduzione è in linea di principio insondabile e inesplicabile8. Il come si possa da una ‘molliccia materia grigia’ originare l’inesauribile varietà qualitativa della nostra vita mentale e rappresentativa, è un mistero destinato a rimanere per sua stessa natura inesplicato. d) Il quarto tipo di soluzione condivide con i ‘misteriani’ la possibilità logica della riduzione, ma se ne differenzia mostrando la esplicabilità di tale relazione: è la base della riduzione che deve essere infatti ampliata in misura tale da coinvolgere anche elementi qualitativi9. Questo tipo di soluzione al problema della coscienza sancisce, in definitiva, la totale irriducibilità e ineliminabilità dei qualia e, proprio per questo, ritiene che la base di riduzione non possa non contenere stati qualitativi. Quello

6 Chalmers distingue tuttavia le nozioni di mente e coscienza assimilando la prima alla cosiddetta mente cognitiva e la seconda alla cosiddetta, e secondo Chalmers molto più problematica, mente fenomenica o qualitativa (La mente cosciente, cit. pp.11 ss.). Nel ‘contenitore’ mente cognitiva rientrerebbero facoltà funzionali come l’apprendimento, la capacità di calcolo, la memoria; in quello di mente fenomenica rientrerebbero facoltà qualitative come le sensazioni o, per dirla con Nagel, l’effetto che fa essere in un certo stato mentale (T. Nagel, What Is Like to Be a Bat, «The Philosophical Review», 83, 1974; trad. it. Che effetto fa essere un pipistrello?, in Questioni mortali, Milano, Il Saggiatore 1986, pp.162-176). Esiste tuttavia la possibilità di abolire, o quanto meno ridimensionare, la distinzione fra mente (cognitiva) e coscienza (fenomenica) facendo notare come anche nella comprensione, nel calcolo o nell’apprendimento l’elemento fenomenico-esperenziale giochi un ruolo sostanziale. Comprendere un teorema o fare un’operazione di calcolo implicherebbe, secondo questo punto di vista, provare qualcosa. È, questa, la posizione di Searle, che su questa base distingue l’autentica intenzionalità (soggettiva, qualitativa) dall’intenzionalità come se (impersonale e artificiale) (si veda, in particolare, J. Searle, The Rediscovery of the Mind, Massachussers, Massachussets Institute of Technology 1992; trad. it. La riscoperta della mente, Torino, Boringhieri 1994). 7 D. Chalmers, La mente cosciente, cit. p.23. A questo proposito Jackendoff distingue, in modo molto simile, fra mente fenomenica e mente computazionale (R. Jackendoff, Consiousness and the Computational Mind, Cambridge Mass., MIT Press 1987; trad. it. Coscienza e mente computazionale, Bologna, Il Mulino 1999). 8 È, questa, la soluzione proposta, ad esempio, da C. MCGinn in Can We Solve the Mind-Body Problem?, «Mind», 98, 1989, pp.349-366. 9 Sia Chalmers sia Searle sottoscrivono, anche se da punti di vista differenti, il quarto tipo di soluzione.

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che viene superato, in questo caso, non è il generale modello di spiegazione riduttiva, bensì una concezione troppo ristretta e limitata della base della riduzione, una base che esclude in linea di principio elementi qualitativi e fenomenici. 3. Riduzionismo conoscitivo e riduzionismo ontologico Abbiamo prima fatto riferimento a due modi sostanzialmente differenti di intendere il concetto di riduzione, modi che devono essere accuratamente distinti affinché il cosiddetto problema della coscienza sia correttamente formulato. Quando parliamo di riduzione della mente e dei suoi stati qualitativi a qualcosa che non è più mentale, possiamo infatti riferirci a una riduzione di tipo conoscitivo oppure a una riduzione di tipo ontologico10. Stando all’interpretazione conoscitiva della nozione di riduzione, la coscienza e gli elementi qualitativi che la contraddistinguono in misura essenziale non hanno alcuna portata conoscitiva. Un esempio significativo di riduzionismo conoscitivo è la tesi della totale inesprimibilità, incomunicabilità e, quindi, inconoscibilità del contenuto, tesi sostenuta senza riserve da tutto l’empirismo logico e messa a fuoco con particolare accuratezza da Moritz Schlick. Il contenuto, ampiamente identificabile con la nozione filosofica di intuizione, è esattamente ciò che si prova a essere in un certo stato mentale. Ed è proprio il provare qualcosa – ciò a cui Nagel più tardi si riferirà come all’effetto che fa essere in un certo stato coscienziale11 - che risulta per Schlick interamente e irrimediabilmente estromesso all’accesso conoscitivo. La caratteristica principale di ciò che è chiamato ‘apparenza’ o ‘fenomeno’ è la sua immediatezza, esso è dato intuitivamente, è contenuto, e fino a che si ritiene che la conoscenza consista nella presenza o nell’espressione del contenuto, si deve sostenere che solo i ‘fenomeni’ possono essere conosciuti. Non c’è bisogno di sprecare una parola su questo errore fondamentale: per noi non può esservi dubbio sul fatto che la presenza del contenuto non costituisce la minima ragione perché si debba conoscere il ‘fenomeno’ meglio della cosa in sé il cui contenuto non è dato. La conoscenza di un fenomeno è qualcosa di completamente differente dall’intuizione del suo contenuto12. Il contenuto della parola verde, quella specifica e ben determinata sensazione che la visione di una foglia ci procura, è senz’altro incomunicabile: nessuno potrà mai comunicare esattamente a un’altra persona ciò che si prova, personalmente, soggettivamente, quando guardiamo quella determinata sfumatura di verde. L’idea della comunicabilità del contenuto intuitivo è del resto così radicalmente estromessa dalla prospettiva di Schlick da condurlo a ritenere che anche la stessa coscienza di fatto viva, al suo interno, l’incapacità di utilizzare in modo conoscitivo i propri contenuti intuitivi.

Nel nostro caso quanto abbiamo detto circa la possibilità di espressione resta perfettamente valido in un universo che non contenga alcun essere umano oltre me stesso […]; posso esprimere dei fatti a me stesso e comunicare con me stesso – anzi, è questo che faccio ogniqualvolta prendo nota sul mio taccuino o affido qualcosa alla mia memoria. Nel leggere la nota o nel richiamare alla mente il fatto ricordato, il me stesso attuale riceve una comunicazione dal me stesso precedente. Il mio taccuino e la mia ‘memoria’ sono veicoli che trasportano la descrizione di un fatto nel tempo; la descrizione consiste in una serie di impronte il cui significato deve essere compreso, ed esiste una possibilità di fraintendimento o di errata trasmissione. La nota scritta nel mio taccuino può essere cambiata, la mia memoria può ingannarmi. […]

10 Su questo specifico punto rimando a R. Lanfredini, Riduzionismo conoscitivo e riduzionismo ontologico nella filosofia della mente, in Mente e corpo. La soggettività fra scienza e filosofia (a cura di R. Lanfredini), Milano, Guerini 2003, pp.97-111. 11 T. Nagel, What Is Like to Be a Bat?, cit. 12 M. Schlick, Form and Content. An Introduction to Philosophical Thinking, in Gesammmelte Aufsätze 1926-1936, Gerold, Vienna 1938; trad. it. Forma e contenuto, Milano, Boringhieri 1979.

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Non appena tentiamo di accertare se una proposizione che è stata così trasmessa da un precedente sé stesso a un sé stesso successivo è vera o falsa, troviamo che i metodi da noi impiegati allo scopo consistono nella comparazione di strutture e che il contenuto non può affatto essere menzionato13. D’altro canto, se il contenuto è incomunicabile e inesprimibile, sarà anche necessariamente, per Schlick, inconoscibile. L’unica cosa che può effettivamente essere conosciuta è la forma, la struttura, ad esempio la posizione del verde nella scala dei colori. Così un cieco dalla nascita potrà conoscere il significato del verde esattamente come un vedente: entrambi conosceranno infatti l’unico dato che può essere conosciuto, cioè la «struttura logica del colore verde». D’altro canto, il vedente non potrà conoscere il contenuto del verde esattamente come il cieco dalla nascita: a entrambi infatti è preclusa la conoscenza di ciò che è in linea di principio inconoscibile: il dato intuitivo effettivamente vissuto14. Questo non significa, tuttavia, negare realtà ai dati o contenuti intuitivi. Al contrario, per Schlick, l’unica vera realtà è costituita proprio dall’esperienza di quegli stessi dati. I qualia, per dirla con una terminologia cara ai più recenti filosofi della mente, sono, per il riduzionista conoscitivo, l’unica realtà effettiva. Quello che tale prospettiva mette in discussione e che intende indagare, non è tanto la realtà o l’effettiva esistenza dei dati esperiti, degli elementi qualitativi vissuti, quanto la loro conoscibilità. Pertanto i concetti esprimibili numericamente che nell’immagine del mondo esatta della conoscenza scientifica devono essere sostituiti alle qualità soggettive non sono altro che quelli di determinati processi cerebrali. È a questi che l’analisi delle dipendenze reciproche conduce in ogni caso. Anche se siamo immensamente lontani dal sapere esattamente quali processi specifici entrano qui in questione, almeno la via però è indicata: alle qualità soggettive devono essere sostituiti processi cerebrali; solo così sussiste la speranza di arrivare a conoscere interamente tali proprietà. La via che porta alla conoscenza di tutte le qualità, siano esse oggettive o soggettive, è sempre la stessa: si tratta di introdurre al loro posto il sistema di segni costituito dai concetti della scienza della natura. In tal modo esse vengono eliminate dall’immagine del mondo che ha la scienza esatta; il che naturalmente non significa che esse vengano fatte scomparire dal mondo. Esse sono, anzi, il solo reale, e quell’immagine del mondo è soltanto un edificio costruito con segni concettuali. Riassumendo possiamo dire che una conoscenza definitiva della realtà è possibile solo con il metodo quantitativo. La vita di coscienza è quindi perfettamente conoscibile solo nella misura in cui si riesca a trasformare la psicologia introspettiva in una psicologia fisiologica, facente parte delle scienze della natura – in ultima analisi, in una fisica dei processi cerebrali15. La sostituzione di tutti gli elementi qualitativi con elementi quantitativi e misurabili (la fisica dei processi cerebrali), che avviene mediante un atto di coordinazione e di designazione, non esclude affatto la realtà ontologica del piano esperenziale ma, al contrario, la conferma pienamente. Fisico pertanto non significa un tipo particolare di reale ma un particolare tipo di designazione del reale, cioè la formazione di concetti nella scienza della natura necessaria alla conoscenza della realtà. Il termine ‘fisico’ non deve essere frainteso come se si riferisse a una proprietà che ad una parte del reale spetterebbe e ad un’altra no; esso indica invece un genere di costruzione concettuale, così come ad esempio i termini ‘geografico’ o ‘matematico’ non designano certe particolarità di cose reali ma sempre soltanto un modo di presentarle attraverso concetti. La fisica è il sistema di concetti esatti che la nostra conoscenza coordina a tutto il reale. E dico “a tutto il reale” perché secondo la nostra ipotesi è l’intero mondo che di principio è accessibile alla designazione per mezzo di quel sistema di concetti16. 13 Ivi, cit. p.74. 14 La stessa posizione si ritrova chiaramente anche in Carnap, laddove egli afferma che «certamente, il materiale delle correnti individuali di dati vissuti è completamente diverso, o, piuttosto, è affatto incomparabile, giacché è assurdo un confronto fra due sensazioni o fra due sentimenti appartenenti a soggetti diversi e considerati come qualità immediate del dato; ma certe proprietà strutturali concordano in tutte le correnti di dati vissuti» (Der logische Ufbau der Welt, Berlin, Weltkreis-Verlag, 1928; trad. it. La costruzione logica del mondo, Milano, Fabbri 1966, p.182). 15 M. Schlick, Allgemeine Erkenntnislehere, Frankfurt, Jiulius Sprinter Verlag 1925; trad. it. Teoria generale della conoscenza, Milano, Franco Angeli 1986, pp. 317-318. 16 Ivi., pp.325-326.

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L’eliminazione dei qualia dall’immagine scientifica del mondo non comporta quindi, ed è proprio questo ciò che contraddistingue la posizione del riduzionismo conoscitivo o epistemologico, una eliminazione dei qualia dall’assetto ontologico del mondo: al contrario, le proprietà qualitative, intuitive o contenutistiche risultano essere «il solo reale», mentre i quanta costituiscono unicamente «un edificio costruito con segni concettuali». Così facendo, il riduzionista conoscitivo mantiene un ipotesi realista nei confronti degli stati mentali in generale, e degli stati mentali qualitativi in particolare, salvo poi espellere quegli stessi stati dall’immagine del mondo fornita dalla teoria della conoscenza. È esattamente questa posizione che sembra essere espressa nel famoso esempio di Wittgenstein del coleottero: Supponiamo che ciascuno abbia una scatola in cui c’è qualcosa che chiamiamo ‘coleottero’. Nessuno può guardare nella scatola dell’altro; e ognuno dice di sapere che cos’è un coleottero soltanto guardando il suo coleottero. – Ma potrebbe ben darsi che ciascuno abbia nella sua scatola una cosa diversa. Si potrebbe addirittura immaginare che questa cosa mutasse continuamente. – Ma supponiamo che la parola ‘coleottero’ avesse tuttavia un uso per queste persone! – Allora non sarebbe quello della designazione di una cosa. La cosa contenuta nella scatola non fa parte in nessun caso del gioco linguistico; nemmeno come un qualcosa: infatti la scatola potrebbe anche essere vuota. […] Questo vuol dire: Se si costruisce la grammatica dell’espressione di una sensazione secondo il modello ‘oggetto e designazione’, allora l’oggetto viene escluso dalla considerazione, come qualcosa di irrilevante17. «La cosa contenuta nella scatola non fa parte in nessun caso del gioco linguistico»: questa tesi esprime esattamente quanto sostenuto anche da Schlick. Il verde di quella foglia non fa parte in nessun caso della conoscenza effettiva della foglia e del suo colore. Ciò che possiamo conoscere è esattamente ciò che possiamo esprimere e comunicare, cioè ciò che fa effettivamente parte di un gioco linguistico: non il contenuto, quindi, né ciò che è dato, bensì la forma, la struttura in cui quel dato risulta inserito. Ma Wittgenstein aggiunge: «la cosa contenuta nella scatola non fa parte in nessun caso del gioco linguistico; nemmeno come un qualcosa: infatti la scatola potrebbe essere vuota». Supponendo la possibilità della inesistenza (e non solo della inconoscibilità e inesprimibilità) del dato, o contenuto, Wittgenstein sembra compiere il passo che dal riduzionismo conoscitivo conduce al riduzionismo ontologico. Quello che il riduzionismo ontologico ha di mira, infatti, non è tanto mostrare l’inconoscibilità dei qualia, quanto sancirne l’inesistenza. È, questa, la tesi che sembra essere adottata, ad esempio, dal cosiddetto materialismo eliminativo di Chuarchland, cioè la tesi: secondo la quale la concezione che comunemente abbiamo dei fenomeni psicologici costituisce una teoria radicalmente falsa – una teoria così manchevole che sia i suoi principi sia la sua ontologia finiranno per essere soppiantati, invece di essere progressivamente ridotti, una volta che le neuroscienze saranno state completamente sviluppate18. Il fatto che proprietà qualitative, come i colori e le qualità tattili, oppure stati più complessi come i sentimenti e le emozioni, risultino appresi in modo incontrovertibile dalla soggettività, non ha in raltà nulla a che vedere con le proprietà effettive delle sensazioni stesse. Il punto che deve essere rimarcato è, secondo Churchland, il seguente: l’eventuale pluralità dei modi di accedere a un oggetto non comporta affatto la pluralità degli oggetti appresi. L’essere oggetto d’esperienza (in prima persona) piuttosto che di scienza (in terza persona) non deve infatti essere interpretato come una proprietà dell’oggetto bensì come uno dei possibili modi in cui tale oggetto viene appreso e conosciuto. Con questa distinzione Churchland intende chiarire e confutare due fra i più famosi esperimenti mentali 17 L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, Oxford, Basil Blackwell 1953; trad. it, Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi 1967, § 293, pp.132-133. 18 P. M: Churchland, Eliminative Materialism and the Propositional Attitudes; trad. it. La natura della mente e la struttura della scienza. Una prospettiva neurocomputazionale, Bologna, Il Mulino 1992, p.29.

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escogitati dall’anti-riduzionismo: quello del pipistrello descritto da Nagel e quello della scienziata Mary descritto da Jackson. Secondo gli anti-riduzionisti gli stati mentali hanno come proprietà essenziale quella di essere ‘sentiti’ dal soggetto che li prova, proprietà che gli stati fisici sembrano non possedere. Nagel sostiene a questo proposito che avere uno stato coscienziale «fa un certo effetto» per colui che lo possiede19. Ad esempio, ai pipistrelli farà un certo effetto percepire il mondo mediante un sistema sonar, cioè mediante l’organo che utilizzano per localizzare gli ostacoli, anche nella oscurità più completa, grazie all’eco di ultrasuoni emessi da loro stessi.Il punto è che per quanto riusciamo a descrivere nei dettagli il funzionamento del sistema sonar dei pipistrelli, questo non sarà sufficiente a farci provare che effetto fa percepire il mondo con un sistema sonar. Gli stati mentali godono infatti di una dimensione soggettiva che è completamente assente dall’immagine scientifica del mondo fisico. Quest’ultima mira per sua stessa essenza all’oggettività. Così il biologo può conoscere perfettamente, dal punto di vista fisico, la struttura e il funzionamento del sistema sonar utilizzato dai pipistrelli e, ciononostante, essere completamente all’oscuro circa il sapere che effetto fa percepire il mondo mediante ecolocazione, esattamente come fa un pipistrello. Esiste, quindi, un abisso incolmabile fra le esperienze percettive e i processi cerebrali a esse correlate: anche se avessimo una descrizione fisica e oggettiva completa del sistema nervoso dei pipistrelli, continueremmo, ciononostante, a ignorarne le esperienze soggettive. La stessa cosa vale per Mary20. Mary è una scienziata immaginaria che, essendo sempre vissuta in una stanza grigia e conoscendo il mondo solo attraverso uno schermo in bianco e nero, non sa cosa siano i colori. Mary ha tuttavia studiato a lungo le neuroscienze, divenendo la più famosa esperta al mondo dei processi cerebrali che presiedono alla funzione dei colori. Un bel giorno Mary esce dalla sua prigione e vede, con sua grande sorpresa, il verde dei prati e i colori vivaci e multicolori dei fiori. Solo a partire da quel momento, secondo Jackson, Mary sa che cosa vuol dire vedere un colore: per sapere che cosa effettivamente è un colore è necessario averne un’esperienza soggettiva e, soprattutto, qualitativa. Quindi Mary, dopo essere uscita dalla sua stanza in bianco e nero, ha effettivamente appreso qualcosa di nuovo, qualcosa che prima ignorava. La conoscenza, fosse anche completa, dei propri processi cerebrali non è in grado di far scaturire alcuna esperienza soggettiva. Secondo Churchland, d’altro canto, quando Mary vede per la prima volta i colori, in realtà non conosce un diverso oggetto, bensì si limita ad avere una conoscenza diversa dello stesso oggetto. In effetti la conoscenza neurofisiologica del cervello è profondamente diversa dal provare esperienze soggettive e la conoscenza teorico-scientifica dei processi cerebrali come quella che un biologo può avere del sistema nervoso dei pipistrelli, o come quella che Mary può avere di sé stessa, non coincide affatto con l’esperienza soggettiva e qualitativa, con ‘l’effetto che fa’ percepire il mondo circostante mediante un sonar o percepire il mondo circostante come colorato. Ma il punto è che tale differenza è interamente riconducibile a diversi modi di conoscere gli stessi oggetti, non a entità di diversa natura: entità fisiche (processi neurologici) e entità fenomeniche (qualia). Qui però, l’oggetto del conoscere è esattamente lo stesso, da entrambi i punti di vista, quello soggettivo e quello oggettivo, ed è qualcosa di essenzialmente fisico: la configurazione del vostro corpo e delle vostre membra. Non c’è qui nulla di soprannaturale, nulla che vada al di là delle scienze fisiche. […] L’esistenza di un accesso epistemologico personale, di prima persona, a un qualche fenomeno non implica che il fenomeno in questione sia di natura non fisica21.

19 T. Nagel, What Is Like to Be a Bat?, cit. 20 J. Jackson, Epiphenomenal Qualia,, «The Journal of Philosophy», 83, 1982, pp.127-136. 21 P. M. Churchland, The Engine of Reason, the Seat of the Soul, Cambridge, The Mit Press 1995; trad. it. Il motore della ragione, la sede dell’anima, Milano, Il Saggiatore 1998, p.216. Si veda anche A Neurocomputational Perspective. The Nature of Mind and the Structure of Science, Cambridge, The Mit Press 1989, capp.3 e 4, non presenti nell’edizione italiana (trad. it. parziale La natura della mente e la struttura della scienza. Una prospettiva neurocomputazionale, Bologna, Il Mulino, 1992).

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Ciò che viene in questo caso sostenuto non è un riduzionismo conoscitivo a là Schlick. Al contrario, Churchland prevede in modo manifesto la possibilità di modi alternativi di conoscere lo stesso oggetto. Ma ciò a cui in realtà si fa riferimento è, appunto, lo stesso oggetto: gli unici oggetti effettivamente esistenti sono, infatti, oggetti fisici, e proprietà fisiche di tali oggetti. Il pluralismo conoscitivo sostenuto da Churchland converge quindi in un monismo ontologico. L’idea di Churchald è che il progresso della conoscenza scientifica possa giungere fino al punto di rivelare come false teorie che il senso comune considera naturalmente come vere: il progressivo sviluppo delle neuroscienze renderà obsolete teorie che vertono sugli stati mentali e coscienziali, esattamente come il progredire della conoscenza fisica ha reso obsolete teorie che vertono sul flogisto, l’alchimia, le streghe, i demoni, gli déi greci. In entrambi i casi, ciò che viene smascherata è la illusorietà delle entità a cui si sta facendo riferimento, il fatto, cioè, che tali entità non corrispondano a nulla di effettivo e che i termini utilizzati per descriverle siano in realtà privi di alcun riferimento. La concepibilità, stando a questa prospettiva, di un mondo dualistico in cui stati fenomenici e qualitativi come le entità mentali godono di uno statuto ontologico indipendente rispetto agli stati cerebrali può essere concepito solo come residuo della arretratezza delle neuroscienze rispetto alla fisica. Ciò che allo stato attuale della ricerca sul campo appare concepibile cesserà quindi di essere tale qualora la conoscenza scientifica dei processi cerebrali diverrà più accurata e completa. 4. Riduzione o motivazione? Una nuova prospettiva per la filosofia della mente. Abbiamo visto come la riducibilità, o irriducibilità, epistemologica di ciò che conosciamo soggettivamente, ‘internamente’ (i nostri stati qualitativi e fenomenici) a ciò che conosciamo oggettivamente, ‘esternamente’, (i nostri processi cerebrali) non sia necessariamente riconducibile alla riducibilità, o irriducibilità, ontologica. Riduzionismo conoscitivo e riduzionismo ontologico sono prospettive metodologiche che devono essere infatti accuratamente distinte. Entrambe conducono, tuttavia, alla eliminazione del mentale22, anche se, nei due casi, l’espressione ‘eliminazione’ assume una diversa connotazione. Il riduzionista conoscitivo, stando al quale il contenuto qualitativo e intuitivo – e quindi gli stati mentali, nella misura in cui condividono di fatto quel contenuto – è in linea di principio inconoscibile, aderisce a un eliminativismo di tipo conoscitivo e epistemologico. La conoscenza, per sua stessa essenza formale e strutturale, non prevede affermazioni concernenti stati qualitativi, quindi, a fortiori, non prevede affermazioni concernenti stati mentali e coscienziali. Una conoscenza che si dichiari tale deve quindi semplicemente eliminare affermazioni contenutistiche. D’altro canto, il riduzionista ontologico, contrariamente al riduzionista conoscitivo, prevede modi di conoscenza differenti, quindi anche modi qualitativamente e contenutisticamente connotati, come quelli della cosiddetta folk pshichology. Ma il punto è che tali differenti modi convergono non su differenti bensì su un unico piano di realtà. E questo piano non è costituito da dati intuitivi e contenutistici, bensì solo da entità fisiche. D’altro canto, la fisica non è, come per Schlick, «il sistema di concetti esatti che la nostra conoscenza coordina a tutto il reale», bensì l’unico reale. Le entità fisiche, in altre parole, non sono modi di designazione, ma l’unica effettiva realtà. Tanto la versione epistemologica del riduzionismo quanto la sua versione ontologica condividono, d’altro canto, lo stesso orizzonte metodologico, sostanzialmente identificabile con un orizzonte naturalistico: in entrambi i casi è la concreta possibilità della riduzione ciò su cui occorre mettere l’accento, prima ancora di specificare i possibili modi in cui tale riduzione deve essere intesa. Sembra essere, tuttavia, proprio il modello riduzionistico a presentare, soprattutto se applicato alla filosofia della mente, alcune difficoltà sostanziali, difficoltà che colpiscono in misura più

22 In questo senso la classica distinzione, molto spesso presente nelle trattazioni di filosofia della mente, fra materialismo riduzionistico e materialismo eliminativista, non è perfettamente adeguata. Meglio parlare, infatti, di eliminativismo conoscitivo e di eliminativismo ontologico.

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massiccia la l’interpretazione ontologica di tale modello. Una volta appurata la possibilità e la legittimità di modi conoscitivi alternativi, che cosa ci garantisce che ciò non comporti una conseguente pluralità degli oggetti di riferimento? E quali sono le motivazioni filosofiche che permettono di privilegiare una modalità di riferimento a scapito delle altre? Perché solo le entità fisiche (specificamente neuronali) devono essere concepite come unica, autentica ed effettiva realtà? E perché le entità qualitative e fenomeniche (specificamente coscienziali) devono essere stigmatizzate come fittizie, entità che in realtà sono del tutto inesistenti? Tali difficoltà convergono in una fallacia, che possiamo denominare fallacia estensionalista: solo alcune entità hanno lo statuto di realtà autentica e effettiva; le altre sono entità fittizie. Nel primo caso si parla di entità che corrispondono a asserzioni fisico-quantitative, nel secondo caso di entità che corrispondono a asserzioni fenomenico-qualitative. Abbiamo visto, d’altro canto, come lo stesso Churchland abbia individuato, nell’anti-riduzionismo, la caduta in una fallacia sostanziale, che egli stesso denomina fallacia intensionalista: avere stati qualitativi non significa necessariamente riferirsi a un dominio di entità separato e indipendente rispetto al dominio di entità a cui ci riferiamo quando parliamo di stati fisico-neuronali. Al contrario, è perfettamente lecito teorizzare che stati fenomenico-qualitativi e stati fisico-neuronali siano modi distinti di riferirsi allo stesso oggetto. In conclusione: dedurre preventivamente dalla pluralità di modi di designazione l’effettiva separazione degli oggetti di riferimento, sembra comportare la caduta in una fallacia intensionalista; d’altro canto, identificare preventivamente i presunti molteplici oggetti di riferimento a partire dalla pluralità dei modi con cui ci riferiamo a essi, sembra comportare la caduta in una fallacia estensionalista23. Il riduzionista in filosofia della mente ha in realtà una risposta a queste perplessità: il fatto che modi alternativi di conoscere convergano su un unico oggetto, quello reale ed effettivo, è un’ipotesi empirica che, come tale, può essere smentita o confermata sperimentalmente. I fatti relativi alla coscienza, come i qualia, non sono, in altri termini, logicamente bensì solo empiricamente implementati da fatti fisico-neuronali. L’unico requisito richiesto è la fiducia nei futuri risultati del progresso scientifico circa la possibilità di scoprire una piena identificazione fra fenomeni cerebrali e fenomeni mentali. Questa ulteriore constatazione, che accomuna tutte le forme di riduzionismo materialistico, fa tuttavia nascere una ulteriore perplessità. Se gli stati fisico-cerebrali e gli stati fenomenico-coscienziali si distinguono in quanto oggetti di distinte attitudini conoscitive e se ciò su cui è scientificamente legittimo investire è l’ipotesi empirica della piena assimilazione dei secondi ai primi, in realtà l’argomento che ci esorta da un lato a istituire tale identificazione e dall’altro a privilegiare l’atteggiamento neuroscientifico è un argomento tutto interno a un determinato programma scientifico: sarà lo sviluppo delle neuroscienze a mostrarci, in futuro, l’illusorietà e il carattere fittizio delle entità fenomenico-coscienziali e la loro piena identificazione con gli stati fisico-neuronali. Parte integrante di tale programma di ricerca sarà, necessariamente, la presa d’atto di un insanabile contrasto fra atteggiamenti conoscitivi qualitativo-fenomenici (di solito etichettati come ‘ingenui’) e atteggiamenti conoscitivi quantitativo-misurabili, fra immagine manifesta e immagine scientifica. Il concetto stesso di riduzione non sarebbe così pervasivo se non si istituisse sulla piena accettazione di questo contrasto, accettazione che sembra essere pienamente condivisa dalla stessa prospettiva anti-riduzionista nella quale, ancora una volta, è la riduzione a rivestire un ruolo centrale, sia pure in negativo.

23 Ho usato l’espressione ‘fallacia estensionalista’ in Riduzionismo conoscitivo e riduzionismo ontologico nella filosofia della mente, cit., con esplicito riferimento all’uso che Churchland fa dell’espressione ‘fallacia intensionalista’, attribuendola all’anti-riduzionismo. La difficoltà è a mio parere presente fin dalla prima formulazione della teoria dell’identità fra stati mentali e stati cerebrali a opera della cosiddetta ‘scuola australiana’ di Smart, Feigl e Armstrong, stando alla quale esiste una sostanziale analogia fra l’identità stati mentali-stati cerebrali e l’identità stella della sera-stella del mattino in Frege. Il punto è che, contrariamente all’esempio di Frege in cui il riferimento viene identificato nell’oggetto-Venere, nel caso dell’identità fra stato mentale e stato cerebrale il riferimento viene identificato nell’oggetto stato-cerebrale. È esattamente questo tipo di identificazione che fa cadere il riduzionista nella fallacia estensionalista.

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Esiste tuttavia la possibilità di impostare i problemi cruciali della filosofia della mente, quegli stessi problemi che inizialmente abbiamo elencato, senza che il concetto di riduzione svolga quel ruolo di perno assoluto che si è trovato a svolgere nel recente dibattito e senza quindi cadere nelle difficoltà che abbiamo visto coinvolgere in ugual misura le prospettive riduzioniste e anti-riduzioniste del mentale. Individueremo tale possibilità, che al momento risulterà più indicata che sviluppata, nella utilizzazione, all’interno del quadro della filosofia della mente, di alcuni spunti tratti dal metodo di analisi fenomenologico. Stando a tale metodo qualsiasi oggetto – sia esso fenomenicamente oppure teoricamente dato – è sempre, e necessariamente, un oggetto intenzionale, oggetto cioè di un particolare atteggiamento conoscitivo. Stando al principio di intenzionalità, che costituisce uno dei fondamenti teorici della fenomenologia, il riferimento a qualsiasi oggetto o stato di cose è interamente determinato dalla struttura di un atto intenzionalmente rivolto a quell’oggetto, struttura che può variare considerevolmente, dando così luogo a tipi differenti di intenzioni e, quindi, di oggetti intesi. In una prospettiva intenzionalista di questo tipo, dichiarare la priorità di un atteggiamento intenzionale rispetto a un altro atteggiamento intenzionale, comporta l’accettazione di un orientamento dogmatico e presuppositivo, esattamente quell’orientamento che conduce alla fallacia estensionalista o naturalista. Sostenere la superiorità di un certo modo di descrivere l’oggetto (ad esempio quello fornito dalla neuroscienze in un certo stadio del loro sviluppo) rispetto ad altri modi di descrivere l’oggetto (ad esempio quello fornito dalla percezione o, più in generale, dall’intuizione) significa in realtà, in una prospettiva fenomenologica, presupporre dogmaticamente come valida un certa descrizione fornita dalla scienza naturale e tentare poi di ridurre altre forme, altrettanto legittime, di descrizione a quell’unica scelta preventivamente come privilegiata. Se ci muoviamo in questa direzione sarà la nozione di riduzione, nel modo in cui tale nozione risulta utilizzata nella filosofia della mente24, a dover essere superata. Dal punto di vista fenomenologico, colui che nella filosofia della mente adotta una prospettiva di stampo riduzionista (sia che si tratti di riduzionismo conoscitivo sia che si tratti di riduzionismo ontologico), corre il rischio non solo di dare per presupposto quanto deve essere invece indagato nei termini di una approfondita teoria degli atti intenzionali e dei loro oggetti25; ma anche e forse soprattutto di misconoscere quello che per il fenomenologo è uno dei legami fondamentali che sussistono fra i modi di intendere e conoscere l’oggetto, e cioè il legame motivazionale. Ogni intendere l’oggetto, nel descrivere fenomenologico, istituisce un legame motivazionale con una apparenza iniziale e originaria, apparenza che è per sua stessa natura qualitativa. Ogni oggetto, per quanto teorico e astratto esso sia, è cioè necessariamente inserito in una «intera concatenazione di motivazioni che integra continuamente in sé nuove motivazioni e trasforma quelle già formate»26. È in questi termini, piuttosto che nei termini della riduzione, che deve essere reinterpretato il rapporto fra cosa fenomenica e cosa della fisica, e quindi fra immagine manifesta e immagine scientifica. Ciò che il riduzionismo in filosofia della mente tenta di fare è eliminare gli stati qualitativi o fenomenici a favore di stati fisico-neuronali: si tratta in un caso, quello del riduzionismo conoscitivo, di eliminare tali stati se non dal piano della realtà, sicuramente dall’immagine scientifica del mondo;

24 Il che non significa, tuttavia, abolire il concetto di riduzione dallo scenario della fenomenologia. Al contrario, la nozione di riduzione svolge un ruolo cruciale anche per il metodo fenomenologico, anche se con significato profondamente diverso. Per un chiarimento dei tre principali operatori di riduzione fenomenologica rimando a R. Lanfredini, Fenomeno e cosa in sé: tre livelli di impossibilità fenomenologica, in R. Lanfredini (a cura di) Fenomenologia applicata. Esempi di metodo descrittivo, Milano, Guerini 2004. 25 L’importanza cruciale della nozione di intenzionalità per il chiarimento di molti problemi interni alla filosofia della mente è stata recentemente sostenuta, oltre che da Putnam, da T. Crane in Elements of Mind. An Introduction to the Philosophy of Mind, Oxford, Oxford University Press 2001; trad. it. Fenomeni mentali. Un’introduzione alla filosofia della mente, Milano, Raffaello Cortina Editore 2003. 26 E. Husserl, Ideen zur einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie, Den Haag, Martinus Nijoff; trad. it. Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Milano, Einaudi 2002, §47, p.117.

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nell’altro, quello del riduzionismo ontologico, di eliminare tali stati dall’assetto ontologico del mondo. Nella fenomenologia, al contrario, nessuna entità (in quanto oggetto di stati intenzionali corrispondenti) può essere espulsa dall’assetto ontologico del mondo: né i qualia, quindi, né le entità teoriche e simboliche. Husserl è perfettamente cosciente del fatto, ad esempio, che la determinazione teoretica delle cose sensibilmente esperite richieda necessariamente uno ‘svuotamento’ delle qualità sensibili, cioè di quelli che oggi denominiamo qualia, a favore di qualità non più sensibili ma formali. Tale procedimento di formalizzazione è del tutto legittimo, a condizione, tuttavia, che non venga ripristinata la ‘mitologia’ della cosa in assoluto separata, causa oggettiva delle manifestazioni soggettive27. Se è quindi errato considerare il mondo delle cosiddette qualità primarie (oggettive, misurabili, quantificabili) come l’unico vero mondo, riducendo così il mondo delle cosiddette qualità secondarie (soggettive, fenomeniche, qualitative) a mero epifenomeno, è altrettanto errato considerare il mondo delle qualità secondarie come l’unico vero mondo, riducendo così la sfera delle determinazioni fisiche a pure ipotesi prive di fondamento. Determinazioni fenomeniche, o intuitive, e determinazioni categoriali, o teoriche, si distinguono solo in quanto corrispondono a tipi differenti di intenzioni. È d’altra parte vero che ogni intenzione (e quindi ogni determinazione possibile dell’oggetto) deve istituire, dal punto di vista fenomenologico, un legame genetico-motivazionale con una esperienza effettiva originaria. Un essere trascendente è dato tramite certe connessioni dell’esperienza. Dato direttamente e con crescente perfezione all’interno di un flusso continuo di percezioni che si rivelano concordanti, attraverso un pensiero che, a partire dall’esperienza, elabora determinate forme metodiche, l’essere trascendente perviene più o meno mediatamente a una determinazione teoretica evidente e progressiva. […] La cosa dei fisici non è estranea a ciò che si manifesta sensibilmente in carne ed ossa; essa si annuncia invece in ciò che si manifesta e (per insopprimibili motivi aprioristici) si annuncia originalmente soltanto in ciò che si manifesta28. Così facendo viene senz’altro stabilita una sorta di priorità dell’atto intuitivo, qualitativamente connotato. Tale priorità, tuttavia, non condivide più nulla col meccanismo di riduzione che abbiamo visto costituire il perno sul quale ruota l’intera filosofia della mente contemporanea. Si tratta, infatti, di una priorità genetico-motivazionale, che non prevede quindi, per sua stessa natura, alcuna forma di eliminazione né degli elementi teorici né degli elementi qualitativi dall’impianto conoscitivo o dall’assetto ontologico del mondo.

27 Husserl fornirà una visione generale di tale ‘mitologia’ in Die Krisis der europäischen Wissenschaften un die transzendentalePhänomenologie, l’Aja, Martinus Nijoff 1959; trad. it. La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano, Il Saggiatore 1987: si veda, in particolare, il problema della matematizzazione dei plena (pp.51 ss.). 28 E. Husserl, Idee, cit., §49, p.125 e 131. In questo senso sembra quindi lecito contrapporre il nesso genetico-motivazionale al nesso causale: «è quindi contraddittorio connettere causalmente le cose dei sensi e quelle della fisica» (ibid. p.132).

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